Sei sulla pagina 1di 20

STEFANO ZAMPIERI PRATICHE FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER ADULTI

________________________________________________________________
STEFANO ZAMPIERI

PRATICHE FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER


ADULTI1
In M.L.Martini e A. Mignone, Paideia. Pratiche
filosofiche come pratiche educative, Napoli, Liguori, 2011,
pp. 75-98
Vorrei portare testimonianza personale di un fenomeno nuovo: l’ingresso
della pratica filosofica nelle aule scolastiche, raccontando di alcuni miei progetti
e segnalando qualche altra esperienza interessante a titolo di esempio. La
prospettiva dalla quale muoverà il mio discorso è principalmente quella
dell’Educazione degli Adulti, nella quale mi trovo ad operare da molti anni, ma
è immediatamente evidente che tutto ciò che di buono porta la mia
testimonianza vale, non di meno, anche se con gli ovvi adattamenti, per lo
scenario dell’adolescenza.
In primo luogo, bisogna osservare che il rientro in formazione rappresenta
per l’adulto una scelta di vita molto sofferta, che coinvolge la sua intera
esistenza e impone di rivedere profondamente tempi, luoghi, relazioni, progetti,
modi d’essere e di interpretare, e mette così a dura prova ogni personale visione
del mondo. Quel che entra in gioco è tutto il carico di negatività derivante dai
percorsi di studio precedenti, e quindi dagli obiettivi falliti, dalle sconfitte, dalle
delusioni, dalle rinunce. Allo stesso tempo si creano, però, delle aspettative
importanti di fronte ad un nuovo impegno che appare significativo su molti
fronti simultaneamente, quello del lavoro in primo luogo, ma anche quello dei
rapporti nella famiglia, con il coniuge o con i figli, o con l’ambiente circostante.
Mettersi in discussione, mettersi in gioco, costruire una variante della propria
identità personale, sono operazione complesse, che talvolta l’adulto non è in
grado di realizzare nella sua autonomia, finendo piuttosto per rinunciare al
percorso intrapreso rassegnandosi così ad una nuova sconfitta.

Accoglienza filosofica
Per tutti questi motivi, appare decisivo il momento dell’accoglienza dello
studente all’interno del percorso formativo. Si tratta oramai di una pratica
ampiamente diffusa a tutti i livelli di scuola, ma certamente nel campo
1
Alcuni passaggi di questo lavoro sono stati da me anticipati, in altra forma, nei seguenti articoli:
”Pratiche filosofiche nella scuola”, in Chichibìo, a. XI, n. 53, mag.-giu 2009; “I luoghi del pensare. Una prima
ipotesi intorno al disagio dell’insegnante”, in Chichibìo, a. IX, n. 44, set-ott. 2007; “Vite esaminate. L’esercizio
dell’autobiografia in classe, in Chichibio n.40, a.VIII, novembre-dicembre 2006; “S.O.F.I.A. Lo sportello di
consulenza filosofica a scuola”, in Chichibio n.38, a.VIII, maggio-giugno 2006.
________________________________________________________________

1
STEFANO ZAMPIERI PRATICHE FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER ADULTI
________________________________________________________________
dell’Educazione degli Adulti va intesa come uno dei fulcri del lavoro
preliminare insieme ai momenti dell’accompagnamento e dell’orientamento.
Tuttavia, questo momento può rappresentare anche il primo ingresso della
pratica filosofica nel processo formativo. Presenterò allora, prima di tutto, un
modello di accoglienza filosofica, così come è stato progettato e realizzato per
due anni consecutivi dai soci consulenti della sezione Veneto di Phronesis in un
Istituto Professionale per il commercio di Mestre. Si è tentato infatti di passare
da una accoglienza centrata sul processo di bilancio e di accreditamento delle
competenze già acquisite - operazione comunque necessaria, ma per certi versi
successiva - , ad una accoglienza rivolta piuttosto allo sviluppo di quelle che
vengono di solito definite competenze trasversali, quali il saper valutare il
proprio potenziale, il saper riconoscere le proprie aspettative, il sapersi collocare
in un contesto nuovo, il sapersi orientare, insomma il saper attribuire senso al
proprio operare in una situazione particolare come quella del rientro in
formazione. Obiettivi che sono stati affrontati con una strumentazione di natura
pratico filosofica, centrata sul dialogo e la condivisione, a partire da brevi testi-
stimolo.
Nell’arco di tre giornate di lavoro ci si è posto dunque l’obiettivo
preliminare di costituire il gruppo classe, operazione particolarmente complessa
se riferita, come in questo caso, ad un gruppo di adulti di età assai diverse, dai
18 ai 50 anni, di varia provenienza sia per scolarità precedente, sia per
nazionalità e condizione sociale. Si è trattato, dunque, di facilitare la
presentazione personale, di realizzare una reale condivisione di significati e di
creare un senso di reciproca appartenenza al gruppo. Il passo successivo è stato
quello di tentare una integrazione delle esperienze, attraverso una immersione
nelle pratiche della condivisione e del colloquio, e un lavoro sulla dimensione
della comunicazione e dell’ascolto reciproco. Si è lavorato, inoltre, sulla verifica
e il consolidamento delle motivazioni, allo scopo di far emergere le ragioni che
portano un adulto a intraprendere un nuovo percorso di studi, per rendere
possibile una autovalutazione delle motivazioni individuali e poi per condurre le
motivazioni individuali a valori generali da discutere e interrogare.
Il passo ulteriore è stato quello di affrontare il tema della condivisione del
progetto educativo, per rendere possibile l’aprirsi dalla condizione individuale a
quella di gruppo e poi a quella istituzionale, e quindi formulare insieme i valori
sottesi agli obiettivi individuali, del gruppo classe e della scuola, per rendersi
partecipi del progetto educativo e così aprire un canale di scambio e di
comunicazione tra singolo, gruppo e istituzione.
Il percorso ha trovato il suo coronamento nel passaggio finale, cioè
l’apertura alla dimensione etica dell’esistenza, che si è realizzata tematizzando e
interrogando la natura della relazione, sia come impegno personale, sia come
aspettativa, e promuovendo la stessa all’interno del gruppo classe. Si è cercato
inoltre di mettere a tema e fare esperienza del rispetto per le diversità culturali e

________________________________________________________________

2
STEFANO ZAMPIERI PRATICHE FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER ADULTI
________________________________________________________________
individuali, e di focalizzare la scuola come spazio etico, cioè come luogo di
scambio e di confronto reciproco nella diversità.

Lo spazio di pensiero
Il progetto ha trovato un altissimo riscontro fra i corsisti, meno fra i docenti
delle classi coinvolte, che hanno avuto qualche difficoltà a comprendere il
valore di un processo di attribuzione di senso separato da processi valutativi e di
trasmissione di conoscenze. Ma questo è da mettere nel conto: il percorso che la
scuola italiana deve fare per comprendere la funzione del lavoro filosofico non
come disciplina ma come modalità di vita e di lavoro è ovviamente molto lungo.
In ogni caso l’attività di accoglienza è stato il primo tentativo di aprire un vero
e proprio spazio di pensiero nella scuola, ed è su questo che bisogna fermarsi a
riflettere: sull’urgenza di aprire spazi di riflessione nelle nostre scuole e sulla
responsabilità che ne deriva per noi filosofi consulenti.
Vorrei partire da una riflessione teorica di Luigina Mortari, secondo la
quale “la chiamata a esistere con autenticità non può che attuarsi attraverso il
discorso e precisamente in quel discorso che chiama alla cura di sé. Poiché
l’essenza del nostro essere può dirsi costituita dal pensare che pensiamo e dal
sentire che sentiamo, ossia dalla vita della mente, il discorso che chiama alla
chiamata è quello che ha cura della vita della mente.”2 Sulla base di questa
fondamentale assunzione di schietto stampo heideggeriano e arendtiano, appare
la “necessità per l’educatore di possedere la tecnica per educare a pensare,
intendendo per «pensare» la pratica dell’interrogare le questioni significative per
l’esistenza umana, che si frequentano per cercare direzioni di senso al proprio
esserci”3. Se questa è la prospettiva, diventa essenziale predisporre nelle nostre
scuole degli spazi del pensiero, delle comunità pensanti, nelle quali costruire il
laboratorio della mente, cioè delle forme di sviluppo delle attività riflessive, con
le quali maturare e intensificare la consapevolezza del nostro agire nel mondo.
Ed è proprio qui che le attività di pratica filosofica possono proporsi come gli
strumenti essenziali di un rinato desiderio di riflessività.
Ma è chiaro che pensare ad una condizione pratico filosofica nell’attività
formativa non è semplice, perché investe profondamente l’aspetto organizzativo
della didattica, ma anche quello gestionale della professione docente, e quello
della formazione dei formatori, problematiche enormi, che qui non affronto.
Tuttavia, è possibile – a titolo di ipotesi provvisoria - abbozzare almeno alcune
linee generali in vista di un ripensamento generale della gestione della classe
adulta (e non solo). È facile, a questo punto, mettersi sulla scia delle più
accreditate esperienze di quella che ormai unanimemente viene indicata come

