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Divina Commedia
Titolo Comedìa
originale
1ª ed. 1321
originale
Genere poema
Sottogenere allegorico-didascalico
Lingua italiano volgare
originale
Dante e Beatrice sulle rive del Lete (1889), opera del pittore venezuelano Cristóbal Rojas
Indice
1Titolo
2Argomento
o 2.1Inferno
o 2.2Purgatorio
o 2.3Paradiso
3Data di composizione
4Struttura
o 4.1Struttura cosmologica
o 4.2Struttura dottrinale
o 4.3Cronologia
5Tematiche e contenuti
o 5.1Scienza e tecnologia nella Divina Commedia
o 5.2Le tre guide
6Modelli e fonti
o 6.1Lingua
o 6.2Stile
o 6.3Studi e fonti
o 6.4Filosofia islamica
o 6.5Attualità della Divina Commedia
7Storia della critica
o 7.1Tradizione manoscritta e proposte di edizioni critiche
8Prime edizioni a stampa
o 8.1Le edizioni a stampa del Quattrocento (incunaboli)
o 8.2Le edizioni a stampa del Cinquecento (cinquecentine)
9Edizioni moderne
o 9.1L'edizione Petrocchi
o 9.2Le ultime edizioni
10Traduzioni
o 10.1Traduzioni in latino
o 10.2Traduzioni in inglese
o 10.3Traduzioni in francese
o 10.4Traduzioni in spagnolo
o 10.5Traduzioni in tedesco
o 10.6Traduzioni in altre lingue o dialetti
11La Divina Commedia nell'arte
o 11.1Trasposizioni cinematografiche (lista parziale)
o 11.2Musica
o 11.3Pittura
o 11.4Scultura
o 11.5Altro
o 11.6Televisione
o 11.7Teatro
o 11.8Videogiochi
o 11.9Nel fumetto
12Note
13Bibliografia
14Voci correlate
15Altri progetti
16Collegamenti esterni
Esemplare dell'edizione giolitina de La Divina Comedia del 1555 appartenuto a Galileo Galilei, donatogli da don
Orazio Morandi (1570-1630) abate di Santa Prassede, con dedica ms. al verso della carta bianca di guardia: «Al
molto Ill.re S.r mio oss.mo / Il Sig.r Galileo Galilei // di s.ta Prassedia 1624 / Obbligatiss.o Serv.re / Don Orazio
Morandi» (Collezione Livio Ambrogio).
In essa vengono addotti due motivi per spiegare il titolo conferito: uno di carattere letterario, secondo
cui col nome di commedia era usanza definire un genere letterario che, da un inizio difficoltoso per il
protagonista, si conclude con un lieto fine, e uno stilistico. Infatti lo stile nonostante sia sublime, tratta
anche tematiche turpi tipiche di uno stile umile, secondo l'ottica cristiana di accogliere anche gli aspetti
più bassi del reale, pur di raggiungere il cuore di tutta l'umanità. Nel poema infatti si ritrovano entrambi
questi aspetti: dalla "selva oscura", allegoria dello smarrimento del poeta, si passa alla redenzione
finale, alla visione di Dio nel Paradiso; e in secondo luogo, i versi sono scritti in volgare e non in latino
che, sebbene esistesse già una ricca tradizione letteraria in lingua del sì, continuava ad essere
considerata la lingua per eccellenza della cultura.
L'aggettivo "divina", riferito alla Commedia per via dei temi riguardanti il divino, fu usato per la prima
volta da Giovanni Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante, scritto circa quarant'anni dopo il periodo
in cui si pensa sia stato terminato il poema dantesco. La locuzione Divina Commedia, però, divenne
comune solo dalla metà del Cinquecento in poi, da quando Ludovico Dolce, nella sua edizione
del 1555, stampata a Venezia da Gabriel Giolito de' Ferrari, riprese nel titolo l'attributo datole dal
Boccaccio.
Il nome "Commedia" (nella forma comedìa) appare solo due volte all'interno del poema, mentre
nel Paradiso Dante lo definisce "poema sacro". Dante non rinnega il titolo Commedia, anche perché,
data la lunghezza dell'opera, le cantiche o i singoli canti vennero pubblicati volta per volta, e l'autore
non aveva la possibilità di revisionare ciò che già era stato reso pubblico. Il termine "Commedia"
dovette sembrare riduttivo a Dante nel momento in cui componeva il Paradiso, in cui lo stile, ma anche
la sintassi, sono profondamente cambiati rispetto ai canti che compongono l'Inferno; infatti nell'ultimo
canto, il sostantivo Commedia viene sostituito da poema sacro. Il discorso sulle palinodie, ovvero le
correzioni che Dante fa all'interno della sua opera, contraddicendo se stesso ma anche le sue fonti, è
molto più vasto ed esteso.
