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LUCA SERIANNI

Inferno, XXXII1

S’io avessi le rime aspre e chiocce,


come si converrebbe al tristo buco
3 sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,
io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch’io non l’abbo,
6 non sanza tema a dicer mi conduco;
ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’universo,
9 né da lingua che chiami mamma o babbo.
Ma quelle donne aiutino il mio verso
ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
12 sì che dal fatto il dir non sia diverso.

Arrivato al fondo dell’Inferno, e al terzultimo canto della prima cantica, Dante sente il
bisogno di ricorrere a un’ampia premessa, che coinvolge diversi piani espressivi: l’apertura presenta
le modalità di una classica protasi (l’invocazione alle muse, qui celebrate come àuspici di
un’impresa straordinaria, in quanto cooperatrici di Anfione nella costruzione delle mura tebane), ma
risponde anche a un intento retorico, o meglio metapoetico. Dante protesta l’insufficienza dei
tradizionali mezzi espressivi per realizzare adeguatamente un’impresa tanto audace.
L’apertura del canto, così fortemente segnata da espliciti indicatori testuali e retorici, è
dunque in funzione di una figurazione di cui si vuole sottolineare la straordinarietà, non tanto per la
modalità della pena quanto per la perversione, diciamo pure l’inumanità, della colpa. In proposito –
dice il poeta – sarebbero necessarie rime «aspre e chiocce»: se il primo epiteto ha un preciso valore
tecnico, ricavabile dalle stesse opere di Dante,2 il secondo è di interpretazione più incerta. Chioccia
era stata detta la voce di Pluto, intento a pronunciare una formula oscura,3 quale si conviene a un
demonio (Inf., VII 2): forse anche qui chiocce, come ha ben visto la Chiavacci Leonardi, allude non
tanto a una caratteristica formale (come aspre), ma alla capacità di farsi espressione di ambienti
infernali, segnati dall’alterità non solo rispetto al mondo umano di Dante e dei suoi lettori ma
persino rispetto a quello dei dannati, che mantengono pur sempre l’impronta terrena di creature
ribelli alla legge di Dio. Se questo è vero, Dante non si limita dunque al tradizionale motivo
dell’ineffabilità, asserendo che i mezzi espressivi non gli consentono di rappresentare
adeguatamente la situazione; vuole invece constatare come la rappresentazione del fondo
dell’inferno («discriver fondo a tutto l’universo») e quindi del male a cui può arrivare l’uomo è
negata a una lingua umana (ossia a «lingua che chiami mamma o babbo») e richiederebbe una
strumentazione tarata sul linguaggio infernale: un traguardo dunque inattingibile anche per chi
aveva dato finora prove di così alta perizia espressiva.

1
Una versione più ampia della presente “lectura”, con l’esplicitazione dei rinvii bibliografici, si legge in «Rivista di
studi danteschi», v (2005), pp. 253-71. Il testo è quello di G. Petrocchi, (La Commedia secondo l’antica vulgata, 4 voll.,
Milano, Mondadori, 1966-1968).
2
Fin troppo facile esemplificare le parole aspere giusta la definizione di De vulg. eloq., II VII 6 (limitandosi ai rimanti:
con generica consonante doppia chiocce-rocce, abbo-gabbo-babbo, bassi-passi-lassi, ecc.; con doppia liquida: colli-
molli-riserrolli, mascelle-favelle-novelle, Tebaldello-ello-cappello; con la consonante “doppia” zeta: Pazzi-cagnazzi-
guazzi, riprezzo-mezzo-rezzo; con accento sull’ultima sillaba: Artù-più-fu; con «asperitas prolixitatis»: Osterlicchi-
Tambernicchi).
3
Seppure variamente spiegata da commentatori antichi e moderni; ma quel che qui interessa notare è l’evidente
discontinuità di quel linguaggio da quello abituale nella diegesi e nel dialogo della Commedia: si tratti del fiorentino
attraverso il quale il personaggio Dante è spesso riconosciuto dai personaggi o delle altre lingue storiche che
contrassegnano questo o quel personaggio (dal provenzale di Arnaldo al latino di Cacciaguida).
Le altre interpretazioni date dai commentatori per il v. 9 appaiono meno soddisfacenti. Dire
che non si tratta di ‘impresa da fanciulli’ è banale (a tutta la costruzione della Commedia, non solo a
questo particolare canto, potrebbe applicarsi una dichiarazione siffatta);4 che ‘sarebbe stato
necessario lo stile tragico, non il comico’ è insostenibile (Dante all’occorrenza avrebbe potuto
servirsi qui dello stile tragico, come avviene, per esempio, in gran parte del canto di Francesca;
invece, qui e in tutto il basso Inferno, i segnali di adozione dello stile comico sono numerosi e
indiscutibili); che ‘sarebbe stato necessario il latino’ è indimostrabile (oltretutto, il latino –
espressione dell’eccellenza paradisiaca – non sembrerebbe davvero appropriato in queste plaghe);
‘che non basta un linguaggio istintivo ma ne occorre uno cosciente e sorvegliato ispirato dalle
Muse’ è riduttivo e appiattirebbe questa invocazione, come un inutile doppione, su quella, parallela,
che aveva aperto il secondo canto.

Oh sovra tutte mal creata plebe


che stai nel loco onde parlare è duro,
15 mei foste state qui pecore o zebe!
Come noi fummo giù nel pozzo scuro
sotto i piè del gigante assai più bassi,
18 e io mirava ancora a l’alto muro,
dicere udi’mi: «Guarda come passi:
va sì, che tu non calchi
21 le teste de’ fratei miseri lassi».
Per ch’io mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
24 avea di vetro e non d’acqua sembiante.
Non fece al corso suo sì grosso velo
di verno la Danoia in Osterlicchi,
27 né Tanaì là sotto ’l freddo cielo,
com’era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse su caduto, o Pietrapana,
30 non avria pur da l’orlo fatto cricchi.

