I primi psicologi sperimentali, circa un secolo fa, invece di osservare gli altri, provarono a esaminare
se stessi, addestrandosi a non cambiare i processi mentali interni mentre li esaminavano nel loro
svolgimento. In questo modo speravano di essere capaci di controllare l’influenza dell’osservatore sui
fenomeni osservati. Si sbagliavano. Questo metodo, chiamato tradizionalmente introspettivo, è stato usato
per decenni, agli albori della nascente psicologia sperimentale. Il metodo introspettivo, tuttavia, è sufficiente
per isolare solo alcuni aspetti del funzionamento della mente umana. L’introspezione insomma non funziona
se non in casi molto particolari. Per reazione ai limiti del metodo introspettivo, gli psicologi provarono un’altra
strada, e cioè l’esame dei comportamenti direttamente misurabili. Potete cambiare sistematicamente gli
stimoli e vedere se e come cambiano le risposte. Questo metodo, centrato sulla misura degli stimoli forniti
dallo sperimentatore e delle risposte di chi partecipa all’esperimento, è rigoroso. L’adozione di tale metodo
rigoroso fu la base per un nuovo movimento, il comportamentismo, nato ufficialmente nel 1913 con un
articolo di John B. Watson. Watson riteneva l’introspezione un metodo non scientifico essenzialmente per
due motivi: 1) la coincidenza tra osservatori e fenomeni osservati, nel senso che quando una persona esamina
i propri processi mentali modifica l’evento sotto osservazione dato che esso è necessariamente
accompagnato dalla consapevolezza dell’osservazione; 2) i dati ottenuti con il metodo introspettivo
descrivono fenomeni che altri osservatori non possono controllare e misurare trattandosi di dati
“introspettivi”, ottenuti cioè esaminando i propri processi mentali. Oggi conosciamo bene un terzo
gravissimo limite del metodo introspettivo, e cioè la sua incapacità di rilevare meccanismi mentali che non
emergono alla consapevolezza, e quindi sfuggono a tale metodo. Freud riteneva che c’è una parte della vita
mentale che non affiora alla coscienza. Secondo la psicoanalisi, questi contenuti di coscienza possono
emergere grazie all’aiuto di un analista. Oggi, al contrario, sappiamo che molti dei processi mentali sono
completamente inconsci e si possono scoprire e analizzare solo indirettamente, con l’aiuto del metodo
sperimentale. Molti hanno chiamato tale prevalente porzione delle attività mentali “inconscio cognitivo”, per
differenziarlo dal classico “Inconscio freudiano”. Finita la Seconda guerra mondiale, ebbero luogo due
cambiamenti che portarono la psicologia generale alla situazione odierna. Da un lato gli psicologi sentivano i
limiti delle metodologie basate sullo studio dei rapporti tra stimoli e risposte. D’altro lato comparve sulla
scena il computer. La psicologia era sempre stata influenzata dalle innovazioni tecnologiche. E tuttavia il
computer, fin dagli anni ’50, influenzò in modi ben più profondi gli sviluppi della disciplina. Si tratta di un
sistema artificiale, costruito dall’uomo, che riesce a fare molte cose al pari della nostra mente, plasmata dalla
plurimillenaria evoluzione biologica. Diviene possibile paragonare i meccanismi della mente umana al
funzionamento di una macchina come il computer. In un primo tempo si era soliti dire che la mente sta al
cervello come il programma (il software) sta alla macchina (l’hardware) che lo elabora. In realtà questa
equiparazione non è proprio esatta. Ila distinzione cruciale non è tra software e hardware, ma tra diversi
livelli di analisi, e cioè i diversi gradi di astrazione utilizzabili nel descrivere un oggetto. Differenti livelli di
analisi richiedono vocabolari diversi e, nel corso della vita quotidiana, il vocabolario che utilizza termini
mentali è di solito quello preferito. In altre parole, il livello funzionale, quello che la mente fa, è il livello
descrittivo più semplice e facile da usare, sia nel caso delle menti artificiali dei computer sia nel caso delle
menti umane.
che queste operazioni sono governate da un algoritmo. Un algoritmo è una procedura svolta sempre tramite
una sequenza di tappe obbligate, una dopo l’altra. Una ricetta è un buon esempio di procedura. Alcune delle
operazioni possono essere fatte in parallelo, cioè contemporaneamente. Altre vanno fatte in serie, cioè una
dopo l’altra. La mente umana è capace di fare operazioni in parallelo, ad esempio parlare con una persona e
ascoltarne un’altra. È difficile però parlare con un altro e contare i numeri alla rovescia, da mille in giù. Se
invece i compiti non sono troppo complicati, potete imparare a farli in parallelo.
1) Il neurone è un’unità anatomica. Le membrane di due neuroni adiacenti sono sempre separate da un
intervallo. L’intervallo è piccolissimo, invisibile prima dell’introduzione del microscopio elettronico; 2) Il
neurone è un’unità funzionale. Ogni neurone viene influenzato solo dall’attività elettrica dei neuroni con i
quali comunica attraverso le sinapsi, che sono le strutture neuronali specializzate per la comunicazione tra
un neurone e l’altro. La comunicazione, cioè il trasferimento dell’informazione tra un neurone e l’altro,
avviene in un’unica direzione: un neurone riceve i segnali che gli provengono dai neuroni posti a monte e li
trasmette ai neuroni posti a valle; 3) Il neurone è un’unità genetica. Tutti i neuroni originano da un’unica
cellula progenitrice, il neuroblasto. Durante lo sviluppo le cellule nervose non formano reti casuali ma
contraggono connessioni specifiche prestabilite con alcuni neuroni e non con altri; 4) Il neurone è un’unità
trofica. Il taglio dell’assone produce la degenerazione della sua parte a valle e della sua parte a monte. La
degenerazione non si estende, però, oltre le sinapsi, agli altri neuroni. La lunghezza dell’assone permette di
differenziare i neuroni di proiezione, neuroni con assoni molto lunghi che connettono neuroni appartenenti
a differenti strutture nervose e gli interneuroni, neuroni con assone corto, che collegano neuroni vicini. La
funzione degli interneuroni è di modificare l’attività dei neuroni di proiezione. I neuroni sono unità funzionali
responsabili dell’invio dei messaggi nervosi e pertanto sono dotati di meccanismi specializzati per inviare
segnali ad altre cellule, anche a grande distanza, in maniera rapida e decisa.
salti, mentre nel tratto di assone schermato dalla guaina mielinica non accade nulla. La conduzione a salti
aumenta di molto la rapidità di trasmissione dell’impulso nervoso. Non tutti gli assoni posseggono la guaina
mielinica; per quelli che la posseggono si parla di fibre mieliniche, per quelli che non la posseggono si parla
di fibre amieliniche. La velocità di trasmissione dell’impulso nervoso dipende dalla presenza o assenza di
mielina (è maggiore nelle fibre mieliniche) e dal diametro dell’assone (aumenta con l’aumentare del suo
diametro). Infine, è importante ricordare che la distinzione fra sostanza bianca e sostanza grigia nel cervello
è legata al colore della mielina, che è bianca e che manca nella sostanza grigia. La sostanza grigia è formata
da corpi dei neuroni, dai dendriti e dagli assoni non mielinizzati. La sostanza bianca è formata dagli assoni
mielinizzati. Nervi, tratti nervosi e vie nervose sono fasci di assoni (fibre nervose) che decorrono, più o meno,
paralleli. I nervi sono posti al di fuori della scatola cranica o della colonna vertebrale, mentre i tratti e le vie
nervose si trovano nel contesto del tessuto nervoso, dentro la scatola cranica o dentro la colonna vertebrale.
Si parlerà anche di nuclei e di gangli. I nuclei, che costituiscono la sostanza grigia, sono insiemi di corpi di
neuroni posti nel contesto del tessuto nervoso, dentro la scatola cranica o dentro la colonna vertebrale,
mentre i gangli sono insiemi di neuroni, posti al di fuori della scatola cranica e della colonna vertebrale. I
nuclei sono collegati da tratti e da vie nervose, a loro volta formati da assoni. I gangli sono collegati da nervi,
pure formati da assoni.
70mV rispetto all’esterno. A differenza dei potenziali postsinaptici, i potenziali di azione non sono risposte
graduali. Essi rappresentano, invece, risposte tutto-o-nulla: o si verificano in tutta la loro ampiezza o non si
verificano affatto. La mielinizzazione aumenta, perciò, e di molto, la velocità di conduzione del potenziale
d’azione lungo l’assone. Ciascun neurone somma l’insieme di potenziali postsinaptici eccitatori e inibitori
graduali creati sulla sua membrana, a livello delle sinapsi, dei neurotrasmettitori e scarica, cioè invia impulsi
nervosi lungo il suo assone sulla base del risultato di tale somma. L’operazione di sommare tra loro potenziali
postsinaptici graduali prende il nome di integrazione. L’integrazione avviene nel tempo e nello spazio.
Quando l’integrazione avviene nello spazio, la somma algebrica riguarda potenziali postsinaptici che si sono
verificati in aree adiacenti della membrana neuronale. Quando l’integrazione avviene nel tempo, la somma
algebrica riguarda potenziali postsinaptici che si sono verificati in prossimità temporale. Ciascun neurone
integra continuamente segnali nel tempo e nello spazio, perché è continuamente bombardato da impulsi
nervosi, che generano, grazie ai neurotrasmettitori liberati nello spazio sinaptico, potenziali postsinaptici
graduali sulla sua membrana, a livello dei dendriti o del corpo. Il potenziale d’azione viene trasmetto lungo
l’assone, fino al suo termine. Qui libera il neurotrasmettitore nello spazio sinaptico. Il neurotrasmettitore
produce i potenziali postsinaptici sulla membrana del neurone postsinaptico. In neurone postsinaptico
integra i potenziali postsinaptici. Se la soglia di eccitazione viene raggiunta, scatena il potenziale d’azione,
che viaggia lungo l’assone fino alla sinapsi successiva. Il processo si ripete così, da un neurone all’altro, nella
catena di neuroni.
9. Il sistema nervoso
Una seria difficoltà che si incontra nello studio della neuroanatomia è che la stessa struttura è
indicata con molti nomi diversi. Un’altra grave difficoltà terminologica che s’incontra quando si affronta lo
studio dell’anatomia macroscopica del cervello riguarda il sistema di coordinate, necessario per descrivere
un organo tridimensionale, come, appunto, è il cervello. Per convenzione, la posizione delle strutture
anatomiche che compongono il sistema nervoso dei vertebrati è definita rispetto all’orientamento del
midollo spinale. Secondo questa convenzione, il sistema nervoso presenta tre assi principali: l’asse antero-
posteriore (o rostro-caudale), l’asse dorso-ventrale (o alto-basso) e l’asse medio-laterale (o centro-
periferia). Il sistema nervoso di tutti i vertebrati, uomo compreso, è composto di due parti principali: il
sistema nervoso centrale (SNC) e il sistema nervoso periferico (SNP). Il SNC è contenuto dentro protezioni
ossee: la scatola cranica (che contiene l’encefalo, del quale il cervello è la parte principale) e la colonna
vertebrale (che contiene il midollo spinale). Il SNP è invece posto fuori di tali contenitori ossei. Anche il SNP
è divisibile in due parti: il sistema nervoso somatico (SNS) e il sistema nervoso autonomo (SNA). Il SNS è
quella componente del SNP che interagisce con il mondo esterno ed è composta da nervi afferenti, che
portano le informazioni sensitive e sensoriali al SNC, e nervi efferenti, che trasmettono i comandi del SNC ai
muscoli scheletrici. Il SNA partecipa alla regolazione dell’ambiente interno dell’organismo. È costituito da
nervi afferenti, che trasportano le informazioni sensitive dagli organi interni verso il SNC, e da nervi efferenti,
che portano comandi dal SNC ai muscoli lisi, per i movimenti degli organi interni, e alle ghiandole esocrine ed
endocrine. Il SNA presenta due tipi di nervi efferenti: i nervi simpatici sono nervi motori che originano dalla
parte lombare e toracica del midollo spinale, mentre i nervi parasimpatici sono nervi motori che originano
dalla regione sacrale del midollo spinale. La concezione tradizionale delle funzioni del sistema simpatico e
del sistema parasimpatico indica tre principi importanti: 1) Il sistema simpatico mobilita risorse energetiche
nelle situazioni di emergenza e pericolo, mentre il sistema parasimpatico conserva energia; 2) Ogni organo
interno è innervato da entrambi i sistemi, simpatico e parasimpatico, e quindi l’attività di ogni organo interno
è regolata dall’attività bilanciata dei due sistemi; 3) Per semplificare, si può dire che il sistema simpatico
produce tensione mentre il sistema parasimpatico produce rilassamento. La maggior parte dei nervi che
appartengono al SNS originano dal midollo spinale e sono detti nervi spinali. In tutto ci sono 31 paia di nervi
spinali: dall’alto in basso, 8 nervi cervicali, 12 nervi toracici, 5 nervi lombari, 5 nervi sacrali e 1 nervo coccigeo.
I nervi spinali contengono fibre sensitive, che portano informazioni dalla periferia del corpo al SNC, e fibre
motorie, che portano comandi dal SNC ai muscoli. Altri nervi (12) originano dall’encefalo e sono detti nervi
cranici. Alcuni nervi cranici contengono esclusivamente fibre sensoriali: il nervo olfattivo, il nervo ottico, il
nervo acustico-vestibolare. Altri contengono fibre motorie, per i movimenti oculari. Altri ancora contengono
sia fibre sensitive sia motorie. Infine, il nervo vago si differenzia dagli altri nervi cranici perché appartiene al
sistema parasimpatico.
