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Franco, ormai sei tra i più accreditati traduttori di Musical in Italia.

L’ultimo tuo lavoro è stato per


Pretty Woman. Come hai affrontato questa traduzione?

Innanzitutto ero tranquillo perché sapevo che avrei potuto contare su un team creativo eccellente:
Carline Brower, Chiara Noschese, Simone Manfredini, Andrea Calandrini, tutti professionisti incredibili
con i quali avevo già avuto l’onore e il piacere di collaborare e che mi facevano stare tranquillo sul
risultato finale e sul fatto che spronato dai loro consigli e indicazioni avrei fatto il miglior lavoro
possibile. Inoltre lavorare con Stage Entertainment ti garantisce sempre che tutti gli aspetti della
produzione saranno curati al massimo.
Con riferimento al lavoro di traduzione in sé avevo la consapevolezza di quanto il pubblico italiano
conosce e ama il film Pretty Woman e sapevo che avrei dovuto affiancare al solito sforzo creativo un
inedito rispetto quasi ‘filologico’ dell’adattamento di Sergio Jacquier: ci sono moltissime battute che gli
spettatori conoscono a memoria e che non potevano essere stravolte ma solo inserite nel nuovo
contesto teatral-musicale. E’ stato un lavoro quindi molto divertente e stimolante, in cui ho dovuto
anche riscrivere nella nostra lingua canzoni scritte da una leggenda del pop come Bryan Adams e dare
un linguaggio italiano e moderno a personaggi entrati in maniera così prepotente nell’immaginario
collettivo.

In una precedente intervista di tanti anni fa ti avevo chiesto quali sono le difficoltà di portare in italiano
un brano inglese o americano di musical Theatre. Qual è l’aspetto più problematico?

Sicuramente la differenza metrica tra la lingua inglese e quella italiana. L’inglese ha tante parole
monosillabiche, quindi con poche sillabe esprime concetti per i quali l’italiano, avendo vocaboli più
lunghi e metricamente diversi, ha bisogno di tre-quattro parole composte da molte più sillabe.

Cosa differenzia un buon traduttore da uno meno capace?

Un buon traduttore di musical impiega molto tempo ad affrontare una canzone, ne rispetta le rime, lo
slogan-refrain, le sfumature e la metrica senza aggiungere o togliere note e senza forzarne la
pronuncia. Uno meno capace trascura o tralascia tutti questi aspetti.

E’ molto diverso tradurre per il teatro e per il cinema. Il doppiaggio delle parti cantate è inficiato dai
movimenti della bocca dei cantanti sullo schermo. Dico bene?

Dici benissimo: oltre alle tante difficoltà di cui ho parlato il doppiaggio deve coprire l’audio originale
con un adattamento che sia credibile con i movimenti della bocca dell’attore, che spesso vediamo in
primissimo piano.

Sei un grande esperto dì musical e spesso vai all’Estero a vederli. Cosa hai visto recentemente?

Dalla riapertura sono già andato a Londra due volte: a settembre ho visto un interessante revival di
Carousel a Regent’s Park, l’epico Prince Of Egypt di Stephen Schwartz tratto dal cartone Dreamworks,
una divertente ripresa di Hairspray con la star Michael Ball, una piccola produzione di Pippin sempre
composto da Schwartz, a ottobre (dopo una capatina a Manchester per l’emozionante tour di Tell Me
On A Sunday di Lloyd Webber) il tour di Jersey Boys, sempre molto carino, e Les Miserables, che è uno
spettacolo che più vedo e più mi emoziona, anche nel nuovissimo allestimento.

Quale ti è particolarmente piaciuto?

Ho volutamente tralasciato le produzioni che mi hanno colpito particolarmente:


