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Università degli Studi Roma Tre

Dipartimento di Lettere e Filosofia


Filosofia politica
Prof.ssa Federica Giardini

Machiavelli e Montaigne

Una chiave di lettura per il (nostro) presente

Fiamma Tarola

Anno Accademico 2020/2021

© Università degli Studi Roma Tre, Dipartimento di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in
Filosofia, a.a. 2020/2021

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I contesti storici in cui si collocano Machiavelli e Montaigne, ovvero
rispettivamente il rinascimento italiano e quello atlantico, sono
fondamentalmente caratterizzati dall’idea di crisi dei paradigmi dell’umanesimo e
del medioevo. La loro filosofia riprende e valorizza la categoria dell’utile in un
periodo in cui non solo lo sguardo dei filosofi, una volta puntato verso il cielo,
viene riportato a terra, fra questioni mondane e pratiche, ma si consapevolizza
del suo ruolo periferico nell’universo e della sua natura più simile a quella animale
che divina. L’uomo è una forza fra le tante forze non umane come, nel caso di
Machiavelli, quelle dell’ambiente o della Fortuna e assiste inesorabilmente alla
metabolé, alle trasformazioni immanenti che avvengono in lunghe fasi storiche.
La vena scettica dei due filosofi è indotta dunque da fattori come la crisi
della Chiesa, già evidente con Machiavelli, e che nel periodo contestuale a
Montaigne sfocia nella diffusa protesta luterana e nella nascita di movimenti,
come il Calvinismo, che si oppongono al cattolicesimo ormai corrotto dell’epoca.
Entrambi maturano la loro visione del mondo grazie alla loro esperienza nella
sfera pubblica degli affari; Machiavelli affrontò le questioni delle guerre e del
rapporto fra stati, e Montaigne, che ricoprì il ruolo di sindaco di Bordeaux, visse il
periodo delle guerre di religione e il massacro della notte di San Bartolomeo.
Il pensiero moderno viene assegnato generalmente a Cartesio e a
Montaigne, mettendone in luce l’intrinseca contraddittorietà: un pensiero che
parte dal dubbio per distaccarsi dalle filosofie precedenti, che hanno visto l’uomo
in una posizione teocentrica fino all’Umanesimo, e giunge alla certezza della
ragione e all’antropocentrismo nel caso di Cartesio, e allo scetticismo e al
prospettivismo di Montaigne. Tuttavia, dei due filosofi, il vero moderno è
Montaigne, che non dissipa mai il dubbio con delle certezze reali e si interroga sul
mondo partendo non dall’autorità, ma dialogando con gli antichi e soprattutto
con sé stesso, riprendendo il motto socratico del “conosci te stesso”. Cartesio
cerca di trovare la certezza che gli antichi non riuscirono a conquistare,
Montaigne vi rinuncia; Cartesio dunque non abbandona la metafisica, mentre
Montaigne fa della filosofia uno strumento di conoscenza delle zone più ombrose
dell’animo umano, ispirando con la sua disillusione e l’acuto umorismo filosofi
come Pascal e Nietzsche. Lo scettiscismo di Montaigne rifiuta, allontana ogni
certezza, innanzitutto sulla supremazia dell’uomo nel cosmo. Critica aspramente il
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pregiudizio sugli animali e sui cosiddetti selvaggi, ovvero gli indigeni che gli
europei incontreranno e decimeranno nella colonizzazione delle Americhe. Come
avremo modo di notare in alcuni dei passi dell’Apologia di Raymond Sebond,
contenuta nei Saggi, la sensibilità verso la diversità, che denota una prospettiva
radicale e moderna, conduce il filosofo a condannare la presunzione umana.
L’uomo è ignorante e conosce una piccolissima parte dell’universo, la ragione è
miope. Non è possibile per Montaigne universalizzare la visione individuale di un
uomo a tutte le cose. L’uomo è dunque un animale dubitante.