Nel luogo ‘del quale è arduo, è terribile trattare’ (e in questo caso il v. 13 insisterebbe sul
tema di apertura) oppure ‘dal quale è difficile articolare la parola’ («intendendo che ai dannati
confitti nel ghiaccio è difficile parlare»: Bosco-Reggio) i peccatori sono oggetto del massimo
disprezzo: meglio per loro se fossero stati creati nella veste di animali, e per giunta di animali vili,
pecore o capre, che non in quella, nobilissima, dell’uomo. Il tema, com’è noto, è evangelico:
immediatamente pertinente il richiamo a Mt 26, 24 (meglio, per chi tradirà Gesù, non essere mai
nato), più lasco il legame con un passo precedente, Mt 18, 6 (meglio, per chi scandalizzerà i
“piccoli”, affogarsi nel mare). Ma qui l’adýnaton è ritrascritto in veste stilisticamente “bassa”: come
se la condizione di non-esistenza fosse parsa troppo dignitosa per chi ha mostrato di violare i
sentimenti più sacri del consorzio umano.
L’immagine delle pecore e delle zebe è una delle tante immagini animalesche alle quali
Dante ricorre per evocare i personaggi infernali: in gran parte si tratta di figuranti che intendono
suggerire affinità esteriori (una movenza, un atteggiamento del corpo: gli stornelli e le gru del canto
V, i delfini e i ranocchi del XXII e così via); qui invece l’evocazione è puramente intellettuale e
sottolinea dunque la più completa e spietata degradazione dell’altro termine di paragone, i traditori.
Appena Dante e Virgilio sono stati deposti da Anteo nel lago gelato di Cocito, Dante sente
qualcuno che lo ammonisce a non urtare le teste dei dannati che sporgono fuori della ghiaccia. Si
tratta, probabilmente, della voce di «un innominato peccatore» (Bosco-Reggio); il Torraca pensava

4
Questa chiosa è evidentemente condizionata dal fatto che mamma e babbo sono le parole chiamate, in De vulg. eloq.,
II VII4, a rappresentare i vocabula puerilia; ma nel nostro canto la scelta starà piuttosto a rappresentare due parole che
oggi chiameremmo del “lessico fondamentale”, prototipi di una qualsiasi lingua naturale.
a Virgilio e altri attribuiscono la frase a uno dei due fratelli Alberti, che saranno introdotti più in là
(Maggini, Grabher, Varanini ecc.). A dirimere la questione è importante il termine fratei: a molti è
parso improbabile che, in un canto del genere, un dannato adoperi fratelli in senso estensivo, per
indicare gli esseri umani o anche solo i compagni di pena; ma che fratelli sia usato in senso proprio
è d’altra parte poco verosimile, tenendo conto che «Dante non stabilisce fra i due momenti del
racconto una correlazione esplicita e anzi intromette fra l’uno e l’altro la descrizione abbastanza
lunga del luogo e della condizione dei dannati» (Sapegno).5 Se non vogliamo rassegnarci al non
liquet del padre Cesari («Perché si chiamino fratei, chi ne dice una chi un’altra»), possiamo pensare
a una segnaletica volutamente ambigua: l’episodio che mostra l’efferatezza di cui può essere capace
un uomo verso un suo simile e che culminerà con l’immagine del conte Ugolino che addenta il
cranio di Ranieri si apre con un termine antinomico, che si richiama alla comune natura condivisa
da tutti i figli di Dio; e insieme ambiguo e grottesco risulterà anche l’invito a non urtare
involontariamente le teste dei dannati: un invito che sarà poi clamorosamente disatteso con
l’aggressione fisica del Dante personaggio a Bocca degli Abati.
Il Cocito è coperto da uno spesso strato di ghiaccio; per indicarne la durezza Dante ricorre a
due immagini in sequenza: la prima fondata sulla geografia reale (né il Danubio in Austria né il Don
in Russia sono altrettanto ghiacciati), la seconda su un’immaginosa iperbole, che offre anche uno
dei pochi esempi di onomatopea presenti nella Commedia (neanche grandi montagne, cadendo sulla
superficie ghiacciata, avrebbero potuto intaccarla). Il gelo è la punizione dei traditori, e solo di loro:
il contrappasso tra assenza di amore seppure distorto, insensibilità per vincoli familiari e politici e
pena conseguente è stato colto da tutti i commentatori.
A proposito di pene infernali, sarà il caso di osservare che non è vero il contrario: il fuoco ha
una gamma di applicazioni molto più ampia del gelo e non colpisce solo l’eccesso di passione (anzi,
i lussuriosi sono trascinati dalla «bufera infernal che mai non resta»), ma anche peccatori che si
sono macchiati di colpe tutte intellettuali, come gli eretici e i consiglieri fraudolenti. Senza
scomodare l’iconografia, che dà largo spazio alle fiamme nelle rappresentazioni dell’Inferno,
basterà ricordare che anche nel De scriptura negra, tra le dodici pene escogitate da Bonvesin il
fuoco rappresenta «la pena primerana».