L’encefalo → L’encefalo è alloggiato nella scatola cranica ed è costituito dal tronco dell’encefalo, dal
cervelletto e dal cervello. A sua volta, il tronco dell’encefalo, così chiamato perché sostiene il cervello come
un tronco sostiene la chioma di un albero, è costituito da tre strutture principali che si susseguono in
direzione rostrale, cioè verso l’alto, verso il cervello: il bulbo (o midollo allungato), in diretta continuazione
del midollo spinale, il ponte e il mesencefalo. L’organizzazione anatomica del tronco dell’encefalo è piuttosto
complessa, ma può essere abbastanza facilmente ricondotta a uno schema di base: la sostanza grigia, che è
costituita da neuroni che formano i nuclei dei nervi motori, sensitivi o sensoriali, che innervano i muscoli e la
cute del cranio e del collo e degli altri organi di senso specifici; e la sostanza bianca, che è costituita da assoni
che formano vie ascendenti e portano informazioni sensitive e sensoriali al cervello e da altri assoni che
formano vie discendenti e portano comandi motori dal cervello ai muscoli. Nel mesencefalo, inoltre, si
trovano nuclei di neuroni appartenenti al sistema parasimpatico. Il sistema parasimpatico, assieme al sistema
simpatico, concorre a regolare funzioni vitali di base: battito cardiaco, ritmo respiratorio, pressione
sanguigna, temperatura corporea e varie funzioni intestinali. Nel midollo spinale i nuclei dei nervi motori, i
nuclei dei nervi sensitivi e i nuclei dei nervi del sistema simpatico occupano la sostanza grigia centrale. Nel
tronco dell’encefalo, invece, si assiste a una chiara segregazione dei neuroni sensitivi, sensoriali, motori e
vegetativi, che formano nuclei distinti; i nuclei dei nervi cranici, appunto. Tali nuclei si trovano immersi in una
rete di numerosissimi interneuroni che prende il nome di formazione reticolare. La formazione reticolare
possiede una struttura anatomica adatta a raccogliere e a distribuire informazioni a varie strutture cerebrali.
Attraverso vie nervose ascendenti essa controlla gli stati di attivazione del cervello, svolge una funzione
integrativa sia dell’attività riflessa somatica del tronco sia del controllo vegetativo della respirazione e del
sistema cardiovascolare. Infine, attraverso le vie discendenti al midollo spinale, influenza il tono posturale e
modula le afferenze sensitive. Il cervelletto non appartiene al tronco dell’encefalo, ma è a esso strettamente
adiacente, occupando una posizione dorsale. È così chiamato perché presenta un’organizzazione
macroscopica simile a quella del cervello, pur essendo nettamente più piccolo. Il cervelletto svolge un ruolo
importante nell’attività motoria, interviene nella coordinazione dei movimenti e nell’apprendimento
motorio. Le lesioni del cervelletto compromettono la coordinazione motoria in modi diversi, a seconda della
sede della lezione. Il mielencefalo è costituito dal solo bulbo o midollo allungato, il metencefalo comprende
ponte e cervelletto, il mesencefalo è costituito dal solo mesencefalo, il diencefalo comprende talamo e
ipotalamo e il telencefalo comprende la corteccia cerebrale o emisferi cerebrali, il sistema limbico e i gangli
della base. Il cervello è il telencefalo. Il midollo spinale, il mielencefalo e il mesencefalo formano una specie
di lungo tronco, sul quale si inserisce una chioma arborea, che è il cervello o telencefalo. Il tronco
dell’encefalo viene a comprendere mielencefalo, metencefalo, mesencefalo e diencefalo. Le due strutture
che compongono il diencefalo, talamo sopra e ipotalamo sotto, hanno un ruolo fondamentale nel
comportamento. Il talamo è una stazione di transito per tute le informazioni che raggiungono la corteccia.
L’ipotalamo è la cabina di regia che regola la produzione degli ormoni di tutto l’organismo. Il talamo è una
struttura piuttosto grande con due lobi, uno a destra e l’altro a sinistra: è posto in continuazione del
mesencefalo e può essere considerato la parte più rostrale del tronco dell’encefalo. Il talamo comprende
molte paia di nuclei. L’ipotalamo è posto immediatamente al di sotto del talamo. Ha un ruolo importante nel
regolare gli stati motivazionali. Esercita in parte i suoi effetti controllando il rilascio di ormoni da parte della
ghiandola ipofisi (detta anche ghiandola pituitaria).
L’architettura del cervello → Il cervello (telencefalo) assolve alle funzioni mentali più complesse. Controlla i
movimenti volontari, decodifica ed elabora gli stimoli sensoriali e sensitivi. Media tutte le funzioni cognitive
complesse. Gli emisferi cerebrali sono ricoperti da uno strato di tessuto chiamato corteccia cerebrale. La
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corteccia cerebrale costituisce la gran parte della sostanza grigia e, nell’uomo, presenta profonde pieghe, o
circonvoluzioni, che hanno lo scopo di aumentare la superficie della corteccia senza aumentare il volume del
cervello. Le pieghe corticali più profonde prendono il nome di scissure, mentre quelle meno profonde sono
dette solchi. I due emisferi cerebrali sono quasi completamente separati sulla linea mediana dalla profonda
scissura longitudinale. Essi appaiono collegati da alcuni tratti di fibre trasversali, denominate commissure
cerebrali, la più grande delle quali è il corpo calloso. I due maggiori elementi di riferimento sulla superficie
laterale di ciascun emisfero sono la scissura centrale (o scissura di Rolando) e la scissura laterale (o scissura
di Silvio). Queste scissure dividono ciascun emisfero in quattro lobi: lobo frontale, lobo parietale, lobo
temporale e lobo occipitale.
Le funzioni integrative → Le informazioni raccolte dagli organi di senso, seguendo vie ascendenti,
raggiungono, attraverso i nuclei specifici del talamo, le regioni corticali, dove sono localizzate le aree
sensoriali e sensitive primarie. Da qui, attraverso connessioni cortico-corticali, le informazioni vengono
successivamente elaborate dalle aree sensoriali e sensitive di ordine superiore e da queste distribuite
secondo due vie principali. Il risultato dell’elaborazione viene trasmesso alle aree motorie di ordine superiore
e da queste all’area motoria primaria per mediare la cosiddetta integrazione sensomotoria, che porta
all’esecuzione di atti motori in risposta a stimoli sensoriali o sensitivi. L’informazione viene inviata alle
cortecce associative. La corteccia associativa parieto-temporo-occipitale riceve informazioni dalle aree
somatiche, visive e uditive, di ordine superiore. Si ritiene che sia deputata all’integrazione delle specifiche
informazioni sensoriali e sensitive e dia origine alla percezione. La corteccia associativa limbica, integrando
gli aspetti emozionali, mnestici e motivazionali delle informazioni sensoriali e sensitive, influenza sia la
corteccia associativa prefrontale sia le aree motorie di ordine superiore, permettendo agli aspetti
motivazionali ed emozionali di influenzare la programmazione dei movimenti. La corteccia associativa
prefrontale riceve fibre afferenti sia dalle aree sensoriali e sensitive di ordine superiore sia dalle altre aree
associative. Si ritiene che svolga un ruolo importante nel selezionare la risposta motoria più adeguata sulla
base dell’integrazione delle informazioni sensoriali e sensitive e degli aspetti motivazionali ed emozionali. La
corteccia prefrontale programmerebbe, poi, un piano motorio generale che verrebbe trasmesso alle aree
motorie di ordine superiore, dette aree premotorie. Da queste il piano motorio verrebbe analizzato,
verrebbero definiti i singoli programmi motori che lo compongono, e il risultato dell’elaborazione verrebbe
trasmesso all’area motoria primaria, che si farebbe carico dell’esecuzione finale dei movimenti.
Nuclei sottocorticali → La sostanza bianca sottocorticale contiene fibre assonali con decorso verticale che
collegano i centri sottocorticali e corticali, e fibre assonali con decorso orizzontale, che collegano centri
corticali. Molti di questi assoni sono ricoperti da una guaina mielinica, che spiega il colore bianco. Immersi
nella sostanza bianca si trovano voluminosi nuclei di sostanza grigia, formati da molti neuroni. I due principali
raggruppamenti di nuclei sono il sistema limbico e i gangli della base. Il sistema limbico è detto anche da
alcuni lobo limbico; dunque, è il secondo lobo, dopo quello prefrontale, che si aggiunge ai quattro lobi classici,
portando a sei il totale. Il sistema limbico è implicato nella regolazione degli stati motivazionali e degli stati
emozionali. Le sue principali strutture sono l’ippocampo, che ha un ruolo cruciale nei processi di memoria, e
l’amigdala, che ha un ruolo cruciale nelle emozioni. I gangli della base comprendono tre grandi nuclei
sottocorticali: il nucleo caudato, il putamen e il globo pallido. Il nucleo caudato e il putamen insieme formano
il corpo striato. I gangli della base svolgono un ruolo importante nell’esecuzione dei movimenti volontari.
Particolarmente rilevanti sono le vie di collegamento fra il corpo striato e la sostanza nera del mesencefalo.
Come comunicano le due metà del cervello → Accanto alle connessioni cortico-corticali, che collegano aree
corticali distanti all’interno di ciascun emisfero cerebrale, esistono dei sistemi di fibre che connettono tra
loro aree omologhe dei due emisferi (fibre commissurali). Queste fibre passano da un emisfero all’altro,
attraversando la scissura longitudinale. Il fascio più importante di fibre commissurali è il corpo calloso. Le
fibre che collegano i lobi frontali vanno a formare la parte più anteriore, rostrale, del corpo calloso, poi
vengono le fibre che collegano i lobi parietali, seguite dalle fibre che collegano i libi temporali e, infine, le
fibre che collegano i lobi occipitali, le quali formano la parte più caudale del corpo calloso. La funzione delle
fibre callosali è quella di permettere lo scambio d’informazioni tra i due emisferi cerebrali.
cerebrali che interessano. Per ottenere insieme una mappa strutturale e una mappa delle attivazioni, cioè
una rappresentazione insieme funzionale e anatomica, è necessario combinare l’informazione ottenuta con
la TAC o la RM e quella ottenuta con la PET. La messa in circolo di un isotopo radioattivo per scopi di ricerca
non è più considerata ammissibile per ragioni etiche. Si ricorre, perciò, normalmente, alla fMRI, che sfrutta
l’acqua presente nel sangue. La fMRI, oltre a essere molto poco invasiva, ha anche il vantaggio di fornire
immagini che presentano l’aspetto sia strutturale sia funzionale di ciascuna area e di essere molto meno
costosa della PET. Attualmente la fMRI è la tecnica più usata nelle ricerche che utilizzano le neuroimmagini.
Infine, è necessario menzionare la stimolazione magnetica transcranica (TMS), che consiste nel produrre,
con uno stimolatore a forma di spirale, un campo magnetico localizzato su una porzione delimitata dl cuoio
capelluto. Il campo magnetico, a sua volta, produce una breve corrente elettrica che percorre rapidamente
una struttura cerebrale. Se la stimolazione è ripetitiva e dura qualche secondo, il risultato è l’inattivazione
temporanea della struttura cerebrale attraversata dalla corrente. Si produce così un danno cerebrale
temporaneo. La logica che si applica nelle ricerche che utilizzano la TMS è la stessa che si usa nel caso dello
studio di pazienti con lesioni cerebrali causate da una patologia. Secondo questa logica, i sintomi che si
manifestano a causa della lesione permettono di risalire alla funzione, o alle funzioni, svolte dalla struttura
inattivata quando, invece, funziona normalmente. I deficit che conseguono all’uso della TMS ci dicono quali
di queste strutture cerebrali coinvolte nell’esecuzione di un compito sono necessarie e quali non lo sono.
CAPITOLO 2 – PERCEZIONE
Lo studio dei processi percettivi ha fatto progressi grazie all’azione congiunta del metodo
sperimentale e dell’analisi delle basi neurali. Una lunga tradizione filosofica ha convalidato un punto di vista
chiamato “realismo ingenuo”. Secondo questa concezione, la vista e l’udito avrebbero la funzione di una
sorta di cinepresa che registra quel che ci circonda. Se poi ci si riflette un po’ su, ci si accorge che noi abbiamo
un’altra capacità, e cioè quella di trattenere le immagini del mondo esterno e di ricombinarle con l’aiuto
dell’immaginazione. La percezione non ci restituisce il mondo esterno, come vorrebbe il realismo ingenuo.
La mente umana rappresenta quel che ci circonda in funzione del nostro stato d’animo e dei nostri scopi. La
percezione non è un processo che possiamo dare per scontato. Si basa su operazioni complesse che
permettono a chi percepisce di rivestire un ruolo attivo, costruendo ipotesi su quello che c’è negli ambienti
esterni. La percezione può sembrare semplice perché della maggior parte di queste operazioni non ci
rendiamo assolutamente conto. Invece è complessa. Questa complessità va affrontata scomponendola e poi
ricomponendola. Possiamo dire, che il sistema visivo funziona assumendo una certa probabilità a priori che
quel che appare come una macchia scura in un bosco notturno sia un cespuglio. La persona, camminando, si
avvicina e acquisisce nuove informazioni. Alla luce di queste nuove informazioni rivede la sua stima iniziale.