2
L. Mortari, La pratica dell’aver cura, Milano: Bruno Mondadori, 2006, p. 145.
3
Ibidem
________________________________________________________________

3
STEFANO ZAMPIERI PRATICHE FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER ADULTI
________________________________________________________________
andragogia4, in quanto si tratta di un discorso pedagogico che nasce alla luce del
lavoro di un grande pensatore come John Dewey e, dunque, carico di
presupposti filosofici, anche se talvolta non tematizzati a sufficienza. In questo
senso, tenendo ben presenti questi punti di riferimento, si può ripensare la
gestione della classe adulta, partendo innanzi tutto dalla necessità di realizzare
un clima informale di reciprocità, di rispetto, di collaborazione; mentre il clima
tradizionale del rapporto docente/studente è orientato verso l’autorità (anche in
senso positivo, non cioè solo nel senso dell’autoritarismo), e verso rapporti di
natura formale, oltre che alla competitività, la quale nell’adolescente può anche
costituire uno stimolo positivo ma che, nell’adulto, non può essere prevalente
rispetto a termini quali collaborazione, solidarietà, formazione del gruppo,
comunità di intenti.
In secondo luogo, bisognerà determinare nella classe un ambito di
pianificazione comune del lavoro: mentre nella impostazione normale l’aspetto
della pianificazione è interamente demandato all’insegnante – e a tutte le fasi
burocratiche della programmazione – con l’adulto è possibile pensare a forme di
pianificazione comune che non mortificano l’autonomia del lavoro
dell’insegnante, e il suo dovere propositivo, né sminuiscono il suo ruolo e la sua
competenza, ma rendono possibile piuttosto un continuo adattamento del lavoro
rispetto a una utenza le cui competenze ed esigenze appaiono poco per volta, e
non si manifestano compiutamente con le prove di ingresso.
Di qui, allora, sarà necessario pensare una continua auto-diagnosi dei
bisogni individuali e collettivi che devono in qualche modo orientare
continuamente la scelta dei materiali, delle tecniche di lavoro, dei metodi di
studio, degli approcci diversificati alle difficoltà che mano a mano insorgono.
Ne deriva l’opportunità di una negoziazione comune degli obiettivi che deve
misurarsi rispetto a due esigenze non sempre sintetizzabili: quella dello studente,
cioè le sue aspettative - talvolta solo parziali, limitate, occasionali -, e quella
dell’istituzione che punta a fornire diplomi o comunque attestazioni formali.
Se teniamo ferme queste prime linee di riflessione per orientarci nel campo
della formazione dell’adulto, è facile osservare come il lavoro filosofico sia
presupposto di ogni passaggio. Io sintetizzerei gli snodi filosofici in questo
modo: lavorare sul vissuto e quindi sulla dimensione dell’esperienza; lavorare
sullo scambio e quindi sulla comunicazione, sull’ascolto, sulla condivisione;
lavorare sulla razionalità, cioè sulle competenze riflessive; lavorare sulla
progettualità, individuale e collettiva.

4
Per andragogia si intende il discorso pedagogico specificamente rivolto all’adulto. Il riferimento è
ovviamente alle opere di Malcom Knowles, in italiano si puo leggere Quando l’adulto impara, Milano: Franco
Angeli, 1993 e la formazione degli adulti come autobiografia, Milano: Cortina, 1996. Su questa linea si vedano
anche i lavori di Duccio Demetrio, in particolare Manuale di educazione degli adulti, Roma-Bari: Laterza, 2003,
e Filosofia dell'educazione ed età adulta. Simbologie, miti e immagini di sé, Torino: UTET, 2003; e ancora, di D.
Demetrio e A. Alberici, Istituzioni di educazione degli adulti Milano: Guerini e associati, 2002; interessante, in
questa direzione, il lavoro della rivista «Adultità».
________________________________________________________________

4
STEFANO ZAMPIERI PRATICHE FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER ADULTI
________________________________________________________________

La conduzione filosofica della classe


L’obiettivo preliminare, dunque dovrebbe essere quello di introdurre nel
lavoro quotidiano dell’insegnante una massiccia dose di riflessività, per far
fronte alla domanda esistenziale che proviene dallo studente adulto che rientra
in formazione, e che attende di trovare subito una risposta, senza la quale essa
rischia di mettere in crisi ogni tentativo di trasmissione di contenuti o di
sviluppo di competenze. D’altra parte è proprio questa la svolta dalla quale è
possibile far emergere chiaramente il ruolo che la pratica filosofica può
assumere all’interno della dimensione scolastica.
L’ovvia considerazione di fondo è che la classe è, prima di tutto, una
piccola comunità d’intenti (oltre che d’apprendimento e di ricerca), che deve
vivere le situazioni del dialogo, della condivisione, dello scambio, del progetto
condiviso, tutte cose delle quali invece raramente ci si occupa, o tutt’al più
rientrano sotto la voce “condotta” che oggi merita una valutazione ma non
sembra meritare alcuna riflessione. Se invece partiamo dal presupposto che
l’insegnante non si limita a trasmettere conoscenze e valutare profitti, ma è
partecipe in prima persona di una comunità, allora la prospettiva muta
radicalmente, e la classe diviene finalmente uno spazio aperto di pensiero, un
luogo di pratiche, vale a dire un luogo ove si materializzano e prendono corpo le
teorie, confrontandosi con la realtà e così verificando la loro consistenza. Questo
passaggio va valorizzato adeguatamente: possiamo provare a ripensare il nostro
lavoro di insegnanti alla luce di un simile intento e ricollocare, tutta la nostra
attività didattica sotto i profili di natura pratico-filosofica che ho già indicato:
mettere in questione il vissuto problematizzando l’esperienza; esercitarsi allo
scambio, alla comunicazione, alla condivisione; esercitarsi a pensare
criticamente cioè facendo uso di un pensiero razionale e di una forma di
riflessione critica e aperta e mettere in primo piano la progettualità del singolo
accanto a quello del gruppo.
In parte è quello che racconta, ad esempio, Simona Alberti, nel suo
Pratiche filosofiche a scuola5, nel quale testimonia di un lavoro svolto con gli
studenti di un Istituto Tecnico per Geometri in Lombardia, grazie al quale
l’autrice ha sperimentato per tre anni consecutivi un approccio alla didattica
interamente progettato alla luce delle pratiche filosofiche. Vi emergono con
chiara evidenza alcuni dei tratti che ho appena indicato, in particolare vi si
sottolinea l’importanza dell’ascolto e dello scambio, vero fondamento del lavoro
in classe, spesso sottovalutato e ridotto alla questione dell’attenzione (o
distrazione), e dell’interesse (o disinteresse), mentre dovrebbe essere interrogato
come obiettivo da raggiungere e capacità da sviluppare. Per questo sarebbe
possibile proporre una ricchissima sequenza di attività, ne elenco solo qualcuna:
il far tenere la lezione allo studente, l’ascolto del qui e ora attraverso esercizi di
5
S. Alberti, Pratiche filosofiche a scuola, Vimodrone (Milano): Ipoc press, 2009
________________________________________________________________

