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FORME E RAPPRESENTAZIONI SOCIALI DELLA

VIOLENZA
LEZIONE 1 (04-10-2021)

INTRODUZIONE
L’antropologia si occupa di capire se una condotta violenta può avere una matrice
culturale. La cultura gioca un ruolo fondamentale nelle nostre vite: la troviamo ovunque,
tant’è che siamo circondati di prestiti culturali. Un prestito culturale è un patrimonio di
informazioni, di obblighi, di morale, anche di religione, e si trasmette di generazione in
generazione perché ritenuto utile a qualcosa. Qui subentra il concetto di utilità, nel quale
noi filtriamo e selezioniamo qualcosa che viene ritenuto giusto e utile. Solitamente
quest’azione di filtrazione avviene all’interno di un sistema sociale, e non contesto. Noi
siamo il frutto di un processo costante di prestiti culturali nel corso della storia, perché
consideriamo utili alcuni aspetti di una cultura piuttosto che altri.
La mutazione genitale femminile, comunemente nota con la siglia MGF, è un rituale
matrilineare, che quindi viene compiuto da donna a donna. Si tratta di un rituale di
integrazione e di raggiungimento di una posizione sociale, e quindi non ha a che vedere
con le pratiche religiose, al contrario è una convinzione legata alla tradizione locale che la
donna non nasca donna, ma che lo diventi proprio con la mutilazione: la donna nasce
imperfetta, non nasce donna ma lo diventa. Il clitoride è visto come un piccolo pene e
quindi va reciso, ed è senza di esso che la donna diventa propriamente tale, e viene
festeggiata. La donna va mutilata per perfezionare e abbellire il corpo. Una donna non
infibulata non è integrata, non si sposa e infama la famiglia, quindi questa pratica è
culturalmente motivata: la cultura in questione sostiene e promuove queste pratiche
perché le ritiene utili e giuste. Nessun paese al mondo legittima le MGF, infatti sono
condotte penalmente rilevabili, ma sono sostenute da una comunità culturale di
riferimento, e si compiono perché sono ritualità necessarie.
Dopo questo esempio si può sostenere che la cultura può veicolare pratiche e forme
violente, ma che sono forme di accettazione obbligate e necessarie infatti, una donna non
infibulata è vista con disprezzo, non può trovare inserimento sociale e lavorativo. La
cultura può veicolare modelli comportamentali violenti, e noi dobbiamo calarci nel loro
sistema per capire i motivi e i significati di tali tradizioni.
La circoncisione maschile è un’amputazione, ma è accettata dalla cultura, e questa pratica
deriva dalla religione ebraica. Come mai quest’ultima non viene vista con stupore come la
MGF? Subentra il concetto di alterità culturale, etnocentrismo, ossia una visione di
superiorità culturale (visione etnocentrica). Noi siamo convinti che quello che facciamo noi
sia sempre giusto, mentre quello che fanno gli altri sia ingiusto, barbaro e incivile. La
visione etnocentrica ci fa leggittimare qualsiasi zozzeria noi facciamo, infatti è una visione
molto gretta e occidentale. La visione etnocentrica parte dall’800, quando si studiavano le
popolazioni africane. Gli antropologi ritenevano che le culture non-occidentali fossero
sbagliate, promiscue e che gli africani avessero un cervello più piccolo degli europei (i
francesi facevano addirittura i circhi umani). La visione etnocentrica non si fermava
semplicemente ad aspetti culturali, infatti si parlava anche di aspetto biologico, della teoria
biologica ripresa da Hitler, con il razzismo biologico-scientifico. 40-50 anni fa si voleva
sterilizzare l’Africa, e di fronte a queste pratiche noi abbiamo sviluppato la tendenza che
ciò che non appartiene alla nostra cultura non sia giusto, e che anzi sia qualcosa di barbaro
e primitivo. Per questo l’antropologo e criminologo deve decentrare il proprio punto di
vista, non deve mai giudicare o essere vittima di stereotipi pregiudizievoli e griglie
interpretative precostituite, e inoltre deve essere presente la neutralità emotiva ed
affettiva.
L’uomo nasce violento? Il contesto sociale è molto importante e va sempre analizzato il
sistema sociale, il dove e il perché ha avuto luogo. Ci sono soggetti che non hanno freni
inibitori e una volta fatto una volta, si tende a farlo ancora.

TEORIA DEI SISTEMI, DEL CAOS E DELLE CATASTROFI


Il termine catastrofe in questo caso significa cambiamento e mutazione. Questa teoria
sostiene che ognuno di noi è inserito in diversi sistemi, con un determinato equilibrio. I
sistemi sono interdipendenti e sono relazionali, perché l’uomo è un essere sociale. Un
esempio di sistema interdipendente potrebbe essere: lavoro per mantenermi, torno a casa
dai genitori, faccio un corso di yoga e poi esco con il fidanzato. Questi sistemi sono
perfettamente strutturati e lineari, ma se in un sistema vi è una minima modifica,
quest’ultima per legge fisica crea caos, catastrofe e quindi cambiamento. Criminologo e
antropologo devono individuare l’elemento che ha scatenato tutto il caos: il movente.
Quando si genera caos, il sistema tende a ristabilizzarsi: si parte con ORDINE 
ELEMENTO DESTABILIZZANTE  CAOS  NUOVO ORDINE