Questa procedure per stime successive è rapidissima e inconsapevole. Non ci accorgiamo di queste
operazioni perché avvengono nell’inconscio cognitivo. Abbiamo una probabilità di partenza su quel che c’è
nel mondo esterno, e la modifichiamo acquisendo nuove informazioni. I processi percettivi sono concepiti
come l’insieme delle informazioni che dal mondo esterno giungono ai nostri sensi. Questo percorso è fatto
di successivi passaggi, in sequenza. Prima tappa: le informazioni passano dall’oggetto fisico esterno,
considerato indipendente dalla nostra attività, ai recettori dei nostri organi di senso. Seconda tappa: dagli
organi di senso passano al cervello, sede delle elaborazioni che producono il mondo percepito. Accettata
questa impostazione teorica, si può costruire la percezione come scienza confrontando i rapporti tra: 1) le
informazioni che giungono dal mondo esterno (chiamate in gergo “stimolo distale”); 2) le informazioni
registrate dagli organi di senso (“stimolo prossimale”); 3) la nostra esperienza diretta di soggetti percipienti,
insomma quello che vediamo o sentiamo. I processi percettivi di una persona servono soprattutto a muoversi
nel mondo, a fare cose. In base agli input sensoriali, noi agiamo. Agendo, modifichiamo il mondo. È meglio
concepire la percezione come una fase del ciclo: percezione → decisione → azione → percezione →
decisione → azione. Noi dirigiamo l’attenzione verso ciò che crediamo utile alla successiva azione. E l’azione,
a sua volta, ci presenta un mondo da noi modificato. E così via. In questa prospettiva diventano infine
importanti le operazioni fatte dal cervello.
5. I raggruppamenti percettivi
In Germania, agli inizi del Novecento, fiorì una scuola di ricercatori, detta gestaltista (da Gestalt, che
significa “forma organizzata”). I gestaltisti si posero appunto il problema delle forme complesse. Il sistema
percettivo usa come criterio la vicinanza dei punti, in base al principio di vicinanza. La continuità di direzione
è un caso particolare di raggruppamento in una buona forma. I raggruppamenti percettivi collegano punti o
linee presenti nel campo percettivo. Questa capacità conferisce ordine e classifica il mondo. In determinate
condizioni il sistema visivo, pur di creare un’unità complessa, interpreta come esistente qualcosa che non c’è
per nulla. Si tratta di casi in cui questa integrazione rende possibile una forma semplice, ordinata e
classificabile. Se non avessimo questa capacità, non potremmo vedere cose, ferme o in movimento, che
proseguono coprendo altre cose. È evidente il valore adattivo di un sistema visivo che funziona in questo
modo. La tendenza del nostro sistema visivo ad attribuire ordine e significato a quel che vediamo,
organizzandolo in unità locali, in entità che proseguono dietro ad altre cose, è molto forte. Il sistema visivo
funziona allo stesso modo quando non c’è nulla da riconoscere, quando si producono segni quasi a caso.
L’esempio più clamoroso e noto nell’arte contemporanea è costituito dalle opere di Jackson Pollock. Questo
pittore inventò, negli anni ’40 del secolo scorso, una nuova tecnica pittorica detta “dripping”
(sgocciolamento). Pollock metteva una tela bianca sul pavimento. Poi prendeva dei barattoli di vernice di
colore diverso. Immergeva il pennello nei barattoli e dava come delle “spruzzate” di colore sulla tela.
Sgocciolava più volte colori diversi. Il risultato del lavoro del pittore non è una figura caotica, instabile,
casuale, anche se è stata prodotta con un margine di casualità. Si tratta di una superficie che si articola in
macchie e strisce di colore che formano configurazioni, qua e là organizzate, anche se dal significato
misterioso. Il quadro ha uno stile “complessivo”. È stato creato da una persona che faceva gesti sempre con
un certo metodo.
6. Il riconoscimento di oggetti
Per quanto riguarda la complessità dei processi di riconoscimento, alcune cose le sappiamo per
nostra esperienza personale, altre grazie alla condivisione di una cultura, altre infine dipendono dalla
struttura del sistema visivo e dai modi, di cui non siamo consapevoli, di elaborare l’input sensoriale. Questi
effetti attribuibili alle conoscenze pregresse, si manifestano anche nel riconoscimento di visi e caricature. Le
caricature accentuano le differenze rispetto a una foto, isolandole in pochi tratti grafici. Conseguenze: ci
mettiamo di meno a riconoscere un personaggio partendo da una caricatura che non da una foto. E,
analogamente, se una faccia è osservata a rovescio, ci vuole più tempo per riconoscerla. Inoltre, se viene
chiesto di riconoscere un tipo di naso tra due facce che differiscono solo per il naso, il compito risulta più
facile rispetto a quando i due nasi sono presentati isolatamente, a ulteriore dimostrazione dell’intreccio tra
fattori locali e globali. Nel riconoscimento di facce è facile mostrare come i processi percettivi si “adattino”
al tipo di faccia da osservare, se la guardate a lungo. Le varie informazioni presenti nell’input vengono
analizzate nel contesto della faccia nel suo complesso. La deformazione si nota meglio quando il viso è
presentato in modo normale rispetto a quando è rovesciato. Emerge ancora una volta il meccanismo
probabilistico, che influenza i processi percettivi e le nostre ipotesi su come è fatto il mondo esterno. Questi
esempi mostrano che l’evoluzione ci ha fornito di un sistema visivo costruito per agire nel mondo, e non per
fotografarlo. Di qui le diverse forme di apprendimento che rendono possibili i processi di riconoscimento, e
l’intreccio locale-globale. Se noi sfruttiamo sapientemente i processi di riconoscimento abituali, possiamo
ottenere effetti paradossali. Questi effetti non sono stati sfruttati soltanto da artisti, tra cui Elliasson e
Pollock, e da designer, nel creare marchi e immagini, ma anche da architetti. Un esempio interessante è
l’edificio The Future (1993), costruito a New York da un grande studio di architetti statunitense con la
consulenza di Paul Rudolph. Rudolph in questo caso scelse per la facciata principale dei balconi a forma
parallelogramma, con il lato più lungo attaccato all’edificio e quello più corto proteso verso l’esterno. Se si
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passeggia sul marciapiede, di fronte all’edificio, guardandolo da sinistra, i terrazzi sembrano inclinati in giù,
soprattutto ai piani più alti. Se invece si guarda da sotto in su, da destra, i balconi appaiono inclinati verso
l’alto. Questo effetto, progettato da Rudolph, è dovuto alla preferenza per l’angolo retto. Più in generale, in
casi come questi, abbiamo sulla retina un’immagine proiettivamente ambigua. È ambigua perché un
parallelepipedo sulla retina può essere causato da infinite superfici con diversa forma o inclinazione. A parità
d’informazione retinica, quello che si vede è una soluzione che, a livello di conoscenza consapevole, si sa
essere estremamente improbabile. Sappiamo bene che i balconi sporgono ad angolo retto rispetto
all’edificio. Ebbene, tra il meccanismo, che agisce a nostra insaputa, e le nostre conoscenze consapevoli, è il
primo a prevalere. Quando le informazioni sensoriali sono ambigue, prevalgono le probabilità incorporate
nel sistema visivo. E così abbiamo effetti paradossali.
7. La percezione multisensoriale
Secondo l’approccio teorico probabilista, i processi di interpretazione che guidano il riconoscimento
sono la conseguenza di quello che è stato immagazzinato nel passato. Quando il passato è quello della nostra
specie, i processi sono immodificabili e prevalgono su quello che noi abbiamo appreso nel corso della nostra
vita. In altri casi, invece, possiamo avere a che fare con processi che sono modificabili intervenendo
sull’esperienza di un individuo. Un caso interessante, in cui agiscono entrambi i tipi di probabilità, quello
incorporato nel sistema visivo della nostra specie e quello dovuto ad apprendimento, è stato studiato da
Wendy Adams. Adams, dell’Università inglese di Southampton, ha presentato alle persone che partecipavano
all’esperimento una determinata figura, in cui il chiaroscuro dei cerchi è visto come protuberanza, oppure
come concavità. Questo effetto si spiega con l’assunzione che la luce cada dall’alto. L’assunto si giustifica con
il fatto che per centinaia di migliaia di anni la nostra specie ha visto gli oggetti illuminati da una fonte
prevalente, il sole. L’ipotesi “luce proveniente dall’alto” si traduce nella percezione di concavità e convessità.
Di qui la nota tendenza che Adams ha ritrovato e misurato in varie persone. A questa misura iniziale, Adams
ha fatto seguire un addestramento tattile. I partecipanti toccavano con mano superfici effettivamente
concave o convesse. Tali superfici erano associate a configurazioni visive ruotate rispetto a quelle iniziali, cioè
in contrasto con l’assunto che la luce cada dall’alto. In questo modo le persone imparavano a indebolire le
probabilità associata all’assunto che l’illuminazione provenga dall’alto. Ebbene, l’addestramento fatto in
campo tattile riusciva a influenzare la successiva interpretazione visiva in senso opposto alle misure iniziali.
Il ricercatore italiano Nicola Bruno ha fatto un esperimento ancora più elegante, basato sullo stesso principio.
Bruno ha utilizzato un cubo tridimensionale, che si poteva tenere in mano. Il cubo di Necker è un oggetto
composto soltanto dagli spigoli di un cubo. Se guardato con un occhio solo, è una figura instabile che può
venir vista come un cubo normale, oppure, secondo un’interpretazione illusoria, come un tronco di piramide.
Bruno ha dimostrato che un’esplorazione tattile attiva, fatta seguendo con le mani la struttura metallica del
cubo, blocca l’interpretazione illusoria. La natura probabilistica dei processi percettivi interagisce qui con le
informazioni che giungono al cervello dai diversi organi di senso. L’effetto di tali informazioni può essere
modificato tramite specifiche forme di apprendimento.
La visione è di grandissima importanza per tutti i primati, compreso l’uomo. Di conseguenza, il cervello umano
è un “cervello visivo”. Nella sua corteccia possono essere individuate più di 30 aree visive. Dalla retina, poi,
partono almeno 10 vie, ciascuna delle quali manda informazioni visive ad altre aree cerebrali. Ciò che
sappiamo sulle basi neurali della percezione visiva l’abbiamo ricavato, principalmente, dallo studio delle
conseguenze delle lesioni cerebrali. La principale via prende il nome di via retino-genicolo-striata perché
origina dalla retina, ha una stazione intermedia in un nucleo del talamo, in nucleo genicolato laterale, e
raggiunge l’area BA 17 della corteccia. Quest’area è caratterizzata, macroscopicamente, da striature
orizzontali; da queste strisce deriva il nome di corteccia striata. Un altro nome usato per indicare la corteccia
visiva primaria è V1. L’importanza della visione per i primati è segnalata anche dalla rapidità di trasmissione
dell’informazione dalla retina alla corteccia visiva: l’intero percorso è coperto dagli assoni di due soli neuroni.
Il primo neurone, cellula gangliare della retina, manda il suo assone ai neuroni del corpo genicolato laterale.
Il secondo neurone, appartenente al corpo genicolato laterale, manca il suo assone dal corpo genicolato
laterale alla corteccia striata (BA 17). Poche decine di millesimi di secondo sono sufficienti a trasmettere
l’informazione dalla retina alla corteccia. Tutto il nostro campo visivo è rappresentato nella corteccia BA 17.
