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RIASSUNTO:
È una lettura per certi aspetti inedita dell’episodio di Paolo e Francesca, con
l’aggiunta di osservazioni sugli altri personaggi ricordati nel canto V dell’Inferno
e sul coinvolgimento di Dante stesso – forse anche autobiografico – nella vi-
cenda. In particolare, si tenta di decifrare il pianto dell’uomo in contrasto con la
forza d’animo della sua amante, che invece rievoca senza lacrime la loro storia
d’amore, con la sua conclusione tragica, preannunciando la punizione del marito
nella Caina. La sequenza, nella quale è messo in risalto l’aspetto stilnovistico,
presenta pure, nemmeno troppo in filigrana, qualche particolare che induce a ri-
conoscere anche elementi passionali nel rapporto tra i due amanti, tant’è vero
che essi sono condannati tra i lussuriosi.
PAROLE CHIAVE: Paolo, Francesca, lussuriosi, Caina.
ABSTRACT:
From a certain point of view this is a new reading of the episode of Paul and
Frances, with the addition of observations about other characters mentioned in
canto V of Inferno and about the involvement – perhaps even autobiographic –
of Dante himself in the event. In particular, the author tries to explain the man’s
weeping in contrast with the strength of heart of his lover who, on the contrary,
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recalls without tears their love story, with its tragic end, announcing her hus-
band’s punishment in the Caina. The sequence, where the ‘dolce stil nuovo’ as-
pect is in evidence, presents too, not even too much hidden, some details inducing
to recognize even elements of passion in the relation between the two lovers, so
that they are damned among the lascivious people.
KEYWORDS: Paul, Frances, lecherous, Caina.
PREMESSA
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prima radice / del nostro amor tu hai cotanto affetto» (vv. 124-125), che
più che l’imitazione è la traduzione quasi letterale delle parole di Enea
«sed si tantus amor casus cognoscere nostros» (Aen. 2, 10).9 Ma un altro
passo virgiliano, che pure non corrisponde né formalmente né concettual-
mente, presenta particolarità di cui forse Dante ha tenuto conto per questo
episodio: mi riferisco all’incontro di Enea con Didone durante la nékyia
del VI libro, dove l’eroe tenta di giustificare il suo abbandono della donna.
Le due situazioni sono per certi aspetti opposte o speculari: (a) la regina
manifesta per il troiano il suo rancore – o piuttosto indifferenza, senti-
mento forse peggiore dell’odio –, che esprime tacendo e ignorando colui
che aveva amato («illa solo fixos oculos aversa tenebat», etc.: v. 6, 469
ss.), mentre Enea è tuttora innamorato (cfr. «dulcique adfatus amore est»:
v. 6, 455); viceversa Paolo e Francesca si amano tuttora, dato che stanno
tra loro vicini (cfr. «Quali colombe», etc.: v. 82 ss.): insomma, Didone ha
superato e cancellato il sentimento per l’eroe straniero, ritornando al ma-
rito Sicheo, che aveva tradito infrangendo il giuramento fatto a lui, pur de-
funto (cfr. «L’altra è colei che s’ancise amorosa, / e ruppe fede al cener di
Sicheo», If. V 61-62) (cfr. Perotti 2004: § 5; Perotti 2007: § 4); (b) Enea
piange per tutto il tempo dell’incontro («demisit lacrimas»: vv. 6, 455;
«lacrimasque ciebat»: v. 468; «prosequitur lacrimis longe»: v. 476), men-
tre parla per esporre le proprie ragioni; anche Paolo piange, ma è testi-
mone muto del racconto dell’amante, e le sue lacrime fanno da
contrappunto alle parole della donna.10 Inoltre, come l’impulso al senti-
mento della regina di Cartagine è dato da Cupido – a ciò indotto da Ve-
nere, madre di Enea, con la complicità di Giunone –, così l’attrazione tra
Paolo e Francesca è provocata da Amore, che da spirituale si trasforma in
carnale.
Anche in questo episodio, come nella vicenda virgiliana di Enea e Di-
done nel IV libro, ricorre il ben noto rapporto éros – thànatos = amore –
morte,11 come risulta chiaramente dall’accostamento «Amor condusse noi
ad una morte» (v. 106).