METODO DI OSSERVAZIONE PARTECIPANTE


La teoria dei sistemi è importante per capire come il metodo sia importante. Tutto ciò che
facciamo è funzionale a qualcosa, e questo ci pone nelle condizioni di capire come
determinate condotte violente siano frutto di contesti sociali, di sistemi particolari che
hanno prodotto una serie di comportamenti delittuosi, la cui attuazione era necessaria e
giusta (lapido mia moglie perché ha fatto qualcosa che non va fatto, altrimenti la mia
immagine di uomo viene compromessa). Il metodo da adottare è quello di osservazione:
l’antropologia presuppone la presenza costante all’interno di un determinato scenario e
contesto, c’è bisogno dell’esperienza antropologica sul campo, cioè di uno studio
osservativo esperienziale all’interno di un determinato sistema. Allora Cristoforo Colombo
potrebbe essere definito il primo antropologo. L’antropologo deve vivere l’esperienza sul
campo per un certo periodo, raccogliere informazioni e dati, foto, documenti, interviste e
non è facile: se voglio studiare il comportamento devo essere presente senza alterarlo,
devo essere una figura mimetica che non altera il contesto, devo avere un approccio di
osservazione partecipante. Questo significa partecipare all’evento ma con un
atteggiamento mimetico integrato, esperienziale che non alteri la spontaneità, la genuinità
del contesto. Il metodo antropologico e criminologico è di analisi di tutti gli elementi in un
contesto senza pregiudizio, deve trattarsi di un approccio osservativo possibilmente di
lunga durata e che preveda un repertamento di informazioni, colloqui, documentazioni
fotografiche ecc… Il metodo dell’antropologo non è il metodo sistemico, ma il metodo di
osservazione partecipante, deve leggerequal è stato l’elemento che ha generato la
catastrofe. Il processo di negoziazione culturale avviene attraverso un approccio dialogico,
che consiste nel parlare il meno possibile per far parlare il più possibile. Ci deve essere
neutralità affettiva ed emotiva e nessuno deve commiserare nessuno, evitando anche
attitudini giudicanti, perché bloccano la comunicazione. Altro tassello importante è
costruire un rapporto empatico con l’intervistato: si parla di comunicazione bilaterale.
Bisogna anche abdicare ogni forma di pregiudizio e capire il significato dell’azione.

COMPORTAMENTO DEVIANTE E CONTROCULTURA


Un comportamento deviante è contrario a quello imposto dalla cultura maggioritaria, e
quindi promuove una controcultura. I soggetti che hanno vissuto traumi diventano
informatori etnologici; l’etnia è un gruppo che condivide una coscienza e un patrimonio
culturale e linguistico presenti in uno o più territori. La cultura è un patrimonio collettivo
che regola, costruisce e consolida rapporti, stili di vita, valori e tradizioni in cui una
persona si sente incorporata e integrata. Ci si collega a proposito alla teoria
dell’ettichettamento, per chi va fuori dagli schemi che regolano uno stile di vita da noi
considerato giusto e idoneo.
La controcultura è promossa da soggetto che promuovono un patrimonio
comportamentale oppositivo rispetto a quello della cultura dominante. Una setta ha un
culto oppositivo; la chiesa promuove il suo credo applicandolo alla vita. La sub-cultura
invece riguarda soggetti che sono integrati nella cultura maggioritaria ma sviluppano
orientamenti paralleli parzialmente diversi, come per esempio gli ambientalisti e/o i
vegani.

TEORIA DEGLI SCRIPT


Di fronte ad un modello comportamentale violento, il bambino elabora 2 opportunità: o
apprende quel modello violento come modello giusto, replicandolo in età adulta e quindi
rischiando di diventare un soggetto violento, oppure svolge il ruolo di vittima e non di
carnefice.

EFFETTO LUCIFERO
Zimbardo negli anni ’70 organizza negli USA a Stanford un esperimento: si scelgono 10-15
volontari retribuiti e trasforma un’ala dell’università in un carcere. Attribuisce dei ruoli
agli studenti (guardie e carcerati) e dà luogo ad un esperimento che dovrebbe durare un
mese, organizzando il tutto con l’appoggio di autorità locali. Tutto era ripreso e venivano
osservati i comportamenti di persone provenienti da una stessa condizione sociale e stessa
età. Dopo qualche giorno, i “carcerati” iniziarono a ribellarsi minacciando le “guardie”,
altri invece subirono un regresso sociale emotivo depressivo, un processo di
depersonalizzazione, nel quale non mangiavano, parlavano, ecc… Le “guardie”, d’altro
canto, svilupparono un’attitudine dominante violenta, aggressiva e minacciosa proprio
per il loro ruolo di potere che l’esperimento gli aveva attribuito. Ci sono state percosse,
minacce, le “guardie” non davano da mangiare ai “carcerati” e l’esperimento fu interrotto
per il deflagrare della violenza. Quasi tutti i detenuti svilupparono questa modalità
depressiva e il processo di depersonalizzazione. L’esperimento venne conosciuto come
“Effetto Lucifero”, e Zimbardo elabora la teoria della deindividuazione: se è successa
questa cosa, ogni soggetto posto in un determinato contesto, con uno specifico ruolo, è in
grado di attuare agiti violenti. Zimbardo mette in luce che in ognuno di noi c’è l’elemento
Lucifero; chiunque di noi in una condizione critica di sofferenza, anche con attribuzione di
determinato potere e forza, può attuare comportamenti violenti. Si parla di
comportamento violento se è conflittuale e produce danno a terzi, mentre il
comportamento deviante non per forza è conflittuale e attua un’azione non conforme alla
cultura maggioritaria.
*N.B. “Delitto”, nel sistema giuridico, significa reato. In antropologia si parla di ETNIA e non di
razza, in quanto termine coniato dai tedeschi. Il numero oscuro fa riferimento ai reati non
denunciati. Le forme di violenza sono molteplici: fisica, verbale, psicologica, sessuale, economica,
istituzionale. Antropologia e criminologia sono scienze sistemiche di contesti strutturati.
Un’audizione protetta e l’intervista fatta ai minori; durante un’intervista ci sono approcci dialogici
relazionali esplorativi in cui deve essere la persona a raccontare. Un disturbo psicotico può anche
essere chiamato disturbo schizofrenico, clinico ma non psicopatologico. Il sistema penale e
penitenziario dovrebbe essere un percorso riabilitativo; l’uomo ha bisogno di un ruolo sociale e di
sentirsi utile a qualcosa.

