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Sei Personaggi in cerca d’autore. Drammaturgia e “regia” in Pirandello.

Sei personaggi in cerca d’autore è l’unica novità di Luigi Pirandello nell’anno 1921. Mentre esce
il quarto volume delle Maschere nude edite da Treves, Pirandello pubblica il II e il III volume
della nuova raccolta delle Maschere nude con le inedite Come prima, meglio di prima e Sei
personaggi in cerca d’autore.

Nel 1906, nella novella Personaggi, un’anticipazione è nella rappresentazione dell’ “udienza” data
dall’autore ai personaggi. Cominciano a focalizzarsi i nodi problematici della relazione fra l’autore
e i personaggi frutto della immaginazione, della essenza del personaggio, della relazione fra le
facoltà umane della percezione, della immaginazione, della ragione e della passione. La riflessione
prenderà una forma compiuta nella famosa prefazione alla edizione riveduta del 1925, assai
importante per le significative varianti. D’Amico cita un foglietto che risalirebbe al 1910-12, in cui
è il nucleo del “dramma terribile”: il Padre sorpreso dalla Figliastra in un bordello, dove lei si
prostituiva per bisogno, il quasi incesto schivato all’ultimo momento. L’idea del rifiuto e di
scrivere un romanzo sul rifiuto venne nel 1917. Non si sa quando optò per il dramma.

Ripiegò sulla nuova compagnia di Dario Niccodemi, ricca di esperienze internazionali, sensibile ai
gusti del pubblico, di alto professionismo. Il copione scosse anche Niccodemi che lo accettò a
scatola chiusa, colpito dalla grande nobiltà del tema e dalla stranezza della forma.

A partire dal 1917 Pirandello aveva scritto alcuni dei testi teatrali più importanti della sua
produzione, tagliandoli su misura per Ruggero Ruggeri (si va dal Piacere al Giuoco delle parti, da
Tutto per bene all’Enrico IV). La collaborazione con Ruggeri risulta di straordinaria importanza per
la maturazione del Pirandello drammaturgo perché notiamo un Pirandello sempre più propenso a
una riscrittura del testo che fa tesoro dei suggerimenti impliciti nelle scelte attoriche di Ruggeri. Da
queste esperienze emerge un dato fondamentale per Pirandello: ciò che più conta nel lavoro del
teatro non è il capocomico (o il regista, termine peraltro anacronistico, che verrà coniato in Italia
solo negli anni Trenta), ma essenzialmente l’attore.

Stupisce quindi che nel 1921, anno della prima edizione dei Sei Personaggi, Pirandello dipinga gli
attori come persone superficiali, frivole, di scarsa cultura, professionalmente modesti. Nei Sei
personaggi Pirandello si presentano gli attori attraverso profili ironici e sarcastici. Tuttavia, c’è
qualcosa di nuovo nei Sei personaggi.

Leggiamo, all’inizio del primo atto: Il Direttore-Capocomico si dispone a coordinare la prova del
Giuoco delle parti e il Suggeritore – che legge il testo – chiede se deve leggere anche le didascalie.

Per il suggeritore non è il caso di leggere le didascalie perché – coerentemente con la routine del
teatro all’italiana – non fanno parte della scrittura drammaturgica, sono una presuntuosa intrusione
dell’autore in quello che è il campo specifico e autonomo dell’attore. Il Capocomico è fatto di
un’altra pasta rispetto ai suoi attori e al suggeritore. È una prefigurazione di quello che sarà il

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regista (figura inedita per l’Italia degli anni 20). E sarà forse il caso di aprire ora una parentesi per
illustrare il funzionamento del sistema teatrale italiano tra fine ‘800 e primi decenni del ‘900.

Il sistema capocomicale italiano.