Si tratta di una rappresentazione retinotopica. Vi sono alcune apparenti stranezze nel modo in cui
l’informazione visiva è trasmessa dalla retina al cervello. Le cellule sensibili alla luce, i recettori, coni e
bastoncelli, non sono rivolti verso la sorgente della luce. Sono posti nell’ultimo strato di cellule della retina,
quello più lontano dalla sorgente della luce e sono orientati nella direzione opposta rispetto a quella da cui
proviene la luce. Perciò, la luce, per raggiungere i recettori, deve attraversare vari strati di cellule e di vasi
sanguigni. Grazie al fenomeno del chiasma ottico, la porzione sinistra del campo visivo invia informazioni alla
metà destra del cervello, la porzione destra del campo visivo invia informazioni alla metà sinistra del cervello,
la porzione superiore del campo visivo invia informazioni alla metà inferiore del cervello e la porzione
inferiore del campo visivo invia informazioni alla metà superiore del cervello. Ovviamente, il nostro cervello
riesce poi, in qualche modo, ancora sconosciuto, a rimettere le cose a posto. I neuroni presenti in V1 (BA 17)
sono sensibili a caratteristiche elementari degli stimoli, come orientamento, colore e movimento. Da V1
l’informazione visiva procede in avanti, lungo la via ventrale e la via dorsale e così raggiunge altre aree visive,
dette aree extrastriate, indicate come V2, V3 e V4. L’area V5 contiene neuroni specificamente sensibili al
movimento. Una lesione di quest’area provoca cecità per il movimento. Il paziente vede gli oggetti in
movimento come una serie di immagini statiche. I neuroni delle aree visive extrastriate sono specializzati per
processare varie combinazioni delle caratteristiche elementari alle quali sono sensibili i neuroni di V1. Queste
combinazioni di caratteristiche possono essere anche molto complesse e così si incontrano neuroni che sono
specificamente sensibili, per esempio, ai volti umani. L’esistenza di queste aree visive specializzate suggerisce
che la percezione conssite nella scomposizione di una scena visiva nelle caratteristiche elementari che la
compongono, caratteristiche che vengono poi ricombinate da aree specializzate. Il problema di come
vengano ricombinate le caratteristiche di una scena visiva è noto come binding problem. Sembra che il
condividere la codifica spaziale, abbia un ruolo cruciale nel “legare” caratteristiche appartenenti allo stesso
oggetto. Lesioni che interessano la via retino-genicolo-striata producono difetti di campo visivo, cioè, in
seguito alla lesione, certe porzioni del campo visivo diventano cieche. Il termine tecnico per indicare queste
porzioni cieche è scotoma. Se è un’intera metà del campo visivo a essere cieca, si parla di emianopsia (si parla
di quadrantopsia se è cieco un quadrante del campo visivo). Scotomi, emianopsie e quadrantopsie si
osservano anche dopo lesioni di BA 17. Nel caso la lesione distrugga l’area BA 17 di entrambi i lati, si ha cecità
corticale completa. Può accadere che il paziente non riconosca il deficit prodotto da una lesione cerebrale,
ne neghi l’esistenza. Il termine generale impiegato per indicare la negazione del deficit è anosognosia
(mancata conoscenza della malattia). Se il paziente nega la cecità completa causata dalla distruzione
bilaterale di BA 17, si parla di sindrome di Anton. Le lesioni cerebrali possono alterare la percezione visiva,
senza produrre cecità. Da BA 17 originano due vie visive corticali, una diretta al lobulo parietale superiore
(via dorsale) e una diretta all’area inferotemporale del lobo temporale (via ventrale). Queste due vie svolgono
funzioni diverse, che indussero Ungerleider e Mishkin a caratterizzarle come via del where, quella dorsale, e
via del what, quella ventrale. Il principale supporto alla disitnzione veniva da una doppia dissociazione che
era possibile osservare in pazienti con lesioni cerebrali. Pazienti con lesioni del lobulo parietale superiore,
bilateralmente, possono manifestare un disturbo detto atassia ottica. Se viene presentato loro un oggetto,
sono in grado di descriverlo e di riconoscerlo, perché la via ventrale, la via del what, è intatta. Non sono, però,
in grado di indicare quale posizione nello spazio l’oggetto occupa, perché la via dorsale, la via del where, è
lesa. Questa è una dissociazione semplice: una prestazione è deficitaria mentre l’altra è intatta. La
dissociazione è completa in quei pazienti che non sono in grado di riconoscere, e neppure di descrivere, gli
oggetti che vengono loro presentati, pur potendo indicare con precisione la posizione che occupano nello
spazio. Questi pazienti soffrono di agnosia appercettiva. L’agnosia appercettiva fa sì che il paziente non è
cieco ma non è più in grado di riconoscere oggetti familiari e neppure ne sa dare una descrizione o riprodurli
con un disegno. L’agnosia appercettiva è attribuita all’incapacità di produrre una rappresentazione percettiva
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dell’oggetto. L’oggetto non è riconosciuto perché il paziente non può formarsene una rappresentazione
percettiva adeguata. Nel caso dell’agnosia trasformazionale, il paziente non riconosce gli oggetti quando
sono presentati da punti di vista insoliti e, perciò potrebbero essere riconosciuti solo dopo che la loro
immagine è stata trasformata. Un’altra forma di agnosia appercettiva è la simultaneoagnosia, nella quale il
deficit di riconoscimento si manifesta quando più oggetti vengono presentati simultaneamente e, perciò, per
formarsene una rappresentazione percettiva adeguata, sarebbe necessaria l’attenzione focalizzata, che il
paziente non è in grado di produrre. In un’altra forma di agnosia, agnosia associativa, la rappresentazione
percettiva si forma, e, infatti l’oggetto presentato può essere descritto o riprodotto con un disegno, ma il
riconoscimento non avviene perché non c’è accesso a quel settore della memoria a lungo termine dove sono
conservate tutte le rappresentazioni degli oggetti che ci sono noti. I pazienti con agnosia associativa possono
riprodurre un oggetto disegnandolo a memoria proprio perché possono accedere a questo magazzino. Non
riescono, però, a riconoscere l’oggetto, dopo averlo disegnato, perché è interrotto l’accesso dalla
rappresentazione percettiva al magazzino a lungo termine delle rappresentazioni di oggetti noti. E’
interessante che si possa osservare un’agnosia associativa limitata all’incapacità di riconoscere i volti umani,
detta prosopoagnosia. Il paziente prosopoagnosico, di norma, ha una lezione nel giro fusiforme,
bilateralmente. Il paziente non riconosce i volti che dovrebbero essergli molti noti: personaggi pubblici,
familiari stretti, il suo stesso volto allo specchio o in una fotografia. L’esistenza di agnosie associative che
riguardano categorie specifiche di oggetti suggerisce che una parte della memoria a lungo termine sia
riservata alla rappresentazione percettiva di categorie di oggetti particolarmente importanti per la specie.
L’area del giro fusiforme è specializzata per i volti. La ricerca più recente a portato a concludere che le
caratteristiche degli oggetti sono processate non solo dalla via ventrale, la cosiddetta via del what, ma anche
dalla via dorsale, la cosiddetta via del where. Ciò che differenzia le due vie è l’uso finale delle due
rappresentazioni dell’oggetto, quella prodotta dalla via ventrale e quella prodotta dalla via dorsale.
CAPITOLO 3 – ATTENZIONE
2. L’attenzione spaziale
Un essere umano può selezionare una posizione nello spazio orientandovi l’attenzione. Il primo problema da
risolvere nello studio dell’attenzione spaziale è quello di separare la direzione dell’attenzione dalla direzione
dello sguardo. La situazione sperimentale impiegata da Rizzolati e colleghi e da Carlo Umiltà e colleghi è utile
per comprendere questa distinzione. A ogni prova, si presentano sullo schermo il punto di fissazione (una
piccola croce al centro) e i quattro quadrati vuoti, allineati in alto, contrassegnati dai numeri dall’1 al 4. Dopo
un intervallo di 500 ms compare un numero, il segnale, appena sopra il punto di fissazione, poi, dopo un
ulteriore intervallo di 500 ms, compare un punto luminoso (lo stimolo) all’interno di uno dei quattro quadrati.
Le istruzioni impartite all’osservatore riguardano i movimenti oculari, i movimenti dell’attenzione e la
modalità di risposta. Alla comparsa del punto di fissazione, gli occhi vi si devono dirigere e restarvi immobili
per tutta la durata della prova. La posizione degli occhi è controllata per mezzo di uno strumento apposito e
tutte le prove nelle quali si rileva un movimento oculare sono scartate. L’attenzione deve essere diretta sul
quadrato corrispondente al numero che appare sopra al punto di fissazione. La risposta da fornire consiste
nel premere il più rapidamente possibile un pulsante; sempre lo stesso pulsante, in qualsiasi quadrato sia
comparso lo stimolo. Nel 70% delle prove, lo stimolo compare nel quadrato segnalato dal numero presentato
sul punto di fissazione; queste sono dette “prove valide”. Nel 30% delle prove, “prove invalide”, lo stimolo
compare in uno dei tre quadrati. Nelle prove valide, il soggetto ha diretto l’attenzione sulla posizione
segnalata, cioè sul quadrato in cui, successivamente, è comparso lo stimolo da rilevare. Nelle prove invalide,
invece, il soggetto ha diretto l’attenzione sulla posizione segnalata, che, però, risulta essere quella errata,
perché lo stimolo compare in un altro quadrato. Nelle “prove neutre”, nelle quali il segnale è 0, l’attenzione
è stata distribuita su tutte le posizioni, cioè su tutti i quadrati. La teoria della detezione del segnale illustra
come ci si possa accorgere o meno di un segnale non solo in funzione della sua intensità, ma in funzione
anche del fatto che il soggetto sia più o meno attento e quindi incline a emettere una risposta. Di
conseguenza, la teoria della detezione del segnale permette di distinguere la riconoscibilità di un segnale
dalla rigidità del criterio, cioè dall’adozione di un criterio di risposta più o meno rigido. Ci sono quindi quattro
possibilità: i casi “veri positivi”, in cui viene identificato correttamente il bersaglio, i “falsi allarmi”, in cui
identifichiamo per errore un bersaglio che in realtà è assente, i “falsi positivi” in cui non identifichiamo per
errore il bersaglio che è presente, e i “rifiuti corretti” in cui non identifichiamo correttamente il bersaglio
assente. Gli esperimenti come quelli accennati sopra hanno dimostrato che l’attenzione può essere orientata
nello spazio anche in assenza di movimenti oculari e che ciò dà origine a benefici e costi attentivi. L’attenzione
si può orientare nello spazio verso posizioni indicate da segnali centrali. Questi segnali sono detti anche
segnali cognitivi perché indicano una posizione nello spazio soltanto se sono correttamente interpretati, sulla
base delle istruzioni. Dunque, l’orientamento dell’attenzione nello spazio del quale abbiamo fino a ora
parlato è un orientamento volontario (detto anche orientamento controllato o endogeno, perché
dipendente dal soggetto). Quando l’orientamento dell’attenzione nello spazio è avvenuto in modo
automatico, si parla di orientamento automatico, detto anche orientamento esogeno perché dipendente da
un evento esterno al soggetto. Il fuoco dell’attenzione è stato descritto, metaforicamente, da Michael Posner
come un fascio di luce; altri l’hanno descritto come il fuoco di una lente. Sia un fascio di luce sia il fuoco di
una lente possono essere diretti su una posizione nello spazio. Questa posizione viene così a essere meglio
illuminata, oppure viene a essere rappresentata in modo più dettagliato rispetto al resto dello spazio. In
alcune ricerche di Castiello e Umiltà ai soggetti sperimentali fu presentata una configurazione per la quale in
ogni prova appariva prima il punto di fissazione, poi, dopo un intervallo di 500 ms, un singolo quadrato vuoto.
Il quadrato compariva, con eguale probabilità, a destra o a sinistra del punto di fissazione e aveva dimensioni
variabili. Dopo la comparsa del quadrato trascorreva un intervallo molto breve oppure più lungo, alla fine del
quale era presentato, al centro del quadrato stesso, lo stimolo (una piccola croce). Le principali consegne
date al soggetto erano di spostare l’attenzione sul quadrato, focalizzare l’attenzione sullo spazio delimitato
dal quadrato e rispondere il più rapidamente possibile alla comparsa dello stimolo, premendo un pulsante
(TR). I risultati dimostrarono che i TR variavano in funzione delle dimensioni del quadrato, essendo più rapidi
quanto più piccolo era. Ciò, però, soltanto quando l’intervallo fra la comparsa del quadrato e quella dello
stimolo era lungo. La spiegazione di questo risultato è che le dimensioni del fuoco dell’attenzione possono
essere controllate e fatte coincidere con l’area delimitata dal quadrato. L’operazione di controllo del fuoco
attentivo, però, richiede tempo. L’evidenza empirica indica che è necessario un oggetto percettivo saliente
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che funzioni da bersaglio perché l’attenzioni si sposti nello spazio e le sue dimensioni possano variare. Infine,
l’evidenza empirica mostra che i confini del fuoco dell’attenzione non sono netti. Piuttosto, è necessario
pensare all’attenzione come a risorse attentive, che si presentano in quantità variabile. I deficit di attenzione
spaziale osservati nei pazienti con lesioni cerebrali hanno indotto Posner a individuare tre componenti
indipendenti dell’attenzione spaziale. Immaginiamo, per esempio, di spostare l’attenzione da un punto dello
spazio a un altro. Inizialmente è necessario disancorare (prima operazione) l’attenzione dalla posizione
iniziale, poi è necessario spostare (seconda operazione) l’attenzione verso la nuova posizione, infine è
necessario ancorare (terza operazione) l’attenzione sulla nuova posizione. Lesioni al lobulo parietale inferiore
compromettono selettivamente l’operazione di disancoraggio, lesioni al collicolo superiore compromettono
selettivamente l’operazione di spostamento. Lesioni del pulvinar compromettono selettivamente
l’operazione di ancoraggio.
3. L’attenzione selettiva
Abbiamo visto che quando la selezione avviene sulla base della posizione nello spazio, si parla di
attenzione spaziale. La posizione nello spazio è una caratteristica particolarmente importante per la selezione
attentiva, ma, certamente, non è l’unica caratteristica sulla base della quale l’attenzione possa operare una
selezione. Immaginiamo un esperimento nel quale si presentino su uno schermo simultaneamente alcuni
stimoli che differiscono per colore, per forma o per dimensioni. Immaginiamo, anche, che il compito (compito
di ricerca visiva) sia di rilevare la presenza di uno stimolo bersaglio, e che il bersaglio sia definito, di volta in
volta, da una sola caratteristica. Per esempio, può trattarsi del colore, oppure della combinazione di due
caratteristiche, oppure ancora della combinazione di tre caratteristiche. In tutte le prove, la posizione non è
importante per svolgere il compito: il soggetto deve stabilire se il bersaglio è stato presentato oppure no.
Dove è stato presentato il bersaglio, non importa. Se il tempo di presentazione degli stimoli è
sufficientemente lungo e le loro caratteristiche sono ben discriminabili, il compito è facile. Questo è un tipico
compito di attenzione selettiva, dove la selezione si basa su caratteristiche non spaziali degli stimoli.
molto presto o, addirittura, non inizia neppure. La seconda sostiene che il processamento dell’informazione
non selezionata è praticamente completo.
Effetto Simon → Questo effetto fu descritto per primo da J. Richard Simon nel 1969. Esso consiste nel fatto
che i TR sono più rapidi quando stimolo e risposta sono dalla stessa parte del corpo rispetto a quando lo
stimolo compare da una parte e la risposta deve essere eseguita dalla parte opposta. Ciò dimostra che
l’informazione sulla posizione dello stimolo, pur non essendo rilevante, ha un effetto sulla risposta.