LEZIONE 2 (11-10-2021)

RIEPILOGO DELLA LEZIONE PRECEDENTE


Il concetto di cultura è l’insieme e la trasmissione di dati e del patrimonio effettivo,
processato da generazione a generazione attraverso il principio di funzionalità e utilità. La
cultura è la trasmissione di patrimonio cognitivo, ed è una cosa che facciamo
inconsciamente e che acquisiamo e configuriamo perché ci aiuta a vivere serenamente nel
nostro contesto socio-culturale. La cultura è un veicolo di incorporazione valoriale, di
integrazione e di riconoscimento in un sistema socio-culturale. Ci sono anche forme di
sub-cultura, cioè la convivenza pacifica in un sistema che processa una filosofia di vita che
spesso convive con la cultura maggioritaria, come ad esempio gli ambientalisti e i vegani.
La controcultura, invece, è una forma di sub-cultura deviante: si parla di soffetti che sono
integrati in una società ma processano una cultura ostile e oppositiva a quella dominante.
Questi soggetti mettono in atto comportamenti e schemi spesso violenti e conflittuali; si è
dunque in presenza di contesti in cui la cultura può, soddisfacendo il principio di utilità e
funzionalità, produrre/veincolare messaggi e comportamenti anche non conformi alla
nostra cultura. Questo tipo di visione ostile a ciò che non è conforme, da noi è visto con
attitudine di disprezzo, quasi da vedere negli altri una forma di primitivismo culturale che
può rappresentare un pericolo per la cultura maggioritaria. Questa visione di inferiorità
culturale è una forma di etnocentrismo, l’alterità e la superiorità della cultura occidentale.
Nella nostra memoria storica ci sono documenti che cercavano di rendere, in una visione
positivistica e scientifica, l’esaltazione dell’endogruppo e la discriminazione
dell’esogruppo, quindi si ha una serie di documenti che avrebbero attestato l’inferiorità di
gruppi etnici rispetto ad altri sulla base della valorizzazione di alcuni gruppi etnico-
culturali rispetto ad altri, producendo una forma di convinzione di superiorità nei
confronti di altri gruppi. Però bisogna tenere bene a mente che la razza non esiste, infatti ci
esprimiamo usando il termine etnia. La visione e l’approccio nei confronti della diversità
devono essere visti in modo esplorativo, non può quindi essere immune da
condizionamenti, perché i condizionamenti nascono quando mi informo prima di
procedere all’analisi e al sopralluogo. La forma di approccio dialogico esplorativo si
chiama osservazione partecipante: presenziare in un contesto, raccogliere informazione e
intervistare in modo mimetico, senza alterare determinati modelli comportamentali che
rischiano di essere indotti e non naturalmente espressi. L’osservazione sistemica
totalizzante significa che ogni singolo elemento ha importanza, perché da un piccolo
elemento si può generale caos con conseguente catastrofe. È importante considerare come
l’ambiente possa indurre comportamenti devianti e talvolta violenti, riconoscibili in un
determinato gruppo.

PRIMO CAPITOLO
Il gruppo, molto spesso, è un’anima collettiva transitoria, è un altro Io, una
neutralizzazione dell’Io individuale per un Io collettivo (e quindi ciò che faccio in gruppo,
la maggior parte delle volte non lo farei da solo). Con l’esperimento di Zimbardo si
anticipa il concetto di anima collettiva, in cui il gruppo rappresenta un’anima transitoria,
un Io collettivo transitorio con un nuovo sistema valoriale (a casa sono un bravo ragazzo,
in giro sono un vandalo). Il gruppo spesso processa un nuovo sistema valoriale di
riconoscimento, diverso da quello della cultura maggioritaria, fondamentale (babygang,
sette…), che se rifiutato porta all’indebolimento del gruppo stesso. Il gruppo rappresenta
una nuova famiglia, in cui vengono sugellati modelli comportamentali riconoscibili ed
essenziali: comportarsi in un determinato modo fa si che il gruppo si riconosca. Bisogna
