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Università di Roma Tre (uniroma3)
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ines adornetti alessandra chiera valentina deriu
daniela altavilla giovanni valeri andrea marini
rita magni francesco ferretti
1. Introduzione
Questo articolo è frutto di pensieri e discussioni comuni tra gli autori. Specifichia-
mo che per la versione finale Ines Adornetti ha scritto i paragrafi 1, 2 e 4; Alessandra
Chiera e Valentina Deriu hanno scritto il paragrafo 3; Daniela Altavilla ha contribuito
alla stesura del paragrafo 4.1; Giovanni Valeri, Andrea Marini e Rita Magni hanno
contribuito alla discussone dei risultati; Francesco Ferretti ha contribuito alla stesura
dei paragrafi 2 e 5.
secondo altri tra questi due concetti esistono delle differenze e, pertanto, i due termini
devono essere utilizzati in modo diverso tra loro (cfr. Thompson, 2010). In questo arti-
colo usiamo i due termini in modo interscambiabile.
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li – complessità sintattica, lunghezza media degli enunciati, informa-
tività, ecc. –, la maggior parte di essi ha analizzato la macrostruttura
delle storie, in particolare l’elaborazione della coerenza tematica globale
(e.g., Diehl et al., 2006; Ferretti et al., 2018; Jolliffe e Baron-Cohen,
2000; Nuske e Bavin, 2011). Nell’ambito della letteratura sperimentale
la coerenza globale è stata valutata in molti modi. Ad esempio, alcuni
autori hanno suggerito di esaminare l’organizzazione della grammatica
delle storie ipotizzando che questa possa dare indicazioni sul modo in
cui i soggetti rappresentano mentalmente gli eventi che sono alla base
della costruzione di narrazioni ben formate (e.g., Stein e Glenn, 1979).
Altri hanno invece proposto di valutare la coerenza in riferimento alla
costruzione di relazioni causali e temporali tra gli eventi di una narrazione
(Karmiloff-Smith, 1985; Trabasso e Sperry, 1985). Questi diversi modi
di valutare la coerenza globale sono rintracciabili anche nelle ricerche
sperimentali sulle capacità narrative nell’autismo. Gli studi che hanno
indagato la coerenza globale in riferimento ai modelli teorici fondati sulla
grammatica delle storie hanno valutato il modo in cui le persone con
ASD utilizzano alcuni elementi considerati cruciali per la produzione di
narrazioni (e.g., Norbury e Bishop, 2003; Goldman, 2008). Secondo tali
modelli, per creare narrazioni globalmente ben organizzate è necessario
costruire una rappresentazione gerarchica dei principali elementi di una
storia. Nello specifico, una narrazione deve contenere: informazioni sulla
situazione contestuale (chi, quando e dove); un problema da risolvere, il
cosiddetto evento scatenante; le risposte interne (pensieri, emozioni, ecc.)
di un agente all’evento scatenante; gli obiettivi espliciti che muovono le
azioni dell’agente e che sono originati dalle sue motivazioni interne; i
tentativi dell’agente di conseguire gli obiettivi; la risoluzione finale del
problema (Trabasso e Stein, 1994).
A partire da questo sfondo teorico, Norbury e Bishop (2003) hanno
esaminato la capacità di bambini con ASD di età compresa tra 6 e 10 anni
di integrare nelle loro produzioni narrative tre dei sopraccitati elementi:
il problema scatenante; i tentativi di affrontare il problema da parte di un
agente; la risoluzione finale. Nello studio ai bambini veniva mostrato un
libro illustrato privo di testo ampiamente utilizzato nelle ricerche sull’A-
SD (cfr. Stirling et al., 2014) intitolato Frog, Where are you? (Mayer,
1969) e veniva poi chiesto loro di raccontare la storia raffigurata2. Dai
risultati è emerso che i bambini con ASD avevano performance simili
a quelle dei partecipanti del gruppo di controllo, bambini a sviluppo
vicende di un ragazzo e dei suoi due animali domestici, un cane e una rana. Di notte,
la rana esce dal suo barattolo e scappa. Al mattino, il ragazzo e il cane scoprono che
la rana è scomparsa e si mettono alla sua ricerca. Durante la ricerca, i due incontrano
molti animali e hanno una serie di incidenti. Alla fine, riescono a ritrovare la rana che
ora è con la sua famiglia. La storia si conclude con il ragazzo e il cane che prendono
con loro uno dei piccoli ranocchi.