E' possibile immaginare qualcosa di tanto ridicolo quanto il fatto che questa miserabile
e meschina creatura, che non è neppure padrona di se stessa ed è esposta all'ingiuria di tutte
le cose, si dica padrona e signora dell'universo, di cui non è in suo potere conoscere la minima
parte, tanto meno comandarla? E quel privilegio che si attribuisce, di essere cioè il solo in
questa gran fabbrica ad avere la facoltà di riconoscerne la bellezza delle parti, il solo a poter
render grazie all'architetto e a tener conto del bilancio del mondo, chi gli ha conferito questo
privilegio? (...) La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. La più calamitosa e
fragile di tutte le creature è l'uomo, e al tempo stesso la più orgogliosa. Essa si vede e si sente
collocata qui, in mezzo al fango e allo sterco del mondo, attaccata e inchiodata alla peggiore,
alla più morta e putrida parte dell'universo, all'ultimo piano della casa e al più lontano dalla
volta celeste, insieme agli animali della peggiore delle tre condizioni [ossia l'aerea, l'acquatica
e la terrestre]; e con l'immaginazione va ponendosi al di sopra del cerchio della luna, e
mettendosi il cielo sotto i piedi. E' per la vanità di questa stessa immaginazione che egli si
eguaglia a Dio, che si attribuisce le prerogative divine, che trasceglie e separa se stesso dalla
folla delle altre creature, fa le parti agli animali suoi fratelli e compagni, e distribuisce loro
quella porzione di facoltà e di forze che gli piace. Come può egli conoscere, con la forza della
sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? Da quale confronto tra essi e noi
deduce quella bestialità che attribuisce loro? Quando mi trastullo con la mia gatta, chi sa che
essa non faccia di me il proprio passatempo più di quanto io faccia con lei? (...) Di fatto,
perché un papero non potrebbe dire così: 'Tutte le parti dell'universo mi riguardano; la terra
mi serve a camminare, il sole a darmi luce, le stelle a ispirarmi i loro influssi; ho tale il
vantaggio dai venti, il tal altro dalle acque; non c'è cosa che questa volta celeste guardi con
altrettanto favore quanto me; sono il beniamino della natura; non è forse l'uomo che mi
nutre, mi alloggia, mi serve? E' per me che egli fa seminare e macinare; se mi mangia, così fa
l'uomo anche col suo compagno, e così faccio io con i vermi che uccidono e mangiano lui'.

(Montaigne, Saggi, libro II, cap. XII)

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In una prima parte dell’Apologia, dopo aver introdotto le caratteristiche
dell’opera e aver informato i lettori di come è venuto a conoscenza di Raymond
Sebond e della sua teologia naturale, l’autore si dedica al tema dell’infondatezza
dell’orgoglio umano. L’uomo, che si ritiene superiore alle altre specie, è l’essere
vivente più orgoglioso e fragile, “un animale nelle peggiori condizioni”, che guarda
il cielo ma è ancorato alla terra. L’uomo non conosce la mente degli animali e
assegna alle specie non umane l’assenza della razionalità. L’incomunicabilità fra
uomini e animali non è un difetto solo dei secondi ma anche dei primi. L’assenza
di un linguaggio verbale in molti animali non giustifica comunque la tracotanza
dell’uomo, il quale utilizza, per le più disparate finalità e motivi, il linguaggio
gestuale analogamente alle bestie.
Montaigne ribalta la prospettiva, dunque esiste non solo il nostro punto di
vista, umano, ma anche quello animale, che vede gli uomini altrettanto bestiali.
Tramite numerose analogie soppesa qualità come fedeltà, lealtà e amicizia,
utilizzando aneddoti degli antichi, rilevandole maggiormente negli animali che
negli umani. Gli animali sono anche dotati di facoltà di astrazione e ragionamento,
come il cane di Plutarco o quello di Crisippo. Non solo l’uomo non si distingue
contro l’opinione tradizionale, per la ragione e il linguaggio, ma è anche la più
crudele e la meno grata fra le specie. L’autore mette in evidenza la relatività di
valori come la bellezza, utilizzati per giudicare superiore la specie umana, porta
avanti una linea scettica ispirata da Luciano di Samostata che, con una certa
comicità e uno stile acutamente ironico, offriva una riflessione sull’abitudine
umana di considerare una sola prospettiva ignorando una pluralità di mondi
diversi.
Montaigne, in questo passo, e nelle altre pagine dei Saggi, tematizza la
debolezza della ragione, che ci apre a quella che è la condizione umana, ovvero
miseria, fragilità, incertezza e morte. Con un’epoché sospende le certezze e
accoglie quello che Vattimo definirà pensiero debole. Il dialogo con gli antichi, da
Seneca, a Lucrezio fino ad Aristotele è venato da un criticismo che ci ricorda la
fallibilità dei grandi maestri del pensiero. Montaigne non adotta alcuna scuola di
pensiero e preferisce maturare le sue riflessioni in autonomia, ispirato, sotto
questo aspetto, da Cicerone. Non dando forma ad una unica teoria filosofica,
l’autore decide di utilizzare nella sua argomentazione numerosi esempi concreti,
tratti dall’osservazione più che da altre dottrine filosofiche.