Nelle ultime edizioni, a partire da quella di Petrocchi (1966-67) fino a quelle di Lanza (1995), di
Sanguineti (2001) e di Inglese (2016), si assiste all'abbandono dell'attributo Divina nel titolo, dopo
quattro secoli di tradizione editoriale.
Dante e il suo poema, affresco di Domenico di Michelino nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore, Firenze (1465)
L'Inferno, la prima delle tre cantiche, si apre con un Canto introduttivo (che serve da proemio all'intera
opera), nel quale il poeta Dante Alighieri racconta in prima persona del suo smarrimento spirituale e
dell’incontro con Virgilio, che lo condurrà poi ad intraprendere il viaggio ultraterreno raccontato
magistralmente nelle tre cantiche. Dante si ritrae, infatti, "in una selva oscura", allegoria del peccato,
nella quale era giunto avendo smarrito la "retta via", la via della virtù, e giunto alla fine della valle
(“valle” come “selva oscura” sono allegorie entrambe dell’abisso della perdizione morale ed
intellettuale) scorge un colle illuminato dal sole "vestito già dei raggi del pianeta/che mena dritto altrui
per ogne calle".
Dante descrive con una similitudine il suo stato d’animo, come quello di chi salvatosi dai flutti giunge a
riva e si volge indietro a scrutare le acque pericolose alle quali è appena scampato, così l’animo del
poeta si volge a “rimirar lo passo” che non può essere superato da persona vivente. Ma ecco che, dopo
essersi riposato e poi incamminato lungo la spiaggia deserta verso il colle, mentre si appresta ad
affrontare la salita "quasi al cominciar de l'erta" gli si parano davanti, in sequenza, una lince (lonza) dal
pelo maculato, un leone ed una lupa. Le tre fiere sono il simbolo, rispettivamente, di lussuria, superbiae
cupidigia. La lince gli sbarra il cammino, impedendogli di avanzare e quasi forzandolo a tornare sui suoi
passi "‘mpediva tanto il mio cammino/ch'i' fui per ritornar più volte vòlto", il leone pareva andargli
incontro fiero, affamato e ruggente, mentre la lupa, ultima delle tre fiere a pararglisi davanti, incede
verso il poeta, respingendolo indietro, verso l’abisso dal quale Dante sta tentando di allontanarsi. Ed
ecco che, mentre Dante rovina indietro in “basso loco”, gli appare alla vista “chi per lungo silenzio parea
fioco”, qualcuno la cui immagine era resa più flebile dal lungo silenzio, cioè morto da lunghissimo
tempo. Dante invoca aiuto "«Miserere di me», gridai a lui" pur non riuscendo a distinguere se ciò che
scorge è una persona o un’ombra.
L’anima di Virgilio risponde "non omo, omo già fui" e si presenta dichiarando le sue origini Mantovane, il
tempo in cui visse e le sue opere, si che Dante lo riconosce. Trovandosi di fronte a cotanto personaggio
Dante, con una punta di vergogna, dichiarandosi suo discepolo e dichiarando l’opera sua figlia
dell’opera Virgiliana chiede aiuto per sfuggire alla lupa "la bestia per cu’ io mi volsi". Importante
sottolineare che l’atteggiamento di Dante nei confronti di Virgilio non è di deferenza ma di ammirazione
vera, Dante ha esplorato e conosce a menadito l’opera Virgiliana e la stessa Divina Commedia vi si
ispira e ne attinge direttamente. Virgilio redarguisce Dante riguardo alla strada che ha imboccato, che
non è quella giusta "a te convien tenere altro viaggio", si sofferma sulla natura mortifera e malvagia
della "bestia" che gli sbarra il cammino e accenna una profezia sibillina circa il "Veltro" che ricaccerà la
lupa nell'inferno dal quale proviene. Profezia che trova riscontro in altre profezie complementari molto
più avanti nell'opera enunciate da Beatrice (Purgatorio XXXIII 34-45) e da San Pietro (Paradiso XXVII
55-63), mentre sul Veltro, indubbiamente figura della provvidenza, innumerevoli teorie sono state
proposte per identificarlo con un personaggio storico definito (Cristo, Cangrande, Dante stesso, ecc.).
Infine Virgilio comunica al poeta smarrito che per il suo bene ("per lo tuo me’ " – dove “me’” sta per
meglio) Dante dovrà seguirlo e Virgilio gli farà da guida “per loco eterno”, prima nell’inferno "ove udirai
le disperate strida", poi in purgatorio "e vederai color che son contenti/nel foco, perché speran di
venire/quando che sia alle beate genti", ma non in paradiso. Essendo un’anima del limbo a Virgilio non
è permesso di ascendere fino a quelle altezze, un’anima più pura lo condurrà nell'ultima parte del
viaggio "anima fia a ciò più di me degna:/con lei ti lascerò nel mio partire" e quell’anima pura è,
ovviamente, Beatrice, sostituita da San Bernardo al termine del viaggio, in paradiso (Paradiso XXXI
105). Il gioco è fatto, Dante in nome di Dio e per salvarsi dalla misera condizione morale e intellettuale
nella quale si trova "a ciò ch'io fugga questo male e peggio" prega Virgilio di condurlo nei luoghi
ultraterreni che gli ha appena descritto "che tu mi meni là dov' or dicesti". L’ultimo verso non ha bisogno
di commenti, è chiarissimo, e ci spalanca le porte dell’opera intera: Allor si mosse, e io li tenni dietro.