E come a gracidar si sta la rana


col muso fuor de l’acqua, quando sogna
33 di spigolar sovente la villana,
livide, insin là dove appar vergogna
eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia,
36 mettendo i denti in nota di cicogna.
Ognuna in giù tenea volta la faccia;
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
39 tra lor testimonianza si procaccia.
Quand’io m’ebbi dintorno alquanto visto
volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti,
42 che ’l pel del capo avieno insieme misto.
«Ditemi, voi che sì strignete i petti»,
diss’io, «chi siete?». E quei piegaro i colli;
45 e poi ch’ebber li visi a noi eretti,
li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra, e ’l gelo strinse
48 le lagrime tra essi e riserrolli.
Con legno legno spranga mai non cinse
forte così; ond’ei come due becchi
51 cozzaro insieme, tanta ira li vinse.

5
Se «la voce fosse uscita di lì vicino, accanto ai suoi piedi» – argomenta Pietrobono – «era più naturale, mi sembra, che
si volgesse subito a essa».
I dannati della Caina, traditori dei parenti, sono confitti nel ghiaccio, con la testa fuori dalla
superficie gelata: il volto è rivolto verso il basso, in quanto (spiegava Benvenuto) «est mos
communis proditoris respicere terram et non faciem hominis, ne dicam celi, cui iam vertit terga».
Ma la possibilità di non esporre le lacrime all’azione del vento gelido, che le farebbe ghiacciare
immediatamente, offre anche un piccolo vantaggio rispetto ai peccatori dell’Antenora che, a quanto
pare, «sono confitti come i precedenti, fino alla testa, ma non tengono il viso basso» (Bosco-
Reggio). In realtà, Dante non sembra stabilire una differenza di pena tra i dannati delle due prime
zone, in contrasto con quello che avviene abitualmente nelle sue rappresentazioni infernali, tutte
graduate su un’attenta progressione delle pene. Secondo il Bigi, dal momento che anche i peccatori
della Caina «furono mossi all’uccisione proditoria dei loro congiunti da ragioni politiche», Dante
non si sarà curato di distinguere nettamente tra le rispettive pene. Altri interpreti hanno pensato a
una pena chiaramente distinta: nella Caina i dannati sarebbero confitti fino all’inguine («insin là
dove appar vergogna», cioè fino al ‘sesso’ e non come si spiega abitualmente ‘fino al volto, dove
appare il rossore, espressione della vergogna). L’ipotesi urta però in due difficoltà che non paiono
superabili: nella similitudine della rana (una delle variazioni sul tema che Dante ricava da
un’immagine ovidiana) è difficile che il «muso» dell’animale possa riferirsi anche al corpo o a parte
di esso; ma soprattutto, non essendo verosimile che il pellegrino per scorgere i due fratelli Alberti,
se questi emergessero davvero con tutta la parte superiore del corpo, debba guardare a terra
(«volsimi a’ piedi»).
Quel che è certo è che i dannati del nono cerchio hanno via via meno possibilità di
muoversi, passando dalla Caina alla Giudecca, fino ad arrivare alla situazione di quest’ultima zona,
i cui abitatori sono completamente sepolti sotto il ghiaccio, «e trasparien come festuca in vetro»
(XXXIV 12). In qualche modo questa condizione simboleggia la fissità, l’inesorabilità della pena. È
una condizione generale per tutti i dannati, beninteso; ma nei gironi più alti l’esecuzione del
supplizio appare meno rigida, offre la possibilità non di attenuare ma di modulare la pena, evitando
guai maggiori. Così, i sodomiti, correndo, hanno la possibilità di sottrarsi al supplizio aggiuntivo di
giacere per cent’anni immobili, «sanz’arrostarsi» sotto la pioggia di fuoco; i barattieri possono
sperare di sfuggire, almeno occasionalmente, dalle grinfie dei diavoli; quasi tutti i dannati hanno
modo di parlare tra sé o di interloquire con i due straordinari pellegrini. Invece il gelo della Caina
riduce via via ogni spazio di residua libertà (sia pure nella forma dell’occasionale imprevisto) e
insieme ogni traccia di umanità, con l’ovvia eccezione di Ugolino, che si impone davanti ai nostri
occhi più nella sua veste di punitore dell’arcivescovo Ruggieri (il quale dal canto suo né pronuncia
né può pronunciare parola, in modo analogo alla gran parte dei dannati del Cocito) che come tipico
peccatore di tradimento.6
La pena è descritta in modo analitico e con ampio ricorso al repertorio figurale. Come le
rane emettono il loro verso, sporgendosi appena dagli stagni, nella prima estate (quando la
contadina vede in sogno le operazioni a cui è intenta nelle ore diurne),7 così i dannati, confitti nella
ghiaccia, battono i denti per il freddo. Da costoro, prima che il viandante li solleciti, non escono
parole, ma una pura espressione fisica, che può essere accostata solo a rumori animaleschi
(nemmeno legati, si noti, a manifestazione di dolore): il gracidare delle rane e il batter di becco
delle cicogne. Il battere i denti dà evidenza fisica al freddo della Caina e le lacrime che fluiscono
dagli occhi testimoniano il dolore e la rabbia incessanti che tormentano i dannati: l’indicazione