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Il pianto di Paolo – «uno dei tratti di più alta poesia della Commedia»,
secondo il Momigliano (in Alighieri 1946: ad locum) – è stato giudicato
«pur esso un commento, un ridimensionamento commosso e angoscioso
del discorso di Francesca, per il modo come viene introdotta e evidenziata
la sua umanità» (Giacalone in Alighieri 1968: ad locum).
Tuttavia le sue lacrime possono essere decifrate anche con altri
argomenti: è necessario fare un passo indietro, ossia esaminare la
situazione che indusse Gianciotto al duplice omicidio. Il riferimento alla
Caina, che secondo Francesca ‘attende’ l’assassino dei due cognati, indica
chiaramente che la donna considera traditore dei congiunti – la moglie e
il fratello – il marito, e dunque tale tradimento, spinto fino all’omicidio
di una persona del suo stesso sangue e della donna che ha unito a sé come
un solo corpo e una sola anima, è appunto meritevole della pena nella
prima zona di Cocito. Ma Francesca non considera il fatto che i primi a
tradire il congiunto sono stati proprio lei e il suo amante, che hanno
violato il ‘patto’ di fedeltà e lealtà, lei in quanto moglie, lui in quanto
fratello.17 Il ‘tradimento’ di Gianciotto è conseguenza diretta dell’adulterio
dei due drudi, secondo un ‘codice d’onore’ in uso nei secoli passati,18
peraltro valido sino a pochi decenni or sono: si pensi al cosiddetto ‘delitto
d’onore’, che, almeno in Italia, prevedeva una pena assai ridotta rispetto
a un comune omicidio.
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con la quale è ben descritto lo smarrimento d’amore che turba i sensi oltre,
o ancor più, che l’anima; così come l’agg. «tremante» nel v. 136, «la
bocca mi baciò tutto tremante», indica un’agitazione dei sensi.23 Un altro
particolare, apparentemente di poco momento, è riconoscibile nella frase
«prese costui de la bella persona / che mi fu tolta» (101-102): l’agg.
«bella» potrebbe essere letto come una forma di immodestia di Francesca,
che anche dopo la morte non rinuncia alla frivola vanità – tipicamente o
soprattutto femminile – della lode del proprio aspetto fisico;24 ma è più ra-
gionevole considerare l’intera espressione «bella persona» come un’altra
allusione all’aspetto anche fisico dell’amore tra i due cognati. L’Amore
catturò Paolo non solo per un’affinità spirituale, ma grazie al bel corpo di
Francesca, ossia non soltanto per un incontro di anime: a questo proposito
ricordo il commento del Sapegno (in Alighieri 1994: ad locum) che scrive:
«prese ecc.: fece innamorare costui della mia bellezza fisica. – persona =
“corpo”: cfr. Inf., VI, 36; XXI, 97; XXXI, 43; Purg., II, 110; III, 118; XIV,
19; Par., XIV, 44, ecc.; Tristano riccardiano:25 “vedea... ch’elli perde-
rebbe l’anima e la persona”». Il Sapegno rileva opportunamente questo
particolare, pur senza trarne le conseguenze che io invece ho qui sopra
presentato.
Da tutto ciò deriva l’imbarazzo del poeta nel palesare il suo giudizio,
indubbiamente difficile da esprimere – nell’alternativa tra la condanna e
una qualche giustificazione, in quanto «omnia vincit Amor» (Verg.,
ecl.10, 69a) –, perché, oltre che condizionato da un debito di riconoscenza
nei confronti della famiglia Da Polenta cui apparteneva Francesca (cfr.