5
STEFANO ZAMPIERI PRATICHE FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER ADULTI
________________________________________________________________
scrittura, esercizi di assunzione del punto di vista dell’altro, messa in scena del
dilemma etico (per esempio sfruttando episodi storici come la vicenda di Attilio
Regolo, o letterari), l’intervista ai testimoni, esperienze di dialogo socratico o di
comunità di ricerca, cioè tecniche specifiche della pratica filosofica, i laboratori
di pratica filosofica su specifici concetti. È evidente che alcune di queste sono
iniziative che talvolta sono realizzate in classe indipendentemente dall’approccio
filosofico, ma ciò che è decisivo, in questo caso, è proprio il fatto che tale
prospettiva riassume e racchiude anche esperienze didattiche già sperimentate e
ciò conferisce loro un senso del tutto differente: al di là della finalità specifica
infatti, esse rientrano in un lavoro globale di esercitazione all’ascolto e allo
scambio, che in quanto progetto unitario rappresenta un obiettivo esplicito e
quindi verificabile nel percorso.
Lo stesso vale per il secondo profilo, quello della messa in questione dei
vissuti. Qui il lavoro più semplice e più efficace è certamente quello del
racconto autobiografico, esperienza già ben nota agli insegnanti ma che può
essere perseguita in ogni momento dell’attività didattica ad ogni livello perché è
un modo essenziale per dare nome a sentimenti e mozioni personali6, inoltre
consente di ampliare spazi di riflessione e autoriflessione, e di riattivare
meccanismi di autostima e di motivazione; e ancora, consente di pensare al
proprio futuro riconsiderando il passato alla luce del presente, e rende possibile
dare spazio a nuove letture della propria storia, e di quella di altri quando
condivisa. “La scrittura autobiografica e la condivisione orale – dice benissimo
Simona Alberti – porta a un esercizio di auto-epochè: si mettono in sospensione
i soliti modi di rappresentarsi, quel modo di pensarsi troppo noto, ovvio e
conosciuto, e si apre uno spazio dubitativo che permette di ripensarsi e
raccontarsi in modo nuovo, prendendosi cura di sé: è cura perché si diviene
presenti a se stessi, ci si sente sentire, si pensa come ci si pensa”7.

L’esercizio filosofico dell’autobiografia


Riflettiamo ancora su questo aspetto essenziale: la scrittura autobiografica è
stata progressivamente cacciata dalle nostre scuole. È una osservazione che
sorge spontanea, ad esempio, se si osservano i titoli della prima prova del nuovo
esame di maturità: il tema letterario è ormai solo analisi del testo, e vi è
sostanzialmente preclusa la possibilità di sviluppare la dimensione dei valori e
dell’esperienza che dalla letteratura sarebbe invece facile ricavare; il saggio
breve o l’articolo di giornale per definizione richiedono un tono neutrale non
soggettivamente implicato nella materia; resta tutt’al più l’ultima traccia, che
ormai è considerata refugium peccatorum per studenti zoppicanti. Non serve
sottolineare quanto le argomentazioni antiretoriche che hanno ispirato questi
6
Abbiamo ben presenti le parole di Umberto Galimberti che rinviene nei giovani d’oggi un
“analfabetismo emozionale” di cui fa colpevole proprio la scuola: cfr U. Galimberti, L’ospite inquietante,
Milano: Feltrinelli, 2007
7
S. Alberti, Pratiche filosofiche a scuola, cit., p. 143
________________________________________________________________

6
STEFANO ZAMPIERI PRATICHE FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER ADULTI
________________________________________________________________
modelli siano deboli e approssimative, basate su di una sostanziale
incomprensione della retorica stessa, confusa superficialmente con un generico
parlar vuoto da contrapporre ad una fantomatica concretezza anglosassone in
una prospettiva di scrittura funzionale molto aziendalistica.
È chiaro, inoltre, che la prospettiva d’esame, per emanazione, informa tutta
la pratica di scrittura del triennio. In questo modo se ancora si può pensare ad un
esercizio di scrittura autobiografica ciò accade solo nel biennio ma nel contesto
di una facile introduzione alla scrittura, per esempio attraverso il genere del
diario, considerato forma ingenua ed immediata da superare al più presto nella
direzione di prove più alte e significative.
Ma l’autobiografia non è affatto una pratica ingenua. Non voglio qui
ripercorrere nemmeno a grandi linee un territorio di studi vastissimo 8; vorrei
piuttosto proporre, ancora una volta, un discorso d’esperienza. Quella che io
stesso ho realizzato più volte in questi ultimi anni all’interno di un corso di
scuola secondaria superiore per studenti adulti.
È opportuno fare innanzi tutto una precisazione: per il corsista adulto in
modo particolare, il momento autobiografico non è soltanto una occasione di
scrittura ma, ancor più, il momento in cui può tracciare il suo profilo
esistenziale, ricollocandosi nella nuova situazione del rientro in formazione e di
tutto l’insieme dei progetti di vita che vi risultano connessi.
È facile constatare, tuttavia, che un meccanismo non molto diverso si può
riprodurre anche per l’adolescente che ha la necessità di conquistare una
capacità auto riflessiva che non gli è sempre naturale. Di fronte alla continua
lamentela nei confronti dei nostri giovani, accusati di essere sempre meno
presenti al loro tempo, sempre più preda di modelli televisivi, sempre meno
capaci di misurare la realtà, e quindi il campo delle loro possibilità e dei loro
limiti, ci si chiede spesso quali strategie reali abbia adottato la scuola italiana,
cioè l’ultimo baluardo formativo ancora non interamente travolto dal modello
mercantile che domina la società. Ecco, la pratica della scrittura autobiografica è
un piccolissimo contributo nella direzione di un lavoro sulla consapevolezza che
è qualità preziosa da coltivare adeguatamente se si vuol creare persone complete
e cittadini non emarginati. A conforto di questa prospettiva vale la pena
osservare che anche la recente Raccomandazione del Parlamento Europeo del 18
dicembre 2006 pone la Consapevolezza come una delle otto competenze chiave
per l’apprendimento e parla esplicitamente dell’importanza dell’espressione
creativa di idee, esperienze ed emozioni.

8
Mi limito a ricordare, almeno come punto di riferimento ancora ineludibile, il saggio di Marziano
Guglielminetti Memoria e scrittura. L’autobiografia da Dante a Cellini,Torino: Einaudi, 1977, e, anche per la
bibliografia, il testo di Duccio Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Milano: Raffaello
Cortina Editore, 1995; sul versante didattico resta fondamentale il testo di Malcom Knowles, La formazione
degli adulti come autobiografia, Milano: Raffaello Cortina Editore, 1996, mentre su quello filosofico voglio
segnalare un piccolo aureo libretto di Maria Zambrano, La confessione come genere letterario, Milano: Bruno
Mondadori, 1997.
________________________________________________________________