Ogni compagnia è formata da attori ingaggiati per impersonare un determinato ruolo definito nel
contratto di assunzione. I più importanti sono costituiti dal primattore e dalla primattrice, cui
spettano le parti principali di qualunque pièce allestita; i meno impegnativi sono rappresentati dai
generici, ai quali sono affidate solo poche battute. Nei gradini intermedi della gerarchia troviamo,
per il versante maschile, l’amoroso (parte di innamorati o sentimentali), il caratterista (parti
comiche), le parti dignitose (o di padre nobile), il brillante, il tiranno; la compagine femminile,
invece, comprende: l’amorosa, la madre, la servetta, la seconda donna (figura femminile seducente,
amante), la caratteristica». Ogni ruolo richiede doti fisiche specifiche: Primattore = prestante;
caratterista=grasso. Ne consegue che difficilmente si può cambiare ruolo, e in effetti di norma si
mantiene lo stesso per tutta la vita o per un lungo periodo di tempo. Acquisendo esperienza e
crescendo d’età, si può passare da attor giovane a primattore o, invecchiando, si può diventare un
padre nobile, ma di certo un caratterista non si trasformerà mai in amoroso.

Alla testa della compagnia italiana sta il capocomico, che ne è per lo più il proprietario; a lui
spettano la scelta del repertorio, le trattative con gli autori o gli importatori di pièces straniere, la
distribuzione delle parti e la guida delle prove, che non durano mai più di 7 giorni. È chiaro che con
una fase di preparazione così breve le battute vengono memorizzate in modo approssimativo. Il
numero esiguo di prove non consente un’analisi approfondita del carattere, delle emozioni, dei
desideri o dei pensieri delle singole dramatis personae né, di conseguenza, del modo per renderli in
scena. Si capisce, a questo punto, l’utilità dei ruoli. L’attore, abituato a recitare sempre la stessa
tipologia di personaggi, in mancanza di una preparazione adeguata su un testo studiato
frettolosamente, può fare appello a modalità gestuali e fonetiche convenzionali e “di mestiere”, che
può ripescare dal serbatoio mimico e vocale proprio del ruolo d’appartenenza. Scarsità di prove
determina anche una concertazione minima fra i membri della compagnia: in genere le compagnie
hanno breve durata, difficilmente sono stabili. Dato che le compagnie sono itineranti, ci si
accontenta di 3-4 tele come fondale (salotto, piazza, paesaggio naturale), riutilizzabili per più
spettacoli. Ogni attore è tenuto a possedere un proprio bagaglio di costumi dal quale attingere sera
dopo sera.

Per lo più il capocomico è anche l’attore principale, quello a cui spettano le parti di protagonista, e
il suo interesse, concentrato sul modo di tutelare la propria immagine e il proprio successo
personale, lo spinge alla massima diffidenza verso qualsiasi dettaglio che possa dargli ombra. Lo
sguardo del pubblico non dev’essere distratto da ambientazioni troppo accattivanti e fastose, da
effetti macchinistici o da luci che pongano in secondo piano la figura dell’interprete centrale.
Soprattutto, l’attenzione non deve cadere sugli attori che lo circondano. A tal fine egli interviene
anche pesantemente sul testo, tagliando le parti dei compagni e aggiungendo e modificando ad hoc
le proprie battute». Drammi scritti su commissione dei capocomici.

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Possiamo ora tornare alla figura del Capocomico nei Sei personaggi.

Questi rivela una notevole considerazione per l’integrità del testo drammaturgico; anche le
didascalie sono importanti perché orientano e guidano la corretta lettura del testo. E se sono “cento
volte” che il capocomico richiama il suggeritore al rispetto del testo significa che è da tempo che
questo capocomico, il capocomico che Pirandello ci presenta nei Sei personaggi, conduce la sua
battaglia di svecchiamento della prassi dominante fra gli attori della tradizione italiana.

Continuiamo ancora a leggere: Il primo attore (al Capocomico) Ma scusi… Il capocomico E io


nemmeno!..

Il capocomico aspira a ridefinirsi come ruolo di “regista”, sguardo che dall’esterno illumina il testo,
che lo spiega agli attori (chiede silenzio quando spiega). Pirandello ci presenta gli attori come esseri
superficiali, sempre pronti a ridere ecc. Ma il Capocomico è di altra pasta: è l’intelligenza del testo,
è la salvaguardia dell’autore rispetto alle semplificazioni e gli arbitri dell’attore.