comprendere come il gruppo e l’ambiente favoriscano l’emergere di comportamenti
violenti, e lo si può fare con un approccio etnotransculturale. Si tratta di una modalità
osservativa ed esplorativa nel riconoscimenti di eventuali disturbi comportamentali ed
etnoclinici, le cui caratteristiche sono: una visione decentrata, l’acquisizione di
informazioni con un atto comunicativo bilaterale, l’abbandono e l’abdicazione di stereotipi
e intepretazioni precostituite (la visione “tutti i marocchini sono delinquenti” non porta a
niente), l’importanza della narrazione. Il racconto è importante perché include
rappresentazioni culturali e simboliche fondamentali e preziose, che magari per noi hanno
un significato diverso, come per esempio le MGF. È inoltre importante che durante i
colloqui venga usata la lingua materna, che veicola messaggi e sensazioni, spontaneità,
significati. Da come uno parla si capisce se crede a ciò che racconta, e quanta enfasi dà ad
un concetto piuttosto che ad un altro. Si giunge a tutto questo con un’osservazione
partecipante, cioè un processo di incontro e coinvolgimento atto a costruire un sapere con
finalità critiche, ma anche di grande apertura e curiosità senza pregiudizi. Comprendere la
loro visione del mondo significa spossessarci dei saperi tradizionali, e ne dobbiamo ottere
una forma di consenso e risposte. A volte si può attuare un’intervista guidata, libera e
finalizzata, ma devono essere personali e a volte semistrutturate, perché spesso è nel
racconto che cogliamo gli elementi essenziali su cui insistiamo. Questo tipo di narrazione
non deve essere troncato da una serie di domande reiterate e ripetitive, non si tratta di un
confronto e non bisogna nemmeno ottenere un consenso, bisogna solo ascoltare e
raccogliere le informazioni per costruire una trama di conoscenze, attraverso un resoconto
che non sia meticciato. Le informazioni non devono essere oggetto di inquinamento
nozionistico, altrimenti diventa una forma di errore cognitivo con presenza di pregiudizi.
Questa forma di errore cognitivo può pregiudicare enormemente i nostri orizzonti e
prospettive di pensiero. L’approccio è completamente innovativo: bisogna abbattere i
propri confini e demolire quel concetto di “anormale”, ossia il comportamento non
conforme ai nostri valori. Quello che il soggetto mette in atto è frutto di una
rappresentazione simbolica e psichica, perché crede in ciò che fa, e che per noi può essere
lontana, incomprensibile, primitiva ma ha un significato per lui, perché quel tipo di
credenza, cultura o tradizione rappresenta un modello di equilibrio sociale e di sicurezza
culturalmente accettati. Bisogna evitare il conformismo cognitivo e guardare alle
differenze con interesse e soprattutto comprensione. Tuttavia, quando si studia il
comportamento di un altro soggetto che mette in atto comportamenti devianti, la
percezione sociale sembra di qualcosa di pericoloso, diverso, folle e se ne ha paura. La
diversità spaventa perché processa moduli culturali comportamentali per noi avulsi,
estranei dei quali abbiamo paura e timore, che rischia di compromettere il nostro
equilibrio e sicurezza, rappresentando un elemento destabilizzante per l’equilibrio sociale.
Talvolta riteniamo quei processi culturali addirittura involuti, pazzi. Spesso, tutto quello
che faccio è frutto di un processo culturale, e viene culturalmente accolto dalla maggior
parte delle persone e questa epistemologia consensuale ci allontana da comportamenti
difformi, alimentando giudizi e pregiudizi. L’epistemologia consensuale è la condivisione
di determinati precetti in una determinata cultura, che autorizza tutto ciò che la cultura
maggioritaria propone e vede come cosa normale. Molto spesso siamo vittime di
condizionamenti che ci vengono dati e trasmetti fin dall’infanzia; esperimento del prof. sul
tipico satanista.

