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07/10/2021

DIRITTO ECCLESIASTICO

Il corso di diritto ecclesiastico NON è un corso di diritto confessionale (= i diritti confessionali sono
quelli di produzione dei gruppi o delle confessioni religiose), ma è un corso di diritto statale; quindi,
tratta di normative e disposizioni legislative a vario livello e di giurisprudenza di produzione di
organi dello Stato, per avere un’idea più chiara possibile di come il legislatore italiano affronti il
fenomeno religioso.

Perchè il legislatore secolare può/deve occuparsi del fenomeno religioso?

Gli ordinamenti secolari (= ordinamenti statali) si occupano e regolano, con modalità diverse, la
religione e il fenomeno religioso. Alcuni lo regolano con normative di dettaglio, altri si limitano a
disciplinarlo con poche disposizioni, però tutti se ne occupano e in qualche modo lo disciplinano.

L’esperienza ci dice che la scelta religiosa di ciascuno, ovvero in senso più ampio l’atteggiamento
di ciascuno di noi davanti alla religione, influenza notevolmente la nostra vita quotidiana. Quindi,
questa decisione (che molto spesso è una scelta che si vive in maniera collettiva, ovvero
l’appartenenza a un gruppo) non rimane quasi mai confinata in un ordine spirituale che non riguarda
gli ordinamenti temporali (in particolare, l’ordinamento dello Stato), ma influenza in maniera
notevole aspetti della vita che, invece, riguarano direttamente lo Stato. Pensando alle confessioni
religiose, i gruppi religiosi costituiscono lo strumento attraverso il quale la maggior parte delle
persone vive la propria esperienza religiosa. Il riferimento alle confessioni religiose è quanto mai
opportuno perchè nella vita di tutti i giorni le confessioni religiose si comportano come ordinamenti
a fini generali: vuol dire che le confessioni religiose tendono a regolare e a occuparsi attivamente di
più o meno tutti gli aspetti della vita dell’uomo; quindi, non solo gli aspetti strettamente inerenti alla
sfera spirituale.

Es: La maggior parte delle confessioni religiose detta regole (più o meno dettagliate) sul cibo,
ovvero su cosa di può o non si può mangiare, su quando si può o non si può mangiare, sui
procedimenti per rendere legittimamente ingeribili alcuni alimenti ecc.

Es: Alcune confessioni religiose dettano regole sul vestiario oppure in relazione alla polizia
mortuaria.

Quindi, le confessioni religiose influiscono con regole e principi sui comportamenti delle persone in
questi (e altri) temi che hanno un evidente impatto nella vita di tutti i giorni e soprattutto in quelle
che possiamo definire le sfere d’interesse dello Stato e degli ordinamenti secolari.

L’ordine delle cose spirituali e l’ordine delle cose temporali NON si differenziano con un linea
rigida; anzi ci sono moltissime influenze tra le 2 sfere e queste influenze attengono a pressochè tutti
gli ambiti della vita dell’uomo.

Gli ordinamenti secolari non potrebbero disinteressarsene totalmente? Quali sarebbero le


conseguenze di un tale disinteresse?

Le risposte a queste domande conseguono direttamente alle premesse appena fatta: cioè, in linea
puramente gli ordinamenti secolari potrebbero disinteressarsi totalmente di regolare il fenomeno
religioso; però, è evidente che in questo caso rimarrebbero aperte le problematiche legate alle
innumerevoli sfere di influenza. Fondamentalmente il legislatore potrebbe regolare secondo principi
e normative proprie tutte le sfere di suo interesse non occupandosi delle istanze religiosamente
orientate (quindi, dell’esigenza religiosa dei singoli e dei gruppi); MA è evidente che la
conseguenza di un tale atteggiamento particolarmente asfittico sarebbe una forte limitazione/
restrizione del diritto di libertà religiosa che viene riconosciuto dagli ordinamenti secolari.
Riconoscere il diritto di libertà religiosa a tutti e poi non occuparsi in nessun modo del fenomeno
religioso e della religione potrebbe aprire una contraddizione dal punto di vista sostanziale perchè
l’ambito della libertà religiosa risulterebbe molto ristretto se il legislatore non cercasse in qualche
modo di regolare i rapporti con i gruppi religiosi o comunque d’intervenire sulle istanze
religiosamente orientate.

Quindi, il legislatore dello Stato si occupa del fenomeno religioso perché vuole rendere effettivo (a
vari livelli) il diritto di libertà religiosa riconosciuto ai singoli e ai gruppi. È ovvio che questo livello
di effettività può cambiare molto tra i vari ordinamenti: ve ne sono alcuni particolarmente sensibili
alle istanze religiosamente orientate di tutti o di alcuni, altri meno. Il livello di effettività e le
modalità concrete con cui il diritto di libertà religiosa è reso effettivo sono molto diverse; però, è un
fatto che tutti gli ordinamenti se ne occupano al fine di riempire di contenuto questo diritto di libertà
religiosa e, quindi, di renderlo possibile anche al di fuori della mera sfera interna/privata.

08/10/2021

Cenni sui modelli di relazione Stato-confessioni religiose in Europa

Bisogna partire dal presupposto che si parlerà di “modelli”; quindi, non di ordinamenti concreti: i
modelli hanno sempre un forte connotato di astrattezza perché devono servire per racchiudere e
descrivere vari ordinamenti concreti. Nessun ordinamento concreto corrisponde perfettamente al
modello di riferimento: certamente i modelli ci servono per capire le caratteristiche fondamentali e
per disegnare concetti che altrimenti potrebbero sembrare molto astratti, ma non possiamo pensare
davvero che un ordinamento concreto incarni perfettamente un modello perché la realtà supera
sempre i modelli astratti e, quindi, le soluzioni che il legislatore segue e cerca di concretizzare sono
sempre un insieme di più modelli, perciò si presentano importanti deviazioni in tutti gli ordinamenti
concreti.

Tutti gli ordinamenti secolari (quindi, fondamentalmente tutti gli Stati secolari) regolano in qualche
modo, con modalità e intensità diverse, il fenomeno religioso. Quindi, il fatto che l’ordinamento
dello Stato si occupi del fenomeno religioso è una costante perché le scelte religiose implicano
comportamenti che invadono e incidono (a vario titolo e con varie intensità) nell’ordine delle cose
temporali, ovvero delle competenze dello Stato. Quindi, è molto opportuno se non necessario che lo
Stato secolare si occupi del fenomeno religioso e non lo lasci a se stesso: questa è un’esigenza
sentita dai legislatori e dagli ordinamenti secolari che incide notevolmente sulla misura del diritto di
libertà religiosa garantito sia ai singoli (diritto personale) sia ai gruppi (diritto collettivo).

I criteri che possono essere utilizzati per definire questi modelli sono essenziali: noi possiamo
fissare quali sono i criteri a partire dai quali intendiamo valutare l’atteggiamento del legislatore. La
dottrina ha utilizzato diversi criteri per identificare i principali modelli utilizzati dagli Stati europei
per regolare il fenomeno religioso e le relazioni con i gruppi religiosi.

Possiamo utilizzare un criterio formale oppure un criterio sostanziale. Per criterio formale
s’intende la fonte normativa che utilizza il legislatore per regolare il fenomeno religioso; quindi,
facendo ricorso a quali fonti il legislatore si occupa del fenomeno religioso e soprattutto, entrando
nel dettaglio, si occupa di regolare la condizione dei gruppi religiosi all’interno del proprio
ordinamento. Il criterio formale attiene in massima parte (non del tutto) alla regolazione e alla
disciplina della condizione dei gruppi religiosi. Per “fonte normativa” s’intende che il legislatore
utilizzi una fonte unilaterale (= proveniente esclusivamente da se stesso, dai propri organi
legislativi) oppure utilizzi anche fonti bilaterali (= fonti normative i cui contenuti sono concordati
con i gruppi religiosi di riferimento). Quindi, i contenuti delle fonti bilaterali sono frutto di un
accordo, intesa o contratto con i gruppi religiosi di riferimento. Perciò parlando di criterio formale
riferito espressamente alle fonti che regolano la vita dei gruppi religiosi, ci si riferisce a una fonte di
natura unilaterale versus una fonte di natura bilaterale.

Allora si può immaginare che lo Stato separatista (primo modello) utilizzi SOLO fonti unilaterali
per regolare il fenomeno religioso. In questo senso, il termine “separatista” ci aiuta perchè per Stato
separatista intendiamo quello Stato che avoca a sè completamente il compito di regolare, così come
tutti gli altri aspetti della vita (e, quindi, che attengono al proprio ordine) anche la disciplina della
libertà religiosa, in generale, e dei gruppi religiosi, in particolare. Nello Stato separatista c’è un
atteggiamento un po’ autarchico (definendolo con una parola un po’ forte) del legislatore statale che
non ritiene di rinunciare a parte della propria competenza e, quindi, decide di regolare tutto
utilizzando fonti unilaterali.

Molto diverso è, invece, l’atteggiamento dello Stato concordatario, che sceglie di fare ricorso
anche (non solo) a fonti bilaterali per disciplinare lo status giuridico dei gruppi religiosi (e, quindi,
l’insieme delle regole che disciplinano la vita dei gruppi religiosi nell’ordinamento). Perchè si
chiama “concordatario”? L’utilizzo di questo termine fa riferimento ai concordati che sono atti
bilaterali che addirittura sono interpretati come trattati internazionali che lo Stato temporale
sottoscrive con la Chiesa cattolica. Il termine “concordato” nasce proprio legato strettamente ad
accordi specifici che lo Stato stringe con la Chiesa cattolica e in questo senso si riesce anche a
capire che questi accordi non sono accordi di diritto interno, ma dei veri e propri trattati
internazionali e, quindi, regolati ad es. dalla normativa della Convenzione sui trattati internazionali.
Sono trattati internazionali perchè la Chiesa cattolica, al contrario delle altre confessioni religiose,
gode di un’indiscussa personalità di diritto internazionale; quindi, la Chiesa cattolica, pur non
essendo uno Stato territoriale, gode al pari degli Stati territoriali di questo riconoscimento di una
sua personalità all’interno dell’ordinamento internazionale. Su questo la dottrina internazionalistica
ha avuto nel tempo qualche perplessità (soprattutto nel riconoscere questa personalità alla Santa
sede, alla Chiesa cattolica o in alcuni casi allo Stato città del Vaticano, che invece è uno Stato
territoriale); quindi, nella dottrina internazionalistica ci sono stati alcuni elementi non così chiari
nell’interpretare questa personalità di diritto internazionale, ma la dottrina maggioritaria riconnette
la personalità di diritto internazionale proprio alla Chiesa cattolica. Questo vuole dire che SOLO gli
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accordi tra lo Stato e la Chiesa cattolica sono trattati di diritto internazionale e prendono appunto il
nome di concordati.

Lo strumento concordatario è tipico proprio della Chiesa cattolica anche perchè risponde un po’ a
una vocazione molto particolare e tipica della Chiesa cattolica che è una vocazione di originarietà,
nel senso che la Chiesa cattolica tende a porsi nei confronti degli ordinamenti secolari in una
posizione di estraneità, da una parte, e di parità, dall’altra. Quindi, la richiesta della Chiesa cattolica
nei confronti degli Stati secolari nei quali si trova a operare è sempre un’istanza/richiesta di parità;
quindi, di un rapporto paritario che si giochi in termini di concordati, intesi proprio come atti
stipulati tra parti pari (= soggetti di pari livello, senza vincoli di subordinazione). Questo
atteggiamento della Chiesa cattolica ha condotto tanti ordinamenti a maggioranza cattolica, nei
quali è chiaro che sarà più facile che la Chiesa cattolica riesca a ottenere il riconoscimento della
propria istanza verticistica e di originarietà (quindi, di rapporto paritario). Quindi, in questo senso,
possiamo chiamare Stati concordatari tutti quegli Stati che regolano i rapporti con la Chiesa
cattolica tramite un concordato. Però, bisogna dire che ormai il termine “concordatario” è utilizzato
in maniera più ampia; quindi, ha assunto nel tempo anche una connotazione più ampia perché gli
Stati concordatari in senso stretto (che avevano sottoscritto un concorato con la Chiesa cattolica) nel
tempo in molti casi hanno esteso questo principio concordatario e, quindi, l’utilizzo delle fonti
bilaterali, anche ai rapporti con confessioni diverse dalla cattolica. Perciò, ormai ci sono tanti
ordinamenti che nascono come concordatari in senso stretto, ma che poi hanno esteso questo
principio alle altre confessioni religiose; quindi, utilizzano fonti bilaterali anche per regolare i
rapporti con confessioni diverse dalla cattolica. In questo caso, la differenza è che non si può parlare
di concordati in senso stretto/tecnico (si può parlare di accordi, intese), anche perché questi accordi
bilaterali NON sono soggetti al diritto internazionale e, quindi, non sono trattati internazionali.

Quindi, fondamentalmente se volessimo dire una parola definitiva su cosa intendiamo allo stato
attuale per Stato concordatario, dovremmo dire che intendiamo, in senso atecnico, quello Stato che
utilizza la fonte bilaterale per regolare i rapporti con i gruppi religiosi. Bisogna chiarire che lo Stato
concordatario NON può utilizzare solo fonti bilaterali, certamente queste regoleranno alcuni aspetti
dello status dei gruppi religiosi, MA molti altri aspetti di ordine generale (quindi, attinenti più alla
libertà religiosa) restano regolati da fonti unilaterali. È evidente che le fonti unilaterali possono
essere di vario grado: nell’ambito della gerarchia delle fonti, le fonti che regolano il fenomeno
religioso saranno in primo luogo la Costituzione, poi leggi ordinarie e anche leggi regionali ecc.
Questo vale sia per lo Stato separatista che per lo Stato concordatario: tutte le materie che non sono
direttamente regolate dalle fonti bilaterali/pattizie, saranno regolate da fonti unilaterali di vario
livello.

Oltre alla distinzione tra Stato separatista e Stato concordatario, resta un altro modello di Stato che
certamente presenta qualche anomalia: lo Stato unionista. Lo Stato unionista presenta qualche
anomalia perchè è un po’ a metà tra un criterio formale e un criterio sostanziale; quindi, è difficile
trovare una precisa e netta collocazione allo Stato unionista perchè si potrebbe definire come uno
Stato in cui ci sono forti connessioni e interazioni tra la sfera religiosa (l’ordine religiosi/spirituale)
e l’ordine temporale. Talmente forti interconnessioni soprattutto a livello istituzionale a
conseguenza del quale è molto difficile nei fatti distinguere una sfera temporale e una sfera
spirituale: ci sono delle sovrapposizioni importanti tra le 2 sfere soprattutto a livello istituzionale
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(c’è una grossa interconnessione proprio tra le istituzioni temporali e le istituzioni religiose) che
rendono difficile utilizzare un vero criterio formale che consenta di regolare i rapporto con i gruppi
religiosi. Quindi, in realtà, questo Stato è presente certamente in Europa, in cui le istituzioni sono
molto correlate e in cui spesso c’è una certa gestione diretta del fenomeno religioso (e, quindi, delle
istituzioni religiose) da parte delle istituzioni temporali; però, una tale confusione di ordini che
rende faticoso l’utilizzo di uno specifico criterio formale.

A questo punto, possiamo dire che attualmente l’Italia è uno Stato formalmente concordatario;
quindi, ha scelto di regolare i rapporti con i gruppi religiosi utilizzando una fonte di natura bilaterale
e addirittura questa scelta (in Italia) è stata inserita nella Carta costituzionale (2 articoli). Quindi, il
principio concordatario (di bilateralità) è un principio molto importante del nostro ordinamento
costituzionale che connota in maniera molto importante le fonti del diritto ecclesiastico perchè ha
trovato appunto posto all’interno della Costituzione.

Per criterio sostanziale s’intende l’atteggiamento sostanziale dello Stato nei confronti del
fenomeno religioso, atteggiamento che è rivelato da tutto l’ordinamento giuridico nel suo
complesso; quindi, i principi e le norme costituzionali, la legislazione ordinaria a tutti i livelli e la
produzione giurisprudenziale. Quindi, il criterio sostanziale è molto più complesso e molto più
difficile da indagare perchè richiede di entrare nel cuore dell’ordinamento giuridico e di vedere
come si comporta veramente, al di là spesso delle dichiarazioni. Nel senso che non è così ovvio che
davanti ad altisonanti dichiarazioni ad es. di confessionismo o di laicità lo Stato si comporti in
maniera sostanziale davvero come uno Stato confessionista o uno Stato laico; perciò, il criterio
sostanziale ci impone di andare al di là delle dichiarazioni e delle definizioni.

Utilizzando un criterio sostanzialista possiamo trovarci di fronte a uno Stato confessionista o a uno
Stato laico.

Il criterio formale e il criterio sostanziale solo in apparenza sono completamente separati perchè
comunque è evidente che, ad es, un ordinamento separatista (che utilizza fonti unilaterali per
regolare il fenomeno religioso) spesso non si limiterà solo ad utilizzare fonti unilaterali, ma
cercherà anche una sostanziale separazione con le confessioni religiose e, quindi, è probabile che
rientri anche nel modello di Stato laico. È molto difficile quando pensiamo a uno Stato separatista
(come la Francia) immaginare che poi sia separatista solo nel senso del criterio formale. Quindi, i
criteri (benchè separati) hanno delle importanti interelazioni.

Lo Stato confessionista e lo Stato laico sono entrambi modelli difficili da definire perchè si parla di
entrare nel dettaglio di un ordinamento e, quindi, definire il cuore di un ordinamento non è per
niente semplice.

Per quanto riguarda lo Stato confessionista, il confessionismo nell’ambito dell’ordinamento segue


2 diverse direttrici: la prima direttrice attiene al trattamento delle confessioni religiose (cioè,
impattano direttamente nella disciplina delle confessioni religiose); la seconda direttrice è di più
ampio respiro perchè attiene un po’ ai principi e ai valori che fondano l’ordinamento giuridico nel
suo complesso. Quindi, la prima direttrice possiamo definirla un pochino più specifica del fattore
religioso perchè attiene strettamente alla disciplina dei gruppi e dei singoli; la seconda, invece, è
una direttrice di più ampio respiro.

Secondo la prima direttrice, noi possiamo ritenere di essere di fronte a uno Stato confessionista
quando lo Stato professa di avere una o più sue religioni ritenute religioni di Stato (quindi, quando
l’ordinamento ritiene di avere uno speciale legame di appartenenza con una confessione religiosa)
e, a seguito di questa dichiarazione di confessionismo, prevede discipline privilegiarie a favore di
uno o più gruppi religiosi. Quindi, non è sufficiente la mera dichiarazione di un confessionismo (=
dell’esistenza di una o più religioni di Stato), ma è necessario che a questa dichiarazione consegua
un atteggiamento privilegiario dell’ordinamento, ovvero che l’ordinamento preveda delle
disposizioni normative che fondano lo status di una o più confessioni religiose in senso migliorativo
rispetto a tutti gli altri gruppi religiosi. Quindi, tipicamente uno Stato confessionista tratterà meglio
una o più confessioni religiose che ritiene essere le religioni di Stato; prevederà proprio uno statuto
speciale.

In cosa di può sostanziare questo statuto speciale? Il privilegio può riguardare le situazioni più
diverse: ad es. lo Stato confessionista tenderà a contribuire economicamente a favore della religione
di Stato; quindi, tendenzialmente lo Stato confessionista elagirà dei contributi economici a vario
titolo per sostenere la sua religione. Poi, lo Stato confessionista ad es. prevederà insegnamenti
religiosamente orientati anche nelle scuole pubbliche e in alcuni casi impronterà proprio tutto il suo
insegnamento nelle scuole alla dottrina della sua religione; quindi, sicuramente lo Stato
confessionista utilizzerà la scuola a vario titolo per indottrinare gli studenti verso la religione dello
Stato (come minimo prevederà un’ora di religione obbligatoria all’interno della scuola pubblica, ma
potrà essere maggiormente incisivo). Un altro es. tipico degli ordinamenti confessionisti è che i
matrimoni celebrati ai sensi della religione dello Stato tendenzialmente ricevono gli effetti civili
nell’ordinamento e magari la stessa cosa non avviene per i matrimoni celebrati ai sensi di culti
diversi da quello di Stato o comunque il riconoscimento potrà avvenire attraverso il ricorso a
procedure più complesse.

La seconda direttrice non attiene tanto al trattamento dei gruppi religiosi, ma attiene proprio ai
principi posti a base di tutta la legislazione/normativa e spesso capita che uno Stato confessionista
mutui i principi e i valori che pone a base del suo ordinamento da una o più confessioni religiose
che corrispondono con le religioni di Stato. Quindi, fondamentalmente l’ordinamento quando si
mette a legiferare utilizzerà i principi della religione di Stato come un importante formante su cui
basare tutta/la maggior parte della normativa di riferimento. È chiaro che questa mutuazione è
molto evidente soprattutto in quei settori particolarmente sensibili e nevralgici e sui quali le
confessioni religiose hanno magari posizioni più nette e più precise: ad es. tutte le questioni
dell’inizio e fine vita, che sono tipicamente settori che per essere d’importanza nevralgica nella vita
dell’uomo è ovvio che la maggior parte delle confessioni religiose avrà una propria posizione.
Quindi, l’ordinamento confessionista soprattutto nella regolazione di queste questioni muterà i
principi su cui si basa la sua legislazione e la sua giurisprudenza da principi confessionali.

In conclusione, potremmo dire che uno Stato “perfettamente” confessionista (che incarna in tutti i
suoi elementi il modello confessionista) dovrebbe prevedere uno statuto privilegiario per una o più
confessioni religiose e mtuare da queste stesse i principi posti a base della sua legislazione. Poi, non
è assolutamente detto nella realtà che questi aspetti esistano tutti e due in maniera totale; questo
modello trova realizzazioni molto diverse nelle situazioni concrete e in alcuni ordinamenti avremo
una prevalenza della prima direttrice mentre in altri della seconda.
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Infine dobbiamo analizzare lo Stato laico. Definire lo Stato laico è estremamente difficile tant’è che
non a caso quando si parla di laicità anche in dottrina si tende sempre ad arricchirla di altri aggettivi
per cui si parla di laicità positiva, inclusiva, esclusiva, alla francese ecc.; quindi, si cerca sempre di
precisare meglio la laicità. Partendo da una lettura “in negativo” dello Stato confessionale possiamo
dire che lo Stato laico NON ha una religione, ovvero non definisce una religione come sua e non
eleva nessuna religione a confessione di Stato. Se ci fermassimo a questa prima definizione, più che
di Stato laico dovremmo parlare di uno stato aconfessionista; quindi, da sola non è sufficiente ma
costituisce un importante punto di partenza.

Ritornando alla prima direttrice dello Stato confessionista dovremmo dire che lo Stato laico non ha
una sua religione e non prevede discipline privilegiare a favore di uno o più gruppi religiosi; quindi,
non discrimina nessun gruppo religioso rispetto agli altri e non considera l’elemento religioso come
un possibile fattore di discriminazione sia in relazione agli individui sia in relazione ai gruppi.
Quindi, nello Stato laico vige un divieto di discriminazione generalizzato per motivi religiosi: esiste
un principio di non discriminazione che dovrebbe orientare il comportamento e, quindi,
l’ordinamento dello Stato laico e anche il comportamento della giurisprudenza che dovrebbe
improntare nell’essenziale l’ordinamento.

In più, lo Stato laico è uno Stato che non mutua i suoi principi e i suoi valori da una o più
confessioni religiose; quindi, è fatto divieto allo Stato laico di effettuare questa mutuazione diretta
di principi e valori confessionali. Lo Stato laico deve mutuare i suoi principi e i suoi valori
tendenzialmente dalla Carta costituzionale (se ne esiste una) o comunque individuare e definire i
principi e i valori sui quali si basa con un metodo democratico; quindi, non basato sulla mutuazione
di principi e valori etorodossi (= estranei/esterni) quali quelli di una o più confessioni religiose.
Questo legame di appartenenza tra lo Stato e la confessione religiosa sparisce completamente e lo
Stato deve mutuare altrove i suoi principi e i suoi valori.

Dopodichè, all’interno di uno Stato laico potremmo anche aggiungere dei corollari della laicità, cioè
potremmo definire altre conseguenze o presupposti: lo Stato laico riconosce largamente il diritto di
libertà religiosa a tutti sia i singoli sia i gruppi; riconosce la libertà di coscienza a tutti; e soprattutto
è improntato a un principio di distinzione degli ordini che postula una separatezza tra sfera
temporale e sfera spirituale che è addirittura il presupposto su cui si fonda la laicità.

L’Italia è uno Stato concordatario e laico: la Corte costituzionale si è dichiarata in questo senso e
ha ritenuto essere la laicità un principio supremo dell’ordinamento costituzionale. Non è sempre
stato così: ci sono stati momenti della storia (più o meno recenti) in cui l’Italia non era
concordataria perchè non esisteva un concordato con la Chiesa cattolica e non esistevano accordi
con altre confessioni religiose; e non era neanche laica perchè rientrava nello Stato confessionista

12/10/2021

La storia

Cenni sui modelli di relazione Stato-confessioni religiose in Europa

Excursus storico per cercare di capire e comprendere al meglio come nel tempo l’attuale Stato
italiano democratico sia diventato uno Stato concordatario e laico.

Lo Stato italiano non è sempre stato nè concordtario nè laico, ma sono corsi una serie d’importanti
passaggi storici e istituzionali perchè si potesse giungere alla situazione attuale. Quindi, se
ripercorriamo le origini dello Stato italiano vediamo che esso nasce nel 1861 come uno Stato
monarchico costituzionale formalmente confessionista: lo Stato di questi anni viene generalmente
definito uno Stato “liberale” anche se il suo atteggiamento nei confronti del fenomeno religioso è
molto contradditorio, variegato e presenta elementi di una serie di modelli e probabilmente non è
definibile in nessun modello. Quindi, il termine “liberale” in relazione al neonato Stato italiano
richiede delle precisazioni soprattutto in relazione all’atteggiamento nei confronti del fenomeno
religioso.

Lo Stato italiano nasce come Stato separatista: nel senso che il legislatore non riteneva di regolare
ancora i rapporti con le confessioni religiosi facendo ricorso allo strumento pattizio e, in particolare,
al concordato. Quindi, si può dire che lo Stato liberale NON è uno Stato concordatario; quindi, da
questo punto di vista, potremmo definirlo come uno Stato separatista; però, allo stesso tempo, nasce
formalmente confessionista. Questo vuol dire che l’art. 1 dello Statuto Albertino del 1948 (che
costituisce la prima costituzione flessibile del Regno d’Italia) recitava: “La Religione Cattolica,
Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati
conformemente alle leggi”.
➔ La Costituzione del neonato Stato italiano si apriva con una chiara, altisonante e indubbia
dichiarazione di confessionismo. Quindi, se dovessimo limitarci a questo aspetto, dovremmo
arrivare alla conclusione che lo Stato liberale è separatista, ma allo stesso tempo anche
confessionista.

Però non ci si può fermare alle dichiarazioni e, quindi, alla forma e alla lettera delle dichiarazioni
anche se, come in questo caso sono inserite in una costituzione. Tale dichiarazione di
confessionismo in senso cattolico non trovava conferma nella legislazione di dettaglio che, quindi,
non rivelava l’esistenza di uno Stato confessionista secondo le direttrici secondo cui è uno Stato
privilegiario a favore di una o più confessioni o comunque uno Stato che prevede un atteggiamento
benevolo nei confronti di una o più confessioni. Questo atteggiamento nello Stato liberale non lo
vediamo; bisogna aspettare lo Stato fascista e il percorso di riconfessionalizzazione che non
comincia prima degli anni ’20 del secolo scorso. Gli elementi presenti in questo Stato, invece, erano
un po’ riconducibili all’ordinamento separatista e anche a un tipo di approccio di tipo
giurisdizionalista, nel senso di ritenere le confessioni religiose (e nella fattispecie la religione
cattolica) un po’ sottoposte al controllo dello Stato (= degli organi dello Stato). Quindi, alcune
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normative presenti nella legislazione avranno questa natura di giurisdizione, ovvero di controllo
dello Stato sul fenomeno religioso. Gli aspetti veramente riconducibili a un principio confessionista
non si rinvengono nella normativa di questi anni.

Alcuni esempi (slides):


• Legge Sineo del 1848

Questa legge ha una funzione di equidistanza nei confronti di tutti i gruppi religiosi e di tute
le scelte religiose; quindi, è una normativa che di fatto tutelava le minoranze confessionali
che venivano fondamentalmente lasciate operare in Italia in una situazione di piena libertà e
autonomia. Quindi, fondamentalmente era una legge che poneva un principio di non
discriminazione (utilizzando un termine più vicino ai giorni nostri) dei singoli in relazione
alla scelta e all’appartenenza religiosa. Perciò, una legge che per certi versi sembrerebbe
andare in una direzione diversa rispetto a uno Stato confessionista.
• Legge Lanza del 1857

Questa legge ineriva all’istruzione e, quindi, regolava l’istruzione nell’ordinamento. Il


riferimento specifico all’educazione religiosa e alla religione cattolica potrebbe confermare
l’impronta confessionista dell’ordinamento; MA il riferimento è SOLO all’istruzione
religiosa e, quindi, NON a tutta l’istruzione pubblica (come, invece, avviene nello Stato
fascista confessionista). Quindi, la religione cattolica viene confinata nello spazio di
un’educazione religiosa; perciò, in un certo senso abbiamo un ridimensionamento
dell’importanza della religione nella scuola.
• Leggi Siccardi del 9 aprile e del 5 giugno 1850
• Leggi eversive dell’asse ecclesiastico

Sono tutte quelle leggi che, negli anni ’60 e ’70 del 1800, lo Stato ha emanato al fine
d’incamerare il patrimonio di proprietà di molti enti ecclesiastici; quindi, fondamentalmente
lo Stato con queste leggi eversive scioglieva e sopprimeva la personalità giuridica di una
serie di enti ecclesiastici che riteneva non utili e ne incamerava il patrimonio.
Evidentemente quest’operazione aveva il chiaro obiettivo di sopperire al deficit economico
nel quale il neonato Stato italiano versava: per sopperire a questa situazione particolarmente
gravosa lo Stato si faceva “aiutare” dal patrimonio ecclesiastico e, quindi, incamerava
unilateralmente i patrimoni di questi enti ecclesiastici che scioglieva considerandoli inutili.

• Codice civile del 1865: con questo codice nasce il matrimonio civile come unico vincolo
produttivo di effetti civili. Questo è estremamente importante perchè fino ad allora il
matrimonio religioso aveva direttamente effetti civili; con questo codice chi desiderava
essere ritenuto coniuge davanti allo Stato era obbligato a sposarsi civilmente: chi si sposava
con un mero matrimonio religioso non poteva aspirare a essere considerato coniuge davanti
allo Stato. Questa è stata una scelta rivoluzionaria molto importante che ha anche prodotto
danni di un certo tipo subito dopo la sua entrata in vigore perchè moltissime persone,
seguendo l’onda della tradizione e del passato, hanno continuato a sposarsi in Chiesa e,
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quindi, con un matrimonio che non aveva effetti civili; di fatto con un matrimonio non
efficace di fronte allo Stato. La conseguenza di questa situazione era che non acquisivano lo
status di coniuge davanti allo Stato e i loro figli non acquisivano lo status di figli legittimi di
fronte allo Stato. Quindi, si creava una situazione di grave incertezza sugli status sia dei
coniugi che dei figli che sicuramente non favoriva la certezza del diritto. Però, al di là di
queste conseguenze particolarmente gravose è molto importante il principio per cui il
matrimonio civile era l’unico vincolo produttivo di effetti civili. Quindi, questa disposizione
va proprio nel senso di un ordinamento separatista, in cui vengono separati l’ordine dello
Stato dall’ordine religioso.
• Codice penale del 1889 (codice Zanardelli): è ritenuto a tutti gli effetti un codice liberale
che prevedeva tutta una serie di norme a tutela della libertà religiosa che, quindi, era
considerata un bene giuridico meritevole di tutela. Però, la cosa peculiare (completamente
sovvertita nel codice Rocco) è che la tutela era paritaria per tutti i culti, o meglio era
paritaria per tutti gli appartenenti ai culti perchè il più importante articolo del codice penale
in relazione alla tutela dei culti era l’art. 141 che puniva chiunque, per offendere uno dei
culti ammessi nello Stato, pubblicamente vilipende chi lo professa. Quindi, non c’è nessuno
specifico riferimento alla religione dello Stato, ma vengono tutelati tutti i culti ammessi
nello Stato indistintamente con pene eguali/paritarie. È importante precisare che questi culti
che nell’art. 1 dello Statuto Albertino erano ritenuti tollerati, in questa norma del c.p. si
trasformano in “culti ammessi”; quindi, per certi versi, è come se almeno per l’utilizzo delle
definizioni, ci sia un ampliamento di tutela: da una mera tolleranza a un espresso
riconoscimento, una vera e propria ammissione nello Stato che veniva a tal punto portata
avanti che tutti i culti ammessi ricevevano una pari tutela penale nei confronti di vilipendi.
In questo senso, il codice Zanardelli va anch’esso nell’ottica della separazione, ma
soprattutto dell’uguaglianza tra i culti e della non discriminazione tra credenti in ragione
della scelta religiosa.

[Anche i codici proseguivano fondamentalmente in questa strada di separazione, per un verso, e di


giurisdizionalismo, dall’altro, anche se più in questo caso di separazione. I codici “rinnegano” la
scelta confessionista così tanto enunciata nell’art. 1 dello Statuto Albertino: non si può certo dire
che i 2 codici vadano nello stesso senso dello Statuto]

C’è una commistione nello Stato “liberale” di istanze separatiste, egualitarie, giurisdizionaliste in
cui lo Stato addirittura per confermare il suo giurisdizionalismo si mette a sciogliere gli enti
ecclesiastici che non ritiene abbastanza importanti incamerando i loro patrimoni. In questa
situazione, già abbastanza complessa, nasce la questione “romana”. Accadde che nel 1870, a
seguito della “breccia di Porta Pia”, lo Stato Pontificio (che era uno Stato ricco e di dimensioni
tutt’altro che irrilevanti) viene annesso al Regno d’Italia. Quindi, si parte da un atteggiamento di
forza/di una decisione sostenuta dalla forza con cui lo Stato Pontificio viene annesso al Regno
d’Italia. È evidente che questa presa di posizione non può che creare un’importante frattura tra il
papa e il neonato Stato italiano che viene appunto definita la questione “romana” e che ci metterà
molti ad essere sanata.

Subito dopo la “breccia di Porta Pia” e l’annessione dello Stato Pontificio al Regno d’Italia, il re
d’Italia emanava la legge delle Guarentigie (1871) per cercare di garantire il papa nei confronti
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dello Stato italiano e, quindi, di dotare il papa di tutta una serie di garanzie pari, o comunque
assimilabili, a quelle che venivano riconosciute ai sovrani. Quindi, una legge tutelante per il
pontefice che lo Stato italiano emana per cercare tendere una mano al papa dopo che lo Stato
Pontificio era stato annesso al Regno d’Italia.

Questa legge fu presa molto male dal pontefice e non fu mai accettata; quindi, non permise
assolutamente un avvicinamento tra lo Stato e il papa ma anzi venne accolta come un ulteriore
motivo di conflitto tant’è che il papa la definì come un mostruoso prodotto della giurisprudenza
rivoluzionaria. Come si evince dall’enciclica Ubi nos [da leggere], questa legge non fu mai
accettata soprattutto per 2 motivi:

1. Era una legge unilaterale: indipendentemente dai contenuti e dalle garanzie (di ordine anche
patrimoniale) che poteva contenere, era una legge emanata dallo Stato sulla quale il papa
non aveva potuto dire nulla; quindi, per certi versi era una legge che contraddiceva appieno
quel principio di dualità caro alla Chiesa cattolica, che ha sempre spinto per intrattenere con
gli Stati di riferimento rapporti paritari che si basassero su un livello di parità e, quindi,
fondamentalmente di regolare la vita della Chiesa cattolica nell’ordinamento tramite
concordati. Tutto ciò non era riscontrabile nella legge delle Guarentigie perchè è una legge
unilaterale in cui certamente il papa era trattato molto bene, ma sempre di legge unilaterale
si trattava e, quindi, negava la vocazione paritaria della Chiesa.

2. Riduceva il Pontefice a suddito e lo privava del potere temporale (di cui era già stato privato
con l’annessione dello Stato Pontificio al Regno d’Italia).

Il papa era sicuramente un suddito dotato di riconoscimenti e garanzie molto particolari , ma


sempre un suddito era: il papa privato del potere temporale diventava suddito del re e questa
era una conclusione inaccettabile per il papa.

Subito dopo, nel 1874 il Papa dichiarò il Non expedit, ovvero un invito molto forte del Papa a tutti i
cattolici in cui dichiarava non opportuno il concorso alle urne per i cattolici che non avrebbero
dovuto essere nè eletti nè elettori. Quindi, fondamentalmente i cattolici, a seguito del Non expedit,
dovevano completamente uscire dalla vita politica; quindi, non dovevano andare votare nè
presentarsi nelle liste per essere eletti. Quindi, era un ritiro molto violento dei cattolici dalla vita
pubblica (= un invito all’astensione totalitario). Questo invito all’astensione ebbe un seguito
discreto; quindi, non quello dirompente che ci si attendeva anche perchè da lì a qualche anno la
situazione venne resa altamente più tragica con lo scoppio della prima guerra mondiale in cui i
cattolici parteciparono e, quindi, tutto ciò passò in secondo piano. Però, è anche vero che il Non
expedit rimase in vigore fino al 1919 quando don Luigi Sturzo diede vita al Partito Popolare
Italiano (di chiara ispirazione cattolica) e, quindi, con la nascita del PPI il Non expedit venne
abolito formalmente. Ma già qualche anno prima c’erano state delle importanti aperture nel senso
del superamento del Non expedit con il Patto Gentiloni. In generale, negli anni della prima guerra
mondiale questo invito così forte al’astensione venne gradualmente superato fino ad arrivare alla
nascita del Partito Popolare Italiano.

Quindi, era stato superato formalmente il Non expedit MA era ancora molto lontana da essere
superata la questione romana, nel senso che la frattura importante che si era creata tra papato e Stato
monarchico dopo l’annessione dello Stato Pontificio al Regno d’Italia non era stata assolutamente
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superata; infatti, era in vigore la legge delle Guarentigie (1871), ma non era mai stata accettata dal
papato che l’aveva in tutti i modi avversata e contrastata e, quindi, dopo la prima guerra mondiale la
questione romana era ancora aperta nonostante tutti gli eventi tragici della guerra. È in questa
situazione che comincia a trovare spazio e ad acquisire sempre più potere il partito fascista: dal
1920 in poi vi è una progressiva conquista del potere politico da parte del partito fascista; quindi,
l’emersione nella sfera politica in maniera sempre più forte e importante di questo partito guidato da
Benito Mussolini. A questa emersione e presa di potere fa da contraltare una progressiva
riconfessionalizzazione del Paese. Questa riconfessionalizzazione parte un po’ in sordina perchè,
come si può vedere dal discorso di Benito Mussolini alle Camere del 1921, si vede che non rivela
un atteggiamento particolarmente benevolo di Mussolini a favore della Chiesa cattolica; quindi, non
si può certo dire che la presa del potere del partito fascista nascesse già fin dall’inizio come un forte
connubio con la Chiesa cattolica. Certamente il partito fascista non nasce come partito cattolico.
Però, già da quel discorso, in alcuni passaggi si trova che Mussolini sostiene che sarebbe il
momento di trovare un accordo con il papato e che questo sarebbe possibile solo se il pontefice
rinunciasse al potere temporale. Quindi, in un certo qual modo, Mussolini cerca di tracciare una
strada di possibile accordo con il Papa in cui a una rinuncia del potere temporale poteva seguire una
concessione d’importanti benifici di vario ordine (soprattutto economico) a favore della Chiesa
cattolica. Quindi, già questo discorso apre la strada a questo processo di riconfessionalizzazione.

Però, questo processo di riconfessionalizzazione vedrà la luce intorno a circa la metà degli anni ’20:
una tappa importante viene la Riforma Gentile del 1923 che era la riforma dell’istruzione pubblica.
Il nucleo fondante di questa legge era riassunto in questa frase: la religione cattolica, di cui era
obbligatorio l’insegnamento nelle scuole pubbliche, era ritenuta fondamento e coronamento di tutta
l’istruzione pubblica e non solo dell’istruzione religiosa. Il fatto di ritenere i principi di una
confessione religiosa come fondamento e coronamento di tutta l’istruzione pubblica rivela un chiaro
intento indottrinante perchè è evidente che la scuola pubblica (soprattutto elementare) è uno
strumento decisivo e irrinunciabile d’indottrinamento. Quindi, improntare tutto l’insegnamento fin
dalle prime classe della scuola pubblica a questi principi evidentemente era un segno di
riconfessionalizzazione.

Si parla di riconfessionalizzazione perchè lo Stato italiano nasceva già formalmente come Stato
confessionista nello Statuto Albertino e poi negli anni questo confessionismo (dichiarato e ritenuto
tale nell’art. 1) aveva progressivamente perso di contenuti fino ad arrivare a una situazione di
separatismo o giurisdizionalismo, ma certamente non di confessionismo. Quindi, è in questo senso
che si parla di riconfessionalizzazione perchè si doveva ritornare al passato però riempiendo di
contenuto quella formula che formalmente era ancora in vigore, ma che di fatto nel tempo aveva
perso di contenuto (confessionismo di forma).

Altre tappe, forse meno rilevanti come impatto pratico ma molto rilevanti dal punto di vista della
natura simbolica, possiamo ricordare tutti quei regolamenti (in alcuni casi vere e proprie circolari)
che dal 1922 al 1926 avevano ripristinato l’obbligo di apposizione del crocifisso nelle aule
scolastiche e in tutti gli uffici pubblici, comprese le aule dei tribunali e gli ospedali. Questo segnava
in maniera tangibile ed evidente questo legame di appartenenza tra lo Stato (rappresentato dalle aule
scolastiche, uffici pubblici e tribunali) e una confessione religiosa, nella fattispecie la religione
cattolica. Quindi, questo obbligo benchè portasse delle conseguenze pratiche non così rilevanti,
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aveva un valore simbolico importantissimo. Su questo obbligo di apposizione del crocifisso fino ai
giorni nostri la discussione nelle aule dei tribunali e anche di fronte alla Corte europea dei diritti
dell’uomo è accesa e non ancora sopita. Quindi, da questa introduzione si avranno conseguenze che
si trascinano ancora oggi: in Italia (su vari fronti) si discute ancora sulla vigenza di questo obbligo,
sulla conformità costituzionale e anche sull’eventuale violazione della Convezione europea dei
diritti dell’uomo.

Altra tappa, con un valore simbolico importante, è il riconoscimento come feste civili delle più
importanti feste religiose cattoliche (quasi nella totalità). In quegli anni si realizza una
sovrapposizione (o comunque un’omologazione) del calendario civile al calendario delle feste
religiose. Le più importanti feste religiose vengono assorte al rango di feste civili. Questo ha un
valore simbolico molto importante perchè è chiaro che il calendario civile riprende
fondamentalmente le feste più sentite e più seguite all’interno della popolazione e, quindi,
quest’omologazione certamente rivela l’intenzione del legislatore di adeguarsi alle istanze religiose
di un gruppo quale i cattolici.

14/10/2021

Lo Stato confessionista e il Concordato Lateranense (1929)

Nel 1925, il partito fascista prende il potere nel Parlamento italiano. Con questa presa di potere, il
processo di riconfessionalizzazione prosegue molto più rapidamente: dal 1925 in poi abbiamo un
progressivo avvicinamento del partito fascista (e soprattutto di Mussolini) alla Chiesa cattolica e,
quindi, un’effettiva e totale riconfessionalizzazione del Paese. Benito Mussolini capisce subito
l’importanza politica (ai fini di una presa del potere effettiva) di un accordo con la Chiesa cattollica;
quindi, sfrutta con una certa velocità questa intuizione di utilizzare il favore della Chiesa per
fortificare e consolidare il suo potere. L’11 febbraio 1929 Mussolini stipula i Patti Lateranensi con
la Chiesa cattolica: lo Stato italiano diventa uno Stato concordatario. I Patti Lateranensi erano
formati da una convenzione finanziaria, un trattato e un concordato (più altri allegati).

La stipulazione dei Patti Lateranensi tra Benito Mussolini e il Papa segna la soluzione della
questione romana e, quindi, la raggiunta pace religiosa. Non a caso si ricorda che il Papa all’epoca
salutò Mussolini come “l’uomo portato dalla Provvidenza” per raggiungere la pace religiosa e,
quindi, per sanare quella frattura che si era creata tra Stato e Chiesa a seguito dell’annessione dello
Stato Pontificio allo Stato italiano.

I Patti Lateranensi furono fortemente voluti dalla Chiesa cattolica; quindi, Benito Mussolini
comprese che per avere garanzia di avere il favore del Papa avrebbe dovuto cedere alla stipulazione
dei Patti Lateranensi perchè la Chiesa cattolica voleva a tutti i costi il riconoscimento di
un’originarietà, alterità e, quindi, voleva stabilire con lo Stato italiano rapporti che fossero apicali, i
quali non potevano essere raggiunti se non con un atto bilaterale. Quindi, il primo motivo per cui il
Papa fortemente volle sottoscrivere i Patti Lateranensi era perchè finalmente si conosceva la sua
alterità, originarietà e la sua appartenenza a un ordine distinto ma di pari grado e, quindi,
fondamentalmente perchè si trattava di un atto bilaterale. Era proprio questo il motivo principale per
cui il Papa non aveva mai voluto riconoscere la legge sulle Guarentigie che era unilaterale e non
rispettava questa originarietà che, invece, per il Papa era essenziale.

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Inoltre, c’era un altro motivo che faceva dei Patti Lateranensi uno strumento consono alle
aspettative del papato: era simbolicamente ripristinato il potere temporale del Pontefice. Questa
soluzione avveniva creando uno Stato enclave all’interno della città di Roma che venne chiamato
Stato città del Vaticano. Questo rappresenta certamente un’anomalia all’interno del diritto
internazionale perchè è decisamente anomalo che Stati territoriali nascano a seguito di trattati
internazionali. Questo piccolo territorio garantiva al Pontefice un potere temporale sufficiente a
gaantirgli di non essere suddito del Regno italiano e del re. Grazie a questa soluzione il Papa non
era un suddito e, quindi, aveva un suo potere temporale su un territorio.

Per certi versi questa soluzione dava anche un po’ ragione a quello che sosteneva Mussolini nel
1921 davanti alle Camere, nel senso che diceva che il Papa se vuole che sia superata la questione
romana, deve rinunciare al potere temporale e a quel punto potremmo garantirgli una serie di
benefici. Questa è una soluzione compromissoria che consente al Papa di non diventare suddito
italiano, ma nello stesso tempo di fatto gli chiede la rinuncia al potere temporale. Quindi, si crea
una situazione di compromesso che soddisfa l’istanza del Pontefice che aveva più volte presentato
nell’enciclica Ubi nos.

Questi Patti Lateranensi fortemente voluti dalla Chiesa cattolica e concessi da Benito Mussolini per
ragioni politiche di rafforzamento del suo potere realizzano una nuova “pace religiosa” tra lo Stato e
la Chiesa e, quindi, si può considerare definitivamente superata la questione romana.

Se entriamo nel dettaglio dei Patti Lateranensi possiamo vedere alcune norme che confermano tutto
quello detto fino ad ora.
➔ Art. 1 del Trattato Lateranense

L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’articolo 1 dello Statuto del Regno 4
marzo 1848, pel quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato.

Il Trattato Lateranense si apre con una chiara dichiarazione di confessionismo esattamente identica
a quella contenuta nell’art. 1 dello Statuto Albertino. È interessante notare l’uso delle parole:
“riafferma” l’affermazione contenuto nello Statuto Albertino non era stata sufficiente a garantire un
effettivo confessionismo e, quindi, nell’art. 1 del Trattato le parti sentono il bisogno di riaffermare
questo principio, di dargli un significato nuovo e di riempirlo di nuovi contenuti, visto che i
contenuti antecedenti si erano persi.

Questo articolo è stato molto discusso all’interno dell’Assemblea Costituente (1946-47) perchè è
evidente che questa norma era quella che più di altre rivelava la natura confessionista di questi
accordi e, quindi, questi contenuti furono oggetto di ampie discussioni.
➔ Art. 3 del Trattato Lateranense (che realizzava lo Stato città del Vaticano e ne segna
specificamente i confini in una pianta che viene allegata al trattato e garantisce alla Santa
sede la piena proprietà e l’esclusiva e assoluta potestà e giurisdizione sovrana su questi
territori).

Questo è l’articolo che garantisce al Papa un piccolo potere temporale.

Già con questi 2 articoli, sulla riconfessionalizzazione dell’ordinamento e sulla creazione dello
Stato città del Vaticano, alcune delle aspettative del Pontefice erano state appieno realizzate. Ma ci
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sono altre norme (contenute soprattutto nel concordato) che riempiono di contenuti la formula
dell’art. 1 del Trattato Lateranense.

Anche il Concordato che faceva parte del corpus dei Patti Lateranensi presentava una serie di
norme importanti dalle quali si evidenziava in modo molto chiaro l’impronta confessionalista dello
Stato [e-learning testo Patti Lateranensi].
➔ Art. 5 del Concordato

Questa norma era considerata molto emblematica di un confessionismo perchè c’era una forte
commistione tra gli uffici pubblici (e, quindi, il contatto immediato con il pubblico) e
l’atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti di un sacerdote che fosse stato irretito da
censura o fosse stato dichiarato apostata. Quindi, si può dire che questa norma creava qualche
conflitto con tutta una serie di principi che i Padri costituenti volevano introdurre nella nuova
Carta costituzionale; ma il riferimento era anche a un caso concreto che si era verificato intorno
agli anni ’30 di Ernesto Bonaiuti (professore universitario ordinario di storia del cristianesimo),
un sacerdote irretito da censura e, quindi, dispensato dall’insegnamento in quanto non poteva
più stare a contatto immediato con il pubblico e neppure con gli studenti perchè si era rifiutato
di giurare fedeltà al regime fascista. Quindi, questi due aspetti insieme avevano causa
l’allontanamento e il licenziamento di questo professore.

Al di là di questo articolo molto emblematico ve n’erano altri che producevano delle conseguenze
sostanziali importanti (quindi, non avevano solo una portata simbolica, ma anche sostanziale) e che
rivelavano chiaramente questo legame forte tra la Chiesa cattolica e lo Stato.
➔ Art. 34 del Concordato Introduceva il matrimonio concordatario nell’ordinamento.

E’ uno dei importanti articoli del Concordato ed è stato anche l’articolo a favore del quale il Papa
tanto tempo aveva lottato e sperato: per il Papa l’introduzione dell’art. 34 e, quindi, l’introduzione
del matrimonio concordatario rappresentava un aspetto irrinunciabile e centrale di tutto l’impianto
concordatario. Fondamentalmente questa norma rappresenterà una pietra miliare del concordato di
allora.

Nell’art. 34 le parti riconoscevano effetti civili al matrimonio canonico: Lo Stato italiano, volendo
ridonare all’istituto del matrimonio, che è base della famiglia, dignità conforma alle tradizioni
cattoliche del suo popolo, riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto
canonico, gli effetti civili. Una dichiarazione forte in cui il matrimonio è chiamato “sacramento” e,
quindi, c’è un richiamo alla natura sacramentale del vincolo il che è tipico della Chiesa cattolica, di
certo non dello Stato. C’è una specie di recepimento della sacramentalità del vincolo al quale lo
Stato italiano riconosce effetti civili.

Si può aggiungere che questo riconoscimento degli effetti civili, che avveniva attraverso l’istituto
della “trascrizione”, era pressochè automatico: era praticamente certo che il matrimonio celebrato ai
sensi del codice di diritto canonico fosse riconosciuto agli effetti civili (in questo senso esisteva una
specie di automaticità).

Poi, erano previsti altri automatismi all’interno dell’art. 34 perchè era prevista un’esclusiva riserva
di giurisdizione a favore dei tribunali ecclesiastici relativamente alle nullità matrimoniali. Le cause
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concernenti la nullità del matrimonio e la dispensa dal matrimonio rato e non consumato sono
riservate alla competenza dei tribunali e dei dicasteri ecclesiastici. Questo comma è molto chiaro e
incisivo: riserva la decisione sulla validità del vincolo matrimoniale concordatario (stipulato ai sensi
dell’art. 34 del concordato) a tribunali ecclesiastici; i tribunali civili non avrebbero mai potuto
dichiarare la nullità di questi matrimoni ritenuti concordatari perchè stipulati e contratti ai sensi
dell’art. 34.

Infine, vi era un ultimo automatismo: le pronunce di nullità emanate dai tribunali ecclesiastici,
venivano riconosciute agli effetti civili come pronunce di nullità a seguito di un procedimento di
natura formale di competenza della Corte d’Appello e dagli esiti automatici.

Si potrebbe dire che l’art. 34 davvero aveva lasciato nelle mani della Chiesa cattolica la “gestione”
di tutti i matrimoni contratti dai cattolici e, quindi, fondamentalmente di tutti i matrimoni contratti
ai sensi del diritto canonico. Bisogna ricordare che facciamo riferimento agli anni ’30 e, quindi, i
matrimoni canonici trascritti erano la pressochè totalità dei matrimoni contratti perchè ovviamente i
matrimoni civili erano certamente un’esigua minoranza. Quindi, con questo articolo la Chiesa
cattolica si trovava ad avere giurisdizione esclusiva su quasi tutti i matrimoni celebrati in Italia in
quegli anni.

Proprio l’art. 34 rappresenterà un elemento sul quale dopo l’entrata in vigore della Carta
costituzione si pronuncerà più volte la Corte costituzionale e la Corte di Cassazione e, quindi,
questa previsione così garantista per la Chiesa cattolica verrà ampiamente in discussione da parte di
tutta la giurisprudenza costituzionale e di legittimità a partire dai primi decenni successivi
all’entrata in vigore della Costituzione. Così come questo articolo rappresentava l’emblema del
Concordato e, quindi, del confessionismo di Stato, così allo stesso modo verrà messo sotto il mirino
dei giudici (anche costituzionali) dopo l’entrata in vigore della Carta costituzionale (che ha
modificato in maniera sostanziale i principi e i valori su cui si fondava l’ordinamento).
➔ Art. 36 del Concordato introduce l’ora di religione obbligatoria nell’ordinamento.

In realtà, questo articolo non fa che recepire quanto era già stato detto dalla riforma Gentile (1923),
cioè i contenuti erano già previsti da questa riforma (che era una legge unilaterale dello Stato) e in
questo articolo vengono recepiti tramire una fonte bilaterale. Però, dal punto di vista contenutistico
non si può dire ci siano grandissime novità.

L’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della


dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica. E’ importante che il
riferimento non è all’istruzione religiosa, ma a tutta l’istruzione pubblica. Quindi, i principi del
cattolicesimo vengono considerati alla base di tutta l’istruzione pubblica.

E, sulla base di questa premessa, s’introduce l’insegnamento obbligatorio della religione: E perciò
consente che l’insegnamento religioso ora impartito nelle scuole pubbliche elementari abbia un
ulteriore sviluppo nelle scuole medie [...].

La cosa importante è il collegamento tra l’introduzione dell’ora di religione obbligatoria e il fatto


che l’Italia considera fondamento e coronamento di tutta l’istruzione pubblica la dottrina cristiana.
Il fatto che si tratti di una previsione obbligatoria nasce dal fatto che per coloro che non volevano
partecipare all’ora di religione era necessaria una vera e propria istanza di esonero motivata. Cioè,
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la richiesta di esonero dall’ora di religione doveva essere chiaramente motivata, dall’appartenenza a


un’altra confessione religiosa eventualmente

Art. 34 e 36 sono 2 articoli molto importanti perchè incidono in settori di primario rilievo: il diritto
di famiglia (cioè, lo stato matrimoniale) e la scuola. Entrambe queste 2 norme sono state riprese
nell’accordo del 1984 che ha sostituito pienamente e integralmente il Concordato Lateranense (non
più in vigore dal 1985, cioè da quando la legge di esecuzione ha dato completa esecuzione
all’accordo del 1984). Quindi, nel Nuovo Accordo si trovano sia disposizioni in materia di
matrimonio concordatario sia in materia di ora di religione; però, entrambe le discipline (benchè la
Chiesa non abbia rinunciato nè al matrimonio concordatario nè all’ora di religione) presentano
differenze molto importanti che stravolgono completamente quantomeno la ratio dell’istituto.
Quindi, possiamo dire che il Nuovo Accordo benchè mantenga vivi gli istituti, in realtà li prevede e
li disciplina con presupposti e normative di dettaglio molto diversi.

Andando a vedere il resto dell’ordinamento e, quindi, non solo la legislazione bilaterale (Patti
Lateranensi), ma anche le fonti emanae unilateralmente dal legislatore, vediamo che anch’esse
rispecchiano in maniera importante quest’adesione al confessionismo.

La legislazione sui culti ammessi (l. 1159/1929 e r.d. 289/1930) è la legislazione che il legislatore
fascista aveva emanato per disciplinare nello Stato italiano la vita dei culti diversi dalla religione
cattolica. Quindi, fondamentalmente la religione cattolica aveva uno strumento bilaterale che ne
prevedeva lo status nell’ordinamento; gli altri culti non avevano accesso a strumenti bilaterali ma
erano destinari di questa legislazione unilaterale.

[su e-learning]
➔ Art. 1 della l. 1159/1929: è emblematico di questo spirito confessionista.

Sono ammessi nello Stato culti diversi dalla religione cattolica apostolica e romana, purchè non
professino principi e non seguano riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume.
L’esercizio, anche in pubblico, di tali culti è libero.

Questa disposizione non è più in vigore perchè è stata superata dall’art. 19 Cost. MA questa
legge, invece, è ancora in vigore e regola la vita di alcuni culti nel nostro ordinamento.

Bisogna innanzitutto sottolineare che si parla di “culti ammessi” e non di “culti tollerati” come
nello Statuto Albertino; quindi, la nuova dizione riprende un po’ quella che era stata inserita nel
codice penale Zanardelli (1889) in cui appunto si parlava di tutela penale dei culti ammessi.

Quali sono i culti ammessi? I culti ammessi sono quelli che non professano principi e non
seguono riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume. Questa disposizione è molto
importante perchè ci chiarisce che esisteva un controllo sui contenuti dei principi confessionali.
Quindi, secondo la legge sui culti ammessi, erano ammessi nell’ordinamento solo i culti che non
professavano principi eterodossi, cioè che non professavano principi contrastanti con l’ordine
pubblico e il buon costume. Perciò, esisteva davvero una disanima sui principi tipica di uno
Stato confessionale, che ritiene di avere un diretta competenza anche in materia religiosa perchè
ritiene di poter decidere quali sono principi leciti/graditi/accettati e quali no. Questo controllo,
per certi versi preventivo (perchè è ua condizione dell’ammissione nell’ordinamento), sui
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principi confessionali davvero chiarisce e rivela l’impronta dello Stato confessionista che non
vuole lasciare a un ordine distinto dal suo (= l’ordine proprio delle cose spirituali) la valutazione
della congruità o meno dei principi. Quindi, questo è uno Stato che davvero ritiene di valutare le
confessioni nella sostanza più profonda dei principi confessionali.