Effetto Eriksen → Questo effetto fu descritto per la prima volta da Barbara Eriksen e Charles Eriksen nel
1974. Il compito consiste nel discriminare due lettere bersaglio, per esempio S e T, premendo due pulsanti,
uno assegnato alla lettera S e l’altro assegnato alla lettera T. Le due lettere bersaglio sono presentate, su uno
schermo, una alla volta, al centro di una stringa di cinque lettere, due delle quali fiancheggiano la lettera
bersaglio a destra e due la fiancheggiano a sinistra. Le consegne mettono bene in chiaro che l’unica lettera
che conta per lo svolgimento del compito è quella centrale. Si possono avere tre condizioni sperimentali: una
condizione congruente, nella quale lettera bersaglio e fiancheggiatori sono identici (per esempio, TTTTT), una
condizione incongruente, nella quale bersaglio e fiancheggiatori richiedono risposte diverse (per esempio,
SSTSS) e una condizione neutra, nella quale i fiancheggiatori sono diversi dai due bersagli e perciò non
richiedono mai una risposta (per esempio, OOTOO). L’effetto Eriksen si manifesta con TR più lenti nella
condizione incongruente che nella condizione congruente. L’interpretazione è che l’informazione non
rilevante è processata e influenza la risposta data in base all’informazione rilevante.
Effetto Stroop → Questo è uno degli “effetti” più noti in psicologia e la sua prima descrizione risale a John
Stroop nel 1935. Gli stimoli sono parole che denotano un colore, “rosso”, “giallo”, “verde” e “blu”, scritte in
colori diversi, rosso, giallo, verde e blu. La parola e il colore possono essere congruenti (condizione
congruente) oppure incongruenti (condizione incongruente). Al posto della parola possono esserci delle
stringhe di lettere senza senso, che costituiscono la condizione neura. Il compito dei soggetti è di pronunciare
a voce alta il nome del colore e si registrano i TR per la risposta vocale. In un tipico compito Stroop,
l’informazione rilevante è il colore. Il significato della parola è, invece, l’informazione non rilevante. Il risultato
che si ottiene è che i TR sono più rapidi nella condizione congruente che nella condizione incongruente.
L’effetto Stroop è attribuibile alle difficoltà che incontra l’attenzione selettiva a sopprimere l’informazione
non rilevante, che tende a innescare una risposta, la lettura, che, in una persona alfabetizzata, è diventata
automatica. Il compito Stroop ci dice che l’attenzione selettiva ha funzionato, ma l’informazione non rilevante
è stata processata al punto da modulare la risposta all’informazione rilevante, il colore; rendendo la risposta
più rapida quando c’è congruenza fra colore e parola, e soprattutto, rallentandola quando c’è incongruenza
fra colore e parola.
Effetto Navon → Questo effetto fu descritto per la prima volta da David Navon nel 1977. In una situazione
sperimentale tipica, al soggetto sono presentate, su uno schermo, lettere grandi (livello globale) composte
di lettere piccole (livello locale). Sia a livello globale sia a livello locale, le lettere possono essere, per esempio,
delle H e delle S. Si creano così quattro combinazioni fra i due livelli, globale e locale: due sono condizioni
congruenti (una H globale formata da H locali, oppure una S globale formata da S locali) e due condizioni
incongruenti (una H globale formata da S locali, oppure una S globale formata da H locali). Il soggetto ha a
disposizione due pulsanti, uno per la risposta alla lettera H e un altro per la risposta alla lettera S. Quando la
consegna è di tenere conto del livello globale, il livello globale è l’informazione rilevante che viene selezionata
dall’attenzione, mentre il livello locale è l’informazione non rilevante. Quando la consegna è di tenere conto
del livello locale, l’informazione locale è l’informazione rilevante che viene selezionata dall’attenzione,
mentre il livello globale è l’informazione non rilevante. L’effetto Navon, detto anche “effetto del vantaggio
del livello globale”, è scomponibile in due effetti indipendenti. Il primo è che i TR sono più rapidi quando il
livello rilevante per la risposta è quello globale piuttosto che quello locale. Il secondo effetto è che, nel caso
d condizioni incongruenti, si osserva un effetto di interferenza asimmetrico. Quando il livello rilevante è
quello locale, la presenza di una lettera incongruente a livello globale provoca un netto rallentamento del TR
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medio. Quando il livello rilevante è quello globale, la presenza di lettere incongruenti a livello locale non
produce un rallentamento. È chiaro che, nel compito Navon, il fuoco dell’attenzione tende a dirigersi sul
livello globale.
Processamento senza attenzione? → Nel compito Simon, l’attenzione si orienta verso la posizione spaziale
nella quale è comparso lo stimolo. Nel compito Eriksen, l’attenzione si estende ai fiancheggiatori. Nel compito
Stroop, colore e parola compaiono nella stessa posizione. Nel compito Navon, l’attenzione si dirige
inizialmente sul livello globale per poi passare sul livello locale. Se si impedisce al soggetto di muovere
l’attenzione verso lo stimolo, l’effetto Simon scompare. Se i fiancheggiatori sono allontanati dalla lettera
bersaglio, così che l’attenzione sia limitata a essa, l’effetto Eriksen scompare. Se l’attenzione è attratta da un
distrattore che compare improvvisamente alla periferia del campo visivo, oppure la parola è allontanata dal
colore, l’effetto Stroop diminuisce o scompare. Se si induce il soggetto a distribuire in modo uniforme
l’attenzione fra livello globale e livello locale, l’effetto Navon diventa asimmetrico.
“Priming” negativo → il termine “priming” è di solito impiegato per indicare un effetto di facilitazione: per
esempio, la risposta a uno stimolo è più rapida quando lo stimolo che lo ha preceduto ha certe caratteristiche.
Nel caso del priming negativo, invece, la risposta a uno stimolo è rallentata a causa delle caratteristiche dello
stimolo che l’ha preceduto. La spiegazione che si propone per il priming negativo è che la caratteristica non
rilevante della prima configurazione sia stata elaborata e poi sia intervenuto un processo di inibizione che ha
permesso di selezionare senza problemi la risposta corretta. Il processo di inibizione, però, continua per un
certo tempo e i suoi effetti emergono quando quella stessa caratteristica diventa rilevante per la risposta.
“Change blindness” → Una delle conseguenze più clamorose del fallimento dell’attenzione è la cosiddetta
cecità per il cambiamento (“change blindness”), l’incapacità di rilevare un cambiamento eclatante nella scena
visiva. Il fenomeno della change blindness dimostra che noi non prestiamo attenzione a tutti gli elementi di
una scena visiva e che gli elementi ai quali non prestiamo attenzione non sono percepiti coscientemente.
“Attentional blink” → Anche nel caso dell’ammiccamento attentivo (“attentional blink”), uno stimolo
presente nel campo visivo non viene rilevato per un fallimento dell’attenzione. Al soggetto è presentata, sullo
schermo di un computer, una serie di stimoli, ciascuno per poche decine di millisecondi. Ogni serie contiene
due bersagli, che il soggetto deve rilevare. Il primo bersaglio può essere una lettera di colore diverso. Il
secondo bersaglio può essere un numero nero. Può accadere che il secondo bersaglio non venga rilevato.
Infatti, il secondo bersaglio non viene mancato se è presentato molto vicino al primo, ed è, perciò, processato
insieme ad esso, quando l’ammiccamento dell’attenzione non è ancora cominciato; oppure se è presentato
relativamente distante dal primo, quando il processamento del primo è terminato ed è pure terminato
l’ammiccamento dell’attenzione. Quando l’attenzione è impegnata nel processamento del primo bersaglio,
non è disponibile per il processamento del secondo, che, perciò, non viene percepito coscientemente.
sinistra. I pazienti affetti da neglect presentano deficit immaginativi oltre che percettivi. Ciò fu dimostrato
per la prima volta da Edoardo Bisiach e Claudio Luzzatti nel 1978.
6. Le risorse attentive
La selezione permette di separare ciò che è rilevante per svolgere l’azione in corso da ciò che non è
rilevante. Selezionare l’informazione rilevante a spese di quella non rilevante permette di migliorare il
processamento della prima. L’aspetto intensivo dell’attenzione richiede di prendere in considerazione le
cosiddette risorse attentive. Infatti, l’efficienza del processamento cognitivo dipenderebbe dalla quantità di
risorse attentive (dette anche risorse di processamento) disponibili. Se i due compiti che devono essere
eseguiti contemporaneamente condividono, per l’esecuzione, uno stesso meccanismo, è sempre impossibile
mantenere l’efficienza a un livello paragonabile a quello che si raggiunge quando i due compiti sono eseguiti
separatamente, in sequenza. È praticamente impossibile masticare e parlare contemporaneamente, perché
entrambe le attività dipendono dallo stesso meccanismo (gli stessi muscoli). È molto difficile ascoltare musica
mentre si segue una conversazione, perché entrambe le attività richiedono l’uso delle vie acustiche. Questi
sono esempi di interferenza strutturale causata dalla competizione per meccanismi periferici. L’interferenza
strutturale può insorgere, però, anche quando i due compiti competono per l’accesso a meccanismi centrali.
In particolare sono stati descritti esempi di interferenza strutturale causati dalla competizione per
componenti della memoria di lavoro oppure dalla competizione per il meccanismo di selezione della risposta.
Per esempio, risulta molto difficile mantenere in memoria a breve termine un numero telefonico non
memorizzato per il tempo necessario a comporlo se, allo stesso tempo, la nostra memoria a breve termine è
occupata da altra informazione. Pensate a che cosa accade se, appena dopo che avete letto il numero da
comporre, qualcuno inizia a pronunciare numeri ad alta voce. L’interferenza non è periferica perché si verifica
fra informazione visiva (il numero letto) e informazione acustica (i numeri ascoltati). E’, però, ancora di tipo
strutturale (ma centrale) perché le due informazioni competono per una struttura centrale, la memoria di
lavoro, nella quale convergono. Un caso ancora più interessante si incontra quando i due compiti da eseguire
contemporaneamente non competono per l’accesso ad alcun meccanismo comune. Guidare un’automobile
e ascoltare un notiziario radiofonico sono due compiti che non richiedono alcun meccanismo comune. Si può,
perciò, escludere un’interferenza strutturale. La situazione sarebbe ben diversa se la guida fosse
accompagnata dal seguire un notiziario televisivo (si avrebbe un’interferenza strutturale periferica) o dalla
necessità di mantenere in memoria di lavoro le indicazioni del navigatore (si avrebbe un’interferenza
strutturale centrale). Tuttavia, un pilota principiante è costretto a trascurare il notiziario se vuole guidare in
modo efficiente. Dunque, l’interferenza da doppio compito si verifica anche quando non ci sono le condizioni
per un’interferenza strutturale. Il fenomeno viene generalmente attribuito al fatto che i processi mentali
richiedono, per essere eseguiti, l’impiego di una certa quota di risorse attentive. Il compito che riceve la quota
di risorse sufficiente per un’esecuzione ottimale viene detto “compito primario”. Il compito che riceve solo
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la quota residua di risorse e che, perciò, non sarà eseguito in modo ottimale, viene detto “compito
secondario”.
CAPITOLO 4 – EMOZIONI
L’emozione segnala che è avvenuto un cambiamento nell’ambiente, esterno o interno, e che tale
cambiamento è stato percepito soggettivamente come saliente. L’emozione può essere definita come un
processo interiore scatenato da un evento emotivamente significativo che si manifesta come esperienza
differenti emozioni riflettessero le nostre interpretazioni di stati fisiologici diversi. In altre parole, non
aumenta il battito cardiaco perché abbiamo paura, ma abbiamo paura perché aumenta il battito cardiaco.
L’evento emotigeno determinerebbe una serie di reazioni vegetative e la percezione di queste modificazioni
fisiologiche sarebbe alla base dell’esperienza emotiva. Il punto centrale di questa teoria si è mostrato molto
più problematico di quanto James avrebbe potuto immaginare. Infatti, questa teoria fu contestata da Cannon
con tre argomenti principali: i visceri hanno una risposta troppo lenta per essere la causa delle esperienze
emotive, la separazione totale chirurgica dei visceri dal cervello negli animali non compromette il
comportamento emotivo, l’attività vegetativa non è in grado di differenziare i diversi stati emotivi.
cioè fattori di predisposizione e stili cognitivi che portano a valutazioni diverse della stessa situazione e
conseguentemente a una diversa esperienza emotiva. Ciò dimostrava in primo luogo la predominanza della
cognizione sull’emozione, ma anche il potere delle abilità cognitive nell’evocare o smorzare le esperienze
emozionali, gettando con ciò le basi per la terapia cognitivo-comportamentale. Le teorie di questo tipo non
contrappongono più le emozioni ai processi razionali, ma pongono in evidenza l’intreccio fra emozioni e
processi cognitivi. Pertanto, le emozioni originano come risposta al significato di una data situazione. Non
sono attivate dall’evento in sé, ma dal significato e dal valore che l’individuo attribuisce a quell’evento. Zajone
sostenne che le emozioni sono preminenti e indipendenti dalla cognizione. Egli dimostrò quello che chiamò
semplice effetto di esposizione. Questo effetto si riferisce al fatto che le persone preferiscono stimoli cui
sono già state esposte più di una volta, anche se non hanno un ricordo esplicito della precedente esposizione.
Significa che la preferenza emotiva per qualcosa che avviene senza la consapevolezza di aver elaborato questi
stimoli in precedenza e quindi non è possibile esercitare un controllo su ciò che si prova. Alla fine, i due
ricercatori erano d’accordo sul fatto che per provare emozioni è necessario elaborare l’informazione
sensoriale.