SECONDO CAPITOLO
Di fronte ad uno scenario bisogna avere un approccio etnotransculturale, spontaneità,
empatia e costruire un rapporto bilaterale. La globalizzazione implica un’estensione,
significa omologare ma i processi di omologazione non sempre hanno sortito
positivamente (per esempio, se promuovo bikini in Afghanistan, lì non verranno venduti);
il market antropologico è molto importante; globalizzare un sistema e uniformarlo con usi
e costumi uguali è impensabile, infatti le strategie di marketing di un paese sono diverse
dagli altri. La globalizzazione ha però facilitato i flussi migratori dove, oggigiorno, una
persona viaggia, percorre o vede il nostro paese come destinazione finale o di transito. I
flussi migratori hanno favorito lo spostamento di persone, culture, tradizioni e categorie
culturali (diversi da quelli degli anni ’90-2000 che erano transnazionali, cioè “pendolari”; il
pendolarismo però forgia due identità sociali diverse). I flussi migratori odierni non sono
transnazionali, sono fenomeni migratori di destinazione o transito di gente che vuole
integrarsi e che porta con sé un bagaglio simbolico-culturale di difficile comprensione. Il
problema non è solo questo: siamo in presenza di soggetti ibridi, in quanto vivono in una
condizione di anestesia culturale, cioè sono soggetti non accolti nella nostra comunità e
sono rifiutati dalla loro cultura, l’hanno abbandonata quindi si ritrovano loro stessi in una
condizione di abbandono, lontananza, sentimento nostalgico, stati depressivi, perdita di
riferimenti culturali, isolamento psichico e sociale. Questo corredo sintomatologico molto
spesso produce anche tensioni, esplosioni e violenze. Queste situazioni provocano delle
forme di ostilità, anche perché i soggetti non sono integrati, questo perché i processi di
integrazione sono molto lunghi, quindi sono costretti a vivere in situazioni marginali e
non conoscono la lingua del paese di arrivo; si è in condizioni e situazioni esplosive e
condizioni socioemotive complesse. In questa dinamica, questi soggetti portano con sé
elementi della propria cultura, il proprio bagaglio e patrimonio, chiamato cultura
instrasomatica (il patrimonio cognitivo), diverso dalla cultura extrasomatica, che sono le
opere e realizzazioni visibili. Questi fenomeni sociali rappresentano nel nostro
immaginario un pericolo destabilizzante per il nostro tessuto sociale, alimentando forme
di razzismo. Le forme di ostilità, di sentimenti, provengono da una convinzione di perdita
del proprio status, in cui vi è un’esaltazione, esasperazione e rafforzamento del proprio
passato con la costruzione del sentimento di disprezzo rivolto all’esogruppo, ovvero chi
non fa parte del suo gruppo. Questa visione di esaltazione dell’endogruppo e ostilità verso
l’esogruppo alimenta comportamenti discriminatori, forme di aggressività e costruisce
modelli culturali stereotipati, e molto spesso questa visione negativa dell’altro non implica
mai una conoscenza diretta dell’elemento o del soggetto. Molto spesso, il razzista è colui il
quale stereotipa molto, ha pregiudizi ma non sempre conosce la cosa, ed è convinto che
l’altro faccia o abbia qualcosa che non va bene, innescando un meccanismo di disprezzo. Si
parla di forme di razzismo differenziato. Il razzismo orizzontale è quello contemporaneo,
con le forme di discriminazione di oggi, che producono fenomeni di ghettizzazione,
disprezzo e odio. Il razzismo differenziale comprende i tipici fenomeni di razzismo
contemporaneo, diverso però dal razzismo biologico, ovvero quello basato sulla
convinzione della teoria poligenetica delle razze, secondo la quale l’uomo avrebbe diverse
provenienze razziali. Tale convinzione nacque nell’800 e venne influenzata dalle teorie
darwiniane sulla superiorità di una specie rispetto ad un’altra, e che la supremazia di una
fosse il risultato di un processo di selezione naturale basata sull’istinto di sopravvivenza.
Quindi attraverso un’analisi antropometrica (la misurazione del corpo) e basandosi sulle
caratteristiche somatiche e fenotipiche, si determinarono le capacità o inferiorità
intellettuali e psicologiche; a questo si aggiunse anche lo studio del contesto, giungendo
alla conclusione che contesti non strutturati e non civilizzati potevano contribuire alla
formazione di agiti violenti. Il concetto di razza è un’invenzione politica che serviva a
distinguere gruppi sociali e a giustificare le forme di dominazione naturale di alcuni di
essi su altri. Il contesto destrutturato porta l’individuo a comportarsi in modo
destrutturato.
Ci sono 4 forme di razzismo: l’infrarazzismo (forme pregiudizievoli di razzismo, una
forma di violenza non localizzata con piccoli atti discriminatori), il razzismo dispiegato
(concreto e con pregiudizi, atti di violenza; dispiegato significa che si manifesta), il
razzismo politico (una proposta di razzismo quando vi è un’ideologia che viene perseguita
e che promuove discriminazione, segregazione, fin tanto che non si arriva al razzismo
totale), e il razzismo totale (la forma evidente e oggettiva).
In una cultura, sub-cultura o controcultura si individua un’epistemologia consensuale,
ovvero l’accettazione senza ostacoli o percorsi incidentali, in quanto quel precetto
culturale sociale omogenizza il gruppo, lo integra, lo configura, lo collega non
consentendogli debolezze o defezioni. Comportarsi violentemente in un gruppo implica
essere soggetti inclusivi e riconoscibili, poiché il gruppo si auto-norma, acquisisce modelli
comportamentali molto rigidi e in conflitto con il mondo esterno. Questa condivisione di
valori violenti è spesso, in età adolescenziale, terreno fertile di partecipazione e di
adozione, in un processo di emancipazione, e costruzione di nuovi legami inter-personali.
Il nuovo gruppo di frequentazione rinegozia i sistemi valoriali acquisiti e molto spesso
promuove un principio dissonante di trasgressione e il desiderio di opporsi. L’adolescente
entra in conflitto con il sistema di norme e regole acquisito sia in famiglia che a scuola,
diventando polemico. Questo nasce dal desiderio di emancipazione e dalla crescita
corporea che lo conduce a ritenersi più maturo e indipendente di quanto non lo sia. È
presente il desiderio di trasgressione e di opposizione al sistema normativo di regole che
pone il ragazzo in ostilità. La devianza nasce anche in processi socializzanti. Un atto
deviante è un atto non conforme in un circuito di norme prestabilite e dettate dalla
famiglia, dalla scuola, ecc… La trasgressione adolescenziale, se non viene compresa e