La disamina che propone al primo attore sulla “ragione” e sull’ “istinto” corrisponde perfettamente
a ciò che Pirandello intendeva a proposito del Giuoco delle parti. Il Capocomico parla con le parole
di Pirandello, anche se poi sente il bisogno di sdrammatizzare e dice anche lui che non capisce nulla
(come non capisce il primo attore). Ma è netta la separazione tra attori e capocomico. Tanto che
questo capocomico in fondo è sui generis per il contesto italiano (fa solo il capocomico e non già
l’attore).

Vediamo cosa succede all’arrivo dei Personaggi. L'usciere (col berretto in mano) Scusi,.. Al
Capocomico: Tranne che…

Ci sono dei personaggi che cercano un autore e intanto investono il Capocomico di questa funzione
di drammaturgo, di autore. Si pensi al primo tempo e al momento della interruzione, che non è
propriamente un intervallo, ma il momento in cui il Padre e il capocomico si ritirano nel camerino
per stendere una traccia dello spettacolo.

Fino a quel punto assistiamo a un susseguirsi caotico di personaggi che vanno in proscenio e
vomitano le loro storie, si azzuffano, senza riuscire a dare uno svolgimento ordinato e plausibile. In
definitiva di fronte alla assoluta incapacità dei personaggi di darsi un assetto, uno schieramento
armonico di presenze, il Capocomico svolge una funzione coordinatrice fondamentale. La
sospensione è per questo decisiva. È da questa pausa che nasce il Dramma, che si definisce come
successione di scene rappresentabili, inquadrate in un primo e secondo atto, secondo una scaletta
che è il Capocomico a fissare.

Prendiamo, ancora, l’unico frammento di scena in cui gli attori ripetono le battute dei personaggi.
Il padre (avanzando ...Buon giorno… Il primo attore E neanch'io! Finiamola!

Il primo attore rifacendo la parte del Padre ne fa una sorta di “vecchietto galante”. Ma il
capocomico ne prende le distanze. Sembra solidarizzi con il primo attore, quando lo difende dalle
riserve dei personaggi (Non dia retta, per carità!). Ma è un artificio diplomatico che gli consente,

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poco dopo, di riprendere la battuta e di suggerire all’attore opportune varianti (“ecco, forse un po’
meno caricato” …)

Distinguere Capocomico e attori. Sono questi a falsificare i personaggi, a tradirli. Il capocomico


combatte invece una doppia battaglia, contro i personaggi e contro gli attori incolti, sa mediare tra i
due mondi. Il capocomico conosce bene la materia che ha per le mani, è in grado di plasmarla
sapientemente sia resistendo alle interruzioni sia agli attriti dei personaggi e degli attori. Alla fine,
però c’è una rottura: il capocomico non è in grado di tollerale la morte vera dei bambini. La morte
reale è contraddittoria rispetto alle leggi del teatro (luogo per eccellenza delle morti apparenti).

Non appena il capocomico si rende conto che non si tratta di un effetto teatrale, la sua ira si traduce
nella battuta finale “Finzione! Realtà! Andate al diavolo tutti quanti! Non mi è mai capitata una
cosa simile! E mi hanno fatto perdere una giornata!”. E così il capocomico, chiamato dai personaggi
a una funzione autoriale, rifiuta egli stesso i personaggi. Un’altra creazione fallita, come fallita
appare la creazione prima dell’Autore da cui i Personaggi sono stati rifiutati, che ha rinunciato a
dare loro il compimento di vita.

È un tema, questo della creazione fallita, centrale nei Sei personaggi che possono provvisoriamente
ingannarsi, scambiando il Capocomico per una figura salvifica ma non possono rimuovere la loro
ossessione legata alla memoria di un destino immortale. Per questo arretrano con disgusto davanti al
loro specchio deforme, costituito dagli attori di carne. La controfigura attorica è per loro fonte di
orrore. L’attore, che lavora col corpo, è un volgare artigiano prigioniero dell’istante, incapace di
concepire l’eterno; non sa replicare le sottili grafie della dimensione spirituale. L’incarnazione del
personaggio, essenza della recitazione, diventa l’apice della negatività: metafora della creazione
erronea.