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tipico (ST) di pari età cronologica, relativamente ai tre elementi della
grammatica delle storie oggetto dello studio. Scrivono le due studiose:
«Un po’ sorprendentemente, non c’erano differenze tra i gruppi relati-
vamente alla struttura della storia e siamo rimaste colpite dal modo in
cui la maggior parte dei bambini “capiva il senso” della narrazione»
(Norbury e Bishop, 2003, 307; trad. nostra). Uno stupore, quello delle
due autrici, non del tutto ingiustificato dal momento che i risultati della
loro ricerca sono stati ridimensionati in studi successivi (Young, Diehl,
Morries, Hyman e Bennetto, 2005; Barnes e Baron-Cohen, 2012). Questi
nuovi studi hanno evidenziato la necessità di distinguere tra la struttura
e il significato di una storia al fine di poter caratterizzare al meglio il
profilo narrativo delle persone con autismo. Dalle nuove indagini è
emerso che sebbene le persone con ASD siano in grado di produrre
narrazioni in cui sono presenti tutti gli elementi della grammatica delle
storie (struttura), nondimeno hanno difficoltà a mettere in atto processi
inferenziali relativi agli eventi delle narrazioni (significato). Young e
colleghi (2005) hanno mostrato che nel compito di valutazione narrativa,
basato sul libro illustrato Frog, Where are You?, partecipanti con ASD
di età compresa tra 6 e 14 anni ottenevano risultati simili al gruppo di
controllo relativamente agli elementi della grammatica delle storie, ma
prestazioni significativamente peggiori quando dovevano rispondere a
domande finalizzate a valutare la comprensione (il significato) delle
narrazioni da loro stessi prodotte.
I protocolli finalizzati a indagare la coerenza globale in riferimento
all’elaborazione delle relazioni causali tra gli eventi di una narrazione
si sono dimostrati strumenti di valutazione delle abilità di storytelling
nell’autismo più efficaci rispetto alle metodologie di analisi basate sulla
grammatica delle storie (e.g., Diehl et al., 2006; King, Dockrell e Stuart,
2014). Un paradigma di riferimento per l’analisi della coerenza globale
in termini di legami causali è rappresentato dal Causal Network Model
(CNM) (Trabasso e Sperry, 1985). A fondamento del CNM è l’idea che il
valore attribuibile a un dato elemento all’interno di un contesto narrativo
dipende dal ruolo causale che quell’elemento svolge in quel contesto: il
ruolo di un elemento dipende dal tipo e dal numero di relazioni causali
che esso intrattiene con gli altri elementi della struttura narrativa. Nello
specifico, in una narrazione possono darsi due tipi di relazioni causali:
connessioni causali e catene causali. Le prime corrispondono ai legami
locali diretti tra enunciati. Un esempio a tal proposito è dato dalla seguente
coppia di enunciati: “La mia amica oggi è molto felice. Questa mattina
ha preso un bel voto a scuola”. Le catene causali riguardano invece la
struttura globale del discorso (il gist) e offrono un indizio qualitativo
delle connessioni ad ampio raggio tra gli eventi di una storia, dal suo
inizio alla sua conclusione.
Attraverso un’analisi ispirata dal CNM, Diehl e colleghi (2006) sono
riusciti a evidenziare alcune difficoltà dei bambini con ASD nel mante-
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nere la coerenza narrativa durante un compito di re-telling. Il compito
prevedeva che i bambini ascoltassero l’audio-registrazione di Frog,
Where Are You? e successivamente raccontassero la storia mentre sfo-
gliavano il libro illustrato. I risultati hanno mostrato che le narrazioni
prodotte dai bambini con ASD erano meno coerenti rispetto alle narra-
zioni generate dai bambini a ST del gruppo di controllo perché contene-
vano un numero significativamente inferiore di connessioni causali.
Tuttavia, relativamente al parametro delle catene causali, la ricerca non
ha rilevato differenze tra i due gruppi: entrambi erano ugualmente sen-
sibili alla rete causale della storia originale. Tale rete era costituita da
34 eventi principali, che formavano il gist della storia, e 35 dettagli. I
bambini di entrambi i gruppi nei loro racconti tendevano a includere
gran parte degli eventi principali. Come conciliare questi due dati appa-
rentemente in contrasto tra loro? Questioni metodologiche possono
contribuire a spiegare questi risultati. È possibile che il task utilizzato,
vale a dire il compito di re-telling, abbia attenuato le difficoltà dei par-
tecipanti con ASD nell’elaborazione della coerenza narrativa. In tale
compito, infatti, ai soggetti veniva detto in anticipo che avrebbero do-
vuto ricordare la storia. Da questo punto di vista, l’attività di re-telling
si configura come un compito che elicita in primo luogo capacità di
memoria e solo in seconda istanza chiama in causa abilità narrative. Ora,
il punto critico, riconosciuto dagli stessi autori della ricerca (Diehl et
al., 2006, 96), è che gran parte degli eventi principali della storia (quel-
li che formavano il gist) venivano presentati alla fine. Un fatto, questo,
che potrebbe aver reso il compito più semplice ai partecipanti con ASD
che, come mostrato da vari studi, hanno maggiori probabilità di ricor-
dare gli elementi della fine di un elenco anziché quelli dell’inizio o del
centro (e.g., Renner, Klinger e Klinger, 2000). Pertanto, appare legittimo
ipotizzare che le indagini svolte attraverso compiti di questo tipo resti-
tuiscano una immagine solo parziale delle abilità di storytelling nell’au-
tismo.