- uno strepitoso Anything Goes al Barbican con la stratosferica Sutton Foster (che avevo già visto
anni prima a Broadway nello stesso ruolo e produzione) che offre ancora una volta
un’interpretazione da urlare al miracolo
- il grandioso musical Disney Frozen, che non è mai scontato o prevedibile, e trova in Samantha
Barks una protagonista sensazionale che gareggia con le strabilianti (anche per chi è abituato
allo sfarzo della Disney a teatro) scenografie su chi sorprende di più
- la prima mondiale di Vanara di Gianluca Cucchiara, che ha segnato l’orgoglio nazionale di un
musical composto e prodotto da italiani con un cast multietnico pieno di talento alle prese con
una delle colonne sonore più innovative degli ultimi tempi, e dire che è solo l’inizio perché lo
spettacolo ha ancora ampi margini di miglioramento
- Back to the future: di gran lunga lo spettacolo che mi ha colpito di più, anzi tre show in uno: il
celeberrimo film riportato fedelmente a teatro con addirittura effetti speciali più strabilianti
della versione cinematografica e un finale che fa letteralmente strabuzzare gli occhi; il musical:
si canta veramente tanto nella stupenda colonna sonora di Alan Silvestri (di cui echeggia
l’iconico tema della trilogia zemeckiana) e Glen Ballard tra duetti, numeroni e le immancabili
‘The Power of love’ e ‘Johnny B. Goode’; e infine lo spettacolo comico: dialoghi e canzoni fanno
morire dal ridere, grazie soprattutto alle interpretazioni di Roger ‘Doc’ Bart e di Hugh ‘McFly’
Coles.
- &Juliet: trionfale ed energetica rilettura di Romeo e Giulietta in cui si immagina che la moglie
del bardo, schifata dal finale con doppio suicidio chieda a Shakespeare di immaginare una
Giulietta vedova allegra che celebri le diversità in piena fregola da #metoo, e il risultato è un
frullato di canzoni pop-rock anni 2000 con un cast da urlo, dialoghi frizzanti e un ritmo
indiavolato.

Pensi che qualcuno dì questi musical potrebbe essere portato in Italia?

Penso che prima o poi alcuni di loro arriveranno, specie i titoli più forti. L’auspicio è che non arrivino
delle versioni ‘vorrei ma non posso’ ma degli allestimenti almeno all’altezza, visto che è impossibile,
per vari problemi strutturali e culturali, che da noi si raggiungano gli stessi livelli produttivi.

Quali sono le maggiori difficoltà dell’importare spettacoli esteri?

Il mercato italiano non ha un bacino paragonabile a quello straniero perché l’italiano medio non è
abituato ad andare spesso a teatro e i turisti non affollano le nostre sale. Questo favorisce un sistema
legato al vecchio teatro di giro per cui sono le compagnie ad andare a cercare gli spettatori e non
viceversa, approccio che non può favorire la qualità dal momento che premia gli spettacoli che costano
meno ed è incompatibile col passaparola (unica garanzia di successo): se uno show sta in scena per
massimo 6 date è impossibile che uno spettatore entusiasta trascini molti altri a vederlo. A questi
problemi sono legati la carenza di finanziatori e la mancanza di quelle professionalità che portano la
gente a teatro, e il circolo vizioso è completo.

Per chi volesse vedere un musical a Londra, ci dai qualche dritta per ottimizzare il tempo e non
spendere troppo?

Io quando non ho un budget altissimo (ovvero quasi sempre, visto che vedo in media 8 spettacoli in 4
giorni, visto che sfrutto tutte le pomeridiane…) cerco sempre i posti “limited view” o “restricted view”,
e capita di trovarne anche nelle primissime file. Per qualche ragione (una piccola parte del palco è
oscurata, oppure c’è poco spazio per le gambe, oppure – incredibile – la bacchetta del direttore
ostruisce di tanto in tanto la vista!!!) sono ritenuti di minor valore rispetto a quelli di fascia elevata ma
di solito ti fanno godere ugualmente dell’esperienza teatrale sborsando la miseria di 20-30 sterline. Per
rendermi conto se la vista è davvero limitata consulto l’utilissimo sito seatplan.com che pubblica foto
scattate dagli spettatori con la visuale del palcoscenico dal punto di vista di quasi tutti i posti in pianta.
Quando non è possibile trovare dei limited faccio la coda per i cosiddetti “day seats”: un numero di
posti buonissimi (di solito in prima fila) venduti a basso costo il mattino facendo una coda di solito non
proibitiva. Ultimamente la fila è diventata virtuale sui siti ufficiali degli show, o su app tipo TodayTix
(che forniscono anche altri tipi di sconti).
Inoltre, accanto alle grandi produzioni nel West End, frequento anche piccoli teatri off come la Menier
Chocolate Factory, la Southwark Playhouse, il Park Theatre, il Charing Cross Theatre, che propongono
gioiellini, spesso titoli poco frequentati, con allestimenti da camera nell’intimità di uno spazio scenico
che ti mette a tu per tu con gli interpreti, restituendo quella che è la vera essenza del musical, aldilà dei
grandi budget: la scintilla emozionale innescata dall’incontro tra musica dal vivo e performance
attoriale.