Come è noto, due sono le redazioni fondamentali dei Sei personaggi, quella del ’21 e quella
radicalmente rivista del ’25. Cosa cambia nella edizione del ’25? La breve scena tra il Direttore di
scena e il Macchinista; lo sconfinamento dell’azione teatrale in platea; l’ampliamento della scena a
soggetto da parte degli attori in attesa dell’arrivo del Capocomico; la descrizione dei ‘personaggi’,
la soppressione, all’inizio del secondo ‘momento’ della scena tra la Figliastra e la Bambina (che
viene trasferita al terzo ‘momento’), il finale con la ricomparsa in controluce dei ‘personaggi’ e la
fuga della Figliastra attraverso la sala. Cosa era successo tra il ’21 e il 25? Risultano fondamentali
alcune messinscene dei Sei personaggi, da cui Pirandello recepisce suggestioni fondamentali per
l’approfondimento e la revisione del proprio lavoro.

La più importante è senz’altro quella realizzata dal regista Georges Pitoëff nell’aprile del 1923 a
Parigi. Pitoëff separa, anzitutto, la condizione dei personaggi rispetto a quella degli attori. I sei
personaggi, nella redazione del ’21, entrano in scena dalla “porticina del palcoscenico”, la stessa da
cui sono arrivati gli attori della compagnia. Pitoëff invece fa discendere i personaggi dall’alto,
lentamente, attraverso il montacarichi di servizio del teatro, avvolti da una luce verdastra. Pitoëff li
veste tutti di nero per rinforzare il contrasto con gli attori. L’ascensore impone una verticalità, un

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gioco di alto e basso. I personaggi discendono in terra come per prenderne possesso. Le recensioni
dell’epoca colgono una dimensione di spettacolo come visione.

Nella redazione del ’21, i sei uscivano dalla porticina del palcoscenico da dove erano entrati.
Un’uscita che è quasi un allontanamento, un’emarginazione. Nell’allestimento di Pitoëff invece
sono come dèi che risalgono in alto, si sottraggono ai poveri mortali che restano attoniti e perplessi.
Pitoëff a tal fine cambia le battute finali degli attori che nel copione del ’21 si dividevano tra realtà
e finzione, mentre nel copione di Pitoëff risulta che tutti gli attori ripetono “C’etait la réalité”.
Realtà, senza dubbio. La sublime visione li ha tramortiti e convinti.

Pirandello, dapprima diffidente dalle notizie che gli giungevano, una volta giunto a Parigi per
seguire la messinscena rimane conquistato dal fascino delle trovate registiche di Pitoëff.

L’edizione del ’25 fa senz’altro tesoro delle risultanze dello spettacolo di Pitoëff, proficuamente
adottate anche per la messinscena dei Sei personaggi che nel 1925 Pirandello realizzerà col suo
Teatro d’Arte. Tuttavia, Pirandello, pur tenendo conto di Pitoëff, se ne distacca al tempo stesso. Il
regista francese aveva avuto l’intuizione vincente dell’ascensore, Pirandello adotta invece per la
versione del ’25 una variante: anziché dall’alto, i personaggi arrivano da dietro, alle spalle dalla
platea, con un effetto di sorpresa.

Discorso analogo vale per il finale: in Pitoëff i personaggi andavano e venivano dall’alto, ma pur
sempre con un montacarichi, Pirandello usa invece un divergente disegno fantastico. L’ultima
battuta della redazione del ’25 è ancora del Capocomico, come nel ’21. Ma vi è aggiunta nel ’25
una didascalia fondamentale che chiude con l’immagine dei personaggi. Quando il capocomico ne
vede le ombre, schizzerà via dal palcoscenico: Subito, dietro il ..se ne udrà la risata. Poco dopo
calerà la tela.

I precari sono ora gli attori e il capocomico. Diventano invece i personaggi i padroni reali della
scena. La sua regia, invece, mostrava inequivocabilmente il carattere altro delle figure misteriose
che invadevano la scena giungendo da un mondo superiore, e ne sottolineava la diversità fissando i
tratti dei loro volti con un trucco innaturale. Capovolgeva così la chiave di lettura dell’opera, che
non era più giocata sull’impossibilità di distinguere nettamente gli attori e i personaggi, il piano
della realtà materiale da quello della creazione fantastica. Pitoëff lavorava sulla loro distinzione e
contrapposizione, sul conflitto tra personaggi e uomini.