Inferno[modifica | modifica wikitesto]
Lo stesso argomento in dettaglio: Inferno (Divina Commedia).
Sandro Botticelli, La voragine infernale - Disegni per la Divina Commedia
Il vero e proprio viaggio attraverso l'Inferno ha inizio nel Canto III (nel precedente Dante esprime i suoi
dubbi e le sue paure a Virgilio riguardo al viaggio che stanno per compiere e l'azione si svolge
sulla Terra presso la selva). Dante e Virgilio si trovano sotto la città di Gerusalemme, davanti alla
grande porta su cui sono impressi i versi celeberrimi che aprono questo canto. L'ultimo di quei versi:
"Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate", incute nuovi dubbi e nuovo timore in Dante, ma il suo maestro
e guida gli sorride e lo prende per mano perché ormai bisogna andare avanti. In questo luogo senza
tempo e senza luce, l'Antinferno, stazionano per sempre gli ignavi, ossia quelli che in vita non vollero
prendere posizioni, ed ora sono ritenuti indegni sia di premio (Paradiso) che di castigo (Inferno) perché
il primo sarebbe macchiato della loro presenza e nel secondo sarebbero un motivo di possibile vanto.
La loro punizione consiste nel correre nudi dietro ad una bandiera senza stemma ed essere
perennemente punti da vespe e da mosconi; poco più in là, sulla riva dell'Acheronte (il primo fiume
infernale), stanno provvisoriamente le anime che devono raggiungere l'altra riva, in attesa che Caronte,
il primo guardiano infernale, le spinga nella sua barca e le traghetti di là.
L'inferno dantesco è immaginato come una serie di anelli numerati, sempre più stretti, che si succedono
in sequenza e formano un tronco di cono rovesciato; l'estremità più stretta si trova in corrispondenza
del centro della Terra ed è interamente occupata da Lucifero che, movendo le sue enormi ali, produce
un vento gelido: è il ghiaccio la massima pena. In questo Inferno, ad ogni peccato corrisponde un
cerchio, ed ogni cerchio successivo è più profondo del precedente e più vicino a Lucifero; più grave è il
peccato, maggiore sarà il numero del cerchio.
Al di là dell'Acheronte si trova il primo cerchio, il Limbo. Qui stanno le anime dei puri che non ricevettero
il battesimo e che però vissero nel bene; vi si trovano anche — in un luogo a parte dominato da un
"nobile castello" — gli antichi "spiriti magni" che compirono grandi opere a vantaggio del genere umano
(Virgilio stesso è tra loro). Oltre il Limbo, Dante e il suo maestro entrano nell'Inferno vero e proprio.
All'ingresso sta Minosse, il secondo guardiano infernale che, da giudice giusto quale fu, indica in quale
cerchio infernale ogni anima dovrà scontare la sua pena, avvolgendo la coda tante volte quanti cerchi
l'anima dovrà scendere. Superato Minosse, i due si ritrovano nel secondo cerchio, dove sono puniti
i lussuriosi: tra essi le anime di Semiramide, Cleopatra, Elena di Troia ed Achille. Celebri i versi del
quinto canto su Paolo e Francesca[12] che raccontano la loro storia e passione amorosa. Ai lussuriosi,
travolti dal vento, succedono nel terzo cerchio i golosi; questi sono immersi in un fango puzzolente,
sotto una pioggia senza tregua, e vengono morsi e graffiati da Cerbero, terzo guardiano infernale; dopo
di loro, nel quarto cerchio, presidiato da Plutone, stanno gli avari e i prodighi, divisi in due schiere
destinate a scontrarsi per l'eternità mentre fanno rotolare massi di pietra lungo la circonferenza del
cerchio.
Dante e Virgilio giungono poi al quinto cerchio, davanti allo Stige (il secondo fiume infernale), nelle
fangose acque del quale sono puniti iracondi e accidiosi, e qui i protagonisti hanno un alterco
con Filippo Argenti; i due Poeti vengono traghettati sulla riva opposta dalla barca di Flegias, quinto
guardiano infernale. Lì, sull'altra sponda, sorge la Città di Dite, in cui sono puniti i peccatori consapevoli
del loro peccare. Davanti alla porta chiusa della città, i due sono bloccati dai demoni e dalle Erinni;
entreranno solo grazie all'intervento dell'Arcangelo Michele, e vedranno come sono puniti coloro "che
l'anima col corpo morta fanno", cioè gli epicurei e gli eretici in generale: essi si trovano all'interno di
grandi sarcofaghi infuocati; tra gli eretici incontrano il ghibellino Farinata degli Uberti, uno dei più famosi
personaggi dell'Inferno dantesco. Assieme a lui è presente Cavalcante dei Cavalcanti, padre di Guido,
amico di Dante.