6. Le emozioni di base
Darwin propose che vi fosse un numero limitato di emozioni primarie. Questo concetto fu ripreso da
Ekman che individuò sei espressioni facciali di base delle emozioni: gioia, collera, paura, disgusto, tristezza,
sorpresa. Ciascuna di esse è caratterizzata da un unico insieme di movimenti dei muscoli facciali e la capacità
di compierli sembra innata. Queste espressioni sono universali e simili per aspetto, entità e interpretazione
in tutte le culture. Ogni emozione primaria è distinguibile o differenziabile in modo affidabile dalle altre
emozioni sulla base del suo tipico pattern di attivazione cerebrale. Il comportamento emotivo innato può
essersi sviluppato nel corso dell’evoluzione solo in virtù del suo valore funzionale per l’adattamento. Le altre
emozioni sono miste o secondarie o complesse e derivano da una combinazione delle emozioni di base.
7. L’approccio dimensionale
L’approccio dimensionale, a differenza del precedente che considera le emozioni come entità
distinte, classifica tutta la varietà di stati emozionali su scale specifiche che tengono conto della valenza e
dell’attivazione. Dietro a ogni emozione vi è un interesse dell’individuo; la conseguenza che un evento ha su
questo interesse determina la rilevanza emotiva dell’evento, lo rende significativo per quell’individuo in quel
particolare momento della sua vita. Esistono però altre dimensioni possibili da prendere in considerazione. I
due approcci dimensionali principali sono il modello circolare e la distinzione approccio-fuga.
Il modello circolare → “attivazione” è il termine utilizzato per le modificazioni fisiologiche che hanno luogo
nel corso di un’esperienza emotiva. L’intensità della reazione emotiva può essere valutata dalla forza di tali
risposte. La valenza, d’altra parte, è l’aspetto soggettivo, positivo o negativo, della risposta emotiva a uno
specifico oggetto o evento. Entrambe le dimensioni possono essere messe su una scala. Il modello circolare
colloca l’attivazione su un asse e la valenza sull’altro. Utilizzando queste dimensioni dell’esperienza emotiva,
il modello circolare crea un grafico in cui indicare un intervallo di stati emotivi. Le emozioni sono codificate
secondo il loro grado di attivazione e piacevolezza. Le diverse emozioni cadono in uno schema circolare. Le
dimensioni dell’attivazione e della valenza possono essere rappresentate in maniera distinta nel cervello.
8. La valutazione
La valutazione di un evento di basa necessariamente su un qualche livello di conoscenza dello stesso,
altrimenti non saremmo in grado di giudicarne la rilevanza per i nostri scopi. Gli eventi emotigeni
appartengono nella maggior parte dei casi a un numero ristretto di categorie. Certi tipi di eventi sono
prototipici di certe emozioni. La prototipicità di questo legame evento-emozione implica che determinati
eventi provochino sempre quel tipo di emozione e quindi siano assimilabili a schemi concettuali.
Espressione facciale → Secondo l’ipotesi considerata “standard o globale”, le espressioni facciali sono forme
unitarie, universalmente condivise, fisse, specifiche per ogni emozione e controllate da programmi
neuromotori specifici. Le espressioni facciali mostrano in modo involontario, spontaneo e immediato,
l’emozione provata. A ogni emozione corrisponde una ben precisa configurazione del volto. Nello studio delle
espressioni facciali vanno distinti due livelli: quello molecolare, rappresentato cioè dai movimenti dei singoli
muscoli facciali, e il livello molare, cioè la configurazione finale derivante da tutti questi movimenti minimi.
Ekman e Friesen hanno individuato 44 azioni muscolari facciali visibili, minime e indipendenti, chiamate unità
di azione (action units). Secondo la teoria neuroculturale di Ekman, ogni emozione attiva uno specifico
programma facciale affettivo attraverso una serie di istruzioni codificate dal sistema nervoso. Tuttavia,
rispetto a questo, i processi cognitivi possono intervenire per produrre modificazioni dell’espressione
naturale e spontanea. Tali modificazioni, generate dalle convenzioni culturali, sono state chiamate regole di
manifestazione (display rules), poiché consentono di apparire adeguati al contesto sociale sotto il profilo
emotivo. Tali regole sono: l’accentuazione, cioè l’aumento dell’espressione, l’attenuazione, cioè l’opposto
del precedente, ma neutralizzazione o negazione, la simulazione o mascheramento. Una teoria alternativa
all’ipotesi standard e alla teoria neuroculturale è la concezione ecologica comportamentale, secondo la quale
le espressioni facciali sarebbero segnali per comunicare con l’interlocutore e manifestargli i propri interessi
e le proprie intenzioni, acquisendo così un valore sociale. A una stessa emozione possono corrispondere
diverse espressioni facciali e a un’espressione facciale possono corrispondere esperienze emotive diverse.
Inoltre, il contesto ricopre un ruolo importante nella comprensione delle espressioni facciali.
Espressione vocale → L’espressione vocale rimane un canale primario per esprimere le emozioni durante la
vita. Le emozioni sono trasmesse attraverso la prosodia, cioè l’intonazione, ma anche attraverso l’intensità
dell’eloquio. Hughlings-Jackson osservò che i pazienti con grave compromissione del linguaggio conservano
tuttavia la capacità di comunicare emozioni attraverso la voce e quindi suggerì che l’emisfero destro
svolgesse tale funzione. La specializzazione emisferica destra negli aspetti emotivi del linguaggio è stata
confermata da studi successivi.
comportamento sociale appropriato e adattivo. Ci sono varie modalità attraverso cui la regolazione emotiva
può aver luogo. In generale si può agire in maniera proattiva, minimizzando lo scatenarsi di emozioni
negative, o in maniera reattiva, attenuando queste emozioni internamente, una volta che sono comparse,
oppure sopprimerle o modificare il comportamento emotivo esplicito. Fra le teorie più complete sulle
strategie di regolazione delle emozioni vi è quella descritta da James Gross e colleghi. Secondo il modello
elaborato da questi autori, la gestione delle proprie esperienze emotive avviene attraverso cinque strategie:
1) l’evitamento volontario delle situazioni di stress o sgradevoli dal punto di vista emotivo; 2) la modificazione
attiva di una situazione che provoca attivazione; 3) il volontario distoglimento dell’attenzione dagli aspetti
emotivamente salienti di una situazione; 4) la rivalutazione cognitiva; 5) la soppressione di risposte affettive
esplicite. Fra queste, la rivalutazione cognitiva è la più studiata. La rivalutazione cognitiva consiste nella
capacità di vedere una certa situazione in una luce diversa, più positiva. Secondo il modello di Gross, le due
modalità attraverso cui può aver luogo la rivalutazione cognitiva sono la reinterpretazione e il
distanziamento. La reinterpretazione cognitiva sembra essere il modo più efficace di regolare le emozioni
perché corregge il contesto interno dell’esperienza emotiva e allo stesso tempo riduce l’intensità delle
emozioni mostrate esternamente. In anni recenti sono comparsi numerosi studi che indagano le basi
neurofisiologiche e neuroanatomiche di questi processi di regolazione. Gran parte di questo interesse ha
tratto vantaggio dalle tecniche di neuroimmagine funzionale. Alcuni pattern di coattivazione indicano che la
corteccia prefrontale esercita un certo grado di controllo sul trigger emotivo, cioè l’amigdala.
Misurazione diretta → Probabilmente la tecnica più comune per determinare lo stato affettivo di una
persona è ascoltare quanto riferisce l’individuo stesso. Questa è una forma di misurazione diretta in cui i
partecipanti, in maniera esplicita, riportano le loro reazioni emozionali, l’umore o l’attitudine. Tuttavia, è un
metodo che risente delle convenzioni culturali e che si basa sull’introspezione.
comportamento. L’emozione può influenzare le nostre azioni e di conseguenza la rapidità con cui
rispondiamo inibendo o facilitando il comportamento. Un’altra tecnica di valutazione indiretta fa uso della
psicofisiologia, lo studio della relazione fra stati mentali e risposte fisiologiche. Uno degli aspetti principali in
cui le emozioni differiscono da altri processi mentali è che le emozioni generalmente provocano modificazioni
sostanziali nel nostro stato fisico. Un’emozione può essere misurata anche con le risposte riflesse e i
movimenti dei muscoli facciali. Le due principali misure sono comunque la conduttanza cutanea e
l’incremento del battito delle palpebre (ammiccamento). La risposta di conduttanza cutanea è un indicatore
dell’attivazione del sistema nervoso autonomo. La risposta alla conduttanza cutanea si misura ponendo due
elettrodi sulle dita del soggetto; gli elettrodi fanno passare una piccola quantità di corrente elettrica
attraverso la pelle. Si misurano le modificazioni nella resistenza della cute dovute alle variazioni di
sudorazione. Il riflesso di trasalimento, cioè la risposta che segue a uno stimolo improvviso che ci sorprende,
come un forte rumore inatteso, è un’altra variabile che può essere misurata. Il trasalimento è un riflesso che
può essere potenziato, facilitato, quando siamo in uno stato emotivo negativo.
CAPITOLO 5 – MEMORIA
La memoria a breve termine (MBT) è una forma di memoria che permette di trattenere
un’informazione per pochi secondi, cioè il tempo necessario a espletare un certo compito, per esempio
comporre un numero di telefono. Tuttavia, la MBT non è altro che uno dei moltissimi sistemi di memoria. La
memoria non è un sistema unitario. Già dalla fine del XIX secolo James propose una distinzione fra una
memoria primaria temporanea e una secondaria più durevole nel tempo. Nonostante ciò, nella metà del XX
secolo, l’opinione dominante all’interno della psicologia sperimentale era quella di un singolo sistema di
memoria. Nel 1949 Donald Hebb propose nuovamente una concezione della memoria a due componenti;
egli sostenne che potessero esistere due tipi di memoria, ma MBT, dipendente da un’attività elettrica
temporanea nel cervello, e la memoria a lungo termine (MLT) rappresentata da modificazioni neurochimiche
più durature. Il concetto di una memoria unitaria è stato definitivamente superato negli anni ’60, quando è
stata proposta una prima distinzione tra sistemi anatomo-funzionali che sottendono la MBT e sistemi che
invece sottendono la MLT. La prova più evidente a sostegno di questa dissociazione è la presenza di due tipi
di pazienti neuropsicologici, persone, cioè, che in seguito a un danno cerebrale presentano uno o più disturbi
cognitivi. Un danno a livello temporale mediale o diencefalico tipicamente si associa a un problema generale
di apprendimento e rievocazione di nuove informazioni sia verbali sia visive; tali pazienti, però, sono in grado
di ripetere sequenze di cifre immediatamente dopo la presentazione (è il cosiddetto “span” di cifre). Vi sono
invece pazienti con un comportamento opposto, associato a un danno delle regioni perisilviane di sinistra,
cioè le aree che circondano la scissura silviana. Tali pazienti sono in grado di ripetere solo una o due cifre
immediatamente dopo la presentazione, ma la capacità di apprendere e rievocare nuove informazioni a
distanza di tempo è normale. Questa doppia dissociazione suggerisce in modo molto netto l’esistenza di due
processi separati.
1. Il modello modale
Grande influenza ebbe il modello di Richard Atkinson e Richard Shiffrin, che divenne famoso come
modello modale. Questo modello assumeva tre tipi distinti di memoria. La componente più breve era
rappresentata da una serie di sistemi sensoriali che includevano una memoria sensoriale visiva, a volta
chiamata memoria iconica, e il suo equivalente sistema per l’immagazzinamento sensoriale acustico, la
memoria ecoica. Si riteneva che l’informazione fluisse da sistemi paralleli di memoria sensoriale verso un
singolo magazzino a breve termine. Quest’ultimo agiva come una memoria di lavoro a capacità limitata, il
magazzino a breve termine, che poteva conservare le informazioni, ma anche manipolarle; per questo era
considerato responsabile sia della codificazione dell’informazione nella MLT sia del successivo richiamo. La
capacità limitata del magazzino a breve termine quindi interagiva con la capacità maggiore del magazzino a
lungo termine. Di conseguenza, l’apprendimento a lungo termine dipendeva da entrambi i magazzini, a breve
e a lungo termine. L’oblio, secondo il modello di Atkinson e Shiffrin, avveniva per sostituzione delle vecchie
informazione da parte di nuove. In seguito, emersero due problemi: il primo concerneva l’apprendimento, in
quanto il modello proponeva che trattenere le informazioni nel magazzino a breve termine fosse sufficiente
per trasferirle in quello a lungo termine; più a lungo l’informazione veniva trattenuta, più alta era la
probabilità che fosse trasferita, con il risultato di un miglior apprendimento. Gli stimolo che sono elaborati
solo in termini di aspetto fisico sono ricordati poco, mentre quelli che sono ripetuti e quindi se ne elabora il
suono, sono ricordati meglio e infine quelli che sono codificati secondo il loro significato consentono la
prestazione migliore. Craik e Lockhart, su questa base, formularono la teoria dei livelli di elaborazione. In
sostanza, secondo questa teoria, il grado di apprendimento a lungo termine dipende dalla profondità e
ricchezza della codificazione en on dalla durata della permanenza nel magazzino a breve termine, come
avevano sostenuto Atkinson e Shiffrin. Un secondo problema del modello modale riguardava i dati
neuropsicologici. Se il magazzino a breve termine è uno stadio cruciale nell’apprendimento a lungo termine,
allora i pazienti con un deficit del sistema di immagazzinamento a breve termine dovrebbero mostrare anche
una compromissione nella MLT, cosa che invece non succede.
2. La memoria sensoriale
Il magazzino visivo è uno dei sistemi di memoria sensoriale coinvolti nella percezione del mondo
esterno. Un esempio è rappresentato dal persistere di una luminosità anche dopo che la luce è stata spenta,
il che implica che è stata immagazzinata. La natura di questo immagazzinamento è stata studiata da George
Sperling nel 1960.