6
E Dante, in Inf. XXXIII, 85-87, lascia in ombra l’effettiva imputazione che lo condanna all’Antenora, mostrando di
ritenere che la cessione di alcuni castelli a Lucchesi e Fiorentini, «imposta dalla necessità di salvare il comune da un
imminente pericolo», non possa essere imputata a Ugolino «come un vero tradimento» (Sapegno).
7
A differenza dell’italiano attuale, in cui sognare transitivo (che regga un sostantivo o una proposizione completiva) si
è specializzato nel senso figurato di ‘vagheggiare, inseguire con la fantasia’ (e il valore proprio è perlopiù riservato
all’uso intransitivo: «Sogno, ma non ricordo mai i miei sogni»), qui sognare è usato col significato primitivo, come
ancora nel Pascoli della Cavalla storna: «[i cavalli] dormian sognando il bianco della strada».
dell’Inferno come il luogo in cui «erit fletus et stridor dentium» è, com’è noto, di ascendenza
evangelica (Mt 13, 50).8
Al vedere due strettamente congiunti, al punto che i capelli dell’uno sono intrecciati con
quelli dell’altro,9 Dante chiede chi essi siano. Sono Napoleone e Alessandro Alberti, l’uno fratricida
dell’altro: toscani e contemporanei di Dante, come la massima parte dei personaggi che saranno
evocati nei versi successivi. Ma i due, anche volendo, non potrebbero rispondere: l’istintivo
movimento delle teste, che si volgono verso la voce inaspettata, fa sì che il freddo congeli
immediatamente le lagrime, tra gli occhi e le bocche dei due fratelli, creando una spranga di
durissimo ghiaccio. Il contrappasso giunge così alla sua ultima manifestazione: se già «a due che
s’odiarono la prossimità è orribil pena» (come chiosava Tommaseo), ora i due volti sono addirittura
congiunti bocca a bocca, come in un paradossale e involontario bacio che scatena la loro cieca
rabbia; e questo scoppio di violenza fisica offre una sorta di «anticipazione in tono minore
dell’incontro-scontro con Bocca degli Abati con cui s’inizia la seconda parte» del canto (Puppo).

E un ch’avea perduti ambo li orecchi


per la freddura, pur col viso in giùe,
54 disse: «Perché cotanto in noi ti specchi?
Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzo si dichina
57 del padre loro Alberto e di lor fue.
D’un corpo usciro; e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra
60 degna più d’esser fitta in gelatina:
non quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra
con esso un colpo per la man d’Artù;
63 non Focaccia; non questi che m’ingombra
col capo sì, ch’i’ non veggio oltre più,
e fu nomato Sassol Mascheroni;
66 se tosco sè, ben sai omai chi fu.
E perché non mi metti in più sermoni,
sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi;
69 e aspetto Carlin che mi scagioni».
Poscia vid’io mille visi cagnazzi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
72 e verrà sempre, de’ gelati guazzi.

L’intervento di un dannato, Alberto Camicione dei Pazzi, ribadisce l’impronta di forte


municipalità che caratterizza larghe zone del basso Inferno.10 Alcune marche idiomatiche sono
sicure o probabili. Sicura è quella del v. 67, probabile quella del v. 60, che ha l’aria di «uno scherzo
cinico e feroce», destinato a essere riecheggiato dall’«intonazione non diversamente sarcastica del
v. 117» (Sapegno). A ribadire il forte radicamento nel tempo e nello spazio dell’autore-personaggio,
si tenga presente inoltre che Camicione, il quale ha riconosciuto l’origine di Dante dalla sua
pronuncia (come altri personaggi del poema: Farinata, Ugolino ecc.), fa riferimento alla notorietà di
Sassol Mascheroni, almeno nel ristretto territorio in cui si sparse notizia del suo delitto.
Due sono i tratti psicologici salienti di Camicione, ben rappresentativi del clima umano
vigente nell’intero cerchio. Da un lato, il desiderio d’essere ignorato o almeno dimenticato. Con la
vita terrena non c’è più nemmeno quel legame che portava Pier delle Vigne e Farinata a
preoccuparsi della propria onorabilità, Brunetto della sua fama letteraria, Ciacco del semplice

8
Nel passo evangelico l’immagine è riferita peraltro al caminum ignis nel quale saranno precipitati i malvagi nel giorno
del giudizio.
9
Il riferimento al petto («sì strignete i petti») non implica che Dante veda il busto dei due fratelli: la postura delle teste è
sufficiente perché egli immagini la posizione dei corpi confitti nel ghiaccio.
10
Si pensi a Inf., XXIX, 85-139 e alla cronaca vivace e pettegola che vi si rappresenta.
ricordo dei vivi o altri alla curiosità per le vicende della propria terra (così frate Gomita e Michele
Zanche non si stancano mai di parlare della Sardegna, e Guido da Montefeltro chiede a Dante
notizie politiche della sua Romagna).11 Dall’altro, la completa mancanza di solidarietà tra compagni
di pena. Di per sé, la condizione di dannato non esclude moti di umano affetto, magari nei confronti
dei vivi: come il ricco epulone del Vangelo, tra le pene dell’Inferno, chiede ad Abramo di mandare
Lazzaro ad ammonire i cinque fratelli superstiti «ne et ipsi veniant in locum hunc tormentorum»
(Lc, 16, 23-31), così Maometto si era preoccupato della sorte di fra Dolcino, nell’intento di evitargli
la dannazione («s’ello non vuol qui tosto seguitarmi»: Inf., XXVIII 57). Ma nella Caina c’è spazio
soltanto per una chiamata di correità:12 Camicione rivela il nome dei due Alberti, ne sottolinea
l’efferatezza rispetto ad altri dannati (e così facendo, con l’aria di attenuare la colpa dei vari
personaggi elencati, almeno rispetto al termine di paragone appena assunto, riversa anche su di loro
l’infamia); infine – come già Francesca per Gianciotto e Niccolò III per Bonifacio VIII,
involontariamente, e per Clemente V, con piena intenzionalità – denuncia la futura dannazione di un
peccatore ancora peggiore («e aspetto Carlin che mi scagioni»).
Il passaggio dalla Caina all’Antenora è appena adombrato dall’avverbio temporale generico
poscia (v. 70; il nome Antenora figurerà più avanti, nelle parole di Bocca degli Abati, al v. 88);
mentre l’epiteto livide (v. 34) si riferiva al colorito, cagnazzi alluderà alla superficie alterata del
volto dei dannati, «ringrinzato e deforme, quasi come mostacci di cane» (Vellutello).
A sottolineare l’eccezionale freddo, Dante introduce una nota personale: da quest’esperienza
ha ricavato una vera e propria repulsione per la vista degli stagni gelati. Non è certo la prima volta
che il pellegrino dà espressione a sue personali sensazioni. Lo abbiamo visto svenire per l’intensa
commozione suscitatagli dal racconto di Francesca; temere di fronte ai diavoli, non dominati
appieno da Virgilio (IX, 1-33; XXI 91 ss.; XXIII 19 ss.) o quando è costretto a salire sulla groppa di
Gerione (XVII 85-90);13 turbarsi per le scene di dolore e di tormento, tanto da attirarsi il rimprovero
della sua guida (XX 25 ss.; XXIX 1 ss.) o da coprirsi gli orecchi per non udire quei terribili lamenti
(XXIX 40 ss.). Ma qui non entrano in gioco né il timore per la sua sicurezza personale, né la pietà
per i dannati o per l’orrore dei supplizi. Si direbbe che quel che conta è solo la sensazione di un
freddo incoercibile, dunque una reazione tutta risolta nella sfera sensoriale soggettiva: la distanza
psicologica dai dannati, il senso d’alterità morale rispetto ai loro comportamenti non potrebbero
essere più spiccati, come conferma l’episodio più famoso del canto, consegnato a quelle che sono
state definite «tra le pagine più sconcertanti di tutto il poema» (Sapegno).