Oltre la città, il poeta e la sua guida scendono verso il settimo cerchio lungo uno scosceso burrone
(burrato), alla fine del quale si trova il terzo fiume infernale, il Flegetonte, un fiume di sangue bollente
presidiato dai Centauri. Questo fiume costituisce il primo dei tre gironi in cui è diviso il VII cerchio. Vi
sono puniti i violenti contro il prossimo; tra essi il Minotauro, ucciso da Teseo con l'aiuto di Arianna.
Oltre il fiume, sull'altra sponda è il secondo girone, (che Dante e Virgilio raggiungono grazie all'aiuto del
centauro Nesso); qui stanno i violenti contro sé stessi, i suicidi, trasformati in arbusti secchi, feriti e
straziati per l'eternità dalle Arpie (tra loro troviamo Pier della Vigna); nel secondo girone stanno anche
gli scialacquatori, inseguiti e sbranati da cagne. L'ultimo girone, il terzo, è una landa infuocata, ed
ospita i violenti contro Dio nella Parola, nella Natura e nell'Arte, ossia i bestemmiatori (Capaneo),
i sodomiti (tra cui Brunetto Latini, maestro di Dante, quando il poeta era giovane) e gli usurai. A
quest'ultimo girone Dante dedicherà molti versi dal Canto XIV al Canto XVII.
Alla fine del VII cerchio, Dante e Virgilio scendono per un burrone (ripa discoscesa) in groppa
a Gerione, il mostro infernale dal volto umano, zampe leonine, corpo di serpente e coda di scorpione.
Così raggiungono l'VIII cerchio chiamato Malebolge, dove sono puniti i traditori in chi non si fida.
L'ottavo cerchio è diviso in dieci bolge; ogni bolgia è un fossato a forma di cerchio. I cerchi sono
concentrici, scavati nella roccia e digradanti verso il basso, alla base di essi si apre il Pozzo dei Giganti.
Nelle bolge sono puniti, nell'ordine, ruffiani e seduttori, adulatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti,
ladri, consiglieri fraudolenti — tra cui Ulisse e Diomede, i seminatori di discordia (Maometto) e i falsari.
Infine i due accedono al IX ed ultimo cerchio, dove sono puniti i traditori in chi si fida.
Questo cerchio è diviso in quattro zone, coperte dalle acque gelate di Cocito. Nella prima zona,
chiamata Caina (dal nome di Caino, che uccise il fratello Abele), sono puniti i traditori dei parenti; nella
seconda, Antenora (dal nome Antenore, il troiano che consegnò il Palladio ai nemici greci), stanno i
peccatori come lui, traditori della patria; nella terza, Tolomea (dal nome del re Tolomeo XIII, che al
tempo di Cesare fece uccidere il suo ospite Pompeo), si trovano i traditori degli ospiti; infine nella
quarta, Giudecca (dal nome di Giuda Iscariota, che tradì Gesù), sono puniti i traditori dei benefattori.
Nell'Antenora Dante incontra il Conte Ugolino della Gherardesca che narra della sua segregazione
nella Torre della Muda con i figli e la loro morte per fame, segregazione e morte volute dall'Arcivescovo
Ruggieri. Ugolino appare nell'Inferno sia come un dannato che come un demone vendicatore, che rode
per l'eternità il capo del suo aguzzino. Nell'ultima zona si trovano i tre grandi
traditori: Cassio, Bruto (che complottarono contro Cesare) e Giuda Iscariota; la loro pena consiste
nell'essere maciullati dalle tre bocche di Lucifero, che qui ha la sua dimora. Giuda si trova nella bocca
centrale, a suggello della maggiore gravità del proprio tradimento.
Scendendo lungo il suo corpo peloso, Dante e Virgilio raggiungono una grotta e scendono alcune
scale. Dante è stupito: non vede più la schiena di Lucifero e Virgilio gli spiega che ora si trovano
nell'Emisfero Australe. Attraversano quindi la natural burella, il canale che li condurrà alla spiaggia del
Purgatorio, alla base della quale usciranno poco dopo "a riveder le stelle".
Purgatorio[modifica | modifica wikitesto]
Lo stesso argomento in dettaglio: Purgatorio (Divina Commedia).
Libero da tutti i peccati, adesso Dante può ascendere al Paradiso e, accanto a Beatrice, vi accede
volando ad altissima velocità. Egli sente tutta la difficoltà di raccontare questo trasumanare, andare
cioè al di là delle proprie condizioni terrene, ma confida nell'aiuto dello Spirito Santo (il buon Apollo) e
nel fatto che il suo sforzo descrittivo sarà continuato da altri nel tempo (Poca favilla gran fiamma
seconda...canto I, 34).