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3. La memoria di lavoro
Nel 1974 Alan Baddeley e Graham Hitch hanno suggerito di sostituire al concetto unitario di MBT
proposto da Atkinson e Shriffrin quello di un sistema più complesso, a tre componenti, cui hanno dato il nome
di memoria di lavoro, per enfatizzare la sua importanza funzionale nei processi cognitivi, piuttosto che la
semplice capacità di immagazzinamento. Memoria di lavoro è perciò il termine che indica un sistema
cognitivo che permette il mantenimento temporaneo e la successiva elaborazione di informazioni nel
cervello; comprende un sistema di controllo attenzionale, l’esecutivo centrale, e due sottosistemi ausiliari, il
circuito fonologico e il taccuino visuospaziale. Il circuito fonologico manterrebbe l’informazione verbale in un
magazzino temporaneo; esso include 1) un magazzino che mantiene la traccia di memoria per pochi secondi,
e 2) un processo attivo di ripasso subvocale, il cosiddetto ripasso articolatorio. Quest’ultimo dipenderebbe
tanto da una vocalizzazione esplicita che da un’articolazione implicita. Il taccuino visuospaziale, invece, serve
per mantenere temporaneamente e manipolare le informazioni visive e spaziali. Il ripasso avviene
probabilmente coinvolgendo i movimenti oculari. Robert Logie ha proposto di distinguere una componente
visiva, che agisce come un magazzino passivo dove sono temporaneamente mantenute le informazioni
relative a pattern visivi statici, e una componente spaziale, che agisce come un meccanismo di ripasso
interattivo, che rinfresca l’informazione dinamica sui movimenti e le sequenze di movimenti. L’esecutivo
centrale, infine, è un sistema di controllo che disporrebbe di un quantitativo limitato di capacità di
elaborazione generale. Più di recente è stata introdotta una quarta componente al modello, il “buffer”
episodico. Quest’ultimo consisterebbe in un magazzino multimodale a capacità limitata, una specie di
interfaccia fra codici diversi che integra le informazioni provenienti dai due sottosistemi (visuospaziale e
verbale) con quelle provenienti dalla MLT e sarebbe accessibile consapevolmente. Differisce dalla MLT
perché l’informazione è comunque di natura temporanea. Il buffer episodico sarebbe importante per il
raggruppamento (chunking) dell’informazione in MBT. Il chunking trarrebbe vantaggio dalla presenza di
conoscenze precedenti da utilizzare appunto per raggruppare l’informazione in modo più efficiente e con ciò
favorire l’immagazzinamento e il richiamo.
Memoria a breve termine verbale o circuito fonologico → La MBT verbale occupa una parte relativamente
piccola della memoria di lavoro. Si tratta di un magazzino a capacità limitata, in cui la traccia mnestica è
temporanea e quindi è persa rapidamente. Il materiale è codificato secondo le sue caratteristiche fisiche.
Comprende due componenti: un magazzino fonologico “passivo” e un ripasso articolatorio “arrivo”. Ciascuna
delle due componenti della MBT determina un effetto specifico: informazioni che hanno un suono simile si
confondono nel magazzino fonologico e sono ricordate in maniera meno efficiente rispetto a stimoli che
hanno caratteristiche fisiche diverse. Il fenomeno per cui gli stimoli fonologicamente simili si confondono nel
magazzino a breve termine è chiamato effetto di somiglianza fonologica. Il ripasso articolatorio è
responsabile invece di un altro effetto, l’effetto di lunghezza delle parole. Stimoli verbali lunghi sono ricordati
meno bene rispetto a stimoli verbali brevi che impiegano meno tempo per essere ripassati. La capacità della
MBT verbale si misura con lo span verbale, che consiste nel numero di stimoli verbali, non correlati, che un
soggetto è in grado di ripetere correttamente nello stesso ordine immediatamente dopo la presentazione.
Lo span è dato dalla lunghezza della sequenza maggiore che un individuo è in grado di ripetere. La MBT
verbale è implicata nell’apprendimento di parole nuove, sia quando un bambino impara le parole della lingua
madre, sia quando un adulto apprende parole di una lingua straniera. Il magazzino fonologico è
rappresentato nella parte inferiore del lobo parietale sinistro, che prende il nome di giro sovramarginale. Il
ripasso articolatorio avrebbe sede nella parte inferiore e posteriore del lobo frontale di sinistra, indicata come
area di Broca.
tali oggetti possono cambiare posizione nel tempo. Ciò suggerisce che possiamo distinguere componenti
visive statiche e componenti dinamiche. Le informazioni riferite a pattern visivi statici sarebbero
immagazzinate nel “visual cache”, mentre i pattern spaziali dipenderebbero dall’ “inner scribe”. Le
componenti visive e spaziali sono state messe in relazione con il sistema di immagine visiva e con la
rappresentazione e pianificazione del movimento. A livello generale sembra che più spesso siano lesioni
dell’emisfero destro a essere associate a deficit di memoria visuospaziale.
Modelli di memoria di lavoro “a processi incassati” → Negli anni ’90 sono stati proposti modelli alternativi
di memoria di lavoro, contrapposti a quelli “a magazzini”. Il modello a magazzini più autorevole è il modello
di Baddeley e Hitch. I modelli unitari considerano che le informazioni siano immagazzinate solo in una MLT.
Risorse attentive di capacità limitata manterrebbero queste rappresentazioni attivate fino a che sono utili
per lo svolgimento di un compito in atto. La memoria di lavoro è quindi concepita come la parte attivata dalla
MLT e per questo è considerata “incassata” all’interno della MLT.
ricordo perché i processi di attenzione e di elaborazione sono alterati. Una struttura in particolare nel lobo
temporale mediale, che prende il nome di ippocampo, lega i molteplici aspetti dell’informazione in una
rappresentazione mnestica integrata. Il terzo fattore che influenza la codifica è l’apprendimento distribuito.
Nel 1880 un filosofo tedesco, Hermann Ebbinghaus, ebbe l’idea, rivoluzionaria per l’epoca, che la memoria
potesse essere studiata sperimentalmente e cominciò a testare se stesso. Provò a vedere qual era il suo
apprendimento di sequenze di sillabe senza senso, che potevano essere pronunciate ma non avevano alcun
significato. Durante l’apprendimento evitava accuratamente di fare associazioni con parole note e si auto-
testava sempre alla stessa ora del giorno. Questo noiosissimo esperimento servì a dimostrare che la quantità
di materiale appreso dipende dal tempo che si dedica all’apprendimento. Tuttavia, il tempo totale necessario
per l’apprendimento non è costante, perché il tempo dedicato il primo giorno permette di risparmiare quello
successivo. La fase successiva del processo di apprendimento è costituita dal consolidamento. Una volta
codificate, le informazioni attraversano una fase in cui diventano più stabili e (forse) indipendenti dal lobo
temporale mediale. Il consolidamento si riferisce all’idea che i processi neurali, dopo la registrazione iniziale
dell’informazione, contribuiscono all’immagazzinamento permanente del ricordo. Tuttavia, l’opinione che i
ricordi, una volta consolidati, siano indipendenti dal lobo temporale mediale e più precisamente
dall’ippocampo, non è accettata unanimemente. Esistono due teorie contrapposte: secondo il modello
standard, il consolidamento inizia quando l’informazione, registrata nella neocorteccia, è trasformata in una
traccia dall’ippocampo e dalle strutture correlate. Il legame in una traccia di memoria coinvolge un
consolidamento o coesione a breve termine che si completa in pochi secondi o al massimo decine di minuti.
A questo punto comincia un processo di consolidamento a lungo termine. All’inizio l’ippocampo e le strutture
correlate sono necessari, ma poi il loro contributo diminuisce man mano che il consolidamento procede.
Secondo la cosiddetta teoria della traccia multipla invece, l’ippocampo continuerebbe a essere necessario
per la riattivazione delle tracce di memoria e ogni volta che si riattiva una traccia mnestica si forma una nuova
traccia. Tuttavia, l’aspetto più importante nella memoria è poter accedere ai ricordi consolidati attraverso il
richiamo o recupero. Un’esperienza molto comune è quella di sapere qualcosa, ma di non riuscire ad avere
accesso all’informazione. Sicuramente immagazziniamo molte più informazioni di quante riusciamo a
rievocarne. Il richiamo delle informazioni è un evento che può essere avviato da un singolo indizio.
Sicuramente è più facile richiamare informazioni “archiviate” in maniera ordinata. Il metodo permette di
ricordare anche parole che in un primo tempo si erano dimenticate. In ogni caso la traccia e il suggerimento
devono essere collegati in modo che la traccia sia convertita in ricordo. Il concetto di suggerimento è stato
introdotto da Endel Tulving. I ricordi episodici sono codificati legando insieme i vari aspetti di un evento in
una rappresentazione integrata, cosicché un ricordo episodico consiste nell’insieme di tratti connessi tra loro.
Ciascuno di questi tratti può aprirci la strada verso la rievocazione. La parte mediale del lobo temporale è
cruciale per questa integrazione di elementi. Il richiamo episodico però non richiede solo l’intervento del lobo
temporale mediale. Un importante contributo è dato dai lobi frontali. Le aree prefrontali sono importanti nel
pianificare la rievocazione, perché selezionano le strategie adeguate per facilitare il richiamo. Infine, questa
regione cerebrale è importante nella valutazione o nel monitoraggio delle informazioni rievocate, permette
cioè di valutare la qualità e la quantità di ciò che si è ricordato. Tuttavia, esiste un altro elemento rilevante, il
contesto. Il fenomeno della dipendenza dal contesto è illustrato in maniera chiara da un esperimento
condotto su un gruppo di sommozzatori. Infine, anche il tono dell’umore influenza la rievocazione. Abbiamo
parlato di rievocazione libera e di riconoscimento. Nel primo caso il compito del soggetto è richiamare
un’informazione appresa in precedenza; nel secondo si tratta della capacità di giudicare come familiare un
determinato stimolo. Nel 1985 Tulving ha distinto due tipi di riconoscimento, identificati come ricordo
(recollection) e conoscenza o familiarità: quando uno stimolo comporta una rievocazione dell’episodio
durante il quale è stato appreso o comunque incontrato, si parla di ricordo (recollection); se invece non si è
in grado di evocare l’episodio di apprendimento, ma si sa solo di avere già incontrato un dato stimolo, si parla
di conoscenza o familiarità. La recollection è un processo più lento, che richiede uno sforzo attivo da parte
del soggetto; inoltre dipende dal livello di attenzione al momento della codifica e del richiamo.
6. La memoria autobiografica
Con questa espressione ci si riferisce ai ricordi che riguardano noi stessi e i nostri rapporti con il
mondo che ci circonda. In realtà la memoria autobiografica non è un sistema separato, ma include sia una
componente semantica sia una episodica. La memoria autobiografica quindi coinvolge entrambi gli aspetti
della memoria dichiarativa, rappresentati dagli eventi che ci sono capitati (memoria episodica) e dalle
informazioni su noi stessi (memoria semantica). La memoria autobiografica ha un’importanza fondamentale
per creare una rappresentazione del Sé, per le emozioni e per l’esperienza dell’essere umano. Secondo
Conway, i ricordi autobiografici sono costruzioni mentali dinamiche transitorie basate su una conoscenza
autobiografica di base. Un elemento essenziale dei ricordi autobiografici è la struttura gerarchica,
rappresentata da una serie di eventi generali della vita, legati a un numero di temi ampi, come il lavoro e le
relazioni personali. Questi a loro volta si suddividono in diversi periodi della vita. I periodi della vita
identificano un inizio e una fine e il loro contenuto comprende un numero di eventi generali, che possono
includere individui o luoghi oppure attività. Questi sono ancora espressi in maniera relativamente astratta
ma poi possono portare alla rievocazione di episodi specifici. Questi ricordi a loro volta possono essere stati
immagazzinati a un livello ancora più profondo contente informazioni percettive dettagliate. Nel richiamare
un evento, è proprio il dettaglio sensoriale che generalmente ci convince che il ricordo è assolutamente
corretto. Il processo di richiamare questi dettagli e di riconoscerli come familiari è basato sulla coscienza
autonoetica, cioè la capacità di riflettere sui propri pensieri. L’accesso a questi eventi dettagliati richiede
alcuni secondi e non è immediato come l’accesso alla memoria semantica. Cornway propone l’esistenza di
un Sé di lavoro (working self). Il Sé di lavoro comprende un insieme complesso di obiettivi, modula l’accesso
alla MLT ed è a sua volta influenzato dalla MLT. Il Sé di lavoro è un modo di codificare quello che è, quello
che è stato e quello che sarà, ma per essere efficace deve essere coerente con la realtà circostante. Quando
questo legame si perde, si verificano problemi come le confabulazioni o i deliri.
7. L’oblio
Ancora una volta fu Ebbinghaus a studiare su se stesso come si dimenticano le informazioni. L’oblio
è rapido all’inizio ma gradualmente rallenta, con un andamento logaritmico. Esistono due teorie tradizionali
sull’oblio. La prima sostiene che le tracce di memoria sostanzialmente “impallidiscono” o si deteriorano,
diventando quasi indistinguibili, come un dipinto che esposto al sole a poco a poco perde i suoi colori originali.
La seconda teoria suggerisce invece che l’oblio ha luogo perché le tracce mnestiche sono oscurate dalle
informazioni apprese successivamente, e cioè le nuove informazioni interferiscono con le precedenti. I dati
sperimentali fanno propendere per questa seconda possibilità e cioè per il ruolo dell’interferenza. L’oblio di
vecchie informazioni causato dall’arrivo di nuove è chiamato interferenza retroattiva: il termine “retroattiva”
significa che il materiale nuovo sopravanza quello vecchio. Bisogna però precisare che esiste anche
l’interferenza proattiva o inibizione proattiva quando la vecchia traccia lotta per riprendere il suo posto. Le
due forme di interferenza ci mostrano che le nostre esperienze tendono a interagire, con il risultato che
difficilmente il ricordo di un evento è completamente isolato da quello di altri.