Alla luce queste considerazioni, diventa interessante capire cosa ac-
cade quando le capacità narrative nell’autismo vengono investigate con
metodologie diverse e in contesti meno strutturati. Come si comportano
le persone con ASD quando devono costruire ex-novo una storia aven-
do a disposizione solo pochi indizi? Diverse ricerche hanno provato a
rispondere a questa domanda (Craig e Baron-Cohen, 2000; King et al.,
2014; Ferretti et al., 2018; Marini et al., 2019). In una indagine con-
dotta da King e colleghi (2014) a bambini con ASD di età compresa tra
11 e 14 anni veniva chiesto di raccontare una storia inventata a partire
da un tema generale. Dalle analisi è emerso che, rispetto al gruppo di
controllo di bambini a ST, i partecipanti con ASD generavano narrazioni
contenenti un numero significativamente inferiore di legami causali,
ad esempio includevano nei loro racconti meno spiegazioni di eventi,
azioni, emozioni e pensieri. Un dato a riprova del fatto che «le storie
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inventate prodotte dai bambini con autismo differiscono “globalmente”
da quelle prodotte dai bambini a sviluppo tipico» (King et al., 2014,
2447; trad. nostra).
Tale dato è stato confermato da Ferretti e colleghi (2018) in uno studio
sulle capacità di storytelling di bambini con ASD di età compresa tra 6
e 11 anni. L’obiettivo di tale studio era di estendere il CNM includendo
nella valutazione narrativa anche il riferimento ai nessi temporali. In
effetti, per costruire narrazioni coerenti non basta istituire connessioni
causali, ma occorre anche individuare i legami temporali tra gli eventi
che compongono una narrazione. Come evidenziato da Giora e Shen
(1994), per costruire una storia è necessaria una «una organizzazione di
ordine superiore che connetta gerarchicamente non solo eventi adiacenti
[...] ma anche eventi tra loro distanti sull’asse temporale del discorso»
(ivi, 450; trad. nostra). A partire da queste considerazioni, Ferretti e
colleghi (2018) hanno messo a punto un test narrativo basato l’utilizzo
di due tipi di stimoli: due immagini che rappresentavano l’inizio di una
storia; un’immagine che raffigurava la fine di una storia. Nel primo caso,
ai bambini veniva chiesto di raccontare “cosa accadrà dopo l’evento A
raffigurato nelle immagini stimolo” (condizione futuro); nel secondo
caso, ai bambini veniva chiesto di raccontare “cosa è accaduto prima
dell’evento B raffigurato nell’immagine stimolo” (condizione passato).
Per narrare correttamente le storie i bambini dovevano sganciarsi dallo
stimolo e immaginare il futuro e il passato dei personaggi delle storie.
Come indice di coerenza globale è stato esaminato il numero di nuovi
elementi (cioè eventi non presenti nelle immagini stimolo) introdotti nelle
narrazioni congiuntamente al numero delle relazioni causali e temporali
istituite tra gli eventi della storia. Dai risultati è emerso che le narrazioni
dei bambini con ASD contenevano un numero significativamente infe-
riore di nuovi eventi e di relazioni causali e temporali rispetto alle storie
generate dai bambini con ST di pari età cronologica. Per tale ragione, le
storie del gruppo con ASD apparivano complessivamente meno coerenti
rispetto a quelle generate dal gruppo di controllo.
Gli studi fin qui presentati hanno tutti preso in esame la produzione
narrativa delle persone con ASD evidenziando, come abbiamo visto,
difficoltà di varia natura. Le ricerche sulla comprensione di storie
nell’autismo sono meno numerose rispetto a quelle sulla produzione (e.g.
Jolliffe e Baron-Cohen, 2000; Happé, 1994; Norbury e Bishop, 2002;
Nuske e Bavin, 2011). Ad ogni modo, anche tali ricerche hanno portato
alla luce diverse tipologie di deficit. Ad esempio, Jolliffe e Baron-Cohen
(2000) hanno indagato la comprensione della coerenza narrativa globale
in adulti con ASD a cui veniva chiesto di creare una storia riorganizzan-
do in modo coerente frasi (scritte) presentate in ordine casuale. L’unico
indizio che i soggetti avevano a disposizione era il titolo delle storie. Per
risolvere il compito i partecipanti dovevano individuare i legami causali
e temporali tra gli eventi descritti nelle frasi. I risultati hanno rivelato
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che il gruppo clinico otteneva prestazioni significativamente inferiori
rispetto al gruppo di controllo (adulti sani di pari età cronologica).
Quali considerazioni trarre dalla rassegna di studi fin qui presentati?
Come spiegare le difficoltà nell’elaborazione delle storie osservabili
nelle persone con ASD? Posto che non è possibile individuare un unico
fattore esplicativo per i deficit narrativi dell’autismo, non solo per la
loro natura eterogenea ma anche (e soprattutto) per la natura eterogena
dell’ASD stesso, la prima e più naturale opzione è di ricondurre tali
deficit alle compromissioni del linguaggio strutturale spesso osservate
nella popolazione con ASD - in particolare nei bambini (e.g., Tuchman,
Rapin e Shinnar, 1991; Eigsti, Bennetto e Dadlani, 2007). Da questo
punto di vista, l’elaborazione narrativa risulterebbe deficitaria a causa di
problemi a livello sintattico e lessicale. Sebbene i risultati di alcuni studi
sembrerebbero puntare in questa direzione (Thurber e Tager-Flusberg,
1993; Tager-Flusberg, 1995), analisi più accurate hanno mostrato che
quando gli individui con ASD vengono rigorosamente accoppiati per
abilità linguistiche ai gruppi di controllo, le loro storie non presentano
differenze significative rispetto ai controlli nei parametri relativi al
linguaggio strutturale – lunghezza media degli enunciati, complessità
sintattica e numero di parole prodotte –, ma differiscono negli aspetti
macroelaborativi – le narrazioni prodotte dai gruppi con ASD appaiono
meno organizzate e globalmente meno coerenti (e.g., Losh e Capps, 2003;
Norbury e Bishop, 2003; Young et al., 2005; Diehl et al., 2006; Rumpf,
Kamp-Becker, Becker e Kauschke, 2012; Novogrodsky, 2013; Mäkinen
et al., 2014). Questo significa che le difficoltà narrative delle persone
con ASD non sono (del tutto) riferibili a deficit strettamente linguistici.