7
STEFANO ZAMPIERI PRATICHE FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER ADULTI
________________________________________________________________
Nel caso specifico della mia esperienza, il percorso si è svolto nel corso di
un intero anno scolastico e si è articolato, innanzi tutto, nella stesura dei testi,
senza letture preliminari e senza particolari presentazioni di natura formale, per
evitare che si sovrapponessero immediatamente dei modelli estranei; la sola
introduzione è stata una discussione iniziale sul significato condiviso del termine
autobiografia, e sulla sua connessione col termine sincerità. Discussione che ha
stabilito i limiti riconosciuti dal gruppo rispetto a quanto era opportuno
raccontare tenendo presente che il progetto prevedeva la lettura dei testi alla
classe.
La scelta delle tracce di lavoro ha richiesto una preparazione accurata.
Innanzi tutto perché ho preferito evitare ogni sviluppo di tipo cronologico che
avrebbe reso, per certi versi, abbastanza monotoni e prevedibili gli elaborati.
Nello stesso tempo la scelta delle tracce doveva essere realizzata in funzione
dell’età e della provenienza degli studenti, ma anche di specifiche problematiche
locali (la presenza di diversamente abili ad esempio). Nel mio caso lavorando
con classi di adulti e con una presenza di stranieri che col tempo è divenuta
preponderante, ho scelto all’inizio tracce che consentissero di ricostruire non
solo l’immagine di sé, (Autoritratto) ma anche il passaggio da una situazione di
vita ad un’altra (Le case della mia vita, Le città importanti della mia vita) e,
ancora, una ricollocazione nel tempo (Le grandi scelte della mia vita, Passaggi);
oppure rivolte alla narrazione di sé attraverso una ricostruzione del tessuto delle
relazioni (Le persone più importanti della mia vita, Chi mi ha aiutato, Le eredità
personali), o ancora puntate alla focalizzazione degli eventi (Una giornata da
ricordare, Una giornata da dimenticare), ma anche alla trasfigurazione
immaginaria degli oggetti (C’è un oggetto nella mia vita) o dei propri progetti
(Il mio sogno).
È chiaro che se la classe entra pienamente nello spirito del lavoro è
possibile chiedere agli stessi corsisti di suggerire di volta in volta le tracce da
sviluppare. In questo modo il percorso diviene via via sempre più fedele alla
situazione specifica che si sta vivendo, e maggiormente capace di rappresentarla.
Un’attenta considerazione è necessaria anche per quanto riguarda la
correzione e la valutazione degli elaborati: meno sensibile alle inadeguatezze
ortografiche e più a quelle espressive. In base alla convinzione che, in certe
situazioni, noi insegnanti dovremmo liberarci di un certo assillo rispetto alla
forma, che crea spesso una sensazione di inadeguatezza e quindi di reattività di
fronte alla pratica della scrittura, soprattutto quando è personale, non guidata,
non sostenuta da materiali e da testi di riferimento.
Dare spazio all’espressività, dunque è stata la prima regola che mi sono
posto in questo progetto, cioè restituire dignità didattica alla capacità dello
studente di toccare le corde dell’emotività con gli strumento della riflessività,
dimostrando di saper mettere in scena se stesso di fronte agli altri in maniera

________________________________________________________________

8
STEFANO ZAMPIERI PRATICHE FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER ADULTI
________________________________________________________________
efficace e realistica, anche usando forme non del tutto convenzionali, e facendo
emergere valori, scelte, prospettive comuni a più d’uno.
I testi sono stati letti e discussi alla classe mano a mano che venivano
realizzati, e si è sollecitato lo scambio di valutazioni e di commenti, il confronto
reciproco, l’immersione dell’intero gruppo nelle situazioni di vita che sono state
via via messe in scena. Individualmente lo studente ha raccolto tutti i propri
elaborati in un unico file che alla fine dell’anno scolastico ha preso la forma di
una vero e proprio Esercizio di scrittura autobiografica.
Soltanto in una seconda fase il lavoro di scrittura è stato fatto reagire con il
testo letterario che è infinitamente ricco di esempi utilizzabili. In questo modo si
è lavorato sul filo di un rovesciamento della prassi consueta, che è quella di
cercare l’esperienza nel testo, per mettere invece il testo stesso alla prova
dell’esperienza. Nella mia pratica ho constatato che l’attenzione, la sensibilità, la
reattività dei corsisti appare moltiplicata e ingigantita dalla propria esperienza
personale di scrittura autobiografica quando viene messa di fronte al testo
letterario. Così che anche certi topoi della letteratura autobiografica (ad esempio
i sonetti autobiografici di Alfieri, Foscolo, Manzoni, oppure le Confessioni di
Agostino e di Rousseau, o le Vite di Cellini e di Alfieri, o le Memorie di
Goldoni) possono essere riletti sotto un’altra luce, meno astratta e meno distante,
come prove ulteriori di riflessione e di analisi di esistenze autentiche, piuttosto
che come semplici elaborazioni formali, lontane nel tempo e sostanzialmente
astratte e impersonali. Ci si avvicina in questo modo alla materia viva della
letteratura che è vita prima di tutto, vita messa in forma, cioè vita che diventa
racconto, esperienza.
Non si può nascondere, naturalmente, che un’attività di questo tipo pone un
problema assai delicato e reale. Perché attraverso la scrittura autobiografica
condivisa è inevitabile andare a toccare i tasti dell’emotività di fronte ai quali
l’insegnante si sente spesso impreparato. Non è difficile immaginare, infatti, la
situazione che si crea in classe quando un corsista straniero piange leggendo la
descrizione della sua città natale. Il clima di empatia che si realizza fra i corsisti
ma anche la tensione delicatissima che può sfociare in un momento di difficoltà
individuale. Situazioni di questo genere costituiscono, insieme, esperienze di
crescita personale difficilmente dimenticabili, ma anche assai delicate da gestire.
Ciò pone il problema della formazione dell’insegnante anche sotto questo
profilo. Problema che può essere affrontato solo se l’insegnante per primo si
rende conto della sua stessa necessità di adottare un atteggiamento interrogativo
verso di sé e verso il proprio mondo, una capacità riflessiva e introspettiva, una
capacità di riconoscere e comprendere le emozioni proprie e altrui, cioè in
definitiva se si accinge ad una vita esaminata, la sola, a detta di Socrate, degna
di essere vissuta.

Pensare razionalmente e creativamente

________________________________________________________________

9
STEFANO ZAMPIERI PRATICHE FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER ADULTI
________________________________________________________________
Ho indicato, tra le linee di confine delle pratiche filosofiche nell’attività
formativa la pratica del pensare razionalmente, e su questo è facile, ovviamente,
immaginare il ruolo che la pratica filosofica può rivestire in quanto strumento
principe per il lavoro sulla razionalità. Ma non ci si deve ingannare: proporre in
classe attività di recupero e di sviluppo delle abilità logiche è abbastanza facile,
così, ad esempio, lavorare sulla contraddizione, sulla tesi e l’antitesi, sui
processi causa - effetto, ecc. è semplice per chi abbia un minimo di
preparazione filosofica, il rischio semmai, è quello di cadere nel limite opposto
del razionalismo: cioè far passare l’idea che il solo metodo giusto per pensare
sia quello strettamente razionale, subordinando così tutti i processi creativi, di
immaginazione, di metaforizzazione, figurali ecc.
A mio modo di vedere, invece, l’obiettivo più alto dovrebbe essere quello
di mostrare insieme l’efficacia di un processo razionale di pensiero, e l’utilità di
un suo utilizzo costante, e allo stesso tempo far emergere l’indispensabile
flessibilità che il pensiero deve conservare, il bisogno di metafore, di immagini,
di passaggi creativi. La stessa logica, in realtà necessita di una creatività che va
educata e sperimentata.
Il pensiero razionale non deve, dunque, essere pensato come una
applicazione di regole e di meccanismi, esso, infatti, è anche attività creativa, e
la creatività , dunque, è attitudine che deve essere messa in atto filosoficamente.
Lo si può fare attraverso mille attività, come racconta ancora Simona Alberti ,
da quelle centrate sull’uso delle metafore, al gioco delle scatole della memoria
nelle quali vi sono alcuni oggetti dai quali bisogna ricostruire una biografia, al
gioco del “se fossi…” (un’ottima variante al commento di Cecco Angiolieri),
alla riscrittura di brani celebri (per esempio l’incipit della Divina Commedia),
all’esercizio tipico delle antiche scuola filosofiche dello “sguardo dall’alto”,
all’esercizio di descrizione di un oggetto in base alle relazioni che lo hanno
determinato (chi lo ha costruito, chi lo ha progettato, chi lo ha pulito, chi lo ha
portato, chi lo ha rotto, ecc.), o ancora al gioco di immaginare di essere un altro,
e via di questo passo.
Certo, non si può non osservare, che queste pratiche comportano anche dei
pericoli: primo fra tutti che vengano scambiate per semplici occasioni ludiche,
diversivi, momenti di svago rispetto alla serietà del lavoro didattico, ma ciò
accade solo quando esse sono sporadiche, occasionali, staccate cioè dal
percorso, non quando sono inserite in un progetto esplicito e condiviso, quando
rientrano nel piano di un lavoro ben definito anche se sostanzialmente
“trasversale” rispetto agli obiettivi specifici delle discipline. “Le pratiche –
commenta Simona Alberti – non devono essere momenti di sfogo che
compensino la fatica e la serietà dell’impegno scolastico tradizionale, momenti
staccati dalla quotidianità della didattica; se così fosse non avrebbero la
possibilità di produrre cambiamento, ma offrirebbero occasioni consolatorie di

________________________________________________________________

10
STEFANO ZAMPIERI PRATICHE FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER ADULTI
________________________________________________________________
liberazione.”9 . D’altra parte, è anche evidente che lavorare in questo modo,
forse non va nella direzione efficientistica oggi in voga, perché introduce un
certo rallentamento nell’attività, e sappiamo quanto lo sviluppo dei programmi
costituisca una ossessione nei consigli di classe. Dobbiamo chiederci, piuttosto,
se questa ansia da prestazione non sia una delle cause del nostro disagio, come
osserva la stessa Alberti: “La scuola ha fretta, ha fretta di accumulare saperi, di
snocciolare informazioni, di completare programmi, contagiata dai ritmi e dalla
frenesia del mondo in cui si trova: una scuola che deve stare al passo coi tempi,
fornire risultati quantificabili, numerabili, classificabili, e chissà, a volte, non
così sostanziali. È una scuola che si dimentica di sé”10 .

