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Il silenzio e le lacrime di Paolo (‘If.’ V 82 ss.)

PIER ANGELO PEROTTI


Vercelli
pier.ang.perotti@alice.it

RIASSUNTO:
È una lettura per certi aspetti inedita dell’episodio di Paolo e Francesca, con
l’aggiunta di osservazioni sugli altri personaggi ricordati nel canto V dell’Inferno
e sul coinvolgimento di Dante stesso – forse anche autobiografico – nella vi-
cenda. In particolare, si tenta di decifrare il pianto dell’uomo in contrasto con la
forza d’animo della sua amante, che invece rievoca senza lacrime la loro storia
d’amore, con la sua conclusione tragica, preannunciando la punizione del marito
nella Caina. La sequenza, nella quale è messo in risalto l’aspetto stilnovistico,
presenta pure, nemmeno troppo in filigrana, qualche particolare che induce a ri-
conoscere anche elementi passionali nel rapporto tra i due amanti, tant’è vero
che essi sono condannati tra i lussuriosi.
PAROLE CHIAVE: Paolo, Francesca, lussuriosi, Caina.

ABSTRACT:
From a certain point of view this is a new reading of the episode of Paul and
Frances, with the addition of observations about other characters mentioned in
canto V of Inferno and about the involvement – perhaps even autobiographic –
of Dante himself in the event. In particular, the author tries to explain the man’s
weeping in contrast with the strength of heart of his lover who, on the contrary,

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recalls without tears their love story, with its tragic end, announcing her hus-
band’s punishment in the Caina. The sequence, where the ‘dolce stil nuovo’ as-
pect is in evidence, presents too, not even too much hidden, some details inducing
to recognize even elements of passion in the relation between the two lovers, so
that they are damned among the lascivious people.
KEYWORDS: Paul, Frances, lecherous, Caina.

PREMESSA

Su Paolo e Francesca esistono centinaia, se non migliaia, di studi, più


o meno pregevoli; ma forse non è stato ancora scritto tutto, né si potrà
mai, credo, dire una parola definitiva sull’argomento. Le difficoltà prin-
cipali riguardano il pianto di Paolo e il suo silenzio a fronte del dramma-
tico racconto della cognata, nonché il presunto spirito di vendetta di
quest’ultima, oltre all’interpretazione dell’espressione «e ’l modo ancor
m’offende» (If. V 102). Questa coppia di adulteri, e dunque di lussuriosi,
è considerata dal poeta la più significativa tra i dannati ricordati nel canto,
più di una nota regina orientale omicida, sfrenatamente lussuriosa e ad-
dirittura incestuosa, come Semiramide, più di personaggi della storia o
della mitologia classica (Didone, Cleopatra, Elena, Achille e Paride) e del
ciclo arturiano (Tristano, oltre a Lancillotto, cavaliere dello stesso ciclo,
citato indirettamente). Nell’episodio stupisce anche il deliquio del poeta,
con cui si conclude il canto, che si aggiunge alle sue lacrime: si tratta di
una reazione unica nel poema, dove peraltro Dante piange più di una
volta, ma mai la sua commozione è così intensa da farlo svenire.

1. Se il pianto femminile non ha nulla di anomalo, in quanto è una pe-


culiarità proverbiale del ‘gentil sesso’, quello maschile è in genere con-
siderato segno di debolezza o di straordinaria intensità di un sentimento,
sia nella vita reale sia nella letteratura. Per esempio, nei Promessi sposi
Lucia indulge spesso alle lacrime, mentre Renzo non piange quasi mai,1
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e le lacrime dell’innominato non sono indice di fragilità, ma il segno


anche esteriore della metamorfosi avvenuta in lui.2
Nell’Inferno dantesco sono meritevoli di menzione – oltre al caso di
Paolo Malatesta – due episodi in cui personaggi maschili si abbandonano
al pianto: mi riferisco a Cavalcante e ai figli del conte Ugolino.
Il primo, vedendo il solo Dante muoversi per l’inferno benché vivo,
senza la compagnia del suo Guido, ha una reazione che merita un esame,
per quanto sintetico: secondo Cavalcante, la possibilità di visitare il «cieco
carcere» (If. X 58-59) dipende soltanto dall’«altezza d’ingegno» (v. 59),
e sotto questo aspetto, per orgoglio paterno considera Guido non inferiore
a Dante.3 Di fronte alla sibillina, tormentata frase di Dante «Da me stesso
non vegno: / colui ch’attende là, per qui mi mena / forse cui Guido vostro
ebbe a disdegno» (vv. 61-63),4 il genitore si preoccupa soltanto della pos-
sibile morte del figlio, non solo per il normale amore paterno, più che le-
gittimo, ma soprattutto per l’insopportabile timore che il figlio sia
eventualmente morto senza pentirsi, e che dunque ben presto possa con-
dividere la pena a lui assegnata. Ecco perché rivolge la prima domanda a
Dante «piangendo» (v. 58): non tanto per la sofferenza della pena infer-
nale, cui sembra in qualche modo rassegnato, bensì per il tormento che
prova nel pensare che l’amato figlio sia o stia per essere anch’egli dannato
come lui.
Nell’episodio del conte Ugolino (If. XXXIII 1 ss.), lo stesso dannato di-
chiara a Dante: «parlar e lagrimar vedrai insieme» (v. 9), ma, al di là di
questo preannuncio, non viene indicato che egli pianga durante la narra-
zione della fine sua e dei figli; invece nella torre della Muda (‘torre della
fame’) in cui essi sono rinchiusi, i figli piangono («pianger senti’ fra ’l
sonno i miei figliuoli / ch’eran con meco, e dimandar del pane») (vv. 38-
39), ma non il padre, che giustifica questa sua apparente insensibilità, con
l’indurimento dell’animo: «Io non piangea, sì dentro impetrai: / piangevan
elli; [...] / Perciò non lacrimai né rispuos’io» (vv. 49-52).
Mi sembra importante rilevare che l’incontro di Dante con Cavalcante
è una sorta di parentesi all’interno del confronto del poeta con Farinata,
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che dimostra, con le parole e l’atteggiamento, una forte personalità, per-


fino a dispetto delle sofferenze dell’inferno: «ed el s’ergea col petto e con
la fronte / com’avesse l’inferno a gran dispitto» (If. X 35-36), «guar-
dommi un poco, e poi, quasi sdegnoso» (v. 41), «ond’ei levò le ciglia un
poco in suso» (v. 45) – che indica «l’altero cruccio del ghibellino» –,5
«Ma quell’altro magnanimo, a cui posta / restato m’era, non mutò aspetto,
/ né mosse collo, né piegò sua costa» (vv. 73-75). Questo atteggiamento
è in forte contrasto con la condotta di Cavalcante, il quale emerge dal-
l’arca soltanto «infino al mento» (v. 53) (a differenza di Farinata, che
«s’ergea col petto e con la fronte»: cfr. qui sopra), e soprattutto piange –
avendone peraltro, come abbiamo poc’anzi rilevato, ragioni più che fon-
date –, mentre l’Uberti, libero da simili apprensioni, si mantiene saldo
nella sua dignitosa fierezza.
Analoga la situazione relativa al conte Ugolino e ai suoi figli (in realtà
Gaddo e Uguccione figli, Anselmuccio e Nino nipoti):6 se anche Dante,
come gli storici coevi, li riteneva tutti figli del conte e dunque tutti di gio-
vane età – ossia più facilmente propensi alle lacrime –, resta la contrap-
posizione tra il loro pianto e il fiero orgoglio del padre.
Insomma, in entrambe le situazioni, a uno o più personaggi in lacrime
è affiancato un uomo di carattere fermo, il che non è, a mio parere, ca-
suale: la contrapposizione tra i due atteggiamenti opposti serve ad accen-
tuare ciascuna delle due condizioni – un po’ come il buio evidenzia
maggiormente la luce.