Il Paradiso è composto da nove cieli concentrici, al cui centro sta la Terra; in ognuno di questi cieli,
dove risiede un pianeta diverso, stanno i beati, più vicini a Dio a seconda del loro grado di beatitudine.
In verità, Dante capirà in seguito che le anime del Paradiso si trovano tutte nell'Empireo, a contemplare
Dio, e vengono incontro a lui nei vari cieli secondo il loro grado di beatitudine, per l'amore che nutrono
per lui e spiegare i vari misteri sacri. Inoltre, nessuna anima desidera una condizione migliore di quella
che già ha, poiché la carità non permette di desiderare altro se non quello che si ha, e non possono far
altro che volere ciò che Dio vuole ("in sua volontade è nostra pace", dice Piccarda); Dio, al momento
della nascita, ha donato secondo criteri inconoscibili ad ogni anima una certa quantità di grazia, ed è in
proporzione a questa che esse godono diversi livelli di beatitudine. Prima di raggiungere il primo cielo i
due attraversano la Sfera di Fuoco.
Nel primo cielo, quello della Luna, stanno coloro che mancarono ai voti fatti (Angeli); nel secondo, il
cielo di Mercurio, risiedono coloro che in Terra fecero del bene per ottenere gloria e fama, non
indirizzandosi al bene divino (Arcangeli); nel terzo cielo, quello di Venere, stanno le anime degli spiriti
amanti (Principati); nel quarto, il cielo del Sole, gli spiriti sapienti (Potestà); nel quinto, il cielo di Marte,
gli spiriti militanti dei combattenti per la fede (Virtù); e nel sesto, il cielo di Giove, gli spiriti governanti
giusti (Dominazioni)
Dante e Beatrice rivolti verso l'Empireo (Gustave Doré)
Giunti al settimo cielo, quello di Saturno dove risiedono gli "spiriti contemplativi" (Troni), Beatrice non
sorride più, come invece aveva fatto finora; il suo sorriso, infatti, da qui in poi, a causa della vicinanza a
Dio, sarebbe per Dante insopportabile alla vista, tanto luminoso risulterebbe. In questo cielo risiedono
gli spiriti contemplativi, e da qui Beatrice innalza Dante fino al cielo delle Stelle fisse, dove non sono più
ripartiti i beati, ma nel quale si trovano le anime trionfanti, che cantano le lodi di Cristo e della Vergine
Maria, che qui Dante riesce a vedere; da questo cielo, inoltre, il poeta osserva il mondo sotto di sé, i
sette pianeti e i loro moti e la Terra, piccola e misera in confronto alla grandezza di Dio (Cherubini).
Prima di proseguire Dante deve sostenere una sorta di "esame" in Fede, Speranza, Carità, da parte di
tre esaminatori particolari: San Pietro, San Giacomo e San Giovanni. Quindi, dopo un ultimo sguardo al
pianeta, Dante e Beatrice assurgono al nono cielo, il Primo Mobile o Cristallino, il cielo più esterno,
origine del movimento e del tempo universale (Serafini).
In questo luogo, sollevato lo sguardo, Dante vede un punto luminosissimo, contornato da nove cerchi di
fuoco, vorticanti attorno ad esso; il punto, spiega Beatrice, è Dio, e attorno a lui stanno i nove cori
angelici, divisi per quantità di virtù. Superato l'ultimo cielo, i due accedono all'Empireo, dove si trova
la rosa dei beati, una struttura a forma di anfiteatro, sul gradino più alto della quale sta la Vergine
Maria. Qui, nell'immensa moltitudine dei beati, risiedono i più grandi santi e le più importanti figure
delle Sacre Scritture, come Sant'Agostino, San Benedetto, San Francesco, e
inoltre Eva, Rachele, Sara e Rebecca.
Da qui Dante osserva finalmente la luce di Dio, grazie all'intercessione di Maria alla quale San
Bernardo (guida di Dante per l'ultima parte del viaggio) aveva chiesto aiuto perché Dante potesse
vedere Dio e sostenere la visione del divino, penetrandola con lo sguardo fino a congiungersi con Lui, e
vedendo così la perfetta unione di tutte le realtà, la spiegazione del tutto nella sua grandezza. Nel
punto più centrale di questa grande luce, Dante vede tre cerchi, le tre persone della Trinità, il secondo
del quale ha immagine umana, segno della natura umana, e divina allo stesso tempo, di Cristo.
Quando egli tenta di penetrare ancor più quel mistero il suo intelletto viene meno, ma in un excessus
mentis[13] la sua anima è presa da un'illuminazione e si placa, realizzata dall'armonia che gli dona la
visione di Dio, dell'amor che move il sole e l'altre stelle.
Struttura dell'Inferno
Struttura del Purgatorio
Struttura del Paradiso
Cronologia[modifica | modifica wikitesto]
Le date in cui Dante fa svolgere l'azione della Commedia si ricavano dalle indicazioni disseminate in
diversi passi del poema.