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Della maggior parte degli antichi il filosofo critica il fatto di non aver colto
l’intrinseca fragilità e debolezza umana, pur apprezzando qualità di varie correnti
filosofiche come quella Stoica e quella Epicurea. Un errore comune sin
dall’antichità è infatti il paragone fra uomo e Dio, l’ingiustificata rappresentazione
di Dio a immagine e somiglianza dell’uomo, derivante dalle chimere della
metafisica e del dogmatismo.
La debolezza della ragione si lega, nella terza parte dell’Apologia, alla
tematica dei sensi, delle passioni del corpo. Il tema del corpo, anche ripreso come
allegoria, è un topos rinascimentale che ritroviamo anche in Machiavelli. In
Montaigne la ragione è incapace di cogliere la verità ed è fallibile, proprio perché
è influenzabile dallo stato del corpo. Montaigne considera i sensi non come
ostacolo alla ragione, ma come un differente strumento gnoseologico. Le passioni
sono un elemento preponderante nell’uomo e la lotta contro di esse, condotta
dalla metafisica, in particolare quella di Cartesio, è vana. Le passioni infatti
permettono, almeno parzialmente, di cogliere una verità che vada oltre quella
dell’analisi razionale. I sensi, ineliminabili, come mezzi conoscitivi saranno poi
tematizzati da filosofi quali Marx, Nietzsche e Feuerbach. In più, l’autore
radicalizza maggiormente la sua posizione esaltando i sensi degli animali,
ribaltando ancora una volta la prospettiva antropocentrica.
Fra i paradigmi scardinati, abbiamo quello dell’eurocentrismo: in particolar
modo con Dei cannibali, Delle carrozze e con l’Apologia, Montaigne confronta le
usanze degli indigeni e degli europei, evidenziando come le seconde siano
effettivamente più crudeli delle prime e che il pregiudizio negativo sui selvaggi è
dovuto all’estraneità di un mondo privo delle abitudini ormai consolidate nei
colonizzatori, ormai corrotti dalla civilizzazione. Le morbose abitudini europee di
perseguitare minoranze religiose e di far bruciar vive le persone rendono gli
europei moralmente inferiori ai cannibali, che cuociono e mangiano i corpi di
defunti, secondo il filosofo. Gli indigeni vivono in una società basata ancora sulla
legge di natura mentre quella europea è costruita sull’artificio. Montaigne dunque
anticipa il tema del buon selvaggio di Rousseau di ben due secoli, aprendosi
all’alterità, con un sentimento generale di pietas nei confronti degli oppressi.
L’autore afferma che non si può giudicare l’alterità con un criterio del bene e del
male ma solo utilizzando un principio di differenza paritetica.

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Ora io credo, per tornare al mio discorso, che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro
e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito: se non che ognuno chiama barbarie quello che
non è nei suoi usi. Sembra infatti che non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la
ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo.
(Dei cannibali)

Tutti i Saggi costituiscono una legittimazione e un’esaltazione della pluralità


e diversità umana; nel caso dei selvaggi abbiamo, secondo l’autore, un esempio di
purezza paragonabile all’età dell’oro descritta da Lucrezio. La condizione
prepolitica degli indigeni è quindi per il filosofo lo stato migliore per la convivenza
della molteplicità umana, proprio come affermerà poi Rousseau. Montaigne non
si limita a riportare il punto di vista europeo ma anche quello degli indigeni che
visitarono Rouen sotto il re Carlo IX. La loro prospettiva è quella di una società
non prosperosa e pacifica, ma primitiva, che lascia la maggior parte della
popolazione in condizioni di povertà.
Tre di loro, non sapendo quanto costerà un giorno alla loro tranquillità e alla loro
felicità la conoscenza della corruzione del nostro mondo, e che da questo commercio nascerà
la loro rovina, che del resto suppongo sia già a uno stadio avanzato, assai da compatire per
essersi lasciati ingannare dal desiderio della novità e aver abbandonato la dolcezza del loro
cielo per venire a vedere il nostro, furono a Rouen, al tempo in cui c’era il defunto re Carlo IX.
Il re parlò loro a lungo; fu loro mostrato il nostro modo di vivere, la nostra magnificenza,
l’aspetto d’una bella città. Dopo di che qualcuno chiese il loro parere, e volle sapere che cosa
avessero trovato di più ammirevole; essi risposero tre cose, di cui non ricordo più la terza, e
me ne rammarico; ne ricordo però ancora due[…]In secondo luogo (hanno una maniera di
parlare per cui chiamano gli uomini metà gli uni degli altri) che si erano accorti che c’erano fra
noi uomini pieni e saturi di ogni sorta di agi, e che le loro metà stavano a mendicare alle porte
di quelli, smagriti dalla fame e dalla povertà; e trovavano strano che quelle metà bisognose
potessero tollerare una tale ingiustizia, e che non prendessero gli altri per la gola o non
appiccassero il fuoco alle loro case
(Dei cannibali)

L’approccio di Montaigne è dunque quello prospettivista, ovvero egli


utilizza il pensiero scettico per decostruire delle gerarchie imperanti nell’Europa