Accanto a questa legge, vi è il codice penale del 1930 (Codice Rocco) che è ancora in vigore.

In materia di religione e di tutela penale del sentimento religioso, gli articoli del Codice Rocco
erano davvero emblematici e rappresentativi dell’atteggiamento dello Stato nei confronti del
fenomeno religioso. Questi articoli attualmente non sono più in vigore perchè la Corte
costituzionale era ampiamente intervenuta già a partire dal 1995 fino al 2005, e poi nel 2006 è
intervenuto il legislatore che ha riformato completamente le disposizioni che, quindi, ora non sono
più in vigore.

Però, innazitutto sono rimaste in vigore per molto tempo perchè la prima sentenza ablativa è del
1995. Inoltre, rivelano in maniera molto chiara l’atteggiamento del legislatore.

Questi articoli (soprattutto 402, 403, 404, 405 e 406) introducono 2 beni giuridici nuovi: la
religione dello Stato e i culti ammessi. Il Trattato Lateranense dice che cos’è la religione dello
Stato e la legislazione sui culti ammessi ci dice quali sono i culti ammessi e quali condizioni devono
rispettare per poter essere ammessi nello Stato. Quindi, fondamentalmente il legislatore nel 1930
crea dei beni giuridici nuovi che, però, sono appena stati creati nell’ordinamento da delle
legislazioni ad hoc; perciò, potremmo dire che recepisce le risultanze del lavoro fatto nel 1929 sia
nella legge sui culti ammessi sia nei Patti Lateranensi. Questi beni giuridici sono tutelati entrambi
MA in maniera sostanzialmente diversa. In primo luogo diversa perchè esiste un tipo di vilipendio
(= vilipendio generico), previsto all’art. 402 c.p., che è la figura più ampia e comprensiva di
vilipendio e che tutela SOLO la religione dello Stato.

Art. 402 c.p. (Vilipendio della religione dello Stato)

Chiunque pubblicamente vilipende la religione dello Stato è punito con la reclusione fino a un
anno.
➔ Questa forma di vilipendio che è la più incisiva, la più generica e la più ampia riguarda solo
la religione dello Stato.

Le altre forme di vilipendio, che invece sono forme specifiche di vilipendio (art. 403-404-405 c.p.),
tutelano non solo la religione dello Stato ma anche i culti ammessi. MA, come rivela la lettura
dell’art. 406 c.p., la pena se il vilipendio riguarda i culti ammessi è diminuita.

Art. 406 c.p. (Delitti contro i culti ammessi nello Stato)

Chiunque commette uno dei fatti preveduti dagli articoli 403, 404, 405 verso un culto ammesso
nello Stato è puniti ai termini dei predetti articoli, ma la pena è diminuita.

Quindi, possiamo dire che il codice Rocco in materia di sentimento religioso e di religione
rispecchia pienamente l’atteggiamento che il legislatore aveva già rivelato nelle altre normative di
poco precedenti: nel senso che esiste una religione dello Stato che presenta un legame di
appartenenza con lo Stato molto forte e che, quindi, è tutelata e garantita nei confronti di tutti i
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vilipendi (sia quelli specifici sia quelli generici). Esistono, poi, dei culti ammessi nello Stato (che
non professano principi eterodossi) che erano del pari tutelati in quanto ammessi e, quindi,
tendenzialmente graditi MA erano tutelati in misura inferiore sia dal punto di vista delle pene che
erano diminuite per questi vilipendi sia anche dal punto di vista delle fattispecie perchè questi culti
erano tutelati solo nei confronti di vilipendi specifici nei confronti di cose e persone. Quindi, queste
norme rappresentano una fotografia molto chiara ed emblematica: anche se questi reati forse non
avevano un’importanza così centrale all’interno del codice Rocco perchè sicuramente esistevano
figure di reato che avevano un rilievo superiore; però, dal punto di vista di rivelare l’atteggiamento
del legislatore, erano estremamente emblematiche perchè davvero facevano vedere un legislatore
che aveva in mente 2 beni giuridici e che un bene giuridico era meritevole di maggiore tutela
rispetto all’altro. Quindi, il codice Rocco racchiude in poche norme un po’ la filosofia ricavabile
dalle altri disposizioni/normative.

Questa situazione si protrarrà fino all’entrata in vigore della Carta costituzionale in cui i Padri
costituenti, nel mettere mano ai nuovi principi e alle nuove norme costituzionali, si troveranno ad
avere a che fare con questo background. Tutto questo corpus normativo è passato indenne
all’entrata in vigore della Carta costituzionale, cioè queste disposizioni sono rimaste in vigore anche
dopo l’entrata in vigore della Costituzione. Quindi, è stato molto difficile nei primi decenni trovare
un adeguamento tra il “vecchio” (che aveva una chiara impronta e paternità fascista e
confessionista) e il “nuovo” (che voleva prendere le distanza da questa paternità). Quindi,
l’armonizzazione del “vecchio” con il “nuovo” è stata un’operazione molto difficile e portata avanti
(soprattutto dal 1956) dal lavoro indefesso della Corte costituzionale.

[Riassunto: Stato fascista confessionista e concordatario A questo confessionismo dichiarato


nell’art. 1 del Trattato lateranense, in realtà, ha fatto seguito tutta una serie d’interventi sostanziali
unilaterali dello Stato per dare corpo/sostanza a questo confessionismo di Stato]

Nel 1946/47 vi è l’inizio dei lavori dell’Assemblea Costituente e, in particolar modo, della
Commissione per la predisposizione della Costituzione che ha lavorato per redigere quella che poi è
diventata la nostra Carta costituzionale, che è entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Quindi, sono gli
anni dell’immediato dopoguerra e il periodo immediatamente successivo al Referendum nazionale
tra monarchia e repubblica, che ha visto vincere la repubblica e quindi l’inizio da parte di questa
commissione incaricata di scrivere e redigere il testo costituzionale.

15/10/2021

I lavori preparatori alla Carta costituzionale e l’avvento dello Stato democratico

Dalla lettura dei lavori preparatori emerge uno spirito molto unitario, nonostante le importanti
differenze di ordine ideologico e politico che connotavano i partecipanti alla commissione che
arrivavano da tutte le parti politiche e ideologiche esistenti nell’ordinamento e, quindi, è evidente
che gli scontri erano all’ordine del giorno; però, al di là dello scontro sulla singola questione (che a
volte può essere anche abbastanza acceso) c’è sicuramente uno spirito che aleggia all’interno dei
lavori praparatori e che ha trovato corpo anche all’interno del testo della Carta costituzionale che è
uno spirito molto unitario. Nel senso che i Padri costituenti avevano abbastanza chiaro da dove
19

partivano e dove volevano arrivare, e questo era un pensiero condiviso. Ad es. c’era un
fondamentale accordo sul voler superare in maniera drastica lo stato totalitario e, quindi, di voler
tagliare con il passato e superare tutto ciò che rappresentava lo Stato fascista, il fascismo e il
totalitarismo. C’era davvero una grande unione e un grande spirito di corpo in questo senso che
traspare molto bene soprattutto dai lavori della prima commissione che doveva scrivere i principi
fondamentali dell’ordinamento (= norme e principi essenziali e fondanti il nuovo ordinamento).
Quindi, questo spirito condiviso di voler arrivare al nuovo e di costruire un ordinamento fondato su
principi nuovi ha permesso di scrivere la Costituzione in un anno e mezzo.

Tutto ciò, se è vero anche in altri settori del’ordinamento, è certamente vero nel settore della libertà
religiosa e del trattamento dei gruppi religiosi (quindi, dell’atteggiamento dello Stato nei confronti
del fenomeno religiose) che era un settore nevralgico all’interno della Carta costituzionale in cui
davvero esistevano delle istanze di novità e di superamento del passato. È vero, però, che queste
istanze di novità che certamente erano presenti e si ritrovano continuamente affermate nei verbali
dei lavori preparatori erano per certi versi non così uniformemente sostenute e, quindi, proprio nella
materia dell’atteggiamento dello Stato nei confronti del fenomeno religioso all’interno
dell’Assemblea Costituente possiamo trovare 2 diverse anime (che alla fine hanno trovato un
compromesso): [emblema di Don Camillo e Peppone]

1. Dossetti = presbitero appartenente al partito della Democrazia Cristiana [Don Camillo]

2. Palmiro Togliatti = esponente del Partito Comunista [Peppone]

Quindi, le 2 anime presenti all’interno della Commissione e che in diverso modo hanno contribuito
in maniera importante a delineare l’atteggiamento della neonata Repubblica nei confronti del
fenomeno religioso sono proprio queste 2 figure (sostenute a vario titolo anche da molti altri
componenti).

Qual era la problematica principale che riguardava l’atteggiamento del nuovo Stato nei confronti
del fenomeno religioso? Più che questioni altisonanti di principio che pure sono declamate
all’interno dei verbali dei lavori preparatori, la questione principale concreta nasceva dal posto da
assegnare ai Patti Lateranensi (quindi, a uno strumento che esisteva, era stato sottoscritto ed era in
vigore già da parecchio tempo) all’interno della nuova Carta costituzionale. Cioè, se questi Patti
Lateranensi dovevano avere un posto, se non dovevano avere nessun posto o, nell’eventualità di una
risposta positiva, quale posto assegnargli. La questione era tutt’altro che banale perchè
rappresentava la punta dell’iceberg (/aveva dietro di sè) di tutta una serie di altre questioni molti
difficili e sensibili perchè i Patti Lateranensi avevano un’evidente indubbia paternità fascista (=
erano i patti che il papa aveva sottoscritto con Benito Mussolini, che addirittura era stato salutato
dal papa come uomo della provvidenza perchè aveva risolto la questione romana). In tutto ciò, i
Patti Lateranensi erano uno strumento che derivava la sua legittimazione dal periodo fascista che
tutti volevano superare o ritenere superato.

D’altra parte, però, è anche vero che i Patti Lateranensi avevano davvero assicurato la pace religiosa
all’interno del Paese; quindi, non avevano solo risolto la questione del potere temporale del papa
ma avevano proprio assicurato la pace religiosa e aveva riconosciuto alla Chiesa cattolica un ruolo
dominate e privilegiario all’interno del Paese conforme alle tradizioni dello Stato e al fatto che la
maggior parte dei cittadini italiani fosse cattolica. Quindi, è evidente che soprattutto i cattolici ci
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tenevano molto che questo accordo fosse garantito e non fosse in nessun modo denunciato o non
rischiasse di essere posto nel nulla o superato nel nuovo ordinamento repubblicano.

Queste 2 anime (paternità fascista e pace religiosa) vengono fuori a più riprese all’interno delle
discussioni dei Padri costituenti. A conferma della paternità fascista e, quindi, più da parte della
sinistra e del partito comunista c’era il ricorrente ricordare che i Patti Lateranensi, oltre ad avere una
paternità fascista, racchiudevano tutta una serie di disposizioni normative che si ponevano in
contrasto con i principi della Carta costituzionale che si stavano scrivendo. Per cui venivano
elencate queste normative che si ponevano in contrasto con i nuovi principi costituzionali e, quindi,
si diceva: se noi avvaloriamo e addirittura richiamiamo all’interno della Carta costituzionale i Patti
Lateranensi rischiamo di far nascere una Costituzione che già rappresenta un vaco nel suo interno
(cioè, creiamo una Costituzione che di fatto richiama uno strumento ontrastante con se stessa).
Quindi, è un attegiamente contraddittorio perchè, in effetti, quando si parla di posto da assegnare
all’interno della nuova carta, sicuramente si parla di un problema molto più ampio e generale che è
proprio il posto da assegnare allo strumento nel nuovo ordinamento ma in realtà c’è anche un
problema molto più concreto perchè si stavano scrivendo le norme e, quindi, il problema era
fondamentalmente: i Patti Lateranensi dovevano essere espressamente citati e richiamati
all’interno della Carta costituzionale oppure no? Al di là di tutti i discorsi sui principi, i Padri
costituenti si sono molto concentrati su questa domanda: dobbiamo scrivere che i rapporti tra lo
Stato e la Chiesa sono regolati da quello strumento specifico che ha una sua storicità (che sono i
Patti Lateranensi) oppure possiamo utilizzare formule meno precise, più vaghe e generiche e non
citare espressamente lo strumento stipulato tra Mussolini e il papa nel 1929? Quindi, alla fine la
discussione si è molto concentrata su questo: citiamo o non citiamo? E se citiamo, succede forse che
recepiamo tutte le norme pattizie all’interno della nostra Carta costituzionale? Questo è impossibile
perchè alcune di queste norme contrastano con la Carta costituzione. Come ci comportiamo? Che
posto assegnamo all’interno della Costituzione al vecchio strumento pattizio stipulato nel 1929?
Queste erano le discussioni che hanno occupato la prima sottocommissione della Commissione alla
Costituzione.

Interventi:
➔ Palmiro Togliatti: PCI – seduta 18/12/1946, prima sottocommissione della Commissione che
doveva procedere alla redazione della Costituzione.

Togliatti è contrario al richiamo dei Patti Lateranensi all’interno della Carta costituzionale e porta
avanti tutta una serie di considerazioni.

Invece, contro l’inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione, vi è l’argomento dei possibili
ritocchi che verrebbero ad essere esclusi, e potrebbero essere fatti soltanto attraverso un
procedimento di revisione costituzionale, almeno come ratifica. Il primo argomento che Togliatti
porta avanti è un argomento di natura formale, nel senso che porta avanti una problematica legata
alla fonte che dovrebbe essere utilizzata per modificare le norme pattizie all’interno della Carta
costituzionale. Quindi, se noi richimiamo i Patti Lateranensi all’interno della Carta costituzionale,
queste norme vengono “costituzionalizzate” (cioè, diventano Costituzione) e, quindi, se noi
volessimo intervenire per modificare queste norme incostituzionali (perchè vi era quest’idea diffusa
che ci fossero alcune norme all’interno dei patti che non fossero conformi alla alla nuova
21

Costituzione), dovremmo necessariamente fare ricorso a un procedimento di revisione


costituzionale. Quindi, quest’argomento è procedurale: non possiamo più modificare queste norme
senza fare ricorso a un procedimento aggravato di revisione costituzionale (con una legge formale
di natura non costituzionale non potremmo fare questa operazione di modifica).

E ad esso si aggiungono altri due argomenti: uno di valore psicologico-politico e l’altro di natura
dottrinaria.

L’argomento psicologico è che i trattati hanno la firma del fascismo; vale a dire che sono stati
conclusi dal Governo fascista. Vorranno i democristiani ignorare questo fatto, chiedendo d’inserire
nella Costituzione dei Patti che vennero considerati come una delle più grandi opere del regime
fascista?

Togliatti utilizza abilmente l’argomento del fascismo: vogliamo superare il regime fascista, stiamo
costruendo qualcosa di nuovo e, invece, il richiamo all’interno della Carta costituzionale dei Patti
Lateranensi ci riporta indietro agli anni del fascismo perchè questa è una delle più grandi opere del
regime fascista.

L’argomento dottrinario consiste nel fatto che i comunisti intendono respingere l’affermazione che
lo Stato possa avere una religione. Lo Stato non può avere una religione; lo Stato garantisce la
religione, ma non ha una religione sue; la religione l’hanno gli individui. Ora nella vecchia
Costituzione italiana, cioè nello Statuto Albertino, c’era un articolo che affermava che lo Stato
aveva una religione e che questa era la religione cattolica apostolica romana. Questo articolo, che
i comunisti respingono per una questione di principio, viene riportato dal Trattato Lateranense e,
attraverso questo, verrebbe ad essere inserito nella Costituzione.

Esistono all’interno dei Patti Lateranensi delle norme contrastanti con la nostra Carta costituzionale
e, quindi, il richiamo ai Patti costituirebbe un richiamo a queste norme e, quindi, introdurrebbe
surrettiziamente all’interno del testo costituzionale norme contrastanti. È ovvio che l’esempio
dell’art. 1 del Trattato Lateranense (= dichiarazione di confessionismo di Stato) è quello più fulgido
e, quindi, viene sempre citato dai Padri costituenti quando si parla di norme contrastanti con la
nuova Carta costituzionale perchè sul punto c’era un grosso spirito di corpo, cioè che non si voleva
reintrodurre uno Stato confessionista. La Repubblica italiana NON sarebbe stata confessionista. In
questo senso, è chiaro che l’art. 1 del Trattato Lateranense veniva sempre citato ad esempio come
norma che contraddiceva apertamente la nuova Costituzione.
➔ Giuseppe Dossetti: DC – seduta deò 21/03/1947, prima commissione [per certi versi
risponde agli argomenti di Palmiro Togliatti]

Quando qualcuno di voi, onorevoli colleghi, ci domanda perchè noi esigiamo che nel nostro testo
costituzionale sia posta espressamente la norma che gli Accordi Lateranensi non possano essere
modificati che per atto bilaterale, noi possiamo rispondere: perchè abbiamo sentito qui dentro
troppe affermazioni intese a sostenere la incompatibilità di singole disposizioni del Trattato e del
Concordato con i principi della nostra nuova Costituzione e del nuovo Stato democratico, e tali
affermazioni implicherebbero una conseguenza inevitabile, cioè che nell’atto in cui noi ci
apprestiamo a porre nuove norme costituzionali, che si suppongono contrastanti col Trattato e col
Concordato, in questo stesso atto noi non soltanto denunzieremmo implicitamente il Trattato e il
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Concordato, ma addirittura violeremmo il principio che, tutti d’accordo, vogliamo assumere a base
del nostro sistema di rapporti fra Stato e Chiesa, ossia il principio concordatario.

Dossetti tralascia completamente la questione della costituzionalizzazione delle singole norme, che
era un di quelle che aveva preoccupato Togliatti (il timore di Togliatti prima di tutto era che se si
richiamano, queste norme finiscono nella Costituzione). Dossetti dice che, non richiamando i Patti
Lateranensi, il rischio è che violiamo il principio concordatario (che è quello che, invece, vogliamo
sostenere), cioè consentiamo implicitamente una modifica di questi patti unilaterale per opera di
una semplice maggioranza. Fondamentalmente Dossetti mette insieme tutti gli argomenti che aveva
sostenuto Togliatti, cioè sia quello procedurale (del necessario ricorso alla revisione costituzionale)
sia quello psicologico sia quello dottrinario, e gira in maniera completamente diversa il discorso:
visto che tutti i Padri costituenti dicono che i patti sono incostituzionali, se non li richiamano
espressamente questi patti possono essere modificati da qualsiasi legge unilaterale senza l’accordo
della Chiesa cattolica e in questo modo li stanno denunciando; in questo modo, si viola il principio
concordatario, cioè che i rapporti tra Stato e Chiesa devono essere regolati da accordi. Il suo
ragionamento è a contrario: se non lo richiamiamo, il rischio è la denuncia e, quindi, è ovvio che per
evitarla bisogna richiamarlo perchè denunciare i patti (e, quindi, consentire modifiche unilaterali)
vorrebbe dire inevitabilmente rinunciare anche alla pace religiosa che con tanti dissidi e fatica si è
raggiunta. Se si consente una denuncia di questi patti, non ci sarà più pace religiosa in Italia perchè i
cattolici rimarranno fortemente turbati. Fondamentalmente Dossetti dice che il richiamo ai patti è
essenziale non perchè le norme sia costituzionalizzate, ma per evitare una denuncia unilaterale delle
norme. La citazione dei Patti Lateranensi serve per fornire all’atto una garanzia costituzionale, non
per costituzionalizzare le singole norme. infatti, Dossetti dice: noi esigiamo che nel nostro testo
costituzionale sia posta espressamente la norma che gli Accordi Lateranensi non possano essere
modificati che per atto bilaterale; quindi, non pretendiamo una costituzionalizzazione delle norme.

Perchè questo non sia, non c’è che un mezzo: riconoscere esplicitamente che tra gli Accordi
Lateranensi e le disposizioni della Costituzione non vi è contrasto, e stabilire formalmente che il
passaggio dall’attuale sistema concordatario al sistema in cui lo Stato unilateralmente disciplina i
rapporti con la Chiesa non può avvenire oggi surrettiziamente e per trasparenza (per usare proprio
una frase dell’onorevole Calamandrei) e non potrà avvenire domani in forza di una leggina
deliberata quasi di sorpresa e con una maggioranza fittizia ed effimera, ma solo in forza di un atto
solenne, che sia espressione sicura della maggioranza del popolo italiano, cioè in forza di un
procedimento di revisione costituzionale.

Dossetti ribadisce la sua paura che il sistema concordatario venga messo in discussione e che si
possa passare a un sistema in cui i rapporti tra Stato e Chiesa sono disciplinati unilateralmente dallo
Stato, che sarebbe un sistema separatista. Quindi, il problema di Dossetti è che si possa diventare
uno Stato separatista, solo a seguito di una legge unilaterale in forza di una maggioranza non
qualificata. Se proprio dobbiamo arrivare a realizzare una cosa del genere, dovrebbe essere
necessario un procedimento di revisione costituzionale. Il ragionamento di Dossetti è molto tecnico
e procedurale (= sulla procedura per modificare questi Patti), non di addentra molto sui contenuti
perchè non gli interessa confermare o dimostrare che le norme pattizie verranno costituzionalizzate,
anzi è nel suo interesse il contrario (è evidente che sostenere che il richiamo ai Patti Lateranensi
avrebbe implicato una costituzionalizzazione delle singole norme sarebbe stato visto da tutti i Padri
23

costituenti come un pericolo gravissimo perchè era molto ricorrente quest’idea che molte norme dei
Patti fosse in contrasto con la Costituzione che si stava scrivendo, come dice lo stesso Dossetti).
Dossetti parla solo ed esclusivamente del procedimento per modificare questi Patti: Dossetti
desidera che questo procedimento o avvenga in maniera bilaterale (quindi, con l’accordo della
Chiesa cattolica) oppure sia espressione sicura della maggioranza del popolo italiano (cioè, in forza
di un procedimento di revisione costituzionale); MA NON che una semplice maggioranza non
qualificata possa modificare i Patti e introdurre “uno Stato separatista”.

Quindi, fondamentalmente le posizioni erano queste: Dossetti aveva paura di una denuncia dei Patti
e, quindi, un superamento del sistema concordatario; mentre, Togliatti aveva paura di realizzare uno
Stato confessionista e, quindi, di avvalorare un atto bilaterale che aveva una paternità fascista (da
ritenere assolutamente superata).

[leggere i verbali su e-learning]

Alla fine di questa diatriba c’è una svolta di Palmiro Togliatti e passò in Assemblea Costituente la
tesi sostenuta da Dossetti dell’attuale art. 7 Cost. (che allora era l’art. 5 Cost.) anche con una parte
dei voti di Togliatti. Sulla genesi dell’art. 7 Cost. molto è stato scritto, molti hanno ritenuto che i
comunisti avessero tradito l’idea del PCI e che, quindi, fosse stato un voto assolutamente contrario
ai principi del PCI; perciò, l’atteggiamento “compromissorio” di Togliatti davanti alle ragioni
espresse da Dossetti (e dai cattolici in generale) è stato sicuramente oggetto di tante critiche da parte
di molte forze politiche, prima di tutto da parte dei comunisti. Però, alla fine, Togliatti decise di
votare a favore della formulazione dell’articolo proposta da Dossetti, mentre così non fu per il
Partito Socialista che votò contro l’attuale formulazione dell’art. 7 Cost. e, quindi, continuò a
sostenere la non opportunità di citare in questo articolo i Patti Lateranensi.
➔ Palmiro Togliatti – intervento all’Assemblea Costituente del 25/03/1947

Per questo non è soltanto alla nostra coscienza e convinzione personale, individuale che noi ci
richiamiamo, come si richiamano altri colleghi, nel decidere il nostro voto. Essenzialmente
facciamo appello a questa nostra responsabilità politica, e al modo come noi realizziamo la linea
politica che ci siamo tracciata nella attuale situazione del nostro Paese. La classe operaia non
vuole una scrissione per motivi religiosi, così come non vuole la scissione tra noi e i socialisti. Noi
siamo dunque lieti, anche se voteremo differentemente dal Partito socialista, che questo fatto non
apra un contrasto fra di noi. In pari tempo però sentiamo che è nostro dovere fare il necessario
perchè una scissione e un contrasto non si aprano tra la massa comunista e socialista da una parte
e i lavoratori cattolici all’altra.

Fondamentalmente Palmiro Togliatti, nel momento in cui decide di avallare il testo e quindi la
posizione della DC, si appella per certi versi alla pace religiosa: per nostra responsabilità politica
non vogliamo mettere a rischio la raggiunta pace religiosa e, quindi, anche aprire un contrasto tra la
massa comunista e i lavoratori cattolici; perciò, voteremo differentemente dai socialisti, ma
facciamo una scelta che per noi è una scelta di responsabilità.

L’art. 5 Cost., che poi divenne l’attuale art. 7 Cost., fu approvato con il voto favorevole di 350
costituenti contro 149. A favore votarono 201 democristiani, 95 comunisti e 54 di altre provenienze;
contro i voti dei socialisti.
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Art. 7 Cost.

Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.

I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due
parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.
➔ Questa è la formula attuale ed è fondamentalmente la formula proposta da Dossetti: i Patti
Lateranensi vengono richiamati all’interno della Carta costituzionale; quindi, vengono
avvalorati e garantiti di una copertura costituzionale. Non c’è un mero riferimento al
principio concordatario (come da alcuni nell’Assemblea Costituente era stato proposto);
l’esito (grazie all’insistenza della DC) è stato un inserimento testuale dei Patti Lateranensi
all’interno dell’articolo, però (come aveva anticipato Dossetti) il riferimento è proprio alla
procedura. Quindi, l’art. 7 co 2 Cost. diventa una norma procedurale, cioè
fondamentalmente dice come questi Patti (che vengono avvalorati) devono essere modificati
perchè era evidenti a tutti che questi Patti dovessero essere modificati. Se questi Patti
devono essere modificati, la modifica deve essere accettata da entrambe le parti; quindi, non
può essere una modifica unilaterale. Nell’eventualità in cui non ci fosse un accordo (quindi,
non si riuscisse a dar corpo al principio concordatario), bisogna ricorrere al procedimento di
revisione costituzionale.

La stesura finale dell’art. 7 co 2 Cost. è frutto di un compromesso tra la parte democratica e la parte
comunista che, alla fine, hanno trovato una specie di accordo su questa formulazione benchè
all’inizio partissero da posizioni abbastanza diverse. E, quindi, alla fine ci si è incontrati su questo
desiderio di salvaguardare i Patti Lateranensi proprio per salvaguardare non tanto quello specifico
strumento pattizio ma, più in generale, la pace religiosa e i rapporti con la Chiesa cattolica. Quindi,
fondamentalmente per rassicurare la Chiesa cattolica che non era intenzione dei Padri costituenti e,
quindi, del neonato Stato democratico denunciare i Patti, benchè da molte parti si denunciasse
invece la conformità di alcune disposizioni ai nuovi principi costituzionali.

La nostra Carta costituzionale non prevede solo l’art. 7 Cost. in relazione al fenomeno religioso: art.
2, 3, 8 (che riguarda i rapporti con la confessioni diverse da quella cattolica), 19 (diritto di libertà
religiosa), 20 (divieto di discriminazione degli enti religiosi).

19/10/2021

L’art. 7 comma primo della Costituzione e il principio di distinzione degli ordini

Art. 7 comma 1 Cost.

Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.

Questo articolo, con una genesi molto peculiare, regola fondamentalmente i rapporti tra lo Stato e la
Chiesa cattolica; mentre, l’art. 8 Cost. disciplina la condizione in Italia di tutte le altre confessioni
compresa anche, almeno in relazione al primo comma, la Chiesa cattolica. I Padri costituenti hanno
deciso di dedicare uno dei primi articoli solo alla Chiesa cattolica; mentre, le confessioni religiose,
compresa la Chiesa cattolica nel primo comma o diverse dalla cattolica negli altri commi, hanno un
solo articolo (8 Cost.). Quindi, diciamo che la religione cattolica trova nell’ambito della Carta

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costituzionale un articolo solo a questa dedicato. Le motivazioni possono essere tante: è la


confessione della maggioranza dei cittadini, è la religione che era stata religione dello Stato e che
ancora godeva di una certa posizione di preminenza all’interno dell’ordinamento e soprattutto si
stava parlando di una confessione che aveva regolato i suoi rapporti con lo Stato con uno strumento
pattizio. Quindi, anche e soprattutto per garantire una posizione a questo strumento, i Padri
costituenti hanno ritenuto di dover dedicare un articolo specifico ai rapporti con la Chiesa cattolica.

La dichiarazione del primo comma, andando a guardare i lavori preparatori alla Carta
costituzionale, non ha certamente ricevuto la stessa attenzione che, invece, ha ricevuto il secondo
comma dell’art. 7 Cost. Il primo comma è passato abbastanza velocemente salvo alcune critiche che
sono riferibili soprattutto a Pietro Calamandrei (seduta 20 marzo 1947). Queste critiche, più che
essere contenutistiche, erano relative all’opportunità d’inserire una tale dichiarazione in una Carta
costituzionale. Fondamentalmente Pietro Calamandrei riteneva che non fosse questa la sede per una
tale dichiarazione; che il riconoscimento reciproco di sovranità tra 2 enti/istituzioni doveva trovare
albergo in un trattato internazionale tra le 2 istituzioni, ma non in una Carta costituzionale che è un
atto del popolo/Repubblica ed è solo il popolo/Repubblica italiano/a che parla e non la Chiesa
cattolica. Quindi, secondo Calamandrei una dichiarazione di questo tipo non aveva nessun senso.

Quindi, questa dichiarazione sarebbe pleonastica, inutile e per certi versi svuotata di significato. Su
questo aspetto, Calamandrei risponde a una provocazione che ricercherebbe la necessità di questo
principio sul fatto che questi 2 ordinamenti vivessero su “piani diversi”, il che renderebbe
necessaria la dichiarazione d’indipendenza e sovranità.

Se veramente questi due ordinamenti vivessero su piani diversi, non mi pare che da ciò deriverebbe
la conseguenza voluta da Togliatti. In che potrebbe consistere la diversità di piano di questi due
ordinamenti? Si potrebbe pensare che lo Stato regoli l’ordine temporale, la Chiesa regoli l’ordine
spirituale; ma se così fosse, se veramente questi due ordinamenti fossero interamente su piani
distinti, in diverse dimensioni per così dire, questi due ordinamenti non s’incontrerebbero mai; non
ci sarebbe mai fra essi ragione di conflitto e di collisione; e non vi sarebbe bisogno dunque di
reciproco riconoscimento.

In questo verbale, Calamandrei tratta una questione molto importante: ma davvero questi
ordinamenti sono così distinti? Perchè se così fosse non ci sarebbe nessun problema di dichiararsi
indipendenti e sovrani reciprocamente perchè intanto non s’incontrerebbero mai (quindi, ciascuno
troverebbe spazio nel proprio ordine senza mai interferire con l’ordine dell’altro).

Parliamoci chiari; questa norma del primo comma è assolutamente superflua; è messa lì per far
credere di aver risolto un problema che in realtà rimane insoluto, con una frase che sembra piena
di significati arcani, ma che in realtà non significa nulla.

Calamandrei in queste affermazioni fa capire che questo principio di distinzione degli ordini (questa
indipendenza e sovranità dello Stato e della Chiesa che viene riconosciuta reciprocamente) è in
realtà un principio che non porta da nessuna parte.

Vediamo se davvero non sia possibile ricavare dei significati importanti da questa dichiarazione di
reciproca indipendenza e sovranità della Chiesa da parte dello Stato, perchè non è proprio così vero
che quest’affermazione non si possano ricavare delle conseguenze importanti, anche se certamente
26

Calamandrei ha ragione quando pone dei dubbi sulla possibilità di separare in maniera netta e certa
la sfera dell’ordine temporale dalla sfera dell’ordine spirituale.
➔ Indipendenza

Quali sono i significati di quest’indipendenza?

Innanzitutto, vi è un significato che potremmo definire di ordine istituzionale, cioè la Chiesa


cattolica è indipendente in quando ordinamento originario, ovvero ordinamento che NON nasce
per opera dello Stato, non è legittimato dallo Stato, MA è un ordinamento ordinamento autocefalo.
Questa è la prima conseguenza che si può trarre dalla dichiarazione d’indipendenza della Chiesa da
parte dello Stato.

Poi, questa dichiarazione d’indipendenza, originarietà e non subordinazione (che in questo articolo
è prevista solo per la Chiesa cattolica) riguarderà in realtà (anche se non è espresso così a chiare
lettere perchè non troviamo nell’articolo 8 Cost. una dichiarazione di tal genere) anche le altre
confessioni religiose, che anc’esse sono ritenute degli ordinamenti originari.

Nell’ordinamento democratico e repubblicano italiano le confessioni religiose sono ordinamento


originari. E, per certi versi, questa presa d’atto rispecchia un po’ l’istanza di originarietà della
Chiesa Cattolica che ha sempre rivendicato un’alterità e una non dipendenza dallo Stato. Questa sua
istanza e aspettativa si vede in luce in molte situazioni del passato come la reazione del Pontefice
all’annessione dello Stato pontificio all’Italia, soprattutto rivelata dall’enciclica “Ubi nos” in cui il
papa lamenta proprio di aver perso, per certi versi, la sua alterità e originarietà e di essere stato
soffocato da un potere ostile (che poi era il neonato Stato italiano). Quindi, in quell’enciclica era
evidente la pretesa da parte della Chiesa cattolica di un riconoscimento della propria indipendenza,
originarietà e alterità nei confronti dello Stato; indipendenza dalla quale non poteva che conseguire
che i rapporti tra le due istituzioni fossero apicali (quindi, dei rapporti gestiti e regolati su un piano
di parità).

Questo atteggiamento dell’ordinamento italiano nei confronti dei gruppi religiosi e delle confessioni
religiose deriva certamente dall’istanza di quella religione che in quel periodo storico era
certamento la religione della maggioranza dei cittadini e anche la ex religione di Stato. Quindi, è
come se la Chiesa cattolica avesse “proposto” (in maniera particolarmente incisiva) ai Padri
costituenti un modello di relazioni Stato-chiese che presupponeva il riconoscimento di
un’originarietà e un’alterità. Questo è il motivo per cui nella nostra Carta costituzionale le
confessioni religiose non sono mai viste come ordinamenti subordinati allo Stato (come ad es. le
associazioni). Questo ci dà la misura di come lo Stato (e in questo caso i Padri costituenti) abbia
mutuato dalla religione cattolica l’atteggiamento/il modo di porsi nei confronti del fenomeno
religioso.

L’indipendenza della Chiesa cattolica prevista dall’art. 7 co. 1 Cost. può essere intesa in un senso
che potremmo definire istituzionale e in un senso che ne fa un ordinamento originario che vive in
una sfera che non è dipendente dallo Stato.

L’art. 7 co 1 Cost. non tratta solo dell’indipendenza, cioè lo Stato italiano non riconosce alla Chiesa
Cattolica soltanto l’indipendenza MA anche una sovranità.

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➔ Sovranità

Il termine “sovranità”, che ha un suo significato specifico nel diritto internazionale (la Chiesa
cattolica è un soggetto di diritto internazione), richiede qualche precisazione in più per essere
utilizzato nei confronti della Chiesa cattolica perchè non possiamo nascondere che nel caso della
Chiesa cattolica deve essere inteso in maniera particolare/peculiare; quindi, è una sovranità sui
generis.

L’indipendenza è più semplice da interpretare perché si collega soprattutto al carattere di


originarietà dell’ordinamento, mentre la sovranità ha un significato più tecnico. Nel diritto
internazionale il concetto di sovranità è collegato ad altre proprietà che sono: territorio, popolo e
governo. Quindi, applicare queste categorie alla Chiesa cattolica richiede uno sforzo perchè non ha
un territorio. Non dobbiamo confondere la Chiesa cattolica con lo Stato città del Vaticano (che è
stato creato nell’ambito del Trattato Lateranense). Lo Stato città del Vaticano, che è uno Stato
enclave (di dimensioni minuscole creato all’interno del Trattato Lateranensi), ha certamente un
territorio ed è uno Stato territoriale, benchè piccolo, con a capo la Santa sede e il papa. MA la
Chiesa cattolica è una cosa ben diversa dallo Stato città del Vaticano: è una confessione religiosa
che non ha un suo territorio.

La Chiesa cattolica NON è uno Stato territoriale. Questo è un aspetto molto peculiare che rende la
sovranità riconosciuta alla Chiesa cattolica (ex art. 7 co 1 Cost.) una sovranità non confondibile con
quella degli Stati territoriali.

La Chiesa cattolica ha un popolo che coincide che con tutti i cattolici di tutto il mondo (= tutti i
battezzati). La Chiesa cattolica ha una vocazione mondiale e, quindi, racchiude al suo interno i
cattolici di tutto il mondo. MA è evidente che questo popolo è altresì radicato in Stati sovrani che
sono Stati territoriali. Quindi, il popolo della Chiesa cattolica è nello stesso tempo il popolo di
moltissimi altri Stati territoriali. Fondamentalmente su ogni singolo cattolico esistono due diverse
sovranità: quella del Paese di appartenenza e quella della Chiesa cattolica. Quindi, anche il popolo
(che pure c’è) va inteso in maniera molto particolare perchè è un popolo su cui incide una doppia
sovranità.

La Chiesa cattolica ha certamente un governo, anzi ha un governo capillare, organizzato


gerarchicamente con a capo solo il pontefice e con autorità in tutto il mondo (il papa rappresenta la
Chiesa cattolica mondiale).

Come giustificare questa sovranità sui generis?

È una sovranità particolare, specifica e peculiare, ma bisogna cercare di dargli un contenuto.

Se si legge con attenzione l’art. 7 co. 1 Cost., si nota che esso non parla solo di sovranità, ma di
sovranità “[...] ciascuno nel proprio ordine”. C’è uno specifico inciso/riferimento che chiarisce il
senso e la portata dell’utilizzo del termine “sovranità”. C’è una specie di suddivisione, per certi
versi, tra la sovranità dello Stato e la sovranità della Chiesa perchè c’è un ordine specifico di
competenza.

La Chiesa cattolica è sovrana nell’ordine spirituale, mentre lo Stato è sovrano nell’ordine


temporale.
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In questo senso si può parlare di sovranità e, per certi versi, con questa precisazione possiamo
capire meglio l’utilizzo e la portata dei termini “popolo” e “territorio”; nel senso che sopra ogni
cattolico vigono 2 diverse sovranità, MA queste due sovranità sono diverse anche come ambito
sostanziale perchè una attiene agli interessi/materie temporali e l’altra agli interessi/materie
spirituali. Proprio grazie alla loro diversità sostanziale possono coesistere sopra lo stesso popolo.

In ragione di questa diversità degli ordini, possiamo pensare che la Chiesa è sovrana anche se non
ha un territorio e anche se condivide il popolo con gli Stati territoriali.

Che cosa ci vuole dire alla fine l’art. 7 co 1 Cost.? Perchè è importante?

L’importanza dell’art. 7 co. 1 Cost. sta nel fatto che introduce un principio fondamentale dello Stato
democratico: il principio di distinzione degli ordini.

Il principio di distinzione degli ordini vuol dire che lo Stato limita la sua competenza agli interessi
temporali e rinuncia ad occuparsi di quelli spirituali (cioè, di quelli che attengono all’ordine
spirituale sul quale è sovrana la Chiesa cattolica).

Questa rinuncia (rimanendo nell’ambito dell’art. 7 co 1 Cost.) è una rinuncia dello Stato perchè,
come ci ricorda Calamandrei, la Costituzione è scritta dallo Stato; quindi, è lo Stato che sta
disponendo per se stesso (non per la Chiesa cattolica non potrebbe neanche farlo). Questo
principio, che nell’art. 7 co 1 Cost. è unilaterale, diventa un impegno bilaterale nell’art. 1
dell’Accordo del 1984 (con cui lo Stato e la Chiesa hanno modificato il Concordato Lateranense)
perchè dice che entrambe le parti (sia lo Stato che la Chiesa) s’impegnano reciprocamente per
rendere effettivo nei loro rapporti il principio della distinzione degli ordini (= principio
d’indipendenza e sovranità dell’uno e dell’altro, ciascuno nel proprio ordine).

Però, nell’art. 7 co 1 Cost. è lo Stato che rinuncia, cioè che limita la sua competenza agli interessi
temporali. Le conseguenze di questo principio sono fondamentali e irrinunciaili; quindi, anche
quando non è scritto espressamente è un principio comunque irrinunciabile perchè è chiaro che uno
Stato che si occupa direttamente di questioni evidentemente spirituali, certamente NON è uno Stato
laico. Quindi, il principio di distinzione degli ordini è il presupposto assoluto della laicità dello
Stato. Ma è anche uno Stato che non garantisce tutta una serie di libertà fondamentali tra cui, in
primo luogo, la libertà religiosa: cioè, uno Stato che non rinuncia a regolare direttamente (con
proprie normative) le questioni spirituali è certamente uno Stato che non garantisce le libertà
fondamentali, tra cui la libertà religiosa.

Questo principio di distinzione degli ordini, lungi dall’essere inutile, è un fulcro irrinunciabile di
uno Stato democratico.

Qualche interrogativo (che ci riporta alle domande ritrovate nei lavori preparatori all’art. 7 co 1
Cost.)

È sempre così chiaro distinguere l’ambito degli interessi spirituali da quello degli interessi
temporali?

È proprio vero che questi ambiti sono così sempre chiaramente distinti e distinguibili?
29

Questa domanda è particolarmente spinosa e sensibile perchè è evidente che non è così: fermo
restando l’importanza del principio, questo principio non risolve tutti i problemi perchè ci sono
molte materie sulle quali sia lo Stato sia le confessioni religiose rivendicano competenza.

Gli esempi possono essere tanti: Perchè il legislatore temporale non può disinteressarsi
completamente del fenomeno religioso visto che esiste un principio di distinzione degli ordini? Non
potrebbe semplicemente lasciare alla sfera privata tutto ciò che attiene al fenomeno religioso?
Questa è una scelta possibile ma pericolosa perchè lascerebbe non regolata la gestione di tutta una
serie di materie, interessi e istanze che le confessioni religiose portano avanti e che hanno ricadute
altresì nella sfera temporale. In questo senso, se il legislatore vuole garantire il principio di libertà
religiosa deve anche, in qualche modo, regolare il fenomeno religioso e la scelta religiosa.

Quindi, esistono molte materie sulle quali sia lo Stato che la Chiesa rivendicano le proprie
competenze. Ad es. si può pensare alla materia matrimoniale e al diritto di famiglia: la maggior
parte delle confessioni religiose ritengono di avere competenza in materia matrimoniale, anzi la
maggior parte delle confessioni religiose regola il matrimonio in maniera autonoma (secondo
normative confessionali) e si occupa anche in generale del diritto di famiglia. Oppure ci sono tutta
una serie di materie chiamate “eticamente sensibili”; quindi, tutto ciò che inerisce all’inizio o fine
vita che sono materie sulle quali sia le confessioni religiose che lo Stato rivendicano competenze.
Ma ci sono anche materie molto più vicine alla vita di tutti i giorni sulle quali sia lo Stato che le
confessioni religiose rivendicano sfere di competenza: ad es. le regole alimentari, l’abbigliamento
religiosamente orientato, i simboli religiosi (sul corpo o meno) ecc.

In questi casi è evidente che sia lo Stato che la Chiesa rivendicano competenze perchè in molte
materie coesistono apetti d’interesse spirituale con aspetti d’interesse temporale e molte volte questi
aspetti coincidono, solo che vengono interpretati in maniera diversa e gli viene dato un significato
diverso. A questo punto, in effetti, il principio di distinzione degli ordini non ci dà un aiuto concreto
per risolvere queste situazioni di doppia asserita o rivendicata competenza. Allora bisogna capire se
esite qualcuno competente a decidere nei casi in cui sussistono sia interessi religiosi sia interessi
temporali.

C’è un’autorità competente a decidere o comunque a stabilire a chi attiene la materia?

È chiaro che la questione posta in questi termini non è posta correttamente perchè stiamo parlando
di un ordinamento secolare; quindi, è evidente che sia lo Stato (quindi, l’ordinamento secolare) a
decidere quali sono le materie di suo interesse, le materie che attengono all’ordine temporale. Per
cui, è evidente che la Chiesa non potrà mai dire allo Stato di non disciplinare, ad es, l’interruzione
di gravidanza o il fine vita perchè sono materie di sua competenza poichè è evidente che sarà lo
Stato a decidere autonomamente se il fine vita o l’interruzione di gravidanza è un interesse dello
Stato. Infatti, lo Stato disciplina sia l’interruzione di gravidanza sia altre situazioni “eticamente
sensibili” sia il matrimonio, e così via.

Questo significa che in molti casi i fedeli (cattolici o non cattolici) si trovano con una doppia
competenza su di loro e, quindi, a dover tener conto per le stesse materie di regole sia temporali sia
confessionali, che potrebbero contraddirsi tra loro. Evidentemente non è indispensabile che siano in
contraddizione, anzi quanto più uno Stato è confessionista e, quindi, mutua i propri principi dalla
religione, tanto più sarà facile che i fedeli di quella confessione non si troveranno mai in
30

contraddizione. Ma certamente questa conformità non è assolutamente garantita in uno Stato laico
(come lo Stato italiano attuale), in cui lo Stato non mutua da una o più confessioni i principi posti a
base delle proprie normative. In queste situazioni sarà possibile e anzi probabile che le regole
religiose/norme confessionali e quelle temporali non coincidano.

Cosa succede in questo caso? La conseguenza più ovvia è che nell’ottica del legislatore/Stato
italiano la regola religiosa contrastante con la regola temporale sarà considerata irrilevante.
Quindi, certamente lo Stato darà prevalenza alla propria normativa. Quindi, sarò il singolo fedele
che si trova a dover orientare il proprio comportamento a seconda di quello che riterrà più
opportuno, ben sapendo però che se sceglie di seguire una regola ritenuta irrilevante per
l’ordinamento italiano, quest’ultimo potrà eventualmente reagire (nel caso siano previste sanzioni di
un certo tipo) secondo le proprie disposizioni di legge (di tipo civile, penale o amministrativo).
Evidentemente non è necessario che queste due normative siano assolutamente inconciliabili, può
succedere (come nella maggioranza dei casi) che le due normative, anche se non conformi, possano
tranquillamente sussistere; quindi, consentono al cittadino fedele di adempiere a entrambe le
normative senza dover necessariamente fare delle scelte di coscienza.

Ad es. nel caso dell’interruzione di gravidanza, anche se i 2 principi sono completamente opposti,
ciò non costituisce (nella normalità dei casi) un problema molto grave per il cittadino cattolico,
perché egli è libero di rispettare i dettami della propria confessione religiosa (non sarà obbligato a
interrompere la gravidanza). Diverso, invece, è il caso in cui il cattolico non sia un semplice
cittadino ma magari anche un operatore sanitario o un ginecologo: in questi casi, la discordanza/non
conformità tra le disposizioni statali e quelle confessionali può creare dei seri problemi che, infatti,
sono stati più o meno risolti nel nostro ordinamento con l’introduzione dell’istituto dell’obiezione di
coscienza.

Quindi, l’obiezione di coscienza è una delle possibili soluzioni adottata dall’ordinamento per venire
incontro a questa doppia sovranità e a queste doppie disposizioni normative che, in alcuni casi,
possono incidere sui singoli fedeli e a volte possono costringere il fedele a delle decisioni molto
sofferte.

I due ordini possono però anche convivere pacificamente e non obbligare a scelte dolorose o
comunque necessarie/indispensabili.

[Riassunto: Il principio di distinzione degli ordini è un principio fondamentale di tutti gli


ordinamenti democratici e costituisce un presupposto essenziale del principio di laicità e
fondamentalmente rappresenta la rinuncia dello Stato ad occuparsi delle materie che attengno
all’ordine religioso. La decisione su quali sono le materie d’interesse dell’ordine temporale spetta
allo Stato. Quindi, se lo Stato intende rispettare il principio di distinzione degli ordini, non potrà
occuparsi di materie che sono evidentemente estranee al proprio ordine e, quindi, che non trovano
nessun riscontro (neanche indiretto) nell’ambito della Carta costituzionale. Perciò, lo Stato rinuncia
a occuparsi di tutto un gruppo di materie e lo lascia alla competenza della Chiesa e, in generale,
delle confessioni religiose. Quindi, per dare senso e contenuto a questo principio bisogna che questa
rinuncia sia razionale e motivata e persegua anch’essa un canone di ragionevolezza sulla base della
nostra Carta costituzionale.]

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21/10/2021

L’art. 7 comma secondo della Costituzione: il principio di bilateralità

L'art. 7 co. 2 Cost. è espressione di un principio fondamentale: il principio di bilateralità


necessaria.

Art. 7 comma 2 Cost.

I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due
parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.
➔ Il richiamo esplicito ai Patti Lateranensi è stato un compromesso voluto fortemente dalla
parte cattolica dell’Assemblea costituente e accettato da una parte dei comunisti del PCI.

Che cosa esprime nei fatti questo comma?

Questo comma esprime il principio di bilateralità necessaria che è un principio fondamentale che
caratterizza le fonti del diritto ecclesiastico (e SOLO le fonti del diritto ecclesiastico perchè è un
principio che troviamo espresso nella nostra Carta costituzionale solo nella regolazione dei rapporti
con le confessioni religiose) ed è un principio che trova riscontro nell’art. 8 co. 3 Cost. in cui è
riferito non ai rapporti con la Chiesa cattolica, ma ai rapporti con le altre confessioni religiose. I
principi contenuti nell’art. 7 e 8 Cost. sono principi speculari con la differenza che, per ragioni
storiche, politiche e di opportunità, i Padri costituenti hanno deciso di dedicare alla Chiesa cattolica
un articolo (soprattutto in ragione dell’esistenza dello strumento pattizio: Patti Lateranensi), mentre
hanno previsto un successivo articolo per tutte le confessioni religiose (il comma 1 per la Chiesa
cattolica e i commi 2 e 3 per le altre confessioni religiose).

Il principio di bilateralità necessaria è un principio che i costituenti hanno voluto inserire nella Carta
costituzionale non solo in relazione alla Chiesa cattolica, ma anche alle altre confessioni religiose.
Questo atteggiamento è tipico degli ordinamenti concordatari: nella maggior parte dei casi capita
che questi ordinamenti nascano concordatari in relazione ai rapporti con la Chiesa cattolica (da qui
il termine “concordato”), e che poi estendano questo principio di bilateralità anche alle altre
confessioni religiose. Questo è ciò che è ciò che è accaduto in Italia, con la differenza importante
che il costituente italiano ha voluto proprio esprimere espressamente e in maniera particolarmente
forte questo principio nella Carta costituzionale. Cioè, vi sono degli ordinamenti concordatari (che,
quindi, disciplinano bilateralmente i rapporti con i gruppi religiosi) che non hanno inserito tale
principio nella Carta costituzionale.

Il principio di bilateralità necessaria significa che lo Stato rinuncia a regolare i rapporti con le
confessioni religiose facendo ricorso a sole fonti unilaterali. Cioè, vuol dire che lo Stato decide
che quando si trova a regolare i rapporti con queste particolari istituzioni/enti/ordinamenti giuridici
fa ricorso anche a fonti bilaterali (oltre che a fonti unilaterali), cioè ad accordi/intese che poi
dovranno essere recipiti con legge formale dello Stato. Fondamentalmente lo Stato in questa
materia (= i rapporti con le confessioni religiose) rinuncia ad essere autarchico, cede parte della sua
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sovranità e contratta i contenuti dei rapporti con i gruppi religiosi proprio con i gruppi di
riferimento.

Questo è un principio necessario, a cui lo Stato non può rinunciare salvo modificare la Costituzione
perchè è un principio espressamente previsto nella Carta costituzionale. La difficoltà sarà capire
qual è l’ambito di questo principio di bilateralità necessaria, visto che il legislatore non può
ricorrere solo a fonti bilaterali.

Vi sono dgli stretti collegamenti di questo principio con altri principi costituzionali perchè la
Costituzione ha ua sue coerenza interna molto evidente soprattutto in questi articoli (Iartt. 7 e 8
Cost.) che rivelano un progetto molto chiaro e anche molto ambizioso dei Padri costituenti; perciò
c’è una forte connessione tra i principi. Il principio di bilateralità necessaria è strettamente collegato
con il principio di distinzione degli ordini ex art. 7 co. 1 Cost.: questa è un’evidenza perchè lo Stato
rinuncia a regolare in via autonoma tutti gli aspetti della vita delle confessioni religiose proprio
perchè le confessioni religiose sono competenti a regolare l’ordine delle cose spirituali sul quale lo
Stato non è competente. Questo dualismo tra le sovranità/competenze conduce necessariamente a
regolare i rapporti con questi ordinamenti tramite strumenti bilaterali e apicali. Lo Stato
concordatario è spesso uno Stato a grande maggioranza cattolica perchè è tipico della Chiesa
cattolica a chiedere insistentemente agli ordinamenti temporali di riferimento il rapporto apicale,
cioè la dualità e di parità di posizioni. Quindi, il principio di distinzione degli ordini corredato con il
principio di bilateralità necessaria risponde in maniera chiara ed efficace propria a questa istanza
che è tipica degli ordinamenti concordatari (in cui la Chiesa cattolica ha una forte presenza).

Il principio di bilateralità necessaria è altresì strettamente collegato al principio di originarietà delle


confessioni religiose, che trva conferma sia nell’art. 7 co 1 Cost. sia nell’art. 8 co. 1 Cost. (in merito
alla Chiesa Cattolica) e nell’art. 8 co. 2 Cost. (in relazione alle altre confessioni religiose). Nell’art.
8 co 2 Cost. non si parla espressamente di “originarietà” o “indipendenza” ma, in realtà, si parla di
un diritto delle confessioni religiose di organizzarsi secondo propri statuti; quindi, in questo articolo
si fa più riferimento all’autonomia delle confessioni religiose (= alla potestà statutaria), cioè alla
possibilità garantita ai governi religiosi di darsi una propria normativa interna (= statuto). Quindi,
più che dare rilievo all’originarietà, intesa come ordinamentale, si dà rilievo all’aspetto della libertà
statutaria (= libertà di autorganizzarsi). Quest’originarietà si trova soprattutto collegata con il
carattere dell’indipendenza più che con la sovranità (art. 7 co 1 Cost.). Entrambi gli aspetti trovano
ragione in questo principio di originarietà delle confessioni religiose che è tipico SOLO delle
confessioni religiose all’interno della nostra Carta costituzionale e di nessun’altra organizzazione.
Le confessioni religiose sono ordinamenti originari, non derivati dallo Stato, ma ordinamenti
autocefali. In questo senso sono diverse da tutte le altre realtà organizzative ad ampio spettro che si
trovano all’interno della Carta costituzionale e, quindi, ques’originarietà spiega, presuppone e dà
ragione del principio di bilateralità e anche del principio di distinzione degli ordini.

Contenuti del principio di bilateralità necessaria

Quali sono le questioni che cadono sotto questo principio sulle quali lo Stato è obbligato a
stringere un accordo con i gruppi religiosi?

Ricadono sotto il principio di bilateralità necessaria tutte quelle questioni che incidono direttamente
su materie che esulano dall'ordine temporale e che attengono direttamente a quello spirituale.
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Quindi, ci sono delle materie che incidendo in maniera diretta nell’ordine spirituale non possono
essere regolate in modo unilaterale da parte dello Stato. Rientrano nell’obbligo di bilateralità tutte
quelle questioni che, pur inerendo strettamente all’ordine spirituale, hanno l’aspettativa di trovare
un riconoscimento nell’ordine temporale.

Se ad esempio lo Stato vuole dare spazio all'istanza religiosamente orientata di vedere riconosciute
alcune festività confessionali, non potrà che fare un accordo con la confessione di riferimento per
identificare quali sono i giorni di festa che interessano alla confessione religiosa di riferimento e,
quindi, per dare riscontro all’istanza confessionalmente orientata. Lo Stato non potrà da solo dare
riconoscimento nel calendario civile a feste che abbiano un’evidente natura religiosa. Questo
aspetto, avendo una natura eminentemente confessionale ma avendo aspettativa di essere
riconosciuto agli effetti civili, dovrà necessariamente essere regolato con accordi/intese.

Conseguenze del principio di bilateralità nelle fonti interne del diritto ecclesiastico

Bisogna richiamare quello che ha detto Dossetti (all’interno della Commissione per la Costituzione)
che era proprio incentrato sui motivi per cui bisognava dotare questi Patti di una particolare
copertura costituzionale e soprattutto bisogna fare una norma sulla procedura (= “produzione
giuridica”) per delineare e fissare facendo ricorso a quali procedimenti è possibile modificare le
norme pattizie. Quindi, per certi versi il secondo comma dell’art. 7 Cost. e le conseguenze del
principio di bilateralità sulla gerarchia delle fonti rispondono proprio a questa esigenza che
nell’ambito dei lavori preparatori aveva esposto Dossetti.

Infatti, ex art. 7 co. 2 Cost., gli accordi sono recepiti nell’ordinamento tramite una legge ordinaria.
L’accordo in sè non è immediatamente efficace nell’ordinamento: perchè abbia efficacia
nell’ordinamento deve essere recipito tramite una legge ordinaria (come i trattati internazionali che
devono essere recipiti tramite una legge di ratifica). Però, in forza di quanto previsto dall’art. 7 co 2
Cost., la legge ordinaria deve essere rinforzata (viene definita in dottrina fonte atipica) perchè,
pur avendo la forma di/essendo formalmente una legge ordinaria, può essere modificata o abrogata
da un’altra legge ordinaria successiva. Secondo il principio della successione delle leggi nel tempo,
una legge ordinaria può essere modifcata o abrogata da una legge ordinaria successiva. Questo
NON può capitare a queste leggi che recepiscono un accordo nell’ordinamento che siano sì leggi
ordinarie, MA possono essere modificate da una successiva legge ordinaria SOLO SE questa
recipesce un accordo con la Chiesa Cattolica, nella fattispecie. In questo senso, questa legge
ordinaria si ritiene essere rinforzata, cioè può essere modificata solo da una successiva legge
ordinaria che recepisca un accordo.

Questo era l'obiettivo che voleva raggiungere Dossetti, ovvero che i Patti Lateranensi (in forza di
una serie di disposizioni che si ritenevano in contrasto con la Carta costituzionale) NON potessero
essere modificati o abrogati da una legge successiva che non recepisse un accordo con la Chiesa
Cattolica (quindi fondamentalmente con una legge unilaterale dello Stato). Queste erano le
conseguenze che Dossetti paventava da un mancato richiamo dei Patti Lateranensi all’interno della
Carta costituzionale e, quindi, la formulazione dell’art. 7 co 2 Cost. come una norma sulla
procedura scongiura proprio questo esito.

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Questa legge ordinaria rinforzata può essere modificata solo a seguito di un accordo oppure facendo
ricorso a una legge di revisione costituzionale; quindi, con una legge che richieda per essere
approvata una maggioranza qualificata.