È necessario chiamare in causa altri fattori. Le teorie cognitive dell’ASD
offrono importanti spunti a riguardo.
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sociale. Relativamente all’elaborazione narrativa, l’ipotesi è che il deficit
di TOM comprometta la capacità degli individui con ASD di veicolare
e riconoscere gli stati mentali, ad esempio le credenze e i desideri, che
motivano le azioni dei personaggi coinvolti in una storia (Begeer et al.,
2010; Capps et al., 2000; Jolliffe e Baron-Cohen, 1999). Il primo studio
che ha analizzato le competenze narrative nei bambini con ASD secon-
do il framework teorico della TOM è stato condotto da Baron-Cohen,
Leslie e Frith (1986). In questo studio ai partecipanti veniva chiesto di
riordinare sequenze di azioni presentate in immagini e successivamente
di raccontare la storia rappresentata nella sequenza ordinata. I risultati
dell’esperimento hanno messo in luce una difficoltà specifica per i
partecipanti con autismo nel riordino di sequenze che includevano stati
mentali, a cui si accompagnava nella fase di re-telling un uso sporadico
di espressioni linguistiche riferibili al mondo mentale dei personaggi
delle storie. Ulteriori evidenze in questa direzione provengono da una
ricerca di Capps e collaboratori (2000), i quali hanno indagato le capacità
di produzione narrativa in bambini con ASD, bambini con ST e bambini
con ritardi nello sviluppo. Il compito prevedeva di raccontare una storia
utilizzando il libro illustrato Frog on his own (Mayer, 1973). A dispetto
di un uso pressoché intatto di linguaggio causale nei tre gruppi, rispet-
to ai partecipanti con ST i bambini affetti da ASD (oltreché quelli con
ritardo) presentavano difficoltà nell’individuazione degli stati mentali
che causavano le azioni dei personaggi: tendevano a concentrarsi sulla
descrizione dei comportamenti degli agenti, senza includere in un qua-
dro coerente il racconto di emozioni e pensieri che avrebbero potuto
motivare quei comportamenti. Inoltre, nel gruppo con ASD la produ-
zione narrativa correlava con i punteggi ottenuti nei compiti di TOM,
supportando l’ipotesi che la lettura della mente abbia un ruolo di primo
piano nell’elaborazione del punto di vista dei personaggi inclusi in una
storia e che il mancato accesso alle emozioni, azioni e pensieri di questi
personaggi comporti una competenza narrativa deficitaria.
Suggerendo che la spiegazione dei deficit narrativi osservabili
nell’ASD non si esaurisca nel riferimento ai problemi di TOM, alcuni
autori hanno indagato il possibile ruolo delle FE nella comprensione di
storie (Zalla et al., 2006). L’espressione “funzioni esecutive” è un ter-
mine ombrello che comprende un’ampia gamma di processi e capacità
cognitive (ad es., pianificazione dell’azione, monitoraggio, flessibilità
mentale, attenzione focalizzata) implicati nella programmazione e nel-
la messa in atto di comportamenti orientati a uno scopo (e.g., Gilbert
e Burgess, 2008). Tra le teorie psicologiche dell’autismo, quella che
propone che esso sia caratterizzato da un deficit delle FE contribuisce
a spiegare i comportamenti stereotipati e ripetitivi che si osservano in
questa popolazione clinica (e.g., Ozonoff, 1995; Rosenthal et al., 2013).
Diversi studi hanno, infatti, messo in luce che bambini e adulti con
ASD mostrano, tra gli altri, un ridotto controllo dell’attenzione e una
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scarsa flessibilità mentale (cfr. Craig et al., 2016). Zalla e collabora-
tori (2006) hanno ipotizzato che il deficit delle FE, e specificatamente
una compromissione della capacità di immagazzinare e recuperare le
proprietà cruciali delle azioni finalizzate, possa contribuire a spiegare
i problemi di elaborazione di storie coerenti osservabili nell’ASD. Gli
autori hanno testato tale ipotesi in uno studio in cui adulti con ASD,
individui con ritardo mentale e partecipanti con ST dovevano riordinare
delle sequenze di immagini in modo da generare una storia coerente. Le
immagini raffiguravano personaggi intenti a svolgere tre tipi di sequenze
di azioni che non richiedevano l’attribuzione di stati mentali: 1) azioni
singole dirette verso oggetti, 2) azioni dirette verso oggetti presentate
in un contesto spazio-temporale più ampio, 3) azioni che descrivevano
un’interazione tra i personaggi. Rispetto ai due gruppi di controllo,
il gruppo con ASD aveva difficoltà con il riordino delle sequenze di
azioni dirette agli oggetti, suggerendo un deficit nella rappresentazione
concettuale dell’azione associata alle funzioni degli oggetti. Da questo
punto di vista, i problemi narrativi dell’ASD sarebbero riconducibili a
problemi più generali nella rappresentazione delle azioni finalizzate.