guidata, rappresenta una forma embrionale di devianza. In questo periodo di
trasgressione, di esplorazione del proprio corpo e dei sentimenti, se si aggiunge anche un
vissuto di insuccessi scolastici e di incomprensione, il soggetto può sviluppare una forma
di avversione nei confronti di tutti quei sistemi normativi che per lui sono fonte di disagio
e delusione. Le prime forme di devianza possono essere: prima comportamenti
anticonformisti, a volte trasgressioni finalizzate ad atteggiamenti di affermazione,
gratificazione e apprezzamento ricevuto dagli altri. Se si hanno contesti intra-domestici
conflittuali, turbolenti, una precarietà sociale economica privativa, se si ha un sistema
scolastico formativo in cui non si emerge, si sviluppa nell’adolescente una forma di rigetto,
di repulsione del mancato riconoscimento, spesso definito come dissonanza cognitiva (la
famosa crisi adolescenziale). Questa favorisce l’isolamento sociale, ma l’essere umano
ricerca costantemente consenso, comprensione, appoggio, quindi la consonanza cognitiva;
abbiamo sempre bisogno di costruire legami e ponti empatici con persone che ci possono
capire. La dissonanza cognitiva innesca un meccanismo di ricerca di una nuova
consonanza cognitiva. Il fatto di condividere, farsi capire e comprendere, può molte volte
essere pericoloso perché può favorire l’ingresso in gruppi devianti e pericolosi. Il fatto di
inizialmente aderire a nuovi patrimoni cognitivi, porta ad essere meno lucidi e razionali e
più vulnerabili, quindi è più facile trovare consonanze cognitive in quel momento
appaganti, ma che poi non rispondono al nostro Io e ai nostri schemi valoriali. Questo tipo
di fenomeno, soprattutto anche quando siamo incompresi, genera ostilità e avversione, per
cui si è alla ricerca di nuovi soggetti che capiscano e che abbiano vissuto le mie stesse
esperienze. In questo momento delicatissimo e di profonda vulnerabilità sono più incline
ad entrare in gruppi con una forma di condivisione; quando poi si entra in un gruppo, si
ragiona come un gruppo. Zimbardo la definisce anima collettiva transitoria, una nuova
famiglia e un nuovo Io. Ogni gruppo è gerarchizzato, ha regole e modelli di
identificazione diversi. Fondamentale è la ricerca di autonomia, emancipazione e
affermazione che spinge i soggetti, in contesti connotati da precarietà sociale ed
economica, ad entrare e costruire una consonanza cognitiva in cui si sente compreso e si
identifica, viene valorizzato. Il gruppo lo gratifica, gli “dà la pacca sulla spalla”. Il gruppo
integra un soggetto attraverso dei processi di gratificazione e transfert positivo: in un
gruppo è quel processo di riconoscimento e feedback attraverso la reiterazione di
comportamenti che producono feedback positivi; ricevendo feedback positivi da altri
membri del gruppo, il soggetto viene stimolato a reiterare quei comportamenti, a
perpetrare azioni di sfida, il che rafforza le relazioni con gli altri e consolida la percezione
che gli altri hanno su di lui. Questo tipo di equilibrio, la gratificazione e l’affermazione
rispondono all’esigenza del soggetto di essere emancipato, ascoltato e rassicurato. Questa
inclusione, partecipazione e aggregazione serve a sentirsi valorizzati e superare le crisi.
L’ingresso in una brutta compagnia avviene perché i ragazzi sentono il bisogno di essere
capiti; la fase di avvio e di riconoscimento in un sistema sociale è molto importante per
ciascuno di noi.
La MS13 è una babygang di Milano, si pensa la più grande del mondo. Entrare in un
gruppo significa aderire ad un sistema valoriale. Iniziano dei piccoli gesti di
rivendicazione e affermazione, che possono poi anche essere formalizzati con forme di
bullismo a scuola. Spesso, alcuni ragazzi bullizzano gli altri per paura di non essere loro
stessi bullizzati. Aderire ad un sistema valoriale significa consolidare la propria figura. Per
esempio, la ritualità di ingresso in quella babygang: i ragazzi che vogliono entrare nella
MS13, devono per 13 secondi sopportare aggressione fisica, cioè un pestaggio con coltelli e
ascia, mentre le ragazze subiscono uno stupro collettivo da tutti i membri della banda. C’è
un Io dentro alla setta, un Noi e un Loro esterno, e quello che si fa nella setta rimane
all’interno, identifica il gruppo; così si forma un modello di riconoscibilità spesso in
opposizione a quello del mondo esterno. Processo di affiliazione nel gruppo: il gruppo
processa orientamenti ai quali ci si deve adeguare e bisogna interiorizzare le regole. Il
gruppo è regolarizzato dai suoi transfert, fino ad arrivare ad una forma di
assoggettamento del gruppo stesso. “Io non posso mettere in discussione le regole del
gruppo perché ne faccio parte, altrimenti lo indebolisco.” Questa normalità nel compiere
atti, dettato da feedback circolare positivo, neutralizza l’azione deviante perché diventa
normalità, si parla di neutralizzazione e normalizzazione degli atti devianti. La
reiterazioni di un’azione sostenuta e promossa dal gruppo e dalla collettività neutralizza
quella sua dimensione e connotazione negativa e illegale. Il gruppo agisce come se fosse
un’unica persona, e agiscono sempre in gruppo con modalità ben riconoscibili, attuano
comportamenti, atti vandalici riconoscibili e magari mettendo anche la tag, la firma perché
devono essere temuti e riconosciuti, identificati. È importante perché questo ci conduce
verso una fase ultima, definita dell’acquiescenza, cioè il totale assoggettamento del
gruppo, la perdita razionale del proprio Io in favore di un Io collettivo: rappresenta un
totale coinvolgimento e assueffazione verso un gruppo in cui si neutralizza il proprio Io e
la propria individualità. Nel gruppo si vive inconsciamente la depersonalizzazione, una
dipendenza che può limitare i tratti individuali e distintivi conformandoli con dei nuovi,
presenti nel gruppo. Le aspettative esterne, gli insuccessi, l’emarginazione, situazioni
deprivative fossono aumentare la percezione di insuccesso e l’impossibilità di affermarsi
fino a spingere i giovani a ricercare questi obiettivi all’interno del gruppo, processando
obiettivi vendicatori e distruttivi. Sono soggetti che hanno vissuto condizioni di disagio,
delusione, non si incorporano con l’esterno perché gli ha dato solo delusioni (teoria delle
opportunità differenziali). Il gruppo può esercitare un brain washing perché si è
particolarmente vulnerabili; BITE (acronimo di behaviour, information, thoughts e
emotions) 4 sfere che, secondo le teorie della manipolazione mentale, se solo una di esse
viene controllata da qualcuno, gradualmente anche le altre 3 saranno controllate da terzi.