Lo sportello di consulenza filosofica


Ho accennato fin qui ad alcuni possibili punti di riferimento pratico
filosofici nella conduzione della classe, immaginando la situazione di un
insegnante filosofo, oppure di un insegnante affiancato da un filosofo nel suo
lavoro quotidiano, è ora opportuno fissare la prospettiva sull’offerta specifica
che il filosofo consulente può proporre allo studente e all’insegnante.
Nel primo caso il filosofo consulente può essere chiamato ad intervenire a
fronte delle difficoltà che il singolo può vivere nella condizione scolastica. Da
questo punto di vista la consulenza filosofica nella scuola rappresenta un tipo di
risposta assolutamente innovativa. Già dal 2003 ho avviato con questo intento
un laboratorio filosofico per gli studenti che ha avuto molta fortuna e che
continua tutt’ora. Il passo successivo è stato quello di affiancare al laboratorio
una attività di sportello individuale.
D’altra parte, in un certo senso, il passaggio è stato quasi naturale. Nel mio
lavoro di responsabile del corso per adulti ho infatti sempre avuto la necessità di
instaurare rapporti di dialogo personale con gli studenti, tanto in fase di
accoglienza, quanto nel corso dell’anno scolastico. Il lavoro con l’adulto è infatti
costantemente un lavoro di colloquio, di accompagnamento e di ascolto.
L’adulto stesso ha necessità di individuare una figura cui rivolgersi, cui
esternare le proprie difficoltà, alla quale rapportarsi nel momento in cui deve
gestire un cambiamento o prendere delle decisioni che riguardano insieme la sua
condizione esistenziale (famiglia, lavoro) e la sua condizione di studente. Una
simile figura anche quando non è indicata in modo esplicito è determinata dallo
studente stesso, che sa percepire da sé quale fra gli insegnanti è in grado di
prestargli ascolto. È chiaro che una specifica competenza nel campo della
consulenza filosofica rende sicuramente efficace e non casuale il colloquio, ma
insieme è altrettanto chiaro quanto l’esperienza personale dell’insegnante sia
essenziale per rendere operativa la consulenza filosofica nella scuola.

9
S. Alberti, Pratiche filosofiche a scuola , cit., p. 221
10
Ivi, p. 275
________________________________________________________________

11
STEFANO ZAMPIERI PRATICHE FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER ADULTI
________________________________________________________________
Per presentarlo all’Istituto il progetto è stato costruito in funzione di
obiettivi coerenti con il Piano dell’Offerta Formativa e con il progetto globale
del corso per adulti: rinforzare la motivazione attraverso la chiarificazione
esistenziale degli obiettivi individuali; sviluppare tanto il senso di autonomia
dello studente quanto la sua disponibilità alla relazione con altri; introdurre lo
studente alle pratiche della cura di sé e quindi: narrativizzare la propria
esistenza, delucidare il proprio sistema di valori, mettere in questione le
acquisizioni esistenziali assunte senza adeguata riflessione; rafforzare il senso di
appartenenza alla struttura formativa.
Appare chiaro l’intento di contemperare gli obiettivi propri della
consulenza filosofica (autonomia, relazione, cura di sé) con quelli propri
piuttosto del mondo scolastico (motivazione, senso di appartenenza). Ma
sarebbe facile mostrare come nel loro insieme questi traguardi appartengano al
campo dell’andragogia, ovvero il principale riferimento teorico nella formazione
dell’adulto.
È stato quindi fissato un orario di sportello di 2 ore settimanali da ottobre a
maggio. Anche se poi, nel concreto svolgimento, le cose sono andate piuttosto
diversamente, nel senso che è stato necessario concordare di volta in volta con i
consultanti gli orari migliori per non interferire eccessivamente con le lezioni.
Ma soprattutto perché le numerose richieste mi hanno portato a svolgere una
media di quattro/cinque incontri di consulenza alla settimana.
L’atteggiamento dell’istituzione di fronte a questa iniziativa è stato fin
dall’inizio abbastanza problematico. Innanzi tutto perché non c’è ancora una
sufficiente conoscenza della consulenza filosofica e quindi obiettivamente è
risultato difficile spiegare in che cosa consistesse il progetto. Per appianare
questi ostacoli esso è stato presentato insieme ad alcune pagine di introduzione
generale alla pratica filosofica, ad una serie di citazioni e ad una bibliografia.
Materiali che sono stati diffusi all’interno dell’Istituto e che se pur non hanno
fugato le perplessità, almeno hanno contribuito a diffondere una prima
informazione rispetto alla possibilità di un uso diverso delle competenze
filosofiche.
Delicati si sono rivelati anche i rapporti con i colleghi. I quali si sono
preoccupati essenzialmente del fatto che i colloqui potessero in qualche modo
incidere sui loro rapporti con i corsisti. Anche in questo caso lo scetticismo è
rimasto l’atteggiamento più diffuso, con l’eccezione di alcuni insegnanti che
sono stati coinvolti nelle attività di laboratorio e hanno così potuto fare
esperienza diretta della pratica filosofica.
L’iniziativa, denominata S.O.F.I.A. ovvero Sportello di Orientamento
Filosofico Individuale per Adulti, è stata presentata ad un pubblico di oltre
duecento studenti adulti sottolineando il ruolo del filosofo consulente, come
quello di uno specialista in pratiche filosofiche, che ha esperienza di ascolto, di
orientamento individuale, di motivazione. E l’attività in sé è stata definita