Perotti 1993: 132-133), forse era influenzato anche da qualche traccia di
autobiografismo, in quanto non si può escludere che Dante stesso fosse
soggetto al peccato punito in questo II cerchio dell’inferno.26 È dunque na-
turale e spontanea la sua pietà, «nel senso della commozione che accom-
pagna uno stato di perplessità morale e intellettuale» (Sapegno, in
Alighieri 1994: ad locum), forse causata anche – ripeto – dall’essere egli
reo dello stesso peccato, fattori che, combinandosi nel suo animo, ne pro-
vocano dapprima la dichiarazione di condivisione del dolore della donna
– ma solo, si badi bene, della donna: cfr. infra, § 6 – («Francesca, i tuoi
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5. Dante non può non essere combattuto tra la sua posizione di giudice
che segue la legge cristiana e il sentimento di pietà,30 ma non sembra del
tutto neutrale, forse perché si ritiene colpevole di un analogo peccato di
lussuria, tant’è vero che proprio la compassione – nel senso etimologico
di cum + patior, ossia ‘partecipare della sofferenza di qualcuno’ – lo fa ad-
dirittura svenire. Eppure il poeta, pur mettendo in bocca a Francesca l’ana-
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ma quando si macchiò di crimini infami – non solo legati alla lussuria –36
era già vedova del re Nino, e dunque, pur essendo meritevole a pieno ti-
tolo della collocazione nel II cerchio dell’inferno, non era colpevole di
adulterio.
Segue Didone, «colei che s’ancise amorosa, / e ruppe fede al cener di
Sicheo» (vv. 61-62),37 neppure essa adultera stricto sensu, per quanto
avesse violato il giuramento di fedeltà al marito Sicheo, che avrebbe do-
vuto perdurare anche dopo la morte di lui; ma si tratta, come ognun vede,
di un tradimento soltanto alla memoria, e comunque singolo, dato che al
momento Enea era vedovo.
La terza è Cleopatra,38 che il poeta si limita a definire «lussuriosa» (v.
63), anch’essa morta suicida: non va dimenticato che essa, che sedusse
prima Cesare e poi Antonio, aveva comunque marito,39 così come ave-
vano moglie i suoi due amanti. È dunque, in questo elenco, la sola donna
doppiamente adultera, allo stesso modo dei due condottieri romani, oltre
a Francesca.
L’ultima donna di questa categoria, Elena (vv. 64-65), è adultera sin-
golarmente,40 avendo tradito il marito ma non l’inesistente moglie del-
l’amante Paride, che infatti risulta celibe.
Riepilogando, quasi tutti gli uomini ricordati e/o condannati in questo
cerchio – Achille, Paride, Tristano, nonché Lancillotto – sono liberi da
vincoli coniugali, e dunque non sono direttamente adulteri, dato che la
loro lussuria provoca (salvo il caso di Achille, che non è adultero in alcun
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modo) soltanto l’adulterio nei confronti del marito da parte della donna
da ciascuno amata, e di conseguenza anche da parte dell’amante: ecco
perché essi sono traditori solo singolarmente, ossia di una sola persona.
Riepilogando e precisando, la meno colpevole risulta Didone, per le
ragioni poc’anzi ricordate; Semiramide fu lussuriosa e incestuosa, ma non
adultera; Cleopatra era sposata (ma cfr. n. 39) e, avendo sedotto prima
Cesare e poi Antonio, in due occasioni fu doppiamente adultera (ma sin-
golarmente secondo Dante, se immaginiamo che egli fosse all’oscuro del
suo matrimonio); anche Elena fu adultera singolarmente, perché aveva
marito ma Paride non aveva moglie. Ma mentre Francesca è in qualche
modo giustificata dal poeta (cfr. § 4 e n. 27) – tanto che egli piange per la
commozione e la pietà41 provocate in lui dalla sua vicenda tragica («Fran-
cesca, i tuoi martìri / a lagrimar mi fanno tristo e pio»: vv. 116-117) –, le
più colpevoli secondo lui sono probabilmente Elena e Cleopatra, per
quanto ne dice Virgilio, una delle fonti da lui più stimate: la prima, non
solo dopo la morte di Paride iniziò una nuova relazione con un altro figlio
di Priamo, Deifobo, ma soprattutto, durante l’ultima notte di Troia, dopo
aver fatto segnali ai Greci con una fiaccola per indicare il momento pro-
pizio all’assalto, sottrasse le armi dalla casa del nuovo ‘sposo’ e chiamò
Menelao – che lo uccise –, per ingraziarselo e farsi perdonare (Aen. 6,
515 ss.);42 la seconda per avere sedotto Cesare e aver tentato di irretire Ot-
taviano Augusto, due capisaldi del nomen di Roma.