E mentre ch’andavamo inver’ lo mezzo


al quale ogne gravezza si rauna,
75 e io tremava ne l’etterno rezzo;
se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste,
78 forte percossi ’l piè nel viso ad una.
Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste?
se tu non vieni a crescer la vendetta
81 di Montaperti, perché mi moleste?»
E io: «Maestro mio, or qui m’aspetta,
sì ch’io esca d’un dubbio per costui;
84 poi mi farai, quantunque vorrai, fretta».
Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:

11
Solo Ugolino ritornerà prepotentemente alle sue esperienze terrene e si preoccuperà del futuro, pur di procurare
infamia a Ruggieri.
12
Così come era avvenuto nell’episodio della rissa tra maestro Adamo e Sinone, quando il secondo, «che si recò a noia /
forse d’esser nomato sì oscuro», percuote con un pugno il ventre del primo (Inf., XXX, 100-102).
13
E si noterà che in questo passo compaiono elementi che Dante riutilizzerà nel nostro canto: intanto i brividi (lì
suscitati dalla paura, non dal freddo) e poi le scelte lessicali, con la rima riprezzo : rezzo, che non ricorre altrove nella
Commedia.
87 «Qual sè tu che così rampogni altrui?».
«Or tu chi sè che vai per l’Antenora,
percotendo», rispuose, «altrui le gote,
90 sì che, se fossi vivo, troppo fora?»
«Vivo son io, e caro esser ti puote»,
fu mia risposta, «se dimandi fama,
93 ch’io metta il nome tuo tra l’altre note».
Ed elli a me: «Del contrario ho io brama.
Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
96 ché mal sai lusingar per questa lama!».
Allor lo presi per la cuticagna
e dissi: «El converrà che tu ti nomi,
99 o che capel qui su non ti rimagna».
Ond’elli a me: «Perché tu mi dischiomi,
né ti dirò ch’io sia, né mosterrolti
102 se mille fiate in sul capo mi tomi».
Io avea già i capelli in mano avvolti,
e tratti glien’avea più d’una ciocca,
105 latrando lui con li occhi in giù raccolti,
quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
108 se tu non latri? qual diavol ti tocca?»
«Omai», diss’io, «non vo’ che più favelle,
malvagio traditor; ch’a la tua onta
111 io porterò di te vere novelle».

Mentre i due pellegrini proseguono verso «il centro della terra e del cosmo, al quale tendono
tutti i gravi» (Sapegno),14 Dante urta violentemente il capo di un dannato. Il verso 76 ha soprattutto
lo scopo di sottolineare l’importanza dell’episodio. In realtà, le tre possibilità sono espresse con una
certa dose d’ambiguità e comunque non sono sullo stesso piano. Intanto – è stato osservato da molti
– Dante non può dire di non sapere se il suo calcio fosse volontario (al massimo può asserire, o
fingere, d’aver dimenticato l’animo di allora); inoltre, com’è ben noto, nel sistema dantesco la
fortuna non è altro che una ministra della Provvidenza divina (cfr. Inf., VII 67-96), sicché
l’alternativa tra destino e fortuna – «sive ex predestinatione divina sive ex influentia celi», come
parafrasava Benvenuto – è apparente: in entrambi i casi l’azione di Dante non sarebbe altro che
strumento di Dio.
Il colpito si rivelerà presto come il traditore dei suoi concittadini a Montaperti, un nome
legato a un episodio svoltosi prima che Dante nascesse ma che appare carico di risonanze per la sua
esperienza umana ed emotiva. Il dialogo tra Dante e Bocca si colloca al livello più basso in una
ideale scala che gradui i vari incontri di Dante con i personaggi dell’Inferno sulla base del livello di
empatia o, se si vuole, di cooperazione linguistica tra i dialoganti.
A livello più alto si colloca l’incontro con personaggi che Dante ammira (Brunetto), rispetta
(Farinata, Ulisse), di cui condivide l’orizzonte esperienziale (Francesca) o che semplicemente ha
conosciuto in terra (Ciacco). Dante può marcare il suo atteggiamento di coinvolgimento attraverso
vari segnali: l’interesse ad avviare il dialogo (Inf., V 73-75, XXVI 64-69), esplicite dichiarazioni di
stima («sempre mai / l’ovra di voi e li onorati nomi / con affezion ritrassi e ascoltai»: Inf., XVI 58-
60, a Iacopo Rusticucci e agli altri due suoi compagni di pena), dichiarazione di dolore per i
tormenti patiti (Inf., V 116-117; VI 58-59; XIII 84 ecc.), auspici relativi alla fama terrena o alla
tradizione familiare (Inf., X 94, XXIX 103-105), formule varie d’attenzione («ancor ti piaccia / di
dirne»: Inf., XIII 86-87,15 «Quanto posso ven preco»: Inf., XV 34). Specularmente, anche molti