Il riferimento principale è Inferno XXI, 112-114: in quel momento sono le sette del mattino del Sabato
Santo del 1300, 9 aprile[18] o, secondo altri commentatori, del 26 marzo del 1300.[19] L'anno è
confermato da Purgatorio II, 98-99, che fa riferimento al Giubileo in corso. Tenendo questo punto
fermo, in base agli altri riferimenti si ottiene che:
alla mattina dell'8 aprile (Venerdì Santo) o del 25 marzo, Dante esce
dalla "selva oscura" e inizia la salita del colle, ma viene messo in fuga
dalle tre fiere e incontra Virgilio.
Al tramonto, Dante e Virgilio iniziano la visita dell'Inferno, che dura
circa 24 ore[20] e termina quindi al tramonto del 9 aprile o del 26 marzo.
Nel superare il centro della Terra, però, i due poeti passano al "fuso
orario" del Purgatorio (12 ore di differenza da Gerusalemme[21] e 9 ore
dall'Italia), per cui è mattina quando essi intraprendono la risalita, che
occupa tutto il giorno successivo.
All'alba del 10 aprile (domenica di Pasqua) o del 27 marzo, Dante e
Virgilio iniziano la visita del Purgatorio, che dura tre giorni e tre
notti:[22] all'alba del quarto giorno, 13 aprile o 30 marzo, Dante entra nel
Paradiso Terrestre e vi trascorre la mattina, durante la quale lo
raggiunge Beatrice.
A mezzogiorno, Dante e Beatrice salgono in cielo. Da qui in avanti non
vi sono più indicazioni di tempo, salvo che nel cielo delle stelle fisse
trascorrono circa sei ore (Paradiso XXVII, 79-81). Considerando un
tempo simile anche per gli altri cieli, si ottiene che la visita del Paradiso
duri due-tre giorni. L'azione terminerebbe di conseguenza il 15 aprile o
il 1º aprile.
Quindi con un tempo totale stimato in sette giorni di viaggio.
Il viaggio ultraterreno di Dante richiede l'appoggio di una guida, in quanto il protagonista rappresenta
l'uomo smarrito in conseguenza del peccato e pertanto incapace di recuperare da solo la retta via. Per
l'intero cammino che si svolge attraverso il baratro dell'Inferno e su per la montagna del Purgatorio la
guida prescelta è Virgilio, l'antico poeta latino autore dell'Eneide. Egli, sebbene pagano, per l'alto valore
morale della sua poesia, rappresenta la saggezza naturale, la ragione della cui luce l'uomo ha bisogno
per riscattarsi e rendersi disponibile a comprendere la Rivelazione.
Comunque la figura di Virgilio non rimane chiusa in una schematica funzione allegorica; essa, in virtù
della capacità poetica di Dante, assume il ruolo di un personaggio di grande rilievo: ora egli si anima di
sollecitudine paterna e riesce a rassicurare con la sua rasserenante protezione Dante sbigottito dagli
orrori dell'Inferno, ora, specialmente nel Purgatorio, resta soggetto all'incertezza, al timore e vive un
suo dramma personale, in quanto diversamente da Dante egli è escluso dalla salvezza. Il suo compito
si conclude nel Paradiso terrestre in quanto Virgilio, estraneo al mondo della fede, non può guidare
Dante a comprendere il mistero divino che gli si svelerà nel Paradiso. Per questo occorre l'intervento
della Grazia, della scienza teologica, che viene rappresentata dalla nuova guida, Beatrice, la quale
condurrà Dante dalla cima del Purgatorio alle soglie dell'Empireo.
Anche nel caso di Beatrice il significato allegorico si arricchisce di componenti che fanno della sua
figura un personaggio altamente poetico. Beatrice è pur sempre la donna angelica che ha illuminato la
giovinezza del poeta: adesso, divenuta beata, risplende di una luce che si esprime nel suo sguardo e
nel suo sorriso, rendendola bella in modo indicibile. Beatrice spiega al poeta con un linguaggio dotto
ardui problemi teologici, ma lo fa salire attraverso i cieli con la forza del suo sorriso, cioè con la forza di
un amore che è il riflesso di quello divino.
Dopo aver condotto Dante all'interno dell'anfiteatro occupato dai beati, Beatrice ritorna al suo seggio da
dove appare al poeta cinta di un'aureola luminosa e il ruolo di guida viene assunto nel momento
conclusivo del viaggio da San Bernardo, il quale per la sua vita dedita, già in Terra,
alla contemplazione, appare singolarmente adatto a sostenere Dante nel momento in cui, con l'aiuto
della preghiera di tutti i beati, e in particolare della Vergine, riuscirà ad entrare in diretta comunione con
la viva presenza di Dio.