Un’altra questione merita una pur rapida indagine. Perché, come Paolo
e Francesca, non sono uniti in questo cerchio anche Paride ed Elena, che
invece sono ricordati separatamente? In primo luogo, questi due amanti
non morirono a causa del loro adulterio; inoltre Elena non fu amante di
Paride fino alla morte, perché dopo l’uccisione del troiano essa ‘sposò’ il
fratello Deifobo (cfr. qui sopra), per tornare infine con l’antico marito
Menelao; ma soprattutto, Paolo e Francesca sono presentati dal poeta
come simbolo dell’amore ‘anche’ stilnovistico (cfr. supra, §§ 2 e 4), che
non può certo essere rappresentato, neppure ante litteram, da Elena, con-
siderata da Dante – che segue l’opinione del suo ‘maestro’ Virgilio – una
donna immorale e priva di sentimenti sinceri, il che contrasta con l’amore
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NOTE
1
Il giovane è descritto in lacrime soltanto nel lazzeretto, mentre ascolta le
parole commoventi del padre Felice («Renzo, tutto lacrimoso»): Manzoni 1840-
1842: cap. XXXVI; inoltre, in occasione dell’addio tra i due promessi sposi a
Monza, si sforza di non piangere (cap. IX): «Lucia non nascose le lacrime; Renzo
trattenne a stento le sue» [il corsivo è mio]; anche don Abbondio, «sentendo il
concerto solenne de’ suoi confratelli che cantavano a distesa, provò un’invidia,
una mesta tenerezza, un accoramento tale, che durò fatica a tener le lacrime»
(cap. XXIII), ma per autocommiserazione, mescolata a egoismo.
2
Manzoni 1840-1842: cap. XXIII: «i suoi occhi, che dall’infanzia più non
conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, si coprì il
viso con le mani, e diede in un dirotto pianto [...]. Le sue lacrime ardenti cadevano
sulla porpora incontaminata di Federigo».
Questa domanda messa in bocca a Cavalcante potrebbe essere considerata un
3
omaggio reso da Dante all’amico Guido, che il poeta giudica non inferiore a sé,
ma che – spiega – è assente per altre ragioni.
4
Al ‘disdegno’ di Guido ho accennato in Perotti 2013: 46-50.
5
Sapegno, in Alighieri 1994: ad locum, 129.
6
Anche il nipote Anselmuccio chiama «padre» (v. 51) il conte, forse perché –
come suppone per es. Pézard in Alighieri 1976: ad locum – Dante ha seguìto
l’antica tradizione, già dei Romani, per cui il nonno restava sempre il pater
familias (cfr. l’Anchise virgiliano, etc.).
7
Altrettanto famosa, ma meno significativa, la stessa figura retorica in If. XIII
25: «Cred’io ch’ei credette ch’io credesse».
8
Cfr. Marchese 1978: 112: «[Francesca] snocciola con elegante fair play tutti
i princìpi canonici dell’etica amorosa cortese-cavalleresca, di cui sembra essersi
rimpinzata. I critici vi hanno ritrovato le regole del Trattato d’amore di André
Chapelain e analoghi ammaestramenti di fra Giordano da Pisa, di Aimeric de
Peguilhan e, ovviamente, di Guinizzelli» [cfr. qui sopra, nel testo]; «La psicologia
di Francesca ondeggia dunque fra la coscienza del male e il desiderio di
giustificarsi di una colpa tipicamente irrazionale come la lussuria».
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Lo rilevò già De Sanctis 1958: 50, cap. VI, 1817. L’Eneide: «E il “tantus
amor nostros cognoscere casus”? Ma s’a conoscer la prima radice / del nostro
amor tu hai cotanto affetto... (ivi, V, 124-125). Eccovi il traduttore di Virgilio. A
che distanza stanno dai due poeti il vecchi Caro e Leopardi ancor giovanetto!».
10
Cfr. Caretti 1951: 15: «[...] il racconto di Francesca si svolge con il
‘controcanto’ delle lacrime di Paolo e il commento sordo dell’inarrestabile
bufera».
11
Mi limito a ricordare il titolo di uno dei Canti del Leopardi, appunto Amore
e morte.