È chiaro che questo richiamo alla legge di revisione costituzionale crea un po’ di perplessità perchè,
in realtà, non è così chiaro capire che cosa può essere modificato attraverso una legge
costituzionale. Cioè, se si volesse ricorrere a un procedimento di revisione costituzionale per
modificare o abrogare i Patti Lateranensi, cosa dovremmo fare? [premesso che il Concordato non è
più in vigore] Avremmo dovuto modifcare direttamente i Patti Lateranensi con questa legge di
revisione costituzionale oppure saremmo stati costretti a modifcare o abrogare l'art. 7 co 2 Cost.?
Questa resta una questione teorica perchè non si è mai realizzata; infatti, il Concordato è stato
modificato con un Accordo del 1984; però, questo discorso teorico ha delle conseguenze pratiche
importanti perchè è evidente che se dovessimo approdare alla tesi per la quale la legge di revisione
costituzionale potrebbe incidere direttamente sugli Accordi e non sull'art. 7 Cost., arriveremmo a
una grossa contraddizione perché arriveremmo a dire che facendo ricorso a una legge di revisione
costituzionale (dotata di una maggioranza qualificata) potremmo modificare gli Accordi e, quindi,
violare di fatto il principio di bilateralità. Questa conclusione sembra palesemente contraddittoria e
non sostenibile in un’ottica di coerenza sistematica delle norme costituzionali perchè è evidente che
non si può sostenere che sia legittimo violazione un principio di bilateralità previsto dalla
Costituzione solo facendo ricorso a una legge di revisione costituzionale. Se si volesse perseguire la
strada della modifica unilaterale degli Accordi (senza l’accordo della Chiesa cattolica), il
Parlamento sarebbe stato costretto ad abrogare o modificare direttamente l'art. 7 co. 2 Cost.,
fondamentalmente superando il principio di bilateralità (non sarebbero gli accordi a essere
modificati ma sarebbe la Costituzione ad essere modificata e, quindi, privata di questo principio).

C’è poi un’altra questione di fondamentale importanza che è conseguenza del principio di
bilateralità. Esso ha avuto conseguenze importanti (forse ancora più incisive) sulla questione della
sindacabilità costituzionale delle norme pattizie. Questo è un problema davvero rilevante che si è
creato non appena la Corte costituzionale ha iniziato a operare nel nostro ordinamento e si è
trascinato fino ai giorni nostri. Fondamentalmente il problema sta nei rapporti tra le norme pattizie e
la Carta costituzionale.

Questi erano rapporti complessi perchè già in Assemblea Costituente erano state identificate tutta
una serie di disposizioni di quantomeno dubbia conformità alla Carta costituzionale; prima tra tutte
la disposizione che creava forti contrasti di legittimità costituzionale era la previsione dell'art. 1 del
Trattato Lateranense che sanciva la religione cattolica apostolica romana come la sola religione di
Stato.

Il problema che si è posto appena la Corte Costituzionale ha iniziato a operare (1956) era questo: la
Corte Costituzionale può sindacare la legittimità costituzionale delle norme inserite nei Patti
Lateranensi? Cioè, questo tipo di controllo è nella competenza della Corte costituzionale? Quindi,
eventualmente la Corte Costituzionale può dichiarare l’incostituzionalità di una norma contenuta
nei Patti Lateranensi?

La giurisprudenza fino alla fine degli anni ’60 del secolo scorso ha risposto di NO a questa
domanda: l’interpretazione della giurisprudenza (soprattutto di legittimità) era univoca, cioè queste
35

norme contenute nei Patti Lateranensi NON sono sottoponibili a nessun sindacato di legittimità
costituzionale; sono una zona franca (esule) dal controllo della Corte. Perchè questo esito? Questo
discendeva direttamente dal richiamo espresso dei Patti Lateranensi nell'art. 7 co. 1 Cost., per cui la
giurisprudenza diceva che, posto che l’art. 7 co 1 Cost. richiama espressamente i Patti Lateranensi,
in forza di questo richiamo sono state costituzionalizzate le singole norme pattizie. Quindi, anche se
queste norme sono state recepite formalmente nel nostro ordinamento con una legge ordinaria, in
realtà queste sono norme costituzionali ed essendo tali NON possono essere sottoposte a sindacato
di legittimità costituzionale.

Durante i lavori preparatori era questo il timore che aveva Togliatti quando si opponeva
all'inserimento dell'espresso richiamo ai Patti Lateranensi: tra le varie motivazioni, il timore
maggiore era che dal richiamo dei Patti Lateranensi potesse conseguire una costituzionalizzazione
di norme che, secondo lui, contrastavano con la Carta costituzionale. Questo timore per certi versi si
realizza in forza dell’interpretazione della giurisprudenza. E quest’interpretazione aveva come
motivazione pratica il voler proprio evitare che la Corte costituzionale dichiarasse
l’inconstituzionalità di queste norme perchè altrimenti la denuncia dei Patti Lateranensi che si
voleva evitare avrebbe potuto essere realizzata, non dal Parlamento tramite una denuncia e una
modifica dei Patti, ma tramite delle pronunce della Corte costituzionale. La giurisprudenza di
legittimità, per mantenere ferma/cristallizzata la situazione, ha fatto ricorso a quest’interpretazione
che dava corpo ai timori di molti Padri costituenti, tra cui Togliatti.

La conseguenza di tutto questo discorso è che, fino alla fine degli anni ’60, queste norme sono state
una zona franca: la Corte costituzionale non si è mai ritenuta competente a dichiarare
l’incostituzionale, ma ancor prima della Corte era proprio la giurisprudenza di legittimità che non
formulava ordinanze di rinvio alla Corte costituzionale ritenendo che queste norme, essendo state
costituzionalizzate, non potevano essere sottoposte a sindacato di legittimità costituzionale.

La situazione cambia completamente nel 1971 con la sentenza n. 30: questa è una sentenza storica
e, per certi versi, rivoluzionaria perchè apre la strada al sindacato di legittimità delle norme pattizie.
Quindi, dal 1971 le norme pattizie non sono più una zona franca al sindacato di legittimità, ma la
Corte costituzionale potrà dichiarare l’incostituzionalità anche delle norme pattizie. MA il
parametro di costituzionalità NON è esteso a tutte le norme costituzionali ma ai soli princìpi
supremi dell'ordinamento costituzionale. Quindi, pur aprendo la strada al sindacato di legittimità
delle norme pattizio, è una sentenza compromissoria perchè conferma, per certi versi, la copertura
costituzionale di queste norme perchè le tratta fondamentalmente come norme costituzionali. Infatti,
il parametro di costituzionalità NON è esteso a tutte le norme MA SOLO ai principi supremi (che
stanno all’apice della Carta costituzionale).

[leggerla su e-learning]

Sentenza Corte cost. 30/1971

La questione riguardava la conformità a Costituzione dell’art. 34 del Concordato, che regolava il


matrimonio canonico trascritto; quindi, prevedeva l’introduzione di questo importante istituto del
matrimonio canonico trascritto oppure matrimonio concordatario.

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La questione riguarda la celebrazione del matrimonio, e il suo esame non è precluso, come invece
opina l’Avvocatura dello Stato, dall’art. 7 della Costituzione.
➔ L’Avvocatura dello Stato subito eccepisce che l’esame della conformità a Costituzione
dell’art. 34 sarebbe precluso; quindi, questa è una difesa conforme alla giurisprudenza di
legittimità fino ad allora.

È vero che questo articolo [art. 7 Cost.] non sancisce solo un generico principio pattizio da valere
nella disciplina dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica, ma contiene altresì un preciso
riferimento al Concordato in vigore e, in relazione al contenuto di questo, ha prodotto diritto [= “in
relazione al contenuto del Concordato ha costituzionalizzato le norme” in questa parte la Corte
dà ragione alla giurisprudenza di legittimità conservatrice]; tuttavia, giacchè esso riconosce allo
Stato e alla Chiesa cattolica una posizione reciproca di indipendenza e di sovranità, non può avere
forza di negare i pincipi supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato.
➔ È una frase un po’ laconica il cui esito è: benchè queste norme sono state costituzionalizzate,
questa costituzionalizzazione NON può avere la forza di negare i principi supremi
dell’ordinamento. Quindi, almeno in relazione a questi ultimi, il sindacato di legittimità
della Corte esiste; perciò, almeno in relazione a questo parametro particolare, la Corte dice
che il suo esame non è precluso.

Con un ragionamento un po’ a contrario, la Corte arriva alla conclusione di aprire il


sindacato di legittimità con una decisione di compromesso.

Questa vicenda dei principi supremi e di questo parametro, che nella sent. 30/1971 era riferito al
richiamo ai Patti Lateranensi del 1929, verrà utilizzato anche in relazione all’Accordo del 1984 ad
es.; quindi, anche in relazione ai nuovi accordi con la Chiesa cattolica (e non solo ai Patti
Lateranensi). Questo prametro di costituzionali dei principi supremi, poi, rimane fermo e acquisito
nella giurisprudenza della Corte e verrà utilizzato molte altre volte (Corte Cost. 203/1989 ma più
recentemente le sentenze 348 e 349/2007).

(Guarda su e-lerning sentenza del 1971)

22/10/2021

I PRINCIPI SUPREMI DELL'ORDINAMENTO COSTITUZIONALE

Quali sono i princìpi supremi? Il problema è che non c’è un decalogo dei principi supremi; si può
dire che i principi supremi sono i principi più importanti che stanno all’apice della nostra Carta
costituzionale e, come è stato detto in dottrina, costituiscono la matrice di tutti gli altri principi
(tant’è che si è parlato anche di una “Costituzione in senso materiale”). MA come facciamo a
enuclearli? Chi decide se un principio è supremo? Chi è competente a definire se un principio è
supremo?

Il parametro di costituzionalità dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale è stato creato


dalla Corte Costituzionale nella storica sentenza 30/1971, che è molto importante proprio perchè ha
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aperto (dopo alcuni anni di totale chiusura) il sindacato di legittimità anche per le norme pattizie.
Fino ad allora, a seguito di un’interpretazione molto formale della Corte di Cassazione che aveva
ritenuto che il richiamo ai Patti Lateranensi contenuto nell’art. 7 co 2 Cost. avesse avuto l’esito di
costituzionalizzare le norme pattizie, la Cassazione aveva ritenuto che fosse completamente inibito
un sindacato di legittimità sulle norme pattizie, in quanto norme costituzionali. E, quindi,
fondamentalmente le norme pattizie erano diventate una zona franca dal sindacato di legittimità
costituzionale. Questo stato di fatto è proseguito fino a questa sentenza del 1971 della Corte
costituzionale che ha potuto pronunciarsi sul punto proprio a seguito di un’ordinanza di un pretore
di Torino che ha tentato di aggirare l’ostacolo della giurisprudenza della Cassazione e, quindi,
direttamente ha fatto ordinanza alla Corte costituzionale per l’incostituzionalità dell’art. 34 del
Concordato Lateranense (che prevedeva e disciplinava l’istituto del matrimonio concordatario).
Quindi, grazie a quest’iniziativa (contrastante con la giurisprudenza maggioritaria) di questo pretore
di Torino (che appunto decide d’inviare un’ordinanza di remissione alla Corte), la Corte
costituzionale dichiara di avere competenza anche sulle norme pattizie: l’esame sulle norme pattizie
non è precluso a questa Corte in ragione del richiamo contenuto nell’art. 7 co 2 Cost. ai Patti
Lateranensi.

Questa è una sentenza compromissoria perchè, oltre ad aprire questo sindacato di legittimità, crea
questo particolare parametro dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale. Questo
parametro è utilizzato dalla Corte costituzionale solo ed esclusivamente per valutare e decidere
della conformativa alla Costituzione delle norme dei Patti Lateranensi. È evidente che questa
soluzione compromissoria è stata molto discussa nella dottrina ecclesiasticistica e costituzionalistica
di allora, cioè ha creato ampie reazioni dottrinali soprattutto per un motivo: perchè NON esiste un
elenzo dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale, sappiamo solo che sono dei principi
che si trovano all’apice delle norme costituzionali e che costituiscono la matrice delle norme
costituzionali (“Costituzione in senso materiale”); quindi, sono principi irrinunciabili.

L’organo competente a individuare questi principi supremi non può essere altri che la Corte
Costituzionale. Ed è evidente che si troverà a enucleare questi principi supremi durante il
procedimento per la dichiarazione d’incostituzionalità di una norma pattizia. Fondamentalmente
quando la corte si troverà a decidere sulla conformità a Costituzione di una norma pattizia, dovrà
decidere se esiste un principio supremo potenzialmente leso; per fare quest’operazione dovrà
decidere quali sono i principi supremi e, quindi, individuare il principio come supremo. È evidente
che quest’operazione è molto pericolosa perchè lascia alla corte un’amplissima discrezionalità
perchè si trova nella peculiare situazione di decidere della conformità di una disposizione di legge a
principi che essa stessa definisce come supremi. Fondamentalmente si trova nel doppio ruolo di
giudice (che è il suo proprio ruolo: giudicare la conformità a dei principi di una norma di legge), ma
anche di “legislatore” perchè sarà la Corte stessa a decidere quali sono i principi che rientrano nel
parametro di costituzionalità. Quindi, il ruolo della Corte in questo giudizio particolare è molto più
ampio rispetto ai normali giudizi di costituzionalità, in cui invece le norme esistono e sono scritte
nella Carta costituzionale. In questo senso, questa soluzione di compromesso (che amplia
notevolmente il ruolo della Corte costituzionale proprio in relazione alla costituzionalità di queste
norme) è stata oggetto di ampie discussioni e critiche. Ciò nonostante, questa soluzione è stata
confermata più volte dalla Corte costituzionale che vi ha fatto cenno in alcuni obiter dicta anche di
recente e, quindi, è una soluzione che ormai possiamo considerare assodata perchè la Corte, in
38

questo senso, non è più tornata indietro neanche dopo la sostituzione del Concordato Lateranense.
Questo parametro dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale è talmente entrato nella
giurisprudenza della corte che è rimasto fermo anche dopo la sostituzione del Concordato. In questo
senso, il richiamo ai Patti Lateranensi contenuto nell’art. 7 co 2 Cost. (che nella sentenza del 1971
era il richiamo che aveva generato tutte quelle conseguenze di copertura costituzionale che poi
avevano condotto alla creazione di questo parametro), in realtà, nella giurisprudenza successiva
viene per certi versi confermato che non è proprio il richiamo ai Patti Lateranensi che ha scaturito
tutto ciò, ma una più generica copertura costituzionale che, quindi, si estende anche al nuovo
Accordo.

Quindi, è la Corte che ha competenza a decidere quando un principio è supremo e la Corte lo farà
tutte le volte in cui si troverà a dover decidere sulla conformità a Costituzione di una norma pattizia
(= è un elenco aperto perchè è un’elencazione casistica che è strettamente collegata alle questioni
di costituzionalità che la Corte si è trovata a risolvere). Fino ad ora è avvenuto relativamente poche
volte che la Corte si sia trovata nella necessità di giudicare la conformità a Costituzione di una
norma pattizia; infatti, i principi supremi enucleati dalla Corte (= i casi in cui la Corte ha definito un
principio supremo) sono semplicemente 3.

Fino ad oggi, la Corte ha enucleato 3 princìpi supremi in 2 sentenze. Dopo queste 2 sentenze, la
Corte non si è più trovata nelle condizioni di enucleare ulteriori principi supremi anche perchè
probabilmente non si è più trovata nella condizione di dover valutare e giudicare la conformità a
Costituzione di norme pattizie.

1. Sent. 18/1982: è la prima sentenza in cui la Corte inserisce alcuni principi nel novero dei
principi supremi perchè nella sent. 30/1971 la Corte aveva aperto il sindacato di legittimità
sulle norme pattizie, ma non aveva dichiarato nessun principio come supremo, tant’è che
nella fattispecie concreta la Corte ritiene la questione non fondata. Quindi, nella sent.
18/1982 per la prima volta la Corte enuclea 2 principi supremi e oltretutto dichiara anche
l'incostituzionalità dell’art. 34 del Concordato in relazione alla giurisdizione dello Stato sul
matrimonio concordatario (o matrimonio canonico trascritto).

NB! Questa è l’unica sentenza in cui la Corte dichiara l’incostituzionalità di una norma
pattizia.

Questa sentenza è di poco precedente al nuovo Accordo del 1984 con la Chiesa Cattolica ed è
una sentenza in cui la Corte dichiara la parziale incostituzionalità dell'art. 34 del Concordato, ma in
realtà introduce dei correttivi al procedimento di riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche,
correttivi che sono già presenti nelle bozze preparatorie del nuovo Accordo (già fine anni ‘70).
Quando la Corte dichiara l’incostituzionalità dell’art. 34 e introduce questi correttivi, le bozze erano
già presenti e molto chiare sul punto. Quindi, è vero che per certi versi la Corte nel dichiarare
l’incostituzionalità di una norma pattizia mostra un certo coraggio; però, è anche vero che si trattava
di modifiche che erano già di fatto concordate tra le parti anche se l’Accordo non era ancora stato
sottoscritto formalmente.
➔ Diritto di difesa nel suo nucleo essenziale (che la Corte ricollegga all’art. 24 Cost.)

39

La Corte dice che questo diritto di agire e di difendersi in giudizio costituisce un principio supremo
nel suo nucleo essenziale, nel senso che la Corte precisa che il principio supremo è costituito dal
nucleo del diritto di difesa, non dalle singole disposizioni di attuazione (= singole norme previste
dal c.p.c. nel dattaglio). Quindi, nel suo nucleo essenziale questo diritto costituisce un princìpio
supremo dell'ordinamento.

La Corte ritiene che il procedimento di riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche (un


procedimento di competenza della Corte d'Appello) non rispettava il diritto di difesa nel suo nucleo
essenziale soprattutto per un motivo: il fatto che non ci fosse da parte della Corte d'Appello (nel
momento in cui si trovata a dare riconoscimento alla sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale)
un controllo sul processo canonico, o meglio un controllo che, nell’ambito del processo canonico, le
parti avessero avuto la possibilità di difendersi ed agire in giudizio nel rispetto del nucleo essenziale
dei diritto di difesa.

La Corte costituzionale dice che la Corte d’appello non doveva controllare che, nell’ambito del
processo canonico, fossero state applicate le norme del c.p.c. (è evidente che non potevano essere
applicate perchè è evidente che nell’ambito del processo canonico sarebbero state applicate le
norme del diritto processuale canonico), MA la Corte d’appello avrebbe dovuto quantomeno
controllare che fosse stato rispettato il diritto delle parti di agire e difendersi perchè questo è un
principio supremo dell’ordinamento costituzionale.

È evidente che da questa individuazione discenderà la dichiarazione d’incostituzionalità parziale


dell’art. 34. Questa sentenza sarà una sentenza manipolativa additiva perchè, in realtà, introduce
nell’art. 34 del Concordato disposizioni che prima non c’erano. Quindi, a seguito di
quest’individuazione del diritto di difesa come principio supremo, la Corte dichiarerà
l’incostituzionalità parziale dell’art. 34 nella parte in cui non prevede che la Corte d’appello debba
effettuare questo controllo (= introduce un controllo aggiuntivo che l’art. 34 non prevedeva).
➔ Inderogabile tutela dell’ordine pubblico

Il termine “ordine pubblico” si presta a moltissime interpretazioni; è una clausola generale che
viene utilizzata per molti scopi, ad esempio nell'ambito dell’ordinamento totalitario era utilizzato
per limitare molte libertà (libertà d'espressione, libertà religiosa). In questa sentenza, la Corte
costituzionale parla dell’ordine pubblico che in dottrina è definito internazionale: s’intende quel
nucleo di princìpi che è utilizzato nei rapporti con ordinamenti esterni. E, quindi, viene utilizzato
questo limite dell’ordine pubblico proprio come filtro all’ingresso di norme oppure di pronunce/
provvedimenti (come in questo caso) da ordinamenti esterni.

È evidente che il concetto di ordine pubblico internazionale è un concetto tipico del diritto
internazionale privato perchè funge da filtro all'ingresso di norme o, come in questo caso, di
provvedimenti che provengono da ordinamenti esterni; quindi tipicamente da ordinamenti stranieri.

La Corte costituzionale lo utilizza in questa sentenza perchè sostiene che questo limite dell’ordine
pubblico, posto a presidio della sovranità dello Stato, si dovrebbe adottare anche nei confronti delle
sentenze ecclesiastiche perché sono comunque sentenze che provengono da un ordinamento
esterno: la Chiesa Cattolica. In ragione di ciò, questo limite dell’ordine pubblico deve essere
utilizzato anche nei confronti delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale. Quindi, nel
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momento in cui la Corte d’appello si trova a decidere del riconoscimento agli effetti civili della
sentenza di nullità matrimoniale proveniente dall’ordinamento canonico, la Corte d’appello dovrà
anche controllare che questo provvedimento (= sentenza di nullità canonica) non contrasti con il
nostro ordine pubblico matrimoniale, in questo caso (perchè attiene all’istituto del matrimonio).

Questa sentenza è molto importante anche perchè la Corte definisce che cos’è l’ordine pubblico.
Questa tutela dell'ordine pubblico è inderogabile (= è un principio supremo) ed è posta a presidio
della sovranità dello Stato perché l’ordine pubblico è formato da quei princìpi fondamentali e da
quelle norme fondamentali che appunto fondano gli istituti giuridici dell'ordinamento. Nel caso di
specie, trattandosi di nullità matrimoniali, l'istituto di cui si parla è l’istituto del matrimonio. Quindi,
se la sentenza di nullità canonica contrasta con un princìpio o una norma essenziale che regola il
matrimonio civile, essa è contraria all'ordine pubblico matrimoniale e, quindi, non può essere
riconosciuta agli effetti civili.

Perciò, la tutela dell’ordine pubblico internazionale viene declinata nell’ambito del diritto
matrimoniale ed è utilizzata davvero per sbarrare l’ingresso anche alle sentenze canoniche di nullità
che fossero in contrasto con questi principi.

È molto importante sottolineare che il principio supremo, in questo caso, non sono i principi
dell’ordine pubblico (che costituiscono un insieme separato) MA è la tutela inderogabile dell’ordine
pubblico; è quest’ultima che la corte utilizza per dichiarare l’incostituzionale parziale dell’art. 34.
Altra questione, invece, sono i principi dell’ordine pubblico che danno sostanza all’ordine pubblico:
questi sono i principi fondamentali del nostro ordinamento matrimoniale, ma che non hanno nulla a
che fare con principi supremi.

Quindi, così come ha fatto per il diritto di difesa, la Corte utilizza l’inderogabile tutela dell’ordine
pubblico (ritenuta principio supremo) per dichiarare l’incostituzionalità parziale dell’art. 34, con
una sentenza manipolativa additiva e, quindi, introduce anche questo ulteriore controllo. Cioè, la
Corte d'Appello, oltre a controllare che sia rispettato il diritto di difesa nell’ambito del processo
canonico, dovrà anche controllare che la sentenza ecclesiastica non contrasti con l'ordine pubblico
matrimoniale prima di dare riconoscimento alla sentenza di nullità.

2. Sent. 203/1989

➔ Laicità dello Stato

È un principio molto importante e di più ampio respiro rispetto ai principi enucleati nella sent.
18/1982, o meglio impatta direttamente nel diritto ecclesiastico.

La Corte costituzionale ha definito il nostro Stato laico per la prima volta nella sent. 203/1989. In
questa sentenza, oltre a dire che l'Italia reppubblicana e democratica è uno Stato laico, dice anche
che la laicità è un principio supremo dell'ordinamento costituzionale, in quanto profilo della forma
di Stato delineata nella Carta costituzionale. Quindi, secondo la Corte la laicità dello Stato inerisce
strettamente e, quindi, è un elemento essenziale della nostra forma di Stato.

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Anche questa è stata una sentenza storica (come la sent. 18/1982) perché, in realtà, nella
Costituzione non si parla mai di laicità dello Stato; le norme della nostra Carta costituzionale che
riguardano direttamente il fenomeno religioso non dicono che l'Italia è uno Stato laico. La parola
“laico” o “laicità” non si ritrova mai espressamente all’interno della nostra Carta costituzionale.
Questo non stupisce pensando ai lavori preparatori e alle discussioni che ci furono all’interno della
Commissione per la Costituzione perchè le due anime presenti all’interno della Commissione erano
una più progressista (che voleva in maniera espressa il precedente regime e, quindi, anche i Patti
Lateranensi), l'altra più garantista (quindi, voleva tutelare i Patti Lateranensi), MA da nessuna delle
due parti si è mai parlato di Stato laico. Questo perchè la laicità era vista all’epoca vicina al
laicismo francese e, quindi, una sorta atteggiamento negativo e ostile nei confronti del fenomeno
religioso. Certamente la maggior parte dei Padri costituenti voleva distaccarsi da questo
atteggiamento e, quindi, voleva prendere le distanze dalla laicitè de combat francese, per cui il
termine laicità non è mai stato in senso positivo all’interno dei lavori preparatori. Si è parlato,
invece, in alcune situazioni, di aconfessionismo: si diceva da più voci appartenenti a diverse parti
politiche che non si voleva creare uno Stato confessionista; che, quindi, era pericoloso il richiamo ai
Patti Lateranensi perchè avrebbe potuto introdurre surrettiziamente il principio confessionista
all’interno della nuova Carta costituzionale. Però, si parlava di aconfessionalità, NON di laicità. E
questo spiega perchè abbiamo dovuto aspettare fino al 1989 perchè la Corte costituzionale dicesse
che l’Italia è uno Stato laico; e lo ha detto in questa importante sentenza in cui addirittura ha
annoverato la laicità nell’ambito dei principi supremi. Quindi, non ha solo detto che lo Stato era
laico, ma ha detto che la laicità apparteneva al novero dei principi supremi.

Perchè in questa sentenza la Corte ha ritenuto di parlare di laicità come principio supremo?

La Corte si trova nella necessità di dover enucleare un principio supremo solo e soltanto quando si
trova a dover decidere della conformità alla Costituzione di una norma pattizia. E questo è ciò che è
avvenuto nella sent. 203/1989. La norma pattizia di riferimento era l’art. 9.2 dell’Accordo del 1984
(l'ora di religione facoltativa nelle scuole pubbliche). Occorre sottolineare che anche in relazione
all’Accordo del 1984 la Corte mostra di utilizzare il parametro dei principi supremi: questa sentenza
è la prova inoppugnabile della vigenza del parametro dei principi supremi dell’ordinamento
costituzionale anche dopo la modifica del Concordato del 1929. Questa sentenza ci dice che il fatto
che non ci sia più il Concordato del 1929 NON fa cambiare il parametro di costituzionalità.

Nella fattispecie concreta, la norma sottoposta al giudizio era l’art. 9.2 dell’Accordo del 1984, che
è una delle norme più discusse e che ha fatto sorgere più dubbi di legittimità costituzionale; infatti,
su questa norma la Corte si è pronunciata più volte. È la norma che prevede l’ora di religione
facoltativa nelle scuole pubbliche.

Nel Concordato Lateranense del '29 l'art. 36 prevedeva l'ora obbligatoria di religione, salvo
dispensa, nelle scuole pubbliche e legittimava questa obbligatorietà in forza del fatto che i princìpi
del cattolicesimo fossero fondamento e coronamento di tutta l’istruzione pubblica.

Tutto ciò cambia nel 1984 perchè l’ora di religione, che pure resta ferma (viene riprodotta
nell’Accordo), è diventata facoltativa; quindi, a scelta dei genitori prima e dello studente dopo il
14esimo anno d’età.

42

Quindi, la Corte costituzionale nel 1989 si è trovata a decidere sulla conformità a Costituzione di
questa norma perchè nelle ordinanze di rinvio si sollevava il dubbio che uno Stato laico (come si
riteneva potessere essere l’Italia repubblicana e democratica) prevedesse un’ora di religione
cattolica nelle scuole pubbliche. Questo istituto poteva rischiare di essere indottrinante che, quindi,
violava la laicità dello Stato e anche la libertà religiosa.

In questa sentenza, la Corte costituzionale afferma che l’Italia è uno Stato laico, che la laicità è
principio supremo MA aggiunge che in questo caso specifico non ritiene che l’art. 9.2 dell’Accordo
contrasti con il principio supremo di laicità. Quindi, questa sentenza, a differenza della sent.
18/1982, NON è una sentenza che dichiara l'incostituzionalità di una norma pattizia, anzi è una
sentenza d'infondatezza (= la questione sottoposta viene ritenuta infondata). Per cui l’affermazione
che la laicità è un principio supremo non viene utilizzata (a contrario che nella sent. 18/1982) per
fondare l’affermazione d’incostituzionalità, ma viene utilizzata come obiter dictum, cioè come
spiegazione all’interno della sentenza (ma non viene poi utilizzata nel dispositivo della sentenza per
raggiungere un effetto ablativo).

Come fa la Corte a dire che l’ora di religione nelle scuole pubbliche non viola la laicità dello
Stato?

Lo fa perchè offre della laicità italiana un’interpretazione molto particolare. Questa laicità peculiare
è anche definita in dottrina laicità all'italiana o positiva: vuol dire che secondo la Corte questo
principio di laicità, benchè sia un princìpio supremo, NON implica indifferenza dello Stato nei
confronti delle confessioni religiose. Questa laicità positiva vede con favore il fenomeno religioso e
le confessioni religiose, tant’è che questa positività consente interventi a favore della libertà
religiosa, purché questi interventi avvengano in un regime di pluralismo confessionale e culturale.

L'ora di religione perchè possa essere ritenuta compatibile con questo principio supremo è stata
ritenuta un legittimo intervento a favore della libertà religiosa. Nell’art. 9.2 dell’Accordo l’ora di
religione facoltativa trova il proprio fondamento nel fatto che i princìpi del cattolicesimo fanno
parte del patrimonio storico del popolo italiano; quindi, non vi è più una ratio basata sul
cattolicesimo come fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica ma come patrimonio storico
della nazione.

Quindi, la Corte arriva fondamentalmente a legittimare l’ora di religione nei confronti del principio
di laicità positiva soprattutto facendo leva sulla facoltatività dell’ora di religione. Infatti, la Corte
sottolinea a più riprese che l’ora di religione è facoltativa, non più obbligatoria; inoltre rispetta la
libertà di coscienza e la responsabilità educativa dei genitori perchè è garantita a ciascuno la
possibilità di scegliere se avvalersi o meno di detto insegnamento. Quindi, la ragione giustificatrice
per cui i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico italiano renderebbe questo
intervento legittimo nell’ottica della laicità positiva dello Stato italiano.

Come mai l’ora di religione facoltativa viene garantita solo alla religione cattolica? Perchè solo i
principi della religione cattolica fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano. Quindi, in
questo senso, sarebbe legittimo inserire un’ora di religione nei programmi scolastici tenuta da
insegnanti pagati dallo Stato.

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Possiamo dire che la sent. 203/1989 è una sentenza compromissoria perchè, in realtà, la Corte
sceglie di annoverare la laicità dello Stato tra i principi supremi in una sentenza in cui invece si
trova a legittimare uno degli istituti che potremmo dire più controversi dell’Accordo del 1984, su
cui si sono concentrati di più i dubbi di conformità alla laicità e alla Carta costituzionale. Quindi, la
Corte ha scelto di parlare di laicità come principio supremo proprio in una sentenza in cui alla fine
ha legittimato questo istituto e lo ha fatto fondamentalmente seguendo un percorso molto
particolare, cioè sfuttando l’occasione per delineare gli elementi essenziali di questa laicità, tant’è
che in dottrina si parla proprio di una laicità all’italiana proprio per definire questo peculiare
modello di laicità delineato dalla Corte costituzionale. Quindi, una laicità che è pluralismo (che
deve garantire tutte le istanze sia confessionali che culturali) e che però consente interventi a favore
della libertà religiosa proprio perchè ritiene che la scelta religiosa possa essere un fattore positivo;
in questo senso non ha un atteggiamento ostile nei confronti delle confessioni religiose.

[Per cui l’affermazione della laicità come princìpio supremo non serve a dichiarare
l'incostituzionalità della norma pattizia ma costituisce un obiter dictum, una spiegazione alle
motivazioni addotte nella sentenza, che rappresenta un altro esempio di pronuncia compromissoria.

Il parametro di costituzionalità basato sui principi supremi viene usato dalla Corte Costituzionale
sempre e solo nei confronti di norme pattizie inerenti ad accordi con la Chiesa Cattolica. La Corte
non ha mai usato questo parametro per norme riguardanti confessioni diverse, verso le quali può
invece usare tutte le norme costituzionali come parametro e non solo i principi supremi
dell'ordinamento costituzionale.]

Art. 9.2 dell’Accordo del 1984

La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i princìpi
del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare,
nel quadro delle finalità della scuola, l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole
pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado. Nel rispetto della libertà di coscienza e della
responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non
avvalersi di detto insegnamento. All'atto dell'iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno
tale diritto, su richiesta dell'autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna
forma di discriminazione.

26/10/2021

L’art. 8 comma primo della Costituzione: l’eguale libertà delle confessioni religiose

Art. 8 Cost.

Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.

Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri
statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano.

I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative
rappresentanze.

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L'art. 8 Cost. racchiude il nucleo principale delle norme in materia di religione e, quindi, è
certamente la norma che rivela in maniera più chiara l'atteggiamento del legislatore/costituente nei
confronti del fenomeno religioso.

La norma riguarda tutte le confessioni religiose; quindi, non è corretto dire che riguarda tutte le
confessioni religiose diverse dalla cattolica perchè, in realtà, se è vero che la religione cattolica ha
un articolo dedicato (art. 7 Cost.), è anche vero che quantomeno il primo comma dell’art. 8 Cost.
riguarda tutte le confessioni religiose e non solo quella cattolica.

L’art. 8 Cost. ha una struttura a piramide rovesciata (si dice in dottrina):

1. Il co. 1 riguarda tutte le confessioni (nessuna esclusa): quindi, ha un ambito soggettivo il più
ampio possibile.

2. Il co. 2 riguarda le confessioni diverse da quella cattolica e introduce un principio di


autonomia organizzativa.

3. Il co. 3 riguarda solo le confessioni che non solo si sono date un proprio statuto ma stipulano
intese con lo Stato.

In questo senso, la piramide appare rovesciata perchè, mentre il primo comma riguarda tutte le
confessioni religiose, il secondo comma riguarda le confessioni religiose che decidono di dar
seguito alla facoltà di organizzarsi secondo propri statuti (quindi, certamente il novero dei
soggetti si restringe) e il terzo comma riguarda solo quelle confessioni che, non solo si sono date
uno statuto (cioè, che hanno una propria organizzazione interna), ma decidono anche di
stipulare un’intesa con lo Stato. La piramide è rovesciata perchè il novero dell’ambito
soggettivo dei commi si restringe.

Art. 8 comma 1 Cost.

Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.

Il co. 1 è certamente quello più importante proprio perchè riguarda tutte le confessioni religiose ed è
stato anche quello maggiormente discusso all'interno della Commissione (Assemblea Costituente).
Il punto nevralgico era in che modo tutelare anche le confessioni diverse da quella cattolica. Quindi,
bisognava fondamentalmente esplicitare con una formula (che non è stato assolutamente facile
trovare) quale fosse l'atteggiamento dello Stato nei confronti di tutte le confessioni religiose, Chiesa
Cattolica compresa. In questo senso, l’art. 8 co 1 Cost. parte con una vocazione soggettiva più
ampia possibile.

La discussione si è incentrata soprattutto sull'opportunità di esplicitare che tutte le confessioni


religiose fossero eguali davanti alla legge oppure no. C'era sicuramente un'istanza egualitaria, che
proveniva da una parte dei Padri Costituenti, che spingeva per enunciare un chiaro principio di
uguaglianza di tutte le confessioni religiose. Si sosteneva, infatti, che questo principio
d’uguaglianza fosse doveroso proprio in forza del precedente art. 7 Cost. dedicato alla Chiesa
Cattolica. Per evitare di introdurre una specie di confessionismo di Stato (e, quindi, di dare
un’evidente preminenza alla Chiesa cattolica) era necessario esplicitare che davanti alla legge tutte
le confessioni religiose erano uguali, compresa la religione cattolica. In questo modo, l’introduzione
di questo principio d’uguaglianza espliciterebbe che non si vuole uno Stato confessionista, bensì
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uno Stato aconfessionale (non si parlava ancora i “laicità” all’interno dell’Assemblea Costituente;
quindi, l’aggettivo “laico” era raramente usato).

Quindi, sicuramente c’era quest’istanza egualitaria che, per certi versi, veniva ricondotta all’art. 3
Cost. in cui il principio d’uguaglianza non riguardava le confessioni religiose, ma i singoli; però, tra
i parametri dell’uguaglianza spiccava anche la scelta religiosa. Quindi, l’art. 8 co 1 Cost.
declamando il principio d’uguaglianza delle confessioni religiose sarebbe stato idealmente collegato
all’art. 3 Cost.

Questa soluzione fu avversata da una parte dei Padri Costituenti (= dei componenti della
Commissione per la Costituzione) soprattutto dalla parte più legata alla Chiesa cattolica; quindi, in
particolare, dagli appartenenti alla Democrazia Cristiana.
➔ Verbale della seduta del 12 aprile 1947 che riporta il discorso dell’Onorevole Cappi (DC)
contro l’introduzione del principio egualitario. L’Onorevole Cappi si esprime contro la
previsione dell’uguaglianza sic et simpliciter di tutte le confessioni religiose con un
argomento abbastanza suggestivo.

Vorrei che mi si credesse quando affermo che dirò una parola schietta a tutti i colleghi
dell'Assemblea: mi sembra che sia una mala sorte della politica italiana degli ultimi decenni (che è
spiegabile con le note situazioni passate, storiche e politiche, che furono superate di fatto il 20
settembre 1870 e furono superate anche di diritto l'11 febbraio 1929), mala sorte che in Italia (la
quale, o per indifferentismo religioso o per una superiore civile tolleranza religiosa non ebbe
guerre di religione) la materia ecclesiastica, la materia dei rapporti fra Stato e Chiesa, sia
delicata, e qualche volta addirittura esplosiva. Voi potete credere che chi vi parla, come pure la
totalità degli amici democristiani di quest'Aula, è decisamente fautore della più ampia libertà
religiosa. Chi vi parla frequentò dall'asilo in poi le scuole pubbliche e fu educato in questo clima di
libertà. Per essere, però, sincero, devo dire che ho talora incontrato negli insegnanti della scuola
pubblica qualche cosa che si può definire un dogmatismo, se non un settarismo, laico. Sarebbe
desiderabile, nell'interesse di quella pace religiosa da tutti invocata, che non vi fossero
dogmatismi o settarismi, né laici né religiosi.

Ora, veniamo al punto. L'onorevole Laconi ha proposto questo emendamento.

«Tutte le confessioni religiose sono uguali davanti alla legge». È un emendamento, è una formula
che da noi non può essere accettata. Non può essere accettata perché può implicare, nella sua
formulazione, una specie di giudizio nel merito, sul contenuto delle singole confessioni religiose:
giudizio di parità che — voi lo comprendete — non solo i cattolici, ma neanche gli appartenenti ad
altre confessioni religiose non possono ammettere, perché è impossibile che un credente di una data
fede ammetta una parità con le altre fedi. (Commenti a sinistra). Né lo Stato ha competenza in ciò.

Voi mi dite: «davanti alla legge». Siamo schietti! Quello che preme e che dovrebbe premere
principalmente a voi, se non avete secondi pensieri, è questo: che sia libero l'esercizio della
confessione religiosa e sia libero con parità, tanto per quella religione che raccoglie nel suo seno la
quasi totalità dei cittadini, quanto per quelle confessioni religiose che raccolgono una infima
minoranza.

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➔ Quello che l’Onorevole voleva dire è semplicemente questo: non possiamo dire che tutte le
confessioni sono uguali perchè così non sono, ma sono tutte diverse. Quello che possiamo
dire è che sono uguali nella libertà, ma non possiamo dire che sono intimamente uguali
perchè nessuno potrebbe accettarlo, nè i cattolici nè gli appartenenti alle altre confessioni
religiose.

Quindi, era evidente l’intento di sottolineare la diversità della religione cattolica; perciò, una
specie di riluttanza dei cattolici e degli appartenenti alla DC di esplicitare che tutte le
confessioni religiose sono eguali.

Il principio di uguaglianza venne tramutato nella proposta dell’Onorevole Cappi, che poi alla fine
passò nella formula definitiva, in “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere”. Questa è
la formulazione che fondamentalmente passò nella Commissione per la Costituzione.

L'esito fu fondamentalmente un’unione tra il principio di libertà religiosa e il principio di


uguaglianza delle confessioni religiose. Quindi, rimase l’indicazione che ciò riguardava TUTTE le
confessioni religiose e non (come alcuni avevano proposte) le confessioni diverse dalla cattolica
perchè l’utilizzo di questa seconda formula avrebbe evidentemente e chiaramente escluso la
religione cattolica dalle disposizioni previste dall’art. 8 Cost., mentre così non fu. Perciò,
l’ampiezza soggettivo del primo comma dell’art. 8 Cost. rimase ferma, ma passò questa formula
ellittica dell’eguale libertà, che racchiude sia il principio di libertà che il principio d’uguaglianza e
che è stata formulata dai Padri Costituenti per evitare di parlare di una semplice eguaglianza sic et
simpliciter, che si voleva proprio evitare in ragione del peso politico, sociale e anche giuridico (dato
l’art. 7 Cost.) che ancora aveva la Chiesa cattolica.

L'utilizzo di questa formula è stato oggetto di innumerevoli interpretazioni sia da parte della
dottrina che da parte della giurisprudenza perchè è evidente che non è semplice dare ragione di
questa formula e soprattutto riempire di contenuto una formula che alla fine racchiude due principi
molto diversi, che non sono neanche facilmente componibili perchè dove ci sarà un’assoluta libertà
religiosa è difficile ci sia sostanziale uguaglianza; dove ci sarà quest'ultima, è difficile immaginare
una completa libertà religiosa. In questo senso, la dottrina e la giurisprudenza hanno speso molte
energie per riempire di contenuto questa formula.

Anche all’interno dell’Assemblea Costituente una delle motivazioni (oltre a quella dell’Onorevole
Cappi) era che non si poteva immaginare un semplice principio di uguaglianza in una situazione in
cui era evidente a tutti che le confessioni non venivano trattate nello stesso modo; questo non era
evidente solo perché esisteva l'art. 7 Cost. o i Patti Lateranensi, ma anche rimandendo nell’ambito
dell’art. 8 Cost. stesso risultava evidente che le confessioni religiose erano trattate in modo
diseguale. L’art. 8 co 3 Cost. diceva che i rapporti delle confessioni religiose con lo Stato erano
regolati per legge tramite intese con le rispettive rappresentanze. Quindi, l’art. 8 co 3 Cost. ci dice al
contempo che non c’è un trattamento egualitario (non è imposto un trattamento eguale). Questo è
stato un argomento sostenuto in Assemble Costituente per negare questo principio di uguaglianza:
se sono tutte uguali, come mai non le trattiamo tutte nello stesso modo ma addirittura prevediamo
normative diverse concordate ciascuna con la propria confessione? Quello che si sosteneva è che le
confessioni non sono trattate tutte nello stesso modo; quindi, non si può dire che sono uguali MA
sono libere in misura uguale (sono egualmente libere).
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Quindi, bisogna dare ragione sia dell’uguaglianza che della libertà.

Dare ragione della libertà non è molto difficile perchè, soprattutto se immaginiamo queste
normative differenziate concordate con le confessioni religiose, possiamo vedere che il principio di
libertà può trovare spazio in questa norma.

Diverso, invece, dare un senso al principio d’uguaglianza perchè è chiaro che se ammettiamo (o
comunque riteniamo legittima) qualsiasi differenza di trattamento e, quindi, se arriviamo alla
conclusione che siccome lo Stato può trattarle tutte in modo diverso non c’è un criterio da utilizzare
in questa diversità, noi azzeriamo fondamentalmente il principio d’uguaglianza. Però, il principio
d’uguaglianza c’è in questa formula e, quindi, deve avere uno spazio. Quindi, sì differenze di
trattamento MA NON realizzazione di status privilegiari o discriminazioni.

I trattamenti possono essere diversi MA NON devono essere nè discriminatori (a sfavore di


alcune confessioni religiose) nè privilegiari (a favore di altre).

È necessario trovare un criterio che dia ragione di queste differenze di trattamento (che l’art. 8 co 3
Cost. legittima e che possono adirittura essere introdotte con un accordo bilaterale), cioè che renda
ragionevoli queste differenze. Ed è evidente che questo criterio di ragionevolezza che deve essere
applicato nel vantare queste differenze di trattamento deve essere un criterio compatibile con i
nostri principi costituzionali.

Riassumendo, si può dire che quest’eguale libertà esprime un’istanza molto ambiziosa da parte dei
Padri Costituenti perchè esprime l’aspettativa di coniugare il principio d’uguaglianza con il
principio di libertà; e nasce proprio dal fatto incontestabile che le confessioni religiose ricevono
trattamenti/discipline diverse, anche in forza dell’art. 8 co 3 Cost. quindi, è necessario che questa
differenza di trattamento sia ragionevole nell’ottica della nostra Carta costituzionale.

La domanda a cui siamo chiamati a fornire una risposta è: quando queste differenze di trattamento
rispettano il principio di eguale libertà di tutte le confessioni religiose?

La Corte costituzionale nella sua giurisprudenza ha per molto tempo utilizzato dei criteri per dare
ragione delle differenze di trattamento che non sempre sono stati ritenuti ragionevoli e, quindi,
hanno passato il vaglio della conformità alla Carta costituzionale.

Però, per rispondere alla domanda, si potrebbe dire che la differenza di trattamento è ragionevole
quando risponde a specifiche istanze ed esigenze di una confessione religiosa e non di altre. Quindi,
la differenza di trattamento è ragionevole quando risponde a effettive differenze/specificità di una
confessione e NON di altre. È evidente che queste esigenze specifiche che danno corpo a
disposizioni anch’esse specifiche e specialissime possono essere inserite nello strumento pattizio
(negli accordi o nelle intese).

Le festività religiose sono un esempio abbastanza chiaro e comprensibile perchè è evidente che ogni
confessione ha le sue festività; quindi, la richiesta di riconoscimento di alcune festività religiose (e
non di altre) rientra sicuramente in una specifica esigenza che può determinare una diversità di
trattamento; perciò, come tale, può essere inserita in un accordo/intesa. Infatti, questa è una
disposizione tipica inserita nelle intese, in cui vi è sempre una disposizione che prevede e riconosce
(con intensità diverse) alcune festività religiose per la confessione di riferimento.
48

Le differenze di trattamento, di contro, NON sono ragionevoli quando non incidono su specificità
della religione MA incidono su istanze generiche di libertà proprie di tutte le confessioni religiose e,
quindi, inerenti in generale al fenomeno religioso. Se la richiesta è generica e riguarda i fedeli di
tutte le confessioni religiose perde la sua specificità e, quindi, le differenze di trattamento non sono
più legittimate/ragionevoli, ma diventano privilegi e, di conseguenza, non passano il vaglio
dell’eguale libertà (soprattuto dell’uguaglianza nell’ambito della formula dell’eguale libertà) perchè
diventano discriminatorie.

Ad esempio i luoghi di culto riguardano tutti i credenti (che hanno bisogno di un luogo in cui
riunirsi); quindi, è chiaro che in questo campo importanti differenze di trattamento possono essere
discriminatorie o privilegiarie. In questo senso, la differenza di trattamento richiede una particolare
oculatezza quando incide su istanze generiche di libertà e non specifiche di una confessione.

Nella giurisprudenza costituzionale relativa agli anni ‘50, ‘60 e ‘70 del secolo scorso si rinviene
l’utilizzo da parte della Corte Costituzionale di alcuni criteri al fine di legittimare delle situazioni di
privilegio a favore della Chiesa Cattolica. Questi criteri erano utilizzati anche al fine di presentare
una lettura debole dell’eguale libertà: cioè, queste differenze di trattamento venivano giustificate
sulla base di una lettura debole dell’eguale libertà che non era uguaglianza e facendo ricorso a una
serie di criteri.

Queste discipline privilegiarie erano fondamentalmente le disposizioni contenute del Codice Rocco
a tutela della religione di Stato (cioè, della religione cattolica): in perfetta coerenza con il principio
confessionista enunciato dall’articolo 1 del Trattato Lateranense, c’erano delle disposizioni che
prevedevano una tutela privilegiaria a favore della religione dello Stato. Questa situazione
privilegiaria era relativa sia alle fattispecie di reato (nel senso che c’erano alcune fattispecie di reato
previste a tutela solo della religione dello Stato), come l'art. 402 c.p. (sul vilipendio generico) e l'art.
724 co. 1 c.p. (sul reato di bestemmia: contravvenzione che puniva le bestemmie e le invettice
contro la religione dello Stato), sia anche nella quantificazione delle pene. Nel senso che anche le
fattispecie che tutelavano anche i culti ammessi (art. 403, 404 e 405 c.p.) prevedevano però per i
vilipendi qualificati, commessi nei confronti di persone, di cose e come turbatio di funzioni
religiose, delle pene diminuite qualora fossero perpetrati nei confronti di un culto ammesso diverso
da quello cattolico.

Questa situazione di privilegio (motivata dal fatto la religione cattolica fosse religione di Stato) era
rimasta ferma anche dopo l’entrata in vigore della Carta costituzionale; quindi, queste disposizioni
penali non sono state modificate o abrogate successivamente all’entrata in vigore della
Costituzione. Per cui, è capitato che quando ha iniziato a operare la la Corte costituzionale con la
sentenza 1/1956 ha stabilito che si sarebbe occupa anche di decidere della conformità a
Costituzione delle normative precedenti all’entrata in vigore della Carta costituzionale, tra cui le
disposizioni del c.p. (1930).

La Corte si è subito trovata ad avere a che fare con queste norme che presentavano una serie di
criticità in relazione alla Costituzione perché, innanzitutto, tutelavano un bene giuridico (la
religione di Stato) che formalmente non esisteva più, visto che la Carta costituzionale nasceva
aconfessionale. Inoltre, queste norme tutelavano in modo diverso (sia dal punto di vista qualitativo
che quantitativo) la religione di Stato e le altre confessioni religiose (i c.d. culti ammessi). Questo
49

evidente privilegio poteva essere interpretato come una violazione dell'art. 3 Cost. (principio
d’uguaglianza dei singoli) e soprattutto del principio di eguale libertà delle confessioni religiose (ex
art. 8 Cost.).

Fino agli anni ‘90 la Corte ha ritenuto legittime queste norme; quindi, ha sempre rigattato le
questioni di legittimità sottoposte sostenendo che questa differenza di trattamento/privilegio fosse
legittima nell’ottica dell'eguale libertà delle confessioni. Quindi, è evidente che presentava una
lettura debole dell’eguale libertà utilizzando alcuni criteri.

I criteri usati per legittimarli erano:

1. Criterio statistico quantitativo (più utilizzato anche molto a lungo)

→ La Corte diceva che queste norme non tutelano più la religione dello Stato perchè questo bene
giuridico non esiste più, MA in realtà queste norme (superando la qualificazione formale di
religione di Stato) tutelano la religione cattolica in quanto religione dell’assoluta maggioranza (e
quasi totalità) dei cittadini. Quindi, non si tutela più la religione dello Stato (come negli anni ‘30),
ma si tutela la religione del popolo italiano.

Essendo la religione seguita da quasi tutti gli italiani è meritevole di essere seguita con maggiore
forza e vigore e di ricevere una una tutela rafforzata rispetto a quella delle altre confessioni
religione che non presentano queste caratteristiche.

[criterio sconfessato con la sentenza 925/1988]

2. Criterio sociologico (abbastanza simile al criterio quantitativo statistico perchè esprime lo


stesso concetto ma da un diverso punto di vista)

→ Le offese alla religione cattolica devono essere punite più gravemente perché suscitano maggiori
reazioni “emotive” nella società e, quindi, nel popolo italiano.

È evidente che il primo e il secondo criterio sono speculari perchè le offese suscitano maggiori
reazioni perchè la religione cattolica è la religione della maggioranza dei cittadini.

[criterio sconfessato con la sentenza 329/1997]

3. Criterio storico-culturale (utilizzato dalla Corte ma poi successivamente anche ad es. dalla
giurisprudenza amministrativa per legittimare la sussistenza dell’obbligo del crocifisso nelle
aule scolastiche italiane)

→ La religione cattolica deve essere protetta con maggiore intensità perché i principi del
cattolicesimo fanno parte del nostro patrimonio storico-culturale; quindi, fondamentalmente della
nostra cultura.

Secondo questo criterio, quando si protegge in maniera maggiormente intensa o comunque si


ricosce una posizione di privilegio alla Chiesa cattolica non si sta tutelando una confessione
religiosa, bensì la “nostra” cultura. Questo è un criterio molto scivolo che è stato, per certi versi,
anche recipito dal legislatore perchè era lo stesso criterio che il legislatore ha inserito nell’Accordo
del 1984 (art. 9.2). La permanenza dell’ora di religione cattolica, benchè facoltativa, nelle scuole
pubbliche era legittimata proprio facendo ricorso a questo criterio storico culturale perchè si diceva
50

che solo i principi del cattolicesimo (e non quelli di altre religioni) appartenevano al nostro
patrimonio storico culturale italiano. Per cui, in questo senso, era legittimo prevedere un’ora di
religione facoltativa nelle scuole pubbliche con insegnanti pagati dallo Stato.

[criterio utilizzato anche dall’art. 9.2 dell’Accordo per legittimare l’ora di religione facoltativa nelle
scuole].

I primi due criteri sono stati poi sconfessati dalla Corte perché non giustificavano la diversità di
trattamento e non davano ragione dell'eguale libertà delle confessioni e dell’uguaglianza dei singoli
davanti alla legge.

La prima sentenza in cui viene utilizzato il criterio statistico quantitativo è la sent. 125/1957
(quindi, la Corte aveva da poco iniziato a operare).

Questo sistema [disposizioni del Codice Rocco] ha fondamento nella rilevanza che ha avuto ed ha
la Chiesa cattolica in ragione della antica ininterrotta tradizione del popolo italiano, la quasi
totalità del quale ad essa sempre appartiene, nonché ha fondamento nella situazione giuridica
particolare che, in seguito alla composizione del dissidio tra lo Stato e la Chiesa ed alla risoluzione
della questione romana, é stata alla Chiesa riconosciuta dai Patti lateranensi (Trattato e
Concordato) dell'11 febbraio 1929.

Di poco successiva è la sent. 79/1958 sul reato di bestemmia (art. 724 c.p.) che spiega e illustra sia
il criterio quantitativo sia il criterio sociologico in maniera ancora più incisiva.

La norma dell'art. 724 c.p., come altre dello stesso Codice (artt. 402 a 405), si riferisce alla
"religione dello Stato" dando rilevanza non già a una qualificazione formale della religione
cattolica, bensì alla circostanza che questa é professata nello Stato italiano dalla quasi totalità dei
suoi cittadini, e come tale é meritevole di particolare tutela penale, per la maggiore ampiezza e
intensità delle reazioni sociali naturalmente suscitate dalle offese ad essa dirette. Ciò sembra
potersi desumere, oltre tutto, anche dal fatto che il Codice penale talora (art. 405), senza speciale
motivo, parla non già di religione dello Stato, ma di religione "cattolica". Ora, questa universalità
di tradizioni e di sentimenti cattolici nella vita del popolo italiano é rimasta, senza possibilità di
dubbio, immutata con l'avvento della Costituzione. E con essa, per conseguenza, permangono
immutate tutte le ragioni per le quali, nell'art. 724 come in altre norme del Codice penale, il
legislatore ha provveduto a una speciale tutela dei simboli e delle persone della religione cattolica.
➔ Questa sentenza è ancora più incisiva di quella precedente perchè fondamentalmente
considera tutti i 3 i criteri formulandoli in maniera molto coerente e armonica.

Ci sono poi sentenze in cui i criteri vengono sconfessati, partendo dalla sent. 925/1988.

D'altro canto, "la limitazione della previsione legislativa alle offese contro la religione cattolica"
non può continuare a giustificarsi con l'appartenenza ad essa della "quasi totalità" dei cittadini
italiani (v. la sentenza n. 79 del 1958) e nemmeno con l'esigenza di tutelare il sentimento religioso
della "maggior parte della popolazione italiana" (v. la sentenza n.14 del 1973): non tanto vi si
oppongono ragioni di ordine statistico (comunque sia, la religione cattolica resta la più seguita in
Italia), quanto ragioni di ordine normativo. Il superamento della contrapposizione fra la religione
cattolica, "sola religione dello Stato", e gli altri culti "ammessi", sancito dal punto 1 del Protocollo
51

del 1984, renderebbe, infatti, ormai inaccettabile ogni tipo di discriminazione che si basasse
soltanto sul maggiore o minore numero degli appartenenti alle varie confessioni religiose.

Discorso simile la Corte fa nella sent. 329/1997, epoca in cui la Corte aveva già iniziato (1995) a
dichiarare l'incostituzionalità delle norme privilegiare del c.p.; quindi, in questo caso, lo sconfessare
la giurisprudenza precedente è molto più esplicito perchè la Corte arriva anche a dichiarare
l’incostituzionalità delle norme.

L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale rende infine improprio il riferimento, quale


criterio giustificativo della differenziazione operata dalla legge, alla presumibile "maggiore
ampiezza e intensità delle reazioni sociali che suscitano le offese" alla religione cattolica, criterio
talora utilizzato in passato congiuntamente a quello quantitativo (sentenze n. 79 del 1958, n. 39 del
1965 e n. 14 del 1973). Il richiamo alla cosiddetta coscienza sociale, se può valere come argomento
di apprezzamento delle scelte del legislatore sotto il profilo della loro ragionevolezza, è viceversa
vietato là dove la Costituzione, nell'art. 3, primo comma, stabilisce espressamente il divieto di
discipline differenziate in base a determinati elementi distintivi, tra i quali sta per l'appunto la
religione.
➔ Bisogna sottolineare che la Corte preferisce utilizzare il parametro dell’art. 3 Cost. piuttosto
che dell’art. 8 co 1 Cost. perchè il principio d’uguaglianza dei singoli è sempre più semplice
da utilizzare; infatti, dice si parla di sentimento religioso anche dei singoli e, quindi, non si
possono prevedere disipline differenziate anche tra singoli. La Corte sconfessa il richiamo al
criterio sociologico, però lo fa utilizzando la via dell’art. 3 Cost. Ci sono, invece, altre
sentenze in cui il parametro sarà l’art. 8 co 1 Cost.

In conclusione, possiamo dire che questi criteri sono stati utilizzati dalla Corte e in parte sono stati
sconfessati perchè non più ritenuti compatibili con la Carta costituzionale; rimane ancora il criterio
storico culturale, però il criterio conforme a Costituzione per giustificare differenze di trattamento
dovrebbe davvero essere il criterio della specificità.