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rinascimentale. È utile ricordare come il filosofo abbia considerato paritetici
uomini e donne, e abbia ribadito che le differenze sono nell’educazione e non
nella forma. Montaigne si fa precursore di temi, come l’anti-specismo e il
problema dell’antropocentrismo e dell’eurocentrismo, presenti nella più recente
corrente postumanista (e femminista). L’idea di natura umana viene messa in
discussione, in un mondo in cui molte forze non umane sembrano predominarlo e
modellarlo; proprio con Montaigne si ha una prima (e moderna) analisi
antropologico-filosofica della condizione umana.
Il tema del ruolo dell’uomo nel mondo, caro a Montaigne, è molto
presente e discusso nelle opere di Machiavelli, di cui il filosofo francese è lettore.
Difatti entrambi i filosofi tentano di dare una risposta alle crisi del periodo storico
che stavano affrontando, riaprendo le possibilità di nuove definizioni di politica
che, dal suo originale significato mutuato nell’antichità greca e romana, era
profondamente cambiata nel Medioevo e durante l’Umanesimo, con la perdita
progressiva dello spazio pubblico e il crescente dominio di quello sociale, in
contrapposizione allo spazio privato, il quale con la modernità comincia ad
includere in sé il concetto di privacy. Lo stesso stato francese, con Francesco I, si
centralizza e si stabilisce, per decisione sovrana, la lingua d’oil come lingua
ufficiale della Francia; nel secolo successivo con Hobbes nascerà la definizione
moderna di Stato come potere centrale, una macchina ordinatrice basata su un
principio razionale, il Leviatano, nel quale interesse privato e pubblico,
contrariamente alla posizione aristotelica, coincidono, e il primo è motore di ogni
azione. La filosofia hobbesiana influenzerà tutta la politica successiva e
alimenterà quella che Foucault definisce ossessione per il sovranismo.
È invece evidente che in Machiavelli l’idea di spazio pubblico come spazio
urbano, polis, ereditata da Aristotele, sia vitale per la politica, che deve essere
legata ad un’etica, civile e non religiosa; lo stesso papa non seguì i precetti del
cattolicesimo nelle questioni degli affari politici. Tuttavia ribadisce come la
religione sia importante per la politica come strumento unificatrice: Machiavelli
parla di una religione precristiana, ovvero quella romana, una ‘religione civile’.
Anche in Montaigne abbiamo una posizione critica nei confronti della religione: il
filosofo sostiene infatti che la teologia deve essere fuori dalla filosofia e proprio
per questo si rifà alla teologia naturale di Raymond Sebond nell’Apologia.

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Tornando a Machiavelli, è rilevante osservare come egli si opponga all’idea
del sovranismo, tipicamente Hobbesiano, concependo la politica in spazi
autonomi come quelli dei comuni e dei municipi, nei quali la lingua utilizzata è il
volgare, dunque una lingua che non nasce per decisione sovrana. Esemplare è il
fatto che Machiavelli, dopo aver elaborato Il Principe, esalti nei Discorsi la
Repubblica Romana, e non il principato, come migliore forma di governo. Per
Machiavelli lo stato è paragonabile al corpo umano, travolto da umori che
generano conflitti, un’interazione di forze.
Gli umori, in ambito politico, descritti per la prima volta in modo accurato
ne’ Il Principe e poi nei Discorsi. Nell’opera The Machiavellian Cosmos di Parel vi è
un’analisi dei differenti usi che Machiavelli fa del termine umore. Per Machiavelli
sono desideri collettivi, appetiti di gruppi sociali, ma anche attività che il conflitto
genera. Un’ulteriore lettura degli umori è la lotta fra stati o, ancora essi possono
essere interpretati come disposizioni. È la città la sede degli umori, in particolare
di due inclinazioni opposte, quella del popolo che non vuole essere oppresso dai
grandi e quello dei grandi che desiderano opprimere il popolo; dall’esito di tale
conflitto possono scaturire un principato, la libertà o la licenza (anacyclosis di
Polibio)

Perché in ogni città si trovano questi dua umori diversi; e nasce da questo, che il
populo desidera non essere comandato né oppresso da’ grandi, e li grandi desiderano
comandare e opprimere il populo; e da questi dua appetiti diversi nasce nelle città uno de’ tre
effetti, o principato o libertà o licenzia.
(IX capitolo de Il Principe).

Per Machiavelli le forme politiche si fondano su una divisione originaria; la


disunione è dunque un fattore costitutivo. L’analisi degli umori esplicita il legame
fra corpo e malattia in ambito medico e Stato sofferente, in continuo mutamento
e che evolve per crisi: la politica deve dunque non sopprimere tali scompensi ma
dare loro spazio al fine di trovare un nuovo equilibrio nel modo meno sanguinoso
possibile. Il corpo della politica è quindi dinamico ed è segnato dalla Fortuna, dalla
necessità o dal caso; il rapporto fra le parti è sempre squilibrato e disarmonico per
Machiavelli, in opposizione alla metafora di Agrippa sui patrizi e i plebei, nel quale