________________________________________________________________

12
STEFANO ZAMPIERI PRATICHE FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER ADULTI
________________________________________________________________
sinteticamente come un dialogo di chiarificazione dell’esistenza nel quale non si
indaga il passato ma si discute il presente, per orientare alle scelte (lavoro,
università ecc.), per prepararsi ad un cambiamento, per affrontare un dilemma,
per orientarsi fra diverse possibilità esistenziali, per fare chiarezza sulla propria
visione del mondo, per mettere a fuoco i propri valori morali, per vincere un
disagio momentaneo; un dialogo, dunque, nel quale il Filosofo consulente non
dà risposte, ma usa gli strumento della riflessione filosofica per mettere
l’interlocutore in condizione di trovare le proprie soluzioni ai problemi proposti,
oppure fare chiarezza intorno ai propri valori, alla propria visione del mondo;
attraverso il dialogo, infatti, il filosofo consulente sviluppa analisi, formula
ipotesi, confronta diverse possibilità, propone sintesi, apre scenari, mette ordine
nella complessità, ma è sempre il consultante che costruisce la propria
riflessione su di sé, e si avvia così lungo una nuova esperienza di vita esaminata.
Quasi tutti gli studenti si sono presentati con l’intenzione di affrontare la
preoccupazione nei confronti dell’Esame di Maturità, oppure quella relativa ad
un possibile insuccesso scolastico. Entrambi questi eventi hanno per l’adulto un
significato complesso, poiché si collocano nella dimensione del possibile scacco
esistenziale e coinvolgono in questo senso l’intera persona dello studente, i suoi
progetti, le sue speranze, le sue prospettive. Il fallimento dell’obiettivo
scolastico, per chi rientra in formazione da adulto, rappresenta un giudizio
radicale sulla sua stessa persona. Si comprende bene, allora, il carico di
preoccupazioni e il disagio cui può dare luogo. Naturalmente, questo punto di
partenza, è stato anche il tema che si è risolto più facilmente ragionando sulla
dinamica del progetto esistenziale, degli obiettivi e dei limiti. Tuttavia le
consulenze non si sono mai chiuse su questo, perché ogni volta il consultante ha
richiamato al di là delle questioni più strettamente pertinenti al suo percorso
scolastico, altre problematiche di natura personale. L’apertura del consultante è
andata ampliandosi mano a mano che si è sviluppata la fiducia nei confronti del
consulente e che si è chiarita, attraverso il dialogo, la natura non terapeutica e
non consolatoria, ma etica, della consulenza filosofica.
Sono così venuti alla luce problemi relazionali ed esistenziali che hanno
richiesto percorsi talvolta abbastanza lunghi. È venuta ad esempio alla luce la
difficoltà per molti di ripensare, riprogettare, la propria vita dopo un
cambiamento importante, una separazione, un lutto. Mentre i più giovani hanno
messo in campo tutte le difficoltà relative alla precarietà del proprio futuro
professionale e familiare.
Certo, generalizzare esperienze come queste forse non è facile anche
perché richiede competenze ancora poco diffuse. Ma io resto convinto che la
consulenza filosofica nella scuola rappresenti una novità di grande rilievo,
perché è chiaro che comporta un modo diverso di intendere la funzione stessa
del servizio che si offre, rivolto prima di tutto alla infinita complessità della
persona piuttosto che alla semplice trasmissione delle conoscenze. Essa potrebbe

________________________________________________________________

13
STEFANO ZAMPIERI PRATICHE FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER ADULTI
________________________________________________________________
dunque, secondo me, rappresentare un momento importante in un percorso di ri-
umanizzazione della vita scolastica, che è sempre più urgente a fronte delle
forzature aziendaliste di questi ultimi tempi. Oggi che i luoghi dell’incontro,
dello scambio di relazioni, sono stati cancellati, Socrate non saprebbe più dove
andare per incontrare i giovani ateniesi, e rivolgere loro le domande necessarie a
togliere l’esistenza dalla banalità e dal luogo comune. Le piazze sono state
ridotte a luoghi telematici, ove fluttuano soltanto presenze virtuali, oppure a
mercati ove s’incontrano solo consumatori. Resta ancora la scuola, come luogo
in cui, almeno potenzialmente, ci si può incontrare senza utile, senza che
l’incontro sia mediato da un interesse o da un valore di scambio. Luogo in cui
agiscono e interagiscono persone, non semplicemente ruoli e funzioni. In cui le
discipline umanistiche in modo particolare possono mostrare di essere
testimonianze autentiche, elementi di una inesausta ricerca e di una
problematizzazione dell’esistenza umana, che non è solo un luogo comune dello
spirito, ma ciò che in cui tutti noi, studenti e insegnanti, ogni giorno ci troviamo
a vivere. Sempre che la scuola sappia difendersi dall’attuale ubriacatura di
metodi e processi, di parole d’ordine efficientistiche volte a blandire un cliente
attraverso una offerta formativa sempre più simile ad un catalogo di vendita, la
cui realtà è determinata solo da un adeguato processo di marketing.
A margine di questo avviatissimo processo restano ancora dei momenti di
libertà, sempre più rari, in cui possiamo, noi insegnanti, proporre esperienze che
vadano in un’altra direzione.

Il disagio dell’insegnante
Per completare il quadro del ragionamento, dopo aver preso in
considerazione la gestione della classe e il rapporto con lo studente, è opportuno,
ora, prendere in considerazione specificamente il compito della pratica filosofica
rispetto al ruolo, alla funzione e alla condizione dell’insegnante.
A mio modo di vedere, e in base alla mia esperienza di formatore e di
filosofo, nella scuola italiana manca del tutto la capacità di pensare ai rapporti
tra istituzione studente e insegnante come ad un’unica relazione complessa.
L’istituzione vive il suo rapporto con l’insegnante prevalentemente in termini
burocratici, così come, di riflesso, l’insegnante vive il suo rapporto con
l’istituzione prevalentemente in termini sindacali, dall’altra parte lo studente è
percepito sempre più dall’istituzione come un cliente cui vendere un prodotto, e
dall’insegnante come un problema da risolvere. Ancora, dalla prospettiva dello
studente l’istituzione appare sempre più come un mediocre fornitore di servizi,
del quale appaiono chiaramente tutte le manchevolezze e raramente appare
l’utilità. Manca, in tutto questo, la capacità di leggere il rapporto tra questi tre
termini, istituzione - studente – insegnante, come un rapporto unitario, come un
sistema unico inserito nella realtà della vita e della società.

________________________________________________________________

14
STEFANO ZAMPIERI PRATICHE FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER ADULTI
________________________________________________________________
Probabilmente se riuscissimo a mutare in questo senso la prospettiva degli
attori di questa vicenda, potremmo più facilmente intervenire sulle debolezze del
sistema stesso. E, in particolare, sul disagio dell’insegnante che deve mediare tra
l’istituzione e lo studente, e al quale viene attribuita la responsabilità individuale
dei successi e dei fallimenti, senza più alcun riconoscimento sociale, senza più
un mandato chiaro, senza alcuna capacità di incidere realmente sui processi
formativi. La situazione generale sembra essere, per lo più, quella di una perdita
generale di consapevolezza del proprio ruolo e della propria funzione. Ma una
scuola che perde la capacità di interrogarsi autenticamente sul proprio lavoro
non può che trovarsi impreparata e distratta di fronte alle difficoltà degli
studenti, a quei disagi che sono frutto del nostro tempo. E a sua volta il disagio
dello studente si riversa sull’insegnante. La leggerezza degli studenti, la loro
incapacità di realizzare comportamenti efficaci e di manifestare profondi
desideri di conoscenza, il disinteresse e l’indifferenza, si ribaltano così addosso
all’insegnante che si ritrova a vivere la propria professionalità in un ambiente
segnato dal malessere, da conflitti di cui non comprende né l’origine né il senso,
così come gli sfugge il senso del proprio operare e ha la costante e mortificante
sensazione di “non lasciare il segno”.
Non è difficile, soprattutto all’inizio dell’anno scolastico, percepire il
disagio con cui gli insegnanti affrontano il loro mestiere. Senza voler
generalizzare, è però sotto gli occhi di tutti il clima di irritazione che spesso si
realizza nelle riunioni e nelle attività comuni, la scarsa capacità di operare
insieme, ma ancor prima la scarsissima disponibilità allo scambio, al confronto,
alla discussione. Il più delle volte ci si limita a riproporre di anno in anno ciò
che è stato già fatto e che comunque bisogna fare, o che altri istituti hanno già
fatto e dunque “dobbiamo farlo anche noi”, perché la competizione tra scuole è
oramai motivo ricorrente e punto di riferimento nei Collegi.
Così l’insegnante assume spesso un atteggiamento di disincantata rinuncia,
che si manifesta o come abbandono delle proprie progettualità, che significa ad
esempio “tenere un profilo basso”, fare solo il dovuto, accontentarsi del minimo
senza mai rilanciare, senza pensare l’innovazione, senza dominarla, oppure in
una forma di attesa irritata, per cui si resta all’angolo fino a che qualcuno, il
ministero, il mondo politico, il dirigente, non proponga la novità, il progetto, che
quando giungono, ammesso che giungano, appaiono sempre e comunque
inadeguati.
Può sembrare, talvolta, che questi atteggiamenti finiscano per essere di
comodo, perché riducono oggettivamente l’onere del lavoro, ma non si fa caso
abbastanza al fatto che essi manifestano in realtà una reale condizione di
disagio, raramente infatti sono vissuti con serenità ed equilibrio, nella maggior
parte dei casi sono l’effetto di una difficoltà personale e contribuiscono ad
alimentarla.