Seduta 12 aprile 1947 (Onorevole Cappi – Democrazia Cristiana)

Vorrei che mi si credesse quando affermo che dirò una parola schietta a tutti i colleghi
dell'Assemblea: mi sembra che sia una mala sorte della politica italiana degli ultimi decenni (che è
spiegabile con le note situazioni passate, storiche e politiche, che furono superate di fatto il 20
settembre 1870 e furono superate anche di diritto l'11 febbraio 1929), mala sorte che in Italia (la
quale, o per indifferentismo religioso o per una superiore civile tolleranza religiosa non ebbe guerre
di religione) la materia ecclesiastica, la materia dei rapporti fra Stato e Chiesa, sia delicata, e
qualche volta addirittura esplosiva. Voi potete credere che chi vi parla, come pure la totalità degli
amici democristiani di quest'Aula, è decisamente fautore della più ampia libertà religiosa. Chi vi
parla frequentò dall'asilo in poi le scuole pubbliche e fu educato in questo clima di libertà. Per
essere, però, sincero, devo dire che ho talora incontrato negli insegnanti della scuola pubblica
qualche cosa che si può definire un dogmatismo, se non un settarismo, laico. Sarebbe desiderabile,
nell'interesse di quella pace religiosa da tutti invocata, che non vi fossero dogmatismi o settarismi,
né laici né religiosi.

Ora, veniamo al punto. L'onorevole Laconi ha proposto questo emendamento.

52

«Tutte le confessioni religiose sono uguali davanti alla legge». È un emendamento, è una formula
che da noi non può essere accettata. Non può essere accettata perché può implicare, nella sua
formulazione, una specie di giudizio nel merito, sul contenuto delle singole confessioni religiose:
giudizio di parità che — voi lo comprendete — non solo i cattolici, ma neanche gli appartenenti ad
altre confessioni religiose non possono ammettere, perché è impossibile che un credente di una data
fede ammetta una parità con le altre fedi. (Commenti a sinistra). Né lo Stato ha competenza in ciò.

Voi mi dite: «davanti alla legge». Siamo schietti! Quello che preme e che dovrebbe premere
principalmente a voi, se non avete secondi pensieri, è questo: che sia libero l'esercizio della
confessione religiosa e sia libero con parità, tanto per quella religione che raccoglie nel suo seno la
quasi totalità dei cittadini, quanto per quelle confessioni religiose che raccolgono una infima
minoranza.

Questa è l'esigenza della libertà religiosa: che, cioè, qualunque confessione abbia la possibilità di
esercitare liberamente su un piede di uguaglianza con le altre la propria religione.

Cosa si può pretendere di più per rispondere ad una esigenza di libertà e di tolleranza religiosa?

Questo desidererei che gli avversari mi spiegassero.

Se volessi aggiungere qualche considerazione di opportunità a queste considerazioni di ordine


teorico, non dovrei che ripetere quanto, con parola alata e commossa, disse in quest'Aula pochi
giorni fa l'onorevole Calamandrei, quando ricordò le benemerenze della Chiesa cattolica nel
periodo dell'oppressione nazi-fascista; benemerenze, badate, onorevoli colleghi, non ispirate
soltanto ad un principio di umanità, non benemerenze del povero parroco di campagna o del
guardiano di un convento che diede asilo ai perseguitati, ma benemerenze della Chiesa cattolica in
consapevole difesa di un principio di libertà civile e religiosa.

Io vi potrei citare anche una testimonianza dell'Einstein, il grande scienziato israelita, il quale disse
che nell'ultimo ventennio grandi forze dello spirito, come le università, come la stampa, fallirono,
piegarono di fronte all'oppressione nazi-fascista: la sola istituzione che non piegò fu quella della
Chiesa cattolica. (Commenti a sinistra).

Una voce a sinistra. Siamo fuori di strada.

Cappi. Queste vostre interruzioni non vorrei, onorevoli colleghi, dessero ragione a me quando
parlavo di un certo dogmatismo laico.

Ad ogni modo, noi su questo emendamento ci batteremo; che, cioè, le confessioni religiose sono
ugualmente libere di fronte alla legge, perché questo — e il giudizio di qualsiasi uomo sereno non
può essere diverso — garantisce in pieno la libertà di tutte le confessioni religiose. (Applausi al
centro).
• Rubilli. Parlo per dichiarazione di voto, a nome mio ed a nome anche di parecchi amici e
colleghi. Ho seguito con grande attenzione tutto quanto il dibattito che si è svolto intorno
alla questione di cui ci siamo occupati nella seduta antimeridiana e poi in quella
pomeridiana; si è arrivati ad una quasi completa intesa, con votazione pressoché unanime, su
quelli che sono i punti fondamentali della disposizione di legge di cui trattiamo.
• C'è una divergenza soltanto su questo comma, divergenza che io e coloro, a nome dei quali
parlo, non riusciamo in alcun modo a comprendere nella portata e nel significato vero che ad
essa si vuol dare. Pare, infatti, che le due formule proposte dall'una e dall'altra parte siano
completamente uguali.
• E se si volesse, in certo modo, dal punto di vista grammaticale, sofisticare sulle due formule,
si troverebbe, a parer mio, migliore per la libertà religiosa, ed anche dal punto di vista
53

giuridico, quella proposta dalla parte democristiana che non l'altra. Le parole sono queste; la
prima dice: «Tutte le professioni religiose sono egualmente libere di fronte alla legge». La
seconda dice invece: «Tutte le professioni religiose sono uguali di fronte alla legge». Ora,
«ugualmente libere» dice qualche cosa di più e di meglio che non dica la parola «uguali».
(Applausi al centro — Commenti a sinistra).
• Non si può d'altronde stabilire un'eguaglianza completa in ciò che nel fatto e nella realtà non
è uguale, poiché è innegabile che una delle religioni, la cattolica, è in Italia di gran lunga
preminente sulle altre.
• Allora, appunto per questo, non comprendiamo il grande dibattito che si è svolto al riguardo
tra due formule in sostanza accettabili questa mattina e nell'attuale seduta; vi deve essere, e
vi è senza dubbio, dall'una all'altra parte, una divergenza ed un antagonismo di partito. Ma
noi siamo e vogliamo essere estranei a simili competizioni ed a simili manovre; quindi ci
asteniamo dalla votazione.

28/10/2021

Il percorso della laicità in Italia

Principio di laicità e del pluralismo confessionale

Nei lavori preparatori difficilmente si trova la parola “laicità”, poiché nell’ambito dell’Assemblea
Costituente il termine “laico” è quasi sempre collegato a un aspetto negativo della laicità; infatti, si
parla spesso di laicismo per evocare la laicitè de combat di stampo francese e, quindi, un
atteggiamento di ostilità dello Stato nei confronti della religione. Quindi, nei lavori preparatori
quando si accenna alla laicità lo si fa sempre con una sorta di attenzione e distanza.

Mentre spesso si trova l'espressione “aconfessionale”; la maggior parte dei Padri Costituenti
sostiene a più riprese che lo Stato nascente (la Repubblica democratica italiana) doveva essere uno
Stato aconfessionale; quindi, fondamentalmente privo di una religione di Stato.
➔ Intervento nella seduta del 14 Marzo 1947 dell'Onorevole Bruni

Onorevoli colleghi, bisogna decidersi! O fare lo Stato confessionale, con tutte le sue logiche
conseguenze, come esplicitamente lo vogliono i Patti lateranensi, e, in tal caso, bisognerebbe,
modificare sensibilmente gli articoli 7 e 14, o fare lo Stato aconfessionale, come lo vogliono gli
articoli 7 e 14, ed allora bisogna sopprimere o modificare il secondo comma dell'articolo 5.
Onorevoli colleghi, non si può tenere il piede in due staffe; o prendere o lasciare! Qui non è
soltanto questione di logica, ma di elementare onestà. Ed è alla vostra onestà, ch'io, in definitiva,
mi appello, sicuro di non essere deluso. La legislazione italiana sui rapporti tra Stato e Chiesa non
può continuare a dibattersi - come da un secolo a questa parte s'è dibattuta - in una continua
contraddizione, in un continuo compromesso tra vecchio e nuovo, che turba la pace della Nazione.

E’ molto esplicativo questo intervento perchè c’è il collegamento stretto che veniva fatto da alcuni
Padri Costituenti tra il rinnovato confessionismo di Stato e il richiamo contenuto nell’art. 7 Cost. ai
Patti Lateranensi. Cioè, si diceva che se si richiamano i Patti Lateranensi, si richiama anche il
principio confessionista (contenuto nell’art. 1 del Trattato). Alla fine, questo richiamo è rimasto

54

fermo nello stesso momento in cui si declamava l’aconfessionalità dello Stato: questo intento a non
voler creare uno Stato confessionista è molto presente nei lavori preparatori.

Bisogna aspettare i primi lustri di operatività della Corte costituzionale (1956) per cominciare a
vedere i risvolti di quest’a-confessionalità, cioè che cosa ha comportato, perchè la Corte
costituzionale si è trovata proprio a doversi pronunciare sulla conformità a Costituzione di tutte
quelle disposizioni precedenti che avevano visto la luce durante lo Stato totalitario fascista e che
non erano state abrogate. Quindi, la Corte costituzionale si è trovata nella necessità (esclusivamente
in relazione alle norme penali a tutela del sentimento religioso) di riempiere di contenuto il bene
“religione di Stato” che aveva perso i suoi contenuti. Perciò, la Corte si è trovata proprio nella
necessità di riempire un vuoto: esistevano norme penale che tutelavano (in maniera rafforzata e
privilegiata) la religione dello Stato e, venuto meno questo concetto, non si capiva più se queste
norme dovevano rimanere in vigore oppure se dovevano essere abrogate o reinterpretate.

Questo è stato il lavoro dei primi anni della Corte costituzionale e l’ha fatto reinterpretando questo
bene giuridico, cioè reinterpretando il contenuto della formula “religione di Stato” e, quindi,
dotanto queste norme penali di un nuovo bene giuridico. Infatti, la Corte dice che la religione di
Stato non c’è più, MA c’è la religione cattolica che non è più dello Stato (ha perso questa
qualificazione formale che l’art. 1 del Trattato Lateranense le aveva garantito), ma resta comunque
la religione della maggioranza dei cittadini.

Quindi, il primo passaggio della laicità è l’a-confessionalità dello Stato e la presenza di una
religione che non è più dello Stato, ma è del popolo e che, quindi, è meritevole di una tutela
privilegiaria (dai lavori preparatori ai primi interventi della Corte costituzionale).

È evidente che a questo punto non si può proprio parlare di un confessionismo in termini giuridici,
però (come la dottrina importante dell’epoca ha sostenuto) si può parlare di un confessionismo di
costume, cioè di fatto. L’Italia non aveva giuridicamente una sua propria religione MA il popolo
italiano aveva una propria religione e, quindi, poteva avere un senso mantenere in vigore alcune
delle normative precedenti anche quando introducevano una tutela speciale e rafforzata per la
religione cattolica.

Progressivamente e in modo graduale la situazione sociale, politica e, quindi, l’ordinamento


giuridico si modificano. È negli anni ’80 che le cose cominciano a cambiare su tanti fronti: sono
anni di grandi cambiamenti sociali, politici e, quindi, anche giuridici; perciò, aprono anche la strada
alla laicità (passaggio epocale).

Negli anni ’80 si ha la conclusione del processo di revisione dei Patti Lateranensi che era
cominciato molto tempo prima (già alla fine degli anni ‘60): nel 1984 questo lungo processo di
revisione si conclude; lo Stato e la Chiesa stipulano l’Accordo del 1984 che sostituisce il
Concordato del 1929. Questo accordo, benchè si chiami “Accordo di modifica del Concordato”,
non è un vero e proprio accordo di modifica, bensì è completamente sostitutivo del Concordato del
’29, tant’è che l’ultima disposizione di questo accordo dice che le norme non riprodotte del
Concordato si considerano abrogate. È una vera e propria sostituzione: il Concordato del 1929 non
c’è più MA resta in vigore il Trattato del 1929, salvo l’art. 1 del Trattato stesso. Infatti, una
disposizione importante contenuta nell’Accordo del 1984 è che le parti si danno reciprocamente
atto che non sia più in vigore il principio confessionista contenuto nell'art. 1 del Trattato. Questo
55

NON significa (come pure è stato sostenuto da una parte della dottrina e della giurisprudenza) che
questa dichiarazione delle parti contenuta nell’Accordo del 1984 abbia efficacia costitutiva: si
ritiene che questa presa d’atto abbia un’efficacia meramente dichiarativa (che ha comunque un
valore simbolico molto importante) di un’abrogazione che sarebbe già avvenuta con l’entrata in
vigore della Carta costituzionale.

Sempre nel 1984 si apre la prima stagione delle intese: cioè, fondamentalmente comincia ad attuarsi
l’art. 8 co 3 Cost. che prevede che i rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose diverse dalla
cattolica sono regolati per legge sulla base d’intese con le relative rappresentanze. Questo comma è
rimasto inattuato dall’entrata in vigore della Costituzione fino al 1984, quando la Tavola Valdese
stipula la prima intesa con lo Stato italiano e, quindi, da vita al principio pattizio e al pluralismo
confessionale anche in relazione alle norme pattizie. Da lì a qualche anno ne seguiranno altre fino ai
giorni nostri. Si attua quindi concretamente per la prima volta l'art. 8 Cost., che vede nelle intese lo
strumento di regolazione del rapporto confessioni-Stato.

Sempre negli anni ’80 c’è in prima battuta il superamente espresso del criterio statistico quantitativo
per legittimare differenze di trattamento a favore della religione cattolica (sent. 825/1988 in materia
si bestemmia). Inoltre, la Corte Costituzionale con la sentenza 203/1989 inserisce la laicità nel
novero dei princìpi supremi. Quindi, questa è una sentenza storica perchè non solo la Corte parla
per la prima volta di laicità (dice che l’Italia è uno Stato laico), ma addirittura inserisce la laicità nel
novero dei principi supremi; questo vuol dire che anche le norme pattizie (gli accordi con la Chiesa
cattolica) devono rispettare tale principio (perchè si trova all’apice dei principi costituzionali).
Questo inserimento della laicità nel novero dei principi supremi è una pietra miliare della
giurisprudenza della Corte nel diritto ecclesiastico a maggior ragione perchè la laicità non è
espressamente prevista nell’ambito della nostra Carta costituzionale; quindi, la Corte ha dovuto
collegare questo principio supremo a una serie di disposizioni della Costituzione che costituiscono
un sottosistema d’importanza centrale nel diritto ecclesiastico.

Dopo il 1989 la giurisprudenza della Corte costituzionale prosegue a parlre di laicità, utilizza più
volte il principio di laicitò e, utilizzandolo, lo arricchisce di contenuti, o meglio di corollari.

Caratteristiche della laicità italiana nella giurisprudenza costituzionale


➔ Sent. 203/1989

I valori richiamati concorrono, con altri (artt. 7, 8 e 20 della Costituzione), a strutturare il


principio supremo della laicità dello Stato, che è uno dei profili della forma di Stato delineata nella
Carta costituzionale della Repubblica. Il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e
20 della Costituzione, implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello
Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e
culturale.

La laicità diventa principio supremo. E questo principio supremo struttura la nostra forma di Stato:
fondamentalmente la Corte dice che il principio è supremo perchè è parte essenziale della nostra
forma di Stato democratico repubblicano uscente dalla Carta costituzionale.

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La Corte aggiunge che il principio di laicità, pur non essendo espressamente previsto nella Carta,
emerge da tutta una serie di articoli che riguardano direttamente il fenomeno religioso, la religione e
i rapporti con le confessioni religiose (art. 2 -riconoscimento e garanzia dei diritti inviolabili
dell’uomo-, 3 -principio d’uguaglianza-, 7, 8, 19 -libertà religiosa dei singoli-, 20 -principio di non
discriminazione degli enti religiosi-). Però, la Corte struttura un principio di laicità particolare che
viene definito laicità positiva o all’italiana: questo principio di laicità che si evince da questi
articoli della Carta costituzionale non implica indifferenza nei confronti delle religioni, anzi lo Stato
italiano pensa che la scelta religiosa vada salvaguardata e garantita positivamente. Quindi,
l’atteggiamento positivo dello Stato nei confronti delle religioni è una conseguenza della volontà
dello Stato di garantire in maniera più ampia possibile la libertà religiosa. Lo Stato guarda
benevolmente (non con indifferenza) le religioni proprio perchè vuole garantire e ampliare il più
possibile i confini della libertà religiosa.

MA la Corte aggiunge che tutto ciò deve avvenire in un regime di pluralismo confessionale e
culturale. Cioè, nell’occuparsi delle religioni, nel non essere indifferente e nel salvaguardare la
libertà religiosa lo Stato deve avere come obiettivo la realizzazione e la garanzia di una società
pluralista, sia dal punto di vista confessionale sia dal punto di vista culturale. “Regime di
pluralismo” vuol dire che in questa società plurale lo Stato deve garantire la sopravvivenza, la
sussistenza e il libero scambio di tutte le fedi e di tutte le culture. In un regime di pluralismo
confessionale culturale implica equidistanza dello Stato nei confronti delle confessioni religiose,
come dichiarato nella sentenza 329/1997 e presuppone il principio di separazione degli ordini come
nella sentenza 334/1996.

Queste sono le caratteristiche essenziali di questa laicità all’italiana o positiva, cioè una laicità che
mira alla garanzia della laicità religiosa in maniera ampia, non dimenticando però che deve
garantire anche un pluralismo confessionale e culturale; quindi, il tutto non può tradursi in
disposizioni privilegiarie o discriminatorie. E la Corte struttura la laicità in questo modo proprio nel
momento in cui dice che l’ora di religione cattolica facoltativa nelle scuole pubbliche non contrasta
con questo principio di laicità. In questo senso la sent. 203/1989 è una sentenza compromissoria
perchè per un verso struttura la laicità come principio supremo e lo ricava dalla Carta
costituzionale, ma per altro verso la struttura in modo tale da renderla anche compatibile con un
istituto particolare che è l’ora di religione facoltativa nelle scuole pubbliche, che è stata giustificata
dall’assunto che i principi del cattolicesimo facevano parte del nostro patrimonio storico culturale.

Questo regime di pluralismo confessionale e culturale è compatibile con l’utilizzo di questo criterio
storico culturale? Cioè, si può legittimare una differenza di trattamento e, quindi, uno status
favorevole a una confessione in ragione dell’essere i suoi principi parte integrante della nostra
cultura quando dobbiamo garantire proprio un pluralismo anche culturale? In un regime di
pluralismo confessionale e culturale si può prevedere discipline di favore per una confessione i cui
principi fanno parte del patrimonio storico culturale?

La Corte riprende il principio di laicità in molte sentenze successive. In una di queste sentenze
(sent. 508/2000) in materia di reati a tutela del sentimento religioso, la Corte dice espressamente
che questo principio di laicità positiva NON implica indifferenza e astensione dello Stato dinanzi
alle religioni MA legittima interventi legislativi a protezione della libertà religiosa.
Quest’affermazione è già contenuta nella sent. 203/1989 quando si palrava di garanzia dello Stato
57

per la salvaguardia della libertà di religione, però si esplicitano meglio i contenuti di questa frase
così pregnante: lo Stato può fare interventi legislativi che tutelino e ampliano la libertà di religione
(interventi positivi a favore della libertà religiosa) perchè è proprio questo l’obiettivo della laicità
positiva. Però, tutto ciò deve intervenire in regime di pluralismo confessionale e culturale. Non è un
caso che in questa sentenza la Corte dichiara l’incostituzionalità dell’art. 402 c.p. perchè tutelava
solo la religione dello Stato e non le altre religioni.

Riassumendo, potremmo così delineare le caratteristiche di questa laicità positiva:


• NON implica indifferenza nei confronti delle confessioni religiose.
• Legittima interventi a favore della libertà religiosa (sent. 508/2000)
o In un regime di pluralismo confessionale e culturale.
• NB! Equidistanza dello Stato nei confronti delle confessioni religiose (si collega
all’eguale libertà, al criterio di ragionevolezza e al pluralismo confessionale e culturale; ne è
corollario e presupposto) Questo è davvero il punto d’approdo della giurisprudenza della
Corte costituzionale in materia di reati a tutela del sentimento religioso: cioè, dopo un lungo
percorso e strenui tentativi di salvataggio di queste norme penali da parte della Corte, a
partire dal 1995 inizia a mettere mano su queste norme penali. Vuol dire che inizia a
dichiararne l’incostituzionalità.
Fino al 1995 la Corte aveva cercato di salvare a tutti i costi la conformità a Costituzione
delle norme del Codice Rocco (artt. 402 ss c.p.) e lo aveva fatto utilizzando il criterio
sociologico, il criterio quantitativo statistico e il criterio storico culturale. Nel 1995 la Corte,
superato il ricorso a questi criteri, incomincia a dichiarare a più riprese l’incostituzionalità di
questa norma (sent. 329/1997, sent. 508/2000 e poi con altre sentenze successive). Quindi,
negli anni ’90 e 2000 la Corte interviene su queste norme penali dichiaandone
l’incostituzionalità e lo fa proprio parlando di equidistanza dello Stato nei confronti delle
confessioni religiose.

L’art. 8 co 1 Cost. (eguale libertà delle confessioni religiose) viene tradotto in queste sentenza come
equidistanza, che NON vuol dire eguaglianza di trattamento sempre e in ogni caso, non vuol dire
che lo Stato deve trattare le confessioni religiose sempre nello stesso modo, MA vuol dire che deve
essere equidistante e, quindi, le differenze di trattamento devono essere legittimate (devono seguire
un criterio di ragionevolezza compatibile con la Carta costituzionale).

Tutto ciò viene tradotto in queste sentenze della Corte in materia di reati a tutela del sentimento
religioso con l’equisistanza nei confronti delle confessioni religiose.

Qual è l’esito di questa giurisprudenza? La parificazione della tutela.

Grazie alla declamata equidistanza e all’art. 8 co.1 Cost., la Corte costituzionale procede a
parificare la tutela nei confronti delle confessioni religiose (prima del legislatore).
• Principio di separazione degli ordini (secondo presupposto anch’esso declamato dalla Corte
come strettamente collegato al principio di laicità)

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E’ anch’esso un principio irrinunciabile legato alla laicità: non si può parlare di Stato laico se
non si presuppone uno Stato che decide di non occuparsi direttamente delle materie/aspetti che
attengono specificamente all’ordine delle cose spirituali. Se lo Stato non rinuncia a disciplinare
direttamente le materie che attengono all’ordine spirituale, non si potrà parlare di uno Stato
laico, democratico e neppure di una sostanziale libertà religiosa dei singoli e dei gruppi perchè
se lo Stato subentra direttamente nell’ordine spirituale, è evidente che parlare di una libertà
religiosa è estremamente riduttivo.

Esempi dei principali settori nei quali, dal 1989 in poi, è stato utilizzato (non solo ma anche ) il
principio di laicità per dichiarare l’incostituzionalità di alcune disposizioni normative sia
antecedente che succesisva all’entrata in vigore della Carta costituzionale.

La cosa peculiare è che si tratta SOLO di discipline unilaterali, cioè di norme emnate in via
unilaterale dal legislatore statale o regionale, ma non si tratta mai di norme pattizie (= norme
inserite in accordi con la Chiesa cattolica o in intese con le confessioni diverse dalla cattolica),
anche perchè l’unica sentenza in cui la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità di una norma pattizia
è la sent. 18/1982 che ha visto la luce prima dell’Accordo del 1984 e comunque in un periodo
storico in cui non esistevano ancora intese con confessioni diverse da quella cattolica.
Fondamentalmente questa rimane l’unica sentenza in cui la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità
di una norma pattizia utilizzando i principi superi del diritto di difesa nel suo nucleo essenziale e la
tutela inderogabile dell’ordine pubblico internazionale.

Il settore principale su cui la Corte è intervenuta richiamando anche il principio di laicità è quello
dei reati a tutela del sentimento religioso.

La prima sentenza che ha accolto la questione di incostituzionalità è la sent. 440/1995 sul reato di
bestemmia: è stata una sentenza molto discussa dalla dottrina perché la Corte ha fatto una c.d.
operazione di ortopedia giuridica, cioè ha ritagliato una parte della norma togliendo il riferimento
alla religione dello Stato e, quindi, consentendo una pari condanna delle bestemmie contro una
generica divinità. Questa sentenza ha fatto molto discutere perchè è stata tacciata di essere
colpevole di ampliare il novero delle fattispecie punibili in materia penale, in cui vige un rigido
principio di riserva di legge (legato anche al principio di determinatezza della fattispecie penale)
che dovrebbe impedire a chiunque, Corte compresa, di creare nuove fattispecie incriminatrici. La
dottrina ha ritenuto che questo ritaglio della norma (= parte relativa alla religione dello Stato) e,
quindi, l’ampliamento dell’oggetto di tutela a tutte le divinità avrebbe raggiunto l’esito di ampliare i
fatti punibili.

Al di là di questa critica, è stata la prima sentenza in cui la Corte ha parificato, cioè si è richiamata
all’equidistanza, anche se più che all'equidistanza dello Stato dalle confessioni religiose il
riferimento era alla coscienza religiosa di tutti perchè si riteneva che qui fosse tutelato il sentimento
religioso dei singoli che meritava una pari tutela. In realtà, l’equidistanza dello Stato inizia a essere
utilizzata nella sentena successiva del 1997.

Nel 1999 il reato di bestemmia è stato depenalizzato ed è diventato illecito amministrativo.

Successivamente la Corte con le sentenze 329/1997 e 508/2000 ha fatto la stessa operazione verso il
vilipendio qualificato alla religione dello Stato (art. 403 c.p.) e il vilipendio generico (art. 402 c.p.).
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L’art. 402 c.p. era strutturato in un modo tale da non consentire un altro intervento di ortopedia
giuridica come quello fatto per il reato di bestemmia perchè, al contrario del reato di bestemmia che
era strutturato in un modo tale da prevedere una serie di oggetti su cui poteva ricadere la bestemmia
(divinità, simboli, persone) e quindi consentiva un ritaglio non così evidentemente (a dire della
Corte) in violazione del principio di riserva di legge in materia penale, l'art. 402 c.p. aveva una
formulazione molto laconica cioè puniva in modo generico il vilipendio contro la religione dello
Stato. In questo caso, togliere la specificazione “dello Stato” avrebbe sicuramente comportato un
allargamento delle fattispecie punibili e avrebbe comportato una violazione del principio di riserva
di legge in materia penale.

Questo è il motivo per cui la sent. 508/2000 non estende la tutela anche alle altre confessioni
religiose ma dichiara semplicemente l'incostituzionalità dell'art. 402 c.p. sic et simpliciter. Quindi,
non potendo estendere ma volendo comunque salvaguardare l’equidistanza dello Stato nei confronti
delle confessioni religiose la Corte parifica non verso l’alto (come aveva fatto per il reato di
bestemmia), ma verso il basso, cioè togliendo tutela a tutti.

Poi, con la sent. 329/1997 e le sentenze successive la Corte interviene sugli artt. 403, 404 e 405 c.p.,
che tutelavano già anche le confessioni diverse dalla cattolica, ma prevedevano pene diminuite. In
questo caso, l’intervento della Corte non è sul testo della norma, ma solo sulle pene e, quindi,
applica la pena “diminuita” a tutte le fattispecie di vilipendio (sia contro la religione cattolica sia
contro le altre confessioni religiose).

All’esito di questo lungo percorso di giurisprudenza costituzionale (che inizia nel 1995 e finisce nel
2005), la Corte (applicando l’eguale libertà delle confessioni, l’uguaglianza dei singoli,
l’equidistanza dello Stato e anche la tutela della coscienza religiosa in relazione all’art. 3 Cost)
parifica la tutela penale di TUTTE le confessioni religiosi; quindi, persegue una strada di reale
equidistanza.

Nel 2005 la tutela penale è parificata per tutte le confessioni religiose prima dell’intervento del
legislatore perchè solo l'anno dopo interviene il legislatore con la l. 85/2006 per rafforzare questa
tutela oltre che per novellare altri aspetti normativi. Quindi, è una novella generale che interviene su
reati ritenuti e definiti di opinione, il cui obiettivo è quello di restringere il novero dei fatti punibili.
Quindi, il legislatore interviene nel 2006 di fatto modificando in parte le norme e agendo anche nel
testo delle norme con l’obiettivo di parificare la tutela (obiettivo che nella sostanza era già stato
raggiunto dalla Corte costituzionale). Queste nuove disposizioni sono obiettivamente cambiate
rispetto a quelle del 1930: l’unica differenza non è la parificazione della tutela, ma ci sono anche
altre differenze come il fatto che non sia stato riprodotto il vilipendio generico. Cioè, l’art. 402 c.p.
(che era stato dichiarato incostituzionale dalla Corte) non è stato riprodotto (neanche a tutela di tutte
le confessioni religiose). Ma anche le altre previsioni (artt. 403, 404, 405 c.p.) sono state riproposte
con una tutela parificata ma con alcune importanti differenze sostanziali.

Altro settore in cui la Corte ha usato anche il principio di laicità è l’edificazione degli edifici di
culto. Quindi, la Corte ha utilizzato il principio di laicità in questo settore, cioè in relazione a
discipline emanate successivamente all'entrata in vigore della Carta costituzionale. Si parla di
discipline regionali degli anni ’80-’90 (circa), cioè il legislatore regionale era intervenuto per
disciplinare l’edificazione degli edifici di culto e soprattutto per prevedere i criteri di riparto delle
60

risorse disponibili per l’edificazione e per il reparto delle aree edificabili. Quindi, era intervenuto in
questa materia di sua competenza con una serie di leggi sull’urbanistica e sul governo del territorio
che prevedevano alcuni criteri di riparto: nella sostanza prevedevano di ripartire i contributi
economici e le aree edificabili alle sole confessioni religiose che avessero un intesa con lo Stato con
esclusione delle altre (ai tempi non erano molte le confessioni religiose dotate di intese).

Quindi, queste leggi vengono dichiarate incostituzionali dalla Corte (negli anni ’90 e poi negli anni
2000) e la Corte nell’utilizzo di questo criterio dell’intesa fa ricorso proprio al principio di laicità, al
principio di equidistanza dello Stato verso le confessioni religiose, soprattutto al principio di eguale
libertà e della pari dignità delle confessioni religiose e al principio di libertà religiosa.

Ultime settore in cui la Corte ha utilizzato anche il principio di laicità a più riprese è la formula del
giuramento (sent. 334/1996). Nei processi civili e penali erano previste molte situazioni in cui
qualcuno (che siano i testimoni, i periti e a volte anche le parti) è chiamato a giurare per dare
maggiore forza e credibilità al suo impegno a dire la verità o ad adempiere al proprio compito. In
questa sentenza, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità di questa formula del giuramento facendo
ricorso al principio di laicità collegato al principio di distinzione degli ordini. Nel senso che la Corte
ha detto che lo Stato (in forza del principio di distinzione degli ordini; quindi, della rinuncia a
occuparsi di questioni e materie che rientrano nell’ordine spirituale) NON può utilizzare formule,
apparati, istituti che non attengono all’ordine temporale di ordine per dare maggiore credibilità e
forza a istituti che, invece, appartengono all’ordine temporale (come il giuramento in processo di un
perito che promette di svolgere diligentemente il proprio compito). Fondamentalmente la Corte dice
che il principio di distinzione degli ordini implica anche la rinuncia dello Stato a utilizzare
strumenti di natura religione (cioè, l’invocazione a un essere soprannaturale) per dare maggiore
credibilità e forza ad atti e comportamenti che, invece, hanno delle evidenti conseguenze nell’ordine
temporale. Quindi, questa sentenza è molto importante perchè trae dal principio di distinzione degli
ordini e dal principio di laicità delle conseguenze molto rilevanti sul piano pratico. Lo Stato non
deve chiedere adempimenti che attengono a un ordine che non è il proprio, si deve limitare al
proprio ordine.

È peculiare che la Corte costituzionale abbia utilizzato il principio di laicità solo in relazione a
discipline unilaterali, soprattutto quando la Corte ha detto (per le leggi regionali) che lo Stato non
può utilizzare lo strumento dell’intesa per discriminare le confessioni perchè l’intesa non può essere
utilizzata dal legislatore unilaterale per porre discipline differenziate. Dopo aver detto ciò, però,
mostra una certa reticenza nell’applicare il principio di laicità di fronte a norme di origine pattizia;
quindi, la Corte non ha (fono ad adesso) mostrato di utilizzare questo principio nei pochi giudizi di
incostituzionalità delle norme pattizie.

La Corte costituzionale ha fornito un’interpretazione molto discussa e discutibile dei rapporti tra
l’eguale libertà e la laicità, da un lato, e la bilateralità, dall’altro, nei confronti delle confessioni
diverse dalla cattolica. Quindi, questo rapporto conduce a ritenere che questo principio di laicità
venga interpretato dalla Corte in maniera slegata dalla legislazione bilaterale.

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29/10/2021

La tutela penale del sentimento religioso

Codice rocco: strettissima relazione tra il cicce il fascismo perché lo stato scegliere di tutelare i
contenuti della religione; come parte integrante della propria identità di stato istituzione.
Vengono creati due nuovi beni giuridici: dal tratta del 1929 e dalla legge dei culti ammessi, si
possono definire elementi normativi perché rimandano a due diverse norme. Vengono tutelati da
questi dissezione normative in quanto uno regione dello stato, vengono tutelati anche i culti
ammessi.

Non ricevono una tutela equivale :


- Art 402 vilipendio generico: tutela solo la religione dello stato.
- Art.403,404,405, 406 vilipendi qualificati e non generici

Vi era un altra norma art.724 (contravvenzione che puniva la bestemmia) invettive contro la
divinità e i simboli o la religione dello stato.

1 - La qualificazione del bene giuridico: se uno degli elementi essenziale non è determinato la
fattispecie Vine considerato incostituzionale, non riguardava la tutela differenziata ma che cosa
tutelavano queste norme ì Individuazione del bene giuridico: vi fosse un buco giudico ( rinvio all
art 1 del trattato perché non più in vigore e in palese contrasto con una serie di disposizioni
costituzionali ) non vi è più il bene giuridico. Che cosa tutelano queste norme? Devono essere
condirete incostituzionali perché non vi è più alcuna fattispecie da tutelare

2- Tutela disuguale: infarto in contrasto con art 3 e art 8 1 comma della costituzione: queste norme
sono incostituzionali perché prevedono una tutela disuguale per le confessioni diverse da quella
cattolica.

3- Rapporto con art. 19 e 21 essendo norme tipicamente reati di opinione riconosceva la libertà di
pensiero,

Entrata in vigore della carta costole pone questi 3 problematiche

Le prime due questioni vennero risolte facendo ricorso ad un unico ricorso vengono accorpate in
alcune sentenze e facendo ricorso ad un’unico argomento. Questo norme non tutelano la religione
dello stato, tutelano quella che era la religione dello stato ma che oggi è la religione cattolica,
trasprma l’elemento normativa in un elemento descrittivo: non vi è più la norma ma vi è la tutela di
una religione concreta.

La corte fa ricorso hai famosi tre criteri: sociologico, quantitativo e culturale e la religione cattolica
deve rivedere una tutela maggiore, il ricorso ai tre criteri per rispondere anche alla seconda
domanda; la corte fa un operazione ( furba) per evitare che ambito di applicazione art. 8 ( qui si
tutela il sentimento religioso di tutti) perché la corte può evitare di incorrere nell’art. 3

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Questa situazione si protrae per tutti gli anni 60, negli anni 70 viene introdotta una novità, la corte
cerca di trovare un referente costituzionale a questi reati contro il sentimento religioso, avevano
comunque anche un aggancio anche nella nostra carta costituzionale. Individuato nell art 19; il
sentimento religioso non è altro che un aspetto della libertà religiosa, lo dipendo anche da offesa e
da vilipendio e attacchi ( se tutela la libertà religiosa dei singoli) nel richiamare art. 19 no fa altro
che sottolinea la distinzione fra i vari culti.
La corte manda un monito al legislatore ( parificazione della tutela del sentimento religioso per tutte
le confessioni).

Anni 80
- Sent. 1988/ 925 : è ancora una sentenza di rigetto, relativa al reato di bestemmia; la corte manda
un secondo monito al legislatore, la corte sconfessa apertamente al criterio critico- quantistico.
Non rischiara incosituzionalità ma trova alla norma uno nuovo bene giuridico da tutelare
( fenomeno del buon costume) art 724. Fine anni 80 stipulato già il nuovo accordo con la chiesa
cattolica

Negli anni 90 sentenze nella quale la corte dichiara incosutuoznalità facendo ricorso art.3, art.8 1
comma e al principio supremo di laicità, e in questi casi la corte parla di equidistanza;

- Sent. 440/1995: contro la bestemmia:davanti all’inerzia del legislatore la corte vuol ristabilire un
equidistanza tra confessino religiose; in che modo può farlo? In materia penale vige un rigoroso
principio di riserva di legge, l’operazione di allargamento e pericolosa in materia penale,
amplierebbe la categoria dei reati, creando nuove fattispecie di reato. La corte opto per una
parificazione negativa per dichiarare incostituzionalità dell’arte 724. La corte adotta una
soluzione intermedia ( definita dalla dottrina ortopedia giuridica) posto che la norma tutela la
divinità e i simbolici le persone della religione dello stato, si intende (diventa: ampliandola a
tutele le divinità dei vari culti religiosi) dichiaro incositituzioanalità dei simboli, persone e
religione ( incostituzionalità parziale). 1999 illecito amministrativo- depenalizzazione.

- sent 508/2000: art 402 chiunque pubblicamente vilipendi la religione dello stato; è punito con la
reclusine fino ad un anno. Dichiarazione dell’incostituzionalità dell’arte. 402

La corte interviene sui restanti articoli: dal 1997 al 2006 la corte interviene su questi articoli;
impattano molto bene la riserva di legge in materia penale. In queste sentenze la corte dice che
queste norme sono incostituzionali nella parte cui qui prevedrò pene diminuite per alcune
fattispecie.

. Sent. 329/1997: a corte sconfessa il criterio sociologico

Nel 2006 com’è cambiata la situazione? Art 724 e stato depenalizzato, art 402 e stato abrogato e
alle altre fattispecie le pene sono state diminuite. Nel 2004 la corte aveva finito il suo lavoro;
raggiungendo equidistanza con una serie di interventi a raggiunge una tutela paritaria per tutti. In
questa situazione interviene il legislatore: nella legge 86 del 2006 in un più ampio modifica molte
fattispecie, portando avanti un obiettivo univoco; ovvero di ridare centralità alla libertà di pensiero.

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La prima scelta del legislatore e di non riproporre art 402, aveva certato di parificare le tutele ma
parla di confessioni religiose art 403, 404, 405, 406 vengono riscritti ,a invece di religione dello
stato si parla di confessioni religiose: verrà trasporto art 8.

Si pone il problema: che cos’è una confessione religiosa? Qualificazione in materia penale assume
un rilievo decisivo, gli articoli restano più meno sibili con un piccolo accorgimento cioè che viene
unito con bene detentiva soltanto gli atti (comportamenti che prevedono un inizio dell’azione)
mentre le espressione del pensiero (opinione) sono puniti con pena detentiva.

02/11/2021

L’autonomia confessionale e i suoi limiti (art. 8, comma secondo Cost.)

Art. 8 comma 2 Cost.

Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri
statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano.

Il secondo comma dell’art. 8 Cost. prevede l’autonomia statutaria delle confessioni religiose;
quindi, è un comma molto importante che rappresenta il secondo gradino della piramide rovesciata
perchè racchiude un ambito soggettivo più ristretto rispetto a quello del primo comma. Infatti,
mentre il comma 1 ha come ambito soggettivo tutte le confessioni religiose, non così il secondo
comma che introduce il diritto delle confessioni religiose di organizzarsi secondo propri statuti. In
questo senso, l’ambito soggettivo si riduce perché non sono tutte le confessioni religiose, ma
riguarda solo quelle che decidono di organizzarsi e di darsi un proprio statuto.

In base alla lettera del secondo comma, questo diritto sembrerebbe riferirsi solo alle confessioni
religiose diverse dalla cattolica. È evidente che non è così perché il diritto di organizzarsi secondo
propri statuti attiene anche alla confessione cattolica, ma la precisazione deve essere letta nell’ottica
del “doppio binario” art. 7 e art. 8 della Costituzione. Quindi, posto che alla confessione cattolica
era già stato dedicato un articolo della nuova Carta costituzionale (composto di 2 commi) e che,
quindi, l’autonomia statutaria della confessione cattolica era già stata riconosciuta dall’art. 7 Cost.
(che addirittura parla d’indipendenza e sovranità della Chiesa nel proprio ordine), l’art. 8 co 2 Cost.
mostra di riferirsi a quelle confessioni che non avevano ancora ottenuto questo riconoscimento,
ovvero le confessioni diverse da quella cattolica.

Quindi, l’art. 8 co 2 Cost. garantisce alle confessioni diverse dalla cattolica di organizzarsi secondo
propri statuti con il limite di non contrastare con l’ordinamento giuridico italiano.

Con riferimento al diritto di organizzarsi secondo propri statuti, la prima cosa da dire è che è un
diritto, NON è un obbligo. Quindi, le confessioni religiose possono liberamente scegliere se
organizzarsi o meno. E’ assolutamente garantito anche il diritto di NON organizzarsi e, quindi, di
rimanere delle semplici comunità di vita in comune. Anche le confessioni che non si organizzano e,
quindi, che non si dotano di una propria organizzazione, resta egualmente libere. Perciò, anche
queste confessioni (in quest’ottica vi sono pronunce della Corte costituzionale che confermano
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questo assunto) NON possono essere discriminate in ragione della mancata organizzazione (di per
sè non dovrebbe costituire motivo di differenze di trattamento non ragionevoli).

Quindi, TUTTE le confessioni religiose sono egualmente libere, anche quelle che decidono di non
organizzarsi; però, se le confessioni si organizzano, godono di un’amplissima autonomia statutaria.

È evidente il collegamento con l’art. 7 co 1 Cost.: i 2 commi sono strettamente collegati perchè
all’interno di essi è possibile rinvenire gli stessi principi fondamentali, cioè le confessioni che
decidono di organizzarsi sono ordinamenti giuridici indipendenti e sovrani nel proprio ordine.
L’organizzazione e lo statuto rendono queste confessioni religiose indipendenti e sovrane nel
proprio ordine; quindi, c’è sia il principio di distinzione degli ordini sia l’indipendenza istituzionale
delle confessioni religiose.

Cosa implica nei fatti questa potestà statutaria? Implica che le confessioni religiose, in quanto
ordinamenti originari (= non derivati dallo Stato; autocefali), possono fissare in via autonoma le
disposizioni/regole che disciplinano la loro vita interna. Cioè, sono sovrane nell’autoregolarsi, nel
darsi una disciplina che regoli l’interna corporis. Queste norme statutarie (= statuti) sono
completamente emanati, fissati dalla confessione stessa che decide liberamente la propria disciplina
interna.

Di contro, proprio in ragione del principio di distinzione degli ordini, lo Stato NON ha nessuna
competenza a emanare questi statuti; quindi, non può in nessun modo intervenire su questi statuti.
Perciò, la rinuncia dello Stato a occuparsi di questioni che ineriscono nell’ordine delle cose
spirituali implica, altresì, la rinuncia a emanare direttamente gli statuti delle confessioni religiose
che sono lasciati all’autonomia di queste ultime. È un principio molto importante che racchiude altri
principi: la distinzione degli ordini, l’indipendenza e la sovranità delle confessioni e l’originarietà
delle confessioni; conseguenza di tutti questi principi è il riconoscimento di un’autonomia
statutaria.

Conseguenza logica e irrinunciabile di tutto ciò è che questi statuti (una volta emanati) sono e
restano fonti esterne all’ordinamento dello Stato. Vuol dire che NON fanno parte della gerarchie
delle fonti interne e, di conseguenza, NON possono essere modificate, abrogate, dichiarate
incostituzionali. Gli organi dello Stato (che sia il potere legislativo o il potere giudiziario) non
possono intervenire su questi statuti. Perciò, non si può immaginare un legislatore che intervenga
direttamente su una norma statutaria o una norma di derivazione confessionale cercando di
modificarla o addirittura di abrogarla e tantomeno queste disposizioni (non essendo leggi dello
Stato) possono essere dichiarate incostituzionali.

Ciò nonostante, abbiamo delle sentenze della Corte costituzionale in relazione a uno statuto
confessionale che era lo statuto della religione ebraica. Queste sentenze sono preziose perchè ci
aiutano a interpretare alcuni contenuti dell’art. 8 co 2 Cost. che forse non sarebbero stati di così
facile interpretazione e perchè certamente non ci saranno altre sentenze sulla conformità a
Costituzione di statuti confessionali. La motivazione dell’esistenza di queste sentenze è che nel
1931, per motivi legati alla situazione politica del tempo, lo statuto della religione ebraica era stato
recepito da un regio decreto dell’Italia. Il motivo che aveva spinto lo Stato italiano a riconoscere lo
statuto della confessione ebraica (e non lo statuto di altre confessioni religiose) è facilmente
intuibile perchè è legato a motivazioni ed esigenze fondamentalmente di controllo. Quindi, lo
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statuto della religione ebraica era stato recipito con un regio decreto del 1931 che è
fondamentalmente rimasto in vigore fino all’emanazione dell’intesa con la confessione ebraica (di
pochi anni successiva alla Tavola valdese). Quando era ancora in vigore, questo regio decreto è
stato dichiarato incostituzionale dalla Corte costituzionale in più occasioni: nella sentenza del 1990
la dichiarazione d’incostituzionalità è stata proprio legata all’art. 8 co 2 Cost. inteso come diritto
all’autonomia statutaria (“le leggi italiane non possono dettare statuti confessionali”).

Ci sono 2 sentenze precedenti in cui la dichiarazione d’incostituzionalità dello statuto riguarda


alcune norme precise (non lo statuto nella sua generalità) che ci aiutano nell’interpretazione del
secondo comma dell’art. 8 Cost. soprattutto nella parte legata ai limiti dell’autonomia statutaria.
➔ Seconda parte della disposizione dell’art. 8 co 2 Cost.: limiti all’autonomia statutaria.

Gli statuti non possono contrastare con l’ordinamento giuridico italiano Limite del non contrasto
con l’ordinamento giuridico italiano.

Questa disposizione è stata oggetto di qualche discussione all’interno dell’Assemblea Costituente


soprattutto perchè alcuni Padri Costituenti avrebbero voluto riproporre con questo limite lo stesso
limite che era inserito nell’art. 1 della legge sui culti ammessi (l. 1159/1929), che prevedeva che
fossero ammessi nell’ordinamento solo quei culti che non professassero principi e non seguissero
riti contrari all’ordine pubblico e al buon costume. Quindi, c’era questo quadruplice ordine di limiti
che interessava sia i principi sia i riti sia l’ordine pubblico sia il buon costume. Quello che una parte
dei Padri costituenti voleva ripristinare era un limite che, per certi versi, fosse paragonabile al limite
dell’ordine pubblico e del buon costume in relazione ai contenuti degli statuti. È evidente che non
possiamo immaginare nell’ordinamento democratico di ripristinare quel tipo di limite e di controllo
e soprattutto non possiamo immaginare un limite legato ai principi perchè evidentemente i principi,
anche se contenuti negli statuti, non possono essere limitati o sottoposto a nessun tipo di controllo
(nè preventivo nè successivo). Non è possibile prevedere un limite per i principi confessionali.

Quindi, dopo un’abbastanza breve discussione, si è arrivati a questa soluzione: cioè, che gli statuti
non possono contrastare con l’ordinamento giuridico italiano.

Domande:

1. La prima domanda riguarda l’ambito soggettivo (= soggetti che sono sottoposti al limite del
non contrasto): Quali sono le disposizioni statutarie a cui è indirizzato il limite? Cioè, quali
disposizioni statutarie non devono contrastare con l’ordinamento giuridico?

La risposta più semplice e immediata è: le disposizioni statutare, ossia tutto ciò che è contenuto
nello statuto. In realtà, questa non è la risposta corretta perchè è evidente che gli statuti,
generalmente intesi, contengono le norme, le disposizioni e le discipline più varie, alcune di ordine
meramente organizzativo (che, quindi, prevedono delle regole per l’organizzazione della
confessione religiosa), altre che sono espressione di principi confessionali (che possono avere un
particolare grado di irrinunciabilità). Quindi, è evidente che quando si parla di statuti non si
chiarisce il contenuto delle disposizioni. È chiaro che non tutte queste norme sono sottoposte al
limite del non contrasto con l’ordinamento giuridico e questo fatto deriva necessariamente
dall’operatività del principio della distinzione degli ordini: è facile immaginare che ci saranno molte
disposizioni statutarie che sono destinate a spiegare i loro effetti e operano esclusivamente
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nell’ordine proprio della confessione o comunque spirituale. Ed è immaginabile che la maggior


parte delle disposizioni dello statuto non abbiano nessuna aspettativa o vocazione di spiegare i loro
effetti in un ordine che non sia spirituale e che, quindi, siano destinate a esaurire la loro efficacia
all’interno di quest’ordine. È evidente che per queste disposizioni NON vige il limite del non
contrasto con l’ordinamento giuridico italiano.

Es: Secondo i principi della Chiesa cattolica, il sacramento dell’ordine può essere ricevuto soltanto
da persone di sesso maschile. È evidente che se valutiamo questa disposizione assolutamente
irrinunciabile e di centrale importanza per la Chiesa cattolica nell’ottica della nostra Carta
costituzionale, dovremmo arrivare alla conclusione che questa disposizione contrasta con il
principio fondamentale d’uguaglianza. Quindi, è chiaro che una disposizione di questo genere violi
il nostro ordinamento giuridico. Però, è altresì una disposizione che, nel prevedere le condizioni di
accesso a un sacramento, non ha nessuna vocazione ad avere effetti nell’ordinamento giuridico e,
quindi, in materie che appartengano all’ordine temporale. Quindi, è chiaro che questo tipo di
disposizioni/disciplina, benchè teoricamente contrastante con il nostro ordinamento giuridico, non è
sottoposta al limite.

Le disposizioni statutarie sottoposte al limite sono tutte quelle che sono destinate o hanno la
vocazione a spiegare i loro effetti in materie che rientrano nell’ordine temporale proprio dello Stato;
quindi, non sono assolutamente limitate all’ordine spirituale. Possiamo dire che sono tutte quelle
disposizioni che, qualora eseguite/efficaci, creerebbero nell’ordinamento una situazione di contrasto
con l’ordinamento giuridico. Per certi versi sono quelle situazioni in cui l’ambito della sfera
temporale e della sfera spirituale ha delle “zone d’ombra”: in queste materie/situazioni di doppia
sovranità/giurisdizione è probabile che una disposizione statutaria abbia la vocazione di avere effetti
anche nel nostro ordinamento giuridico.

Es: Aspettativa dei testimoni di Geova a rifiutare le emotrasfusioni non solo per adulti e
maggiorenni (per cui il riufiuto rientra appieno nel diritto alla salute e all’autodeterminazione del
singolo), ma anche per minorenni o soggetti che non sono in grado d’intendere e di volere. In questi
casi, la disposizione statutaria che, in realtà, risente molto di una vocazione confessionale perchè è
espressione di un principio confessionale, nel caso in cui avesse la pretesa/aspettativa di spiegare gli
effetti nell’ordine proprio dello Stato sarebbe sottoposta al limite del non contrasto con
l’ordinamento giuridico.

2. La seconda domanda è legata al parametro che costituisce il limite di riferimento: Cosa


s’intende per “non contrasto con l’ordinamento giuridico”? Cosa vuol dire “ordinamento
giuridico”?

La risposta a questa domanda è più semplice perchè ci sono delle sentenze della Corte
costituzionale (sent. 43/1988): il contrasto con l’ordinamento giuridico italiano deve essere un
contrasto SOLO riferito ai principi fondamentali dell’ordinamento e non anche a specifiche
disposizioni normative. Quindi, la Corte costituzionale ci dice che le confessioni religiose sono
ordinamenti originari, non sono subordinate allo Stato; quindi, gli statuti delle confessioni religiose
sono una fonte esterna allo Stato e, di conseguenza, non possiamo pretendere una perfetta
conformità dello statuto al nostro ordinamento (in tutte le normative di dettaglio); perfetta
conformità che, invece, potremmo aspettarci nel momento in cui parlassimo di un ente (come ad es.
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un’associazione) che è subordinato allo Stato e, quindi, in quel caso è chiaro che lo Statuto
dovrebbe avere una perfetta aderenza/conformità all’ordinamento giuridico nel dettaglio. Parlando
di ordinamenti giuridici originari, la conformità diventa “non contrasto” e l’ordinamento giuridico
italiano si traduce come “principi fondamentali dell’ordinamento” (NON le disposizioni di
dettaglio).

Tra questi principi fondamentali dell’ordinamento hanno un ruolo centrale i diritti inviolabili
dell’uomo, che costituiscono un limite per le disposizioni/normative statutarie che hanno la
vocazione a spiegare i loro effetti nell’ordine dello Stato. Quest’affermazione è stata confermata
dalla Corte costituzionale nella sent. 239/1984, in cui la Corte si è trovata a dichiarare
l’incostituzionalità (= la non conformità alla Costituzione) di alcune disposizioni (in particolare di
una) dello statuto della confessione ebraica recepito nel regio decreto del 1931. In questo caso la
disposizione sottoposta al giudizio era l’art. 5 dello statuto della confessione ebraica che
prevedeva un’appartenenza automatica di tutti gli ebrei che risiedevano in un determinato territorio
alla comunità ebraica di appartenenza. Fondamentalmente si diceva che tutti gli ebrei (= coloro che
erano nati da madre ebrea) che risiedevano in un determinato territorio appartenevano d’ufficio alla
comunità ebraica di riferimento. In questa sentenza, la Corte costituzionale ha ritenuto che
quest’obbligatoria e automatica appartenenza, in forza dell’art. 5 dello statuto della religione
ebraica (anche se era sempre possibile dichiarare di non voler far parte della comunità medesima,
ma era necessaria un’espressa dichiarazione di volontà), violava alcuni articoli della Carta
costituzionale (= principi fondamentali). Nella fattispecie concreta questi principi fondamentali
erano l’art. 2 Cost. (che garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, anche nelle formazioni sociali a
cui questo appartiene) e l’art. 18 Cost. (che garantisce la libertà di associazione del singolo e,
quindi, anche una libertà di adesione all’associazione che secondo la Corte doveva essere garantita
e tutelata sia nell’aspetto positivo che nell’aspetto negativo). In ragione di tutto ciò, la Corte ha
dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 5 dello statuto della confessione ebraica perchè in violazione
degli artt. 2 e 18 Cost.

Non è qui necessario prendere posizione sulla natura "associativa" o "istituzionale" delle Comunità
israelitiche, perché la "libertà di adesione", nei suoi aspetti ("positivo" e "negativo") dianzi indicati,
va tutelata, come "diritto inviolabile", nei confronti non solo delle associazioni, ma anche di quelle
"formazioni sociali", cui fa riferimento l'art. 2 della Costituzione, e tra le quali si possono ritenere
comprese anche le confessioni religiose. Libertà di aderire e di non aderire che, per quanto
specificamente concerne l'appartenenza alle strutture di una confessione religiosa, negli aspetti che
rilevano nell'ordinamento dello Stato, affonda le sue radici in quella "libertà di coscienza, riferita
alla professione sia di fede religiosa sia di opinione in materia religiosa" (sentenza n. 117 del 1979),
che è garantita dall'art. 19 della Costituzione, e che va annoverata anch'essa tra i "diritti inviolabili
dell'uomo" (sentenza n. 14 del 1973). L'obbligatoria appartenenza alla Comunità di un soggetto, per
il solo fatto di essere "israelita" e di risiedere nel "territorio" di pertinenza della Comunità
medesima, senza che l'appartenenza sia accompagnata da alcuna manifestazione di volontà in tal
senso, viola appunto quella "libertà di adesione", che è tutelata dagli artt. 2 e 18 della Costituzione.
3. La terza domanda riguarda le conseguenze: Qual è la reazione dell’ordinamento ad uno
statuto contrastante o eterodosso? Quali sono le conseguenze, in capo alle confessioni o agli
statuti, nel caso in cui lo statuto o alcune disposizioni di esso contrastassero con
l’ordinamento giuridico?

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La risposta a questa domanda non è semplice perchè anche in dottrina ci sono tesi diverse e non
sempre conformi, anzi tendenzialmente sono tesi non aderenti al dettato costituzionale. Ad es. una
tesi sostenuta soprattutto dalla dottrina più datata è che un eventuale statuto abnorme (= che
contenesse delle disposizioni contrastanti con il nostro ordinamento giuridico) non consentirebbe
l’accesso all’intesa. Questa tesi è abbastanza suggestiva, ma si fa fatica a trovarne un’aderenza con
la Carta costituzionale: cioè, è difficile immaginare che la conformità/non contrasto dello statuto
con il nostro ordinamento giuridico possa davvero costituire una condizione d’accesso all’intesa,
anche se nei fatti questo spesso capita.

Una lettura costituzionalmente orientata di questo limite impone una soluzione diversa, cioè ci porta
a dire che la conseguenza del contrasto sia l’irrilevanza della regola statutaria nel nostro
ordinamento giuridico. Perchè irrilevanza? Certamente la disposizione statutaria e anche lo
statuto nel suo complesso NON possono essere modificati, abrogati o dichiarati incostituzionali;
quindi, nessun organo statale può intervenire direttamente sullo statuto o sulla disposizione
statutaria. Perciò, escluso qualsiasi intervento diretto dello Stato sia sulla disposizione sia sullo
statuto, una parte della dottrina ritiene che (posto che stiamo parlando di disposizioni che hanno una
vocazione a spiegare i propri effetti nell’ordine temporale) non sia possibile immaginare una
sanzione diversa rispetto all’irrilevanza e, quindi, all’assenza di effetti. Quella norma NON avrà
effetti nel nostro ordinamento e, quindi, l’ordinamento reagirà facendo ricorso a tutte le possibili
sanzioni interne (di natura civile, penale o amministrativa) non tenendo conto degli effetti di quella
disposizione contrastante.