2. È perfin troppo facile fare dell’ironia sul personaggio dantesco di


Paolo, che nell’episodio di If. V 82 ss. tace e altro non fa che piangere,
mentre la sua amante Francesca narra al poeta la vicenda che li portò alla
morte. Mutatis mutandis, si potrebbe usare un criterio analogo – e qual-
cuno l’ha fatto, magari durante le lezioni scolastiche, per dare un tocco
sdrammatizzante alla vicenda – nei Promessi sposi, dove Lucia indulge
frequentemente alle lacrime. Naturalmente altro è il pianto di Paolo, altro
quello di Lucia, ma, se quello della promessa sposa manzoniana ha evi-
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denti giustificazioni – per quanto non sia difficile rilevarvi un eccesso –,


non ne mancano neppure all’amante dantesco, così come è perfettamente
comprensibile il suo silenzio nel corso dell’episodio.
Osserviamo che Francesca non accenna mai alla sua condizione di
sposa, quasi che la morte sua e di Paolo non sia la conseguenza del tradi-
mento, e soprattutto che essa sembra far ricadere la responsabilità della
sua tresca sull’Amore, ma non l’amore dei sensi, che conduce all’adulte-
rio – una colpa e un peccato –, bensì l’amore stilnovistico: i versi «Amor,
ch’al cor gentil ratto s’apprende» (If. V 100) e «Amor, ch’a nullo amato
amar perdona» (v. 103) (si noti, in questo verso, l’espressivo poliptoto)7
altro non sono che la ripresa del concetto di Guido Guinizelli, enunciato
nella canzone Al cor gentil rempaira sempre Amore – considerato il ‘ma-
nifesto’ del Dolce stil novo –, e dello stesso Dante, formulato nel sonetto
Amore e ’l cor gentil sono una cosa (Vita nova, XX). Eppure l’amore stil-
novistico «non è peccato, ma principio di purezza e di elevazione spiri-
tuale, non contrasta quindi con le leggi divine» (Pazzaglia 1972: 144),
mentre quello tra Paolo e Francesca è un rapporto d’amore passionale,
come risulta chiaramente dalla combinazione dei versi «Noi leggiavamo
un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse» (If. V 127-128)
– dove è ricordato il cavaliere della Tavola rotonda, amante della regina
Ginevra, sposa di re Artù – con «Quando leggemmo il disiato riso / esser
basciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, / la
bocca mi basciò tutto tremante» (vv. 133-136), seguiti dalla reticenza di-
screta «quel giorno più non vi leggemmo avante» (v. 138), che anticipa,
come è stato rilevato da quasi tutti i commentatori, la celebre battuta al-
lusiva, quasi epigrammatica, del Manzoni «La sventurata rispose» (I pro-
messi sposi, cap. X).
Le parole che il poeta mette in bocca a Francesca oscillano tra l’amore
cortese e la passione sensuale, esibendo il primo per giustificare e ingen-
tilire la seconda.8 Ma anche in questo si può sospettare che una delle fonti
di ispirazione di Dante sia stato il suo ‘maestro’, ‘duca’, ‘segnore’ e ‘dot-
tore’ Virgilio. Il canto è denso, forse più di altri, di reminiscenze, sia con-
tenutistiche sia formali, dell’Eneide, a cominciare da «Ma s’a conoscer la
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prima radice / del nostro amor tu hai cotanto affetto» (vv. 124-125), che
più che l’imitazione è la traduzione quasi letterale delle parole di Enea
«sed si tantus amor casus cognoscere nostros» (Aen. 2, 10).9 Ma un altro
passo virgiliano, che pure non corrisponde né formalmente né concettual-
mente, presenta particolarità di cui forse Dante ha tenuto conto per questo
episodio: mi riferisco all’incontro di Enea con Didone durante la nékyia
del VI libro, dove l’eroe tenta di giustificare il suo abbandono della donna.
Le due situazioni sono per certi aspetti opposte o speculari: (a) la regina
manifesta per il troiano il suo rancore – o piuttosto indifferenza, senti-
mento forse peggiore dell’odio –, che esprime tacendo e ignorando colui
che aveva amato («illa solo fixos oculos aversa tenebat», etc.: v. 6, 469
ss.), mentre Enea è tuttora innamorato (cfr. «dulcique adfatus amore est»:
v. 6, 455); viceversa Paolo e Francesca si amano tuttora, dato che stanno
tra loro vicini (cfr. «Quali colombe», etc.: v. 82 ss.): insomma, Didone ha
superato e cancellato il sentimento per l’eroe straniero, ritornando al ma-
rito Sicheo, che aveva tradito infrangendo il giuramento fatto a lui, pur de-
funto (cfr. «L’altra è colei che s’ancise amorosa, / e ruppe fede al cener di
Sicheo», If. V 61-62) (cfr. Perotti 2004: § 5; Perotti 2007: § 4); (b) Enea
piange per tutto il tempo dell’incontro («demisit lacrimas»: vv. 6, 455;
«lacrimasque ciebat»: v. 468; «prosequitur lacrimis longe»: v. 476), men-
tre parla per esporre le proprie ragioni; anche Paolo piange, ma è testi-
mone muto del racconto dell’amante, e le sue lacrime fanno da
contrappunto alle parole della donna.10 Inoltre, come l’impulso al senti-
mento della regina di Cartagine è dato da Cupido – a ciò indotto da Ve-
nere, madre di Enea, con la complicità di Giunone –, così l’attrazione tra
Paolo e Francesca è provocata da Amore, che da spirituale si trasforma in
carnale.
Anche in questo episodio, come nella vicenda virgiliana di Enea e Di-
done nel IV libro, ricorre il ben noto rapporto éros – thànatos = amore –
morte,11 come risulta chiaramente dall’accostamento «Amor condusse noi
ad una morte» (v. 106).

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3. L’ultimo verso qui citato è seguìto da «Caina attende chi a vita ci


spense» (v. 107), affermazione che merita qualche approfondimento.
Come già accennai (cfr. Perotti 1993: 129-134), il dubbio fondamentale
è se queste parole di Francesca rispecchino il pensiero di Dante o se le
siano attribuite come giustificazione indiretta della sua condotta.
Com’è noto, la Caina è la zona del IX cerchio (Cocito) in cui – tra i
‘frodolenti in chi si fida’ – sono puniti i traditori dei congiunti (If. XXXII
31-69): vi si trovano i fratelli Napoleone e Alessandro degli Alberti, Mor-
dret o Mordrec figlio o nipote di re Artù, Focaccia de’ Cancellieri, Sassolo
Mascheroni e Camicione de’ Pazzi (cfr. Perotti 2015: 101-103); natural-
mente, come anticipato da Francesca («Caina attende ...», v. 7), non vi
compare suo marito Gianciotto, che uccise lei e il suo amante Paolo (di
lui fratello), perché morì nel 1304, e perciò era ancora in vita nel 1300,
anno in cui si sarebbe svolto il viaggio ultraterreno di Dante, per quanto
altri personaggi (per es. frate Alberigo, Branca Doria [If. XXXIII 118 ss.],
Bonifacio VIII [If. XIX 53], etc.) siano stati surrettiziamente inseriti tra i
dannati pur essendo ancora vivi nel 1300. Quello di Francesca è dunque
soltanto un auspicio, provocato non tanto da brama di vendetta sic et sim-
pliciter (cfr. infra, § 4 e n. 28), bensì piuttosto da rancore perché, ucci-
dendo repentinamente i due amanti, ha precluso loro la possibilità di
pentirsi del peccato commesso e li ha quindi condannati alla pena eterna:12
la vendetta sarà compiuta da Dio sprofondando l’omicida nella Caina,
come la vittima pronostica.13 Così si dovrebbe intendere il pensiero della
donna se si interpreta l’emistichio «e ‘l modo ancor m’offende» (If. V
102) nel senso di ‘il modo in cui è stato compiuto l’eccidio’ – ossia all’im-
provviso, e senza l’opportunità di una qualsiasi giustificazione da parte
degli amanti –14 è un’ulteriore offesa, oltre all’uccisione in sé’, oppure ‘...
mi danneggia tuttora’, per le pene infernali che subisco.15 In buona so-
stanza, mi pare rivestire un’importanza discriminante il valore di «ancor»,
cioè se si debba intendere come avverbio sinonimo di ‘tuttora’, o con-
giunzione equivalente ad ‘anche’, posposta al termine «modo» cui si ri-
ferisce.16
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È pur vero che entrambe le interpretazioni sembrano sostenibili, e co-