________________________________________________________________

15
STEFANO ZAMPIERI PRATICHE FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER ADULTI
________________________________________________________________
Certo vi sono motivi strutturali che spiegano questa condizione di difficoltà
diffusa, motivi su cui non intendo qui inoltrarmi. Ciò che invece mi preoccupa è
l’idea che ci si affidi a poco probabili future trasformazioni della nostra scuola
come ad un alibi per perseverare nel proprio atteggiamento di passività e di
rinuncia. Senza cogliere il fatto che indipendentemente dalle strutture e dalle
loro inefficienze dentro le aule ci siamo sempre noi insegnanti e che la qualità
del nostro lavoro non è soltanto un fatto di “produttività”, anzi non lo è affatto,
se non per chi pensa una scuola sul modello industriale, ma è prima di tutto la
costruzione di un ambiente di vita.
Così accade che ci si preoccupa, giustamente, della condizione dei nostri
studenti e si inventano i progetti più bizzarri per migliorare la qualità del loro
stare a scuola, senza rendersi conto che per rendere positivo e accogliente un
ambiente è necessario che in esso si ritrovino senza difficoltà tutte le parti in
gioco. Non si può, dunque, immaginare che gli studenti possano “stare bene a
scuola” se gli insegnanti vi stanno male. Ma il disagio degli insegnanti pare non
essere mai messo a tema, se non a supporto di qualche campagna giornalistica,
o a margine di un confronto sindacale, cioè in forme essenzialmente strumentali.
Così, dalla mia doppia prospettiva, di insegnante e di filosofo consulente,
sto tentando di osservare le cose mettendo a fuoco prima di tutto la scena che si
realizza quotidianamente nell’ambiente scolastico. Non è difficile individuare,
ad esempio, il disagio che si manifesta attraverso le varie forme dell’attesa:
l’insegnante precario che attende inutilmente la regolarizzazione della sua
posizione, l’insegnante che vive in perenne attesa di un trasferimento,
l’insegnante che aspetta solo di andare in pensione, quello che aspetta la
riforma… Oppure della delusione: l’insegnante deluso dagli studenti, deluso dai
colleghi, dalle gerarchie, dall’istituzione. E ancora le incertezze rispetto al fare e
non fare: l’insegnante che vorrebbe fare ma nessuno lo aiuta, e dunque non fa,
quello che farebbe se poi gli altri riconoscessero il suo lavoro, quello che ha
fatto tanto in passato e ritiene che ora tocchi agli altri, quello che ha un altro
lavoro che gli dà status e risorse. Quello che fa, progetta, partecipa solo per
ottenere un ruolo sociale che altrimenti gli risulterebbe impossibile. Mettiamoci
infine anche l’insegnante che noi tutti vorremmo essere, quello presente, attivo
e partecipe: anch’esso non può non soffrire di un mancato riconoscimento da
parte dei colleghi, delle gerarchie, degli studenti, e in generale dell’opinione
pubblica.
La questione è che, per la natura speciale del suo lavoro, l’insegnante non
può, neanche volendo, separarsi dal frutto del proprio operare, cioè agire come
se fosse uno strumento in mani altrui. L’insegnante non può fare a meno di
esserci, cioè di essere presente nella situazione, con il proprio linguaggio, le
proprie conoscenze, il proprio modo di intendere lo scambio, le relazioni, i
rapporti. Proprio per questo anche l’atteggiamento rinunciatario, disinteressato e
attendista, per quanto possa creare un vantaggio apparente - la riduzione del

________________________________________________________________

16
STEFANO ZAMPIERI PRATICHE FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER ADULTI
________________________________________________________________
carico di lavoro - in realtà comporta conseguenze pesanti per l’insegnante che
in questo modo si ritaglia un ambiente di vita asfissiante, povero di scambi e di
sollecitazioni, mortificante per la sua professionalità ma soprattutto per quella
parte della sua vita che rientra nel tempo-lavoro e che sarà per questo vita
sottratta, vita rubata, vita alienata.
Forse potremmo riassumere questo disagio dell’insegnante con una
espressione filosoficamente rilevante, potremmo infatti parlare di una diffusa e
profonda crisi di senso, per indicare la difficoltà che noi operatori della scuola
troviamo ogni giorno nel pensare il nostro lavoro: ignorati dal mondo politico,
poco stimati dall’opinione pubblica, poco riconosciuti sul piano economico -
l’unico rilevante nella nostra società -, poco rispettati dagli studenti che hanno
ben altri miti e che vivono il bombardamento di chi cerca di convincerli che sia
più importante la linea, il look e l’appeal dello studio. È comprensibile che in
questa condizione si diffonda una domanda, senza risposta, rispetto al senso del
nostro agire.
Ma come si risponde ad una crisi di senso?
Innanzi tutto dobbiamo chiarire un possibile equivoco: se qualcuno spera di
poter trasformare un lavoratore insoddisfatto in un lavoratore entusiasta senza
modificare le condizioni del suo lavoro, ma semplicemente trovando la formula
di un suo adattamento non conflittuale alla situazione, certamente si sbaglia. È
chiaro che non può essere pensato in questo modo un intervento di natura
filosofica sul disagio dell’insegnante. E la consulenza filosofica non può
prestarsi a simili operazioni perché negherebbero la sua stessa natura di
attitudine riflessiva, di pratica volta alla elaborazione di un modello di vita
esaminata, e quindi di messa in questione di ogni fondamento, di ogni valore, di
ogni nostra convinzione. Non si tratta, dunque, di dare vita ad un lavoratore che
si accontenti beatamente della sua condizione trasformando le crisi di senso in
un ottundimento generale della sua capacità di leggere criticamente le situazioni
nelle quali è inserito. Non si tratta di fissare certezze, né di offrire formule
morali o modelli etici preconfezionati, quanto piuttosto di individuare gli
strumenti attraverso i quali ognuno può giungere alla propria moralità
individuale, al di là dei luoghi comuni e delle pretese esterne. Ciò non significa,
dunque, operare al fine di un adattamento, quanto piuttosto in funzione di una
personale costruzione di valori a partire dai quali ritrovare il senso del proprio
operare quotidiano. Un senso né pacificato, né conciliante, ma tale da
consentirci quantomeno di contrastare il nostro disagio e di vivere il nostro
lavoro, e anche i nostri conflitti, senza esserne travolti.
Non c’è dubbio che tutto questo dovrebbe avvenire fin dalla fase della
formazione. Come afferma giustamente Luigina Mortari, “la formazione
dell’educatore dovrebbe prevedere percorsi di rielaborazione riflessiva della
propria esperienza allo scopo di comprendere come i propri modi esistentivi
dell’aver cura si vanno modellando. A questo scopo è essenziale sviluppare la

________________________________________________________________

17
STEFANO ZAMPIERI PRATICHE FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER ADULTI
________________________________________________________________
capacità di auto-osservazione critica, che deve avere quello sviluppo temporale
necessario per descrivere analiticamente l’evolversi dei modi propri di stare
nella relazione.”11 Nel momento in cui l’insegnante mette piede in classe
dovrebbe portare con sé un bagaglio di attitudini ben sviluppate relative alla sua
capacità di far tesoro dell’esperienza, ad esempio, cioè di interrogarsi sui propri
gesti, di esaminare la situazione in cui si viene a trovare e quindi di mettere in
discussione la rete di relazioni, complessa, avvolgente, intricata che lo stringe
agli studenti ogni volta che fa lezione. Ciò significa per un insegnante aver
acquisito la pratica della cura di sé: “apprendere la tecnica dell’aver cura di sé è
doppiamente essenziale per chi svolge la funzione di educatore dal momento che
la ragione d’essere della pratica educativa consiste nell’aver cura che l’altro
apprenda la passione e la tecnica dell’aver cura di sé e per essere capaci di
promuovere tale atteggiamento è necessario essersi esercitati a lungo in esso.”12
Solo un insegnante autenticamente capace di interrogarsi potrà trasmettere ai
suoi allievi questa essenziale capacità. Ma non sembra che nella scuola italiana
si operi mai in questa direzione. Di qui, allora, tutto quel malesse e quel disagio
personale che prende, talvolta, la forma del cosiddetto burn-out.13
Il burn-out, si badi non è solo la sindrome riconosciuta ma, in generale,
credo che dovremmo fare riferimento a tutte quelle condizioni di frustrazione,
apatia, disillusione, crollo delle motivazioni, e disinvestimento sempre più
ampio del proprio interesse nel lavoro. Atteggiamenti che si riversano
dannosamente sugli studenti ma che finiscono per rendere la vita dell’insegnante
una sofferenza continuamente rinnovata. L’idea che vorrei proporre è che la
pratica filosofica possa positivamente intervenire su di un disagio facilmente
riconoscibile e molto diffuso, prima che esso divenga una patologia. Non si
tratta di confondersi con le pratiche di natura terapeutica, ma di realizzare un
modello di “filosofia come vita vissuta e non come sistema, come ricerca di
senso”14 , una filosofia che non cura, che non ha cioè né finalità né approcci
terapeutici, ma si prende cura del disagio dell’esistenza, si assume cioè la
responsabilità di interrogarlo e di metterlo sotto esame. In questo senso, pensare
filosoficamente, può servire a vivere meglio, può aiutarci a scoprire un senso
nella vita, e quindi può contribuire a ridurre le difficoltà esistenziali, e in questo
senso, come sostiene Carlo Molteni, “riflettere sul valore e sui limiti
dell’insegnamento può permettere di prevenire il burn-out professionale”15.
Uno dei meccanismi attraverso i quali la filosofia pratica può agire è
sicuramente quello della “trascendenza” rispetto allo specifico problema.