12
Merita di essere ricordato il commento di Steiner, in Alighieri 1940: ad
locum.: «Vedi nell’Amleto di Shakespeare, che il principe danese vagheggia di
uccidere lo zio, quando avrà l’anima ingombra di pensieri cattivi, per spegnerne
insieme il corpo e l’anima: atto III, scena III. Così poté fare Gianciotto e di questo
si duole Francesca».
Cfr. Deut. 32, 35: «Mea est ultio, et ego retribuam in tempore», cit. nel NT,
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103-105: «io userei parole ancor più gravi; / ché la vostra avarizia il mondo at-
trista, / calcando i buoni e sollevando i pravi» (cfr. Battaglia 1961: voce «ancòra»,
4. con valore di cong.); XX 27: «Ancor se’ tu de li altri sciocchi?»; XXVIII 7:
«S’el s’aunasse ancor tutta la gente»; XXX 82: «S’io fossi pur di tanto ancor
leggero»; etc.
17
Porena in Alighieri 1959: 60, nota finale al c. V, Dante e Francesca, osserva
che «quando pensiamo al marito confitto nel ghiaccio della Caina (nelle fiere
parole di Francesca verso di lui è la condanna che Dante gli assegna) vediamo che
Dante è stato molto più severo verso il tradito che verso i traditori»: per ciò che
è scritto nella parentesi, cfr. infra, §§ 4-5.
18
Carpi 2013: 15, si domanda «perché mai, comunque, per un delitto passio-
nale o in ogni modo per un atto di giustizia familiare (come allora era sentito dal
senso comune e dalla legge, e come la stessa Francesca doveva sapere benis-
simo), una condanna all’improprio cerchio dei traditori? Nella nuda vicenda, a
prescindere dalla pietas per gli amorosi desiri [...], Gianciotto era se mai il tradito,
non il traditore. Violento e tirannicamente spietato quanto si voglia, però traditore
no: dunque, nella logica stretta dell’episodio, destinabile piuttosto al sangue bol-
lente di Flegetonte come uomo di sangue e di crucci che non al ghiaccio della
Caina», e nella n. 4 (p. 33) puntualizza: «Tommaso, molto più avanzato della
corrente giurisprudenza, sosteneva nella Summa che solo il tribunale civile può
mettere a morte l’adultera zelo iustitie, mentre il marito agisce livore vindicte aut
odii motus, dunque dismisura di vendetta e d’odio, non tradimento. Altri hanno
opinato che il tradimento fosse consistito nel non aver dato loro il tempo di pen-
tirsi, ma la legge pretendeva che l’uccisione avvenisse proprio in actu adulterii!»
[cfr. qui sopra e n. 12] . Già la legislazione della Grecia antica, e segnatamente
di Atene, autorizzava il marito tradito a punire con la morte l’amante della moglie
colto in flagrante: ricordiamo l’esempio trattato nell’orazione di Lisia Per l’uc-
cisione di Eratostene, per cui cfr. Perotti 1989-1990: 43-48.
19
Destituita di fondamento, e comunque romanzesca, è la versione proposta
dal Boccaccio (1918: ad locum), e dall’Anonimo Fiorentino (1866: ad locum),
secondo cui Francesca sarebbe stata ingannata facendole credere che il futuro
marito sarebbe stato Paolo, di bell’aspetto, e non il fratello Gianciotto: questa
interpretazione – o piuttosto leggenda – non ha riscontro nel racconto della
donna, che presumibilmente vi avrebbe accennato, per offrire a se stessa una
qualche giustificazione dell’adulterio.
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Come adulterino fu l’amore fra Tristano (cfr. If. V 67) e Isotta, moglie di
Marco re di Cornovaglia, zio del cavaliere, con la tragica fine di Tristano (analoga
a quella di Paolo), che, secondo una versione della leggenda, lo zio fece uccidere
per il suo tradimento, con la conseguente morte di Isotta, che si trafisse il cuore
sul corpo del suo amante; secondo un’altra versione, Tristano, gravemente ferito
durante una spedizione, mandò a chiamare Isotta ‘la Bionda’, la sola in grado di
guarirlo, chiedendo che fossero issate sulla nave vele bianche se lei fosse stata a
bordo, nere se avesse rifiutato di andare da lui. La donna partì, ma la sposa di Tri-
stano, Isotta ‘dalle Bianche Mani’ – omonima della moglie di re Marco salvo che
per il soprannome –, avendo scoperto il loro amore, gli riferì, mentendo, che le
vele erano nere. Il cavaliere, credendo di essere stato abbandonato dall’amata, si
lasciò morire. Isotta ‘la Bionda’, arrivata da lui troppo tardi, morì a sua volta di
dolore. La storia delle vele bianche e nere fu con ogni probabilità mutuata in
qualche modo dal celebre mito di Egeo e del figlio Teseo che torna da Creta dopo
aver ucciso il Minotauro.