munque non in contrasto tra loro (cfr. Parodi 1956: 35), per cui si potrebbe
sospettare che il poeta abbia usato di proposito questa forma per lasciare
nell’ambiguità il senso della frase. Tuttavia va rilevato che se si intende
«ancor» col valore di congiunzione nel senso di ‘anche’, si deve escludere
l’esegesi di Buti, Landino, Pagliaro, etc. (cfr. n. 15), perché in tal caso la
parafrasi della terzina 100-102:
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende

sarebbe, come suggerisce il Sapegno, «Amore, che trova rapido accesso


in cuore gentile, prese costui della bella persona, che mi fu tolta colla vio-
lenza, e il modo, l’intensità, di questo amore fu tale che ancora mi offende,
mi vince» (in Alighieri 1994: ad locum), dove il senso di ‘anche’ è inap-
propriato. Non v’è dubbio che il sentimento tra i due amanti non si sia
affievolito neppure dopo la morte, secondo la dichiarazione di Francesca
che l’amore di un tempo persiste con la stessa forza nell’inferno: essi
muovono di conserva, come due colombe («Quali colombe dal disio chia-
mate», v. 82), gli animali tradizionalmente considerati simbolo del-
l’amore; ma Francesca dichiara la persistenza dell’amore nella terzina
successiva al verso in esame, 103-105:
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona,

ribadendo, in pratica, lo stesso concetto che avrebbe espresso – secondo


l’interpretazione di Buti, Landino, Pagliaro e altri (cfr. n. 15) – nel v. 102:
mi pare una ridondanza insostenibile, e perciò non mi sento di accogliere
tale esegesi. Si noti, infine, la contiguità, nello stesso verso, di «che mi fu
tolta» e di «e il modo ancor m’offende» (v. 102), che induce a presumere
che la seconda frase si riferisca alla precedente, e non alla principale del
periodo, come sostengono i dantisti qui sopra citati.
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4. Torniamo al tema delle lacrime di Paolo, cui ho accennato al § 1.


Dante riferisce come «mentre che l’uno spirto questo disse, / l’altro pian-
gea» (If. V 139-140): pare un dettaglio di carattere meramente descrittivo,
che può sembrare vuoi la spiegazione del totale silenzio dell’uomo, vuoi
la causa dello svenimento del poeta, impietosito sino al deliquio da queste
lacrime disperate (If. V 139-142):
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.

Il pianto di Paolo – «uno dei tratti di più alta poesia della Commedia»,
secondo il Momigliano (in Alighieri 1946: ad locum) – è stato giudicato
«pur esso un commento, un ridimensionamento commosso e angoscioso
del discorso di Francesca, per il modo come viene introdotta e evidenziata
la sua umanità» (Giacalone in Alighieri 1968: ad locum).
Tuttavia le sue lacrime possono essere decifrate anche con altri
argomenti: è necessario fare un passo indietro, ossia esaminare la
situazione che indusse Gianciotto al duplice omicidio. Il riferimento alla
Caina, che secondo Francesca ‘attende’ l’assassino dei due cognati, indica
chiaramente che la donna considera traditore dei congiunti – la moglie e
il fratello – il marito, e dunque tale tradimento, spinto fino all’omicidio
di una persona del suo stesso sangue e della donna che ha unito a sé come
un solo corpo e una sola anima, è appunto meritevole della pena nella
prima zona di Cocito. Ma Francesca non considera il fatto che i primi a
tradire il congiunto sono stati proprio lei e il suo amante, che hanno
violato il ‘patto’ di fedeltà e lealtà, lei in quanto moglie, lui in quanto
fratello.17 Il ‘tradimento’ di Gianciotto è conseguenza diretta dell’adulterio
dei due drudi, secondo un ‘codice d’onore’ in uso nei secoli passati,18
peraltro valido sino a pochi decenni or sono: si pensi al cosiddetto ‘delitto
d’onore’, che, almeno in Italia, prevedeva una pena assai ridotta rispetto
a un comune omicidio.
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Non pare superfluo domandarsi se la responsabilità dell’adulterio


debba essere equamente suddivisa tra Paolo e Francesca, oppure se sia
più grave il tradimento del fratello o della consorte. La donna, bellissima
figlia di Guido da Polenta, signore di Ravenna, fu data in sposa a Gian-
ciotto Malatesta, signore di Rimini – uomo rozzo, deforme e zoppo (Gian-
ciotto = ‘Giovanni ciotto’, ossia ‘zoppo’) –, per ragioni meramente
politiche, vale a dire per sancire il ristabilimento della pace tra le due si-
gnorie, dopo un lungo periodo di lotte tra esse.19
Un matrimonio imposto o almeno combinato, senza amore, e per di
più con un uomo sgraziato e volgare, non poteva certo essere felice, e fu
in qualche modo la causa dell’adulterio della bella moglie: insomma, se
questa non è una piena giustificazione, è certamente una circostanza at-
tenuante, almeno parzialmente. Non altrettanto si può dire di Paolo, che
non ha scusanti per il suo tradimento del fratello, se non una mera attra-
zione, anche fisica, per la cognata, favorita dalla lettura del libro che de-
scriveva l’amore tra Lancillotto e Ginevra – favorito dal siniscalco
Galehaut, il ‘Galeotto’ dantesco –, anch’esso adulterino,20 dato che la re-
gina era sposa di re Artù, quello stesso personaggio ricordato, per quanto
indirettamente, nella Caina come vittima del tradimento di un congiunto
(cfr. supra, § 3).
Dante ha in certo senso tentato di mascherare il vincolo d’amore sen-
suale tra i due cognati con i riferimenti all’amore stilnovistico (cfr. supra,
§ 2), ma in realtà la citazione del «libro galeotto» in cui si narrava il rap-
porto amoroso tra la sposa e il paladino di re Artù, non certo idealizzato
né casto (cfr. If. V, 133-134: «Quando leggemmo il disiato riso / esser ba-
ciato da cotanto amante»), nonché l’ammissione che «questi [...] / la bocca
mi baciò tutto tremante», vv. 135-136), lasciano intuire – o meglio chia-
riscono senza lasciare possibili dubbi – il tipo di legame tra i due, più sen-
suale che spirituale.21 A ciò si aggiunga la frase «scolorocci il viso»22 della
terzina If. V,130-132:
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse,