Sei anche tra i fondatori del Premio Primo. Di cosa si tratta e come era nato?

Nacque come occasione per festeggiare un anniversario del sito www.amicidelmusical.it . Visto che
c’erano già premi per i performer avevamo deciso di valorizzare gli autori di musical italiani.
Pensavamo sinceramente a un’edizione sola: sottovalutavamo quanto i cassetti di tanti autori fossero
pieni di idee. Infatti siamo giunti alla nona edizione!

Ti capitano tra le mani copioni abbastiamo eterogenei. Quali sono gli errori che gli aspiranti autori
fanno dì più?

Spesso si compie l’errore di pensare al musical come un genere leggero in cui è sufficiente aggiungere
due canzoni e due balletti a un testo di prosa, o peggio musicare ogni singola battuta, anche la più
banale. Ci va un progetto drammaturgico forte che tenga conto delle tante regole strutturali codificate
in tanti anni di storia del genere, e che si trovano in tutte le guide per aspiranti autori.

In due parole, cosa serve per scrivere una buona opera prima?

Innanzitutto un’idea forte. Non tutte le storie sono adatte, è fondamentale un elemento di interesse
maggiore per far sì che personaggi e vicende saltino fuori dalla cronaca, o dalla pagina stampata, o
dalla pellicola e si mettano a cantare e ballare. Gli inglesi utilizzano l’espressione “larger than life”.
Inoltre, soprattutto in Italia, bisogna cercare un titolo vendibile e acquistabile dai teatri, o accattivante
per qualche grande interprete la cui presenza in locandina giustifichi l’investimento da parte di una
produzione.
E oltre all’approccio drammaturgico di cui parlavo serve una colonna sonora orecchiabile e di impatto,
che entri nel cuore dello spettatore anche senza poter contare su hit radiofoniche, e parole semplici
ma emozionanti che esprimano i sentimenti dei personaggi e ne portino avanti le azioni. Senza questi
ingredienti nessun musical può funzionare.

Cosa spetta ai vincitori del Premio Primo?

La targa e i trofei, oltre alla vetrina che PrIMO rappresenta nel panorama teatrale italiano, con la
possibilità di essere attenzionati da grandi professionisti e produttori, del calibro di Saverio Marconi.
Nelle prossime edizioni però vogliamo dare di più: intendiamo far sì che le opere possano essere
proposte ai produttori e – perché no – prodotte e messe in scena. Per questo gli autori dei musical
scelti verranno accompagnati da un team di creativi che darà loro consigli per rendere copioni e
spartiti appetibili ai teatri.
Quale spettacolo di Primo ha avuto più successo?

Non ho potuto seguire gli sviluppi di tutti i partecipanti ma recentemente Cookies, messo in scena
al Bologna Open Air Theatre la scorsa estate all’interno del Summer Musical Festival della Bsmt, è
stato accolto con grande entusiasmo. Lo cito come esempio senza voler nulla togliere a tutti gli
altri.

Sei anche traduttore per Dimmi addio domenica, prima versione italiana del musical Tell me on a
Sunday composto nel 1979 da Andrew Lloyd Webber, con le liriche di Don Black. Lo spettacolo,
con Elisabetta Tulli e la regia di Mauro Simone, prodotto dalla Compagnia della Rancia, è andato in
scena a Tolentino a ottobre. Ci vuoi raccontare qualcosa di questo spettacolo? Come lo hai
adattato?

E’ un musical molto particolare perché Lloyd Webber è noto come autore di grandi kolossal e
pochi conoscono questo suo ciclo di canzoni poi trasformato in musical da un atto e inserito nel
progetto più ampio “Song And Dance”. Si ricrea quindi l’essenza di cui parlavo prima, specie nella
nostra versione italiana in cui la parte musicale è affidata solo a una pianista. Ci si può concertare
sulla bravura di Elisabetta Tulli e sulle meravigliose melodie lloydwebberiane, meno scontate e
regolari di altrove nel raccontare gli amori “dispari” di Emma, una ragazza all’eterna ricerca del
vero amore. In originale era una ragazza inglese a New York, noi l’abbiamo trasformata in
calabrese, adattando tutti i riferimenti culturali e anche… gastronomici. Il pubblico finora ha
gradito molto questo tour de force che la regia di Mauro Simone ha reso ancor più duttile e
versatile nell’attraversare tutti i registri dell’animo femminile.

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