*N.B. Il graffitismo vandalico è diverso dalla street art. L’MS13, una banda di Milano, con un
macete ha quasi amputato il braccio ad un capotreno. Multietnicismo è quando etnie diverse
convivono tra di loro, mentre il multiculturalismo si riferisce a soggetti appartenenti alla stessa
etnia, ma con una cultura diversa.
LEZIONE 3 (18-10-2021)

RIEPILOGO DELLA LEZIONE PRECEDENTE


La dissonanza cognitiva è la sospensione della condivisione con un patrimonio cognitivo
esterno, il che causa isolamento, e da qui si è più vulnerabili e si ricerca un fenomeno di
consonanza cognitiva, quindi dei ponti empatici con persone che possano comprendere e
vivere la medesima esperienza e situazione. Questo tipo di situazione fa sì che il soggetto
entri in un nuovo patrimonio cognitivo, che si senta valorizzato e riconosciuto, mentre il
mondo esterno è pieno di insuccessi, disagi e dispiaceri.
Il love bombing è l’eccesso di affetto, attenzione ed empatia e può essere un segnale di
pericolo, infatti rappresenta la fase embrionale del processo di manipolazione.

TEORIA SOCIALE DELLA SICUREZZA, SINDROME DI STOCCOLMA E DI


HIKIKOMORI, TEORIA DEI SISTEMI COMPLESSI
Quando ci sentiamo sicuri e a nostro agio? Attraverso la reiterazione (ripetizione)
quotidiana di schemi comportamentali strutturati e consolidati nel tempo. Noi oggi
conduciamo una quotidianità basata su schemi ripetitivi/suggellati (sigillati) e questo
modello comportamentale, e quindi anche valoriale produce sentimenti di normalità,
equilibrio psichico ed emotivo. Per esempio, andiamo a scuola, poi a casa, prendiamo
l’autobus in una determinata fermata e quindi sappiamo dove andare. Questi sono
meccanismi appresi e la conoscenza di queste dinamiche comportamentali è rassicurante
per noi. Quello che invece inquieta/destabilizza sono le modifiche a quel determinato
schema comportamentale. L’alterazione di un protocollo valoriale e comportamentale
genera una condizione stressogena/ansiogena caratterizzata da inquietudini, ansie, paure
e timori; quello che non conosciamo e che è nuovo produce un senso di insicurezza.
La teoria sociale della sicurezza dice che ci comportiamo in un determinato modo, il
quale produce un sentimento di sicurezza emotiva, cognitiva e sociale. Se qualcuno ci
altera questi schemi ripetitivi/reiterati dal tempo produce nell’individuo sentimenti di
disagio. Qualsiasi cambiamento genera meccanismi che a volte si trasformano in ansia, per
esempio il lockdown, durante il quale abbiamo vissuto l’alterazione di una normalità
relazionale consolidata nel tempo. Si parlava di “distanziamento sociale” e siamo stati
obbligati a cambiare radicalmente il nostro schema comportamentale, sociale e relazionale.
C’è stato isolamento sociale, ma anche fisico perché non si poteva entrare a contatto
fisicamente con altre persone, perché significava potersi ammalare; l’altro era visto come
potenziale detonatore di malattie poi infettive. La comunicazione enumerativa è
finalizzata alla responsabilità dell’individuo, è fatta da disinformazione ma almeno
informava costantemente che qualsiasi tipo di contatto avrebbe potuto alterare il nostro
stato di salute.
In primis, durante il lockdown sono aumentati i casi di Sindrome di Stoccolma, o teoria
del sequestro sociale, ossia affezionarsi a quel contesto e a quell’individuo che ti ha
segregata per un certo periodo di tempo. L’ambiente domestico ci dice che la casa è un
microcosmo con funzione personale e intima, ma noi in casa abbiamo svolto
obbligatoriamente diverse funzioni sociali e pubbliche, quali lavoro, scuola, amici, figli. In
altre parole, abbiano riconfigurato il microcosmo, attribuendogli la funzione di spazio
pubblico e cedendo spesso la nostra libertà. Nel microcosmo si sono riversate azioni
realizzate di solito in uno spazio pubblico (smart working, scuola, chat con amici),
attraverso una convivenza forzata. Queste alterazioni comportamentali hanno portato alla
Sindrome di Stoccolma: molte persone, durante questa forzata convivenza, hanno
sviluppato riferimenti e modelli, hanno familiarizzato con quel contesto chiuso in cui si
sono trovati, modificando le abitudini ed evitando contatti esterni; la gente ha scoperto
nuovi riferimenti culturali all’interno della casa, limitandosi poi a reintrodursi
nuovamente negli spazi esterni.
La Sindrome di Hikikomori è una sindrome giapponese. Gli adolescenti giapponesi non
erano adeguati per il mondo esterno e si sono rinchiusi nella camera da letto, anche per
anni. Si tratta di una forma di isolamento sociale psichico, dettato dal senso di ineguatezza
con il mondo esterno. È uno stato depressivo dettato anche dalla cultura giapponese, che
impone a tutti una realizzazione sociale. Questa sindrome porta all’isolamento, ma genera
anche una dipendenza digitale; in Italia sono 200mila le persone con la Sindrome di
Hikikomori. Ci sono dinamiche che hanno fatto sì che alcune persone abbiamo acquisito
familiarizzazione con l’ambiente in cui si sono isolate, facendo crescere le dipendenze
digitali, che hanno fatto esplorare nuove modalità comunicative che non tutti usavano,
come per esempio la didattica duale. Anche dal punto di vista relazionale è aumentata la
digitalizzazione, con l’uso di siti d’incontri, infatti molti hanno continuato a mantere una
forma di dipendenza digitale anche dopo il lockdown. (Si parla di dipendenza quando il
desiderio pulsante di compiere la determinata azione dura più di 6 mesi.)
Altri, durante il lockdown hanno potenziato i fenomeni di aggregazione anche in maniera
incosciente, ma soprattutto per un desiderio di compensazione della socialità perduta;
questo è un fenomeno soprattutto giovanile. La denuncia di violenza, invece, è aumentata
del 75% in Italia, mentre del 140% in Portogallo. Durante il lockdown non c’era spazio
pubblico per scaricarsi, ma era tutto concentrato nel microcosmo della casa, quindi senza
privacy e riservatezza, il che genera tensioni e insicurezze per il mondo. Alterare anche
minimamente il proprio schema comportamentale può provocare una serie di eventi a
catena che provocano ansia, paura, insonnia e timore.
Altro fenomeno di alterazione dei contesti sociali è dato dalla teoria dei sistemi complessi
(relazionali): mutare il comportamento può innescare un meccanismo irriversibile a livello
sistemico e soprattutto a livello complesso, e quindi relazionale con altri soggetti.