11
L. Mortari, La pratica dell’aver cura, cit., p. 148
12
Ivi, p. 152
13
Per quanto segue mi è stato utile il bel testo di Carlo Molteni, Filosofia preventiva. Il Philosophical
Counseling per la prevenzione del burn-out degli insegnanti, Torino: Isfipp Edizioni, 2009, nella quale l’autore
rende conto di un suo progetto di pratica filosofica con un gruppo di insegnanti.
14
Ivi, p. 33
15
Ivi, p. 137
________________________________________________________________

18
STEFANO ZAMPIERI PRATICHE FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER ADULTI
________________________________________________________________
“Trascendere – precisa Molteni – significa aiutare gli insegnanti a guadagnare
una prospettiva più ampia, ad uscire in un certo senso fuori di sé, in una visione
che ridimensiona e legge diversamente la difficoltà”16. Il filosofo consulente può
agire, in questo senso, tanto lavorando sul gruppo quanto lavorando sul
colloquio individuale, si tratterà di volta in volta di valutare quale tipo di
intervento può essere più efficace, anche se forse, questa è la mia personale
esperienza, gli effetti più interessanti si realizzano proprio combinando entrambe
le prospettive, cioè agendo sia sul gruppo che, secondo la necessità, sui singoli.
In generale il lavoro con il gruppo di insegnanti, può essere centrato su
esperienze di sostegno, di riconoscimento, di collaborazione. Il conduttore si
ritaglia un ruolo di facilitatore della comunicazione ma anche di catalizzatore
del dialogo, proponendo di volta in volta le attività, tenendo le redini del
discorso collettivo, tracciando le linee di un percorso. Si può far uso del dialogo
socratico, volto a far emergere una visione più chiara dei presupposti che
bloccano una più critica visione della vita, a favorire l’utilizzo della ragione
riflessiva, e a utilizzare il pensiero creativo per prospettare nuovi scenari
possibili, nello spirito del con-filosofare, attraverso il quale “formare alla
responsabilità comune, alla cultura del dialogo e alla cooperazione solidale per
la soluzione dei conflitti”17. Certamente gli incontri devono svilupparsi a partire
da un momento preliminare di epoché, cioè di sospensione del giudizio, delle
logiche comuni, dei pregiudizi, e poi attraverso pratiche autobiografiche ed
esperienziali, dalle quali può nascere la necessità di analizzare concetti, di
criticare stereotipi sociali, di esplicitare visioni del mondo sottintese. Si possono
così mettere in luce le criticità e gli aspetti positivi dell’insegnare, cioè i limiti
del proprio operare. E si può recuperare collettivamente la categoria della
possibilità, nel tentativo di fare della vita professionale un progetto e non la
dichiarazione di una sconfitta.
Insomma, la pratica filosofica può essere una risorsa tanto nel lavoro con lo
studente, quanto nei confronti dell’insegnante, perché costringe chi se ne serve a
una continua messa in discussione del proprio operato, e si pone come obiettivo
non un astratto criterio di efficacia, ma la realtà delle persone, delle loro
aspettative, dei loro diritti, dei loro desideri, dei loro valori, e soprattutto aiuta a
rompere l’isolamento dei soggetti che vivono dentro la struttura scolastica,
perché parte dal principio della relazione che si instaura fra essi, una relazione
complessa, che si articola sui molti piani e molti livelli, e che non si riduce ad un
fatto tecnico, ma è prima di tutto una questione esistenziale.
A questo punto, tuttavia, è necessario porci un’altra domanda: è possibile
agire sul disagio intervenendo sulle persone piuttosto che sulle strutture? Io
credo di sì. Ma la risposta ha bisogno di essere adeguatamente argomentata.

16
Ivi, p. 47
17
Ivi, p.64
________________________________________________________________

19
STEFANO ZAMPIERI PRATICHE FILOSOFICHE NELLA SCUOLA PER ADULTI
________________________________________________________________
Innanzi tutto bisogna smentire l’idea che si tratti soltanto di condizioni
“individuali”. E ciò significa in primo luogo che ci si deve difendere da un
fenomeno che caratterizza la nostra società, cioè quello della patologizzazione
del disagio: il tentativo, non infrequente, di circoscrivere ogni condizione di
difficoltà personale in termini di disfunzione risolvibile con un adeguato
intervento terapeutico se non addirittura farmacologico. Il disagio
dell’insegnante non è certo una malattia, ma piuttosto una condizione, rispetto
alla quale è possibile intervenire agendo sulla dimensione delle scelte, dei valori,
dei progetti. Cioè sul profilo etico dell’esistenza.
Ciò che è in questione non è quindi un’emozione fuori controllo, uno stato
d’animo, quanto piuttosto una inadeguata capacità di mettere sotto esame la
propria condizione, il proprio essere nel mondo, cioè la rete delle coordinate in
base alla quale ci orientiamo nelle nostre scelte e nella fissazione dei nostri
obiettivi. Questa incapacità è condizione altamente diffusa in quanto rappresenta
propriamente il segno distintivo del nostro tempo e della nostra civiltà, nella
quale ciò che conta è assumere, da un lato, il ruolo del consumatore convinto e,
dall’altro, quello del funzionario di un Apparato tecnico mediatico per il quale
ogni occasione di riflessione personale appare soltanto come una inutile perdita
di tempo, cioè come una condizione improduttiva e tale quindi da essere messa
sotto accusa.
Da un punto di vista meramente operativo, dunque, la prima mossa di una
strategia volta a fare i conti con il disagio dell’insegnante, è quella di ritagliare
degli spazi e dei tempi all’interno dei luoghi di lavoro, cioè in situazione, dal
momento che, come si è detto, il disagio non è un fatto privato, ma attiene al
modo del nostro “stare al mondo”. Lo spazio e il tempo così circoscritti,
ovviamente, devono diventare lo scenario di una attitudine autoriflessiva e
insieme di scambio delle ragioni, cioè racchiudere pratiche di cura di sé, quanto
pratiche di condivisione, essere luogo di riflessione personale ma anche di
confronto collettivo. I luoghi del pensare, potremmo chiamarli, a condizione di
comprendere che il pensare solitario, la riflessione, l’esame di coscienza,
rischiano di essere pratiche volte ad un inutile auto compiacimento narcisistico
se non sono accompagnate dal pensare insieme, cioè da un esercizio di
colloquio.
In questo senso la pratica filosofica si offre come strumento adeguato alle
nostre scuole, e può offrire le proprie competenze relativamente alla conduzione
della classe, e alle relazioni che intercorrono tra studenti, docenti e istituzione,
sullo sfondo di una rinnovata attenzione etica, individuale e collettiva, che forse
è quanto di più necessario, oggi, per la società stessa.

________________________________________________________________

20

Potrebbero piacerti anche