SENTENZA N.43
ANNO 1988
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici: Dott. Francesco SAJA Presidente; Prof.
Giovanni CONSO ;Prof. Ettore GALLO; Dott. Aldo CORASANITI; Prof.
Giuseppe BORZELLINO; Dott. Francesco GRECO; Prof. Renato DELL'ANDRO;
Prof. Gabriele PESCATORE; Avv. Ugo SPAGNOLI; Prof. Francesco Paolo
CASAVOLA; Prof. Antonio BALDASSARRE; Prof. Vincenzo CAIANIELLO; Avv.
Mauro FERRI; Prof. Luigi MENGONI; Prof. Enzo CHELI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 9 del r.d. 30 ottobre 1930, n.
1731 (<Norme sulle comunità israelitiche e sulla unione delle comunità
medesime>), promosso con ordinanza emessa l'8 febbraio 1980 dalla Corte
d'appello di Firenze, iscritta al n. 374 del registro ordinanze 1980 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 187 dell'anno 1980;
visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

69

udito nella Camera di consiglio del 10 dicembre 1987 il Giudice relatore


Vincenzo Caianiello;

Considerato in diritto
l.-Oggetto della questione di legittimità costituzionale sottoposta all'esame
della Corte e l'art. 9 del r.d. 24 settembre 1931, n. 1279, il quale prevede i
requisiti per l'eleggibilità dei componenti dei consigli delle Comunità israelitiche.
Ad avviso del giudice a quo la norma denunciata é in contrasto con l'art. 8,
secondo comma, Cost., il quale sancisce il diritto delle confessioni religiose ad
organizzarsi secondo i propri statuti in quanto non contrastino con l'ordinamento
giuridico italiano.
2. - La questione é fondata.
Come e stato rilevato in dottrina, al riconoscimento da parte dell'art. 8,
secondo comma, Cost., della capacita delle confessioni religiose, diverse dalla
cattolica, di dotarsi di propri statuti, corrisponde l'abbandono da parte dello Stato
della pretesa di fissarne direttamente per legge i contenuti.
Con questa autonomia istituzionale, che esclude ogni possibilità di ingerenza
dello Stato nell'emanazione delle disposizioni statutarie delle confessioni
religiose, e in contrasto la norma denunciata. Questa, difatti, con lo stabilire i
requisiti per l'eleggibilità alla carica di componente dei consigli delle Comunità
israelitiche (requisiti che, peraltro, sono indicati attualmente in modo diverso
dall'art. 3 della delibera del 28-29 aprile 1968 adottata dal Congresso straordinario
delle Comunità israelitiche italiane) condiziona e limita il diritto riconosciuto alle
confessioni religiose dall'art. 8 Cost. di darsi i propri statuti, purchè <non
contrastino con l'ordinamento giuridico italiano>. Questa espressione si può
intendere riferita difatti solo ai principi fondamentali dell'ordinamento stesso e
non anche a specifiche limitazioni poste da particolari disposizioni normative,
come quella rispetto alla quale é stata sollevata la questione in esame.
3. - Sostiene l'Avvocatura Generale dello Stato che la norma denunciata
avrebbe carattere suppletivo e quindi cederebbe di fronte a disposizioni statutarie
che dovessero disporre in modo diverso, onde la questione sarebbe in parte
infondata e in parte irrilevante.
L'assunto non può essere condiviso perche l'art. 9 del R.D. 30 ottobre 1930,
n. 1731, per l'epoca in cui fu emanato, per il contesto normativo nel quale e
collocato e per la sua formulazione testuale, ha un chiaro significato cogente,
prevalendo, ove non ne venisse dichiarata l'incostituzionalità, sugli statuti emanati
dagli organismi delle confessioni religiose che risultassero in contrasto con essa.

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E' proprio il caso che ha dato luogo al giudizio a quo indicativo di questa
evenienza, perchè, appunto facendo riferimento alla norma censurata il Prefetto di
Firenze ha dichiarato l'ineleggibilità di alcuni componenti del consiglio di una
Comunità israelitica, il che dimostra come la vigenza della norma sia tuttora
limitativa di quella potestà statutaria ampiamente riconosciuta alle confessioni
religiose dall'art. 8, secondo comma, Cost.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 9 del R.D. 30 ottobre 1930, n.
1731, (<Norme sulle comunità israelitiche e sulla unione delle comunità
medesime>).
Così deciso in Roma, nella Sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 14/01/88.
Francesco SAJA, PRESIDENTE
Vincenzo CAIANIELLO, REDATTORE
Depositata in cancelleria il 19 Gennaio 1988

04/11/2021

Le intese con le confessioni diverse dalla cattolica (art. 8, comma terzo Cost.)

Art. 8 comma 3 Cost.

I rapporti delle confessioni religiose diverse dalla cattolica con lo Stato sono regolati per legge
sulla base di intese con le relative rappresentanze.
➔ Questo comma riguarda quelle confessioni religiose che si sono organizzate e che regolano i
propri rapporti con lo Stato per legge sulla base d’intese con le relative rappresentanze.

È evidente che questo comma rappresenta l’estensione del principio di bilateralità necessaria ai
rapporti con le confessioni diverse dalla cattolica. Quindi, questo comma rappresenta il diretto
collegamento e il chiaro parallelo con l’art. 7 co 2 Cost., in cui il principio di bilateralità necessaria
era stato espresso attraverso il richiamo ai Patti lateranensi e poi la previsione che le modifiche
potessero avvenire solo attraverso la ricezione di un accordo successivo di modifica sottoscritto da
entrambe le parti; nell’art. 8 co 3 Cost. tutto ciò non è detto esplicitamente perchè le intese non
erano ancora state stipulate e, quindi, in Assemblea Costituente su questo comma non ci sono state
tutte quelle discussioni in relazione all’art. 7 Cost. Però, il fatto che il richiamo alle intese sia
generico non significa che anche queste leggi di approvazione (NON di esecuzione) siano anch’esse
leggi rinforzate in quanto dotate di copertura costituzionale. La differenza è semplicemente
terminologica perchè le leggi di esecuzione degli accordi con la Chiesa cattolica sono leggi che
danno esecuzione a un accordo che è anche un trattato internazionale e, quindi, anche regolato dalle
norme del diritto internazionale che disciplinano i trattati; perciò, la legge per assonanza viene
71

chiamata legge di esecuzione dell’accordo o concordato. Mentre, le leggi di approvazione


dell’intesa non danno esecuzione a un trattato internazionale perchè le confessioni diverse dalla
cattolica non godono di una personalità di diritto internazionale per motivi legati soprattutto a
ragioni di tipo storico e, di conseguenza, gli accordi con le confessioni diverse dalla cattolica non
sono trattati internazionali. Questo fa sì che le leggi che danno approvazione a questi accordi non si
chiamino leggi di esecuzione, ma leggi di approvazione; però, hai fini della gerarchia delle fonti
questa è una differenza terminologica perchè in realtà anche queste sono leggi ordinarie e non
possono essere modificate se non facendo ricorso a una legge di approvazione, cioè a un’intesa
successiva tra le stesse parti (come le leggi che danno esecuzione ai concordati). Quindi, dal punto
di vista della gerarchia delle fonti, non ci sono differenze: si tratta sempre di fonti atipiche e di leggi
rinforzate.

Sul perchè la Chiesa cattolica sia considerata che abbia una soggettività di diritto internazionale
mentre le altre confessioni religiosi no la maggior parte della dottrina è concorde, MA le
motivazioni in realtà sono più di ordine storico fattuale, nel senso che la Chiesa cattolica (al
contrario delle altre confessioni religiose) si è sempre posta come un centro di potere dotato di
un’indipendenza e di un’originarietà. Questo ha fatto sì che anche se non si trattasse di uno Stato
territoriale (non stiamo parlando dello Stato città del Vaticano) comunque è dotata di una
soggettività di diritto internazionale.

Il primo aspetto da sottolineare è che siamo all’ultimo gradino della piramide rovesciata. Vuol dire
che le confessioni che possono aspirare a stipulare un’intesa con lo Stato devono necessariamente
essere organizzate (ai sensi dell’art. 8 co 2 Cost.) e soprattutto individuare un unico legale
rappresentante che possa rappresentare la confessione nei rapporti con lo Stato. È evidente che
questa condizione indispensabile per addivenire all’intesa è tutt’altro che facile da raggiungere per
alcune confessioni religiose, o meglio non è sempre così scontato che una confessione religiosa si
organizzi e soprattutto che si organizzi in maniera gerarchica. Per avere un solo legale
rappresentante non è sufficiente un’organizzazione qualunque, ma è necessaria una gerarchia
all’interno del gruppo confessionale che consenta d’individuare una sola persona. Le confessioni
religiose che non hanno una vocazione gerarchica, bensì che preferiscono organizzarsi in piccoli
gruppi (e, quindi, perseguono una certa disseminazione o disorganizzazione) faranno molta fatica a
stipulare un’intesa con lo Stato. Questo è un elemento di cui bisogna molto tener conto perchè è
evidente che quando i Padri Costituenti hanno scritto l’art. 8 co 3 Cost. e hanno pensato a un unico
legale rappresentante che stipulasse l’intesa con lo Stato avevano in mente un modello di
confessione religiosa di stampo cattolico (che era la religione della maggioranza dei cittadini
italiani). Questo ha fatto sì che le altre confessioni religiose si siano dovute adeguare, per certi versi,
a questo modello: cioè, per addivenire alla stipulazione di un’intesa hanno dovuto stipulare accordi
tra di loro e, quindi, aggregarsi in gruppi più ampi in modo tale da poter presentare un solo legale
rappresentante. Quest’operazione di aggregazione/unione che molte confessioni religiose hanno
dovuto fare non è stata ancora possibile per tutte le confessioni; per cui ci sono alcune confessioni
che ancora non hanno portato avanti questo processo di aggregazione e di organizzazione (e, quindi,
di struttura gerarchica) che gli consentirebbe di addivenire a un’intesa. Ad es, la diffocoltà
dell’Islam di procedere in questo senso perchè la confessione islamica non ha la vocazione di
organizzarsi in una struttura gerarchica, ma vive in gruppi abbastanza disseminati (perciò per certi
versi disorganizzati); di conseguenza, questo è uno dei motivi per cui fino ad adesso non si è ancora
72

addivenuti a un’intesa. Alcuni gruppi islamici hanno provato ad organizzarsi però non c’è ancora
stata quella capacità di aggregarsi tale da consentire una seria apertura delle trattative con un solo
gruppo.

L’art. 8 co 3 Cost. che i Padri Costituenti hanno voluto per bilanciare la situazione della Chiesa
cattolica e, quindi, per estendere il principio di bilateralità anche alle confessioni diverse dalla
cattolica, è stato per molto tempo inattuato. L’istituto dell’intesa nasce con la Carta costituzionale,
però l’art. 8 co 3 Cost. ha iniziato ad essere attuato solo nel 1984. Fino a quell’anno le confessioni
religiose diverse dalla catolica vedevano regolata la loro vita e i loro rapporti con lo Stato dalla
legislazione sui culti ammessi (tutt’ora in vigore benchè senza alcune disposizioni particolarmente
illiberali). Quindi, fondamentalmente avevamo una confessione privilegiata e altre confessioni che
vedano regolata la loro vita attraverso una legislazione ancora irregolare e di stampo
giurisdizionalistico e, quindi, conteneva una serie di discipline di controllo dello Stato sulle
confessioni religiose.

Nel 1984 si apre la prima stagione delle intese: alcune confessioni religiose diverse dalla cattolica
iniziano a stipulare intese con lo Stato. La prima confessione religiosa che segue questa strada è la
Tavola Valdese. È particolare che la stipulazione dell’intesa con la Tavola Valdese è andata di pari
passo con la modifica del Concordato del 1929 con la Chiesa cattolica. In questo senso, l’anno 1984
è un anno importante sia perchè ha visto la luce il nuovo Accordo con la Chiesa cattolica sia perchè
ha visto la luce l’intesa con la Tavola Valdese.

Da allora ci sono state altre confessioni religiose che nel tempo hanno stipulato intese con lo Stato
che sono state più o meno regolarmente approvate perchè nelle prime intese l’approvazione è stata
molto veloce e puntuale (nel senso che la legge di approvazione seguiva di pochi mesi la
sottoscrizione dell’intesa), mentre succesivamente i tempi si sono molto allungati e, quindi, ci sono
state anche situazioni in cui sono passati molti anni dalla stipulazione dell’intesa alla legge di
approvazione. Ad es. stiamo ancora aspettando la legge di approvazione dell’intesa con la Chiesa
d’Inghilterra. Ma all’interno di queste intese ritroviamo anche 2 intese (una stipulata nel 2000 e una
nel 2007) che, benchè sottoscritte tra lo Stato e la congregazione cristiana dei Testimoni di Geova,
non sono mai state approvate dal Parlamento; quindi, sono prive della legge di approvazione.
Questo vuol dire che l’intesa rimane un atto sottoscritto, ma non ha efficacia nel nostro
ordinamento: possiamo dire che la congregazione cristiana dei Testimoni di Geova, benchè avesse
sottoscritto l’intesa con lo Stato, in realtà non ha un’intesa perchè non ha efficacia nel nostro
ordinamento.

Il numero di queste intese è, quindi, aumentato in maniera importante (12 confessioni religiose) e lo
scopo dell’intesa dovrebbe essere di dare ragione delle specificità della confessione; quindi, di
consentire l’emersione/il riconoscimento delll’istanza a contenuto religioso, che deve dare ragione
della specificità della confessione. C’è un’esigenza di specificità che sta dietro al principio di
bilateralità e che, quindi, darebbe anche ragione dell’eguale libertà tra tutte le confessioni religiose
che è dettata dall’art. 8 co 1 Cost. Guardando ai contenuti delle intese, ciò che lascia molto perplessi
è che queste intese, ben lungi dal dare rilievo alle sole specificità delle confessioni religiose e,
quindi, alle differenze tra confessione e confessione, sono tutte più o meno uguali (cioè, presentano
una forte uniformità di contenuti e sono anche abbastanza simili all’Accordo del 1984 con la Chiesa
cattolica). Tant’è che in dottrina sono state definire intese fotocopia e il contenuto delle intese è
73

stato definito un diritto comune delle intese. Partendo dai presupposti sul principio di bilateralità e
di specificità, parlare di “diritto comune delle intese” costituisce un ossimoro perchè se è comune
non dovrebbe essere contenuto nelle intese, ma in una legge unilaterale dello Stato. Perciò, vuol
dire aver un po’ svuotato di contenuti quel principio di bilateralità e di specificità che i Padri
costituenti hanno introdotto nella nostra Carta costituzionale. Perchè questa uniformità di
contenuti? Perchè lo scopo primario delle intese non è stato tanto quello di dare riconoscimento alle
specificità delle confessioni, ma è stato quello di rendere inoperante nei confronti della confessione
stipulante la legislazione sui culti ammessi. Per cui la confessione religiosa, nel momento in cui si
trovava a stipulare un’intesa, scriveva subito nel primo articolo: “Nei miei confronti non è più
applicabile la legislazione sui culti ammessi; quindi, i miei rapporti con lo Stato, dal momento in
cui quest’intesa verrà approvata per legge, sono regolati da quest’intesa.” Con la sottoscrizione
dell’intesa, le confessioni volevano sganciarsi dalla legislazione sui culti ammessi (renderla
inoperante nei loro confronti) per ovvi motivi: perchè si trattava di una legislazione illiberale
(liberticida) e giurisdizionalista e, quindi, rendeva molto difficile per le confessioni religiose una
reale esplicazione e riconoscimento delle libertà previste dalla Carta costituzionale.

Per cui l’esito di quest’operazione delle intese fotocopia desta molte perplessità nell’ottica dei
principi costituzionali perchè l’esito è che la legislazione sui culti ammessi resta ancora in vigore
per disciplinare i rapporti tra lo Stato e quelle confessioni religiose che (per i motivi più diversi)
sono ancora priva di intesa. Questo vuol dire che abbiamo un panorama molto variegato all’interno
del nostro ordinamento perchè i rapporti con le confessioni religiose si esplicano attraverso il
ricorso a diversi strumenti: la Chiesa cattolica è regolata dall’Accordo del 1984, le confessioni con
l’intesa vedono regolati i loro rapporti attraverso tale strumento, e poi le confessioni che non ancora
un’intesa vedono regolata la loro vita e i loro rapporti all’interno dell’ordinamento dalla
legislazione sui culti ammessi (emanata in un momento storico estremamente diverso da quello
attuale e che risente molto del confessioni e del giurisdizionalismo di allora; quindi, che presenta
molte disposizioni non conformi ai nuovi principi costituzionali).

Es: Le prime intese stipulate si aprivano con articoli di questo tenore (primo articolo della legge di
approvazione):

Art. 1. Abrogazione della normativa sui culti ammessi.

1. I rapporti tra lo Stato e la Chiesa Evangelica Luterana in Italia (CELI) sono regolati dalle
disposizioni degli articoli che seguono, sulla base dell'intesa stipulata il 20 aprile 1993, allegata
alla presente legge.

2. Con l'entrata in vigore della presente legge le disposizioni della legge 24 giugno 1929, n. 1159, e
del regio decreto 28 febbraio 1930, n. 289, cessano di avere efficacia ed applicabilità nei riguardi
della CELI e delle Comunità, degli enti che ne fanno parte e degli organi e persone che la
costituiscono.
• Comma 1 = La fonte è la legge di approvazione, non l’intesa; ma la legge di approvazione
deve essere emanata sulla base dell’intesa.
• Comma 2 = C’è il chiarimento che la legislazione sui culti ammessi non è più in vigore.

74

Nelle intese più recenti (come quella con gli induisti), questo riferimento non è più così
preciso e puntuale, nel senso che ormai le confessioni religiose non ritenevano più
necessario specificare che quella legislazione nei loro confronti non era più in vigore.

Questo era il primo obiettivo che le confessioni religiose volevano raggiungere e ciò è confermato
proprio dal fatto che le intese sono quasi tutte uguali e concedono dei benefici molto simili l’uno
dall’altro, tant’è che si parla di diritto comune delle intese, che contiene una serie di benefici non di
poco conto, anche di ordine economico (dalla partecipazione all’8x1000 del gettito fiscale alle
detrazioni fiscali delle donazioni ricevute). Quindi, ci sono tutta una serie di benefici (anche e non
solo di ordine economico) che costituiscono questo diritto comune delle intese e che crea un vero e
proprio status privilegiario a favore di quelle confessioni che hanno un’intesa; perciò, una
discriminazione di quelle confessioni che invece non hanno ancora un’intesa.

È evidente che questa situazione di privilegio e di discriminazione non sarebbe così evidente nel
caso in cui esistesse una legge unilaterale dello Stato (conforme alla Carta costituzionale) che
sostituisca la legislazione sui culti ammessi e il relativo regio decreto. In questo caso, le intese
potrebbero davvero tornare alla loro primigenia funzione che è quella di dare rilievo alle specificità
e, quindi, si ritornerebbe a una situazione conforme alla Carta costituzionale. Invece, si fa fatica a
credere ed affermare che la situazione attuale davvero sia conforme al principio di eguale libertà
delle confessioni e rispettosa del principio di laicità.

Procedura per addivenire alla stipula dell’intesa

La procedura per addivenire alla stipula di un’intesa NON è disciplinata dalla legge. Quindi,
possiamo contare solo sull’art. 8 co 3 Cost., sulla prassi (che ormai è abbastanza consistente) e sul
sito della Presidenza del Consiglio in cui si trova una pagina espressamente destinata alla
stipulazione delle intese con le confessioni diverse dalla cattolica e anche l’elenco di tutte le intese
sottoscritte. In questo sito c’è scritto cosa deve fare una confessione per presentare istanza
all’apertura delle trattative e che cosa succede successivamente alla stipulazione dell’intesa.

Il sito dice che la competenza ad avviare delle trattative in vista della stipula di un’intesa spetta al
Governo; quindi, è il Governo che apre e avvia le trattative con la confessione istante/richiedente.
Infatti, le confessione interessate si devono rivolgere tramite istanza al Presidente del Consiglio, il
quale affida l’incarico di condurre le trattative al Sottosegretario-segretario del Consiglio dei
Ministri.

Poi, sulla discrezionalità del Governo all’apertura delle trattative la Corte costituzionale si è
pronunciata.

MA il sito, in realtà, aggiunge un requisito che nell’art. 8 co 3 Cost. non c’è: le trattative vengono
avviate solo con le confessioni che abbiano ottenuto il riconoscimento della personalità giuridica ai
senti della legge sui culti ammessi (l. 1159/1929). Questo è un requisito aggiuntivo e, quindi, di
dubbia costituzionalità che crea uno sbarramento notevole perchè la legge sui culti ammessi
prevede il riconoscimento degli enti/delle confessioni religiose a seguito di un procedimento
discrezionale; quindi, certamente questo procedimento, in aderenza allo spirito della legge sui culti
ammessi, è discrezionale che prevede il parere favorevole di alcuni organi, tra cui il Consiglio di
Stato e il Consiglio dei Ministri (per cui organi anche di natura politica). Perciò, prima d’iniziare le
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trattative, una precondizione all’apertura delle trattative è già che l’ente esponenziale di quella
confessione abbia ricevuto un gradimento in forza della legge sui culti ammessi (è già una
preselezione che non è prevista dalla Costituzione, aggiunta di fatto dalla Presidenza del Consiglio).

Dopo la firma del Presidente del Consiglio e del Presidente della Confessione religiosa le intese
sono trasmesse al Parlamento per la loro approvazione con legge.

Le richieste di intesa vengono preventivamente sottoposte al parere del Ministero dell'Interno,


Direzione Generale Affari dei Culti. La competenza ad avviare le trattative, in vista della stipula di
una intesa, spetta al Governo. Le Confessioni interessate si devono rivolgere quindi, tramite istanza,
al Presidente del Consiglio dei Ministri, il quale affida l'incarico di condurre le trattative con le
rappresentanze delle Confessioni religiose al Sottosegretario-Segretario del Consiglio dei Ministri.
Le trattative vengono avviate solo con le Confessioni che abbiano ottenuto il riconoscimento della
personalità giuridica ai sensi della legge n. 1159 del 24 giugno 1929, su parere favorevole del
Consiglio di Stato.

Dopo la firma del Presidente del Consiglio e del Presidente della Confessione religiosa le intese
sono trasmesse al Parlamento per la loro approvazione con legge.

Cosa succede dopo la sottoscrizione?

Dopo la sottoscrizione dell’intesa da parte dello Stato (Presidente del Consiglio) e da parte della
confessione religiosa, l’intesa arriva in Parlamento e il rispetto dell’intesa (chiaramente indicato
nell’art. 8 co 3 Cost.) costituisce una condizione di legittimità costituzionale della legge di
approvazione. Vuol dire che se la legge di approvazione nei contenuti si discosta dall’intesa viola
l’art. 8 co 3 Cost.: la legge di approvazione e l’intesa devono avere eguale contenuto (il rispetto dei
contenuti costituisce una condizione di legittimità).

Nel momento in cui il Parlamento si trova un disegno di legge in relazione all’approvazione di


un’intesa (quindi, di contenuto identico all’intesa stipulata con la confessione) può approvare e,
quindi, emanare una legge di approvazione oppure può non approvare (com’è accaduto con i
Testimoni di Geova) ed eventualmente rimandare indietro l’intesa per una nuova apertura delle
trattative (se indica gli aspetti specifici non approvati); MA ciò che il Parlamento assolutamente
NON può fare (pena la violazione dell’art. 8 co 3 Cost.; quindi, emanare una legge incostituzionale)
è emendarla. Quindi, il Parlamento approva o non approva MA NON emenda, altrimenti vuol dire
che cambia l’intesa (= interviene nei contenuti che sono stati approvati dalle parti) e, quindi, emana
una legge che viola l’art. 8 co 3 Cost.

In quest’ottica, per evitare che il Parlamento si trovi nella necessità di non approvare la legge
(perchè ritenuta non consona, non politicamente accettabile ecc.) sarebbe auspicabile che già in fase
di trattative ci fosse un collegamento tra il Parlamento e il Governo perchè questo consentirebbe
una veloce e sollecita approvazione della legge. In alternativa, invece, possono sorgere problemi
oppure casi di non approvazione dell’intesa già sottoscritta dal Governo.

Questa legge di approvazione dell’intesa nella gerarchia delle fonti è paragonabile alla legge di
esecuzione degli accordi con la Chiesa cattolica, cioè costituisce una fonte atipica. Vuol dire che
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può essere modificata SOLO da una legge successiva che dia approvazione a un’altra intesa con la
confessione. Quindi, non può essere modificata o abrogata da una legge unilaterale succesiva che
non dia approvazione a un’altra intesa. Rispetto alla legge di esecuzione c’è un’unica differenza
importante: la Corte costituzionale fino adesso non ha mostrato di utilizzare il parametro dei
principi supremi per decidere della conformità alla Carta costituzionale delle norme pattizie
contenute in un’intesa con una confessione diversa dalla cattolica. Quindi, sembrerebbe utilizzare
non il parametro speciale dei principi supremi, ma tutte le norme costituzionali. Questa rappresenta
una differenza importante le cui origini risalgono al richiamo contenuto nell’art. 7 co 2 Cost. ai Patti
Lateranensi e alla sent. 30/1971 che aveva ritenuto che il richiamo avesse prodotto diritto; però, da
allora sono passati molti decenni, per cui fa un po’ specie immaginare che il parametro di
costituzionalità tra accordo e intese sia diverso.

Problemi del “diritto all’intesa” (secondo la Corte costituzionale NON si può parlare di diritto
all’intesa):

1. Organizzazione = la confessione si deve organizzare secondo una struttura gerarchica, darsi


uno statuto e soprattutto fare delle coalizioni/congregazioni/unioni in modo tale da
individuare un legale rappresentante.

Questo è un limite importante alla libertà delle confessioni di organizzarsi perchè se


vogliono un’intesa con lo Stato, questa libertà è decisamante limitata.

2. Amplissima discrezionalità del Governo ad aprire le trattative = fondamentalmente il


Governo è arbitro della decisione di aprire o meno le trattative con una confessione
religiosa.

Non ci sono particolari criteri o indicazioni (se non il riconoscimento dell’ente esponenziale
ai sensi della legge sui culti ammessi); quindi, il Governo può liberamente decidere o meno
l’apertura delle trattative. E quest’amplissima discrezionalità (vicina all’arbitrio) è stata di
recente confermata dalla Corte costituzionale nella sent. 52/2016 in cui la Corte definisce
proprio la decisione se aprire o meno le trattative con una confessione religiosa un atto
politico che, in questo contesto, vuol dire un atto NON sindacabile davanti all’autorità
giudiziaria.

È chiaro che questa completa discrezionalità del Governo desta molte perplessità nell’ottica
dell’eguale libertà delle confessioni religiose perchè è evidente che avere o meno un’intesa
fa una grande differenza in relazione allo status della confessione e ai benefici e alle
garanzie di cui quella confessione può godere. Per cui è molto difficile immaginare un
pricipio di eguale libertà delle confessioni e di laicità dello Stato in una situazione in cui il
Governo è completamente arbitro di aprire o meno le trattative. Quest’assoluta
discrezionalità non può non incidere sull’eguale libertà delle confessioni.

Queste sono state le critiche che la dottrina ha posto alla sent. 52/2016, ma a queste critiche la
sentenza risponde in un modo che ha fatto discutere. Fondamentalmente la Corte risponde che
l’intesa è finalizzata al riconoscimento di esigenze peculiari, a prescindere dal fatto che la prassi
mostri una tendenza all’uniformità di contenuti. Quindi, se lo scopo dell’intesa è solo quello di dare
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riconoscimento a esigenze specifiche, non crea uno status privilegiario perchè, anche
indipendentemente dall’intesa, la confessione resta egualmente libera ai sensi dell’art. 8 co 1 Cost.
Non può affermarsi, infatti, che la mancata stipulazione di un’intesa sia, di per sé, incompatibile
con la garanzia di eguaglianza tra le confessioni religiose diverse da quella cattolica, tutelata
dall’art. 8, primo comma, Cost.

Fondamentalmente la Corte dice che anche se le confessioni non hanno un’intesa sono comunque
tutelate dall’art. 8 co 1 Cost.; quindi, sono egualmente libere. L’intesa aggiunge sì il riconoscimento
di alcune specificità, MA NON incide sull’eguale libertà. Il primo e il terzo comma dell’art. 8 Cost.
secondo la Corte devono rimanere slegati. Nel momento in cui l’apertura delle trattative e, quindi,
la stipulazione dell’intesa non incide sull’eguale libertà, il Governo può godere di una
discrezionalità ampia ad aprire o meno le trattative. Scelte del genere, per le ragioni che le
motivano, NON possono costituire oggetto di sindacato da parte del giudice.

Quindi, l’esito di questa pronuncia è aver affermato che il Governo è completamente libero nella
decisione se aprire o meno le trattative perchè la presenza o meno di un’intesa non inciderebbe nel
principio di eguale libertà delle confessioni religiose contenuto nell’art. 8 co 1 Cost.

Corte Cost. 52 del 2016 (caso UAAR)


Tale significato dell’intesa, cioè il suo essere finalizzata al riconoscimento di esigenze peculiari del
gruppo religioso, deve restare fermo, a prescindere dal fatto che la prassi mostri una tendenza alla
uniformità dei contenuti delle intese effettivamente stipulate, contenuti che continuano tuttavia a
dipendere, in ultima analisi, dalla volontà delle parti. A prescindere dalla stipulazione di intese,
l’eguale libertà di organizzazione e di azione è garantita a tutte le confessioni dai primi due commi
dell’art. 8 Cost. (sentenza n. 43 del 1988) e dall’art. 19 Cost, che tutela l’esercizio della libertà
religiosa anche in forma associata. La giurisprudenza di questa Corte è anzi costante nell’affermare
che il legislatore non può operare discriminazioni tra confessioni religiose in base alla sola
circostanza che esse abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o
intese (sentenze n. 346 del 2002 e n. 195 del 1993). Allo stato attuale del diritto positivo, non
risultano perciò corretti alcuni assunti dai quali muovono sia la sentenza delle sezioni unite della
Corte di origine al presente conflitto, sia il soggetto interveniente. Non può affermarsi, infatti, che la
mancata stipulazione di un’intesa sia, di per sé, incompatibile con la garanzia di eguaglianza tra le
confessioni religiose diverse da quella cattolica, tutelata dall’art. 8, primo comma, Cost.
A fronte di tale estrema varietà di situazioni, che per definizione non si presta a tipizzazioni, al
Governo spetta una discrezionalità ampia, il cui unico limite è rintracciabile nei principi
costituzionali, e che potrebbe indurlo a non concedere nemmeno quell’implicito effetto di
“legittimazione” in fatto che l’associazione potrebbe ottenere dal solo avvio delle trattative. Scelte
del genere, per le ragioni che le motivano, non possono costituire oggetto di sindacato da parte del
giudice.

Questa sentenza merita un qualche approfondimento per inquadrarla nel caso concreto, cioè per
capire meglio gli esiti di questa pronuncia è necessario calarsi nel caso concreto. Questa sentenza è
l’esito di un lungo e complicato percorso giurisprudenziale che ha avuto inizio alla fine degli anni
’90, che è passato attraverso la giurisprudenza ammistrativa (TAR), poi è arrivato in Cassazione a
Sezioni Unite e alla fine è arrivato alla Corte costituzionale. Il caso nasce da un’istanza fatta dal
UAAR (Unione Atei Agnostici e Razionalisti italiani), che è fondamentalmente un’associazione tra
atei che ha fra i suoi obiettivi quello di sostenere e di diffondere la laicità e l’ateismo
nell’ordinamento italiano. Quest’istanza del UAAR (datata fine anni ‘90) è un’istanza di apertura
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delle trattative per addivenire alla stipula di un’intesa. Quindi, il UAAR ha chiesto al Governo di
aprire delle trattative per addivenire a un’intesa. Il presupposto di questa richiesta era che il UAAR
poteva essere definito una “confessione religiosa” perchè portava avanti e, quindi, sosteneva in
maniera particolarmente convinta una fede di segno negativo: secondo l’organizzazione istante
avrebbe dovuto ricevere un trattamento eguale rispetto a quello delle confessioni religiose perchè
fondamentalmente i contenuti dell’associazione/organizzazione erano della stessa natura, solo che il
tipo di messaggio era negativo e non positivo. Questo lungo procedimento ha avuto esiti molto
diversi e si è giocato sull’esistenza o meno di un “diritto”, non tanto all’intesa (perchè essendo
l’intesa un accordo bilaterale è evidente che non si può parlare di un diritto), ma quantomeno di un
diritto all’apertura delle trattative. In questo senso si è pronunciata la Cassazione a Sezioni Unite, la
quale ha concluso che una volta che il Governo ritenesse di trovarsi davanti a un’istanza
proveniente da una confessione religiosa non era più possibile rifiutare quantomeno l’apertura delle
trattative. Fondamentalmente la discrezionalità del Governo si sarebbe giocata solo al momento
della qualificazione del gruppo religioso come confessione religiosa; una volta che il Governo
avesse sostenuto di trovarsi davanti a una confessione religiosa (quindi, avesse riconnesso al gruppo
religioso la qualifica di confessione religiosa), l’apertura delle trattative sarebbe stata obbligatoria
(= un diritto della confessione religiosa).

La qualificazione di un gruppo religioso come confessione religiosa è estremamente difficile e


complicata perchè non ci sono criteri saldi nell’ambito del nostro ordinamento giuridico che fanno
capire quando ci troviamo davanti a una confessione religiosa o meno. Quindi, certamente la
decisione di trovarsi o meno di fronte a una confessione religiosa è una decisione molto scivolosa e
che presenta ampi margini di discrezionalità e arbitrio. È, dunque, possibile che la Corte
costituzionale abbia scelto la strada dell’atto politico (quindi, abbia preferito dire che la decisione
del Governo è un atto politico e non sindacabile) per superare di fatto la problematica della
qualificazione del gruppo istante come confessione religiosa perchè è evidente che nel caso di
specie, trattandosi del UAAR una possibile decisione portata avanti dal Governo avrebbe potuto
essere quella di sostenere che il UAAR non fosse una confessione religiosa. Posto che tra gli scopi
del UAAR c’è proprio il sostegno della laicità e dell’ateismo, poteva essere possibile una mancata
qualificazione di confessione religiosa; quindi, se il Governo avesse deciso d’intraprendere questa
strada di negare al UAAR la qualifica, certamente avrebbe potuto rifiutare l’apertura delle trattative.
Forse per evitare di entrare in questo terreno scivoloso che avrebbe implicato una presa di posizione
netta, la Corte ha trovato questa soluzione dell’atto politico, cioè della completa discrezionalità in
capo al Governo nella decisione di aprire le trattative. Fondamentalmente la decisione sulla
qualifica di confessione religiosa sarebbe confluita nella più ampia decisione di aprire o meno le
trattative.

Però, se per un verso la Corte risolve questo problema liberando il Governo dall’incompenza di
dover necessariamente dire se l’istanza proveniva o meno da una confessione religiosa, dall’altra
parte in questo modo la Corte consente al Governo di eludere un’istanza di apertura delle trattative
anche nel caso in cui questa venisse certamente da un gruppo configurabile come confessione
religiosa. L’esito è davvero un amplissimo riconoscimento di una discrezionalità vicina all’arbitrio e
soprattutto un evidente depotenziamento dell’interpretazione del principio dell’eguale libertà perchè
portando avanti quest’interpretazione della Corte e sosteniamo che il primo comma dell’art. 8 Cost.
(= principio di eguale libertà) possa operare nell’ordinamento completamente scollegato dal terzo
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comma (= legislazione pattizia) è evidente che assegnamento al principio di eguale libertà una forza
certamente inferiore. L’esito è proprio di sostenere che qualsiasi cosa ci sia scritto nelle intese,
anche se queste ultime non si limitano a disciplinar le specificità della confessione (bensì prevedono
un vero e proprio status di privilegio), NON riguarda la laicità dello Stato.

È evidente che dovremmo arrivare alla conclusione che il principio di equidistanza nei confronti
delle confessioni religiose (di cui la Corte costituzionale ha più volte parlato e lo ha ritenuto un
corollario del principio di libertà religiosa) operi solo nei confronti della legislazione unilaterale e
non della legislazione pattizia, che resta a sè stante. Quindi, la conseguenza a cui ci conduce questa
interpretazione dell’art. 8 Cost. portata avanti dalla Corte costituzionale è proprio che l’equidistanza
nei confronti delle confessioni religiose riguarda solo il legislatore unilaterale. Quando, invece, il
legislatore mette mano alle intese e si mette a contrattare con una confessione religiosa,
l’equidistanza non vale più perchè i contenuti degli accordi valgono solo tra lo Stato e quella
confessione; perciò, sono scollegati da un principio di equidistanza.

Sulla questione della qualificazione del gruppo religioso come confessione religiosa il dibattito è
aperto. Questo è un problema serio dal momento che l’ordinamento non ci fornisce criteri anche
perchè non è compito dell’ordinamento giuridico definire degli elementi della realtà, i quali
esistono e l’ordinamento giuridico ne prende atto, non li definisce. Ad es. la questione si è posto nel
nostro e in altri ordinamenti giuridici in relazione ad alcuni gruppi religiosi come Scientology, il cui
problema era legato ad alcune questioni di tipo penale perchè alcuni membri erano stati imputati di
alcuni reati; quindi, in questo caso c’era il problema se la qualifica o meno di confessione religiosa
potesse in qualche modo incidere sulla situazione penale. A un certo punto la Cassazione penale è
arrivata a dire che Scientology potesse essere definita come confessione religiosa.

La dottrina più datata (anni ’70-‘80) aveva cercato di riempire di contenuti questa definizione e di
restringerne un po’ il campo: ad es. aveva parlato della confessione religiosa come un gruppo che
propugnasse una fede in un essere trascendente in un rapporto di segno positivo con gli uomini.
Quindi, perchè si potesse parlare di confessione religiosa e di religione era necessario che la fede
implicasse un rapporto di segno positivo con una trascendenza. È evidente che questa era
un’interpretazione abbastanza restrittiva perchè, in realtà, escludeva una serie di confessioni
religiose che si autoqualificavano tali, ma che non prevedevano necessariamente il requisito della
trascendenza; ad es. i buddisti (che oggi sono pacificamente riconosciuti come confessione religiosa
e hanno stipulato delle intese con lo Stato). Quindi, è evidente che se facciamo una definizione
molto ricca di contenuti lasciamo fuori tante realtà, se invece la depaueriamo completamente di
contenuti è una definizione che rischia di non definire nulla; perciò, è sicuramente un compito
molto difficile da portare avanti e non c’è una risposta univoca/definitiva.

La Corte costituzionale nella sent. 195/1993 aveva dato qualche criterio per individuare la natura di
confessione religiosa in un gruppo; MA, in realtà, più che criteri di ordine sostanziale erano criteri
di ordine formale (e a volte anche tautologici) cioè la Corte diceva dove potevamo andare a
riconoscere o meno l’esistenza di una confessione religiosa. La Corte ha detto che bisognava vedere
i precedenti riconoscimenti pubblici (quindi, se questo gruppo aveva già avuto da altri enti pubblici
un riconoscimento), se lo statuto della confessione esprimeva i caratteri della confessione religiosa
(= indicazione che rischia di essere tautologica) o comunque la comune considerazione (= il parere

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degli studiosi e degli esperti). Quindi, sono criteri che non ci aiutano molto nella ricerca di una
definizione e rischiano a volte di costituire una tautologia.

«Resta fermo che per l'ammissione ai benefici sopra descritti non può bastare che il richiedente si
autoqualifichi come confessione religiosa. Nulla quaestio quando sussista un'intesa con lo Stato. In
mancanza di questa, la natura di confessione potrà risultare anche da precedenti riconoscimenti
pubblici, dallo statuto che ne esprima chiaramente i caratteri, o comunque dalla comune
considerazione».

La questione rimane aperta e irrisolta ed è chiaro che di volta in volta l’ordinamento, nella
fattispecie il Governo quando si trova ad aprire le trattative per la stipulazione di un’intesa (ma
anche altri organi quando si trovano ad aver a che fare con gruppi che si definiscono confessione
religiosa) dovranno prendere la decisione e sciogliere la riserva su cosa s’intenda per confessione
religiosa.

L’ultimo aspetto da segnalare è la discrezionalità del Parlamento di dare approvazione alle intese.
È molto importante perchè il Parlamento quanto si trova davanti al disegno di legge per
l’approvazione dell’intesa è libero di approvare o meno e non deve neanche dare motivazioni della
mancata approvazione; può semplicemente non approvare per le motivazioni più varie e non
necessariamente esplicitate. Questo può accadere a maggior ragione quando nel corso delle
trattative non c’è stato un collegamento stretto tra Governo e Parlamento e, quindi, il Governo ha
sottoscritto un’intesa che il Parlamento non approva oppure magari quando passa molto tempo tra la
stipulazione dell’intesa e il disegno di legge per l’approvazione e, quindi, nel frattempo è cambiata
la compagine politica. Questa mancata approvazione è avvenuta in tempi relativamente recenti per
2 intese sottoscritte con i Testimoni di Geova (2000 e 2007); entrambe queste intese NON sono
state approvate per legge. Non è dato formalmente sapere perchè quest’intesa non è stata approvata
perchè, in realtà, i contenuti dell’intesa erano confromi e uniformi a quelle delle altre intese, cioè i
Testimoni di Geova non avevano chiesto di avere specifici riconoscimenti in relazione a
disposizioni confessionali contrarie al nostro ordinamento giuridico. Quindi, in questo senso, non
c’erano problemi di non conformità dell’intesa al nostro ordinamento giuridico, che avrebbe
legittimato il rifiuto e che probabilmente non sarebbe neanche stata sottoscritta. Perchè non è stata
approvata? Non lo possiamo sapere con certezza, ma se andiamo a vedere le discussioni
parlamentari sul punto, troviamo che l’intesa non è stata approvata perchè alcuni parlamentari non
apprezzavano la confessione religiosa in sè e per sè; quindi, non in ragione dei contenuti dell’intesa,
ma in ragione della confessione religiosa che, secondo alcuni parlamentari, avrebbe portato avanti
idee/principi non conformi o contrastanti con il nostro ordinamento. Secondo questi parlamentari, il
fatto che la confessione non seguisse principi confessionali perfettamente o comunque conformi
all’ordinamento giuridico italiano era ragione sufficiente per non approvare l’intesa. È evidente che,
ammesso che ciò sia vero, sembra di poter concludere che non sia questa una motivazione
sufficiente per non approvare un’intesa che non contiene nessuna disposizione contraria al nostro
ordinamento giuridico. È chiaro che così facendo si fa proprio un controllo sui principi che non è
consentito in un ordinamento giuridico democratico che porta avanti il principio di distinzione degli
ordini. Fondamentalmente questo ragionamento introduce nell’ordinamento democratico un vaglio
sui principi confessionali che contrasta con il principio di distinzione degli ordini e con l’art. 19
Cost. Se fossero davvero queste le ragioni che hanno condotto il Parlamento a non approvare
81

l’intesa, potremmo concludere che questa decisione non è del tutto conforme al nostro ordinamento
costituzionale.

13 intesa ( 2019 con la chiesa d’Inghilterra ma deve essere ancora approvata)

Diritti fondamentali

La LIBERTA’ RELIGIOSA

Art. 19 Cost.

Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma,
individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto,
purché non si tratti di riti contrari al buon costume.

L’art. 19 Cost. riconosce e garantisce il diritto di libertà religiosa, che è un diritto fondamentale
dell’uomo pacificamente riconoscuto come tale anche nell’ambito delle convenzioni e delle
dichiarazioni sui diritti dell’uomo ed è inserito in tutte le Costituzioni degli ordinamenti
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democratici, seppur con formulazioni diverse (alcune più ampie, altre meno; alcune con più limiti,
altre con meno limiti). E, quindi, trova spazio anche all’interno della nostra Carta costituzionale.

La maggior parte delle discussioni all’interno dell’Assemblea Costituente in relazione a questa


norma sono state orientate nella definizioni dei limiti. Quindi, non tanto sulla previsione delle
facoltà; perciò, dell’ambito soggettivo e oggettivo del diritto, ma soprattutto in relazione ai limiti
perchè è in questa previsione espressa che si gioca fondamentalmente il livello di democrazia di un
ordinamento ed è appunto su questo che si è giocato il dibattito all’interno dell’Assemblea
Costituente. Anche perchè si partiva da un ordinamento totalitario confessionista in cui non si
poteva parlare dell’esistenza di un vero e proprio diritto di libertà religiosa: i culti allora erano
prima tollerati (ai sensi dell’art. 1 dello Statuto Albertino), poi diventano ammessi (con la
legislazione dei culti ammessi che era una giurisdizione particolarmente orientata al controllo molto
più che al riconoscimento delle libertà) e, quindi, non si può parlare di un ordinamento in cui vigeva
un principio di libertà religiosa così come è inteso oggi in un ordinamento democratico. Perciò, si
può capire perchè all’interno dell’Assemblea Costituente la questione dei limiti (anche e soprattutto
in relazione all’ordinamento da cui si derivava) è stato sicuramente un aspetto interessante.

L’esito di questa discussione all’interno dell’Assemblea Costituente è una formula laconica: nel
senso che, a differenza di altre Costituzioni europee, ad es. i nostri costituenti non hanno elencato
nel dettaglio tutte le facoltà inerenti al diritto di libertà religiosa, ma hanno dato una formulazione
ampia e nello stesso tempo laconica delle facoltà inerenti al diritto di libertà religiosa anche perchè
non si tratta di un’elencazione tassativa. I termini utilizzati sono appunto generici. Si tratta, però, di
una previsione sì laconica, ma molto garantista: quest’ultimo aspetto è comprovato dal fatto che la
previsione dei limiti è molto ristretta. Nel senso che gli unici limiti espressi sono che i riti (e,
quindi, soltanto i riti, non l’esercizio del culto e la manifestazione della libertà religiosa in generale,
come in altre Carte costituzionali) non siano contrari al buon costume. Quindi, di fatto l’unico
limite espresso ed esplicito all’interno della Carta costituzionale è il parametro del buon costume.
Poi, ci sono altre Carte costituzionali che prevedono ben altri limiti e anche l’art. 9 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo consente agli Stati di restringere la manifestazione del
diritto di libertà religiosa per tutta una serie di scopi legittimi, non solo il buon costume, come
l’ordine pubblico, la moralità, i diritti altrui. Quindi, la previsione del solo buon costume è una
scelta particolarmente rigorosa e restrittiva dei Padri Costituenti che indubbiamente fa dell’art. 19
Cost. un articolo ampio e garantista, quantomeno nel panorama europeo.

La CEDU è un trattato internazionale a cui hanno aderito la quasi totalità degli Stati europei e che
prevede un decalogo di diritti applicabili in tutti gli ordinamenti firmatari (tra cui l’Italia) e, quindi,
anche l’Italia è sottoposta al rispetto della Convenzione e conseguentemente anche al giudizio della
Corte europea dei diritti dell’uomo (che è l’organo giurisdizionale che applica la Convezione).
L’art. 9 della CEDU prevede, tutela e garantisce la libertà di pensiero, di coscienza e di religione.
Quindi, possiamo dire che è il parallello dell’art. 19 Cost. e dell’art. 2 Cost. (diritti inviolabili
dell’uomo). La recente giurisprudenza della Corte costituzionale ha dato un’importante
interpretazione dei rapporti tra Costituzione e CEDU, nel senso che ha ritenuto che in forza del
richiamo contenuto nell’art. 117 Cost. ai trattati internazionali, la Convenzione europea integra il
dettato della nostra Carta costituzionale; e lo integra corredato di tutta la giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo. È molto importante segnalare questa giurisprudenza che ovviamente
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non riguarda solo la libertà religiosa, ma tutti gli ambiti che ineriscono ai diritti fondamentali
tutelati dalla CEDU; quindi, dopo questa giurisprudenza non possiamo più dimenticarci che la
Corte europea dei diritti dell’uomo non ci riguardi. Cioè, la giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo in tema di libertà religiosa integra il dettato dell’art. 19 Cost.: la Corte lo chiama
una norma interposta. Vuol dire che si trova a metà tra le norme costituzionali e le leggi ordinarie;
quindi, la CEDU integra il dettato della Costituzione, corredato di tutte la giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’uomo. Perciò, tutte le volte che ci troviamo a dover risolvere una
questione strettamente inerente al principio di libertà religiosa non possiamo limitarci a interpretare
l’art. 19 Cost., ma dobbiamo estendere la nostra indagine e occuparci anche dell’art. 9 CEDU e
soprattutto della giurisprudenza della Corte europea. L’art. 9 CEDU in sè non dice di più rispetto
all’art. 19 Cost., anzi, nella previsione dei possibili limiti alla manifestazione della libertà religiosa,
previsti dall’art. 9.2, la CEDU è molto più ricca rispetto all’art. 19 Cost., nel senso che l’art. 9
CEDU consente agli Stati di porre limiti che facciano riferimento a molti più scopi legittimi rispetto
al solo buon costume. Quindi, se dovessimo guardare solo l’art. 9 CEDU non potremmo certo dire
che l’ambito oggettivo del diritto sia più ampio rispetto a quell’art. 19 Cost., anzi tutt’altro. Però, la
questione potrebbe cambiare molto nel momento in cui ci mettiamo a studiare la giurisprudenza
della Corte, cioè come la Corte europea interpreta e applica l’art. 9 CEDU perchè in questo caso
l’esecuzioni della Corte europea dei diritti dell’uomo potrebbero incidere notevolmente anche nel
nostro ordinamento. Quindi, l’art. 19 Cost. è molto garantista, probabilmente più dell’art. 9.2
CEDU, però è necessario considerare anche la giurisprudenza della Corte.
• Ambito soggettivo dell’art. 19 Cost.

Per “ambito soggettivo” s’intende a chi si rivolge la norma; quali sono i soggetti tutelati dalla
norma.

L’art. 19 Cost. tutela TUTTI: quindi, l’ambito soggettivo non potrebbe essere più ampio. Viene
utilizzata una formula onnicomprensiva (al contrario di altre disposizioni che ad es. si rivolgono a
tutti i cittadini); quindi, l’art. 19 Cost. si rivolge a tutti i singoli: compre sia i cittadini, sia gli
stranieri, sia gli apolidi. Perciò, ri rivolge, tutela e garantisce tutti coloro che si trovano (anche
temporaneamente) a soggiornare sul territorio italiano: tutti questi godono appieno del diritto di
libertà religiosa.

È molto comune sentir dire che sul diritto di libertà religiosa dovrebbe vigere una certa e distorta
reciprocità; quindi, che noi italiani nel nostro ordinamento dovremmo riconoscere il diritto di libertà
religiosa (con tutte le conseguenze che ne derivano) solo a coloro che arrivano da ordinamenti che
del pari riconoscono la libertà religiosa e, quindi, non a coloro che arrivano da ordinamenti diversi
non democratici, totalitari, confessionisti in cui non esiste un riconoscimento ampio del diritto di
libertà religiosa. Questo principio di reciprocità non trova spazio nel nostro ordinamento
democratico che, in quanto tale, non sottopone i diritti fondamentali dell’uomo a nessun principio di
reciprocità. I diritti fondamentali dell’uomo (tra cui il diritto di libertà religiosa) sono riconosciuti a
tutti senza nessun principio di reciprocità, anzi esistono delle regole interne e internazionali che
c’impongono di dare asilo (di riconoscere albergo) a coloro che arrivano da ordinamenti che non
riconoscono e non rispettano i diritti fondamentali inviolabili.

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Poi, bisogna aggiungere che questa norma sulla libertà religiosa tutela i singoli perchè i gruppi e le
confessioni come istituzioni sono già previste e tutelate dagli artt. 7 e 8 Cost.; quindi, le formazioni
religiose in quanto istituzioni/organizzazioni/”ordinamenti” hanno già il loro riconoscimento nei
primi articoli della Carta costituzionale (dedicati ai principi fondamentali). Però, la norma (come
vediamo indicato nel testo) tutela sì i singoli, ma anche nel loro volersi associare. Quindi, ai singoli
è riconosciuto sia il diritto di professare la propria fede religiosa in forma individuale sia in forma
associata; perciò, fondamentalmente di associarsi in gruppi. Entrambe queste facoltà sono concesse
ai singoli che sono i “veri” soggetti tutelati da questa norma. In questo senso, la libertà religiosa
prevista dell’art. 19 Cost. è una libertà individuale anche se si può declinare (e spesso si declina)
nella scelta di aderire a un gruppo (ma è una scelta eventuale, non obbligata). Quindi, in questo
articolo si ha in mente il singolo e qui il richiamo è all’art. 2 Cost., che tutela, riconosce e garantisce
i diritti inviolabili dell’uomo come singolo ma anche nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua
personalità. In questo senso l’art. 19 Cost. costituisce un’evidente espressione dell’art. 2 Cost. e
della sua impronta personalistica perchè il singolo/l’uomo/la persona rimane al centro e vengono
garantiti i suoi diritti inviolabili anche nelle formazioni sociali alle quali scelga di aderire.
• Ambito oggettivo dell’art. 19 Cost.

Passando a guardare l’ambito oggettivo della norma, possiamo vedere che anche le facoltà sono
molto ampie anche se sono previste in maniera particolarmente laconica e l’elenco NON è tassativo
perchè ad es. all’interno di esercitare il culto o professare liberamente la propria religione ci stanno
dentro tanti diritti e possibilità di esercizio e di professione concreta.

Ad es. all’interno della previsione di professare liberamente la propria fede religiosa è compresa la
possibilità di aderire a una confessione religiosa già esistente, modificare la propria scelta religiosa
in qualsiasi momento senza nessuna motivazione e, quindi, aderire a un’altra confessione religiosa,
creare una propria confessione religiosa (e, quindi, sperare che abbia aderenti o adepti), professare
una fede propria che non si rispecchi in nessuna fede già esistente ecc.

Da questo “liberamente” consegue che dalla scelta religiosa o meno e dalla modifica di questa
scelta non possono scaturire conseguenze pregiudizievoli o privilegi per il singolo.
Ques’affermazione per molto tempo non è stata così ovvia come può sembrare oggi. Ad es. una
delle materie nelle quali c’è stata in questo senso un’evoluzione è il diritto di famiglia che negli
anni ‘60/’70 (pronunce relativamente recenti e comunque successive all’entrata in vigore della
Costituzione) la modifica di una religione poteva avere conseguenze importanti all’interno ad es. di
una causa per separazione in relazione all’affidamento dei figli o in relazione alla previsione di una
separazione per colpa o meno. Cioè, non erano infrequenti sentenze in cui l’affidamento dei figli
minori veniva stabilito anche in relazione alla scelta religiosa del coniuge e veniva privilegiato
tendenzialmente il coniuge cattolico. Quindi, la modifica della scelta religiosa in corso di
matrimonio poteva anche essere interpretata negativamente finanche a fondare una pronuncia di
separazione per colpa in capo al coniuge che aveva modificato la propria religione. Sono situazioni
non così lontane nel tempo che rivelano come il coniuge di religione cattolica venisse quantomeno
preferito come coniuge affidatario dei figli minori. Questa giurisprudenza è stata ormai superata (e
sul punto è ricca anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo) e in più
occasioni è stato fatto presente che dalla modifica dell’appartenza religiosa non possono scaturire
conseguenze pregiudizievoli in relazione all’affidamento dei figli minori. Quindi, non è possibile
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far derivare la scelta sull’affidamento dei figli minori alla sola modifica della scelta religiosa, ci
devono essere delle motivazioni oggettive e delle evidenze che possono anche eventualmente
scaturire dalla modifica di appartenenza religiosa, ma devono comunque essere delle motivazioni
oggettive che fanno ritenere che l’interesse del minore sia di essere affidato all’altro coniuge.

Continuando a parlare dell’ambito oggettivo, si apre una questione che per molto tempo è rimasta
irrisolta: questione dell’ateismo o dell’agnosticismo o comunque della scelta religiosa di segno
negativo. La questione che si poneva era se anche l’ateismo potesse essere tutelata dall’art. 19 Cost.
perchè una parte della dottrina riteneveva che l’art. 19 Cost. tutelasse solo una scelta o posizione di
segno positivo/religioso; mentre, tutte la altre opzioni di segno negativo darebbero potute rientrare
nella tutela di altri articoli (come l’art. 21 Cost. -libertà di pensiero-), ma non nell’art. 19 Cost.
Addirittura una tesi dottrinale degli anni ’50 (immediatamente successivi all’entrata in vigore della
Carta costituzionale) riteneva che l’ateismo fosse “illecito”, cioè che non fosse contemplato nello
spettro delle libertà costituzionali e, quindi, che non fosse tutelato dalla Costituzione che invece
tutelava una scelta di tipo religioso. Su questo aspetto si è pronuciata la Corte costituzionale con la
sent. 117/1979. Al contrario dell’art. 8 Cost. che ha dovuto aspettare qualche decennio prima di
essere utilizzato dalla Corte costituzionale per dichiarare l’incostituzionalità di alcune norme
unilaterali (come il c.p.), l’art. 19 Cost. è stato utilizzato dalla Corte per dichiarare
l’incostituzionalità di alcune norme (antecedenti all’entrata in vigore della Carta costituzionale) in
tempi molto più recenti. Questo perchè la Corte ha ritenuto più semplice un’immediata applicazione
al diritto di libertà religiosa (che pure rappresentava una novità nell’ordinamento democratico) che
aveva un’efficacia immediata e, quindi, non richiedeva delle interpretazioni particolari per essere
applicato rispetto all’eguale libertà che apriva il varco ad alcune problematiche soprattutto in
relazione alla Chiesa cattolica. Quindi, mentre l’eguale libertà (prevista dall’art. 8 co 1 Cost.) ha
faticato ad essere interpretata in chiave di equidistanza tra le confessioni e ad essere utilizzata come
parametro di costituzionalità per dichiarare l’incostituzionalità di norme unilaterali (perchè per
molto tempo è stata preferita un’interpretazione debole dell’eguale libertà che comunque lasciasse
sopravvivere le situazioni di privilegio), non così per l’art. 19 Cost.

Nella sent. 117/1979 si scioglie un po’ questo dubbio sulla questione dell’ateismo o della scelta
religiosa di sengno negativo perchè la Corte dice: «Ma l'opinione prevalente fa ormai rientrare la
tutela della c.d. libertà di coscienza dei non credenti in quella della più ampia libertà in materia
religiosa assicurata dall'art. 19, il quale garantirebbe altresì (analogamente a quanto avviene per
altre libertà: ad es. gli articoli 18 e 21 Cost.) la corrispondente libertà "negativa". Ma anche chi
ricomprende la libertà di opinione religiosa del non credente in quella di manifestazione del
pensiero garantita dall'art. 21 Cost. (norma parimenti richiamata come parametro di giudizio
nell'ordinanza del pretore di Torino) perviene poi alle stesse conclusioni pratiche, e cioé che il
nostro ordinamento costituzionale esclude ogni differenziazione di tutela della libera esplicazione
sia della fede religiosa sia dell'ateismo, non assumendo rilievo le caratteristiche proprie di
quest'ultimo sul piano teorico».
• In questa sentenza la Corte ci dice che libertà di credere e libertà di non credere sono
entrambe ricomprese nell’art. 19 Cost. perchè comunque costituiscono un orientamento/
risposta del singolo davanti alle medesime domande (che sono le domande ultime

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sull’essere e sull’esistere) che possono condurre a una risposta sia di segno positivo che di
segno negativo.

Sicuramente una delle motivazioni che ha sostenuto il UAAR nel portare avanti l’istanza di
apertura delle trattative per la stipulazione delle intese fondava anche su quest’interpretazione
dell’art. 19 Cost. Cioè, fondamentalmente si sosteneva che se l’art. 19 Cost. tutelava anche la
libertà di non credere, perchè confessione religiosa non può essere anche un gruppo di atei?

Questa sentenza si riferisce al famoso giuramento dei testimoni.