Un’ipotesi ulteriore che ha trovato un ampio riscontro empirico sot-
tolinea come alcune delle difficoltà sul piano narrativo della popolazione
con ASD siano imputabili a una CC debole (e.g., Joliffe e Baron-Cohen,
2000; Nuske e Bavin, 2011; Barnes e Baron-Cohen, 2012). L’espres-
sione “coerenza centrale” denota i processi di codifica percettiva e
d’interpretazione degli input sensoriali. Essa può essere definita come
la «normale tendenza cognitiva a focalizzarsi sull’estrazione del signi-
ficato, dei concetti e della forma nell’elaborazione delle informazioni»
(Happé, Briskman e Frith, 2001, 300; trad. nostra). Nell’autismo tale
tendenza è “debole” poiché molte delle persone con ASD si focalizzano
sui dettagli senza riuscire ad integrarli in un quadro globale unitario e
coerente. Relativamente all’elaborazione narrativa, l’ipotesi della CC
debole contribuisce a spiegare le difficoltà che le persone con autismo
hanno nell’utilizzare il contesto per l’interpretazione degli enunciati che
compongono una storia (Joliffe e Baron-Cohen, 2000; Nuske e Bavin,
2011). In un esperimento condotto da Joliffe e Baron-Cohen (1999), a
un gruppo di adulti con ASD venivano presentate delle storie relative a
situazioni di vita quotidiana in cui i personaggi usano delle espressioni
figurate. Ad esempio, in uno degli stimoli compariva la frase “Proprio
una bella giornata per un pic-nic!” pronunciata da uno dei protagonisti
a conclusione di una storia in cui tutti gli eventi descritti concorrevano
invece a delineare uno scenario di pioggia. I risultati hanno mostrato che
il gruppo degli individui con ASD aveva maggiori difficoltà rispetto al
gruppo di controllo a ST a dare giustificazioni contestualmente appropriate
dei proferimenti dei personaggi delle storie. L’ipotesi dei due autori è
che tali risultati possano «essere spiegati dalla coerenza centrale debole.
Il gruppo clinico falliva a usare o a estrarre informazione dal contesto
631
della storia poiché tendeva a focalizzarsi sull’enunciato considerato in
isolamento. Di conseguenza, i soggetti del gruppo clinico erano portati
a generare risposte localmente coerenti piuttosto che globalmente ap-
propriate» (ivi, 403).
Nel complesso, le teorie psicologiche che postulano deficit di TOM,
di FE e di CC, oltre a chiarire alcune importanti caratteristiche dell’au-
tismo, sembrano in grado di dar conto in modo efficace di molti aspetti
dell’elaborazione narrativa in questa popolazione clinica. Intorno a tali
teorie, a cui comunemente ci si riferisce anche nei termini di “triade
di disturbi” dell’autismo (Happé e Ronald, 2008), ruotano gran parte
dei modelli che spiegano in termini cognitivi le difficoltà comunicati-
ve dell’ASD (cfr. Adornetti, 2018). Recentemente, è stato proposto di
inserire in questo quadro esplicativo un ulteriore sistema cognitivo: il
mental time travel (MTT), il dispositivo che consente agli esseri umani
di viaggiare mentalmente nel tempo (Suddendorf e Corballis, 2007). Il
MTT si compone di due sottosistemi implicati, rispettivamente, nella
rievocazione di episodi passati e nell’anticipazione di possibili eventi
futuri: la memoria episodica (Episodic Memory, EM) e il pensiero
episodico rivolto al futuro (Episodic Future Thinking, EFT). Numerosi
studi hanno mostrato che le persone con ASD hanno problemi nella rap-
presentazione temporale dell’esperienza, sia in relazione al recupero dei
ricordi autobiografici (e.g., Crane e Goddard, 2008; Crane, Pring, Jukes,
e Goddard, 2012) sia nella simulazione e nella descrizione di eventi
futuri (e.g., Terrett et al., 2013; Marini et al., 2016). Poiché il fattore
tempo costituisce un aspetto cruciale dell’elaborazione narrativa – per
costruire storie coerenti è necessario connettere temporalmente sull’asse
discorsivo gli eventi della narrazione (§ 2) –, alla luce della letteratura
attestante deficit di MTT nell’ASD, Ferretti et al. (2018) hanno ipotiz-
zato che alcune delle difficoltà narrative dell’ASD siano riconducibili
a un deficit nella capacità di rappresentazione del tempo. Dai risultati
di questo studio, che come abbiamo visto ha valutato la capacità dei
bambini con ASD di immaginare il futuro e il passato dei personaggi di
una storia (§ 2), è emerso, in effetti, che i partecipanti del gruppo clinico
generavano storie meno coerenti rispetto al gruppo di controllo e che i
deficit di coerenza narrativa erano più accentuati nei bambini con ASD
che presentavano anche deficit nel MTT, nello specifico nell’EFT (cfr.
anche Marini et al., 2019).