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con la quale è ben descritto lo smarrimento d’amore che turba i sensi oltre,
o ancor più, che l’anima; così come l’agg. «tremante» nel v. 136, «la
bocca mi baciò tutto tremante», indica un’agitazione dei sensi.23 Un altro
particolare, apparentemente di poco momento, è riconoscibile nella frase
«prese costui de la bella persona / che mi fu tolta» (101-102): l’agg.
«bella» potrebbe essere letto come una forma di immodestia di Francesca,
che anche dopo la morte non rinuncia alla frivola vanità – tipicamente o
soprattutto femminile – della lode del proprio aspetto fisico;24 ma è più ra-
gionevole considerare l’intera espressione «bella persona» come un’altra
allusione all’aspetto anche fisico dell’amore tra i due cognati. L’Amore
catturò Paolo non solo per un’affinità spirituale, ma grazie al bel corpo di
Francesca, ossia non soltanto per un incontro di anime: a questo proposito
ricordo il commento del Sapegno (in Alighieri 1994: ad locum) che scrive:
«prese ecc.: fece innamorare costui della mia bellezza fisica. – persona =
“corpo”: cfr. Inf., VI, 36; XXI, 97; XXXI, 43; Purg., II, 110; III, 118; XIV,
19; Par., XIV, 44, ecc.; Tristano riccardiano:25 “vedea... ch’elli perde-
rebbe l’anima e la persona”». Il Sapegno rileva opportunamente questo
particolare, pur senza trarne le conseguenze che io invece ho qui sopra
presentato.
Da tutto ciò deriva l’imbarazzo del poeta nel palesare il suo giudizio,
indubbiamente difficile da esprimere – nell’alternativa tra la condanna e
una qualche giustificazione, in quanto «omnia vincit Amor» (Verg.,
ecl.10, 69a) –, perché, oltre che condizionato da un debito di riconoscenza
nei confronti della famiglia Da Polenta cui apparteneva Francesca (cfr.
Perotti 1993: 132-133), forse era influenzato anche da qualche traccia di
autobiografismo, in quanto non si può escludere che Dante stesso fosse
soggetto al peccato punito in questo II cerchio dell’inferno.26 È dunque na-
turale e spontanea la sua pietà, «nel senso della commozione che accom-
pagna uno stato di perplessità morale e intellettuale» (Sapegno, in
Alighieri 1994: ad locum), forse causata anche – ripeto – dall’essere egli
reo dello stesso peccato, fattori che, combinandosi nel suo animo, ne pro-
vocano dapprima la dichiarazione di condivisione del dolore della donna
– ma solo, si badi bene, della donna: cfr. infra, § 6 – («Francesca, i tuoi
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martìri / a lagrimar mi fanno tristo e pio», vv. 116-117), poi addirittura lo


svenimento (cfr. qui sopra). Alle parole commoventi di Francesca si ag-
giunge il pianto di Paolo, la cui disperazione si esprime solo attraverso le
lacrime, che sono come un silenzioso contrappunto all’intera sequenza, e
alla fine il dolore è tale per il poeta da farlo cadere in deliquio.
Torniamo dunque al quesito iniziale: perché i due amanti si scambiano
i tradizionali ruoli di genere, ossia perché la donna, proverbialmente de-
bole, dimostra forza di carattere narrando il dramma, mentre l’uomo, che
dovrebbe essere più forte d’animo, si limita a piangere in silenzio?
È importante ricordare che l’amante di Francesca non è un uomo qual-
siasi, ma è il fratello di Gianciotto, e dunque, a rigor di termini, traditore
di un congiunto, a lui legato da stretti vincoli di sangue. Anche Francesca
ha tradito il marito, ma il suo rapporto con lui è, direi, ‘contrattuale’, non
‘naturale’ come quello di Paolo: di conseguenza la colpa di costui appare
più grave di quella della donna. Paolo, in quanto traditore di un consan-
guineo, dovrebbe essere dunque meritevole non del cerchio dei lussuriosi,
ma della Caina, dove peraltro le colpe e le relative pene sono molto più
gravi; ma in questa zona di Cocito sono puniti soltanto individui colpevoli
di omicidio o di tentato omicidio in danno di congiunti, come risulta dal-
l’elenco fornito al § 3. Invece il peccato dei due drudi è soltanto l’adulte-
rio, per quanto consumato in danno di un familiare.
Francesca non sembra sentirsi colpevole del peccato di lussuria, e nella
fattispecie di adulterio, sia perché era stata sacrificata alla ragion di Stato,
con un matrimonio combinato e a lei sgradito, sia perché non aveva potuto
resistere alla passione per il cognato, instillata in lei da «Amor, ch’a nullo
amato amar perdona» (V 103) – scusante simile a quella invocata da non
poche eroine classiche, come Pasifae, Elena, Didone (ricordate, le due ul-
time, in questo canto), etc., la cui passione amorosa era attribuita a un in-
tervento soprannaturale –,27 oltre alla causa occasionale del libro ‘galeotto’
la cui lettura è il detonatore che fa esplodere il sentimento già latente tra
i due («ma solo un punto fu quel che ci vinse», v. 132). Queste sue giu-
stificazioni, espresse o sottintese, o comunque il rifiuto della sua piena
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Pier Angelo PEROTTI Il silenzio e le lacrime di Paolo

responsabilità, provocano anche la maledizione profetica che essa scaglia


contro il marito: «Caina attende...» (v. 107), per quanto espressa in forma
puramente enunciativa. Potrebbe sembrare un velato desiderio di ven-
detta, che tuttavia male pare addirsi a una donna presentata come
un’anima traboccante d’amore, ancorché illecito: ecco perché si può du-
bitare che Francesca provi un profondo impulso di odio per il marito tra-
dito, ma che la frase ora citata indichi soltanto, o soprattutto, la distaccata
previsione della pena che Gianciotto (mai ricordato per nome, si badi
bene) dovrà scontare per il suo gesto.28
Viceversa Paolo sembra percepire l’aggravante della sua colpa di adul-
tero, dovuta non solo al fatto che fu egli a prendere l’iniziativa del rap-
porto lussurioso con la cognata (cfr. v. 136: «la bocca mi baciò tutto
tremante»), ma soprattutto alla consanguineità con il fratello tradito; è pe-
raltro verosimile che senta, malgrado i suoi torti, di essere stato a sua volta
vittima del tradimento di Gianciotto, non solo perché l’adulterio potrebbe
essere stato un pretesto per eliminare, per ragioni politiche e di potere, il
fratello,29 ma anche in quanto da lui ucciso in quel particolare momento,
in stato di peccato. Così si spiegano il suo silenzio e le sue lacrime: egli
tace perché l’ammissione della sua colpa sarebbe più grave rispetto a
quella dell’amante, per la ragione testé indicata, e perché non potrebbe in-
vocare una ‘vendetta’ postuma nei confronti dell’omicida, come invece si
potrebbe sospettare – ma a torto (cfr. qui sopra) – che faccia la donna;
piange perché, per la stessa ragione, si sente più responsabile di France-
sca, la quale almeno può invocare la provocazione per la propria condotta:
il matrimonio imposto con un uomo ripugnante.