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stomaco (i patrizi), gambe e braccia (plebei) devono essere sempre in una
relazione bilanciata.
Il tumulto per Machiavelli è l’elemento che ha saputo dare una lunga vita
alla res publica romana e proprio per questo si approccia (genealogicamente) agli
antichi, i cui insegnamenti non sono solo orpello intellettuale per chi fa politica,
ma uno strumento di conoscenza delle crisi del presente, in virtù di un tempo
ciclico (Machiavelli lettore di Lucrezio), nel quale molte situazioni e modelli storici
si ripresentano in forme analoghe. I gruppi sociali, la pluralità di umori, sono
presupposti di una forma di governo in cui il popolo può partecipare al res
publica, dunque può agire. La filosofia del processo e della molteplicità
machiavelliana è molto differente dall’interpretazione che ne è stata dai suoi
critici, come Gentillet, un’interpretazione distorta, nella quale Machiavelli sembra
legittimare la ragione di Stato e un atteggiamento finalistico, amorale e
anticristiano, che ha determinato la predominante fortuna negativa de’ Il Principe
(1513-1514/18) e ha messo in ombra altre sue rilevanti opere come i Discorsi sulla
Prima Deca di Tito Livio(1512/13-1523/24) e le Istorie Fiorentine (1520-1525).
Machiavelli, premoderno, ha fornito ai pensatori dei secoli successivi una
chiave di lettura del post-moderno, rendendo la componente conflittuale della
politica un fattore di innovazione, in reazione alla politica della sovranità statuale
e offrendo una riflessione, trascurata per molto tempo dalla tradizionale politica
moderna, sulla corruzione e sulla forma della repubblica.
Altrettanto attuale è l’analisi di interazioni umane e non umane, molto
presente nell’iconografia rinascimentale, nella quale il pensatore fiorentino
riprende il tema della Fortuna, paragonata ad una donna, contro cui l’uomo non
può nulla. Machiavelli propone infatti di adattarsi alla mutevolezza determinata
da questa forza non umana, facendo uso delle virtù. Le virtù sono re-interpretate
in una modalità differente da quella umanistica. Ne’ Il principe egli afferma che
l’uomo virtuoso deve dotarsi di buone leggi e buone armi; per quanto riguarda le
seconde vi è un’ulteriore analisi anche ne’ L’Arte della Guerra (opera minore di
Machiavelli pubblicata nel 1521). Ed è proprio nei Discorsi che egli si rifà alla virtù
romana che è elemento fondante della Repubblica, nella quale le leggi devono
garantire autonomia e libertà e reagire positivamente al conflitto onnipresente tra
i grandi e il popolo. Richiamando gli insegnamenti di Polibio, Machiavelli

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suggerisce l’idea di un sistema istituzionale in grado di equilibrare, temperare la
tendenza delle cose umane alla corruzione.
Le leggi della repubblica riconoscono le parti che la compongono, e
l’importanza del loro ruolo, nonché la religione come strumento ordinatore. Egli si
riferisce ai culti pagani degli antichi romani, che fortificavano l’idea machiavelliana
di virtù e disciplinavano il popolo; esemplare è il caso di Numa Pompilio illustrato
nel seguente passo.
Simulò di avere domestichezza con una Ninfa, la quale lo consigliava di quello ch'egli
avesse a consigliare il popolo: e tutto nasceva perché voleva mettere ordini nuovi ed inusitati
in quella città, e dubitava che la sua autorità non bastasse. E veramente, mai fu alcuno
ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio; perché altrimente
non sarebbero accettate: perché sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non
hanno in sé ragioni evidenti da poterli persuadere a altrui. Però gli uomini savi, che vogliono
tôrre questa difficultà, ricorrono a Dio. Così fece Licurgo, così Solone, così molti altri che
hanno avuto il medesimo fine di loro. Maravigliando, adunque, il Popolo romano la bontà e la
prudenza sua, cedeva ad ogni sua diliberazione.
(Discorsi, cap 11, libro 1)

La funzione strumentale della religione per Machiavelli si fonda


sull’inclinazione naturale dell’uomo alla malvagità ed ha dunque una funzione
regolatrice.
Inoltre, come già detto in precedenza, la repubblica deve essere un organo
in grado di gestire lo scorrimento degli umori e la mala contentezza nei casi di
conflitto generati dal loro contrasto. Il conflitto politico per Machiavelli ha uno
specifico rapporto con la spazio della città; egli ha dunque un approccio analogo a
quello aristotelico seppur con alcune differenze.

Dove più sicuramente si ponga la guardia della libertà, o nel popolo o né grandi; e
quali hanno maggiore cagione di tumultuare, o chi vuole acquistare o chi vuole mantenere
(Discorsi, I, 5)