Le ricerche fin qui discusse contribuiscono a delineare un quadro
articolato in cui i problemi narrativi dell’autismo non dipendono da
difficoltà di natura strettamente linguistica, ma sono il riflesso di (molte-
plici) deficit di elaborazione di carattere più generale. Un punto, questo,
cruciale per gli argomenti al centro di questo articolo. Se l’elaborazione
narrativa poggia su sistemi non specifici per il linguaggio, è plausibile
ipotizzare che i disturbi narrativi nell’ASD possano estendersi anche
all’elaborazione di narrazioni non linguistiche, è possibile cioè pensare
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che tali disturbi siano indipendenti dalla modalità espressiva usata per
narrare le storie. In altri termini, queste ricerche mettono in discussio-
ne la tesi prevalente che la narrazione sia indissolubilmente legata al
codice verbale.
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Fig. 1. Un esempio di narrazione visiva. Adattata da https://allarcobalenosivola.blogspot.
com/2019/11/sequenze-per-storie.html.
634
distinte unità all’interno di una configurazione spaziale più ampia e che
queste unità segmentate vanno osservate secondo un ordine particolare.
Inoltre, la comprensione delle immagini in sequenza richiede di istitu-
ire dei collegamenti tra le varie unità: bisogna sapere che gli elementi
in una immagine (il bambino nella prima figura) sono le stesse entità
presenti in altre immagini (il bambino nell’ultima figura) e che queste
entità vanno incontro a cambiamenti di stato (continuità referenziale)
relativamente al tempo narrativo, allo spazio e alla causalità (cfr. Zwaan
e Radvansky, 1998). Alcune informazioni (l’invio della lettera da parte
del bambino) devono poi essere inferite perché non direttamente osserva-
bili nella sequenza illustrata. A tutto ciò si aggiunge il fatto che bisogna
comprendere che i personaggi hanno degli stati mentali (il bambino
desidera un regalo) che motivano le loro azioni (la scrittura della lettera
a Babbo Natale). Come sottolineano Cohn e Magliano (2020, 200; trad.
nostra): «nessuno di questi aspetti della comprensione è banale; [...] tali
aspetti si riferiscono a strutture già investigate nella Scienza Cognitiva:
percezione di oggetti e scene, cognizione spaziale, cognizione di eventi,
elaborazione sequenziale, teoria della mente, inferenze, elaborazione
discorsiva, e molti altri aspetti cruciali della cognizione».
Studi di psicologia dell’età evolutiva mostrano che queste capacità
emergono gradualmente nel corso dello sviluppo e sono comunque con-
dizionate dal grado di familiarità che i bambini hanno con le narrazioni
visive. Per esempio, la capacità di inferire il contenuto non esplicitamente
raffigurato nelle immagini compare intorno ai 5 anni (e.g., Zampini et al.,
2017), mentre è solo a partire dai 6 anni di età che si attestano la capacità
di comprendere la continuità referenziale dei personaggi (Bornens, 1990)
e l’abilità di riordinare in sequenze coerenti immagini presentate secondo
un ordine casuale (e.g., Friedman, 1990). Ad ogni modo, sia la capacità
inferenziale che l’abilità di riordino continuano a svilupparsi nel corso
dell’ontogenesi e sono modulate, oltreché dall’età e dallo sviluppo di
altre capacità cognitive come la TOM e le FE, anche dall’esperienza che
i bambini hanno, ad esempio, con i fumetti (Nakazawa, 2016).
Queste considerazioni, oltre al mito della trasparenza, mettono
fortemente in discussione anche l’idea che le sequenze di immagini
usate negli esperimenti siano materiali neutri (Coderre, 2019; Cohn e
Magliano, 2020). Un punto, questo, cruciale per lo studio delle capacità
narrative nell’ASD. In effetti, quando alle persone con ASD viene chiesto
di raccontare le storie raffigurate nei libri illustrati come Frog, where
are you? (§ 2) si dà per scontato che per questa popolazione clinica la
decodifica delle sequenze visive sia semplice (Visual Ease Assumption:
Coderre, 2019) e che le eventuali anomalie che emergono nei campioni
di discorso generati non siano dipendenti dagli stimoli utilizzati. Tuttavia,
se per comprendere le storie illustrate sono necessarie molteplici capacità
e competenze – alcune delle quali (TOM, elaborazione sequenziale e
capacità inferenziali) deficitarie nell’autismo –, è plausibile ipotizzare
635
che la comprensione delle sequenze di immagini non sia per le perso-
ne con ASD un compito privo di difficoltà. Per dirimere la questione,
diventa allora cruciale chiarire se e in che misura le persone con ASD
comprendono le storie presentate attraverso le sequenze di immagini.
Nei prossimi paragrafi discuteremo i risultati principali di uno studio
preliminare condotto a riguardo dal nostro gruppo di ricerca e recente-
mente pubblicato (Adornetti et al., 2020).