5. Dante non può non essere combattuto tra la sua posizione di giudice
che segue la legge cristiana e il sentimento di pietà,30 ma non sembra del
tutto neutrale, forse perché si ritiene colpevole di un analogo peccato di
lussuria, tant’è vero che proprio la compassione – nel senso etimologico
di cum + patior, ossia ‘partecipare della sofferenza di qualcuno’ – lo fa ad-
dirittura svenire. Eppure il poeta, pur mettendo in bocca a Francesca l’ana-
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Tenzone 18 2017

tema più volte ricordato, non colloca in anticipo Gianciotto nell’inferno


(segnatamente nella Caina), come fa per altri personaggi (cfr. supra, § 3),
perché con tale inserimento – pur senza assolvere gli adulteri – dichiare-
rebbe la propria condanna dell’omicida.
Se la frase di Francesca «e ’l modo ancor m’offende» (v. 102) va intesa
come la interpreta la maggior parte degli studiosi, ovvero ‘mi nuoce tuttora,
per la punizione che subisco, dato che non ho avuto il tempo di pentirmi’
(cfr. supra, § 3), la si deve considerare una sorta di difesa della donna da
parte di Dante, che in quanto peccatore (e forse – ripeto – di colpe affini)
vuole magari sottolineare la possibilità, per i lussuriosi, di pentirsi e dunque
di evitare «la bufera infernal, che mai non resta» (If. V 31).
Non si tratta dunque, come potrebbe apparire a una lettura superficiale,
di debolezza di Paolo, che anzi restando in disparte, quasi si vergognasse,
e comunque tacendo e piangendo, manifesta la presa di coscienza della
sua colpa, che – come ho illustrato al § 4 – egli sente più grave di quella
di Francesca. Per assumere le proprie responsabilità circa il peccato com-
messo, con la relativa aggravante di cui sopra, ci vuole coraggio, appunto
quello che Paolo sembra dimostrare con il suo atteggiamento. Del resto,
il pianto unito allo svenimento del poeta stesso, determinati da partecipa-
zione al dolore altrui (ma ricordiamo la mia ipotesi relativa all’autobio-
grafismo: cfr. § 4), è un unicum.31 Eppure in If. XXXIII 42 il conte
Ugolino, con le parole «E se non piangi, di che pianger suoli?», in qualche
modo accusa Dante, di fronte alla tragedia sua e dei suoi figli, di insensi-
bilità o di «impassibilità» (Sapegno in Alighieri 1994: ad locum), mentre
la giovane età di questi e soprattutto la loro innocenza dovrebbero provo-
care in lui sentimenti di pietà e di commozione almeno pari, se non supe-
riori, a quelli che prova per Francesca.32 Ma nella sequenza di Ugolino tali
emozioni sono sostituite dall’invettiva finale («Ahi Pisa..», XXXIII 79
ss.), perché nel poeta la collera provocata in lui dal senso di giustizia e
umanità prevale su ogni altro sentimento.
6. Non mi risulta che qualche commentatore abbia rilevato un dettaglio
che, se esaminato con acribia, può offrire una lettura originale con risvolti
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Pier Angelo PEROTTI Il silenzio e le lacrime di Paolo

inaspettati. Nessuno dei lussuriosi/adulteri maschi citati da Dante – le


ombre «ch’amor di nostra vita dipartille»33 (If. V 69) – è sposato, ad ecce-
zione proprio di Paolo, marito di Orabile Beatrice dei conti di Ghiaggiolo:
né Achille (che sarebbe morto a causa dell’amore per Polissena)34 (65-66),
né Paride («Paris»), chiunque egli sia35 (v. 67), né Tristano (che, quando
s’innamorò di Isotta ‘la Bionda’, non era ancora sposato con Isotta ‘dalle
Bianche Mani’ (cfr. n. 20), e comunque pare che il matrimonio con la mo-
glie non fosse stato consumato); perfino Lancillotto (v. 128) – che pure
non è citato tra i dannati, perché la sua morte non fu conseguenza di amore,
ma è ricordato soltanto per il «libro galeotto» –, anch’egli colpevole di
adulterio (cfr. supra, § 4), non aveva moglie. Ne deriva che l’adulterio di
tutti costoro non è duplice, nel senso che non hanno tradito sia la propria
consorte sia il marito dell’amante, ma univoco, perché entrambi gli inna-
morati hanno tradito la fiducia di una sola persona (addirittura, nel caso di
Achille e Polissena non si tratta di adulterio, perché nessuno dei due era co-
niugato). Invece Paolo aveva moglie, e questa aggravante potrebbe essere
un’altra delle cause del suo pianto; ma anche Francesca è adultera nei con-
fronti di due persone – il proprio marito e la moglie dell’amante –, così
come Paolo; però costui, tradendo la propria moglie e il marito del-
l’amante, commette un crimine più grave, perché il marito tradito è suo
fratello, e dunque il tradimento è nei confronti di un consanguineo.
È assai rilevante – per il diverso rapporto del poeta con ciascuno dei
due dannati – che nei già citati vv. 116-117 egli dica «Francesca, i tuoi
martìri etc.», ignorando sostanzialmente i tormenti cui è sottoposto anche
l’amante: in altre parole, Dante non usa mai i termini ‘voi’ o ‘vostri’, ma
si rivolge esclusivamente a Francesca, quasi che Paolo non fosse presente.
Se costui è più colpevole della donna – come ho chiarito in precedenza –
, è evidente che il dolore di lei, meno responsabile, meriti una maggiore
partecipazione da parte del poeta, anche per l’attenuante già presentata
supra, § 4, vale a dire il matrimonio imposto con Gianciotto, a lei tutt’al-
tro che gradito; senza contare il trattamento, che potremmo definire ‘di fa-
vore’, di Dante nei confronti di Francesca per gratitudine verso i signori
Da Polenta, famiglia d’origine della donna.
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Tenzone 18 2017

7. Esaminiamo ora la condizione delle donne nominate da Dante tra le


lussuriose.
La prima è Semiramide, regina degli Assiri, la quale
a vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta
(vv. 55-57):

ma quando si macchiò di crimini infami – non solo legati alla lussuria –36
era già vedova del re Nino, e dunque, pur essendo meritevole a pieno ti-
tolo della collocazione nel II cerchio dell’inferno, non era colpevole di
adulterio.
Segue Didone, «colei che s’ancise amorosa, / e ruppe fede al cener di
Sicheo» (vv. 61-62),37 neppure essa adultera stricto sensu, per quanto
avesse violato il giuramento di fedeltà al marito Sicheo, che avrebbe do-
vuto perdurare anche dopo la morte di lui; ma si tratta, come ognun vede,
di un tradimento soltanto alla memoria, e comunque singolo, dato che al
momento Enea era vedovo.
La terza è Cleopatra,38 che il poeta si limita a definire «lussuriosa» (v.
63), anch’essa morta suicida: non va dimenticato che essa, che sedusse
prima Cesare e poi Antonio, aveva comunque marito,39 così come ave-
vano moglie i suoi due amanti. È dunque, in questo elenco, la sola donna
doppiamente adultera, allo stesso modo dei due condottieri romani, oltre
a Francesca.
L’ultima donna di questa categoria, Elena (vv. 64-65), è adultera sin-
golarmente,40 avendo tradito il marito ma non l’inesistente moglie del-
l’amante Paride, che infatti risulta celibe.
Riepilogando, quasi tutti gli uomini ricordati e/o condannati in questo
cerchio – Achille, Paride, Tristano, nonché Lancillotto – sono liberi da
vincoli coniugali, e dunque non sono direttamente adulteri, dato che la
loro lussuria provoca (salvo il caso di Achille, che non è adultero in alcun
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Pier Angelo PEROTTI Il silenzio e le lacrime di Paolo