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La forma della repubblica, così come quella del principato, ha come
presupposto questa dualità del conflitto, nel quale avviene sempre una lotta
privata tra individui e fra gruppi. Solo nella licentia la mediazione fra i due umori
diviene impossibile, essendo una forma di anarchia.
Per quanto concerne il tema della corruzione, egli afferma che essa limita la
libertà dei cittadini; per limitare i cicli di corruzione è necessario garantire una
sorta di eguaglianza fra cittadini e signori, come avveniva in Germania. (Discorsi, I,
55). Questa eguaglianza è fondamentale nella repubblica di cui narra Machiavelli,
la quale viene descritta come unione sinergica fra democrazia e aristocrazie, in
linea alla teoria dell’anatomia della città di Aristotele (la politeia aristotelica). Per
arginare la corruzione il governo deve utilizzare le leggi e gli ordini. L’innovazione
delle istituzioni dovrebbe dunque riportare il corpo politico allo stato originario e
ai suoi principi fondanti: Machiavelli propone di istituire genealogicamente la
fondazione della repubblica, proprio tramite dinamiche interne come i tumulti o
quelle esterne come le guerre. Nel caso fosse impossibile la forma della
repubblica, si deve optare per un principato civile, nel quale si considera il
consenso del popolo.
Interessanti sono le osservazioni che Machiavelli fa sul popolo: esso non è
uniforme bensì si divide in popolo crasso e minuto e in esso tra popolo e plebe. La
moltitudine può essere pericolosa se il popolo o la plebe si arma ma
generalmente è più saggia e costante dei principi.
L’approccio di Machiavelli è sicuramente influenzato dalla sensibilità
rinascimentale che vede l’uomo come un ente fra gli enti nella natura, e ne è un
esempio sia la politica spaziale che il personaggio concettuale del Centauro,
presente ne’ Il Principe. Nel capitolo XVIII il pensatore fiorentino parla del
centauro Chirone, precettore di Achille, e lo assimila ad un maestro principe. In
linea ad una filosofia dell’antiumano considera virtuoso il principe che sa essere
sia uomo che bestia, cioè agendo sia attraverso le leggi che la forza, sfumando
dunque il confine fra animalità e umanità.
L’ibridazione centauresca potrebbe costituire un legame con Leonardo da
Vinci, che dipinse la Battaglia di Anghiari, ispirato da una fonte conosciuta da
entrambi, l’Etymologie di Isidoro di Siviglia. Il tipo di competenze che
Machiavelli ricerca è proprio quello cartografico; Machiavelli allude al genere di

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riproduzione mimetica del territorio a scopi strategico-militari, impiegati da
Leonardo da Vinci, ad esempio, nel progetto della deviazione dell’Arno di cui il
primo doveva essere a conoscenza.
Sia Machiavelli che Montaigne condividono l’acuto spirito di
osservazione, il trarre insegnamento dall’esperienza e il dialogo con gli antichi.
Per Montaigne l’appello all’esperienza è stato certamente influenzato dalle
Pyrrhoneae Hypotyposes di Sesto Empirico. Abbiamo inoltre potuto osservare
come quest’ultimi sostengano una simile idea di politica anti-assolutista, che si
sappia adattare alla contingenza, al cambiamento e alla natura umana e non,
che garantisca la partecipazione ad essa e l’apertura all’alterità e alla
molteplicità. L’opposizione al sovranismo la si può infatti notare anche in
Montaigne che propone una resistenza al potere assoluto. Il filosofo francese fu
ispirato da De La Boétie, che ricoprì la carica di consigliere di Bordeaux prima di
Montaigne e fu suo amico e sostenitore, il quale scrisse Il discorso sulla servitù
volontaria. Con quest’opera egli propose, in opposizione alla filosofia politica
tradizionale, la tesi per cui l’uomo, a differenza delle altre specie, non ha un
istinto sufficientemente marcato alla lotta per la libertà, bensì un’inclinazione a
servire e obbedire che favorisce forme di governo violente e assolutiste. Per
Montaigne dunque gli uomini non sono maggiormente liberi di agire degli animali
e non è quella dignitas humanis umanista a distinguere i primi dai secondi, anche
se tuttavia riconosce nella curiosità umana una caratteristica peculiare della sua
specie. Montaigne esorta dunque l’emancipazione anzitutto dell’individuo, che è
alla base dell’emancipazione di una intera categoria oppressa, il quale deve
liberarsi dalle catene nelle quali l’umanità stessa si imbriglia. Nel capitolo
Dell’amicizia egli, rifacendosi al pamphlet di De La Boétie e al legame che aveva
avuto con quest’ultimo, sostiene che il modo ideale di interazione sociale e dell’io
nel relazionarsi con l’altro è proprio l’amicizia, una comunione naturale, una
condivisione completa, un’unione simmetrica che richiama l’amicizia di Aristotele
ma anche la modalità di rapportarsi dei selvaggi.
Entrambi i filosofi sono autori di personaggi concettuali che hanno
certamente influenzato la filosofia politica moderna e postmoderna.
La filosofia di Montaigne ha ancora una sua ripercussione nelle
contemporanee discussioni a tema ambientale: l’idea che il nostro ecosistema sia