14
Ma è ben probabile – come riteneva Tommaseo – che gravezza abbia qui senso «sia fisico sia morale»: il luogo fisico
in cui tutti i corpi pesanti convergono è anche il luogo in cui si concentra il massimo dell’abiezione morale.
15
Sono parole rivolte a Pier della Vigna da Virgilio dal momento che Dante, turbato, non riesce a parlare.
dannati corrispondono alle intenzioni di Dante con formule analoghe, dalla preghiera virtuale di
Francesca («se fosse amico il Re dell’universo…»: Inf., V 90-93) alla cortese richiesta di colloquio
da parte di Brunetto («O figliuol mio non ti dispiaccia…»: Inf., XV 31-33), all’augurio di lunga vita
e di fama persistente formulato da Iacopo Rusticucci («Se lungamente l’anima conduca…»: Inf.,
XVI 64-66). In posizione, diciamo così, intermedia si situa l’incontro con personaggi per i quali
Dante non mostra nessuna inclinazione, ma che pure danno informazioni sulla via da seguire (il
frate godente Catalano, al quale Virgilio rivolge una compitissima richiesta in tal senso: «Non vi
dispiaccia, se vi lece, dirci…»: Inf., XXIII 128-132) o corrispondono al desiderio di Dante di avere
notizie su di loro, come Venedico Caccianemico, che pure tenta di sottrarsi al riconoscimento («Mal
volentier lo dico: / ma sforzami la tua chiara favella, / che mi fa sovvenir del mondo antico»: Inf.,
XVIII 52-54), o Capocchio, che addirittura invita Dante ad aguzzare la vista, «sì che la faccia [sua]
ben [gli] risponda» (Inf., XXIX 135).
Niente del genere nel dialogo tra Dante e Bocca degli Abati: un dialogo segnato dalla
mancata cooperazione del secondo e dalla dichiarata ostilità del primo. Al calcio di Dante, la
reazione risentita del dannato, che evoca il nome di Montaperti, suscita nell’ascoltatore un sospetto
preciso: e per confermarlo, Dante – che altre volte è stato sollecitato da Virgilio a non indugiare nei
colloqui con i dannati, per la necessità di non ritardare il suo itinerario salvifico –16 chiede
apertamente al maestro di non fargli fretta. Bocca continua nei suoi improperi (bestemmiava, dice
Dante, con un verbo che, nelle altre ricorrenze dell’Inferno – e di tutta la Commedia – è
espressamente riferito, come avverrebbe nella semantica dell’italiano attuale, alla divinità) e Dante
lo provoca, negando a lui, macchiato di colpe ancora indeterminate ma certamente gravissime, il
diritto di rimproverare chicchessia. Ma Bocca non si lascia intimorire, dando prova di una
tracotanza (e in qualche modo di una sua grandezza) che ricorda altri dannati, da Capaneo a Vanni
Fucci.
Al v. 90 il verbo fossi può essere una seconda persona (come ritengono, tra gli altri,
Pietrobono, Chiavacci Leonardi, Jannaco, Singleton) o una prima (Bosco-Reggio, Consoli,
Sapegno). La questione è indecidibile sul piano strettamente linguistico: il fatto che la mancata
esplicitazione del soggetto faccia pensare a un’identità di soggetto rispetto ai precedenti verbi sè e
vai (v. 88) ha qualche peso ma non è risolutivo.17 Non resta che mettere a fronte le due diverse
interpretazioni, entrambe plausibili, anche se una appare preferibile. Immaginando una seconda
persona, dobbiamo parafrasare (con le parole di Pasquini-Quaglio, che non prende partito tra le due
possibilità): «tanto che, anche se tu fossi vivo (e non soltanto un’ombra), la percossa sarebbe stata
eccessiva (ossia: non avresti potuto calpestarmi più violentemente)». Però agisce qui forse un
eccesso di razionalismo. Se la loro natura di ombre non implica, com’è ovvio, minore sensibilità da
parte dei dannati, che provano le più acute sofferenze quando sono colpiti dai diavoli o quando sono
sottoposti ai vari supplizi, è anche vero che i colpi sferrati da codeste ombre possono far male, come
avviene nella rissa tra maestro Adamo e Sinone, in cui i due «falsatori» si picchiano tra loro (Inf.,
XXX 102-105): insomma, la supposta condizione di ombra del viandante non dovrebbe implicare, di
per sé, una minore violenza del calcio da lui sferrato. Più funzionale al contesto sembra invece
l’altra parafrasi (diamo ancora la parola a Pasquini-Quaglio): «in modo che, se io non fossi morto,
non sopporterei (cioè mi sarei già vendicato di) questa ingiuria». Questa seconda lettura meglio si
attaglia alla forte aggressività del personaggio, il quale non esita a minacciare, nonostante la sua
condizione di impotenza. Anche il successivo rimbecco di Dante («Vivo son io») appare di più
immediata efficacia se rappresenta, secondo i modi del contrasto, la ripresa ribaltata
dell’affermazione precedente (“Se io fossi vivo…” dice Bocca; e Dante: “Ma io sì, che sono
vivo!”).