modo) soltanto l’adulterio nei confronti del marito da parte della donna
da ciascuno amata, e di conseguenza anche da parte dell’amante: ecco
perché essi sono traditori solo singolarmente, ossia di una sola persona.
Riepilogando e precisando, la meno colpevole risulta Didone, per le
ragioni poc’anzi ricordate; Semiramide fu lussuriosa e incestuosa, ma non
adultera; Cleopatra era sposata (ma cfr. n. 39) e, avendo sedotto prima
Cesare e poi Antonio, in due occasioni fu doppiamente adultera (ma sin-
golarmente secondo Dante, se immaginiamo che egli fosse all’oscuro del
suo matrimonio); anche Elena fu adultera singolarmente, perché aveva
marito ma Paride non aveva moglie. Ma mentre Francesca è in qualche
modo giustificata dal poeta (cfr. § 4 e n. 27) – tanto che egli piange per la
commozione e la pietà41 provocate in lui dalla sua vicenda tragica («Fran-
cesca, i tuoi martìri / a lagrimar mi fanno tristo e pio»: vv. 116-117) –, le
più colpevoli secondo lui sono probabilmente Elena e Cleopatra, per
quanto ne dice Virgilio, una delle fonti da lui più stimate: la prima, non
solo dopo la morte di Paride iniziò una nuova relazione con un altro figlio
di Priamo, Deifobo, ma soprattutto, durante l’ultima notte di Troia, dopo
aver fatto segnali ai Greci con una fiaccola per indicare il momento pro-
pizio all’assalto, sottrasse le armi dalla casa del nuovo ‘sposo’ e chiamò
Menelao – che lo uccise –, per ingraziarselo e farsi perdonare (Aen. 6,
515 ss.);42 la seconda per avere sedotto Cesare e aver tentato di irretire Ot-
taviano Augusto, due capisaldi del nomen di Roma.
Un’altra questione merita una pur rapida indagine. Perché, come Paolo
e Francesca, non sono uniti in questo cerchio anche Paride ed Elena, che
invece sono ricordati separatamente? In primo luogo, questi due amanti
non morirono a causa del loro adulterio; inoltre Elena non fu amante di
Paride fino alla morte, perché dopo l’uccisione del troiano essa ‘sposò’ il
fratello Deifobo (cfr. qui sopra), per tornare infine con l’antico marito
Menelao; ma soprattutto, Paolo e Francesca sono presentati dal poeta
come simbolo dell’amore ‘anche’ stilnovistico (cfr. supra, §§ 2 e 4), che
non può certo essere rappresentato, neppure ante litteram, da Elena, con-
siderata da Dante – che segue l’opinione del suo ‘maestro’ Virgilio – una
donna immorale e priva di sentimenti sinceri, il che contrasta con l’amore
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comunque lo si intenda. Se poi il «Paris» dantesco fosse non l’eroe tro-


iano, ma il cavaliere che amò Vienna (cfr. n. 35), la questione non si por-
rebbe neppure. Comunque, la coppia di dannati in questione – Paolo e
Francesca –, il cui amore travalica la morte e le pene infernali, è un uni-
cum, che il poeta non avrebbe certamente potuto iterare con altri due per-
sonaggi.
Mi pare infine curioso – e, credo, non casuale – che in questo cerchio,
oltre a Paolo e Francesca, siano ricordate quattro donne e altrettanti uo-
mini (compreso Lancillotto, che pure non è presente): non è difficile ri-
conoscere, anche in questa sequenza, una struttura simmetrica frequente
in Dante – basata qui sullo stesso numero di individui dei due sessi –, ot-
tenuta con la citazione aggiuntiva di un personaggio, Lancillotto, pur col-
pevole di adulterio (e dunque di lussuria), ma non annoverato tra i dannati.

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Pier Angelo PEROTTI Il silenzio e le lacrime di Paolo

NOTE

1
Il giovane è descritto in lacrime soltanto nel lazzeretto, mentre ascolta le
parole commoventi del padre Felice («Renzo, tutto lacrimoso»): Manzoni 1840-
1842: cap. XXXVI; inoltre, in occasione dell’addio tra i due promessi sposi a
Monza, si sforza di non piangere (cap. IX): «Lucia non nascose le lacrime; Renzo
trattenne a stento le sue» [il corsivo è mio]; anche don Abbondio, «sentendo il
concerto solenne de’ suoi confratelli che cantavano a distesa, provò un’invidia,
una mesta tenerezza, un accoramento tale, che durò fatica a tener le lacrime»
(cap. XXIII), ma per autocommiserazione, mescolata a egoismo.
2
Manzoni 1840-1842: cap. XXIII: «i suoi occhi, che dall’infanzia più non
conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, si coprì il
viso con le mani, e diede in un dirotto pianto [...]. Le sue lacrime ardenti cadevano
sulla porpora incontaminata di Federigo».
Questa domanda messa in bocca a Cavalcante potrebbe essere considerata un
3

omaggio reso da Dante all’amico Guido, che il poeta giudica non inferiore a sé,
ma che – spiega – è assente per altre ragioni.
4
Al ‘disdegno’ di Guido ho accennato in Perotti 2013: 46-50.
5
Sapegno, in Alighieri 1994: ad locum, 129.
6
Anche il nipote Anselmuccio chiama «padre» (v. 51) il conte, forse perché –
come suppone per es. Pézard in Alighieri 1976: ad locum – Dante ha seguìto
l’antica tradizione, già dei Romani, per cui il nonno restava sempre il pater
familias (cfr. l’Anchise virgiliano, etc.).
7
Altrettanto famosa, ma meno significativa, la stessa figura retorica in If. XIII
25: «Cred’io ch’ei credette ch’io credesse».
8
Cfr. Marchese 1978: 112: «[Francesca] snocciola con elegante fair play tutti
i princìpi canonici dell’etica amorosa cortese-cavalleresca, di cui sembra essersi
rimpinzata. I critici vi hanno ritrovato le regole del Trattato d’amore di André
Chapelain e analoghi ammaestramenti di fra Giordano da Pisa, di Aimeric de
Peguilhan e, ovviamente, di Guinizzelli» [cfr. qui sopra, nel testo]; «La psicologia
di Francesca ondeggia dunque fra la coscienza del male e il desiderio di
giustificarsi di una colpa tipicamente irrazionale come la lussuria».

151
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Tenzone 18 2017

9
Lo rilevò già De Sanctis 1958: 50, cap. VI, 1817. L’Eneide: «E il “tantus
amor nostros cognoscere casus”? Ma s’a conoscer la prima radice / del nostro
amor tu hai cotanto affetto... (ivi, V, 124-125). Eccovi il traduttore di Virgilio. A
che distanza stanno dai due poeti il vecchi Caro e Leopardi ancor giovanetto!».
10
Cfr. Caretti 1951: 15: «[...] il racconto di Francesca si svolge con il
‘controcanto’ delle lacrime di Paolo e il commento sordo dell’inarrestabile
bufera».
11
Mi limito a ricordare il titolo di uno dei Canti del Leopardi, appunto Amore
e morte.
12
Merita di essere ricordato il commento di Steiner, in Alighieri 1940: ad
locum.: «Vedi nell’Amleto di Shakespeare, che il principe danese vagheggia di
uccidere lo zio, quando avrà l’anima ingombra di pensieri cattivi, per spegnerne
insieme il corpo e l’anima: atto III, scena III. Così poté fare Gianciotto e di questo
si duole Francesca».
Cfr. Deut. 32, 35: «Mea est ultio, et ego retribuam in tempore», cit. nel NT,
13

Rom. 12, 19; Hebr. 10, 30.


14
O ancora – per quanto l’ipotesi sia improbabile – senza la condanna da parte
di un giudice. Che il «modo» indichi l’efferatezza dell’omicidio da parte di
Gianciotto – cui, tra le varie ipotesi, allude Sapegno, in Alighieri 1994: ad locum
– mi sembra una forzatura, considerato che non risulta da alcuna fonte che
l’uccisione dei due amanti sia stata caratterizzata da particolare ferocia.
15
Per es. Parodi 1956: 42, contamina, giustamente, le due interpretazioni.
Esiste un’altra esegesi, già proposta dal trecentesco Buti (1858: ad locum), e dal
quattrocentesco Landino (2001: ad locum), e ripresa dal Pagliaro (1967: 115 ss.),
secondo cui il «modo», ossia l’intensità, di questo amore fu tale che tuttora mi
«offende», cioè mi tormenta, mi turba. Per quanto questa interpretazione del
Pagliaro si basi, secondo Sapegno, in Alighieri 1994: ad locum, su una
«stringente argomentazione», a me, come alla maggior parte degli studiosi, non
sembra del tutto persuasiva, per le ragioni che saranno addotte infra, nel testo.
16
Qualche esempio di questa seconda funzione di ‘ancora’, limitatamente a If
IX 59-60: «e non si tenne a le mie mani, / che con le sue ancor non mi chiudessi»;
X 17-18: «quinc’entro satisfatto sarà tosto, / e al disio ancor che tu mi taci»; XII
121-122: «Poi vidi gente che di fuor del rio / tenean la testa e ancor tutto ’l
casso»; XIII 87-88: «spirito incarcerato, ancor ti piaccia / di dirne [...]»; XIX