Nella sentenza 334/1996 si faceva espresso riferimento al principio di distinzione degli ordini;
quindi, l’obbligo di giurare nei processi civili e penali era stato ricollegato proprio al principio di
distinzione degli ordini e, in questo senso, la relativa disposizione era stata dichiarata
incostituzionale. Qui, invece, la prospettiva è diversa: cioè, il giuramento del testimone non è visto
tanto nell'ottica del principio di distinzione degli ordini quanto in quella della libertà di coscienza
dei non credenti. Quindi, si arriva a una pronuncia d’incostituzionalità parziale con un percorso
diverso. Nella sentenza 117/1979 si parla della libertà di coscienza dei non credenti e si fa leva
sull’art. 19 Cost.; invece, nella sent. 334/1996 quando la Corte è già intervenuta nel dire che lo
Stato italiano è uno Stato laico, allora la Corte si permette anche di fare ricorso al principio di laicità
e al principio di distinzione degli ordini.

La libertà di propaganda è espressamente prevista nell'art. 19 Cost.; quindi, è una di quelle libertà
che il costituente ha deciso di esplicitare. La decisione di esplicitarla non è casuale e si rileva già nei
lavori preparatori della Carta perchè nello Stato totalitario fascista la libertà di propaganda non era
tutelata, o meglio era ampiamente tutelata la libertà di propaganda e di proselitismo della religione
cattolica (in forza dei Patti Lateranensi), ma non dei culti diversi da quello cattolico. Anzi
esistevano delle disposizioni dalle quali si evinceva che esisteva un “divieto”/limite alla propaganda
dei culti diversi da quello cattolico.

Un riferimento è all'art. 5 della legge sui culti ammessi che diceva che “La discussione in materia
religiosa è pienamente libera”. Ma questa “discussione in materia religiosa” era intesa come
discussione tra teologi, studiosi, non certo la propaganda tra persone comuni e in luoghi non
dedicati allo studio e allo scambio di opinioni dottrinali. Quindi, l’art. 5 della legge sui culti
ammessi NON tutelava la libertà di propaganda, anzi precisando che la discussione in materia
religiosa era pienamente libera, a contrario faceva supporrre che non era pienamente libero ciò che
non poteva essere definito “discussione”.

Questa tesi era confermata dall'operare dell’art. 402 c.p. (non più in vigore dopo la dichiarazione
d’incostituzionalità della sentenza 508/2000 e poi non è stato più riprodotto dal legislatore nel
2006), che puniva qualsiasi vilipendio contro la religione dello Stato (ovvero quella cattolica). La
peculiarità della norma era che era prevista a tutela solo della religione di Stato, cioè non c’era
un’estensione di tutela per questo vilipendio generico a favore dei culti diversi da quello cattolico.

Per molto tempo, anche dopo l'entrata in vigore della Carta costituzionale, il vilipendio era
interpretato dalla Corte di Cassazione penale in maniera molto ampia: cioè, si riteneva essere
vilipendio qualsiasi critica o attacco alla religione di Stato che non fosse supportata da una
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motivazione teologica convincente. Quindi, fondamentalmente qualsiasi tipo di propaganda che


venisse esercitata attraverso la critica della religione dello Stato veniva punita come vilipendio fino
agli anni ’50-‘60.

Il combinato operare dell'art. 5 della legge sui culti ammessi (che non garantiva la libertà di
propaganda ma solo la discussione) e dell'art. 402 c.p. (che fondamentalmente puniva qualsiasi
propaganda che avvenisse attreverso critiche della religione di Stato) di fatto limitava molto la
propaganda dei culti diversi da quello cattolico.

Quindi, in questa situazione, è fondamentale che i Padri Costituenti abbiano deciso d’inserire tale
libertà all’interno dell’art. 19 Cost. e di prevederla in maniera espressa. Anche perchè, in realtà,
questa previsione non è così frequente nelle costituzioni europee: anzi ve ne sono alcune, come
quella greca, in cui vi è un vero e proprio divieto di proselitismo.

Persino la Corte europea sui diritti dell’uomo si è pronunciata (proprio nei confronti della Grecia) in
merito alla libertà di propaganda e di proselitismo, che non è espressamente inserita nell’art. 9.1
CEDU, e ha riconosciuto questo diritto in maniera molto cauta. Nel senso che la Corte ha
riconosciuto espressamente che la libertà di proselitismo rientra nell'ambito di tutela dell'art. 9
(anche se non è espressamente prevista); MA ci sono alcune situazioni in cui il proselitismo o la
propaganda possono essere limitati, ovvero quando vi è sfruttamento di una posizione dominante
per ragioni di età, per la presenza di un rapporto gerarchico, per lo stato psicologico o la situazione
economica dei soggetti. Quando c’è lo sfruttamento di una posizione dominante, la libertà di
proselitismo e di propaganda può essere limitata. Questa giurisprudenza della CEDU, benchè
riconosce a pieno titolo l’importanza e la centralità del diritto di propaganda all’interno della libertà
religosa, comunque consente alcune limitazioni perché la libertà di coscienza deve essere tutelata in
modo particolarmente ampio e, quindi, deve essere tutelata anche nei confronti di tentativi di
sviamento da parte di soggetti esterni che abbiano una posizione dominante rispetto a qualcun'altro.

Ultimo diritto/facoltà sancito dall'art. 19 Cost. è il diritto di esercitare il culto, di cui non vi è
un’elencazione tassativa delle facoltà inerenti (diritto molto ampio e comprensivo). Nell'ambito di
questa previsione così ampia si comprende anche, secondo la Corte Costituzionale, il diritto ad
avere un luogo di culto. Il fatto che il diritto di esercitare il culto sia molto ampio consente davvero
di collegare la libertà religiosa a un insieme indeterminato e indeterminabile di comportamenti che
potrebbero essere ricollegati all’esercizio del proprio culto.

Limiti espressi dell’art. 19 Cost.

Purchè non si tratti di riti contrari al buon costume.

I limiti espressi al diritto di libertà religiosa riguardano solo i riti (quindi, non l’esercizio del culto in
generale, ma solo quello specifico esercizio del culto che si esplica attraverso ritualità), che non
devono essere contrari al buon costume. Questa parte della norma ha comportato molti dibattiti
all’interno dell’Assemblea Costituente perchè è evidente che i limiti alle libertà fondamentali
costituiscono un banco di prova importante della tenuta di un ordinamento democratico. Siccome
un ordinamento è democratico se riconosce, tutela e garantisce una serie di diritti fondamentali, è
chiaro che l’ampiezza con la quale questi diritti vengono tutelati (= limiti) costituisce un importante
banco di prova. Infatti, come base di lavoro, i costituenti sono partiti dall'art. 1 della legge sui culti
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ammessi, che prevedeva un quadruplice ordine di limiti: cioè, i culti potevano essere ritenuti
ammessi nell’ordinamento solo se non perseguivano princìpi e non eseguivano riti contrari
all'ordine pubblico e al buon costume. Quindi, sia i principi confessionali sia i riti non dovevano
essere contrari e all’ordine pubblico e al buon costume. C’erano 2 limiti in più: i principi e l’ordine
pubblico. È proprio su queste previsioni che c’è stato un certo dibattito all’interno dell’Assemblea
Costituente fondamentalmente su quali di questi limiti mantenere e su quali espungere.

Quali limiti mantenere e quali cancellare?

L’espulsione del riferimento ai “principi” era doverosa perchè nel momento in cui si diceva che
l'Italia doveva diventare uno Stato democratico, aconfessionale e in cui vigeva il principio di
distinzione degli ordini, è evidente che non si poteva immaginare una valutazione, un controllo, un
giudizio sui princìpi confessionali poiché essi rientrano a pieno titolo nell'ordine spirituale e non
possono certo essere giudicati o valutati dall’ordinamento. Altro è poi se questi principi si traducono
in atti/comportamenti che possono eventualmente porsi in contrasto con l’ordinamento giuridico;
però, il principio confessionale per sua natura attiene all’ordine spirituale e, quindi, non può essere
sottoposto a un giudizio.

Nella legge sui culti ammessi il legislatore fascista aveva previsto una valutazione sui princìpi
confessionali poiché lo Stato totalitario era uno Stato confessionista (di un tipo di confessionismo
etico) e, quindi, decideva quali erano i culti conformi alla sua morale/etica (che, per certi versi, non
risultavano eterodossi a tutto ciò e, quindi, graditi allo Stato) e i culti che contrastavano con questa
morale e che, quindi, non erano graditi. È chiaro che il legislatore totalitario e confessionista poteva
permettersi una valutazione di questo tipo (una divisione tra culti graditi e non) anche in relazione
ai soli principi confessionali seguiti; questo, invece, non è consentito allo Stato democratico e
aconfessionale/laico, che porta avanti un principio di distinzione degli ordini.

Quindi, il rifiuto a un controllo/valutazione dei principi era strettamente legato al tipo di


ordinamento che si stava creando.

Il riferimento all'ordine pubblico poteva rimanere perchè ci sono attualmente delle Costituzioni in
molti ordinamenti europei in cui c’è il riferimento all’ordine pubblico come limite ad alcune libertà
fondamentali tra cui la libertà religiosa; quindi, non è un limite che non possa trovare posto in un
ordinamento democratico, tant’è che questo limite esiste anche nell’art. 9.2 CEDU come scopo
legittimo che consente di limitare a certe condizioni l’esercizio della libertà religiosa. Però i Padri
costituenti hanno deciso di espungerlo come limite alla libertà religiosa e come limite a tutte le altre
libertà (come la libertà di pensiero) poiché ritenevano che non fosse più rispondente ai principi
dello Stato democratico che volevano realizzare.

La motivazione è che nell’art. 1 della legge sui culti ammessi e comunque in generale
nell'ordinamento fascista il riferimento all'ordine pubblico era il riferimento a un ordine pubblico di
natura ideale/politica; quindi, l’ordine pubblico era in questo senso assimilabile al buon costume,
perciò costituiva quell’insieme di principi di ordine ideale/politico che costituivano la morale e
l’etiva pubblica. Quindi, aveva una valenza certamente di natura ideale che non era più rispondente
ai principi dello Stato democratico, mentre era rispondente ai principi di uno Stato di polizia che
voleva imporre alle libertà un proprio preciso e specifico orientamente.

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Oggi l'ordine pubblico (che pure costituisce un limite implicito ad alcune libertà, utilizzato da
normative esterne alla Costituzione) viene letto (ad es. da alcune disposizioni di natura penale)
come sicurezza pubblica. Quindi, i reati a tutela dell’ordine pubblico sono reati che non tutelano un
ordine pubblico di natura ideale, bensì di natura materiale paragonabile alla sicurezza (intesa in
senso ampio). In questo senso, il concetto di ordine pubblico, che è stato abbandonato dai Padri
Costituenti, era un ordine pubblico diverso rispetto a quello che viene ad es. utilizzato nelle norme
penali o anche in altri settori dell’ordinamento.

Questa questione del buon costume e dell’ordine pubblico è stata molto dibattuta all’interno
dell’Assemblea Costituente.
• Lavori preparatori: Onorevole Preti (seduta del 26 marzo 1947)

“Lasciamo stare dunque le ipocrite clausole dell'ordine pubblico e del buon costume. Ordine
pubblico significa, in pratica, arbitrio di polizia; e la clausola del buon costume - a meno che non
abbia lo stesso significato della clausola dell'ordine pubblico - è, per lo meno, offensiva nei
confronti di un culto religioso. Se proprio dovessero diffondersi culti realmente contrari al buon
costume, contro questi culti, che nulla in tal caso conserverebbero della dignità religiosa, lo Stato
ha modo di intervenire a norma della legislazione penale”.

L’Onorevole dice che esiste già un codice penale che tutela il buon costume; quindi, è inutile
porre un limite di questo tipo nella Carta costituzionale perchè non porterebbe da nessuna parte e
addirittura potrebbe arrivare ad offendere il culto religioso.
• L'Onorevole Nobile voleva addirittura aggiungere i limiti piuttosto che toglierli, ma
quest’intervento è importante per il ragionamento che racchiude in cui è molto chiaro
l’atteggiamento di prevenzione, di timore e di paura nei confronti del nuovo, del diverso e
dello sconosciuto che aleggiava in alcuni Padri costituenti. Quando si trovavano a dover
limitare la libertà religiosa e, quindi, per certi versi l’apertura verso culti nuovi e sconosciuti,
alcuni Padri costituenti si facevano turbare da alcune fantasie. Infatti, Nobile parla delle
“sette religiose”, in modo dispregiativo, che esistono in America; quindi, c’era una
concezione molto elevata e particolarmente elitaria della religione. Perciò, addirittura
proponeva un allargamento di limiti.

“L'articolo 14 stabilisce che tutti hanno diritto di esercitare in privato od in pubblico atti di culto,
purché non si tratti di principî o riti contrari al buon costume o all'ordine pubblico. Sono,
naturalmente, d'accordo; però badate, onorevoli colleghi, che vi sono sette religiose, i cui riti, pur
non essendo contrari all'ordine pubblico od al buon costume, costituiscono, per la loro
stravaganza, intollerabili aberrazioni. Sette di tal genere sono numerose specialmente in America.
A me stesso è capitato di assistere a taluni dei loro riti. Nulla in essi vi era che offendesse il buon
costume o potesse turbare l'ordine pubblico; ma erano per se stessi talmente ridicoli che mi
sembrerebbe davvero inconcepibile che, in un paese di antica civiltà come il nostro se ne potesse
tollerare l'esistenza. Mi sembra perciò giusto che l'articolo 14, insieme con i riti che offendono la
morale, proscriva anche quelli stravaganti. (Interruzione dell'onorevole Tonello). Mi spiegherò,
caro Tonello, con esempi concreti. Ho vissuto alcuni anni negli Stati Uniti, e mi è capitato varie
volte di sentir parlare di alcuni strani culti che colà allignano. Una volta presso Chicago ho
assistito, sebbene di lontano, ad una cerimonia religiosa in cui gli adepti si contorcevano, come fra
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convulsioni, sul pavimento della cosiddetta chiesa fra le alte grida dei fedeli. Nulla contro il buon
costume, nel senso che ordinariamente si dà a questa espressione, ma non credo che in un paese
civile si debbano tollerare siffatti degenerazioni del sentimento religioso. L'America del Nord,
purtroppo, abbonda di tali culti stravaganti. Basti citare per tutti quello del Father Divine, di cui
forse avrete sentito parlare non fosse altro che per la villa che, a spese di suoi creduli seguaci,
riuscì a costruirsi sulle rive dell'Hudson di fronte a quella di Roosevelt. Nel Tennessee esiste una
setta religiosa, i cui ministri celebrano i loro riti maneggiando serpenti che portano cinti al collo.
Solo in questi giorni, e lo apprendiamo dalle riviste americane, una legge di quello Stato ha
proibito l'uso dei serpenti, dopo che due ministri erano morti a causa dei loro morsi. Dopo il
contatto che abbiamo avuto con truppe straniere di ogni razza o colore, non mi par fuor di luogo
che siano prese misure per impedire che culti stravaganti del genere che ho accennato possano
propagarsi anche tra noi. Mi direte che ciò è estremamente improbabile, e sono d'accordo; ma
altrettanto improbabile è, allora, che possano attecchire fra noi culti che offendano il buon
costume. Perciò, visto che nella Costituzione si parla di questi, ritengo necessario aggiungere nel
divieto anche quelli”.

Tutto ciò dimostra che i Padri Costituenti sono partiti dalla dizione contenuta nell’art. 1 della legge
sui culti ammessi e, quindi, non hanno creato nulla di nuovo (hanno fatto una scelta di economia) e
hanno fondamentalmente tolto ciò che gli sembrava inaccettabile e in contrasto con l’idea di Stato
democratico che avevano (e che doveva certamente discostarsi dallo Stato di polizia da cui
arrivavano). Perciò, hanno espunto il limite dell’ordine pubblico (non solo dalla libertà religiosa ma
da tutte le libertà fondamentali) e il riferimento ai principi e hanno tenuto SOLO il limite espresso
del buon costume in relazione ai soli riti.

Cos’è il buon costume? Il limite del buon costume gode di riconoscimento costituzionale? Come
può limitare alcune libertà fondamentali?

Il buon costume è un concetto variabile nel tempo e nello spazio: ciò che era buon costume negli
anni ’50 probabilmente non è buon costume adesso; ciò che viola il buon costume in Italia
certamente non è lo stesso che viola il buon costume ad es. in Iran.

Il buon costume è l'insieme dei princìpi che regolano o che fondano in un preciso momento storico
e in un preciso ordinamento la morale sessuale.

Questo limite non è previsto solo dall'art. 19 Cost., ma anche dall’21 Cost. (anche la libertà di
pensiero è sottoposta al limite del buon costume) in cui, al contrario che nella libertà religiosa, il
limite è addirittura preventivo (perchè c’è anche l’istituto della censura). Nell’art. 19 Cost. il limite
NON opera preventivamente ma solo successivamente. Questo limite è stato utilizzato dai Padri
Costituenti anche per limitare ad es. la libertà di pensiero.

Allora, ci si è chiesti se un concetto come il buon costume (che non sembra direttamente godere di
un esplicito riconoscimento costituzionale) possa avere la forza di limitare alcune importantissime
libertà fondamentali all’interno dello Stato democratico (= che strutturano nell’essenziale la
democrazia in un ordinamento): libertà di pensiero e libertà religiosa. Quindi, in realtà, è parso che
questo fosse un limite un po’ fragile per limitare alcune libertà fondamentali, anche se è vero che il
buon costume costituirebbe anche eventualmente un limite esterno non espresso perchè esistono
una serie di reati nel codice Rocco che tutelano il buon costume che, quindi, è ritenuto un bene
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giuridico meritevole di tutela perchè ci sono una serie di fattispecie penali che lo tutelano e lo
proteggono. Se non fosse un limite espresso (e lo è all’interno dell’art. 19 Cost.), potrebbe
comunque costituire un limite esterno implicito.

Come si possono bilanciare i diritti di libertà, da una parte, e il buon costume, dall’altra?

Su questo è intervenuta a più riprese la Corte Costituzionale (ad es. con la sentenza 293/2000) non
tanto in relazione all’art. 19 Cost., bensì in relazione all’art. 21 Cost. e si parlava proprio di reati a
tutela del buon costume. Nella sent. 293/2000 la Corte dà un’interpretazione del buon costume
costituzionalmente orientata, cioè per certi versi ci spiega perchè il buon costume può costituire un
bene valido e meritevole di tutela e, quindi, da bilanciare anche con libertà fondamentali quali la
libertà di pensiero o di religione.

“[spiegazione del buo costume] Vale a dire, non soltanto ciò che è comune alle diverse morali del
nostro tempo, ma anche alla pluralità delle concezioni etiche che convivono nella società
contemporanea. Tale contenuto minimo altro non è se non il rispetto della persona umana, valore
che anima l'art. 2 della Costituzione, alla luce del quale va letta la previsione incriminatrice
denunciata. Solo quando la soglia dell'attenzione della comunità civile è colpita negativamente, e
offesa, dalle pubblicazioni di scritti o immagini con particolari impressionanti o raccapriccianti,
lesivi della dignità di ogni essere umano, e perciò avvertibili dall'intera collettività, scatta la
reazione dell'ordinamento”.
• La Corte dice che il concetto di buon costume è talmente ampio da essere riconducibile
all’art. 2 Cost. inteso come rispetto della persona umana, o meglio come dignità di ogni
essere umano. Per cui, in realtà, gli atti contro il buon costume non costituiscono solo atti
lesivi di un’idea/di un principio che fonda la morale sessuale, ma costituiscono delle vere e
proprie lesioni alla dignità di ogni essere umano. In questo senso, il limite del buon costume
legato e interpretato nell’ottica della dignitià della persona può validamente costituire un
limite espresso o implicito di libertà fondamentali, quali la libertà religiosa e la libertà di
pensiero.

Dopodichè è evidente che in relazione alla libertà di pensiero e anche in forza delle
disposizioni di tipo penale questo limite ha operato molte volte, non così invece in materia
di libertà religiosa. Non ci sono serie e specifiche applicazioni di questo limite in relazione a
riti che siano effettivamente stati ritenuti contrari al buon costume.

IL DIRITTO AL TEMPIO

È un tema che inerisce strettamente all’art. 19 Cost. (diritto di libertà religiosa), ma nell’ambito di
questo diritto e soprattutto nell’ambito della facoltà di esercitare il culto (che è una facoltà
estremamente ampia e che racchiude moltissimi comportamenti) si può definire come diritto al
tempio, per sottolineare l’aspetto che il diritto è di ampio spettro; quindi, non riguarda solo le
chiese delle confessioni cristiane.

La Corte costituzionale, già nei suoi primi anni di operatività (aveva appena deciso nella sent.
1/1956 di occuparsi anche della conformità a Costituzione delle norme antecedenti all’entrata in
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vigore della Carta costituzionale), si occupa della legislazione sui culti ammessi e dichiara
l’incostituzionalità di alcune sue norme prendendo come parametro di costituzionalità in particolar
modo l’art. 19 Cost. Qui si nota proprio la differenza di atteggiamento della Corte nell’interpretare
l’art. 19 Cost. e l’art. 8 co 1 Cost. che pure viene citato nella sentenza MA con un’accezione ben
diversa rispetto a quella che verrà utilizzata dagli anni ’90 in poi. La Corte costituzionale è
coraggiosa ad applicare direttamente l’art. 19 Cost. per dichiarare l’incostituzionalità di una norma
legata alla legislazione sui culti ammessi, mentre più difficile sarà il percorso legato
all’equidistanza e all’eguale libertà delle confessioni religiose (che comunque dovrà aspettare molto
tempo per avere una lettura costituzionalmente orientata e, quindi, rigorosa). Non così l’art. 19
Cost. che supera anche il dettato dell’art. 1 della legislazione sui culti ammessi; quindi, in questo
senso, non c’è mai stata una sentenza della Corte costituzionale che dichiarasse l’incostituzionalità
dell’art. 1 della legislazione sui culti ammessi, ma sicuramente esiste un’evidente incompatibilità
tra l’art. 1 e l’art. 19 Cost.; perciò, l’art. 1 della legislazione sui culti ammessi ormai si considera
abrogato per contrasto con l’art. 19 Cost.

La sentenza 59/1958 riguardava alcune disposizioni della legislazione sui culti ammessi che
sottoponevano l’apertura di luoghi di culto (i c.d. templi ed oratori) ad un'autorizzazione
governativa particolarmente discrezionale e al fatto che questi luoghi fossero tenuti da un ministro
di culto nominato ai sensi della legislazione sui culti ammessi. Se non esistevano queste condizioni
non si poteva aprire un luogo di culto.

La Corte costituzionale dichiara l’incostituzionalità di queste disposizioni affermando che avere la


disponibilità di un luogo in cui riunirsi e celebrare i riti della propria religione rientra nel diritto di
libertà religiosa e, in particolar modo, nel diritto di esercitare il culto.

“Con l’art. 19 il legislatore costituente riconosce a tutti il diritto di professare la propria fede
religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato
o in pubblico il culto, col solo e ben comprensibile, limite che il culto non si estrinsechi in riti
contrari al buon costume. La formula di tale articolo non potrebbe, in tutti i suoi termini, essere più
ampia, nel senso di comprendere tutte le manifestazioni del culto, ivi indubbiamente incluse, in
quanto forma e condizione essenziale del suo pubblico esercizio, l'apertura di templi ed oratori e la
nomina dei relativi ministri”.
• Quindi, nel 1959, la Corte dice che non si può sottoporre ad un’autorizzazione ampiamente
discrezionale l’apertura di un luogo di culto perchè avere la disponibilità di un luogo in cui
riunirsi inerisce strettamente al diritto di libertà religiosa (= è condizione essenziale di
questo diritto).

Il diritto riguarda tutti: cittadini, stranieri e apolidi; quindi, il diritto all’apertura e alla disponibilità
di un luogo di culto non potrebbe essere più ampio ed è un’importante misura dell’effettivo livello
di democrazia del nostro Paese.

Domanda: Visto che la disponibilità di un luogo inerisce al diritto di libertà religiosa, questo
implica un obbligo positivo in capo allo Stato per renderlo effettivo?

93

È evidente che quando si parla di luoghi di culto si parla di oggetti che richiedono un effettivo
dispendio di risorse e di spazi edificabili che siano destinabili all’edificazione di un luogo di culto.
Quindi, fondamentalmente si parla di risorse sia economiche che non che non sono infinite.

A questa domanda risponde molto bene la giurisprudenza sul principio supremo di laicità dello
Stato: Corte Cost. 203/1989 e 508/2000. Sicuramente è legittimo che lo Stato intervenga a favore
della libertà religiosa; quindi, lo Stato (in un’ottica di pluralismo confessionale e culturale) può
intervenire per rendere effettivo questo diritto. Però, bisogna anche vedere se lo Stato deve
intervenire, cioè ci deve essere un’esplicita scelta da parte della normativa statale per poter dire che
esiste un obbligo positivo in capo allo Stato.

Bisogna far riferimento ad alcune disposizioni della legislazione urbanistica degli anni ’60-’70 del
secolo scorso, in cui espressamente gli edifici destinati al culto (genericamente intesi) sono inseriti
nelle opere di urbanizzazione secondaria. Le opere di urbanizzazione si dividono in primaria, che
riguarda gli interventi necessari (strade, ponti, illuminazione, fognature), e in secondaria che
costituisce l’insieme dei servizi sociali (le opere svolte per utilità sociale), tra cui sono stati inseriti
gli edifici destinati al culto. Le altre opere di urbanizzazione inserite da questa legge nel novero
sono: scuole, asili, palestre, mercati, aree verdi ecc.: insieme dei servizi sociali a supporto di un
insediamento urbano.

L’inserimento degli edifici di culto tra queste opere segna una svolta perchè fondamentalmente
rivela l’intenzione del legislatore di occuparsi attivamente degli edifici di culto perchè riteneva che
gli edifici di culto rispondessero ad un bisogno generale, quantomeno di tutti i credenti. Quindi, il
fatto che rispondessere a un bisogno generale di tutti i credenti implicava un intervento positivo in
capo allo Stato. Tale scelta (che è rimasta tuttora ferma) segna davvero un punto di non ritorno in
cui lo Stato comincia a farsi carico direttamente degli edifici di culto, non solo cattolico (anche se,
in realtà, negli anni in cui la normativa è stata emanata molto probabilmente il legislatore pensava
proprio alle chiese cattoliche, che erano fondamentalmente la totalità degli edifici di culto in Italia).
Ma sicuramente la dizione così ampia ha consentito negli anni un’interpretazione diversa e, quindi,
di estendere la disposizione anche agli edifici di tutte le confessioni religiose, in aderenza al
carattere pluralista del nostro ordinamento (che in quegli anni cominciava con molta gradualità a
prendere forma).

La riconduzione degli edifici di culto nel novero delle opere di urbanizzazione secondaria aveva
importanti conseguenze anche di ordine economico; quindi, non era solo un inserimento ideale ma
una qualificazione dalla quale discendevano importanti conseguenze per gli edifici di culto. La più
importante conseguenza era quella introdotta nel 1977 dalla legge Bucalossi (n. 10/1977 art. 12),
poi abrogata dal d.p.r. 380 del 2001 (ma la destinazione delle somme è rimasta viva), che destinava
alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria una percentuale variabile
delle somme derivanti dalla corresponsione delle concessioni edilizie ai comuni. Quindi, i comuni
ricevevano delle somme e destinavano una quota alla realizzazione delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria. È molto importante questa conseguenza perchè arrivavano agli edifici di
culto dei contributi pubblici, senza contare che le opere di urbanizzazione (primaria e secondaria)
non erano sottoposte alla corresponsione della concessione edilizia; perciò, non pagavano la
concessione edilizia per la loro realizzazione e, in più, si vedevano riconosciuti dei contributi
pubblici per la loro edificazione.
94

Ora tale destinazione è di competenza concorrente tra Stato e regioni perchè nel 2001 è stato
modificato l’art. 117 Cost. (quindi, sono state di fatto modificate le competenze e il riparto di tali
competenze tra Stato e Regioni). L’edilizia di culto è stata ricompresa nell’ampia materia del
governo del territorio che è di competenza concorrente. Vuol dire che lo Stato dovrebbe definire i
principi essenziali e determinanti della materia e invece le regioni sono chiamate a emanare la
normativa di dettaglio. Questa normativa statale che fissi i principi determinanti della materia non
c’è mai stata e, quindi, i principi della materia non sono fissati per legge. Di fatto l’unica legge
nazionale tutt’ora in vigore è la legislazione sulle opere di urbanizzazione primaria e secondaria.

Questo vuol dire che, in mancanza di una normativa statale che fissi i princìpi fondamentali, le
regioni (da quando hanno iniziato a legiferare: anni ’80-‘90) sono sempre state lasciate a se stesse
nel disciplinare e regolare questa materia. Quindi, le regioni si sono trovate nella necessità di fissare
i requisiti che i gruppi religiosi dovevano possedere per partecipare al riparto dei contributi
economici e delle aree edificabili e altresì stabilire i criteri da utilizzare nella effettiva distribuzione.
Sia l’identificazione dei requisiti che le confessioni dovevano possedere per partecipare sia i criteri
nell’effettiva distribuzione sono stati da sempre lasciati alle regioni senza che lo Stato indicasse
alcuna linea precisa da seguire.

Quindi, fondamentalmente gli unici principi che le regioni avrebbero dovuto seguire erano quelli
derivanti dalla Carta costituzionale e quelli derivanti dalla (scarsa se non nulla) legislazione
unilaterale presente. In questa situazione di vuoto legislativo, le regioni hanno utilizzato i criteri più
disparati soprattutto al fine di identificare le confessioni destinatarie della disciplina di favore
(stabile organizzazione, certa numerosità, presenza sul territorio, riconoscimento della confessione
ai sensi della legge sui culti ammessi, ecc.). La conseguenza di questa ricchezza di criteri è che il
godimento del diritto di libertà religiosa aveva una geometria variabile, cioè c’erano alcune regioni
in cui magari il riconoscimento era particolarmente ampio (perchè il novero delle confessioni
religiose ammesse ai benefici economici era ampio), mentre c’erano altre regioni che utilizzavano
criteri maggiormente restrittivi con importanti conseguenze sul godimento del diritto di libertà
religiosa di quei gruppi che fossero esclusi dal riparto dei contributi economici e delle aree
edificabili.

In quest’amplissima varietà di criteri c’è stato un criterio che ha avuto maggior seguito (più
oggettivo e più di semplice utilizzo rispetto ad altri) e che in più situazioni è stato adottato: criterio
dell’avere stipulato un’intesa approvata con legge dello Stato. Stiamo parlando di leggi regionali
degli anni ’80-’90 (perchè è stato in quegli anni che le regioni hanno iniziato a legiferare sul punto):
era un periodo storico in cui si era aperta la prima stagione delle intese (art. 8 co 3 Cost.) e, quindi,
l’avere un’intesa con lo Stato approvata con legge costituiva uno status particolare che confermava
indubbiamente un rapporto “privilegiario/particolare” con lo Stato. Quindi, non stupisce che le
regioni (senza avere direttive precise in merito) abbiano ritenuto legittimo e ragionevole utilizzare
questo criterio per identificare le confessioni che avessero diritto a partecipare al riparto dei
contributi economici e delle aree edificabili per l’edificazione degli edifici di culto (criterio
dichiarato incostituzionale da Corte Cost. 195/1993 per contrasto con l’art. 8 co. 1 ed art. 19 Cost.).

Quindi, negli anni ’80-’90 molte regioni nelle loro leggi regionali in materia di edifici di culto
aveva utilizzato il parametro di aver stipulato un’intesa con lo Stato approvata per legge per
differenziare tra confessioni che potevano accedere ai contributi e alle aree e confessioni che
95

rimanevano escluse. Tra le regioni che avevano utilizzato questo criterio si annovera l’Abruzzo con
una legge del 1981. Questa legge ha causato l’intervento della Corte costituzionale e ha portato alla
sentenza 195/1993. Questa sentenza è molto importante perchè utilizza sia l’art. 8 co 1 Cost. sia
l’art. 19 Cost. per dichiarare l’incostituzionalità di questi criterio utilizzato dalla legge della regione
Abruzzo in quanto posto in violazione della libertà religiosa e dell’eguale libertà delle confessioni
religiose. È una sent. di ampio respiro, destinata a essere utilizzata anche in altri campi del diritto
(in altre materie non destinate ai luoghi di culto).

“Rispetto, però, alla esigenza sopra enunciata di assicurare edifici aperti al culto pubblico
mediante l'assegnazione delle aree necessarie e delle relative agevolazioni, la posizione delle
confessioni religiose va presa in considerazione in quanto preordinata alla soddisfazione dei
bisogni religiosi dei cittadini, e cioè in funzione di un effettivo godimento del diritto di libertà
religiosa, che comprende l'esercizio pubblico del culto professato come esplicitamente sancito
dall'art. 19 della Costituzione.

In questa prospettiva tutte le confessioni religiose sono idonee a rappresentare gli interessi religiosi
dei loro appartenenti. L'aver stipulato l'intesa prevista dall'art. 8, terzo comma, della Costituzione
per regolare in modo speciale i rapporti con lo Stato non può quindi costituire l'elemento di
discriminazione nell'applicazione di una disciplina, posta da una legge comune, volta ad agevolare
l'esercizio di un diritto di libertà dei cittadini. Invero, tutte le confessioni religiose sono - secondo il
dettato dell'art. 8, primo comma, della Costituzione - egualmente libere davanti alla legge.

A questo principio generale si aggiunge, nella disciplina del citato art. 8, l'affermazione del diritto
delle confessioni di "organizzarsi secondo i propri statuti in quanto non contrastino con
l'ordinamento giuridico italiano" (secondo comma), cui segue la facoltà di aver rapporti con lo
Stato, da disciplinare per legge sulla base di intese con le rappresentanze delle confessioni
organizzate (terzo comma)”.
• È una sentenza centrale perchè racchiunde in poche righe l’eguale libertà, l’equidistanza,
libertà religiosa.

Col tempo anche le altre regioni hanno modificato questo criterio, ma almeno fino a qualche tempo
fa rimanevano regioni che facevano ricorso a questo criterio nonostante la pronuncia della Corte
costituzionale, anche se ormai si stanno adeguando e stanno modificando le loro leggi regionali.

Caso della Lombardia

È un caso emblematico: la Lombardia è intervenuta più volte negli anni a disciplinare la materia
dell’edificazione degli edifici di culto, con leggi sempre più restrittive che hanno causato più volte
l’intervento della Corte Costituzionale (l’ultimo intervento risale al 2019).

Questo caso è emblematico di come l’atteggiamento delle Regioni sia mutato in questi anni e si sia
man mano addivenuti ad una concezione dell’edificio di culto non più come opera destinata a
soddisfare gli interessi religiosi dei cittadini e dei non cittadini (oggetto di normative
particolarmente favorevoli) ma, al contrario, come fonte di possibile pericolo per la sicurezza
pubblica e, quindi, fondamentalmente luogo da tenere sotto controllo (da sottoporre a un controllo
di tipo preventivo). Il caso della Lombardia mostra come siamo progressivamente tornati a una

96

situazione assimilabile a quella della legislazione sui culti ammessi, in cui l’apertura dei luoghi di
culto era sottoposta ad autorizzazioni governative a tutela anche dell’ordine pubblico.

Nel 1992 la Lombardia emana una legge sulla costruzione degli edifici di culto che prevedeva come
criterio l’avere stipulato un’ intesa approvata con legge dello Stato. Come per la Regione Abruzzo,
questa legge venne dichiarata incostituzionale nel 2002 con una sentenza identica alla 195/1993.

Successivamente alla novella del 2001 che aveva riformulato le competenze regionali, nel 2005 la
Regione Lombardia emana un’ampia legge sul governo del territorio (non riguarda solo
l’edificazione degli edifici di culto), in cui il capo dagli art. 70 ss è dedicato alle attrezzature
religiose. Nel tempo questa legge subisce molte modifiche/interventi/novelle proprio in relazione
alle attrezzature d’interesse religioso. Queste novelle intervengono a più riprese sulla legge sempre
nel senso dell’inasprimento delle misure restrittive il cui obiettivo è di rendere sempre più difficile
l’apertura di nuovi luoghi di culto.

La modifica più incisiva (maggiormente criticata dalla dottrina) su cui è intervita la Corte
costituzionale per ben due volte è la legge regionale 2/2015. Questa legge è particolarmente
restrittiva; infatti è stata chiamata legge anticulto o legge antimoschee: era chiaro che l’obiettivo
della legge era di limitare l’apertura di luoghi di culto riferibili alla religione islamica, ma in
quest’operazione d’inserimento di limiti e controlli è chiaro che l’esito della legge è quello
d’impedire l’apertura di un luogo di culto. Questa legge modificava un certo numero di articoli
della legge del 2005 introducendo tutta una serie di disposizioni.

La prima caratteristica di questa legge era la previsione di un doppio binario da seguire per
candidarsi a partecipare alla distribuzione delle risorse e degli spazi. Un binario era lineare e
dall’esito automatico previsto per la religione cattolica e per le confessioni dotate d'intesa. Mentre,
l’altro binario prevedeva una serie di controlli preventivi e aveva un esito condizionato all’esito di
questi controlli preventivi effettuati per le confessioni senza intesa. Questo doppio binario ricorda il
criterio utilizzato negli anni ’80-’90 dalle Regioni dell’avere stipulato un’intesa con lo Stato; però,
in quel caso TUTTE le confessioni religiose senza intesa erano escluse a priori dal riparto, invece in
questo caso non sono escluse a priori ma devono seguire un percorso differenziato e soprattutto
devono essere sottoposte ad alcuni controlli preventivi.

La seconda caratteristica era la previsione di un piano per le attrezzature religiose che deve essere
fatto ad opera di ogni Comune in cui le attrezzature religiose devono necessariamente essere
inserite, cioè deve essere individuata l’area per fare sorgere l’edificio, pena l’impossibilità di
realizzare l’edificio. Quindi, tutte le attrezzature religiose per poter essere considerate tali e, quindi,
regolari dovevano essere inserite all’interno di questo piano. Questo piano era sottoposto a un
complesso iter per l’approvazione; ad es. per arrivare all’approvazione, bisognava acquisire i pareri
preventivi anche di organi di polizia a tutela della sicurezza pubblica (su cui si è concentrato
l’interesse della Corte costituzionale). Quindi, bisognava necessariamente che l’edificio fosse
inserito nel piano (altrimenti non poteva essere realizzato) e il piano doveva essere approvato a
seguito di un complesso iter che prevedeva una serie di pareri e approvazioni preventive. Quindi,
c’era un complesso impianto teso a sottoporre la realizzazione di un lugo di culto a controlli e
approvazioni preventive.

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Su questa legge la Corte costituzionale si è pronunciata di recente 2 volte: la sentenza 63/2016 è


immediatamente successiva alla legge iniziale (che non è neanche entrata in vigore); e la sentenza
254/2019.

Nella sent. 63 /2016 la Corte ha dichiarato la non conformità a Costituzione sia della logica del
doppio binario (distinzione tra confessioni con o senza intesa) sia dell’iter di approvazione del
piano per le attrezzature religiose. In questa sent. la Corte decide di non far più ricorso come nel
1993 agli artt. 8 e 19 Cost.; quindi, decide di discostarsi non tanto nei contenuti, quanto nella scelta
del parametro di costituzionalità. Fondamentalmente prende una diversa stra più formale che è
quella della mancanza di competenza in capo alle Regioni. Cioè, la Corte dice che quando le
Regioni intervengono in maniera importante sulla libertà religiosa e sul limite dell’ordine pubblico
esorbitano dalle loro competenze perchè la loro competenza è limitata al governo del territorio e,
quindi, non possono emanare disposizioni che incidono in maniera importante sulla libertà religiosa
(logica del doppio binario) e sulla tutela dell’ordine pubblico (controlli preventivi). In questo senso,
la Regione Lombardia è andata oltre le proprie competenze (previste dall’art. 117 Cost.) e, quindi,
la Corte dichiara l’incostituzionalità parziale di alcune disposizioni di questa legge.

Questa scelta della Corte è stata particolarmente conservativa, nel senso che decide di non dire (al
contrario della sent. del 1993) che questa legge contrasta con la Costituzione. Cioè, questa presa di
posizione netta delle disposizioni della legge nei confronti della Carta costituzionale viene
adombrata dalla Corte (che certamente la scrive nella sentenza) perchè non la porta alle estreme
conseguenze. La Corte preferisce parlare d’incompetenza della Regione; quindi, di superamento dei
limiti previsti dall’art. 117 Cost. in relazione alle competenze della Regione che sarebbero limitate
al territorio.

È abbastanza evidente la difficoltà nel prevedere una legislazione sul governo del territorio che parli
di edifici di culto (e che, quindi, regoli e disciplini anche la realizzazione degli edifici di culto)
senza in qualche modo incidire sul diritto di libertà religiosa. Come abbiamo visto già nella sent. del
1958, dividere in maniera netta gli ambiti tra libertà religiosa e governo del territorio quando si
parla di realizzazione degli edifici di culto è tutt’altro che semplice. In ogni caso, in questa
sentenza, la Corte dice che certamene le disposizioni della legge 2/2015 hanno superato questo
riparto di competenze e, quindi, sono entrate in materie che non gli competevano, quali la libertà
religiosa e la tutela dell’ordine pubblico.

“Non è, invece, consentito al legislatore regionale, all’interno di una legge sul governo del
territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione, ad
esempio prevedendo condizioni differenziate per l’accesso al riparto dei luoghi di culto.

Poiché la disponibilità di luoghi dedicati è condizione essenziale per l’effettivo esercizio della
libertà di culto, un tale tipo di intervento normativo eccederebbe dalle competenze regionali, perché
finirebbe per interferire con l’attuazione della libertà di religione, garantita agli artt. 8, primo
comma, e 19 Cost., condizionandone l’effettivo esercizio. Pertanto, una lettura unitaria dei princìpi
costituzionali sopra richiamati ed evocati dal ricorrente porta a concludere che la Regione è
titolata, nel governare la composizione dei diversi interessi che insistono sul territorio, a dedicare
specifiche disposizioni per la programmazione e realizzazione di luoghi di culto; viceversa, essa
esorbita dalle sue competenze, entrando in un ambito nel quale sussistono forti e qualificate
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esigenze di eguaglianza, se, ai fini dell’applicabilità di tali disposizioni, impone requisiti


differenziati, e più stringenti, per le sole confessioni per le quali non sia stata stipulata e approvata
con legge un’intesa ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost.”.

Nella sent. 254/2019, la Corte riprende mano a questa legge e si occupa soprattutto dell’obbligo di
prevedere gli edifici di culto nel piano. La Corte è molto perplessa (e lo dice in maniera molto
chiara) nell’individuare la ratio di questa previsione nell’ottica del governo del territorio: perchè
solo gli edifici di culto per essere costruiti in maniera legittima e regolare devono essere inseriti in
questo piano per le attrezzature? Perciò, la Corte ritiene che questa disposizione abbia l’unico scopo
di controllare l’insediamento di nuovi luoghi di culto. La conseguenza è che la Regione vuole
controllare in via preventiva la realizzazione dei luoghi di culto senza che ci siano delle effettive
esigenze per il governo del territorio; tant’è che dice che questa previsione riguarda anche edifici
che hanno una consistenza particolarmente ristretta (che sono semplici case di preghiera per pochi
fedeli). In questo caso, questi edifici destinati al culto non avrebbero nessun impatto sul territorio;
perciò, non creerebbero nessun problema sul governo del territorio. Quindi, non si capisce quale sia
quest’esigenza che il piano delle attrezzature religiose dovrebbe adempiere.

“Il fatto che il legislatore regionale subordini solo le attrezzature religiose al vincolo di una
specifica e preventiva pianificazione indica che la finalità perseguita è solo apparentemente di tipo
urbanistico-edilizio, e che l’obiettivo della disciplina è invece in realtà quello di limitare e
controllare l’insediamento di (nuovi) luoghi di culto. E ciò qualsiasi sia la loro consistenza, dalla
semplice sala di preghiera per pochi fedeli al grande tempio, chiesa, sinagoga o moschea che sia.

In conclusione, la compressione della libertà di culto che la norma censurata determina, senza che
sussista alcuna ragionevole giustificazione dal punto di vista del perseguimento delle finalità
urbanistiche che le sono proprie, si risolve nella violazione degli artt. 2, 3, primo comma, e 19
Cost.”.
• La Corte è molto chiara nell’accusare la Regione di essere prevenuta nei confronti di nuovi
luoghi di culto.

Quindi, la Corte dichiara l’incostituzionalità (non tanto del piano) dell’obbligo di inserire l’edificio
pena l’impossibilità della sua approvazione e apre la strada (anche se non lo dice in maniera
esplicita) alla realizzazione di luoghi di culto di piccole dimensioni destinati a un numero limitato di
fedeli che per la struttura particolare che hanno no dovrebbero impattare sul governo del territorio e,
quindi, non dovrebbero creare problemi di gestione urbanistica.

Questa sentenza rappresenta l’inno della libertà religiosa. Il legislatore regionale ha emanato
disposizioni in cui il bilanciamento degli interessi in gioco è palesemente penalizzante per la libertà
religiosa senza che ci sia una ratio meritevole di tutela giustificatrice delle disposizioni.

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IL MATRIMONIO CONCORDATARIO E IL MATRIMONIO DEI CULTI AMMESSI

Matrimonio concordatario

Il matrimonio concordatario è introdotto dall'art. 34 del Concordato del 1929 (accordo reso
esecutivo con la legge 810/1929): dal punto di vista giuridico è chiamato più correttamente
matrimonio canonico trascritto.

Questo articolo è stato fortemente voluto dalla Chiesa Cattolica (più che dallo Stato); lo riteneva un
traguardo irrinunciabile e gli esiti sono stati particolarmente favorevoli per la Chiesa cattolica
perché il matrimonio concordatorio nasce con una serie d’importanti prerogative a favore della
giurisdizione ecclesiastica e della Chiesa cattolica che ne fanno un unicum nel nostro ordinamento e
davvero le rinuncie dello Stato alla propri giurisdizione in materia sono sostanziali.

Oltretutto, il percorso dell’istituto del matrimonio concordatario (dal 1929 fino ai giorni nostri) è
esplicativo dei cambiamenti istituzionali del nostro ordinamento in materia di religione e libertà
religiosa; quindi, ha un valore simbolico ed esplicativo di questo sviluppo e cambiamento dei
rapporti tra Stato e Chiesa e dell’atteggiamento dell’ordinamento italiano nei confronti della
religione e del fenomeno religioso.

Quindi, l’istituto del matrimonio concordatario nasce con l’art. 34 del Concordato del 1929
fortemente voluto dalla Chiesa cattolica perchè erano anni che vigeva il codice penale liberale del
1865 (Codice Pisanelli), che aveva ridotto all'irrilevanza civile tutti i matrimoni religiosi e, quindi,
anche quello canonico. Chi si sposava in chiesa, se voleva che il suo matrimonio avesse effetti civili
(anche ad es. alla luce della legittimità della prole), doveva sposarsi un’altra volta davanti
all'ufficiale dello stato civile. Quindi, si era costretti a fare un doppio matrimonio perchè il
matrimonio religioso non aveva alcun effetto nell’ordinamento e, quindi, l’eventuale prole non
risultava legittima nell’ottica della legge.

L'obiettivo della Chiesa Cattolica era proprio di dar corpo al principio di uniformità degli status
davanti alla Chiesa e davanti allo Stato. Questo principio, pur non espresso, si evince dall'art. 34 e
dalla legge matrimoniale che ha dato applicazione all’art. 34 perchè tutte le disposizioni contenute
in questo articolo e nella legge matrimoniale servono fondamentalmente a dare corpo a questo
principio, cioè a rendere rare le ipotesi in cui chi era sposato davanti alla Chiesa cattolica non fosse
del pari sposato anche davanti allo Stato. Dal combinato operare di queste regole, l’esito era
fondamentalmente un rigoroso principio di uniformità degli status matrimoniali davanti alla Chiesa
e davanti all’ordinamento civile.

Come nasce il matrimonio concordatario?

Lo si coglie dal primo comma dell'art. 34: il matrimonio concordatario nasce come sacramento a cui
lo Stato riconosce effetti civili.

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Lo Stato italiano, volendo ridonare all’istituto del matrimonio, che è base della famiglia, dignità
conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo, riconosce al sacramento del matrimonio,
disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili.
• Riconoscimento degli effetti civili vuol dire riconoscere dignità a un istituto in maniera
conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo.

Quindi, il matrimonio concordatario è un sacramento regolato nei suoi requisiti di validità dal diritto
canonico a cui lo Stato si limita a dare effetti civili tramite l’istituto della trascrizione: il
matrimonio canonico ad esito di un procedimento (che vede anche la necessità di affiggere le
pubblicazioni nella chiesa parrocchiale e nella casa comunale), la trascrizione effettuata
dall’ufficiale dello stato civile nei registri dello stato civile conferisce effetti civili al matrimonio
canonico. Se questo sacramento con effetti civili viene dichiarato dai tribunali ecclesiastici (gli
unici competenti a dichiararne questa nullità), la sentenza di nullità verrà riconosciuta agli effetti
civili a seguito di un procedimento di competenza della Corte d'Appello.

L’art. 34 del Concordato era corredato da una legge matrimoniale (l. 847/1929), emanata
unilateralmente dallo Stato, che ha dato applicazione all’art. 34 (fondamentalmente ha spiegato
meglio i dettagli applicativi che non erano contenuti nella disposizione principale). Queste 2 leggi
sono coeve perchè la legge che ha dato esecuzione al Concordato è la l. 810/1929, mentre la legge
matrimoniale è la l. 847/1929.

Questi due riferimenti normativi come garantivano l’efficacia del principio di uniformità degli
status matrimoniali? L’efficacia di questo principio era garantita dall’operare di alcune regole e
soprattuto di alcune automaticità. L’art. 34 e la legge matrimoniale sono caratterizzate da una
particolare automaticità che possiamo rinvenire (in maniera diversa) sia nella fase della trascrizione
del matrimonio sia soprattutto nella fase del riconoscimento agli effetti civili delle sentenze di
nullità. E poi vi è una riserva di giurisdizione.

3 regole:
• Automaticità della trascrizione del matrimonio

La trascrizione del matrimonio avveniva automaticamente, nel senso che non era necessaria
l'espressa o tacita volontà delle parti.

Erano richieste le pubblicazioni che dovevano essere affisse nella parrocchia e nella casa comunale;
perciò, per certi versi, l’affissione delle pubblicazioni rivelava una certa intenzione delle parti di
riconnettere effetti civili al matrimonio ma non veniva chiesto null’altro alle parti. Quindi,
l’automaticità è rivelata da questo aspetto, ma sopratutto dal fatto che erano trascritti i matrimoni
così come disciplinati dal diritto canonico; quindi, anche in presenza d’impedimenti inderogabili
per il diritto civile. È evidente che gli impedimenti che il nostro codice civile considera inderogabili
NON sono gli stessi che il codice di diritto canonico considera inderogabili: sicuramente ci sono
delle differenze. Quindi, un matrimonio che poteva essere contratto ai sensi del diritto canonico,
magari non avrebbe potuto essere contratto per il diritto civile.

Es (causerà un intervento della Corte costituzionale): Impedimento dell’età La riforma del


diritto di famiglia ha innalzato alla maggiore età l’età per contrarre matrimonio; quindi, attualmente
101

l’impedimento dell’età è disciplinato in maniera diversa nel codice civile e nel codice di diritto
canonico.

Anche in presenza di impedimenti inderogabili per il diritto civile, il matrimonio era trascritto;
quindi, la presenza di un impedimento inderogabile non costituiva motivo di intrascrivibilità del
matrimonio.

C'erano solo tre eccezioni a questa regola, previste tassativamente dall'art. 12 della legge
matrimoniale:

1. Assenza di libertà di stato = se anche una sola delle persone unite in matrimonio risulti
legata ad altro matrimonio valido agli effetti civili, in qualunque forma celebrato;

2. Assenza di libertà di stato = se le persone unite in matrimonio risultino già legate tra loro
da matrimonio valido agli effetti civili, in qualunque forma celebrato;

3. se il matrimonio sia stato contratto da un interdetto per infermità di mente (cioè, esisteva
una sentenza d’interdizione legale);

• Automaticità del riconoscimento agli effetti civili delle sentenze di nullità matrimoniale
canoniche

Questo aspetto darà quello sul quale interverrà la Corte Costituzionale con la sentenza 18/1982, in
cui usa due princìpi supremi dell'ordinamento costituzionale. È l'unica sentenza che dichiara
l'incostituzionalità di una norma pattizia.

Le sentenze di nullità del matrimonio canonico trascritto pronunciate dai tribunali ecclesiastici (in
applicazione del codice di diritto canonico) erano riconosciute agli effetti civili mediante un
procedimento in dottrina chiamato procedimento di delibazione delle sentenze ecclesiastiche.
Questo procedimento nasce nel 1929 come un procedimento completamente officioso: vuol dire che
le parti non dovevano in nessun modo fare istanza per il riconoscimento e il procedimento
prescindeva totalmente dalla volontà delle parti, cioè iniziava d'ufficio senza che fosse necessaria
nessuna istanza di parte e dagli esiti automatici.

In questo senso si può parlare di un doppio automatismo: un automatismo nell'iniziativa che era
officiosa e automatico negli esiti (che erano pressochè certi).

Questo procedimento, così come quello di delibazione delle sentenze straniere, era di competenza
della Corte d'Appello (in questo senso l’assonanza e l’utilizzo del termine delibazione). Qual era il
compito della Corte d’Appello? I controlli che la Corte d’Appello era chiamata a fare erano dei
controlli puramente formali, cioè doveva controllare che si trattasse di un matrimonio canonico
trascritto, altrimenti la sentenza di nullità canonica non poteva essere riconosciuta agli effetti civili,
e poi che la sentenza fosse munita del decreto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica,
che ne garantiva la definitività. Infatti, l’art. 34 dice che le sentenze venivano d’ufficio inviate al
Tribunale della Segnatura Apostolica che doveva accertarsi che fossero definitive. In realtà, non si
parla mai di “passaggio in giudicato” ma solo di definitività perché nel diritto canonico le sentenze
in materia di stato non passano mai in res iudicata, nel senso che il procedimento può essere sempre
102

riaperto in presenza di gravi motivi ecc. Quindi, il concetto di giudicato non è tipico del processo
canonico, bensì si parla di sentenza definitiva che passava al Supremo Tribunale della Segnatura
Apostolica che con proprio decreto ne garantiva la definitiva.

Spettava al Supremo Tribunale di Segnatura Apostolica anche di controllare se erano state rispettate
le norme del diritto canonico relative alla competenza del giudice, alla citazione e alla legittima
rappresentanza o contumacia delle parti. Questo controllo era completamente estraneo alla
competenza della Corte d’Appello, che doveva solo controllare che la sentenza fosse munita di
questo decreto che ne garantiva la definitività.

Una volta che la sentenza fosse stata ritenuta definitiva, la Corte d’Appello con ordinanza
pronunciata in Camera di Consiglio (senza la presenza delle parti che potevano anche non essere al
corrente di queso procedimento perchè non era necessaria nessuna istanza e non era prevista la loro
presenza davanti alla Corte d’Appello) rendeva esecutiva la sentenza (art. 17 della legge
matrimoniale). Era pressochè impossibile che la pronuncia di nullità emanata dai tribunali
ecclesiastici non fosse riconosciuta agli effetti civili.

• Riserva di giurisdizione sulle nullità matrimoniali a favore dei giudici ecclesiastici

Le cause di nullità dei matrimoni canonici trascritti erano riservate alla competenza esclusiva dei
tribunali ecclesiastici: vuol dire che nessun giudice civile avrebbe potuto conoscere e pronunciarsi
sulla nullità un matrimonio canonico trascritto (art. 34 comma quarto del Concordato).

Grazie al combinato operare di queste regole era quasi impossibile che due coniugi sposati per la
Chiesa Cattolica non lo fossero anche per lo Stato perchè la trascrizione era automatica,
indipendente dalla volontà delle parti e prescrindeva dall’esistenza di impedimenti previsti dal
codice civile; nel caso in cui quel matrimonio fosse dichiarato nullo solo ed esclusivamente dal
giudice canonico, quella sentenza veniva riconosciuta agli effetti civili con un procedimento dagli
esiti automatici.

Potremmo dire che con questa riserva di giurisdizione lo Stato rinuncia a molto perchè in quel
periodo storico i matrimoni canonici trascritti rappresentavano la quasi totalità dei matrimoni
celebrati in Italia; quindi, con l’art. 34 lo Stato italiano ha lasciato quasi totalmente in mano alla
giurisdizione della Chiesa cattolica la quasi totalità dei matrimoni celebrati all’interno del suo
ordinamento. Fondamentalmente la Chiesa cattolica gestiva sia come requisiti di validità sia come
pronunce di nullità sia come riconoscimenti degli effetti civili la quasi totalità dei matrimoni
celebrati in Italia in quegli anni.

Con l’entrata in vigore della Carta costituzionale, questa rinuncia dello Stato italiano comincerà a
vacillare perchè sarà sottoposta al giudizio della Corte costituzionale prima e dei giudici civili dopo.

Matrimonio dei culti diversi dal cattolico

103

La legge sui culti ammessi è stata, in materia di matrimonio, abbastanza tutelante nei confronti culti
diversi da quello cattolico; quindi, non risente di quell’impronta illiberale e giurisdizionale e di
controllo in maniera così forte come invece altre disposizioni della legge dei culti ammessi.

Quindi, questa parte della legge sui culti ammessi è “garantista” per i culti ammessi perchè anche i
fedeli di tali culti potevano sposarsi seguendo il rito della propria religione e trascrivere agli effetti
civili il relativo matrimonio. La possibilità che era stata riconosciuta ai fedeli cattolici (a seguito
dell’art. 34 del Concordato) viene in qualche modo riconosciuta anche ai fedeli dei culti ammessi,
che potevano evitare di sposarsi 2 volte e, quindi, con un’unica cerimonia celebrata davanti al loro
ministro di culto potevano veder riconosciuto agli effetti civili il loro matrimonio.

MA si trattava di un istituto completamente diverso rispetto al matrimonio concordatario.

In primo luogo, esisteva una disposizione di natura giurisdizionalista che obbligava il ministro di
culto celebrante il matrimoni di ottenere un’approvazione governativa (ai sensi degli artt. 3 e 7 della
legge sui culti ammessi). Solo un ministro in possesso di quest’autorizzazione governativa poteva
celebrare il matrimonio.

In secondo luogo, il matrimonio NON poteva essere trascritto in presenza di impedimenti previsti
dal codice civile (art. 8 della legge sui culti ammessi). Cioè, l’ufficiale di stato civile non consentiva
la trascrizione del matrimonio in presenza di impedimenti civili. Non vi era automaticità della
trascrizione, bensì trovava applicazione il codice civile.

Infine, non era previsto nessun riconoscimento per la giurisdizione confessionale, o meglio per le
sentenze di nullità matrimoniali emanate eventualmente da tribunali confessionali, che quindi
risultavano irrilevanti per l’ordinamento dello Stato. La nullità del matrimonio poteva essere
dichiarata SOLO dal giudice civile in applicazione del codice civile (art. 11 della legge sui culti
ammessi).