16
Cfr. soprattutto Inf., XXIX 4-12, ma anche X 115. XVIII 136 e XXX 131-132.
17
Anche in altri luoghi il cambiamento di soggetto rispetto alla frase immediatamente precedente non è segnalato
esplicitamente; cfr. Inf., II 117-118 («per che mi fece del venir più presto; / e venni a te così com’ella volse»: Dante
avrebbe potuto scrivere i’ venni, creando una sinalefe con l’e iniziale), Purg. II 86-87 («allor conobbi chi era, e pregai /
che, per parlarmi, un poco s’arrestasse»)
Per smascherare il suo interlocutore, Dante ricorre («con finta ingenuità»: Grabher) a un
argomento che aveva fatto valere in altri casi, anche di fronte a personaggi di bassa condizione e di
miserevole pena, come i falsatori di metalli:18 si offre cioè di ravvivare la fama del dannato una
volta tornato sulla terra. Ma Bocca, come gli altri compagni del cerchio (con la ricordata e motivata
eccezione di Ugolino), desidera piuttosto che nessuno si ricordi di lui e replica sgarbatamente, con
un moto espressivo che fa venire in mente modi colloquiali ben vivi nell’italiano di oggi, per
intimare bruscamente a qualcuno di non importunare, di togliersi dai piedi. A questo punto Dante,
visto che le parole non sembrano scalfire la resistenza di Bocca, passa ai fatti, all’aggressione fisica:
un gesto senza precedenti nell’Inferno, se pensiamo che Filippo Argenti – un personaggio spesso
evocato da chi commenta questo canto, perché anch’egli oggetto della vivace ripulsa da parte di
Dante – non viene toccato da Dante personaggio, anzi è l’Argenti che cerca di rovesciare la barca
che trasporta i due pellegrini, ed è «il maestro accorto» che lo respinge tra «li altri cani» (Inf., VIII
40-42). Bocca non cede ed è solo l’intervento di un altro dannato a tradirlo, proprio come era
avvenuto per Filippo (Pietrobono), rendendo noto a Dante il nome tanto odiato.

«Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta;


ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
114 di quel ch’ebbe or così la lingua pronta.
El piange qui l’argento de’ Franceschi:
“Io vidi”, potrai dir, “quel da Duera
117 là dove i peccatori stanno freschi”.
Se fossi domandato “Altri chi v’era?”,
tu hai dallato quel di Beccheria
120 di cui segò Fiorenza la gorgiera.
Gianni de’ Soldanier credo che sia
più là con Ganellone e Tebaldello,
123 ch’aprì Faenza quando si dormia».

A questo punto, Bocca non può far altro che marcare col consueto registro brusco-
colloquiale la sua indifferenza per quello che Dante potrà o vorrà dire di lui («ciò che tu vuoi
conta») e prendersi una facile vendetta nei confronti di chi aveva permesso la sua identificazione
(vv. 106-108). Si tratta di Buoso di Dovera, primo di una residua lista di cinque dannati: la cronaca
locale, sia pure qui dilatata oltre i confini della Toscana, si allarga a comprendere, di passata,
Ganellone, cioè Gano di Maganza, prototipo del traditore nella letteratura carolingia.
Due postille linguistiche. Il «se tu […] eschi» del v. 113 (con eschi congiuntivo di uscire,
con desinenza analogica sulla prima coniugazione) va tenuto ben distinto dai consueti moduli in cui
se + congiuntivo introduce una formula ottativa («E se tu mai nel dolce mondo regge», come aveva
detto Farinata a Dante in Inf., X 82): in tale contesto e da parte di un tal personaggio non c’è spazio
per formule augurative e il congiuntivo sta semmai a connotare di dubbio, «malignamente»
(Grabher), l’ipotesi: ‘se davvero riuscirai a tornare al mondo’. E si guardi anche, a conferma del
particolare statuto stilistico che contrassegna tutto il discorso di Bocca e più in generale
quest’ultimo cerchio, all’insieme delle scelte lessicali.
Nell’abbrutimento di questi dannati la terra è distante anche psicologicamente: nel corso del
suo viaggio infernale Dante ha messo in bocca ai personaggi varie espressioni che punteggiano il
ricordo della terra, vista come un bene perduto e incessantemente anche se vanamente rimpianto:
«dolce mondo» (Ciacco; VI 88, oltre al già citato esempio di X 82), «aere dolce» (accidiosi; VII 122),
«dolce lume» (Cavalcante; X 69), «dolce terra» (Guido da Montefeltro; XXVII 26), «dolce piano»
(Pier da Medicina; XXVIII 74), «vita serena» (Ciacco; VI 51), «vita bella» (Brunetto; XV 57). In un
caso è Dante stesso ad assumere, per riguardo al personaggio, l’ottica tipica dei dannati: quando