152
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Pier Angelo PEROTTI Il silenzio e le lacrime di Paolo

103-105: «io userei parole ancor più gravi; / ché la vostra avarizia il mondo at-
trista, / calcando i buoni e sollevando i pravi» (cfr. Battaglia 1961: voce «ancòra»,
4. con valore di cong.); XX 27: «Ancor se’ tu de li altri sciocchi?»; XXVIII 7:
«S’el s’aunasse ancor tutta la gente»; XXX 82: «S’io fossi pur di tanto ancor
leggero»; etc.
17
Porena in Alighieri 1959: 60, nota finale al c. V, Dante e Francesca, osserva
che «quando pensiamo al marito confitto nel ghiaccio della Caina (nelle fiere
parole di Francesca verso di lui è la condanna che Dante gli assegna) vediamo che
Dante è stato molto più severo verso il tradito che verso i traditori»: per ciò che
è scritto nella parentesi, cfr. infra, §§ 4-5.
18
Carpi 2013: 15, si domanda «perché mai, comunque, per un delitto passio-
nale o in ogni modo per un atto di giustizia familiare (come allora era sentito dal
senso comune e dalla legge, e come la stessa Francesca doveva sapere benis-
simo), una condanna all’improprio cerchio dei traditori? Nella nuda vicenda, a
prescindere dalla pietas per gli amorosi desiri [...], Gianciotto era se mai il tradito,
non il traditore. Violento e tirannicamente spietato quanto si voglia, però traditore
no: dunque, nella logica stretta dell’episodio, destinabile piuttosto al sangue bol-
lente di Flegetonte come uomo di sangue e di crucci che non al ghiaccio della
Caina», e nella n. 4 (p. 33) puntualizza: «Tommaso, molto più avanzato della
corrente giurisprudenza, sosteneva nella Summa che solo il tribunale civile può
mettere a morte l’adultera zelo iustitie, mentre il marito agisce livore vindicte aut
odii motus, dunque dismisura di vendetta e d’odio, non tradimento. Altri hanno
opinato che il tradimento fosse consistito nel non aver dato loro il tempo di pen-
tirsi, ma la legge pretendeva che l’uccisione avvenisse proprio in actu adulterii!»
[cfr. qui sopra e n. 12] . Già la legislazione della Grecia antica, e segnatamente
di Atene, autorizzava il marito tradito a punire con la morte l’amante della moglie
colto in flagrante: ricordiamo l’esempio trattato nell’orazione di Lisia Per l’uc-
cisione di Eratostene, per cui cfr. Perotti 1989-1990: 43-48.
19
Destituita di fondamento, e comunque romanzesca, è la versione proposta
dal Boccaccio (1918: ad locum), e dall’Anonimo Fiorentino (1866: ad locum),
secondo cui Francesca sarebbe stata ingannata facendole credere che il futuro
marito sarebbe stato Paolo, di bell’aspetto, e non il fratello Gianciotto: questa
interpretazione – o piuttosto leggenda – non ha riscontro nel racconto della
donna, che presumibilmente vi avrebbe accennato, per offrire a se stessa una
qualche giustificazione dell’adulterio.

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20
Come adulterino fu l’amore fra Tristano (cfr. If. V 67) e Isotta, moglie di
Marco re di Cornovaglia, zio del cavaliere, con la tragica fine di Tristano (analoga
a quella di Paolo), che, secondo una versione della leggenda, lo zio fece uccidere
per il suo tradimento, con la conseguente morte di Isotta, che si trafisse il cuore
sul corpo del suo amante; secondo un’altra versione, Tristano, gravemente ferito
durante una spedizione, mandò a chiamare Isotta ‘la Bionda’, la sola in grado di
guarirlo, chiedendo che fossero issate sulla nave vele bianche se lei fosse stata a
bordo, nere se avesse rifiutato di andare da lui. La donna partì, ma la sposa di Tri-
stano, Isotta ‘dalle Bianche Mani’ – omonima della moglie di re Marco salvo che
per il soprannome –, avendo scoperto il loro amore, gli riferì, mentendo, che le
vele erano nere. Il cavaliere, credendo di essere stato abbandonato dall’amata, si
lasciò morire. Isotta ‘la Bionda’, arrivata da lui troppo tardi, morì a sua volta di
dolore. La storia delle vele bianche e nere fu con ogni probabilità mutuata in
qualche modo dal celebre mito di Egeo e del figlio Teseo che torna da Creta dopo
aver ucciso il Minotauro.
21
Non deve sfuggire la differenza, o senz’altro contrasto, tra «riso» (definito
«stilema cortese» dal Marchese 1978: 113) e il più realistico termine «bocca»
per indicare la stessa parte del corpo e lo stesso gesto, in cui è riconoscibile per
così dire una climax tra i due vocaboli, ossia tra il differente approccio all’amore
da parte delle due coppie di amanti: più idillico o etereo per Lancillotto e Ginevra,
più concreto e carnale per Paolo e Francesca.
22
L’effetto dell’amore sui due cognati è simile a quello descritto da Saffo
(peraltro ignota a Dante) nel celeberrimo fr. 31 V. (imitato, o piuttosto tradotto,
da Catullo, Carme 51, Ille mi par esse deo videtur): «khlorotéra dé poìas / émmi»
(«e sono più verde dell’erba») (vv. 14-15), dove l’amore produce sulla persona
innamorata un effetto fisico simile al pallore che colpisce i due amanti danteschi.
23
Analoga all’emozione rappresentata da Saffo nel fr. 31 V. (cfr. n. 22):
«tròmos dé / paîsan àgrei» («e un tremito mi afferra tutta») (vv. 13-14).
24
A meno di pensare che si tratti di una ‘zeppa’, come è – secondo me – quella
di poco precedente, «il grande Achille» (v. 65) [il corsivo è mio], dove l’aggettivo
mi pare inserito soprattutto a fini metrici.
25
Il Tristano riccardiano – così detto dal manoscritto conservato presso la Bi-
blioteca Riccardiana di Firenze, che ne riporta la versione migliore – è un ro-
manzo che narra le vicende di Tristano, cavaliere del ciclo arturiano: si tratta di
una rielaborazione in volgare toscano, databile tra la fine del XIII sec. e i primi