In conclusione, possiamo dire che mentre il matrimonio canonico trascritto era a tutti gli effetti un
sacramento che nasceva nell'ordinamento canonico (= atto esterno all’ordinamento civile) e, quindi,
era regolato nei suoi requisiti di validità dal diritto canonico; e a questo sacramento lo Stato
riconosceva effetti civili. In questo senso si spiega anche l’automaticità della trascrizione anche in
presenza d’impedimenti inderogabili perchè, posto che era un sacramento regolato dal diritto
canonico, lo Stato non va a controllare l’esistenza di impedimenti civili; e ancor di più si spiega il
riconoscimento automatico delle sentenze di nullità emanate dai giudici canonico perchè, come si è
detto in dottrina, nel momento in cui un sacramento viene dichiarato nullo o sciolto, lo Stato non
può fare altro che prendere atto di questa nullità e adeguarsi ad essa.

Completamente diversa, invece, era la situazione del matrimonio religioso celebrato davanti ad un
ministro di un culto ammesso perchè era a tutti gli effetti un matrimonio civile (che nasceva
nell’ordinamento dello Stato), era regolato nei suoi requisiti di validità dal diritto civile, ed era
sottoposto alle cause di nullità civili. Quindi, era a tutti gli effetti un matrimonio civile celebrato
con una forma religiosa particolare che era demandata alle singole confessioni religiose.

È importante sottolineare che questa disciplina prevista dal Concordato, dalla legge matrimoniale e
dalla legge sui culti ammessi era una disciplina particolarmente coerente con l’impianto di uno
Stato confessionista nascente con il partito fascista e, quindi, con la celebrazione della conciliazione
104

tra Stato e Chiesa cattolica ed era molto coerente anche con i principi che presiedevano la
legislazione sui culti ammessi. L’entrata in vigore della Carta costituzionale rompe/mette in
discussione quest’armonia perchè introduce principi e norme costituzionali in parziale contrasto con
le disposizioni del Concordato e della legge sui culti ammessi. Perciò, inizierà un lungo percorso di
adeguamento della vecchia disciplina ai nuovi principi costituzionali che non condurrà a un risultato
coerente e armonico e questo succederà non tanto in relazione ai matrimoni dei culti ammessi ma
soprattutto in relazione alla natura del matrimonio concordatario che, con l’entrata in vigore della
Carta costituzionale, subirà gradualmente degli importanti interventi che gli faranno perdere in
maniera evidente questa coerenza e armonicità, tanto che sarà difficile trovare una natura per questo
nuovo matrimonio concordatario. E anche quando interverrà il Nuovo Accordo del 1984, il cui art.
8 sostituirà completamente l’art. 34 del Concordato (non più in vigore), non avremo ancora
ritrovato nessuna coerenza perchè l’attuale art. 8 disciplina (in maniera molto laconica) un istituto
in cui sono presenti molte anime contraddittorie e, quindi, in cui è molto evidente l’intento
compromissorio delle parti.

I PRIMI SEGNALI DI CRISI del modello matrimoniale-concordatario

Il sistema matrimoniale-concordatario nascente dai Patti Lateranensi e dalla legislazione sui culti
ammessi, ovvero questo sistema di matrimoni religiosi trascritti, aveva una sua armonicità e
coerenza sia interna che con i principi che fondavano l’ordinamento totalitario fascista
confessionista. È indiscutibile come l'entrata in vigore della Carta costituzionale abbia introdotto
princìpi nuovi che hanno messo in crisi l'istituto del matrimonio concordatario del 1929.

Questo sistema è messo in crisi da tanti punti di vista; quindi, sono tante le disposizioni normative
che vengono richiamate come possibili contrasti con il sistema matrimoniale concordatario: art. 3,
19, 24 Cost.

All’inizio della crisi, un ruolo centrale per evidenziare le prime crepe del sistema ha avuto il diritto
di difesa delle parti, cioè la tutela giurisdizionale prevista e tutelata dall’art. 24 Cost. Il diritto di
difesa è stato di fatto utilizzato e dalla giurisprudenza di legittimità e dalla Corte costituzionale per
mettere in discussione tanti di quei meccanismi e automaticità. La violazione del diritto di difesa era
riferibile a molteplici fasi soprattutto del procedimento per il riconoscimento delle sentenze di
nullità canoniche. In quel procedimento così come previsto dalle norme pattizie e dalla legge
matrimoniale le possibili violazioni del diritto di difesa erano molte: c’era la fase iniziale che era
officiosa in cui le parti non avevano nessun ruolo nel dare corso a questo procedimento, anzi la
sentenza (appena diventata definitiva) veniva trasferita al Supremo Tribunale della Segnatura
Apostolica che emetteva il suo decreto e poi veniva trasferita alla Corte d’Appello per il
riconoscimento. Poi, nell’ambito dello svolgimento del giudizio non era prevista la presenza delle
parti che quindi non potevano difendersi perchè non erano presenti. In più, il provvedimento finale,
avendo la natura di ordinanza, non poteva essere impugnato davanti alla Corte di Cassazione perchè
le ordinanze (non avendo il carattere della definitività) non possono essere impugnate davanti alla
Cassazione. Inoltre, non era neanche previsto un controllo sul rispetto del diritto di difesa
nell’ambito del processo canonico da cui derivava la sentenza delibanda. Quindi, questo

105

procedimento per il riconoscimento delle sentenza era particolarmente carente sul piano del diritto
di difesa.

Negli anni ’50-’60, subito dopo l’entrata in vigore della Carta costituzionale e l’inizio
dell’operatività della Corte costituzionale, non era previsto alcun sindacato di costituzionalità sulle
norme pattizie. Quindi, fondamentalmente in questo periodo non c’era la possibilità di sottoporre la
questione di costituzionalità dell’art. 34 alla Corte costituzionale. La dichiarazione di
incostituzionalità dell’art. 34 del Concordato era inibita dall’intangibilità delle norme pattizie.
Quest’intangibilità (o zona franca) delle norme pattizie sarà superata solo con la sentenza 30/1971,
che apre la strada al sindacato di legittimità delle norme pattizie benchè nei limiti del contrasto con i
soli princìpi supremi dell’ordinamento costituzionale. Perciò, fino ad allora era inibito un ricorso
alla Corte costituzionale: non era possibile sottoporre alla Corte tutte le questioni di costituzionalità
soprattutto in relazione all’art. 24 Cost.

Fino agli anni ‘70, a seguito di quest’impossibilità di ricorrere alla Corte Costituzionale, la
giurisprudenza di legittimità (fondamentalmente la Corte di Cassazione civile) interverrà con
un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme pattizie e della legge matrimoniale.
Cioè, la Corte di Cassazione non potendo intervenire direttamente con un rinvio alla Corte
costituzionale (e, quindi, con una dichiarazione d’incostituzionalità di queste disosizioni) interpreta
queste disposizioni in modo tale da fornirne un’interpretazione adeguata o conforme alla Carta
costituzionale. Quindi, per certi versi, modifica il dettato formale (la forma) di queste disposizioni
ampliandone la portata in modo da renderle conformi al dettato costituzionale. Questa tecnica è
stata chiamata interpretazione evolutiva o adeguatrice delle norme pattizie e della legge
matrimoniale.

Il primo intervento della Corte di Cassazione fu sulla natura dell'ordinanza che concludeva il
procedimento davanti alla Corte d'Appello. È evidente che fino a quando quest’ordinanza, in
ragione della sua natura non decisoria e non definitiva, non fosse sottoponibile al sindacato davanti
alla Corte di Cassazione, non c’era nessuna possibilità per le parti di difendersi perchè
quest’ordinanza era inappellabile e, quindi, le parti potevano solo prenderne atto. Il primo passaggio
è stato quello di ritenere che quest’ordinanza (così indicata nell’art. 17 della legge matrimoniale)
avesse una natura di sentenza posto che incideva sullo status matrimoniale delle parti. Avendo
natura di sentenza, aveva natura decisoria perchè incideva direttamente modificando lo status
matrimoniale delle parti; perciò, poteva essere sottoposta al ricorso per Cassazione (= era ricorribile
per Cassazione).

Quest’interpretazione evolutiva della Cassazione civile sulla natura dell’ordinanza aveva avuto
l’effetto di ampliare il diritto di difesa delle parti in maniera importante perchè potevano avere un
secondo grado di giudizio (non solo davanti alla Corte d’Appello, ma anche davanti alla Corte di
Cassazione).

Oltre a questo intervento interpretativo, la Cassazione civile intervenne anche su un altro aspetto del
procedimento per il riconoscimento delle sentenze di nullità, che era l’assenza delle parti
all’udienza davanti alla Corte d’Appello. Anche in questo caso, la Cassazione con una serie di
pronunce (anni ’60-‘70) introduce l'obbligo di avvisare le parti dell’udienza avanti alla Corte

106

d’Appello, per dare loro possibilità di presenziare eventualmente munite di difesa tecnica
(avvocato).

Questi due interventi modificarono molto questo procedimento, quantomeno dal punto di vista
formale, perchè la sentenza non era più inappellabile e le parti potevano intervenire all’udienza con
una difesa tecnica e, quindi, svolgere le proprie difese.

Nonostante queste innovazioni che ampliavano il diritto di difesa delle parti, il problema di base
rimaneva un altro, ovvero l’oggetto del giudizio davanti alla Corte d’Appello perchè alla Corte
d’Appello continuavano ad essere richiesti dei meri controlli formali e, soprattutto, non era richiesto
nessun controllo né sul processo canonico né sui contenuti della sentenza di nullità da delibare.
Finchè il contenuto del giudizio rimaneva confinato a questi aspetti natura formale, l’ampimento del
riconoscimento del diritto di difesa delle parti non conduceva a grandi innovazioni negli esiti perchè
se il giudizio demandato alla Corte d’Appello restava di natura formale c’era poco di cui discutere.
Quindi, comunque il procedimento rimaneva automatico negli esiti e il riconoscimento del diritto di
difesa (pur con questi correttivi) restava un riconoscimento più di natura formale che sostanziale. A
questo punto, diventava sempre più impellente cambiare di fatto l’oggetto del giudizio davanti alla
Corte d’Appello e fondamentalmente prevedere controlli sostanziali demandati a quest’ultima. La
delibazione o exequatur è il procedimento attraverso il quale uno Stato concede l'esecuzione di atti
ecclesiastici sul proprio territorio. Un caso molto frequente di delibazione si ha in presenza proprio
dei procedimenti civili per lo scioglimento di un matrimonio, in quanto si deve conferire efficacia
alle sentenze ecclesiastiche di nullità, in modo che sia permessa la celebrazione di uno nuovo.

A questo punto, all’interno della Corte di Cassazione si verifica una sorta di doppio binario: cioè,
una parte della giurisprudenza della Cassazione (che possiamo identificare con la giurisprudenza
della Prima Sezione) proseguì sulla strada della giurisprudenza evolutiva o adeguatrice anche nel
tentativo di modifica dell’oggetto del giudizio avanti alla Corte d’Appello. Quindi, vi sono alcune
sentenze della fine degli anni ’70 in cui la Prima Sezione della Corte di Cassazione interpreta
l’oggetto del giudizio avanti alla Corte d’Appello in maniera molto diversa e introduce ad es. un
controllo sul contenuto della sentenza che non avrebbe dovuto essere contrario all’ordine pubblico
italiano, però nei limiti dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale. In questo tentativo di
evolversi e d’interpretare in maniera più ampia il contenuto del giudizio, la Corte di Cassazione
inserisce un nuovo controllo (sull’ordine pubblico) MA lo tempera molto perchè non parla di
principi di ordine pubblico in generale (come succederà con la Corte costituzionale nel 1982), bensì
limita il controllo sul rispetto dell’ordine pubblico ai principi supremi dell’ordinamento
costituzionale. È come se l’ordine pubblico e i principi supremi si identificassero (= fossero la
stessa cosa).

Vi è però un’altra parte della Corte di Cassazione che rinvia subito la questione alla Corte
costituzionale; quindi, pone subito una questione d’incostituzionalità alla Corte con alcune
ordinanze di rinvio.

Prima di tentare la strada che poi porterà alla sent. 18/1982 della Corte costituzionale, la
giurisprudenza aveva tentato di sottoporre la questione di legittimità alla Corte non tanto in
relazione all’art. 34 del Concordato, ma in relazione all’art. 17 della legge matrimoniale (che
disciplinava il procedimento per il riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche) che comunque
107

dava applicazione all’art. 34 del Concordato. La giurisprudenza fa questo tentativo perchè,


sottoponendo a giudizio di legittimità costituzionale l’art. 17 e non l’art. 34, non creava problemi di
necessaria individuazione di principi supremi dell’ordinamento costituzionale perchè l’art. 17 non
era una norma pattizia, bensè era una legge unilaterale dello Stato (che poi dava applicazione a una
norma pattizia). Quindi, questi giudici avevano ritenuto che sottoponendo a questione di legittimità
costituzionale la legge matrimoniale e non il Concordato, la strada sarebbe stata più semplice.

Nella prima pronuncia, la sentenza 1/1977, la Corte NON accoglie la questione d'incostituzionalità
per ragioni formali: ritiene che erroneamente sia stata indicata come norma da sottoporre a giudizio
l'art. 17 della legge matrimoniale e non l'art. 34 del Concordato perchè in realtà le due norme
coincidevano; per cui dichiarare l'incostituzionalità del solo art. 17 non avrebbe condotto ad alcun
risultato pratico, perché sarebbe rimasto in vigore l'art. 34 del Concordato. Quindi, la Corte dice che
la questione doveva essere sottoposta direttamente in relazione all’art. 34 del Concordato. MA la
Corte decide di non estendere essa stessa la questione, cioè di non procedere automaticamente ad
estendere l'ambito del giudizio ma semplicemente la dichiara irrilevante.

Prima di parlare dell’intervento della Corte Costituzionale è necessario accennare anche ad un altro
segnale di crisi (forse più indiretto rispetto all’intervento della Corte), che è ascrivibile all’opera del
legislatore: l’entrata in vigore della legge sullo scioglimento del matrimonio, la l. 898/1970 (e
modifiche successive) nota anche come legge sul divorzio.

Questa legge ha avuto una centralità nella storia del matrimonio civile italiano che nasce dal fatto
che è una legge che supera il principio dell'indissolubilità del matrimonio civile (= senza che sia
possibile uno sciogliemnento). Il matrimonio civile nasce nello Stato italiano (regolato dal codice
civile) come indissolubile e rimane tale fino all’entrata in vigore della l. 898/1970. La novità
assolutà di questa legge è che i matrimoni civili possono essere sciolti al ricorso di una serie di
condizioni regolate nel dettaglio dalla medesima legge.

Il punto è che l'art. 2 della l. 898/1970 aggiunge che il giudice può intervenire (quando ricorrano le
stesse condizioni previste per lo scioglimento del matrimonio civile) anche nei casi di matrimonio
religioso regolarmente trascritto. In quest’ottica il giudice civile può intervenire anche sui
matrimoni canonici trascritti, oltre ai matrimoni celebrati ai sensi della legge sui culti ammessi. In
questo caso, il giudice NON pronuncia lo scioglimento del matrimonio, MA la cessazione degli
effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio (al ricorrere dei requisiti previsti dalla l.
898/1970). Di fatto succede che il giudice civile può intervenire sugli effetti civili del matrimonio
dichiarandone la cessazione, anche nel caso di matrimonio canonico trascritto.

“Nei casi in cui il matrimonio sia stato celebrato con rito religioso e regolarmente trascritto, il
giudice, quando, esperito inutilmente il tentativo di conciliazione di cui al successivo art. 4, accerta
che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita per
l'esistenza di una delle cause previste dall'articolo 3, pronuncia la cessazione degli effetti civili
conseguenti alla trascrizione del matrimonio”.

Questa legge è stata fortemente contestata e avversata dai cattolici, da partiti politici d’ispirazione
cattolica e dalla Chiesa cattolica, tant’è che è stata sottoposta a referendum abrogativo che non ha
108

avuto gli esiti sperati e, quindi, questa legge è rimasta in vigore. La legge era così avversata perché,
consentendo al giudice civile di dichiarare cessati gli effetti civili di un matrimonio che invece
rimaneva valido ed efficace nell’ordinamento canonico, segnava il superamento il principio di
uniformità degli status matrimoniali. È evidente che la pronuncia di cessazione degli effetti civili
del matrimonio non aveva alcun rilievo all’interno dell’ordinamento canonico. Quindi, l’esito di
questa situazione era che capitava che qualcuno risultasse sposato davanti alla Chiesa e non sposato
davanti allo Stato oppure sposato con una persona davanti alla Chiesa e con un’altra persona
davanti allo Stato.

Oltre a percorrere la strada del referendum abrogativo, l’art. 2 della l. 898/1970 venne sottoposto
per ben due volte al sindacato di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 34 del Concordato,
così come richiamato dall’art. 7 Cost. (parametro di costituzionalità). Quindi, anche l'art. 34, pur
non essendo una norma costituzionale, viene utilizzato come parametro di costituzionalità per una
legge dello Stato.

Le questioni di costituzionalità sottoposte alla Corte erano molte perchè derivavano da numerose
ordinanze; per cui possiamo suddividerle in 2 questioni principali/nuclei essenziali:

1. Le prime ordinanze di rinvio alla Corte ponevano la questione di costituzionalità in


relazione all’art. 34 del Concordato, sostenendo che l’art. 34 aveva riconnesso effetti civili
al sacramento del matrimonio così come regolato dal diritto canonico nei suoi requisiti di
validità. Quindi, fondamentalmente il sacramento del matrimonio a cui l’ordinamento aveva
riconnesso effetti civili era regolato dal diritto canonico.

Nel riconnettere gli effetti civili, l’art. 34 avrebbe anche recepito nel proprio ordinamento i
princìpi e le regole che regolano il matrimonio canonico. Secondo queste ordinanze c’era
stata una recezione nell’ordinamento del sacramento del matrimonio con tutte le sue regole.

Di conseguenza, l’indissolubilità di questo matrimonio era entrata nel nostro ordinamento.


Per cui sciogliere questo matrimonio (nato indossolubile) avrebbe comportato una
violazione dell’art. 34 del Concordato.

L’art. 34 recepisce il diritto canonico anche e soprattutto in relazione all’indissolubilità del vincolo,
che nasce tale e tale deve rimanere.

2. Il secondo gruppo di questioni d’incostituzionalità si fondava sulla riserva di giurisdizione:


quindi, il parametro di costituzionalità era l’art. 34 in relazione alla riserva di giurisdizione.

In questo caso, si sosteneva che la riserva di giurisdizione a favore dei tribunali canonici era
esclusiva e, quindi, escludeva qualsiasi competenza e quindi qualsiasi tipo d’intervento del
giudice civile in relazione ai matrimoni canonici trascritti. Perciò, anche la dichiarazione di
ritenere cessati gli effetti civili del matrimonio canonico trascritto sarebbe esclusa
dall’ampiezza di questa riserva di giurisdizione, prevista dall’art. 34 co 4 del Concordato
Lateranense.

Quando si trova a dover decidere su queste questioni d’incostituzionalità, la Corte si pronuncia con
2 sentenze rispettivamente del 1971 e del 1973, in cui dichiara infondate entrambe le questioni e,
quindi, l’art. 2 della legge sul divorzio non viene toccato dalla Corte costituzionale e resta vigente
109

all’interno dell’ordinamento (tutt’ora). La Corte fa delle affermazioni molto importanti sulla natura
del matrimonio concordatario, che poi costituiranno un punto di non ritorno cioè la Corte non
tornerà più indietro su queste affermazioni che poi verranno portate alle estreme conseguenze anche
nella giurisprudenza successiva.
➔ Sentenza 169/1971

“Con ciò l'ordinamento italiano non ha operato una recezione della disciplina canonistica del
matrimonio, limitandosi ad assumere il matrimonio, validamente celebrato secondo il rito cattolico
e regolarmente trascritto nei registri dello stato civile, quale presupposto cui vengono ricollegati
gli identici effetti del matrimonio celebrato davanti agli ufficiali di stato civile. Accertato che gli
effetti del matrimonio concordatario sono, e devono essere, gli stessi effetti che la legge attribuisce
al matrimonio civile, dalla separazione dei due ordinamenti deriva che nell'ordinamento statale il
vincolo matrimoniale, con le sue caratteristiche di dissolubilità od indissolubilità, nasce dalla legge
civile ed é da questa regolato. Del resto, poiché l'art. 7 della Costituzione afferma tanto per lo Stato
quanto per la Chiesa i principi di indipendenza e di sovranità di ciascuno nel proprio ordine, una
limitazione della competenza statale su questo punto doveva risultare da norma espressa, e, in
mancanza di questa, non é desumibile da incerti argomenti interpretativi: tanto più che, in materia
di accordi internazionali, vale il criterio della interpretazione restrittiva degli impegni che
comportino per uno dei contraenti l'accettazione di limiti alla propria sovranità”.

In sostanza, la Corte dice che l’art. 34 del Concordato NON recipisce la disciplina canonistica, ma
considera il matrimonio canonico come un atto esterno all’ordinamento civile al quale lo Stato si
limita a riconnettere gli stessi effetti del matrimonio celebrato davanti agli ufficiali dello Stato
civile.

La Corte non tocca la validità del vincolo che è regolata dal diritto canonico e resta un atto esterno
all’ordinamento dello Stato, MA una volta che si riconnette a quest’atto esterno gli effetti civili su
questi ultimi la Corte ha completa competenza e, quindi, li può disciplinare secondo le sue
disposizioni. Perciò, li riconosce e, così come li ha riconosciuti, li può anche far cessare al ricorrere
delle condizioni che la legge prevede e disciplina.

Fondamentalmente la Corte costituzionale chiarisce molto bene quali sono i limiti della rinuncia
dell’ordinamento italiano: ha rinunciato a occuparsi della validità di questo atto che rimane esterno,
MA NON ha rinunciato a disciplinare gli effetti sia nel momento in questi vengono attribuiti sia nel
momento in cui vengano dichiarati cessati.

A conferma di tutto ciò la Corte dice anche da una lettura dell’art. 34 NON risulta assolutamente
questa recezione, tanto più che in materi adi accordi internazionali vale il criterio
dell’interpretazione restrittiva degli impegni che comportino per uno dei contraenti l’accettazione di
limiti alla propria sovranità. Quindi, l’ordinamento statale ha rinunciato a molto, sicuramente la sua
sovranità è stata limitata in questa materia MA bisogna interpretare restrittivamente l’art. 34.
Quindi, ben lungi dall’accedere a un’interpretazione estensiva delle conseguenze dell’art. 34, la
Corte propone un’interpretazione restrittiva (ha rinunciato solo a quello che c’è scritto
espressamente nell’art. 34). La regolazione degli effetti civili del matrimonio NON è compresa
nella rinuncia.

110

➔ Sentenza 176/1973

“Sta di fatto, dunque, che il quarto comma dell'art. 34 del Concordato, frutto di lunghe, complesse,
faticose trattative, contiene una precisa specificazione, per ipotesi tassative, delle cause
matrimoniali riservate alla giurisdizione e competenza delle autorità ecclesiastiche, con il connesso
obbligo dello Stato italiano di riconoscere piena efficacia, nel proprio ambito, alle pronunce da
queste ultime adottate. Così che ben si comprende come la qualifica di "esclusiva", che nelle
originarie proposte della Santa Sede accompagnava detta riserva, sia scomparsa poi, nella fase
conclusiva, dal testo definitivamente concordato tra le parti. E poiché la introduzione, nella legge
n. 898 del 1970, di una serie di cause di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario
lascia intatte le riserve dell'art. 34, risulta ulteriormente confermata la conclusione, cui questa
Corte era giunta nella sentenza n. 169 del 1971, al punto 4 della motivazione, non essersi
apportata alcuna modificazione ai Patti del Laterano (e relative norme interne di esecuzione),
nemmeno per la parte relativa all'art. 34, quarto comma”.

In questa sentenza la Corte ripete più o meno le stesse cose dette nella sentenza del 1971 (che viene
anche richiamata); però, in questa pronuncia le numerose questioni sottoposte erano più che altro
collegate alla riserva di giurisdizione ecclesiastica. L’art. 34 co 4 diceva che le cause di nullità sui
matrimoni canonici trascritti erano riservate ai tribunali ecclesiastici. In quest’ottica, queste
ordinanze tendono a dare un’interpretazione estensiva dell’art. 34 co 4 per dire che non c’è nessuna
competenza dei giudici civili in relazione ai matrimoni canonici trascritti perchè questa competenza
sarebbe esclusiva. In questo senso si parla di un’assenza di giurisdizione da parte del giudice civile.

Nella sent. del 1973 la Corte si rifà al testo del Concordato del quale propone un’interpretazione
restrittiva. Infatti, la Corte dice di non aver rinunciato completamente alla giurisdizione sul
matrimonio concordatario, bensì alle sole cause di nullità. Quindi, se si parla di nullità del vincolo
la Corte non ha competenza perchè l’atto nasce nell’ordinamento canonico ed è da questo regolato
nei suoi requisiti di validità. MA in questo caso si parla di cessazione degli effetti civili; quindi, su
questi la giurisdizione della Corte rimane intatta e non ricade nella riserva consenuta nell’art. 34 co
4.

Quindi, la Corte tiene ferma la legge sulla cessazione degli effetti civili e soprattutto precisa i
contorni della rinuncia alla sua giurisdizione sul matrimonio canonico trascritto: gli effetti del
matrimonio rientrano totalmente nella sua competenza, in qualsiasi fase si guardi il procedimento.

A questo punto possiamo dire che il principio di uniformità degli status è definitivamente superato.
Rimane il problema della modifica sostanziale del procedimento per il riconoscimento delle
sentenze canoniche e, più in generale, della modifica sostanziale dell’istituto del matrimonio
concordatario che deve essere rivisto e reinterpretato alla luce della giurisprudenza della Corte e
soprattutto alla luce della Carta costituzionale. Quest’opera verrà portata avanti prima dalla sent.
18/1982 che anticipa le modifiche contenute dell’Accordo del 1984 e, quindi, poi dall’art. 8 del
nuovo accordo che rivedrà in maniera completamente diversa l’istituto del matrimonio
concordatario, pur avvalorandone la permanenza.

LA SENTENZA 18/1982 CORTE COSTITUZIONALE


111

Dopo la sentenza di inammissibilità 1/1977 la Corte Costituzionale pronuncia la storica sentenza


18/1982, che rappresenta il definitivo superamento del vecchio sistema matrimoniale concordatario,
cioè la Corte modifica l’art. 34 (non a caso questa è una sentenza storica). Poi, il vero e sostanziale
cambiamento è riconducibile all’entrata in vigore dell’Accordo del 1984 (art. 8), che sostituisce
completamente l’art. 34.

Si tratta di una sentenza di accoglimento parziale, manipolativa e additiva: vogliono dire che la
Corte dichiara l’incostituzionalità di una parte dell’art. 34 del Concordato (a cui ha dato esecuzione
la l. 810/1929) e accoglie la questione perchè la norma sarebbe incostituzionale nella parte in cui
“non dice” qualcosa, quindi aggiunge al dettato dell’articolo alcune disposizioni (che non erano
inserite nel testo iniziale della norma e, quindi, cambia in maniera sostanziale la disposizione).

Questa è una sentenza manipolativa molto particolare perchè è una sentenza manipolativa additiva,
ma che si muove nell’ambito di una norma pattizia; quindi, nell’ambito di un contenuto che non è
riferibile solo al legislatore statale, bensì che è stato concordato con la Chiesa cattolica. Quindi,
introdurre una sentenza manipolativa addiritiva costituisce sempre un’anomalia nel nostro sistema
perchè è chiaro che la Corte si fa legislatore; in questo senso, queste sentenze rappresentano sempre
un’eccezione/particolarità nel nostro ordinamento, ancora di più in questo caso in cui si cambia il
contenuto di una fonte bilaterale.

Però, bisogna sottolineare che a parziale temperamento di quest’iniziativa gli interventi della Corte
costituzionale (cioè, gli aspetti che la Corte introduce come novità all’interno dell’art. 34) erano già
inseriti da qualche anno nelle bozze di revisione del Concordato. Il procedimento di revisione del
concordato è stato un procedimento molto lungo iniziato già alla fine degli anni ’60 e si è protratto
negli anni ’70 con la stesura di diverse bozze, all'interno delle quali compaiono questa novità e
modifiche che sono state poi introdotte effettivamente nell’ordinamento con la sent. 18/1982 della
Corte. Quindi, possiamo dire che la Corte è stata particolarmente coraggiosa nell’introdurre questi
correttivi all’automaticità del procedimento per il riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche, però
introduce disposizioni che fondamentalmente (anche se non ancora in via definitiva) erano già state
accolte su accordo delle parti (anche se l’accordo definitivo non era ancora stato sottoscritto).

L’operazione di dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 34 obbligava la Corte a individuare i principi


supremi lesi in ragione della pronuncia 30/1971 che aveva individuato questo parametro speciale.
Quando la Corte decide di mettere mano all’art. 34 co 6 del Concordato e, quindi, di renderlo un
procedimento effettivo e non solo formale, deve individuare i principi supremi lesi dalla norma
pattizia. La Corte ne individua 2: diritto di difesa nel suo nucleo essenziale e tutela inderogabile
dell’ordine pubblico.

“La Corte dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 27 maggio 1929, n. 810
(Esecuzione del Trattato, dei quattro allegati annessi, e del Concordato, sottoscritti in Roma, fra la
Santa Sede e l'Italia, l'11 febbraio 1929), limitatamente all'esecuzione data all'art. 34, comma sesto,
del Concordato, e dell'art. 17, comma secondo, della legge 27 maggio 1929, n. 847 (Disposizioni
per l'applicazione del Concordato dell'11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l'Italia, nella parte
relativa al matrimonio), nella parte in cui le norme suddette non prevedono che alla Corte
d'appello, all'atto di rendere esecutiva la sentenza del tribunale ecclesiastico, che pronuncia la
nullità del matrimonio, spetta accertare che nel procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici sia
112

stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti, e che la
sentenza medesima non contenga disposizioni contrarie all'ordine pubblico italiano”.

La Corte costituzionale utilizza questi principi supremi per introdurre 2 controlli di tipo sostanziale
demandati alla Corte d’Appello che fino a quel momento effettuava controlli solo di ordine formale.
A partire dalla sentenza 18/1982, la Corte d’Appello deve effettuare anche 2 controlli di tipo
sostanziale:

1. Un controllo sul processo canonico Quando la Corte si trova a riconoscere effetti civili alla
sentenza di nullità canonica deve controllare, prendendo come base il fascicolo canonico
(che le viene trasferito), che il processo canonico sia stato rispettoso del diritto di difesa
delle parti.

La Corte aggiunge che è chiaro che in quest’ottica il diritto di difesa va inteso nel suo nucleo
essenziale, cioè di rispetto di un sostanziale contraddittorio. Quindi, non è necessaria una
perfetta corrispondenza tra norme processuali civili e canoniche perchè è evidente che altrimenti
nessuna pronuncia di nullità verrebbe mai riconosciuta agli effetti civili. Ma bisogna controllare
se nella sostanza alle parti sia stato garantito un diritto al contraddittorio (= un effettivo diritto
ad agire e a difendersi a tutela dei propri diritti e interessi legittimi)

2. Un controllo sulla sentenza delibanda (su cui incide la tutela inderogabile dell’ordine
pubblico) La Corte d’Appello doveva controllare che la sentenza canonica non contenesse
disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano.

In questo senso la Corte dice che la tutela inderogabile dell’ordine pubblico costituisce un principo
supremo. Il controllo dell'ordine pubblico è tipico del diritto internazionale privato perchè è un
limite posto dall’ordinamente a tutela della sovranità statale all'ingresso di norme/disposizioni o atti
esterni (quali sentenze straniere). Quindi, è un limite mutuato dal diritto internazionale privato ed
era proprio al procedimento per il riconoscimento delle sentenze straniere (allora discipliato artt.
796 ss. c.p.c.) che la Corte pensa introduce questi due nuovi controlli sostanziali perchè anche il
controllo sul rispetto dei diritto di difesa era ed è un controllo previsto dagli art. 796 ss c.p.c. in
relazione al riconoscimento delle sentenze straniere.

Quindi, quando la Corte mette mano a questo procedimento per introdurre questi controlli (previsto
dall’art. 34 co 6 del Concordato e dall’art. 17 della legge matrimoniale), la Corte cerca di assimilare
il più possibile il procedimento per il riconoscimento delle sentenze canoniche a quello allora in
vigore per il riconoscimento delle sentenze straniere. Perciò, per certi versi, assimila la sentenza
canonica alla sentenza straniera, anche se è evidente che quest’assimilazione non si può spingere
avanti più di tanto perchè la sentenza canonica deriva da un ordinamento confessionale, mentre la
sentenza straniera è emanata da tribunali di ordinamenti temporali (e, quindi, da Stati territoriali).
Quindi, l'assimilazione dei due tipi di sentenza è solo a scopo di utilità, poiché nella sostanza quelle
straniere promanano da ordini temporali, quelle canoniche da un ordine spirituale. Non si può
parlare di una vera coincidenza dei procedimenti.

Quindi, il primo esito di questa sentenza è proprio di riformare/modificare in un’ottica sostanziale il


procedimento per il riconoscimento delle sentenze canoniche in modo che questo procedimento

113

diventi anche incerto negli esiti, che non sono scontati, perchè i controlli sono di ordine sostanziale
e non solo formale.

Nella sentenza la Corte spiega (nell’introdurre questi controlli e nell’individuare i 2 principi


supremi corrispondenti) nei contenuti cosa si debba intendere per diritto di difesa: “L'effettivo
controllo che nel procedimento, dal quale è scaturita la sentenza, siano stati rispettati gli elementi
essenziali del diritto di agire e resistere a difesa dei propri diritti”.

E cosa si debba intendere per ordine pubblico (più complicato): “La inderogabile tutela dell'ordine
pubblico, e cioè delle regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti
giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all'evoluzione della
società, è imposta soprattutto a presidio della sovranità dello Stato, quale affermata nel comma
secondo dell'art. 1, e ribadita nel comma primo dell'art. 7 della Costituzione”. I concetti di ordine
pubblico che esistono nel nostro ordinamento sono tanti (può essere inteso come limite alle libertà
costituzionali, come un bene giuridico meritevole di tutela da parte del c.p., come un sinonimo di
sicurezza pubblica): in questo caso si parla di ordine pubblico internazionale perchè è quell’ordine
pubblico che serve da limite all’ingresso nell’ordinamento di disposizioni normative, discipline,
atti, provvedimenti proveniente dall’esterno. Questo è il motivo per cui la Corte dice che
quest’ordine pubblico è a presidio della sovranità perchè tutela proprio il nucleo essenziale della
sovranità dello Stato. Fondamentalmente la Corte, nel definire questo ordine pubblico, dice che ci
sono gli istituti giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo (in questo caso specifico dobbiamo
pensare al matrimonio) che sono retti da alcune regole fondamentali che troviamo sia nella
Costituzione sia, in alcuni casi, nelle leggi ordinarie.

Quindi, anche in questo caso, va declinato lo stesso discorso fatto sul diritto di difesa: non è
necessaria una corrispondenza delle normative di dettaglio tra istituti giuridici, ma le regole
fondamentali (che si ricavano e dalla Costituzione e dalle leggi) non devono essere violate dalla
sentenza che si vuole riconoscere agli effetti civili. La sentenza di nullità canonica (nel caso di
specie) non deve contrastare apertamente con le regole fondamentali poste a base del matrimonio
civile.

È molto importante tenere a mente questa definizione di ordine pubblico perchè ciò che la Corte ci
chiede non è una mera comparazione tra cause di nullità, anche se molto spesso è così che viene
interpretato il limite dell’ordine pubblico anche dalla Corte di Cassazione. Con la sent. 18/1982 la
Corte ci chiede di valutare se nel concreto la sentenza da delibare viola il nostro ordine pubblico,
cioè le regole fondamentali che regolano l’istituto del matrimonio civile.

Richiamandosi a questi due principi supremi, la Corte introduce questi 2 controlli, un controllo sul
processo e un controllo sulla sentenza, che sono mutuati dai controlli previsti per il riconoscimento
delle sentenze straniere e che, sia in relazione al diritto di difesa sia in relazione al limite dell’ordine
pubblico, non richiedono nè una mera corrispondenza tra discipline canonistiche e civilistiche nè
una comparazione tra le stesse. Si parla di rispetto o di non contrasto.

Oltre a intervenire sul procedimento per il riconoscimento delle sentenze di nullità canoniche, nella
sent. 18/1982 la Corte si occupa anche di altre 2 questioni:

114

1. La conformità al diritto di difesa del riconoscimento agli effetti civili dei provvedimenti
canonici di dispensa dal matrimonio rato e non consumato.

L'art. 34 co. 6 del Concordato, ai fini del riconoscimento degli effetti civili, oltre alle sentenze di
nullità matrimoniale, fa riferimento anche ai provvedimenti canonici di dispensa dal matrimonio
rato (valido) ma non consumato, che non sono delle sentenze ma sono dei provvedimenti di
scioglimento di un matrimonio che è valido ma non è stato consumato. E questa dispensa può essere
concessa in maniera discrezionale dal Pontefice; quindi, è uno dei rari casi in cui il matrimonio
canonico prevede una specie di scioglimento: nel senso che il matrimonio è valido (quindi, non è
nullo), però in presenza di elementi particolari come la non consumazione può essere sciolto con
provvedimento della Santa Sede. Anche questi provvedimenti di scioglimento, nell’ambito del
Concordato del 1929, venivano riconosciuti agli effetti civili.

Con la sent. 18/1982 (sempre in applicazione del principio supremo del diritto di difesa) la Corte
dichiara l’incostituzionalità di questo riconoscimento, cioè ritiene che questo tipo di provvedimenti
di scioglimento non possono più essere riconosciuti agli effetti civili. Rimangono nell’ambito
dell’ordinamento canonico come provvedimento di dispensa, ma non avranno nessun effetto
nell’ordinamento civile.

La motivazione della Corte è questa: “E la risposta al quesito non può non essere negativa, essendo
incontestabile che la tutela giurisdizionale dei diritti, pur considerata nel suo nucleo più ristretto ed
essenziale, non possa certo realizzarsi in un procedimento [come questo per la dispensa], il cui
svolgimento e la cui conclusione trovano dichiaratamente collocazione nell'ambito della
discrezionalità amministrativa, e nel quale non vengono quindi garantiti alle parti un giudice e un
giudizio in senso proprio”.
➔ La Corte dice che è un procedimento amministrativo discrezionale che non prevede la
presenza di un giudice e di un giudizio; quindi, l’esito non può essere un provvedimento
rispettoso del diritto difesa. In questo senso, la Corte non lo ritiene conforme ai principi
supremi della Carta costituzionale; perciò, la Corte dichiara l’incostituzionalità del
riconoscimento di questi provvedimenti.

Dopo la sent. 18/1982 il riconoscimento resta previsto solo per le sentenze di nullità.

2. L'ultimo aspetto su cui la Corte si pronuncia in questa sentenza è la conformità alla


Costituzione della riserva di giurisdizione ecclesiastica.

La questione è se ai sensi della Costituzione si possa ritenere legittima la riserva di giurisdizione a


favore dei giudici ecclesiastici; ovvero, se è legittimo che lo Stato italiano rinuncia alla propria
giurisdizione in manteria così ampia e centrale quale le nullità dei matrimoni canonici trascritti. In
questa sentenza (così come aveva già fatto nella sent. 175/1973) la Corte ritiene infondata la
questione e conferma la piena legittimità della riserva facendo ricorso a molti articoli della Carta
costituzionale (come l’art. 102 Cost. che pone il divieto di giudici speciali, o l’art. 3 Cost.).
L’argomento più solido è un argomento che potremmo definire funzionale, che la Corte sottolinea
con grande forza e che poi ribadirà anche successivamente.

115

“Detta riserva appare poi funzionalmente connessa alla disciplina del negozio matrimoniale
canonico, cui il medesimo art. 34 del Concordato riconosce, mediante la trascrizione del relativo
atto, efficacia civile. Se il negozio cui si attribuiscono effetti civili, nasce nell'ordinamento canonico
e da questo è regolato nei suoi requisiti di validità, è logico corollario che le controversie sulla sua
validità siano riservate alla cognizione degli organi giurisdizionali dello stesso ordinamento,
conseguendo poi le relative pronunce dichiarative della nullità la efficacia civile attraverso lo
speciale procedimento di delibazione, anch'esso strutturato dall'art. 34 del Concordato”.
➔ Dopo aver confermato la legittimità costituzionale della riserva facendo ricorso a diverse
norme costituzionali, la Corte arriva a questo argomento funzionale: teoria del logico
corollario. Cioè, se questo matrimonio nasce nell’ordinamento canonico da cui è regolato
nei suoi requisiti di validità e resta un atto esterno per l’ordinamento dello Stato, è coerente
e logico che le controversie sulla sua validità siano riservate alla cognizione dei giudici
canonici.

Questa visione così chiara e logica del matrimonio concordatario come atto unico verrà messa in
crisi con l’art. 8 dell’Accordo del 1984 e, quindi, se è vero che la teoria del logico corollario regge
nell’ambito del sistema del 1929, non si è più così sicuri che possa reggere dopo l’entrata in vigore
dell’art. 8 perchè la natura di questo negozio come atto unico si trasforma e diventa un atto ibrido,
addirittura si sdoppia come se fosse formata da 2 diversi atti, uno regolato dal diritto civile, l’altro
dal diritto canonico.

ART. 8 DELL’ACCORDO DEL 1984

La sent. 18/1982 anticipa di poco i contenuti dell’art. 8 dell’Accordo; si suol dire che i contenuti
della sentenza sono stati “recepiti” dall’art. 8 dell’Accordo del 1984, ma in realtà questi contenuti
erano già inseriti nelle bozze di accordo anche precedenti o coeve alla sent. 18/1982. Più che
recepire i contenuti della sentenza possiamo dire che i 2 provvedimenti sono andati di pari passo.

Questo Accordo modifica nella sostanza l’istituto del matrimonio concordatario superando anche
tutte le automaticità presenti nel sistema del 1929, sia relative alla trascrizione (art. 8.1) sia relative
al riconoscimento delle sentenze (art. 8.2).

Più in generale, sappiamo che questo accordo, benchè si chiami Accordo di modifica del
Concordato del 1929, non è un mero accordo di modifica perchè il Concordato del 1929 viene
completamente sostituito.

Infatti l’art. 13.1 così recita: “Le disposizioni precedenti costituiscono modificazioni del
Concordato lateranense accettate dalle due Parti [riferimento all’art. 7.2 Cost.], ed entreranno in
vigore alla data dello scambio degli strumenti di ratifica. Salvo quanto previsto dall'articolo 7, n. 6,
le disposizioni del Concordato stesso non riprodotte nel presente testo sono abrogate”.

Quindi, l’unica fonte che regola il matrimonio concordatario è l’art. 8 dell’Accordo. In realtà, ci
dovrebbe anche essere una legge di applicazione dell’art. 8 dell’Accordo (che oltretutto è molto
laconico e lascia aperte molte questioni essenziali). Il problema è che il legislatore non ha mai
emanato la legge di applicazione dell’art. 8 dell’Accordo, per cui resta in vigore la l. 847/1929 nelle
disposizioni ancora oggi applicabili. Il lasciare volutamente alcuni punti non così chiari è molto
probabilmente riconducibile al fatto che certamente l’art. 8 nasce come una norma compromissoria;
116

quindi, le posizioni delle parti erano distanti su alcune questioni nodali, perciò per addivenire
comunque a un accordo hanno deciso di sorvolare su alcuhne questioni. Di conseguenza, il
legislatore non ha emanato una legge di applicazione che in qualche modo avrebbe dovuto
sciogliere una serie di nodi interpretativi.

L’esito di tutto ciò è che esiste un vuoto normativo perchè vi è solo l’art. 8 e il Protocollo
addizionale. Questo vuoto normativo è stato colmato in gran parte dalla giurisprudenza anche
perchè la legge del 1929 (che aveva dato applicazione all’art. 34 del Concordato) NON è stata
abrogata in toto: resta in vigore in quanto applicabile.

Art. 8.1

1. Sono riconosciuti gli effetti civili ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico, a
condizione che l'atto relativo sia trascritto nei registri dello stato civile, previe pubblicazioni nella
casa comunale. Subito dopo la celebrazione, il parroco o il suo delegato spiegherà ai contraenti gli
effetti civili del matrimonio, dando lettura degli articoli del codice civile riguardanti i diritti e i
doveri dei coniugi, e redigerà quindi, in doppio originale, l'atto di matrimonio, nel quale potranno
essere inserite le dichiarazioni dei coniugi consentite secondo la legge civile.

La Santa Sede prende atto che la trascrizione non potrà avere luogo:

a) quando gli sposi non rispondano ai requisiti della legge civile circa l'età richiesta per la
celebrazione;

b) quando sussiste fra gli sposi un impedimento che la legge civile considera inderogabile.

La trascrizione è tuttavia ammessa quando, secondo la legge civile, l'azione di nullità o di


annullamento non potrebbe essere più proposta. La richiesta di trascrizione è fatta, per iscritto, dal
parroco del luogo dove il matrimonio è stato celebrato, non oltre i cinque giorni dalla celebrazione.
l'ufficiale dello stato civile, ove sussistano le condizioni per la trascrizione, la effettua entro
ventiquattro ore dal ricevimento dell'atto e ne dà notizia al parroco. Il matrimonio ha effetti civili
dal momento della celebrazione, anche se l'ufficiale dello stato civile, per qualsiasi ragione, abbia
effettuato la trascrizione oltre il termine prescritto. La trascrizione può essere effettuata anche
posteriormente su richiesta dei due contraenti, o anche di uno di essi, con la conoscenza e senza
l'opposizione dell'altro, sempre che entrambi abbiano conservato ininterrottamente lo stato libero
dal momento della celebrazione a quello della richiesta di trascrizione, e senza pregiudizio dei
diritti legittimamente acquisiti dai terzi”.

Una delle novità è che la trascrizione non potrà avere luogo in presenza di un impedimento che la
legge civile considera inderogabile (es: l’impedimento dell’età).

Le novità di maggior peso sono quelle che ineriscono alla questione del procedimento per il
riconoscimento delle sentenze: NON è più ufficioso. Questa è una novità fondamentale perchè si
prevede espressamente che la nullità canonica possa rimanere irrilevante e possa non trovare nessun
riconoscimento nell'ordinamento civile se le parti decidono che non sono interessate a riconnettere
effetti civili alla sentenza di nullità canonica. Il riconoscimento degli effetti viene lasciato alla voltà
delle parti o anche eventualmente a una di esse. Questa è un’altra possibilità introdotta
dall’Accordo, cioè che si crei un contraddittorio tra le parti: una delle due parti intenda riconnettere
117

effetti civili alla pronuncia di nullità e, invece, l’altra (per i motivi più vari, magari anche di ordine
economico) non abbia nessun interesse. In questo si crea un vero e proprio giudizio in
contraddittorio tra le parti davanti alla Corte d’Appello in cui entrambe porteranno le proprie
ragioni a favore e contro. Se entrambe le parti sono d'accordo e vogliono agire in tal senso, non vi
sarà un vero e proprio contraddittorio e la decisione verrà presa in Camera di Consiglio.

In questo modo si supera completamente il principio dell’uniformità degli status (anche


formalmente) perchè le parti possono essere anche disinteressate a chiedere gli effetti civili della
sentenza che, quindi, rimane confinata nell’ordinamento canonico.

Poi, ci sono le novità già previste dalla sent. 18/1982, cioè che la Corte d’Appello debba controllare
il diritto di agire e resistere in giudizio e poi non c'è lo specifico riferimento espresso al controllo
dell'ordine pubblico MA c’è un vero e proprio rinvio alle condizioni richieste dalla legislazione
italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere.

Art. 8.2

“Le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, che siano munite del
decreto di esecutività del superiore organo ecclesiastico di controllo, sono, su domanda della parti
o di una di esse, dichiarate efficaci nella Repubblica italiana con sentenza della corte d'appello
competente, quando questa accerti:

a) che il giudice ecclesiastico era il giudice competente a conoscere della causa in quanto
matrimonio celebrato in conformità del presente articolo;

b) b) che nel procedimento davanti ai tribunali ecclesiastici è stato assicurato alle parti il
diritto di agire e di resistere in giudizio in modo non difforme dai principi fondamentali
dell'ordinamento italiano; c) che ricorrono le altre condizioni richieste dalla legislazione
italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere.

La corte d'appello potrà, nella sentenza intesa a rendere esecutiva una sentenza canonica, statuire
provvedimenti economici provvisori a favore di uno dei coniugi il cui matrimonio sia stato
dichiarato nullo, rimandando le parti al giudice competente per la decisione sulla materia”.

Art. 8.3

“Nell'accedere al presente regolamento della materia matrimoniale la Santa Sede sente l'esigenza
di riaffermare il valore immutato della dottrina cattolica sul matrimonio e la sollecitudine della
Chiesa per la dignità ed i valori della famiglia, fondamento della società”.

Fondamentale è anche il Protocollo Addizionale, che le parti hanno aggiunto all’Accordo


esplicativo di alcuni aspetti dell'Accordo stesso.

L'art. 4 del Protocollo Addizionale dà delle indicazioni aggiuntive in relazione all’art. 8.

a) Ai fini dell'applicazione del n. 1, lettera b), si intendono come impedimenti inderogabili della
legge civile:
118

1. l'essere uno dei contraenti interdetto per infermità di mente;

2. la sussistenza tra gli sposi di altro matrimonio valido agli effetti civili;

3. gli impedimenti derivanti da delitto o da affinità in linea retta.

b) Con riferimento al n. 2, ai fini dell'applicazione degli articoli 796 e 797 del codice italiano di
procedura civile, si dovrà tener conto della specificità dell'ordinamento canonico dal quale e
regolato il vincolo matrimoniale, che in esso ha avuto origine. In particolare:

1. si dovrà tener conto che i richiami fatti dalla legge italiana alla legge del luogo in cui si è
svolto il giudizio si intendono fatti al diritto canonico;

2. si considera sentenza passata in giudicato la sentenza che sia divenuta esecutiva secondo il
diritto canonico;

3. si intende che in ogni caso non si procederà al riesame del merito.

c) Le disposizioni del n. 2 si applicano anche ai matrimoni celebrati, prima dell'entrata in vigore del
presente Accordo, in conformità alle norme dell'articolo 34 del Concordato lateranense e della legge
27 maggio 1929, n. 847, per i quali non sia stato iniziato il procedimento dinanzi all'autorità
giudiziaria civile, previsto dalle norme stesse”.

Al punto b) c’è un riferimento alla specificità dell’ordinamento canonico perchè è evidente che
le parti ci vogliono avvisare che si richiamano gli artt. 796 ss c.p.c., ma va ricordato che la sentenza
canonica NON è una sentenza straniera perché l'ordinamento canonico non è un ordinamento
straniero ma ha natura confessionale. Non si tratta di un altro ordinamento temporale ma di uno
spirituale.

Più difficile è il riferimento al fatto che il vincolo matrimoniale è regolato dall’ordinamento


canonico. Quest’affermazione è indubitabile nel vigore del Concordato del 1929, ma è più difficile
sostenere che anche nell’ambito dell’art. 8 il vincolo matrimoniale sia regolato in tutto e per tutto
dal diritto canonico. Questa visione dell’atto matrimoniale come atto unico, che viene ribadita nel
Protocollo, viene messa in crisi (o quantomeno in discussione) da una serie di altre disposizioni e
d’interventi della Corte di Cassazione.

LA TRASCRIZIONE DEL MATRIMONIO CANONICO

La trascrizione del matrimonio canonico è disciplinata dall’art. 8.1 dell’Accordo del 1984 che si
divide in 2 parti: nella prima parte viene descritto il modo con cui il matrimonio canonico
acquisisce effetti civili (con la trascrizione); nella seconda parte si parla di come le sentenze di
nullità eventualmente pronunciate dai tribunali canonici possano acquisire effetti civili.

La trascrizione è l’atto di competenza dell’ufficiale dello stato civile (che resta nella completa
giurisdizione dei tribunali civili), che conferisce effetti civili al matrimonio contratto secondo le
norme del diritto canonico.

119

La trascrizione ha effetto costitutivo: vuol dire che costituisce gli effetti civili del matrimonio, cioè
a contrario significa che se non interviene la trascrizione il matrimonio non acquista effetti civili e
resta un vincolo esclusivamente religioso. In questo senso la trascrizione ha un’importanza centrale
nell’ambito del matrimonio concordatario perchè è proprio quell’atto che crea gli effetti civili,
altrimenti il matrimonio davanti allo Stato rimane irrilevante.

La trascrizione ha effetto retroattivo: nel senso che anche se interviene successivamente alla
celebrazione del matrimonio gli effetti del matrimonio retroagiscono al momento della
celebrazione. Quindi, il matrimonio risulta efficace (con effetti civili) non dal momento della
trascrizione, ma dal momento della celebrazione davanti al parroco (o a un suo delegato).

Differenze rispetto all’art. 34 del Concordato del 1929

Un’importante differenza è che NON si parla più di sacramento del matrimonio. Nell'art. 34 co. 1
del Concordato c’era un espresso riferimento al sacramento a cui lo Stato italiano si limitava a
riconnettere effetti civili e da questa visione “sacramentale” del matrimonio canonico trascritto
dipendevano una serie di conseguenze importanti anche in merito alla natura dell’atto matrimoniale
che era considerato un atto unico, nascente nell’ordinamento canonico.

Nell’art. 8 dell’Accordo del 1984 si parla di matrimonio “contratto secondo le norme del diritto
canonico”.

La formula potrebbe essere interpretata facendo del matrimonio canonico una semplice forma di
celebrazione religiosa e in questo modo sarebbe paragonabile ai matrimoni celebrati davanti ai
ministri dei culti ammessi. Fondamentalmente un matrimonio celebrato in forma diversa (cioè,
secondo le norme del diritto canonico) ma in realtà di fatto un matrimonio civile.

Oppure la si potrebbe interpretare secondo le norme del diritto canonico in maniera particolarmente
forte dando particolare significato al concetto di contratto. In questo modo, si dovrebbe concludere
che è il diritto canonico che regola il contratto matrimoniale anche dal punto di vista dei requisiti di
validità e, quindi, non sarebbe solo una forma di celebrazione al pari dei matrimoni celebrati
davanti ai ministri dei culti ammessi.

Rimane aperto quest’interrogativo; in base al contenuto del Protocollo Addizionale si dovrebbe


tendere per la seconda interpretazione: cioè, si dovrebbe arrivare a dire che effettivamente il
matrimonio canonico trascritto è ancora regolato nei suoi requisiti di validità dal diritto canonico.
Però, questa conseguenza non è così ovvia e scontata. Certamente questo matrimonio concordatario
nascente dall’Accordo ha una natura ibrida.

La trascrizione del matrimonio canonico può essere tempestiva oppure tardiva.


➔ La trascrizione tempestiva prevede che tutti gli adempimenti previsti dall'art. 8.1
dell'Accordo si svolgano secondo un preciso ordine cronologico e nel rispetto di tempistiche
espressamente previste.

È necessario che si rispetti questa concatenazione di eventi secondo le tempistiche brevi previste
perchè dal rispetto di questa tempistica si evince la volontà implicita delle parti (coniugi) di far
assumere al matrimonio, contratto secondo le norme del diritto canonico, effetti civili.

120

Questa è un’importante novità introdotta dall’Accordo: la volontà delle parti deve esserci
assolutamente, cioè senza la volontà delle parti il matrimonio non può in nessun caso acquisire
effetti civili e la volontà è evincibile dal rispetto dell’ordine delle tempistiche e dalla
concatenazione degli adempimenti previsti dall’art. 8.

Il primo adempimento che i coniugi devono compiere è richiedere le pubblicazioni anche nella
casa comunale, oltre che in parrocchia, all'ufficiale dello stato civile. Quindi, i coniugi dovranno
espressamente fare un’istanza all’ufficiale dello stato civile di pubblicare la loro intenzione di
sposarsi nella casa comunale per minimo di 8 giorni. Già da questo primo adempimento si evince la
volontà dei coniugi di riconoscere effetti civili al loro matrimonio canonico.

Successivamente, trascorsi 3 giorni senza che siano pervenute opposizioni al matrimonio (che può
essere motivata dall’esistenza di un impedimento inderogabile per il c.c.), l’ufficiale di stato civile
rilascia ai coniugi un certificato chiamato nulla osta. Questo certificato è molto importante perchè
garantisce ai coniugi che il matrimonio contratto secondo le norme del diritto canonico sarà
trascritto in ogni caso, anche se un impedimento inderogabile dovesse sorgere o essere rilevato
successivamente. Eventualmente in presenza di un impedimento inderogabile la trascrizione potrà/
dovrà essere impugnata; però, in ogni caso il nulla osta garantisce la trascrizione.

Una volta che i coniugi hanno il nulla osta possono celebrare il matrimonio (NB! Il nulla osta
garantisce la trascrizione). Il matrimonio deve essere effettuato entro 180 giorni dalle pubblicazioni
(termine di durata delle pubblicazioni). Se la celebrazione del matrimonio non avverrà entro questo
termine i coniugi dovranno chiedere una nuova pubblicazione.

Durante la celebrazione del matrimonio, il parroco o un suo delegato dovranno spiegare ai


contraenti che il matrimonio contratto secondo le norme di diritto canonico avrà anche effetti civili;
a seguito di questa spiegazione, dovrà altresì leggere gli articoli del codice civile che disciplinano
diritti e doveri dei coniugi. Questo è un altro adempimento importante da cui evincere la volontà di
trascrizione dei due coniugi.

Alla fine della celebrazione, il parroco forma l’atto di matrimonio in doppio originale: cioè, dovrà
fare 2 originali dell’atto di matrimonio, sottoscritti entrambi dagli sposi e dai testimoni, per la casa
comunale e per la chiesa. Anche da questo adempimento si evince la volontà dei coniugi di dare
effetti civili al matrimonio.

Una volta formato l’atto di matrimonio, entro 5 giorni dalla celebrazione (= termine perentorio per
garantire una concatenazione degli eventi particolarmente veloce), il parroco invia la richiesta di
trascrizione, per iscritto, all’ufficiale dello stato civile, che, ove sussistano le condizioni per la
trascrizione, la effettua entro 24 ore dal ricevimento dell'atto e ne dà notizia al parroco.

Il termine delle 24 ore è ordinatorio mentre quello dei 5 giorni è perentorio.

All’esito di tutto questo procedimento, la trascrizione del matrimonio avvenuta avrà effetto
retroattivo; quindi, gli sposi risulteranno coniugi davanti allo Stato dal momento in cui il
matrimonio è stato celebrato davanti al parroco o al suo delegato.

Quindi, ci sono alcuni adempimenti che più di altri dimostrano in maniera inconfutabile la volontà
delle parti di riconoscere effetti civili al matrimonio: richiesta di pubblicazioni, lettura degli articoli
121

del codice civile ai coniugi e sottoscrizione dell’atto di matrimonio in doppio originale. Queste sono
già importanti differenze tra il sistema del 1929 e quello del 1984 perchè la volontà dei coniugi ha
un rilievo centrale e, quindi, deve risultare in maniera chiara dal rispetto delle tempistiche e dell’iter
espressamente previsto e disciplinato dall’art. 8.