CESARE LOMBROSO E LE TEORIE BIOLOGICHE


Cesare Lombroso era un medico torinese figlio del suo tempo. In un’ottica positivista,
correva la necessità d’obbligo di spiegare razionalmente qualsiasi fenomeno, cercando di
darne un’evidenza scientifica ed empirica (concreta), basandosi sull’approccio
deterministico di causa-effetto, in cui l’agire violento non si trasmetteva secondo e
attraverso processi di socializzazione, ma attraverso caratteristiche endogene (interne),
fenotipiche e somatiche (psichiche). L’attivatore dell’agire violento umano non era più
insito (racchiuso) in un processo/contesto/ambiente, ma era un’innata predisposizione
genetica, ovvero una corrispondenza relazionale tra comportamenti, anomalie somatiche e
anomalie anatomiche. Questo biodeterminismo affermò uno studio antropometrico (di
misurazione corporea), in cui gli elementi anatomici corrispondevano a specifiche
inclinazioni devianti. Lombroso pubblicò anche il testo nel quale scrisse di queste sue
teorie, che erano del suo tempo ma che circolavano non solo in Europa ma anche negli
Stati Uniti. Questo studioso fu criticatissimo però ebbe il primato di essere stato il primo
ad occuparsi del perché gli uomini commettono agiti criminali. Siccome Lombroso
effettuava autopsie sui cadaveri dei delinquenti, molte famiglie reclamarono i corpi dei
morti che lui esaminava.
L’intuizione di Lombroso non era sul metodo, ma sulla convinzione che “criminali si nasce
e non si diventa”, mentre ai giorni nostri si è in un approccio completamente diverso.
Lombroso compì studi antropometrici sui cadaveri dei delinquenti, prima concentrandosi
solo sul cranio, e poi su tutto il corpo, classificando parte di esso e stabilendone
l’inclinazione delinquenziale. Il male, secondo lui, era cromosomico e si evidenziava in
una specifica caratteristica cromosomica; questa convinzione non è stata abbandonata da
tutti. La presenza di testosterone produce maggiori stati di aggressività;
morfologicamente, il testosterone si evidenzia di più nei pomuli del viso, quindi ci fu uno
studio antropometrico, 30 anni fa, in cui hanno cercato di stabilire se ci fosse una maggiore
predisposizione alla violenza in soggetti con i pomuli più pronunciati. Ci fu una serie di
scritti a questo proposito che circolava, però le pubblicazioni successive vennero poi a
smentire i suoi dati, cioè anche Lombroso poi non credeva più a ciò che stava scrivendo.
La teoria biologica da lui sostenuta aveva intuito la presenza di una componente biologica
nei comportamenti violenti. Sicuramente Cesare Lombroso è stato il primo ad interrogarsi
sul perché certi crimini vengono commessi. Il nostro sistema penitenziario ha lacune, per
esempio lo psicologo manca in molte carceri, e si basa sulla riabilitazione del reo;
individuare indicatori di imputabilità criminale può consentire alla società di prevedere e
correggere.
La prima teoria biologica si dice della predisposizione innata alla criminalità, la quale
poggia su 3 presupposti, chiamati subteorie:
o la correlazione tra crimine e patrimonio genetico, secondo la quale ci sarebbero
predisposizioni cromosomiche innate in alcuni individui che, se attivate,
produrrebbero condotte criminali. Questo tipo di predisposizione viene visto
nell’aggressività, intolleranza e scarso controllo di pulsioni emotive;
o relazione/correlazione tra crimine e anomalie cromosomiche. Alcuni studiosi
postulano teorie secondo le quali esisterebbe un cromosoma della
devianza/violenza, quindi è presente nei soggetti criminali un ptrimonio genetico
violento, e questo è un tipico pensiero lombrosiano (teoria biologica alla
predeterminazione della violenza CHIEDERE ???);
o correlazione tra crimine e corporeità, teoria basata sulla costituzione fisica
dell’individuo, in quanto la struttura fisica è fattore inducente ad un modello
psichico co-presente all’interno del soggetto.
La seconda teoria biologica si chiama teoria sociale degli istinti su base biologica
istintuale, la cui macroidea è: l’uomo è un essere istintuale e in relazione all’ambiente in
cui si trova può attuare comportamenti violenti. Questa teorie poggia anch’essa su 3
diverse subteorie:
o orientamento istintivistico. Molti antropologi ritengono che ci siano impulsi
violenti nell’uomo e che l’uomo nasca violento per natura; la sopravvivenza, la
protezione e il raggiungimento di un determinato scopo attivano meccanismi
istintuali tali da sfociare anche in azioni violente;
o orientamento ambientalistico. Secondo questa, si ritiene che spesso l’aggressività
sia determinata dal contesto situazionale e ambientare in cui ci si trova;
o orientamento correlazionalistico. I comportamenti violenti sono determinati dal
patrimonio genetico, ma anche dai fattori ambientali climatici.
Queste teorie emigrano anche all’estero, arrivando negli Stati Uniti, nella famosa scuola di
Chicago, che è stata la prima ad occuparsi di sociologia e sicurezza urbana. Ciò che
scriveva Lombroso era figlio del clima culturale che vedeva spesso in alcune persone
figure destabilizzanti, se non responsabili del degrado sociale. Si pensava che alcune
persone appartenenti ad uno specifico gruppo etnico fossero geneticamente inclini a
compiere violenze, e che fossero quindi in contrasto con l’integrità e purezza di un gruppo
etnico ritenuto superiore. Per esempio, all’epoca vedevano nei nomadi il disinteresse per il
rispetto delle regole.
Ora, le teorie biologiche sono superate.

DURKHEIM E LA TEORIA DELL’ANOMIA


Questa teoria sostiene che la società trascende l’individuo; la prima a soffrire del reato è la
società e così si viene a rafforzare la coscienza collettiva. La funzione adattiva della
devianza si forma distinguendo i crimini di deviantra tra quelli più o meno gravi, questi
ultimi senza sanzione.
La devianza dipende dal contesto sociale in cui siamo, e questa è la concezione
relativistica. Anomia significa senza legge e senza norma. Ci sono, infatti, periodi in cui
tutte le società si trovano a vivere un momento di disgregazione sociale e non ci si sente
tutelati da norme, non sentendosi al sicuro durante questi momenti di cambiamento. Ciò
comporta disgregazione e conflittualità sociali che fanno scaturire comportamenti
devianti, con reati difficili da gestire. Si può dire che l’anomia porti solo a conseguenze
negative, sia sulla collettività che sul singolo.
La teoria del suicidio anomino avviene principalmente in periodi di passaggio dove non
c’è alcuna regolamentazione, e viene meno il potere morale della società, infatti mancano
limiti tra il desiderio e l’aspirazione; la società spesso spinge il soggetto a compiere questo
atto, per vari motivi: non si trova lavoro o non si riesce a formare una famiglia, e si accusa
la società del mancato raggiungimento; il suicidio può essere egoistico, nel quale viene una
mancata adesione al contesto sociale, più orientato alla non condivisione di norme, regole
di comportamento, modi e costumi, che portano all’isolamento della persona. Il suicidio
altruistico è quando l’individuo fatica a trovare la propria individualità; per combattere il
numero bisogna promuovere la coesione sociale, con solidarietà. Il numero di suicidi
aumenta in maniera esponenziale quando diminuisce quello degli omicidi: la società attua
meccanismi di controllo sociale e si passa ad una riduzione di agiti violenti. “Non mi sfogo
con gli altri e mi sfogo con me stesso”; per esempio Haiti ha il maggior numero di suicidi.

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