Pirandello avvia una ricerca fondata sulla concezione del palcoscenico come spazio mentale, area
privilegiata sottratta alle regole della percezione consueta del mondo fisico e aperta alla rivelazione
di figure fantastiche che percorrono la mente dell’autore.

Al punto che entro questa luce Pirandello rilegge un momento essenziale dei Sei personaggi,
l’apparizione di Madama Pace. Già nel ’21 giungeva all’improvviso tra i personaggi, “attratta” dagli
oggetti della propria sartoria. Madama Pace compare in quel modo, inaspettatamente, perché sul
palcoscenico avviene un “improvviso mutamento del piano di realtà”. La scena “cambia di colpo”, e

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mostra la fantasia dell’autore “in atto di creare”. In quel momento ciò che gli spettatori vedono sono
le figure dei personaggi all’interno della mente dell’autore che compaiono e si muovono secondo la
dinamica propria dell’immaginazione. E Pirandello dichiara di essersi reso conto di questo solo ora,
a distanza di anni. Immune dai veleni della carne, Madama Pace vi occupa un posto speciale.

Nel ’21 gli attori e il capocomico l’accoglievano con divertito stupore e una risata, ora “schizzano
via dal palcoscenico e con un urlo si spaventano, precipitandosi dalla scaletta e accennando a
fuggire per il corridoio”. Ma è soprattutto il finale a creare progressivamente le condizioni di una
visione impressionante: già alla metà del terzo atto un gioco di luci immerge il palcoscenico in una
strana atmosfera inquietante. Quando esplode il colpo di rivoltella non è più la brusca battuta a
chiudere il lavoro. È invece la presenza ossessiva dei personaggi, che ricompaiono come ombre
“grandi e spiccate”, proiettare sul fondale della scena dalla luce verde di un riflettore. Allora il
capocomico terrorizzato schizza via e i personaggi al centro della scena abbandonata dagli attori
mentre la figliastra scenderà correndo in platea, diffondendo una risata inquietante e inquieta, di chi
è assalito e posseduto dalle figure inafferrabili della mente.

È simbolico il buio che torna a inondare il teatro che gli attori hanno abbandonato. Solo una
“lampadina” persiste impavida e, alla sua luce fioca e verdastra, spiccano le ombre dei personaggi.
Una piccola luce in un universo di tenebra.

Il tema della creazione fallita trova così una possibile soluzione, diventa potenzialità creativa nel
momento in cui è collocato nella scena teatrale come luogo di visione. E la scena come luogo della
visione sarà proprio l’essenza della grande stagione della regia novecentesca. Pirandello auspica e
propone proprio questo, in un contesto come quello italiano attardato ancora sulle pratiche del teatro
tradizionale dei comici e capocomici: una nuova concezione del teatro come esperienza privilegiata
e rivelatrice, segnata dall’inquietante irruzione nella nostra vita quotidiana di figure del mondo
fantastico, e dalla conversione dell’azione scenica in una sorta di rito, di evocazione, di magia,
capace di attirare alla realtà materiale gli esseri superiori nati nel mistero della creazione artistica.
Scena teatrale, dunque, dove sia dunque possibile che i personaggi trovino, finalmente, un Autore
che infonda loro il soffio di vita.

Temi dell’opera

 Tentativo di svelare il meccanismo e la magia della creazione artistica e il


passaggio dalla persona al personaggio, dall'avere forma all'essere forma.
 Eliminazione dello spazio artistico, disintegrazione dello spazio teatrale.
 Creazione di scene traumatiche (volontà di vivere una vita autentica da parte dei
Sei personaggi, in cui però si ripete l'angoscia delle colpe).
 Scomposizione delle strutture drammatiche (teatro nel teatro).
 Comunicazione fondata sulla trasmissione di messaggi inautentici perché
impossibili da racchiudere nella convenzione del parlato, il che porta a rapporti
compromessi sul nascere e quindi ad una solitudine senza rimedio.
 Rottura della quarta parete ad opera dei personaggi.

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 Frammentazioni della linea temporale, perché secondo Pirandello la vita non segue
un corso lineare.

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