L'opera ebbe grande fortuna già nei primi anni in cui venne diffusa: a parte il fiorire di manoscritti e
citazioni, alcune ancora precedenti alla morte di Dante, già nel XIV secolo vengono composti commenti
all'intera opera o solo all'Inferno. Fra i primi commentatori annoveriamo anche i figli di
Dante, Jacopo e Pietro Alighieri, ma anche Giovanni Boccaccio che negli ultimi anni della sua vita
tenne delle letture pubbliche, le Esposizioni sopra la Comedia.
Tradizione manoscritta e proposte di edizioni critiche [modifica | modifica wikitesto]
Dal punto di vista filologico, il caso della Commedia è tra i più complessi nel panorama delle lingue
romanze per la vastità delle testimonianze e per la conseguente difficoltà di stabilire con certezza i
rapporti tra i manoscritti. I manoscritti oggi noti sono infatti circa ottocento (un registro è consultabile sul
sito www.danteonline.it a cura della Società Dantesca Italiana, dove è possibile inoltre visionare
direttamente un ampio numero di codici). Per i manoscritti più antichi del poema (1330-1350) si
possono quindi distinguere, secondo lo stemma codicum approntato da Giorgio Petrocchi per la sua
edizione del 1966-7: una tradizione fiorentina molto antica (rappresentata sostanzialmente dal
manoscritto Trivulziano 1080, datato 1337 e dalle postille collazionate dall'umanista Luca Martini su una
stampa cinquecentesca, da un codice approntato da un pievano, Forese Donati, databile al 1330 circa),
una tradizione toscana occidentale, una tradizione emiliana e infine una ulteriore tradizione fiorentina,
alla quale si può ricondurre la maggioranza dei manoscritti trecenteschi e quattrocenteschi.[49] Dopo
l'edizione a cura di Giorgio Petrocchi il dibattito sulla tradizione manoscritta si è ravvivato in reazione
all'edizione di Federico Sanguineti, che suscitò vivaci critiche e adesioni. Quindi una nuova edizione,
con una rinnovata indagine dei rapporti genetici tra i manoscritti, è stata annunciata da Paolo
Trovato.[50]
È probabile tuttavia che la Commedia sia stata inizialmente diffusa per cantiche o gruppi di canti; non
sarebbe quindi mai esistito un originale esplicitamente pubblicato dall'autore; in questo senso vanno
citati gli studi di Riccardo Viel,[51] che ritiene impossibile disegnare un unico stemma codicum dell'opera,
dovendosi procedere per singole Cantiche o addirittura per gruppi di canti. Alla tradizione toscana
derivata dal codice Trivulziano 1080 si ispira invece l'edizione curata da Antonio Lanza.[8] Negli ultimi
anni, infine, in prospettiva del 2021, data del settecentenario della morte del poeta (1321-2021), sono
state avanzate ulteriori tre proposte per una nuova edizione critica del poema dantesco, su basi molto
diverse fra di loro, se non opposte: la prima di Enrico Malato, è una proposta 'vandelliana' (da Giuseppe
Vandelli, curatore dell'edizione del 1921 della Commedia) o empirica: denuncia una profonda sfiducia
nei confronti di qualsiasi tentativo di razionalizzazione stemmatica dei manoscritti a causa della
contaminazione; lo studioso propone pertanto di basarsi sul testo Petrocchi corretto di volta in volta - in
base al senso del passo o alle fonti sottese ad esso - a seconda delle esigenze esegetiche e testuali.[52]
Una proposta 'bedieriana' (dal nome di critico francese J. Bédier) invece è quella di Luigi Spagnolo che
propone di basarsi su un codex optimus (precisamente il Fior. Pal. 319), ossia un manoscritto ritenuto il
migliore o comunque rappresentativo di una tradizione indipendente e di qualità più elevata rispetto alle
tradizioni concorrenziali.[53] Da ultimo è stata avanzata, da parte di Angelo Eugenio Mecca, una
proposta lachmanniana (come quella di Trovato) ma su basi 'barbiane' (da Michele Barbi, che propose
l'utilizzo di loci selecti, ossia passi scelti, per sistemare in gruppi e famiglie tutti i manoscritti noti
della Commedia): Mecca sostiene l'accantonamento dell'idea dell'esistenza di un archetipo per
la Commedia, che resta non dimostrabile né storicamente probabile; la diffusione della Commedia per
cantiche separate se non per blocchi di canti, cosa che deve indurre il critico a tracciare
prudenzialmente tre stemmi, uno per cantica; l'articolazione della tradizione della Commedia in tre
subarchetipi, al posto dei due finora riconosciuti (α e β, rispettivamente tradizione toscana e
settentrionale), ossia: tradizione toscana (α), tradizione emiliano-romagnola (Urb e affini: ε), tradizione
lombardo-veneta (Mad Rb e affini: σ); la selezione come testimoni-base della futura edizione critica