636
mentalizzazione (si veda Shamay-Tsoory e Aharon-Peretz, 2007; Kalbe
et al., 2010), valuta la capacità dei bambini di comprendere la prospet-
tiva (i.e., le emozioni e le sensazioni) di un’altra persona in determinati
contesti sociali sulla base del riconoscimento delle sue espressioni fac-
ciali. Ai bambini venivano mostrate nove immagini (la prima era usata
come stimolo prova) in cui una ragazza di nome Julia era raffigurata di
spalle in diverse situazioni (mentre gioca col gatto, mentre litiga con un
amico, mentre abbraccia le amiche, ecc). Contestualmente, i partecipanti
osservavano quattro foto che rappresentavano quattro diverse possibili
espressioni facciali della protagonista. Successivamente, per ognuna
delle nove immagini, lo sperimentatore chiedeva al bambino: “Indica
la foto che mostra come si sente Julia”. Per ogni scelta, si attribuiva 1
punto, per un massimo di 8.
Per verificare l’esistenza di possibili differenze tra i due gruppi, è
stata condotta una serie di t-test con il gruppo come fattore fisso (ASD
vs. ST) e le misure del test narrativo (punteggio test comprensione
narrazioni visive e tempo totale) e il punteggio del test di TOM come
variabili dipendenti. I risultati delle analisi hanno evidenziato una dif-
ferenza significativa tra i due gruppi relativamente ai punteggi medi del
test di comprensione delle narrazioni visive [(t25 = 2.182); p < 0.039].
Nello specifico, i bambini del gruppo ASD hanno riportato punteggi
significativamente inferiori rispetto al gruppo dei bambini a ST. Non
sono emerse invece differenze significative tra i due gruppi relativamente
al tempo medio totale impiegato a svolgere il compito [(t25 = 1.004); p
= 0.325]. Per quanto riguarda i punteggi ottenuti nel test di TOM, le
analisi non hanno evidenziato differenze significative tra i gruppi ASD
e ST [(t25 = − 0.036); p = 0.972] (cfr. Tabella 1).
Tab. 1. Caratteristiche dei due gruppi e punteggi riportati nel test di comprensione
delle narrazioni visive e nel test di teoria della mente. Adattata da Adornetti
et al. (2020)
ASD (n = 12) ST (n = 15)
M (DS) [range] M (DS) [range]
Età 9.05 (0.95) [8-11.02] 9.37 (0.88) [8-11.04]
Livello di istruzione Terza elementare – I media Terza elementare – I media
Sesso Maschi = 11 (91.6%) Maschi = 9 (60%)
Livello di QI 110 (10.44) [90-130] 110 (10.00) [100-130]
Teoria della mente 6.42 (1.16) [5-8] 6.40 (1.24) [3-8]
Punteggio test compren- 1.92 (0.90) [1-4] 2.80 (1.14) [1-5]
sione narrazioni visive*
Tempo totale test com- 213.83 (68.03) [105-319] 259.93 (146.53) [141-713]
prensione narrazioni vi-
sive (in secondi)
I dati sono espressi in medie, deviazioni standard e ranges.
Legenda: bambini con ASD (Autism Spectrum Disorder); bambini a sviluppo tipico (ST).
* segnala le differenze significative tra i due gruppi.
637
La relazione tra i punteggi del test di comprensione narrativa e lo
score del test di TOM è stata indagata tramite analisi con coefficiente
di correlazione di Pearson nei due gruppi di partecipanti. I risultati non
hanno evidenziato correlazioni significative tra TOM e comprensione
narrativa né nel gruppo dei bambini con ASD (r = −0.137; p = 0.670)
né nel gruppo dei partecipanti con ST (r = 0.361; p = 0.186). Questi
risultati permettono di fare alcune considerazioni generali rispetto agli
argomenti discussi in questo articolo.
Per quanto il limitato numero di partecipanti inclusi nello studio
raccomandi prudenza (la ricerca futura è chiamata a verificare ulterior-
mente questi dati), il fatto che i bambini con ASD abbiano mostrato delle
difficoltà nel riordinare coerentemente le sequenze di immagini sembra
suggerire che i deficit narrativi nell’autismo non siano limitati al codice
verbale, ma si estendano al codice espressivo visivo. A conferma di ciò
militano anche i risultati di una ricerca condotta da Coderre e collabo-
ratori (2018) i quali hanno investigato, tramite elettroencefalogramma,
la comprensione di narrazioni linguistiche e narrazioni visive in adulti
con ASD e soggetti con ST. L’analisi è stata condotta sui potenziali
evento-correlati, nello specifico sulla componente N400, ed ha messo
in luce una differenza tra i due gruppi in entrambi i tipi di narrazione: il
gruppo con ASD, diversamente dal gruppo di controllo, mostrava diffi-
coltà a integrare l’informazione semantica locale all’interno del contesto
narrativo più ampio sia quando le storie erano presentate in modalità
verbale sia quando erano sequenze di immagini prive di testo (cfr. an-
che Manfredi, Cohn, Mello, Fernandez e Boggio, 2020 per un’indagine
simile sui bambini con ASD).