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abitabile non solo per poter permettere la vita degli esseri umani, ridimensiona il
ruolo della nostra specie di cui il pianeta Terra potrebbe fare a meno; l’ecosistema
stesso sopravviverebbe e si adatterebbe alla nostra estinzione. L’idea che la
natura terrestre abbia un meccanismo autoregolativo, sia passivo che attivo, è
argomentata nel breve saggio Novacene di Lovelock, che sembra quasi
parafrasare alcuni passaggi dei Saggi di Montaigne.
Inoltre, l’intreccio fra corpo, ambiente e politica, presente nei due filosofi
verrà tematizzato nel settore della biopolitica, il cui termine nasce nel Novecento,
su cui Foucault portò l’attenzione il secolo scorso, e tutt’ora discusso.
Il tema del corpo, in Montagne, lo ritroviamo in relazione a molteplici
aspetti della vita umana, che egli indaga partendo dall’idea di fare un autoritratto
di sé, inizialmente per sé stesso, poi per amici e parenti e infine per chiunque
voglia comprendere la natura umana, dalla narrazione di esperienze comuni a
tutti gli uomini. Oltre ai sensi, strumento conoscitivo ma anche ingannevole e
insufficiente rispetto a quello di molti animali, Montaigne indaga le passioni che,
per il filosofo francese, non vanno combattute o allontanate, ma vissute con
moderazione e abitudinarietà, al fine di godere dei piaceri più comuni e semplici e
dunque di rispondere al proprio compito, che è quello di vivere, e nel modo più
sereno possibile, preparati al divenire e alla morte, che non costituisce solo un
unico evento, ma è diluita nel tempo, e si manifesta con l’invecchiare e
l’ammalarsi, con il cambiamento nei gusti o della percezione sensoriale o ancora
si esplicita in eventi improvvisi e quasi assurdi (come la morte di uno dei fratelli di
Montaigne). La morte è parte della vita, si muore perché si è vivi, e tale
ineluttabilità, come quella della nascita, dovrebbe essere accettata e meditata con
consapevolezza, per non angosciarsene in vita, per non soffrire quella altrui e
godere il tempo che ci è stato dato senza curarsi della quantità ma della qualità.
La morte si mescola e si confonde ovunque alla nostra vita: il declino precede
quell’ora e trova posto ne nostro stesso sviluppo.
(Dell’esperienza)

La domanda a cui entrambi i filosofi tentano di rispondere è la domanda


originaria della politica: cos’è l’uomo? La questione risale ad Aristotele, il cui
approccio materialistico emerge anche in Machiavelli e in Montaigne. L’uomo è
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definito originariamente come zoon politikon; la propria umanità si costituisce in
uno spazio chiamato polis, uno spazio che permette agli individui di apparire,
riconoscersi, agire e che è oltre la sfera della necessità domestica e del lavoro.
L’animale politico è per definizione libero.
L’idea di libertà nel Rinascimento viene ripresa, ma non nel senso
medioevale del libero arbitrio, che deve rapportarsi necessariamente con il
divino. La libertà è un aspetto completamente terreno, che non costituisce per i
due filosofi un prerequisito specifico dell’uomo ma è presente in tutti gli animali.
La libertà nasce dal desiderio, che per Machiavelli è virtuosa finché stimolata dalla
lotta contro l’oppressione. Il desiderio diviene vizioso quando è ambizione, cioè
quando eccede la potenza e manca la necessità di conflitto per ottenere la libertà.
La filosofia politica di Machiavelli e di Montaigne include l’idea di possibilità
contrapposta alla necessità, l’artificio umano e la legge di natura, il processo e la
molteplicità contro l’unità; la politica è un’arte, come quella del navigare, e non è
dunque separata dall’uomo, come accadrà nel ‘600.
Da Hobbes in poi si parlerà di potere costituito e di sovranità come
contratto sociale: la natura aggressiva e bramosa dell’uomo deve essere
contenuta dalla società, che si fonde con il potere politico. Si accantona l’idea di
stato di natura e si cede parte della propria libertà nell’accettare l’imposizione
delle leggi da parte dello Stato, che è una macchina politica, un artificio. Nel
giusnaturalismo hobbesiano il riferimento alla natura è quello razionale degli
uomini: le leggi di natura sono dei teoremi ben calcolati allo scopo di difendere la
vita, unico diritto naturale dell’individuo. Dunque, con la filosofia politica
moderna ci si orienta verso l’idea di Stato come società di individui sotto un unico
potere giuridico assoluto.
Tale approccio meccanicistico è molto differente dalla prospettiva che vede
il corpo politico come corpo biologico, e l’essere umano come animale sociale, fra
i tanti, capace di vivere insieme e relazionarsi, contrariamente all’hobbesiamo
homo homini lupus.
Al primo tema consegue quello della salute del corpo politico, che verrà
ripreso da Foucault come cura e dunque responsabilità nel mantenere la vitalità
di quest’ultimo. Machiavelli parla della politica come un’arte medica, capace di
incanalare nel momento giusto la spinta vitale. La salute non è una questione