21
Non deve sfuggire la differenza, o senz’altro contrasto, tra «riso» (definito
«stilema cortese» dal Marchese 1978: 113) e il più realistico termine «bocca»
per indicare la stessa parte del corpo e lo stesso gesto, in cui è riconoscibile per
così dire una climax tra i due vocaboli, ossia tra il differente approccio all’amore
da parte delle due coppie di amanti: più idillico o etereo per Lancillotto e Ginevra,
più concreto e carnale per Paolo e Francesca.
22
L’effetto dell’amore sui due cognati è simile a quello descritto da Saffo
(peraltro ignota a Dante) nel celeberrimo fr. 31 V. (imitato, o piuttosto tradotto,
da Catullo, Carme 51, Ille mi par esse deo videtur): «khlorotéra dé poìas / émmi»
(«e sono più verde dell’erba») (vv. 14-15), dove l’amore produce sulla persona
innamorata un effetto fisico simile al pallore che colpisce i due amanti danteschi.
23
Analoga all’emozione rappresentata da Saffo nel fr. 31 V. (cfr. n. 22):
«tròmos dé / paîsan àgrei» («e un tremito mi afferra tutta») (vv. 13-14).
24
A meno di pensare che si tratti di una ‘zeppa’, come è – secondo me – quella
di poco precedente, «il grande Achille» (v. 65) [il corsivo è mio], dove l’aggettivo
mi pare inserito soprattutto a fini metrici.
25
Il Tristano riccardiano – così detto dal manoscritto conservato presso la Bi-
blioteca Riccardiana di Firenze, che ne riporta la versione migliore – è un ro-
manzo che narra le vicende di Tristano, cavaliere del ciclo arturiano: si tratta di
una rielaborazione in volgare toscano, databile tra la fine del XIII sec. e i primi
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del XIV, del francese Roman de Tristan, composto all’inizio del ’200, in cui si
parla dell’amore di Tristano e Isotta e della loro morte cruenta. Per il testo, cfr.
Heijkant: 1991 e Scolari: 1990.
26
Cfr. Cosmo 1930: spec. pp. 27, 48 s., 54 s.; cfr. pure Perotti 1993: 133 e nn.
10-11, anche per l’allegoria della «lonza» (If. I 32 ss.), probabilmente simbolo
della lussuria.
27
Un po’ come l’amore fra Tristano e Isotta è provocato da un filtro d’amore,
bevuto per errore dal cavaliere e fatto bere pure alla donna, con la conseguente
esplosione della passione tra loro.
28
Secondo il Pagliaro 1967: 141, nel verso 107 non si deve leggere altro che
«l’enunciazione di una legge di giustizia divina [...], poiché in Francesca non ci
può essere posto per manifestazioni di violenza e d’odio»; cfr. anche Perotti 1993:
131.
29
Cfr. Carpi 2013: 17: «[...]; chi ci uccise [...] lo fece per tradimento familiar-
politico, e dunque per lui la Caina come per i fratelli Alberti»: qualche notizia
sulla temperie politica nella Romagna della fine del ’200 è fornita dallo stesso
Carpi alla n. 6 (ivi: 33).
30
Cfr. Caretti 1951: 16: «La ‘pietà’ nasce non soltanto come conseguenza
dell’orrore suscitato dal racconto della morte violenta, ma anche e soprattutto
dal confronto tra la suggestione delle felici ore dell’amore, tra l’attrattiva di
quegli attimi così dolci e dimentichi, e la necessità presente e viva della pena
eterna, della inesorabile legge che da ogni parte preme e non concede respiro e
strazia nel profondo, sino al grido e alla bestemmia».