Questo primo risultato appare rilevante sia per le teorie psicologiche
della narrazione che per la letteratura sull’elaborazione narrativa nell’A-
SD. Rispetto alle teorie della narrazione, esso suggerisce che alcuni dei
processi implicati nell’elaborazione delle storie sono indipendenti dalla
modalità espressiva attraverso cui le narrazioni vengono comunicate. A
tal proposito, uno studio fMRI di Yuan et al. (2018) ha rilevato l’atti-
vazione cerebrale di un network narrativo cross-modale che trascende il
medium espressivo utilizzato per veicolare le storie e che si attiva quando
i soggetti sono impegnati a generare storie verbali, visive e mimiche. Per
quanto riguarda gli studi sull’ASD, considerazioni di questo tipo hanno
importanti ricadute sul piano metodologico. Se infatti le narrazioni visive
non costituiscono per questa popolazione clinica dei materiali sperimentali
neutri, allora la scelta degli stimoli visivi utilizzati per la valutazione di
capacità cognitive, quale ad esempio la TOM o la produzione narrativa
verbale, dovrebbe avvenire con maggiore attenzione: se questi compiti
richiedono una preliminare comprensione delle sequenze narrative, al-
lora diventa interessante capire quanto eventuali differenze tra ASD e
ST dipendano anche dal numero di elementi, dal grado di complessità e
strutturazione degli stimoli visivi utilizzati nelle narrazioni. Beaumont
638
and Newcombe (2006), per esempio, suggeriscono che le persone con
ASD possono spontaneamente elaborare le informazioni visive in modo
integrato a determinate condizioni, come l’uso di un numero ristretto di
elementi da integrare contemporaneamente. Allo stesso modo, un altro
studio (Boria et al., 2009) ha mostrato che nell’ASD la comprensione
dell’intenzione di un atto motorio avviene solo se questa intenzione è
inserita in un contesto, quindi nella condizione in cui ci siano elementi
esterni che ne favoriscano l’interpretazione. La ricerca futura è chiamata
a indagare ulteriormente questi aspetti.
Un altro risultato importante emerso dalla nostra ricerca è il fatto
che la minore accuratezza nella comprensione delle narrazioni visive
osservate nel gruppo di bambini con ASD non sembra dipendere da
difficoltà nella capacità di teoria della mente (lo score del punteggio
narrativo negli ASD non correlava con i punteggi del test di TOM). Un
risultato, questo, inaspettato e in contrasto con le evidenze della ricerca
di Baron-Cohen e colleghi (1986) discussa in precedenza (§ 3). Sebbe-
ne le sequenze narrative impiegate nel nostro studio non richiedessero
l’attribuzione di una falsa credenza, al contrario di quelle usate da
Baron-Cohen et al. (1986), esse tuttavia implicavano una qualche forma
di riconoscimento delle sensazioni ed emozioni altrui – esse poggiavano
cioè sulla componente affettiva della TOM. Questo risultato può essere
ricondotto a vari fattori. Uno di questi è il limitato numero di partecipanti
inclusi nello studio che potrebbe aver influito, in negativo, sulla possi-
bilità di individuare correlazioni significative tra TOM e comprensione
narrativa. Un altro fattore che potrebbe contribuire a spiegare il risultato
riguarda il fatto che, relativamente al test di TOM, non si sono riscon-
trate differenze significative tra i due gruppi: i bambini con ASD non
presentavano difficoltà nel riconoscere le sensazioni e le emozioni delle
altre persone3. Detto questo, pur non avendo riscontrato una correlazione
tra comprensione delle narrazioni visive e capacità di ToM, il nostro
studio attesta una difficoltà nell’elaborazione delle storie nei bambini
con ASD, il cui fondamento cognitivo i nostri dati non permettono però
di chiarire. Come abbiamo suggerito nelle pagine precedenti, l’elabora-
zione narrativa in generale, e l’elaborazione delle storie per immagini
nello specifico, poggiano su un mosaico di capacità e processi che, oltre
alla TOM, include le capacità inferenziali, le FE, ecc. In altri termini, è
possibile che il deficit narrativo individuato nel gruppo ASD tramite il
test del riordino dipenda da una (o più) di queste capacità. Studi futuri
sono chiamati a esplorare ulteriormente questi aspetti.
3 Il fatto che i bambini con ASD abbiano riportato prestazioni simili al gruppo di
controllo nel test di TOM non costituisce un’anomalia nella letteratura sull’autismo.
Le evidenze empiriche mostrano che le performance delle persone con ASD nei vari
test di TOM sono estremamente eterogenee e in molti casi comparabili in termini di
accuratezza alle prestazioni dei gruppi di controllo (cfr. Gernsbacher e Yergeau, 2019).
639
Da segnalare, infine, un limite dello studio. I due gruppi non sono
stati accoppiati per genere: la percentuale di maschi nel campione ASD
è molto più alta (91,6%) che nel campione ST (60%). Sebbene molte
ricerche non abbiano rilevato possibili differenze di genere nel linguaggio
e nella comunicazione delle persone con ASD (Andersson et al., 2013;
Harrop et al., 2015; Lawson et al., 2018; May et al., 2014; Tillmann et
al., 2018), non è da escludere che la maggior prevalenza di maschi nel
campione ASD possa aver avuto un effetto sui risultati, considerando
che il profilo dei sintomi dell’ASD è fortemente gender-based, con
un’incidenza maschile molto più alta di quella femminile (Baio et al.,
2018). Si tratta, anche in questo caso, di un aspetto importate da chiarire
nella ricerca futura.
5. Conclusione
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Giovanni Valeri, Dipartimento di Neuroscienze, Unità di Neuropsichiatria Infantile,
Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù”, Piazza Sant’Onofrio 4, 00165 Roma, giovanni.
valeri@opbg.net
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