18
Cfr. Inf., XXIX 103-108: «Se la vostra memoria non s’imboli / nel primo mondo da l’umane menti, / ma s’ella viva
sotto molti soli, / ditemi chi voi siete e di che genti; / la vostra sconcia e fastidiosa pena / di palesarvi a me non vi
spaventi»
rievoca parlando con Brunetto il proprio smarrimento nella selva, collocandolo per l’appunto «in la
vita serena» (XV 49).19 Ancora una volta dobbiamo ripetere: nulla del genere qui. La terra è assente
anche come deposito memoriale, e ai verbi imperniati sul momento del “ritorno” di Dante adoperati
da altri dannati («ma quando tu sarai nel dolce mondo», «E se tu mai nel dolce mondo regge», «se
mai torni a veder lo dolce piano») corrisponde, nel discorso di Bocca, il semplice uscire (eschi): un
punto di partenza, o di fuga, senza indicazione della meta da raggiungere.
Un cenno merita anche l’espressione stanno freschi del v. 117, che potrebbe essere
pronunciata con la stessa intonazione distaccata del v. 60 («degna più d’esser fitta in gelatina»). È
tentante pensare che il nostro stare freschi, vivissimo nell’italiano colloquiale da oltre cinque secoli,
derivi proprio da «un’interpretazione estensivo-scherzosa» del verso dantesco.20 Avremmo in tal
caso un’altra tessera da aggiungere al mosaico dei prelievi danteschi passati nel circolo della lingua
corrente (per li rami, natio loco, far tremar le vene e i polsi ecc.) e censiti, con la consueta efficacia
sintetica, da Bruno Migliorini.21 In realtà l’espressione vive anche in francese (être frais), in
spagnolo (estar fresco) e in portoghese: anche se non si può escludere la possibilità di un
italianismo (magari mediato dal francese), sembra più prudente pensare a una poligenesi.
Col verso 123 sembra che il canto trovi la sua conclusione. I versi 124-139, preludio al
drammatico e celebre episodio del conte Ugolino, parrebbero appartenere di diritto al penultimo
canto.

Noi eravam partiti già da ello,


ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
126 sì che l’un capo a l’altro era cappello;
e come ’l pan per fame si manduca,
così ’l sovran li denti a l’altro pose
129 là ’ve ’ l cervel s’aggiugne con la nuca:
non altrimenti Tidëo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
132 che quei faceva il teschio e l’altre cose.
«O tu che mostri per sì bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
135 dimmi ’l perché», diss’io, «per tal convegno,
che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
138 nel mondo suso ancora io te ne cangi,
se quella con ch’io parlo non si secca».

In realtà, Dante introduce almeno un segnale che richiama l’apertura del canto, e dunque ha
lo scopo di rinsaldarne l’unità (Fachard): la menzione di Tideo che, pur moribondo, comincia a
rodere la testa del nemico ucciso, rimanda ai miti relativi a Tebe, assai fertili di spunti per
l’immaginazione dantesca (anche attraverso la mediazione di Stazio). Qui è in primo piano
l’efferatezza di un odio che non si ferma nemmeno davanti alla morte (e a Pisa ci si rivolgerà, nel
canto successivo, come a una «novella Tebe»: XXXIII 89); più sopra, ai vv. 11-12, il ricordo delle
mura tebane serviva, in termini positivi, a motivare l’invocazione alle muse, sostenitrici di
un’impresa tanto audace: cambia il senso della citazione, dunque; ma è pur significativo che il canto
si apra e si chiuda riferendosi alla straordinarietà del mito antico.
La presentazione dei due dannati è orientata in un’unica direzione, come s’è già detto: la
colpa, immane, è quella di Ruggieri; Ugolino è il giustiziere che può sfogare la sua rabbia contro il

19
E si pensi ancora ai «ruscelletti» casentinesi rievocati con struggente nostalgia dall’assetato maestro Adamo: Inf.,
XXX 64-67.
20
Come suggeriscono M. Cortelazzo e P. Zolli, Il nuovo etimologico (DELI), Bologna, Zanichelli, 19992, p. 614.
21
B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 1963 (1960), p. 194.
colpevole.22 Una rabbia di cui Dante, pur connotandola in modo negativo (come un «bestial
segno»), non esclude un fondamento razionale;23 anzi, lo sdegnoso fustigatore dei traditori – e quelli
della patria (siamo ancora nell’Antenora) debbono risultargli particolarmente spregevoli – propone
sùbito un patto (un convegno) a Ugolino: quello di divulgare universalmente le sue
(prevedibilmente) buone ragioni. È una promessa che Dante affida all’ultimo verso, un’espressione
che potrebbe essere idiomatica ma che, in ogni caso, suggella (nei modi stilisticamente comici
propri di tutto il canto) l’impegno testé assunto.
Un’ultima notazione, relativa al paragone del v. 127 («e come ’l pan per fame si manduca»).
Il canto si è svolto attraverso l’esuberante invenzione dantesca, evocando figuranti iperbolici per
rappresentare la durezza del ghiaccio del Cocito (vv. 25-30), ricorrendo all’inesauribile repertorio
animalesco per rappresentare posture e comportamenti dei dannati (rana, v. 31; cicogna, v. 36;
becchi, v. 50), disegnando immagini di forte evidenza tratte dall’esperienza quotidiana (la spranga
di ferro che serra due pezzi di legno, v. 49; il cappello, v. 126). Chiude la serie un paragone in cui il
figurante è quello più ovvio, parlandosi di fame: il pane, tradizionale simbolo del cibo (di qualsiasi
cibo) così come l’acqua rappresenta la bevanda per antonomasia. Proprio un paragone del genere,
radicato nell’orizzonte linguistico dei lettori medievali e di noi moderni, sottolinea l’istintività,
certo, ma anche in qualche modo la necessità del gesto di Ugolino: un gesto indegno di un uomo,
ma che pure sembra appropriato per colpire chi delle primordiali leggi di natura ha fatto scempio.

22
Un privilegio negato ad altri dannati, che vorrebbero scagliarsi su coloro a cui attribuiscono la colpa della propria
dannazione: si pensi a maestro Adamo e alla sua vana bramosia di vendicarsi su uno dei conti Guidi (Inf., XXX 76-87).
23
Indicativo, come notò il Torraca, il v. 136: «che se tu a ragion di lui ti piangi».
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