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individuale bensì un aspetto della condizione umana, indagato anche da
Montaigne che, prendendo spunto dalla sua malattia e dalla pratica medica del
suo tempo, esplora le possibilità che la prima dà all’uomo di fronteggiare e
accogliere il dolore (e quindi anche la morte) con un approccio di matrice
epicureo-stoica, e critica la seconda non nelle cure in sé ma nell’apparato
concettuale che fonda l’attività medica, incerta e priva di principi razionali.
Per quanto concerne il secondo tema, possiamo affermare che l’idea
dell’uomo come animale sociale lo si ritrova in quest’autore nella figura pastorale,
ispirata al modello platonico presente ne’ Il politico.
La rilettura dei due filosofi presi in considerazione in chiave
contemporanea, quindi seguendo un metodo genealogico, è comprendere ciò che
va oltre le narrazioni univoche del presente e come la filosofia possa riflettere
sulla politica, non per cercare il principio primo o la verità, per fissare delle leggi
eterne e universali (modello politico di stampo platonico), contrariamente alla
diagnosi della Arendt (la quale sostiene il rapporto necessario ma impossibile fra
filosofia e politica), ma per aprire nuove possibilità di fronte alle crisi dell’attualità
e cogliere l’effettivo ruolo della politica nei molteplici aspetti dell’esistenza
umana, come le relazioni nella sfera pubblica e sociale, la mutevole concezione
della sfera privata, la conflittualità che emerge nella coesistenza di individui e
gruppi diversi, la questione della salute, l’attenzione all’alterità.
La crisi di una narrazione pone non solo la domanda sulla natura umana (chi
è l’uomo) ma anche sull’identità dell’individuo e sulla sua personale libertà, di
autodeterminarsi e di interagire con gli altri. La politica, come abbiamo potuto
scorgere sia in Machiavelli che in Montaigne, ridefinisce il rapporto dell’individuo
con l’ambiente, il proprio corpo, le interazioni con forze esterne e persino con la
sessualità e la morte. Difatti essa è posta di fronte alla crisi dell’attuale e
predominante sistema capitalistico, il cui tremendo funzionamento è favorito
anche dal processo di appropriazione delle narrazioni anticapitaliste a suo
vantaggio (Mark Fischer, Realismo capitalista), che ha il suo problematico risvolto
in quella ambientale, ma anche nella concezione mercificata dei corpi; la nostra
società è quella del lavoro, come afferma Arendt in Vita Activa, che è
strettamente connesso con i processi biologici dell’uomo e che determina il
fenomeno del conformismo delle masse, il quale annulla la distinzione nella

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pluralità, l’unicità e l’imprevedibilità dell’essere umano. Viviamo in una società in
cui la politica è fondamentalmente politica economica, cioè in cui le leggi dello
Stato rappresentano vincoli e la libertà la si cerca nel mercato, e in cui la
globalizzazione ha problematizzato il rapporto Stato - nazione e ha ridefinito,
anche con l’ausilio del progresso tecnologico, gli spazi e i tempi in cui e con cui
interagiamo. La nostra identità e il nostro essere umani è ridefinito anche dalla
privacy, dalla sfera privata, che ha perso la connotazione di privazione risalente
all’antichità greca e romana e dallo sconfinamento della sfera sociale, che ha
inglobato quella pubblica (ne discute Hanna Arendt in Vita Activa, cap II). La
politica ora deve rispondere alla crisi che la corrente pandemia ha aperto e dare
una risposta all’interazione di questa nuova forza con la società contemporanea
antropocentrica, capitalista e generatrice di molteplici oppressioni nei confronti
dell’Altro, specista, patriarcale. Cambia in tempi di emergenza globale
l’interfacciarsi con l’ambiente e il rapporto fra salute dell’individuo e la salute
dello Stato, o meglio dell’economia mondiale ( e la sua insostenibilità a lungo
termine).
Un’ultima tematica su cui vale la pena riflettere è quella della morte; l’idea
di morte che nel contemporaneo ci viene offerta è quella di un evento unico, la
cui tragica ineluttabilità deve essere stigmatizzata e ostracizzata dal pensare
quotidiano, in favore di un ipotetico e allettante allungamento della vita grazie
alle ricerche in ambito di ingegneria genetica. La pandemia è dunque un’
occasione per meditare sulla morte e sul modo in cui l’individuo non è abituato ad
affrontarla o ad osservarla in vita. Essa dunque contrasta quell’idea di supremazia
dell’uomo che si riconferma con alcune correnti filosofiche come il
transumanesimo e, lasciando allo scoperto la fragilità e l’incertezza di definizione
dell’essere umano, ci fa intravedere la possibilità del postumano.

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Bibliografia

Saggi, Micheal de Montaigne, ed. Bompiani


Apologia di Raymond Sebond, Micheal de Montaigne, ed. Bompiani
L’esperienza, Micheal de Montaigne, ed. Bompiani
Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, Niccolò Machiavelli
The Machiavellian Cosmos, A. Parel, New Haven, Yale University Press
Guerra e politica in Machiavelli, Fabio Frosini
Il postumanesimo femminista di Marie de Gournay, Sandra Rossetti
Vita Activa; la condizione umana, Hanna Arendt, ed. Bompiani
Novacene: l’età dell’iperintelligenza, James Lovelock, ed. Bollati Boringhieri
Realismo capitalista, Mark Fisher, ed. Produzioni Nero
Postumanesimo, transumanesimo, antiumanesimo, metaumanesimo e nuovo
materialismo; Relazioni e differenze, Francesca Ferrando, rivista Lo Sguardo

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