31
Dante accenna in non poche altre occasioni alle proprie lacrime, causate da
paura, commozione, dolore: If. I 92: «poi che lagrimar mi vide»; 3 24: «per ch’io
al cominciar ne lagrimai»; VI 58-59: «Ciacco, il tuo affanno / mi pesa sì, ch’a la-
grimar mi ’nvita» (cfr. V 116-117: «Francesca, i tuoi martìri / a lagrimar mi fanno
tristo e pio», già cit. al § 4); XX 25: «Certo io piangea, [...]»; XXIX 2-3: «[...]
avean le luci mie sì inebriate, / che de lo stare a piangere eran vaghe»; Pg. I 127:
«porsi ver’ lui le guance lagrimose»; XXIII 55-56: «“La faccia tua, [...], / mi dà
di pianger mo non minor doglia”»; XXX 52 ss.: «né quantunque perdeo l’antica
matre, / valse a le guance nette di rugiada, / che, lagrimando, non tornasser atre.
/ “Dante, perché Virgilio se ne vada, /non pianger anco, non pianger ancora; /
ché pianger ti conven per altra spada”»; 97-99: «lo gel che m’era intorno al cor
ristretto, / spirito e acqua fessi, e con angoscia / de la bocca e de li occhi uscì del
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petto»; XXXI 20: «fuori sgorgando lagrime e sospiri»; 34: «Piangendo dissi:
[...]»; Pd. XXII 107 s.: «[...] io piango spesso / le mie peccata e ‘l petto mi per-
cuoto»; ma mai, per quanto mi risulta, il turbamento è così intenso da provocarne
il deliquio.
Si noti una peculiarità non certo casuale: in 13 versi (da XXXIII 38 a 50) il
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Della regina è fatta menzione pure in Pd. VI 76 ss., dove ne è ricordato il
suicidio: «Piangene ancor la trista Cleopatra, / che, fuggendoli innanzi, dal co-
lubro / la morte prese subitana e atra». A proposito di questo personaggio in Ora-
zio, cfr. Perotti 2005: 152-162.
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Ancorché si trattasse del fratellastro decenne Tolomeo XIII, secondo la tra-
dizione ereditata dai faraoni. Ma non è certo che Dante fosse a conoscenza del
suo matrimonio, considerato che la sua fonte principale, Virgilio, non ne parla,
e anzi non la ricorda neppure nominatim, limitandosi, in segno di disprezzo, a de-
finirla «Aegyptia coniunx» (Aen. 8, 688); né si può dire quali altre opere storiche
che vi accennano fossero note a Dante. È dunque probabile che egli fosse al-
l’oscuro del fatto.
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Questo è il pensiero di Dante, che verosimilmente seguiva l’opinione del suo
‘maestro’ Virgilio, il quale considerava volontaria la fuga della donna con Paride;
ma secondo non pochi autori greci, che evidentemente Dante non poteva cono-
scere, Elena fu rapita dal giovane principe troiano, o persuasa da Afrodite a se-
guirlo; per non parlare della versione della ‘doppia Elena’ – proposta da Stesicoro
ed Euripide –, secondo la quale a seguire Paride a Troia non fu la vera regina, ma
un suo eidolon, mentre essa rimase in Egitto: sull’argomento, cfr. Perotti 2004-
2005: 393-415 e Perotti 2011: spec. § 4.
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Cfr. If. V 93: «poi c’hai pietà del nostro mal perverso» e 140: «sì che di pie-
tade / io venni men»: vedi Marchese 1978: 112: «Il turbamento di Dante, la fa-
mosa pietà diventa per lei comprensione e giustificazione, umano compatimento:
poi c’hai pietà...».
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Ricordiamo anche la veemente accusa di Enea contro di lei, quando la in-
contra durante la stessa notte e prova la tentazione di ucciderla per vendicare i
suoi (Aen. 2, 577 ss.): «scilicet haec Spartam incolumis patriasque Mycenas /
aspiciet, partoque ibit regina triumpho, / coniugiumque domumque patris nato-
sque videbit / Iliadum turba et Phrygiis comitata ministris? / occiderit ferro Pria-
mus? Troia arserit igni? / Dardanium totiens sudarit sanguine litus? / non ita»:
sull’argomento, cfr. Perotti 2014: 629-643.
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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