della Commedia di un numero congruo di testimoni, rappresentativi di tutti e tre i subarchetipi
riconosciuti; l'adozione della lezione genuina secondo il criterio della maggioranza (due subarchetipi
contro uno).[54]
L'editio princeps della Divina Commedia fu finita di stampare a Foligno l'11 aprile 1472 dal tedesco
di Magonza Johannes Numeister e dal folignate Evangelista Mei(come risulta dal colophon), che alcuni
identificano con il mecenate folignate Emiliano Orfini, altri con il tipografo Evangelista Angelini. Tuttavia,
a breve distanza dall'editio princeps di Foligno, sempre nello stesso anno, escono altre due edizioni
della Divina Commedia: a Jesi (o a Venezia, il luogo è dubbio) per le stampe di Federigo de' Conti da
Verona; e infine a Mantova, dai tipografi tedeschi Georg e Paul Butzbach, curata dall'umanista
Colombino Veronese.[55]
Le edizioni a stampa del Quattrocento (incunaboli) [modifica | modifica wikitesto]
Nel corso del Quattrocento vengono stampate in tutto 15 edizioni della Divina
Commedia (quattrocentine o, più comunemente, incunaboli, da un termine latino che significa "in culla"
e con cui convenzionalmente si indicano tutte le stampe realizzate da metà Quattrocento all'anno 1500
compreso). Da un punto di vista filologico le edizioni si dividono in due gruppi: quelle derivate
dall'edizione di Foligno, ma più o meno corretta o modificata (in tutto quattro edizioni), e quelle derivate
dall'edizione di Mantova (undici in tutto); nel secondo gruppo rientra anche la più famosa edizione del
secolo, destinata ad avere molte ristampe e grande successo anche nei secoli successivi, soprattutto
nel Cinquecento: si tratta della stampa curata dall'umanista fiorentino Cristoforo Landino (Firenze,
1481).[56] Va ricordata anche l'edizione stampata da Vindelino da Spira (Venezia, 1477), che contiene
la Vita di Dante, ossia il Trattatello in laude di Dante, del Boccaccio, all'interno del quale compare per la
prima volta l'espressione "divina commedia".
Le edizioni a stampa del Cinquecento (cinquecentine) [modifica | modifica wikitesto]
Il Cinquecento si apre con un'edizione famosissima, destinata ad imporsi su tutte le altre e a diventare il
modello di tutte le edizioni della Divina Commedia dei secoli successivi, fino al XIX secolo
compreso: Le terze rime di Dante, a cura di Pietro Bembo per la tipografia di Aldo Manuzio (Venezia,
agosto 1502), ristampata poi tale e quale nel 1515. In tutto furono 30 le edizioni dantesche del secolo (il
doppio del secolo precedente), la maggior parte delle quali stampate a Venezia. Fra esse si ricordano
l'edizione di Lodovico Dolce, stampata a Venezia da Gabriele Giolito de' Ferrari nel 1555, che fu la
prima ad attribuire l'aggettivo "Divina" a "Commedia" (tra i possessori più illustri di questa edizione
troviamo Galileo Galilei, la cui copia ci è pervenuta fino ad oggi); l'edizione curata da Antonio
Manetti (Firenze, Giunta, 1506); quella con il commento di Alessandro Vellutello (Venezia, Francesco
Marcolini, 1544); e infine l'edizione curata dall'Accademia della Crusca (Firenze, 1595).[58]
Giuseppe de Liguoro e Giovanni Pastrone, due registi che hanno realizzato una trasposizione cinematografica
della Commedia.
La barca di Dante (E. Delacroix) (1798-1863). Iracondi e accidiosi nella palude stigia
La Divina Commedia nella Valle delle Pietre dipinte è un'opera pittorica di Silvio Benedetto, realizzata
negli anni novanta su 110 massi in travertino di 1,50 per 2,50 metri, dipinti in più facciate, sulla grande
opera di Dante. Pur privilegiando il lato frontale, la pittura si sviluppa su tutti i lati della pietra. Tuttavia
nessun lato dei poliedri dovrebbe essere letto autonomamente. Si trova a Campobello di Licata[71]
Scultura[modifica | modifica wikitesto]
Tutto Dante; è una tournée teatrale curata dal Premio Oscar Roberto
Benigni, iniziata nel 2006 con letture e commenti dei canti più famosi
della Divina Commedia. Per questa opera di divulgazione della
Commedia, nel 2007 Benigni era stato indicato come candidato al
Premio Nobel per la Letteratura.[73] La tournée è stata riadattata per
la televisione: la serie "Tutto Dante-La Divina Commedia in TV" ha
debuttato su Rai 1 il 29 novembre 2007 con la lettura del Quinto Canto
dell'Inferno con un share di oltre dieci milioni di telespettatori. Le altre
letture si sono tenute invece in seconda serata sempre su Rai Uno.
Teatro[modifica | modifica wikitesto]
V·D·M
Divina Commedia
mostra
V·D·M
Dante Alighieri
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