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POLEMICHE CULTURALI

Ma che mestiere fa
la Musa economica?
Enrico
 Reggiani
Che rapporto c’è fra letteratura ed economia? E perché fra le nove
Muse quella economica non è considerata? Un esame della com-
plementarità possibile attraverso numerosi esempi, fra cui Thomas
Hardy e Jacques Derrida, sino agli italiani Rugarli e Ceserani.

C’erano una volta nove Muse, anche se, Enrico Reggiani insegna Lette-
ratura inglese e Cultura e civiltà
come ha scritto il mitologo Károly Kerényi dei Paesi di lingua inglese presso
(1897-1973), «non sempre e non dapper- la Facoltà di Scienze linguistiche e
letterature straniere dell’Università
tutto si parlava di nove Muse», giacché «si Cattolica del Sacro Cuore. È sta-
davano loro numeri diversi e anche un altro to docente di Analisi musicale alla
Civica scuola di musica «Claudio
nome collettivo». Sia come sia la questio- Abbado» di Milano. In Università
Cattolica dirige il seminario «Lette-
ne delle dimensioni della loro compagine ratura e Musica» e coordina il pro-
e della loro denominazione, si trattava co- getto cultural-musicale di ateneo
«Note d’InChiostro». È considera-
munque di “divinità minori” che, secondo to uno dei massimi esperti italiani
di William Butler Yeats.
il grecista Robin Hard, sembrano aver subi-
to nei secoli la seguente evoluzione: da fonti
di sapienza e conoscenza, che sanno cosa bisogna dire e che possono
conferire al poeta l’abilità di dirlo e di averne memoria; a sorgenti di
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afflato poietico, che crea e produce; a protettrici di ogni attività let-


teraria e, per estensione, di ogni altra arte e impegno intellettuale (ad
esempio, anche nell’ambito della filosofia e dell’astronomia).
Pur con tali sviluppi nel corso dei millenni, tra le “competenze” delle
Muse non pare gli studiosi siano (stati) inclini a individuarne di econo-
miche. A meno di non interpretare arditamente in tal senso, ad esempio,
quella «Iconomica Poetica» che, in una delle tormentate edizioni della
sua Scienza Nuova, Giambattista Vico (1668-1744) collocò tra le «nove
scienze [che] debbono essere state le nove Muse, le qual’i poeti pur ci
contarono esser tutte figliuole di Giove». Interpretazione eccessivamente

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audace – dirà sicuramente qualcuno – ad almeno parziale sostegno della


quale vale la pena di citare l’italianista Massimo Lollini quando scrive
che, in merito alla «integrità delle facoltà umane che era rappresentata
dal mito antico delle Muse», Vico «si impegna a seguirne lo sviluppo e le
trasformazioni a partire dalle origini favolose, fino alla storia».
Fu probabilmente ignaro di tale (ipotetico) illustre precursore vichiano
Alfred Kreymborg – poeta statunitense di origini tedesche (1883-1966) e
attivo promotore delle istanze del modernismo poetico con, tra gli altri,
Ezra Pound (1885-1972), Marianne Moore (1887-1972) e William Carlos
Williams (1883-1963) – il quale invocò esplicitamente The Economic Muse
in una raccolta poetica omonima, che, pubblicata dall’editore newyorkese
Coward-McCann nel 1938, raccoglie testi scritti tra il 1929 e quell’anno.
Kreymborg vi letterarizza la sua spiccata consapevolezza della funzione
politica del poeta rispetto alla società a lui contemporanea, prendendo ad
esempio posizione sui traumi prodotti dal Wall Street Crash (1929) e sulla
relazione tra diseguaglianza economica e guerra. Che si trattasse di una
Musa (modernisticamente) insolita e dagli esiti potenzialmente controver-
si lo dimostra la recensione di un altro immigrato statunitense (di origini
ucraine) che ne scrisse nell’immediata prossimità della fine della Secon-
da guerra mondiale per «The New York Times Book Review» (22 aprile
1945): secondo il poeta e giornalista Harry Roskolenko (1907-1980) – que-
sta l’identità del recensore – The Economic Muse testimoniava oltre ogni
dubbio «la resa di Kreymborg alla politica e alla poesia della povertà».
In tempi più recenti, non ha esitato a ipotizzare l’esistenza di una
“musa economica” una sparuta pattuglia di critici e studiosi (ad esem-
pio) italici, impegnati a varie latitudini dell’esperienza letteraria: l’an-
glista Sergio Perosa ha affrancato l’opera di Francis Scott Fitzgerald
dall’influenza di «un semplice compromesso con la musa economica»
(1961); il giornalista e traduttore Aldo Camerino (1901-1966) ha stigma-
tizzato il carattere disadorno della «grama musa dell’economia» (1966);
l’italianista Carlo Madrignani (1936-2008) ha, invece, valorizzato la spe-
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cificità dell’azione della «musa economica di un Balzac» (1980) rispetto