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Pier Angelo PEROTTI Il silenzio e le lacrime di Paolo

del XIV, del francese Roman de Tristan, composto all’inizio del ’200, in cui si
parla dell’amore di Tristano e Isotta e della loro morte cruenta. Per il testo, cfr.
Heijkant: 1991 e Scolari: 1990.
26
Cfr. Cosmo 1930: spec. pp. 27, 48 s., 54 s.; cfr. pure Perotti 1993: 133 e nn.
10-11, anche per l’allegoria della «lonza» (If. I 32 ss.), probabilmente simbolo
della lussuria.
27
Un po’ come l’amore fra Tristano e Isotta è provocato da un filtro d’amore,
bevuto per errore dal cavaliere e fatto bere pure alla donna, con la conseguente
esplosione della passione tra loro.
28
Secondo il Pagliaro 1967: 141, nel verso 107 non si deve leggere altro che
«l’enunciazione di una legge di giustizia divina [...], poiché in Francesca non ci
può essere posto per manifestazioni di violenza e d’odio»; cfr. anche Perotti 1993:
131.
29
Cfr. Carpi 2013: 17: «[...]; chi ci uccise [...] lo fece per tradimento familiar-
politico, e dunque per lui la Caina come per i fratelli Alberti»: qualche notizia
sulla temperie politica nella Romagna della fine del ’200 è fornita dallo stesso
Carpi alla n. 6 (ivi: 33).
30
Cfr. Caretti 1951: 16: «La ‘pietà’ nasce non soltanto come conseguenza
dell’orrore suscitato dal racconto della morte violenta, ma anche e soprattutto
dal confronto tra la suggestione delle felici ore dell’amore, tra l’attrattiva di
quegli attimi così dolci e dimentichi, e la necessità presente e viva della pena
eterna, della inesorabile legge che da ogni parte preme e non concede respiro e
strazia nel profondo, sino al grido e alla bestemmia».
31
Dante accenna in non poche altre occasioni alle proprie lacrime, causate da
paura, commozione, dolore: If. I 92: «poi che lagrimar mi vide»; 3 24: «per ch’io
al cominciar ne lagrimai»; VI 58-59: «Ciacco, il tuo affanno / mi pesa sì, ch’a la-
grimar mi ’nvita» (cfr. V 116-117: «Francesca, i tuoi martìri / a lagrimar mi fanno
tristo e pio», già cit. al § 4); XX 25: «Certo io piangea, [...]»; XXIX 2-3: «[...]
avean le luci mie sì inebriate, / che de lo stare a piangere eran vaghe»; Pg. I 127:
«porsi ver’ lui le guance lagrimose»; XXIII 55-56: «“La faccia tua, [...], / mi dà
di pianger mo non minor doglia”»; XXX 52 ss.: «né quantunque perdeo l’antica
matre, / valse a le guance nette di rugiada, / che, lagrimando, non tornasser atre.
/ “Dante, perché Virgilio se ne vada, /non pianger anco, non pianger ancora; /
ché pianger ti conven per altra spada”»; 97-99: «lo gel che m’era intorno al cor
ristretto, / spirito e acqua fessi, e con angoscia / de la bocca e de li occhi uscì del

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petto»; XXXI 20: «fuori sgorgando lagrime e sospiri»; 34: «Piangendo dissi:
[...]»; Pd. XXII 107 s.: «[...] io piango spesso / le mie peccata e ‘l petto mi per-
cuoto»; ma mai, per quanto mi risulta, il turbamento è così intenso da provocarne
il deliquio.
Si noti una peculiarità non certo casuale: in 13 versi (da XXXIII 38 a 50) il
32

verbo ‘piangere’ ricorre ben 5 volte, quasi il Leitmotiv dell’episodio.


33
In questo verso si noti il pleonasmo «ch(e) / -le», dovuto presumibilmente
a ragioni di rima («Achille / mille / dipartille»), con una ‘forzatura’ simile a quella
ricordata alla n. 24.
34
Cfr. per es. Sapegno, in Alighieri 1994: v. 65, ad locum: «[Achille] di cui si
narrava, nelle redazioni medievali della leggenda troiana, che si fosse innamorato
follemente di Polissena, figlia di Priamo, e per questo amore si lasciasse trarre in
un agguato, dove fu ucciso a tradimento (cfr. anche Ov., Metam. XIII, 448)». In
quanto a Deidamia, figlia di Licomede re di Sciro, sedotta da Achille (da cui
avrebbe avuto il figlio Neottolemo o Pirro) e poi abbandonata per seguire Ulisse
e Diomede a Troia (cfr. If. XXVI 61 s.; anche Pg. XXII 114), non può essere
considerata veramente sua moglie, e dunque l’eroe non è adultero.
35
Secondo alcuni esegeti (per es. Scartazzini, in Alighieri 1874: v. 67, ad
locum; Porena, in Alighieri 1959: v. 67, ad locum; e altri) questo «Paride»
potrebbe essere non il figlio di Priamo che rapì Elena, ma piuttosto un cavaliere
medievale di cui sono narrati in un celebre romanzo gli amori con Vienna, ipotesi
che sarebbe corroborata dalla contiguità, nel passo dantesco, con l’eroe
medievale Tristano.
36
I due ultimi versi sono una specie di parafrasi di due frasi (che ho indicato
col carattere corsivo) della fonte cui Dante si ispirò, Orosio, Hist. 1, 4, 7-8: «Huic
[scil. Nino] mortuo Semiramis uxor successit. [...]. Haec libidine ardens,
sanguinem sitiens, inter incessabilia stupra et homicidia, cum omnes quos regiae
arcessitos, meretricis habitu, concubitu, oblectasset, occideret, tandem filio
flagitiose concepto, impie exposito, inceste cognito, privatam ignominiam
publico scelere obtexit. Praecepit enim ut inter parentes ac filios nulla delata
reverentia naturae de coniugiis adpetendis, quod cuique libitum esset, licitum
fieret»: in particolare il v. 56 di Dante è la traduzione quasi letterale delle ultime
parole dello storico latino.
37
Cfr. Verg. Aen. 4, 552: [parole rivolte alla sorella Anna] «non servata fides
cineri promissa Sychaeo». Sull’argomento si veda, tra l’altro, Perotti 2007: § 4.

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Della regina è fatta menzione pure in Pd. VI 76 ss., dove ne è ricordato il
suicidio: «Piangene ancor la trista Cleopatra, / che, fuggendoli innanzi, dal co-
lubro / la morte prese subitana e atra». A proposito di questo personaggio in Ora-
zio, cfr. Perotti 2005: 152-162.
39
Ancorché si trattasse del fratellastro decenne Tolomeo XIII, secondo la tra-
dizione ereditata dai faraoni. Ma non è certo che Dante fosse a conoscenza del
suo matrimonio, considerato che la sua fonte principale, Virgilio, non ne parla,
e anzi non la ricorda neppure nominatim, limitandosi, in segno di disprezzo, a de-
finirla «Aegyptia coniunx» (Aen. 8, 688); né si può dire quali altre opere storiche
che vi accennano fossero note a Dante. È dunque probabile che egli fosse al-
l’oscuro del fatto.
40
Questo è il pensiero di Dante, che verosimilmente seguiva l’opinione del suo
‘maestro’ Virgilio, il quale considerava volontaria la fuga della donna con Paride;
ma secondo non pochi autori greci, che evidentemente Dante non poteva cono-
scere, Elena fu rapita dal giovane principe troiano, o persuasa da Afrodite a se-
guirlo; per non parlare della versione della ‘doppia Elena’ – proposta da Stesicoro
ed Euripide –, secondo la quale a seguire Paride a Troia non fu la vera regina, ma
un suo eidolon, mentre essa rimase in Egitto: sull’argomento, cfr. Perotti 2004-
2005: 393-415 e Perotti 2011: spec. § 4.
41
Cfr. If. V 93: «poi c’hai pietà del nostro mal perverso» e 140: «sì che di pie-
tade / io venni men»: vedi Marchese 1978: 112: «Il turbamento di Dante, la fa-
mosa pietà diventa per lei comprensione e giustificazione, umano compatimento:
poi c’hai pietà...».
42
Ricordiamo anche la veemente accusa di Enea contro di lei, quando la in-
contra durante la stessa notte e prova la tentazione di ucciderla per vendicare i
suoi (Aen. 2, 577 ss.): «scilicet haec Spartam incolumis patriasque Mycenas /
aspiciet, partoque ibit regina triumpho, / coniugiumque domumque patris nato-
sque videbit / Iliadum turba et Phrygiis comitata ministris? / occiderit ferro Pria-
mus? Troia arserit igni? / Dardanium totiens sudarit sanguine litus? / non ita»:
sull’argomento, cfr. Perotti 2014: 629-643.

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