Altra importante differenza rispetto al Concordato del '29 è che la trascrizione NON può avvenire in
presenza di un impedimento inderogabile per la legge civile. Rispetto all’automatismo del 1929 qui
s’introduce un’importante differenza: perchè il matrimonio abbia effetti civili non devono esserci
impedimenti civili inderogabili.

L’art. 8 prevede la minore età come impedimento inderogabile e il Protocollo Addizionale precisa
quali sono gli altri impedimenti inderogabili: interdizione per inferimità di mente, l’altro
matrimonio valido agli effetti civili e gli impedimenti derivant da delitto o affinità in linea retta.

➔ Impedimento dell’età

La discordanza/sperequazione tra l’età prevista dal diritto canonico e dal diritto civile per contrarre
matrimonio nasce con la Riforma del diritto di famiglia del 1975, che eleva l'età per contrarre
matrimonio civile a 18 anni (maggior età), mentre nell’ambito del diritto canonico l’età resta 16
anni per l'uomo e 14 anni per la donna.

Quindi, la questione dell'impedimento dell’età (come impedimento inderogabile) nasce già nel
vigore del Concordato del 1929.

Su questo aspetto si era pronunciata la Corte Costituzionale con la sentenza 16/1982, coeva alla
sentenza 18/1982, che dichiarava l'incostituzionalità parziale dell'art. 12 della legge matrimoniale
nella parte in cui non prevedeva tra le cause di intrascrivibilità del matrimonio canonico, oltre
all'interdizione per infermità di mente e la mancanza di libertà di stato, la minore età di uno dei
coniugi. In questo caso non ci sono stati problemi d'individuazione del principio supremo leso
perché si trattava di una legge unilaterale dello Stato, non di norme pattizie (a differenza della
sentenza 18/1982).

Vi è a questo punto un problema di coerenza interna al sistema perché la Corte era solita sostenere
che i requisiti di validità del matrimonio erano regolati dal diritto canonico e, quindi, di fatto l’atto
del matrimonio nasceva nell’ordinamento canonico ed era da questo regolato nei suoi requisiti di
validità. Perciò, era difficile introdurre un’ulteriore causa di intrascrivibilità del matrimonio legata
ad una causa di validità. Quindi, la Corte per addivenire a questa soluzione (er inserire la minore età
dei coniugi tra le cause d’intrascrivibilità del matrimonio) ha creato una fictio iuris (finzione
giuridica), dicendo che esisteva un atto di scelta prodromico alla vera e propria celebrazione del
matrimonio in cui i coniugi dovevano scegliere se conferire o meno effetti civili al matrimonio.
Visto che questo atto di scelta, essendo prodromico alla celebrazione ed essendo legato alla volontà
di trascrivere, era completamente regolato dal diritto dello Stato, la Corte introduce l’impedimento
dell’età legato non tanto alla celebrazione del matrimonio, quanto a questo atto di scelta perchè un
minore di età non potrebbe avere la maturità/consapevolezza (e comunque non ha la capacità
giuridica) per compiere questo atto di scelta. Quindi l'impedimento della minore età è stato inserito

122

dalla Corte non tanto in relazione alla celebrazione, che rientra nell'ambito canonico e quindi
nell'ordine spirituale, quanto alla scelta dei coniugi di trascrivere agli effetti civili il matrimonio.

Anche in forza di questa sentenza, la minore età viene espressamente prevista dall’art. 8 co 1 tra gli
impedimenti inderogabili alla trascrizione.

Gli impedimenti elencati nel Protocollo Addizionale sono: l'essere uno dei contraenti interdetto
per infermità di mente; la sussistenza tra gli sposi di altro matrimonio valido agli effetti civili;
gli impedimenti derivanti da delitto o da affinità in linea retta. L’interdizione per infermità di
mente e l’altro matrimonio valido erano già inseriti nell’art. 12 della legge matrimoniale.

Qualora la trascrizione, per qualsiasi motivo, avvenga in presenza di un impedimento inderogabile,


essa può/deve essere impugnata e la competenza a decidere sulla validità della trascrizione è del
giudice civile perchè la trascrizione è un atto di competenza dell’ufficiale dello stato civili riservato
alla giurisdizione dello Stato.

➔ Trascrizione tardiva

Accanto alla trascrizione tempestiva (ordinaria, che accade nella maggioranza dei casi), l’art. 8.1
prevede anche una trascrizione tardiva, cioè prevede la possibilità di trascrivere il matrimonio
tardivamente quando, per un qualsiasi motivo, non siano stati rispettati l’ordine cronologico degli
adempimenti e la tempistica previsti dall’art. 8 per la trascrizione tempestiva.

Mentre sono previsti i requisiti per accedere alla trascrizione tardiva, non sono identificati i casi in
cui si può accedere a quest’ultima. Su questo punto l’art. 8 è molto generico; quindi, si pensa che i
motivi possono essere i più vari. Ad esempio perché al momento della celebrazione del matrimonio
esisteva un impedimento inderogabile temporaneo come la minore età di uno o di entrambi i
coniugi oppure perché inizialmente i coniugi (o uno di essi) non volevano conferire al matrimonio
religioso effetti civili. Quindi, le ipotesi fattuali in cui può succedere che un matrimonio
inizialmente previsto per rimanere nella sfera religiosa o per il quale era impossibile la trascrizione
oppure per il quale (a causa di un errore umano) non è stata rispettata la tempistica prevista dall’art.
8, è possibile trascrivere il matrimonio tardivamente.

Questo beneficio è un retaggio della disciplina del 1929, quando la trascrizione prescindeva dalla
volontà dei coniugi e, quindi, poteva essere fatta anche tardivamente, che ormai è rimasto un
beneficio SOLO per il matrimonio canonico. Nel senso che la possibilità di trascrivere tardivamente
non è prevista nelle intese con le confissioni diverse dalla cattolica e neanche nella legislazione sui
culti ammessi. Quindi, è una peculiarità del matrimonio canonico che nasce come retaggio del
principio di uniformità degli status che fondava il matrimonio concordatario nel 1929 che poi si è
progressivamente perso ed è stato superato; però, questo beneficio rimane e solo a favore dei
cattolici. E non è un beneficio da poco perchè, ad es, consente di trascrivere anche un matrimonio
che alla propria genesi (momento della celebrazione) non poteva essere trascritto per la presenza di
un impedimento inderogabile. Poi, consente di riconoscere effetti civili anche a un matrimonio che
inizialmente non era stato pensato per avere tali effetti; quindi, i coniugi possono cambiare idea e,
in forza della retroattività della trascrizione, quel matrimonio risulta avere effetti civili dal momento
della celebrazione.
123

Nella trascrizione tardiva manca il rispetto dell’ordine e della tempistica previsti dall’art. 8.1;
quindi, mancano anche quegli adempimenti nel rispetto dei tempi dai quali si evinceva la volontà
dei coniugi di riconoscre effetti civili al matrimonio. È evidente che in questo caso, non essendosi
rispettati i termini e dell'ordine cronologico degli atti da compiere, la volontà dei coniugi NON può
essere implicitamente ricavabile MA è necessario che sia esplicita. Questa è una differenza
importante tra la trascrizione tempestiva e la trascrizione tardiva: cioè, nella trascrizione tardiva i
coniugi devono esplicitare la volontà di conferire a quel matrimonio effetti civili dal momento della
celebrazione.

Infatti l'art. 8.1. dice che la richiesta deve essere o dei due contraenti o anche di uno di essi, con la
conoscenza e senza l'opposizione dell'altro. Questa seconda parte della disposizione certamente
tempera il rigore della richiesta da parte di entrambi MA crea anche qualche dubbio interpretativo
non di poco conto perchè non si riesce a capire come faccia il richiedente a provare la mancata
opposizione dell’altro, che essendo una prova negativa potrebbe diventare una probatio diabolica.
Sicuramente questa seconda possibilità è difficilmente perseguibile in concreto perchè non si
capisce come sia possibile dar conto che l’altra parte non si opponga, salvo che non ci sia
un’espressa non opposizione, ma a quel punto è più semplice fare una richiesta proveniente da
entrambi.

Il fatto che la volontà debba essere esplicita esclude una possibilità che, invece, era prevista nel
vigore del Concordato del 1929: la richiesta di trascrizione del matrimonio post mortem. Questa
soluzione non è più possibile nel vigore dell’Accordo del 1984 perchè la richiesta di voler
riconnettere effetti civili al matrimonio deve essere attuale; non si può evincere la volontà del
coniuge ad es. da una lettera pre mortem o da un testamento perchè la volontà non è attuale, ma è
ora per allora.

Poi, è indispensabile che entrambi i coniugi abbiano conservato ininterrottamente lo stato libero dal
momento della celebrazione a quello della richiesta di trascrizione. Essendo la trascrizione
retroattiva al momento della celebrazione, se uno o entrambi i coniugi sono stati legati in
matrimonio a qualcun altro per un periodo di tempo dalla celebrazione del matrimonio religioso alla
richiesta di trascrizione è evidente che si potrebbe realizzare un reato di bigamia.

Infine, l’art. 8.1 dice che NON sono pregiudicati i diritti legittimamente acquisiti dai terzi rispetto ai
coniugi dal momento della celebrazione perchè questi diritti, essendo stati acquisiti legittimamente
da terzi in un periodo in cui i coniugi non risultavano sposati agli effetti civili, non possono essere
pregiudicati dal fatto che successivamente la trascrizione faccia acquisire effetti civili al matrimonio
dal momento della celebrazione.

La trascrizione tardiva è un po’ un ibrido, infatti risulta essere un retaggio del sistema matrimoniale
concordatario del 1929 e soprattutto del principio dell’uniformità degli status; quindi, esisteva un
vero automatismo nel riconnettere effetti civili al matrimonio canonicamente celebrato.

In conclusione, possiamo dire che ci sono importanti differenze tra la trascrizione prevista dall’art.
34 e quella prevista dall’art. 8.1; sicuramente le differenze più evidenti sono 2:

1. Perdita dell’automatismo in relazione alla volontà delle parti.

124

2. Perdita della possibilità di trascrizione in presenza di impedimenti inderogabili per il codice


civile.

Resta aperta la strda degli impedimenti derogabili (con una specifica procedura) previsti dal nostro
c.c., su cui l'art. 8 non dice nulla in merito al fatto che possano o meno bloccare la trascrizione. Per
certi versi, anche questa è una concessione che l’Accordo fa alla Chiesa cattolica e che, invece, non
ritroviamo nei matrimoni previsti dalle intese con le confessioni diverse dalla cattolica in cui si fa
esplicito riferimento generico agli impedimenti previsti dal c.c. (non si fa differenza tra
impedimenti derogabili o inderogabili). Quindi, questa laconicità dell'articolo è una concessione
alla Chiesa Cattolica che non si riscontra per i matrimoni delle confessioni dotate di intese, in cui si
fa riferimento in modo generico alle disposizioni del c.c. senza differenze tra impedimenti
derogabili ed inderogabili.

Infine, la trascrizione resta un atto di esclusiva giurisdizione dello Stato sia nei suoi requisiti di
validità sia in relazione alla possibilità di dichiararne l’invalidità o meno; quindi, è un adempimento
regolato in tutto e per tutto dal diritto civile.

I L R I C O N O S C I M E N TO D E L L E S E N T E N Z E C A N O N I C H E D I N U L L I T À
MATRIMONIALE

L'art. 8.2 è relativo al riconoscimento delle sentenze di nullità canoniche. Quindi, il presupposto è
che i tribunali canonici (con un processo rispettoso del diritto processuale canonico) abbiano
emanato una sentenza di nullità sul matrimonio canonico trascritto e l’art. 8.2 disciplina le modalità
per riconnettere effetti civili a questa sentenza.

Questa è la parte dell'art. 34 che è stata modificata in modo più incisivo rispetto alla disciplina del
1929; nell’art. 8.2 rimane assai poco della disciplina del 1929 e pressochè tutto si modifica; quindi,
la struttura del procedimento per il riconoscimento civile delle sentenze canoniche di nullità è
completamente nuova e basata su presupposti diversi (non c’è più traccia del principio di uniformità
degli status). L’unica cosa che rimane ferma è la competenza che resta in capo alla Corte d’Appello.

La prima novità (già vista nella sent. 18/1982) è che gli unici provvedimenti che possono essere
riconosciuti agli effetti civili sono le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali
ecclesiastici; quindi, nell’art. 8.2 non vi è più spazio per il riconoscimento agli effetti civili dei
provvedimenti di dispensa del matrimonio rato e non consumato (sono irrilevanti per l’ordinamento
statale e, quindi, restano efficaci solo nell’ordinamento canonico).

Dopodichè, resta fermo che queste sentenze siano munite del decreto di esecutività del superiore
organo ecclesiastico di controllo e il fatto che siano, su domanda delle parti o di una di esse,
dichiarate efficaci nella Repubblica italiana con sentenza della Corte d'Appello competente. Non si
parla più di ordinanza ma di sentenza e, quindi, è evidente che l’art. 8.2 recepisce la giurisprudenza
costante degli anni ’50 e ’60 della Corte di Cassazione che aveva detto che anche se nell’art. 17
della legge matrimoniale si parlava di ordinanza, in realtà si trattava a tutti gli effetti di una
sentenza.

125

Certamente la novità più importante è la necessità che ci sia una domanda o delle parti o almeno di
una di esse: quindi, con l’art. 8.2 si supera in manierà definitiva l’officiosità del procedimento che
lascia alla volontà delle parti se riconnettere o meno efficacia civili alla sentenza.

Il primo controllo della Corte d’Appello era già presente nel 1929, ovvero che il giudice
ecclesiastico fosse il giudice competente a conoscere della causa in quanto matrimonio celebrato in
conformità del presente articolo. Vuol dire che la nullità ha inciso su un matrimonio canonico
trascritto in conformità dell’art. 8.1.

Poi, ci sono gli altri controlli che fondamentalmente cambiano il processo per il riconoscimento
perchè c’è il controllo che nel procedimento davanti ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle
parti il diritto di agire e di resistere in giudizio in modo non difforme dai principi fondamentali
dell'ordinamento italiano. Qui ci si richiama alla sentenza 18/1982 che aveva introdotto questo
controllo e, quindi, l’art. 8.2 recepisce i contenuti di questa sentenza.

Infine, c’è un richiamo alle altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione
di efficacia delle sentenze straniere. Quindi, non c’è un’altra precisa elencazione di tutti i controlli
che dovrà fare la Corte, ma le parti hanno deciso di rinviare alle condizioni previste all’epoca dal
c.p.c. agli artt. 796 e 797.

La Corte d'Appello potrà, nella sentenza intesa a rendere esecutiva una sentenza canonica, statuire
provvedimenti economici provvisori a favore di uno dei coniugi il cui matrimonio sia stato
dichiarato nullo, rimandando le parti al giudice competente per la decisione sulla materia.

Questa disciplina scarna è solo in parte arricchita dall'art. 4 del Protocollo Addizionale, che alla
lettera b) fornisce qualche indicazione in più per stemperare i vuoti più evidenti, ma solo negli
aspetti più generali, quelli di dettaglio vengono riempiti di contenuti dalla giurisprudenza della
Corte di Cassazione.

L'art. 4 Protocollo Addizionale

b) Con riferimento al n. 2, ai fini dell'applicazione degli articoli 796 e 797 del codice italiano di
procedura civile, si dovrà tener conto della specificità dell'ordinamento canonico dal quale e
regolato il vincolo matrimoniale, che in esso ha avuto origine.

In particolare:

1. Si dovrà tener conto che i richiami fatti dalla legge italiana alla legge del luogo in cui si è
svolto il giudizio si intendono fatti al diritto canonico;

2. Si considera sentenza passata in giudicato la sentenza che sia divenuta esecutiva secondo il
diritto canonico;

3. 3) si intende che in ogni caso non si procederà al riesame del merito”.

➔ In primo luogo, fa espresso riferimento agli articoli che bisogna applicare.

126

➔ In secondo luogo, c’è il richiamo alla specificità dell’ordinamento canonico: si deve


intendere che il diritto canonico che regola il vincolo matrimoniale è un diritto
confessionale; quindi, è animato da principi molto particolari che attengono all’ordine
spirituale sui quali il giudice temporale può non avere una grande dimestichezza. A
temperamento di un’applicazione rigida del c.p.c., questo articolo c’avvisa che in realtà
stiamo parlando di un diritto confessionale.

NB! Richiamo al fatto che il matrimonio canonico trascritto resta regolato dal diritto
canonico: con questa frase le parti hanno voluto ribadire che il vincolo matrimoniale ha
avuto origine nell’ordinamento canonico e da esso è regolato è un’affermazione pesante.
➔ Dopodichè vi sono altre precisazioni terminologiche in cui si dice che i richiami fatti dalla
legge italiana alla legge del luogo in cui si è svolto il giudizio s’intendono fatti al diritto
canonico e che la sent. s’intende passata in giudicato quando è divenuta esecutiva secondo il
diritto canonico. Questo perchè le sent. in materia si status nel diritto canonico NON
passano in giudicato; quindi, si può parlare solo di sentenza divenuta esecutiva. Inoltre,
l’esecutorietà della sentenza è garantita dal decreto del Supremo Tribunale della Segnatura
Apostolica.

Poi, non bisogna dimenticare la legge matrimoniale che, anche se mal si attaglia al nuovo Accordo,
comunque si può utilizzare in quanto applicabile cioè in quanto non sia in chiaro contrasto con
l’Accordo.

Tutto il resto del lavoro per dare corpo a questo procedimento di dettaglio è stato fatto dalla
giurisprudenza di legittimità (Cassazione) che è intervenuta molte volte, anche a Sezioni Unite
proprio perchè esistevano dei contrasti all’interno delle diverse sezioni.

Procedimento

Il procedimento inizia con un’istanza di parte e questa è considerata dalla giurisprudenza un diritto
personalissimo, che per certi versi è una delle numerose espressioni del diritto di libertà religiosa
dell’ex-coniuge (parte interessata). In quanto espressione della sua libertà religiosa, non può essere
delegato a nessuno e non è trasmissibile agli eredi (l’erede non può fare istanza per il
riconoscimento della nullità della sentenza canonica).

Si aprono 2 possibilità molto diverse:

1. Le parti sono d’accordo nel chiedere il riconoscimento della sentenza di nullità.

Le parti possono essere d’accordo nel chiedere il riconoscimento degli effetti civili alla sentenza di
nullità per qualsiasi motivo, ad esempio perché entrambe hanno convenienza a che il matrimonio
sia riconosciuto nullo magari perchè vogliono risposarsi con rito canonico e, quindi, hanno interesse
a vedere annullato il primo vincolo matrimoniale. Se le parti sono d'accordo nel riconnettere effetti
civili alla sentenza di nullità, faranno ricorso congiunto e il giudizio si svolgerà in Camera di
Consiglio davanti alla Corte d'Appello, che dovrà comunque controllare il sussistere dei requisiti
per il riconoscimento della sentenza, però è evidente che sarà più lineare e molto più facilmente si
arriverà a un riconoscimento degli effetti civili della pronuncia perchè non c’è un contenzioso tra le
parti.
127

2. Le parti NON sono d’accordo nel chiedere il riconoscimento della sentenza di nullità.

Vuol dire che una delle parti vuole riconnettere effetti civili alla sentenza di nullità e l’altra non vuol
che quel matrimonio dichiarato nullo per la Chiesa sia dichiarato nullo anche per lo Stato.

Anche in questo caso le motivazioni sottese a una tale decisione possono essere le più varie e
relative a qualsiasi aspetto della vita: nella maggior parte dei casi chi si oppone al riconoscimento
agli effetti civili lo fa per questioni anche spesso di natura economica perchè la sentenza di nullità
matrimoniale emanata dai giudici canonici viene riconosciuta nel nostro ordinamento come
sentenza di nullità; quindi, quel matrimonio è nullo anche per lo Stato. Le conseguenze patrimoniali
che discendono da questo riconoscimento sono le stesse che conseguono a una dichiarazione di
nullità matrimoniale da parte del giudice civile. Il nostro codice civile (artt. 128 ss c.c.) prevede
qualche conseguenza patrimoniale anche in caso di nullità del matrimonio, MA la disciplina del
matrimonio nullo ma putativo (= ritenuto valido da almeno uno dei coniugi) prevede delle
conseguenze sostanzialmente diverse da quelle previste dalla legge sullo scioglimento del
matrimonio (legge sul divorzio), che invece tutela in maniera sostanziale il coniuge
economicamente debole. Guardando gli artt. 128 ss c.c., non solo NON c’è un’adeguata protezione
del coniuge debole (il mantenimento è previsto solo per un periodo breve, massimo di 3 anni), MA
il presupposto principale (per avere diritto a un’equa indennità comunque limitata nel tempo) è che
il coniuge sia in buona fede e che, quindi, fosse convinto che il matrimonio fosse valido e che non
abbia dato lui causa alla nullità del matrimonio. Perciò, le condizioni per poter codere di questo
trattamento economico non sono così semplici da raggiungere e soprattutto il trattamento
eeconomico è limitato anche nel tempo. Non così le conseguenze economiche previste in caso di
scioglimento del matrimonio in cui non si ha riguardo alla buona fede (che non ha un’efficacia così
determinante) ma si guarda ad es. alla disparità economica tra i coniugi, alla durata del matrimonio,
gli apporti di ciascuno alla famiglia ecc. Questa è la motivazione per cui molte volte il coniuge
economicamente più debole non ha un interesse a riconoscere agli effetti civili la nullità del
matrimonio perchè il matrimonio sarebbe riconosciuto come nullo e non come sciolto nè come
cessati gli effetti civili e, quindi, il coniuge si troverebbe a rinunciare alle tutele che gli garantirebbe
la legge sullo scioglimento del matrimonio e a trovarsi a contare su disposizioni economiche
certamente non così favorevoli.

Se le parti non sono d’accordo, si darà origine a un vero e proprio giudizio/contenzioso che avrà
inizio con un atto di citazione di una parte nei confronti dell’altra. Competente sarà sempre la Corte
d’Appello, ma cambia proprio il processo perchè sarà un procedimento in contenzioso e, quindi, è
evidente che sarà sottoposto all’onere della prova e l’esito risulterà a essere molto più incerto.

I controlli che la Corte d'Appello deve fare sono:

1. che la sentenza di nullità riguardi un matrimonio canonico trascritto;

2. che nel procedimento davanti ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto
di agire e di resistere in giudizio in modo non difforme dai principi fondamentali
dell'ordinamento italiano;

3. che ricorrano le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di
efficacia delle sentenze straniere.
128

Questo richiamo in passato ha creato qualche interrogativo e dubbio che è statao risolto dalla
Corte di Cassazione.

Perchè? Sono sorti dei dubbi perchè gli artt. 796 e ss. c.p.c. non sono più in vigore perchè sono stati
abrogati dalla l. 218/1995 che ha rinnovato completamente il diritto internazionale privato italiano e
soprattutto ha reso il procedimento di delibazione solo eventuale; quindi, ha previsto una sorta di
riconoscimento automatico delle delle sentenze straniere e ha reso il procedimento solo eventuale in
alcune circostanze previste.

Quindi, una parte della dottrina e della giurisprudenza negli anni immediatamente successivi al
1995 ha iniziato a dubitare che questo procedimento dovesse continuare ad applicarsi per le
sentenze ecclesiastiche. Per cui, qualcuno aveva ritenuto che anche per le sentenze ecclesiastiche si
dovesse utilizzare lo stesso procedimento previsto dalla l. 218/1995.

Ci sono stati alcuni anni di giurisprudenza contraddittoria finché con una sentenza del 2003 la Corte
di Cassazione è intervenuta chiarendo una volta per tutte che, anche se queste norme non sono più
in vigore per il riconoscimento delle sentenze straniere, hanno una sorta di viviscenza (continuano
ad applicarsi) per quanto concerne il procedimento sulle sentenze ecclesiastiche. La Corte di
Cassazione arriva a questa conclusione perchè dice che il rinvio fatto dal Protocollo Addizionale
agli artt. 796 ss c.p.c. è un rinvio materiale, cioè è un rinvio al disposto della norma che è come
preso e inserito materialmente nell’art. 8.2 e nel Protocollo. Quindi, in forza di questo rinvio
materiale e non formale, il fatto che gli artt. 796 ss c.p.c. siano stati successivamente abrogati NON
rileva su questa disciplina.

Il non contrasto con l’ordine pubblico

Tra i controlli che la Corte d’Appello deve effettuare prima di riconoscere effetti civili alla sentenza
c’è il controllo che la sentenza delibanda non contenga disposizioni contrarie all’ordine
pubblico italiano.

La sent. 18/1982 ha detto che la tutela inderogabile dell’ordine pubblico era posta a presidio della
sovranità dello Stato e ha dato anche una definzione di “ordine pubblico”: s’intendevano le regole
poste dalla Costituzione o dalle leggi ordinarie a base degli istituti che esistono nel nostro
ordinamento (in quest’ottica il matrimonio). Quindi, per capire quando una sentenza contiene
disposizioni contrarie all’ordine pubblico dobbiamo vedere se questa sentenza contrasta con
principi fondamentali del nostro matrimonio civile.

Certamente il giudizio sull'ordine pubblico non dovrebbe limitarsi ad una mera comparazione tra
cause di nullità, bisogna individuare il principio di ordine pubblico leso. Anche perchè se noi
andiamo a vedere le discipline delle cause di nullità canoniche e delle cause di nullità civili
troviamo importantissime differenze; quindi, se dovessimo davvero procedere per comparazioni
sarebbe molto difficile procedere al riconoscimento delle sentenze di nullità canonica, che si basano
su presupposti molto diversi e prevedono discipline differenti.

Ad esempio, una delle cause di nullità spesso utilizzate dai tribunali ecclesiastici per dichiarare la
nullità dei matrimoni sono le simulazioni matrimoniali: vuol dire che le parti o una di esse al
momento della celebrazione del matrimonio escludono uno o più bona matrimonii (gli elementi
essenziali del matrimonio). Se li escludono tutti (e, quindi, fondamentalmente escludono il
129

matrimonio), si ha una simulazione assoluta, altrimenti se escludono solo uno o più bona
matrimonii si parla di simulazione relativa.

Uno dei bona matrimonii tipico è bonum prolis, cioè che il matrimonio sia teso alla procreazione.
Se entrambi i coniugi o uno di essi si mettono d’accordo di escludere dal loro matrimonio la
procreazione, quel matrimonio è nullo: vuol dire che quel matrimonio nasce nullo e niente può
sanare questa nullità originaria (non sanabile) perchè evidentemente il consenso rileva al momento
in cui viene espresso e, quindi, al momento della celebrazione del matrimonio.

Anche il codice civile prevede un’ipotesi di simulazione del matrimonio (art. 123 c.c.): se i coniugi
sono d’accordo nel non riconnettere a quel matrimonio nessun effetto (cioè, a escludere tra di loro i
diritti e i doveri nascenti dal matrimonio), questo è solo simulato e quindi è nullo. Ad es, si può
immaginare il matrimonio che viene celebrato dalle parti non perchè desiderano sposarsi ma solo
perchè una delle due possa ottenere la cittadinanza italiana.

MA ci sono importanti differenze nella disciplina e le differenze fondamentali (che la


giurisprudenza ha rilevato) di fatto sono 2:

1. Nel diritto canonico, in ragione dell’assoluta centralità assegnata al consenso dei coniugi
espresso al momento della celebrazione del matrimonio, si riconosce efficacia invalidante
del consenso anche alla riserva mentale di uno dei due che non venga esplicitata all’altro.
Per cui, nell’esempio dei due nubendi che si accordano nel non volere figli dovremmo dire
che la stessa nullità del matrimonio consegue anche al caso in cui il bonum prolis sia escluso
da uno solo dei due coniugi senza esplicitare la propria volontà all’altro (simulazione
unilaterale).

Quindi, il diritto canonico dà rilievo anche alla simulazione unilaterale.

Non è così per il diritto civile, secondo il quale rileva il SOLO accordo simulatorio (art. 123
c.c.), cioè il fatto che i 2 nubendi siano d'accordo nell’escludere i diritti e i doveri nascenti
dal matrimonio.

2. Tutte le nullità matrimoniali nel diritto canonico sono imprescrittibili e non sono soggette a
decadenza, cioè possono essere fatte valere sempre anche a diversi anni di distanza dalla
celebrazione del matrimonio e anche se i coniugi hanno coabitato/convissuto e, quindi,
hanno realizzato una vera e propria convivenza stabile ed effettiva. Quindi, anche in
presenza di tutte queste condizioni di fatto, il matrimonio in diritto canonico può essere in
ogni momento dichiarato nullo.

Non è così per il diritto civile, in cui tutte le cause di nullità fondate su vizi del consenso
(artt. 120, 122, 123 c.c.) sono sottoposte a termini brevi di decadenza e di prescrizione. Ad
es, nel caso della simulazione ex art. 123 c.c. non si può più chiedere la nullità del
matrimonio nel caso in cui le parti abbiano convissuto dopo il matrimonio oppure comunque
dopo 1 anno dalla celebrazione del matrimonio.

130

Questo dà ragione anche della debole tutela per il coniuge prevista dal codice civile nel caso
di nullità (artt. 128 ss c.c. sul matrimonio nullo putativo): è certamente una tutela molto
debole per il coniuge, però rende ragione del fatto che si tratta per lo più di matrimoni durati
poco tempo e comunque in cui non c’è stata convivenza oppure coabitazioni brevi.

Interventi della Corte di Cassazione

Per molto tempo, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha ritenuto che nel giudicare il contrasto
con l’ordine pubblico la Corte d’Appello dovesse tenere conto della maggiore disponibilità che
l’ordinamento italiano ha sempre dimostrato nei confronti dell’ordinamento canonico matrimoniale
(Cass. SU sent. 5026/1982). La dottrina si è chiesta cosa s'intendesse per “maggiore disponibilità”.
Questa non è una formula giuridica, ma era probabilmente solo un modo utilizzato dalla Cassazione
SU nel 1982 per stemperare il richiamo ai principi dell'ordine pubblico.

Questo citerio della maggiore disponibilità lo ritroviamo nella giurisprudenza per molto tempo e, a
seguito di questa presa d’atto, l’effetto era che quasi tutte le sentenze di nullità canoniche sono state
riconosciute agli effetti civili, cioè non contrastanti con l’ordine pubblico, indipendentemente dalle
cause di nullità sulle quali si fondavano.

MA nonostante questa maggiore disponibilità, per molto tempo c’è stato un unico principio di
ordine pubblico ritenuto impeditivo del riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche ed era
strettamente collegato alla simulazione unilaterale o riserva mentale. Quindi, la Corte di Cassazione
ha ritenuto che quella differenza di discipline potesse assurgere a creare un contrasto con l’ordine
pubblico e, quindi, a impedire il riconoscimento delle sentenze di nullità. Infatti, per molto tempo la
Corte ha ritenuto che questo unico principio che impediva il riconoscimento fosse l’affidamento
del coniuge incolpevole sulla validità del matrimonio. In base a questo principio, non era
riconosciuta agli effetti civili (si rifiutava l’istanza di riconoscimento) la sentenza di nullità che si
fondasse su simulazione unilaterale (in cui uno solo dei due coniugi aveva simulato il consenso in
relazione ad uno dei bona matrimonii) nel caso in cui la riserva mentale non fosse nè conosciuta nè
conoscibile al coniuge incolpevole (che non aveva espresso la riserva mentale). Quindi, non era
sufficiente che non fosse conosciuta, ma era necessario che non fosse neanche conoscibile. Cioè, se
la riserva non era conosciuta MA c’erano delle evidenze (nel comportamento, nelle parole dell’altro
coniuge ecc.) dalle quali si potesse evincere la volontà del coniuge colpevole di escludere il bona
matrimonii, in questo caso la sentenza era riconoscibile agli effetti civili.

Il concetto è che si voleva difendere l’affidamento del coniuge sulla validità del matrimonio: si
voleva tutelare, come principio di ordine pubblico, l’affidamento del coniuge incolpevole. MA
siccome l’affidamento era strettamente collegato all’incolpevolezza perchè se il coniuge non era
incolpevole, il suo affidamento non era deglno di tutela, per dare maggiore corpo a
quest’incolpevolezza la Corte di Cassazione ha detto che la simulazione unilaterale non solo non
doveva essere conosciuta, ma neppure conoscibile dal coniuge incolpevole.

Qui si aprono molte questioni difficilmente risolvibili su come provare questa conoscibilità (quali
sono gli elementi da cui dovrebbe discendere questa conoscibilità della riserva mentale?).
Situazione ancora più grave considerando che la Corte d’Appello, in quanto mero giudice della
delibazione, non dovrebbe neppure avere poteri istruttori propri; quindi, non dovrebbe poter
interrogare testimoni, fare accertamenti propri ecc.
131

La Corte aggiunge un altro elemento: posto che si parla sempre di tutela dell’affidamento del
coniuge incolpevole, se il coniuge incolpevole per i motivi più vari non si oppone al riconoscimento
della sentenza o addirittura fosse esso stesso a chiederlo non ci sarebbe alcun problema di
affidamento da tutelare perchè sarebbe lo stesso coniuge incolpevole che, per certi versi, rinuncia a
vedere garantito il suo affidamento e anzi o chiede lui stesso il riconoscimento della sentenza agli
effetti civili oppure non chiede il riconoscimento in via primaria ma non si oppone.

In sostanza, le sentenze fondate su simulazione unilaterale in cui uno dei due coniugi aveva
simulato e, quindi, espresso un’esclusione su uno o più bona matrimonii non era riconosciuta agli
effetti civili SOLO nel caso in cui la riverva mentale non fosse conosciuta o conoscibile dal coniuge
incolpevole. Nessun problema, invece, se era il coniuge incolpevole a non opporsi al
riconoscimento o a chiederlo direttamente.

All’inizio, questa ricostruzione è stata molto criticata dalla dottrina e la critica principale è che di
utilizzava a principio di ordine pubblico l’interesse di una delle due parti che addirittura aveva la
disponibilità di far valere o meno questo principio di ordine pubblico. Soprattutto è stato
considerato poco consono all’operatività dell’ordine pubblico il fatto che il suo utilizzo venga
lasciato nella disponibilità delle parti perchè se un principio è di ordine pubblico, vuol dire che è
strumentale alla sovranità dello Stato e, quindi, avrebbe come scopo di salvaguardare l’unità e la
coerenza interna dell’ordinamento giuridico (in cui non dovrebbero entrare principi eterodossi che
rompono tale coerenza interna). Tutto ciò dovrebbe presupporre che il principio di ordine pubblico
operi d’ufficio indipendentemente dall’atteggiamento processuale delle parti.

Su questo punto, però, la Cassazione è rimasta ferma; quindi, ancora oggi le sentenze di nullità che
si fondano su simulazione unilaterale possono avere problemi a essere riconosciute agli effetti
civili. NON quelle che si fondano su simulazione bilaterale, in cui sono entrambe le parti a mettersi
d’accordo nell’escludere uno o più bona matrimonii.

Quindi, per molto tempo l’affidamento del coniuge incolpevole è stato l’unico principio utilizzato
dalla giurisprudenza per inibire il riconoscimento agli effetti civili delle sentenze canoniche per
contrarietà all’ordine pubblico. Però, nel tempo, a partire soprattutto dalla fine degli anni ’80, la
giurisprudenza ha iniziato a connettere rilievo anche all’aspetto dell’imprescrittibilità delle nullità
canoniche e proprio al fatto che spesso era evidente che le sentenze intervenissero a dichiarare la
nullità di matrimoni durati anche molti anni. C’era un rilevante problema con la disciplina
civilistica delle nullità che prevedeva brevi termini di decadenza e di prescrizione e anche un
problema di tutela economica del coniuge più debole perchè gli artt. 128 ss c.p.c. (che stabiliscono
le conseguenze patrimoniali derivanti dalla dichiarazione di nullità) prevedono una tutela
economica debole e di breve durata solo a favore del coniuge incolpevole. La circostanza si pone in
forte contrasto con la disciplina civilistica delle nullità per vizi del consenso che prevede brevi
decadenze dall’azione (coabitazione per un anno, convivenza successivamente alla celebrazione) e,
proprio in ragione di ciò, prevede una tutela economica debole e di breve durata a favore del solo
coniuge incolpevole (art. 128 c.c. sul matrimonio putativo).

Quindi, anche in forza di questa situazione di discriminazione e di mancata tutela nei confronti del
coniuge patrimonialmente più debole, la Corte ha cominciato a dare rilievo nel procedimento per il

132

riconoscimento agli effetti civili delle sentenze di nullità all’aspetto dell’imprescrittibilità delle
nullità canoniche, ma soprattutto (collegato a quest’ultimo) all’aspetto della durata del matrimonio.

C'erano stati tentativi di modificare le conseguenze patrimoniali previste per il matrimonio nullo;
quindi, per certi versi, d’intervenire sugli artt. 128 ss c.c., e c’erano stati una serie di disegni di
legge in questo senso. Però, questi disegni di legge non sono andati a buon fine anche perchè era
molto difficile individuare su quali tipi di sentenze intervenire: è chiaro che se si fossero prese in
considerazione tutte le sentenze di nullità, la modifica sarebbe intervenuta anche su sentenze che
invece erano state dichiarate in relazione a matrimoni durati molto poco o in cui non vi fosse stata
nemmeno coabitazione o convivenza; quindi, addirittura su sentenze dichiarate dal giudice civile (in
applicazione del c.c.).

Forse anche per ovviare a questa situazione di squilibrio ai danni del coniuge economicamente
debole, è intervenuta la Corte di Cassazione nel dare rilievo alla convivenza dopo la celebrazione
del matrimonio e, quindi, a inibire il riconoscimento delle sentenze di nullità in caso di convivenza.
Su questi aspetti è intervenuta la Cassazione a S.U. con la sentenza 4700/1988, che però ha per
certi versi bloccato i tentativi della prima sezione della fine degli anni ’80 dicendo che questa
differenza di disciplina tra decadenze e imprescrittibilità dell’azione era irrilevante ai fini del
contrasto con i principi di ordine pubblico e che, quindi, indipendentemente dalla durata del
matrimonio la sentenza poteva essere riconosciuta agli effetti civili.

Negli anni 2011/2012 la Prima Sezione della Corte di Cassazione comincia a emanare alcune
pronunce di segno contrario dando proprio rilievo al fattore della convivenza. A questo punto, dato
l’ulteriore contrasto all’interno della giurisprudenza, tale situazione determina un nuovo intervento
della Corte di Cassazione a S.U., che si pronuncia nel 2014. La Cassazione SU si discosta
completamente dalla soluzione proposta nel 1988 e stabilisce che una stabile, duratura ed effettiva
convivenza (durata per almeno tre anni) tra i coniugi successiva alla celebrazione del matrimonio
(poi dichiarato nullo) inibisce il riconoscimento degli effetti civili della sentenza di nullità per
contrasto con l’ordine pubblico perchè se il matrimonio è stato vissuto come rapporto effettivo e
stabile, gli eventuali vizi del consenso dell’atto matrimoniale perdono rilevanza e, quindi, non si
possono più far valere per dichiarare la nullità dell’atto matrimoniale. La Cassazione dice che se il
matrimonio è diventato rapporto, l’invalidità dell’atto non è più rilevante.

In questa sentenza del 2014, la Cassazione cerca anche di dare qualche criterio per definire la parola
“stabile”: quando si può pensare che la convivenza sia stabile? Se avesse dovuto limitarsi a
guardare le decadenze previste dal c.c. (negli artt. 120 ss c.c.) avrebbe dovuto forse più facilmente
parlare di una convivenza di un anno perchè, in realtà, in queste cause di nullità la decadenza è
fissata dopo un anno di coabitazione o di convivenza. Probabilmente la Corte di Cassazione ha
ritenuto che 1 anno fosse un termine troppo breve per parlare di una convivenza stabile, effettiva e
duratura e, quindi, l'ha fissato in tre anni. Ha rinvenuto questo termine dalla legge sulle adozioni
degli anni ’80, che prevede che possono fare istanza per adottare un minore coloro che risultano
sposati e conviventi da almeno 3 anni. Da questa legge, la Corte ha ritenuto che il legislatore
pensasse che una convivenza di 3 anni fosse sufficente per dimostrare di essere in presenza di un
rapporto effettivo e stabile. Quindi, se i coniugi hanno convissuto in maniera stabile ed effettiva (=
devono aver avuto un matrimonio vero) per 3 anni, la sentenza di nullità non può più essere
riconosciuta agli effetti civili.
133

Ci sono state molte contestazioni da parte della dottrina perchè è molto frequente che le sentenze di
nullità canoniche incidano su matrimoni che sono durati più di tre anni, tant’è che qualcuno in
dottrina ha detto che esisteva una palese violazione dell’art. 8 dell’Accordo del 1984 perchè si
stravolgeva completamente l’iniziale spirito dell’Accordo perchè in questo modo di fatto s’inibiva
completamente qualsiasi riconoscimento delle sentenze.

Anche in questo caso, come per l'affidamento incolpevole, la Corte di Cassazione lascia il principio
di ordine pubblico nella disponibilità dei coniugi, cioè entrambi i coniugi se vogliono possono
eccepire in giudizio la convivenza ultratriennale e, quindi, inibire il riconoscimento della sentenza
di nullità. Nel senso che questo principio di ordine pubblico è interpretato come un’eccezione di
parte; quindi, la parte che intenda inibire il riconoscimento della sentenza di nullità (s’immagina la
parte economicamente più debole) deve eccepire la convivenza ultratriennale in giudizio. Di fatto,
saranno le parti che, in ragione dei propri interessi personali, decideranno se eccipire o meno,
opporsi o non ecc.
➔ Il principio di ordine pubblico diventa un'eccezione di parte.

Quindi, si è partiti da una situazione di automaticità del riconoscimento per approdare ad una
situazione nella quale la convivenza ultratriennale dei coniugi dovrebbe impedire il riconoscimento
delle sentenze.

Il rispetto del diritto di difesa

Il controllo del rispetto del diritto di difesa (fatto dalla Corte d’Appello) attiene al processo
canonico.

I casi in cui la giurisprudenza ha rifiutato il riconoscimento della sentenza in violazione del diritto
di difesa sono relativamente pochi (neanche paragonabili ai casi in cui è intervenuta sul principio
dell’ordine pubblico). Sono certamente molto limitati i casi in cui la giurisprudenza ha rifiutato il
riconoscimento della sentenza di nullità per violazione del diritto di difesa.

Sul punto però è intervenuta la Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2001 con una sentenza in cui
ha condannato l’Italia (su istanza della signora Pellegrini -la ricorrente-) per violazione dell’art. 6
della Convenzione sulla tutela dell’equo processo in relazione al riconoscimento agli effetti civili di
una sentenza di nullità canonica. La Corte d'Appello e la Corte di Cassazione avevano riconosciuto
agli effetti civili la sentenza di nullità canonica anche se nel processo canonico alla sig.ra Pellegrini,
citata in giudizio dal marito, non era stato notificato in tempo utile/congruo prima dell’udienza il
libello, cioè non aveva potuto vedere in tempo utile la notificazione dell'atto di citazione e non
aveva potuto prendere coscienza della domanda proposta dall'attore. La CEDU ha accolto il ricorso
della signora Pellegrini e nella sentenza ha esplicitato cosa sia ricompreso nel diritto di difesa:
➔ la parte deve avere la facoltà di prendere conoscenza e di discutere ogni allegazione o
osservazione presentata al giudice al fine di influenzarne la decisione.
➔ compete soltanto alle parti giudicare se un elemento apportato dalla controparte o da un teste
richiede di essere commentato.

134

➔ la parte deve essere messa in condizioni di beneficiare dell’assistenza di un avvocato (difesa


tecnica) ed incombe al tribunale di informarla di tale facoltà prima che essa renda
l’interrogatorio.

LA QUESTIONE DELLA RISERVA DI GIURISDIZIONE

La questione della riserva di giurisdizione è una questione che rimane ancora insoluta e che nasce
da un’assenza: la disciplina del 1984 è molto lacunosa e, quindi, lascia all'interprete tutta una serie
di questioni da risolvere che non sono state adeguatamente disciplinate dalle parti, anche perché la
legge dello Stato che avrebbe dovuto dare applicazione all'art. 8 dell'Accordo non è mai stata
emanata. Quindi, è evidente che una serie di questioni di ordine pratico/concreto/applicativo sono
rimaste insolute. In realtà, la questione della riserva di giurisdizione non è tanto una questione di
ordine applicativo, ma anzi è una questione sostanziale che è probabile che le parti abbiano
volutamente lasciato nel vago perché era difficile da risolvere.

La questione nasce dall'assenza nel nuovo Accordo della riserva di giurisdizione ecclesiastica
contenuta nell'art. 34 co. 4 del Concordato, che conteneva un’escplicita riserva di giurisdizione a
favore dei tribunali canonici in relazione alle questioni di nullità dei matrimoni canonici trascritti.
Quindi, nessun giudice, a parte quello canonico, poteva pronunciarsi sulla nullità di questi
matrimoni. Questa riserva di giurisdizione che chiudeva “il cerchio” del principio di uniformità
degli status non è stata riprodotta nell'art. 8.2 dell'Accordo, che disciplina il nuovo procedimento
per il riconoscimento delle sentenze di nullità ma non dice nulla circa la riserva di giurisdizione e
nemmeno lo fa il Protocollo Addizionale.

Dopo l'entrata in vigore del nuovo Accordo sia la dottrina che la giurisprudenza di merito, di
legittimità e costituzionale si sono impegnate ad interpretare e riempire di contenuti questo vuoto di
disposizioni. Tant’è che una dottrina ecclesiasticistica di quegli anni ha chiamato questo tentativo
come esegesi del silenzio.

Le tesi legate all’interpretazione di questo silenzio sono tante e si poggiano su diversi appigli
testuali o logici; tra le varie tesi avanzate nell'attività interpretativa, vi sono 2 filoni principali
portati avanti e dalla dottrina e dalla giurisprudenza.

1. La tesi del superamento della riserva

La prima tesi sosteneva il superamento della riserva: cioè, sosteneva che con l'entrata in vigore
dell'Accordo del 1987 e la relativa l. 121/1985 che gli ha dato esecuzione non si potesse più parlare
dell’esistenza di una riserva di giurisdizione.

Questa tesi si fondava soprattutto sull’art. 13.1 dell’Accordo, che sostituisce in toto il Concordato
del 1929, tant’è che quest’articolo abroga tutte le disposizioni del Concordato del 1929 non
espressamente riprodotte. Quindi, la tesi del superamento della riserva si basa proprio su questa
presa d’atto che se la riserva di giurisdizione a favore dei tribunali ecclesiastici prevista dall’art. 34
del Concordato non è riprodotta, deve considerarsi abrogata.

La conseguenza del superamento della riserva di giurisdizione è che i giudici civili dello Stato
italiano possono essere aditi al fine di dichiarare la nullità di un matrimonio canonico trascritto e,
135

quindi, possono pronunciarsi sulla nullità. È una rivoluzione copernicana perchè secondo questa tesi
il giudice civile dichiarerà la nullità di un matrimonio canonico trascritto. Fino a questo momento
era rimasto fermo che la validità del vincolo era regolata dal diritto canonico e di questa validità si
potevano pronunciare solo i giudici canonici.

A questo punto si aprono una serie di problemi perchè se anche il giudice civile può pronunciarsi
sulla validità del vincolo canonico, si pone il problema dei rapporti con la giurisdizione canonica.
Che cosa succede nel caso in cui sullo stesso matrimonio pende sia un giudizio davanti al giudice
canonico sia un giudizio davanti a un giudice civile? Può succedere che uno dei coniugi adisca
contemporaneamente e l’uno e l’altro giudice oppure che un coniuge si rivolga al giudice civile
mentre l’altro al giudice canonico. Come si regolano i rapporti tra queste 2 giurisdizioni?

MA il problema più complicato è: Quale diritto si applica? Cioè, nel momento in cui il giudice
civile si trova a pronunciarsi sulla nullità di un matrimonio canonico trascritto applicherà il diritto
civile o il diritto canonico? Se il vincolo matrimoniale nasce nell’ordinamento canonico come atto
unico ed è da questo regolato nei suoi requisiti di validità, la soluzione dovrebbe essere a favore del
diritto canonico (in quanto diritto che regola l’atto). È evidente che questa è una soluzione ben
difficilmente percorribile nell’ottica del principio di distinzione degli ordini e della laicità dello
Stato perchè l’ordinamento canonico è sì un ordinamento esterno allo Stato MA è un ordinamento
confessionale, NON è un ordinamento temporale. Per cui chiedere al giudice civile di applicare un
diritto confessionale che, quindi, si fonda su principi che esulano dall’ordine temporale sembra uno
sconfinamento inaccettabile.

2. La tesi della sopravvivenza della riserva

La tesi opposta alla prima sostiene invece la sopravvivenza della riserva: cioè, sostiene che l’entrata
in vigore dell’Accordo del 1984 nella sostanza non cambierebbe i termini del problema in relazione
alla natura giuridica del matrimonio concordatario, che rimarrebbe regolato dal diritto canonico e
rimarrebbe un atto esterno al diritto dello Stato. Quindi, secondo questa tesi sarebbe logico
corollario (termine già utilizzato dalla Corte Costituzionale nel 1973 e nella sentenza 18/1982) che
sulla nullità di questi matrimoni si pronunciassero i soli giudici canonici in applicazione del diritto
canonico.

Sostanzialmente questa tesi dice che lo stesso Protocollo Addizionale ricorda che il diritto canonico
regola il matrimonio concordatario; ora se il matrimonio canonico trascritto nasce nell’ordinamento
canonico ed è da questo regolato nei suoi requisiti di validità (premessa ribadita dal Protocollo
Addizionale), è logico che la sua nullità sia dichiarata solo dai tribunali canonici, pena una rottura
del sistema ed una illogicità interna dell'istituto del matrimonio canonico trascritto (che non si
capirebbe più come interpretare).

Questa tesi dà molto rilievo all’aspetto della logicità del sistema e in questo senso avvalora
argomenti già sostenuti prima dell’Accordo del 1984 dalla Corte costituzionale nel 1975 e nel 1982.

Queste sono le 2 tesi che la dottrina e la giurisprudenza hanno portato avanti negli anni
immediatamente successivi all’entrata in vigore dell’Accordo del 1984, cioè quando si doveva
capire se i giudici civili potessero o meno pronunciarsi su questi matrimoni.

136

Su questa questione, nel 1993 si sono pronunciati contestualmente sia la Corte di Cassazione a S.U.
(inizio anno) sia la Corte costituzionale (fine anno); i 2 organi si sono pronunciati in modo
diametralmente opposto.

La Corte di Cassazione SU ha sostenuto la tesi del superamento della riserva con la sentenza
1824/1993. L’argomento principale utilizzato per sostenere il superamento della riserva è stato
certamente l’art. 13 del Nuovo Accordo.

Pertanto, poiché l’art. 8 n. 2 dell’Accordo di revisione riproduce, sia pure con rilevanti
modificazioni, le disposizioni dell’art. 34 relative alla delibazione, ma non anche quella contenente
la riserva di giurisdizione ai tribunali ecclesiastici delle cause concernenti la nullità del
matrimonio, quest’ultima disposizione è rimasta abrogata ai sensi dell’art. 13.

Nell’ambito di questa sentenza la Corte affronta ma non risolve il problema sulla concorrenza di
giurisdizioni e la problematica sul diritto applicabile. La soluzione della Cassazione attinge dalle
disposizioni del diritto internazionale privato: nel senso che la Corte di legittimità mostra di
considerare la Chiesa cattolica e il diritto canonico come un ordinamento in tutto e per tutto
straniero; quindi, applica in maniera indiscriminata le strutture e le soluzioni previste dal diritto
internazionale per i rapporti con gli ordinamenti stranieri e non mostra di dare alcun rilievo alla
specificità dell’ordinamento canonico, che non è un ordinamento straniero (perché non è temporale)
ma confessionale (inerente all’ordine spirituale). Tant’è che non sembra preoccuparsi di
un'eventuale applicazione del diritto canonico.

“Né l’attribuzione all’ordinamento canonico della disciplina sostanziale del matrimonio implica
necessariamente che la competenza processuale debba del pari attribuirsi esclusivamente ai
tribunali ecclesiastici e non anche, concorrentemente, ai giudici dello Stato (in quanto - si dice -
questi ultimi sarebbero comunque chiamati ad applicare le norme del diritto canonico); perché,
anche se ciò fosse vero - e non è questa la fase del processo in cui il dubbio debba essere sciolto - il
giudice italiano si troverebbe nella stessa situazione in cui, in virtù degli artt. 17-27 delle
disposizioni preliminari al c.c. o in applicazione di norme di diritto internazionale privato
convenzionale, debba applicare la legge straniera regolatrice del rapporto sostanziale”.
➔ La riserva è abrogata, il giudice civile può dichiarare la nullità eventualmente anche (se
fosse necessario) applicando il diritto canonico.

La Corte Costituzionale con la sentenza 421/1993 sostiene la tesi opposta, cioè la sopravvivenza
della riserva. Questa presa di posizione non stupisce perchè con questa sent. la Corte non fa che
ribadire la posizione assunta nelle pronunce precedenti (soprattutto nella sent. 18/1982). Certamente
erano sentenze precedenti all’Accordo del 1984; quindi, emanate in un periodo storico in cui vigeva
ancora il Concordato Lateranense, perciò la riserva era ancora prevista espressamente; ma la Corte
non mostra di dare troppo rilievo a questo dato testuale perchè quella riserva nasceva dalla logica
del Concordato, o meglio del matrimonio canonico trascritto. Cioè, era la coerenza interna del
matrimonio concordatario che obbligava le parti a prevedere quella riserva di giurisdizione. È un
logico corollario che non lascia spazio a dubbi: la riserva è del giudice canonico. In forza di questa
logicità, che rimane ferma anche nell’Accordo del 1984, secondo la Corte la riserva sopravvive
anche se non è espressamente prevista.

137

Nell’Accordo del 1984 permane il riconoscimento degli effetti civili, mediante la trascrizione, ai
matrimoni che, per libera scelta delle parti, sono stati contratti secondo le norme del diritto
canonico e che rimangono regolati, quanto al momento genetico, da tale diritto. Ne deriva che su
quell’atto, posto in essere nell’ordinamento canonico e costituente presupposto degli effetti civili, è
riconosciuta la competenza del giudice ecclesiastico.
➔ Per la Corte è tutto coerente e logico: la riserva era un aspetto importante e un elemento
irrinunciabile di questa logicità; quindi, tale rimane anche se non è più espressamente
prevista.

Coerentemente con il principio di laicità dello Stato (sentenza n. 203 del 1989), in presenza di un
matrimonio che ha avuto origine nell’ordinamento canonico e che resta disciplinato da quel diritto
il giudice civile non esprime la propria giurisdizione sull’atto di matrimonio, caratterizzato da una
disciplina conformata nella sua sostanza all’elemento religioso, in ordine al quale opera la
competenza del giudice ecclesiastico.
➔ La Corte si pone il problema del diritto applicabile: se il diritto applicabile è un diritto
religioso, è chiaro che quest’ultimo che conforma nella sostanza l’atto deve essere
necessariamente interpretato e applicato dal giudice ecclesiastico proprio in forza del
principio di laicità dello Stato (e del principio di distinzione degli ordini che ne costituisce il
presupposto).

Il giudice dello Stato esprime la propria giurisdizione sull’efficacia civile delle sentenze
ecclesiastiche di nullità del matrimonio, attraverso lo speciale procedimento di delibazione
regolato dalle stesse norme dell’Accordo in modo ben più penetrante che nella disciplina originaria
del Concordato. Permane inoltre pienamente, secondo i principi già fissati dalla Corte, la
giurisdizione dello Stato sugli effetti civili.

Quindi, la posizione della Corte non cambia rispetto alle sentenze precedenti ed è molto rigorosa e
legata alla natura giuridica unitaria di questo atto matrimoniale, che trova conferma anche
nell’attuale Protocollo Addizionale.

Dal 1993 la giurisprudenza ha seguito l’indicazione della Cassazione a S.U. (supremo organo
d’interpretazione delle leggi) e i giudici civili, tranne rari casi in cui hanno richiamato la sent. della
Corte Costituzionale, si sono ritenuti quasi sempre competenti e hanno applicato il diritto civile;
quindi, fondamentalmente hanno applicato al matrimonio canonico trascritto un diritto che
teoricamente non era quello che ne aveva regolato la validità e il momento genetico.

Questo comporta una concorrenza di giurisdizioni perchè sullo stesso matrimonio possono pendere
un giudizio civile e un giudizio canonico. In questo caso, i due giudizi andranno avanti
separatamente e nel caso in cui il giudizio civile finisca prima di quello canonico e la sentenza
civile passi in giudicato prima del riconoscimento agli effetti civili di quella canonica, tale
riconoscimento non potrà avvenire perchè la sentenza di nullità civile è passata in giudicato e,
quindi, eventualmente ha già dichiarato la nullità di quel matrimonio.

Diversa è la situazione nel caso in cui il giudice civile rigetti la domanda e, quindi, non dichiari la
nullità del matrimonio canonico trascritto. A quel punto si apre l’interrogativo se la pronuncia
canonica successiva che invece annulla il matrimonio potrà o meno essere riconosciuta agli effetti
138

civili. La questione è aperta a conferma che comunque l’esistenza di due giurisdizioni che
concorrono crea evidenti problemi di rapporti.

In conclusione, dovremmo rispondere a questa domanda: Che natura ha ora il matrimonio


canonico trascritto? Se nel vigore del Concordato del 1929, la sua natura giuridica era chiara,
coerente e lineare: atto unico esterno allo Stato che nasceva nell’ordinamento canonico ed era da
questo regolato, si può ancora ritenere che sia un atto unitario nato e regolato dall’ordinamento
canonico? A questo punto è molto difficile arrivare a questa conclusione perché l'Accordo del 1984
e la giurisprudenza successiva hanno completamente stravolto questa natura giuridica.

In questa situazione non si può far altro che sostenere che ci sia un doppio atto, cioè un matrimonio
regolato dal diritto canonico e un matrimonio regolato dal diritto civile (sono 2 matrimoni). Se così
non fosse, non sarebbe possibile per il giudice civile dichiarare la nullità di questo matrimonio
applicando il diritto civile.

Per certi versi, vale la stessa cosa per i matrimoni celebrati davanti ai ministri dei culti ammessi e
anche dei matrimoni celebrati ai sensi delle intese con lo Stato, anche se in questi due casi le
sentenze confessionali eventualmente emanate non vengono riconosciute agli effetti civili. Però, si
può comunque parla di un doppio binario.

Si può arrivare a concludere che con l'Accordo dell'1984, oltre al problema del riconoscimento agli
effetti civili delle sentenze canoniche di nullità che rimane fermo, il matrimonio canonico trascritto
si è sempre più avvicinato come natura giuridica agli altri matrimoni religiosi. È una figura ibrida
difficile da inquadrare, cioè una sua qualificazione organica e logica.

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