a quella di altri scrittori italiani della seconda metà dell’Ottocento.
Il nuovo millennio ne ha poi confermato la vitalità e potenziato l’in-
fluenza, pur senza nominarla, se è vero che, per Giampaolo Rugarli
(1932-2014), «il romanzo dovrebbe essere simile ai “modelli” dei quali
si serve la scienza economica: alla fine dovrebbe porre nuove verità o
almeno nuove domande» (2014). Posizione audace ma non peregrina

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ed episodica, questa dell’avvocato poi dirigente Cariplo infine apprez-


zato scrittore Rugarli, che, se, da un lato, riecheggia la convinzione del
comparatista Remo Ceserani (1933-2016) che «è certamente vero che
i rapporti fra le questioni dell’economia e il mondo della letteratura
[…] sono sempre stati molto intensi» (2010), dall’altro, confligge inve-
ce con una violenta invettiva antieconomica di Guido Ceronetti (1927-
2018): «Questo drago fumante che viene chiamato economia […], nel
linguaggio, è fecalità invasiva, bisognosa di purga gastrica» (2011).
Fin qui qualche traccia esemplificativa dell’effettiva esistenza – nonché
della documentabile e documentata influenza – della Musa Economica
sull’esperienza, sulla scrittura e sulla ricezione della letteratura. Il che solle-
va un interrogativo non più procrastinabile e che esprimerei così: che me-
stiere fa questa Musa, ovvero, qual è il suo unthrifty trade («mestiere non
parsimonioso, che genera sprechi»), ammesso che si possa applicare a una
Musa Economica questa espressione che il filosofo e poeta scozzese James
Beattie (1735-1803) applicò all’intero novero delle Muse nel 1768? Prima
di rispondere pragmaticamente a tale interrogativo con un paio di esempi,
non si può non raccomandare di non dimenticare mai che, sebbene “divi-
nità minore” come le consorelle, la Musa Economica è però per sua natura
interdisciplinare, nonché alimentata e animata dalla complementarità tra
esperienza letteraria ed esperienza economica, entrambe intese lato sensu.
Dunque, come primo esempio, ammettiamo che, nella prima metà del
cosiddetto Very Long Nineteenth Century (circa 1750-1914), un poeta
viva e sia culturalmente consapevole di una complessiva situazione di crisi
che investe il suo tempo – anche, ma non soltanto, a causa dei prodromi
dello spaventoso stock market crash che sarebbe esploso colpendo innan-
zitutto la Bank of England nel 1825; ammettiamo che egli voglia lettera-
rizzare quella situazione in versi, istituendo ad esempio un’interazione
dialettica con la cultura del tempo di Adam Smith (1723-1790), il quale
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scrisse che «la prosa è naturalmente il linguaggio degli affari; la poesia lo è


del piacere e del divertimento» (1763); ammettiamo che sia alla ricerca di
una partitura attanziale ovvero di una modalità di gestione delle “risorse
umane” con cui popolare una fase di incertezza e di sgomento di quella
stessa letterarizzazione; ammettiamo, insomma, che il poeta in questione
disponga di un approccio olistico e omologico a tutti questi dati (e a molti
altri ancora) e sia mosso dall’intenzione culturale e compositiva di rappre-
sentarli come totalità condivisibile per i lettori dei suoi giorni.
Per raggiungere i suoi obiettivi, al poeta ottocentesco in questione non

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resta che invocare la Musa Economica. In ottemperanza agli spunti sull’e-


voluzione delle Muse offerti dal grecista Robin Hard di cui si diceva nel
primo paragrafo di questo breve contributo, ne riceverà quanto segue:
“sapienza e conoscenza” per concepire la metafora di una complessiva
bancarotta econo-letteraria; “abilità di dirla” in versi secondo una spe-
cifica economia delle risorse poetiche del suo tempo; competenze “po-
ietiche” per gestire le “risorse umane” nel suo testo secondo un modello
attanziale efficace ed efficiente; sostegno intellettuale e culturale per far
fronte a un impegno compositivo assai complesso, e via di seguito.
Immagino la reazione di qualche impaziente (ma, temo, poco lungi-
mirante) lettore che se ne uscirà con un lacerante, ma superficiale «ave-
va ragione Ceronetti!». In realtà, lo scrittore ottocentesco in questione
esiste ed è uno dei giganti della poesia romantica inglese. Si tratta di
George Gordon Noel Byron (1788-1824) che proprio quell’invocazione
deve aver rivolto alla Musa Economica per comporre un passo folgoran-
te (Canto XVI, strofe xcviii-xcix) del suo capolavoro Don Juan (1819-
1824): in quel passo, letteratura e finanza, poeti e finanzieri si scambiano
esperienze e culture in modo sorprendente e sistematico, confondendo
in tal modo i lettori che vedono infranta la loro abituale percezione della
realtà (non necessariamente con finalità ed esiti negativi), nonché certi-
ficando la disgregazione della sterile autoreferenzialità dei loro ambiti di
appartenenza e la gravità delle loro inadeguatezze comunicative.
Al secondo esempio, for brevity’s sake, accennerò soltanto in modo
assai sintetico, avviandomi verso la conclusione di questo contributo.
Immaginate di scrivere un romanzo verso la fine del Very Long Nine-
teenth Century; immaginate di voler instaurare un intricato rapporto
narrativo e narratologico tra il narratore extra-diegetico (cioè esterno
alla narrazione) e la giovane protagonista femminile di umili origini, ma
desiderosa di scoprirne di antiche e nobili; immaginate di porre in re-
lazione, attraverso la dialettica tra questi ultimi, i modelli del mondo ai
quali appartengono e rispondono. Sono certo che quelli testé citati sono
Enrico Reggiani

solo alcuni degli esiti che la vostra fervida immaginazione potrebbe pro-
durre. Mi auguro, tuttavia, di non risultare offensivo se affermo che
non riuscireste a concepire come perno della relazione tra quel narra-
tore e quella protagonista un passo del romanzo che suona come segue:
Everything looked like money – like the last coin issued from the Mint
(«Tutto pareva denaro – come l’ultima moneta coniata dalla Zecca»). In
realtà, proprio su tale perno, breviter, si innerva nel testo romanzesco

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una crisi espressa in termini finanziari, una vera e propria bancarotta


testuale e culturale che prepara il terreno alla bancarotta personale ed
esistenziale che annichilirà la giovane protagonista.
Ah, dimenticavo: il capolavoro narrativo in questione è – l’avre-
te certamente riconosciuto – Tess of the d’Urbervilles: a pure woman
faithfully presented, pubblicato dal romanziere inglese Thomas Har-
dy (1840-1928) in vari formati editoriali nel biennio 1891-1892 (trad.
it. di Mirko Esposito, Feltrinelli 2016): arduo trovare attestazione più
esplicita ed efficace del fatto che «the relationship between finance and
literary practice in the nineteenth century [was], at the very least, crea-
tive», di cui ha scritto l’anglista Francis O’Gorman nelle pagine intro-
duttive a una raccolta di saggi su Victorian literature and finance (2007).
Come O’Gorman, molti altri interventi scientifici hanno sostenuta,
ampliata e potenziata un’analoga attestazione in innumerevoli dire-
zioni teoriche ed ermeneutiche, sincroniche e diacroniche, storiche e
culturali. A titolo di mero esempio, si potrebbero menzionare il filoso-
fo francese Jacques Derrida (1930-2004), che introdusse il concetto di
«economimesis» (1981), e l’economista Deirdre McCloskey (Univer-
sity of Illinois at Chicago), che lanciò in un articolo del 1992 lo slogan
«the dichotomy between the economy and the spirit is bunk». Nel
nuovo millennio, l’anglista Paul A. Cantor (University of Virginia),
che considera la «intersection between literature and economics […]
one of the most exciting and promising areas of scholarly investigation
today» (2003); lo storico dell’economia Willie Henderson (University
of Birmingham), al quale si deve «the loosely defined notion of lite-
rary economics» (2006); Paul Crosthwaite (anglista della University
of Edinburgh), che ha di recente denominato «litonomics» (2015) le
relazioni interdisciplinari tra letteratura ed economy/economics.
Si parva licet componere magnis, persino l’autore di queste brevi
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note si è spinto a concepire la bizzarra «grafia inglese del termine ec(h)


onomics» per richiamare sia la molteplicità dei livelli e delle modali-
tà testuali che la letteratura sa praticare per riecheggiare (con Michail
Bachtin) dialogicamente e plurivocalmente la cultura economica nel suo
complesso, sia – per amor di reciprocità – «le suggestioni di un più
vasto orizzonte […], in cui il sapere economico si ponga con sempre
maggior frequenza ed incisività – anche grazie alle risorse del sapere let-
terario – la vexata quaestio dell’“amministrazione” (-nomics) degli echi e
delle implicazioni culturali (echo-) del proprio discorso» (2007).

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