Le illusioni di memoria → L’oblio è un fenomeno familiare a ciascuno di noi, ma esiste un altro aspetto più
curioso: ricordi che ci sembrano chiari possono non esistere o comunque essere distorti. Anche episodi
eccezionalmente vividi, a forte contenuto emozionale, non sono immuni da distorsioni. Lo studio delle
illusioni percettive e mnestiche in psicologia è iniziato alla fine del XIX secolo. Frederic Bartlett, in un popolare
libro del 1932 dal titolo Remembering, ha ipotizzato che, siccome non si ricorda necessariamente tutta
l’esperienza, ma solo l’argomento generale, la rievocazione diventa un processo ricostruttivo organizzato per
schemi o temi generali, poi completati/riempiti con dettagli che possono anche essere sbagliati. In
particolare, i soggetti tendono a razionalizzare i ricordi: se un evento presenta degli aspetti non ben
strutturati, chi lo rievoca rende a organizzarlo secondo le proprie conoscenze. La codifica verbale ha un ruolo
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cruciale sull’immagine visiva. I ricordi di eventi passati sono costituiti da un insieme di tratti registrati
attivamente durante la codifica. Ricordare un certo evento coinvolgerà la riattivazione delle componenti che
costituiscono il ricordo desiderato. Se i tratti dell’evento sono legati in modo inadeguato può esserci un deficit
nell’identificare la fonte del ricordo: in questo caso il soggetto non ricorda la situazione in cui l’evento è stato
memorizzato. Il secondo problema, al momento della codifica, è quello di mantenere le rappresentazioni di
eventi diversi distinte fra loro. Se la “forma complessiva” di ciascun evento non è codificata in modo ben
distinto da quella di altri, sarà difficile rievocare le informazioni specifiche che servono a distinguere un
evento da altri simili. Allora, durante la rievocazione bisogna mettere a fuoco l’episodio specifico che si
desidera richiamare. Vi sono diversi fattori responsabili delle distorsioni nei ricordi. Tra questi vi sono i
cosiddetti effetti di relazione. Se voglio rievocare un ricordo, la memoria semantica ha un effetto su quella
episodica. Per esempio, un brano di prosa che presenti delle incongruenze sarà reinterpretato in base alle
conoscenze che una persona ha del mondo, si avrà cioè un fenomeno di razionalizzazione. E’ possibile fare
anche delle implicazioni pragmatiche, per cui si ricordano informazioni mai presentate, che potremmo avere
implicitamente considerato come conseguenti all’evento. Una terza possibilità è che si riconoscano come già
esperiti eventi associati a quelli che si sono effettivamente verificati. Tale tipo di risposta è indicata come IAR
(risposta associativa implicita). Un analogo meccanismo avviene per associazione percettiva, per esempio
con parole associate fonologicamente. Questi falsi riconoscimenti sono un errore nel cosiddetto
monitoraggio della risposta. Un altro meccanismo che distorce il ricordo è l’interferenza. Quanto più due
eventi a breve distanza sono simili, tanto più si confonderanno fra loro. Al contrario del meccanismo
precedente (effetto di relazione), in questo caso è la memoria episodica a interferire su quella semantica.
L’apprendimento episodico (nomi nuovi appresi) interferisce con la memoria semantica (nomi di personaggi
famosi). L’immaginazione è un’altra fonte di distorsione. Spesso per ricordare meglio si costruiscono
immagini mentali. Tuttavia, l’immagine può anche essere fonte di illusioni di memoria. Infine, il modo in cui
sono poste le domande è determinante nell’influenzare la rievocazione. Una rievocazione libera, senza
domande specifiche, è più esente da distorsioni rispetto a quando le richieste sono specifiche. Un secondo
meccanismo che provoca distorsioni è quando si prova a rievocare più volte un evento che non si è mai
verificato, perché aumenta la probabilità che in futuro sia rievocato ancora, come se fosse realmente
avvenuto. Addirittura, si è osservato che è più probabile rievocare un evento che non si è mai verificato di
uno realmente accaduto, aumentandone il numero di rievocazioni. Nel cercare di rievocare un evento si può
anche procedere per tentativi. I fattori sociali, infine, rappresentano un elemento che influenza i falsi ricordi.
Per esempio, se si somministrano delle prove di memoria a coppie di soggetti, i falsi riconoscimenti effettuati
da quello che risponde per primo, saranno confermati dal secondo. Questo fenomeno è maggiore per i falsi
ricordi che non per quelli veri. Esistono poi differenze individuali nel produrre falsi riconoscimenti. I più
esposti sono i bambini e gli anziani.
Componenti emozionali della memoria → Le emozioni possono essere un fattore importante per la
memoria. Quando si domanda a un depresso di rievocare ricordi autobiografici, tende a ricordare eventi
infelici: più un individuo è depresso, più rapidamente rievoca esperienze spiacevoli. Uno stimolo appreso con
un certo umore è ricordato meglio quando si è nello stesso umore. La valenza emotiva può essere una
caratteristica del materiale da ricordare o un tratto dello stato psicologico in cui si trova chi deve ricordare.
Alcune ricerche hanno dimostrato che gli stimoli a contenuto emozionale tendono a essere rievocati meglio
di quelli neutri, siano essi eventi, parole o figure. Al momento della codifica, lo stato emotivo di chi si forma
il ricordo può interagire con il contenuto emozionale del materiale e influire su quanto sarà appreso. Questo
effetto è conosciuto come “apprendimento congruente con il tono dell’umore”, quando il contenuto
emozionale del materiale da apprendere è in accordo con lo stato emotivo di chi apprende, ed è ricordato
meglio rispetto alla condizione “Incongruente con il tono dell’umore”, nella situazione opposta. Al momento
della rievocazione ci sono due effetti distinguibili: il primo coinvolge l’interazione fra lo stato emotivo
esistente al momento della codifica e lo stato attuale, quando si deve rievocare; gli effetti di questa
interazione sono noti come “rievocazione dipendente dal tono dell’umore”. Il secondo effetto presente in
fase di richiamo riguarda l’interazione fra lo stato emotivo attuale e il contenuto emozionale del ricordo;
l’effetto di questa interazione è noto come “rievocazione congruente con il tono dell’umore”, quando il
contenuto emozionale dei ricordi, concordando con lo stato attuale, ne favorisce la rievocazione. La
rievocazione è incongruente con l’umore quando vi è contrasto fra contenuto e stato emotivo al momento
del richiamo. Di recente vi è qualche indicazione che l’amigdala (un piccolo nucleo posto anteriormente
all’ippocampo, simile a una mandorla, da cui il nome) abbia un ruolo nella memoria emozionale, in particolare
nelle fasi iniziali di consolidamento. L’amigdala nell’uomo influenza l’elaborazione di stimoli emotivi sia
positivi sia negativi.
Condizionamento classico → Ivan Pavlov, un grande psicologo russo della seconda metà del XIX secolo
identificò il fenomeno del condizionamento classico. L’esperimento più noto da lui condotto fu quello in cui
un cane udiva il suono di un campanello (stimolo condizionato) immediatamente seguito dalla presentazione
del cibo (stimolo incondizionato). La presentazione del cibo provocava la salivazione (risposta
incondizionata). Dopo un certo periodo in cui il suono del campanello era associato alla presentazione del
cibo, il suono da solo determinava la salivazione, cioè una risposta condizionata identica a quella
incondizionata prodotta dalla presentazione del cibo. Questo fenomeno, il cosiddetto condizionamento
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classico, comporta l’associazione ripetuta fra uno stimolo condizionato e uno incondizionato. Le due
condizioni principali per creare l’associazione fra stimolo e risposta sono la contiguità temporale tra i due
stimoli, cioè che siano presentati ravvicinati, e il fatto che la connessione fra i due stimoli sia ripetuta un
numero sufficiente di volte. Inoltre, maggiore è la frequenza, maggiore sarà l’intensità della risposta
condizionata; si ha cioè un rafforzamento. Al contrario, se si omette di presentare lo stimolo incondizionato,
la risposta condizionata perde intensità e scompare: si ha cioè estinzione. La risposta condizionata, tuttavia,
può essere recuperata spontaneamente: infatti tende a riapparire anche senza presentazione di uno stimolo
incondizionato. Infine, la risposta condizionata può essere generalizzata, perché può comparire anche per un
suono diverso da quello che ha determinato il condizionamento. Allo stesso modo, si può evitare la
generalizzazione, presentando la carne solo quando il suono del campanello è di un certo tipo, mentre
quando il suono è diverso il cane non riceve carne. In quel caso l’animale impara a discriminare fra suoni
diversi. Un’altra caratteristica dei riflessi condizionati è il cosiddetto effetto Garcia, cioè il processo attraverso
cui un individuo acquisisce l’avversione per un dato sapore: se un animale ingerisce un cibo che gli provoca
malessere non lo assaggerà più; l’associazione rimane per lungo tempo e indica una selettività
dell’associazione. Il condizionamento classico permette di comprendere certi comportamenti emozionali. Per
esempio, se si è stati vittima di un incidente automobilistico è facile sentirsi a disagio quando ci si trova nel
punto in cui ha avuto luogo l’incidente. L’associazione fra il luogo prima neutrale e l’evento negativo provoca
una risposta di attivazione e una sensazione di nervosismo legata al luogo. Il condizionamento classico
emozionale può manifestarsi come condizionamento autonomo ed esprimersi con risposte corporee.
Alternativamente si può avere un condizionamento valutativo che si esprime attraverso una proferenza o
un’attitudine. Il condizionamento valutativo è una forma di condizionamento pavloviano. Si tratta di una
modificazione nella valenza di uno stimolo (l’effetto), dovuta all’aver associato quello stimolo (lo stimolo
condizionato) con un altro positivo o negativo (lo stimolo incondizionato). Generalmente uno stimolo
condizionato diventa più positivo se associato a uno stimolo incondizionato positivo e più negativo se avviene
il contrario.
Condizionamento operante o strumentale → Nel condizionamento operante i legami dipendono anche dagli
effetti conseguenti alla risposta (legge dell’effetto). Il precursore dello studio di questo tipo di
condizionamento fu Thorndike, il cui esperimento consisteva nel chiudere un gatto in una gabbia da cui
l’animale cercava di uscire procedendo per tentativi ed errori; il metodo efficace per uscire dalla gabbia era
premere una leva. Il gatto, con il trascorrere del tempo, ripeteva le risposte corrette e via via abbandonava
quelle sbagliate e, dopo la prima volta, apriva la gabbia con sempre maggiore rapidità. Skinner riprese le
ricerche di Thorndike, sviluppandole ulteriormente: se si chiude un animale in una gabbia in cui è presente
una leva e il premere la leva ha un effetto positivo (per esempio l’animale riceve del cibo) nel giro di una
decina di minuti l’azione diventerà sempre più frequente. Alternativamente premere la leva può anche
interrompere una situazione sgradevole, come la somministrazione di una scossa elettrica. In entrambi i casi,
premere la leva ha prodotto un rinforzo, positivo nel caso in cui l’animale riceva del cibo, negativo nel caso
in cui cessi la scossa. In entrambi i casi quel particolare tipo di comportamento dell’animale aumenta. Al
contrario, se premere una leva ha una conseguenza negativa, il comportamento diverrà sempre meno
frequente e del tutto casuale, cioè della stessa frequenza di altri comportamenti dell’animale. IN questo caso
la conseguenza ha agito da punizione. La conseguenza agisce da rinforzo, aumentando la frequenza del
comportamento se è positiva. Il rinforzo va distinto dalla punizione: infatti, il rinforzo negativo, come quello
positivo, ha lo scopo di aumentare la frequenza di un comportamento. Al contrario la punizione consiste nel
provocare una situazione spiacevole con lo scopo di diminuire un comportamento. I rinforzi possono essere
di due tipi: primari e secondari. I rinforzi primari soddisfano i bisogni primari di un soggetto, come la fame, la
sete, il sonno, e così via. I rinforzi secondari, invece, sono degli intermediari fra il comportamento e il rinforzo
primario. Per esempio, il denaro serve a procurarsi cibo e quindi è un rinforzo secondario. I principi del
condizionamento operante sono alla base di molti comportamenti umani. Per esempio, alcuni
comportamenti a contenuto emozionale sono appresi attraverso questo meccanismo. Il condizionamento
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operante è utilizzato inoltre in molti trattamenti neuropsicologici, come nei disturbi del comportamento
dovuti a lesione del sistema nervoso, in particolare della regione prefrontale, osservati in seguito a trauma
cranico, a danno vascolare o a tumore. Il comportamento è modificato tramite l’utilizzo di rinforzi che
favoriscono il comportamento adeguato o punizioni che riducono quello patologico. Le tecniche di
riabilitazione neuropsicologica sfruttano anche un altro aspetto del condizionamento operante studiato da
Skinner, la tecnica del modellamento (shaping). L’esperimento di Skinner consiste nel dare del cibo
all’animale ogni volta che si avvicina alla parte della gabbia dove si trova la leva, rinforzando così il processo
di avvicinamento. In tal modo l’apprendimento della risposta corretta avviene più rapidamente per
successive approssimazioni. Skinner addirittura considerò anche il linguaggio come determinato dal
condizionamento operante, costituito cioè da una serie di risposte operanti create nel bambino da genitori,
insegnanti e adulti più in generale.
Basi neurali → Le basi neurali della ricompensa, cioè del rinforzo, sono rappresentate da un sistema di
neuroni che utilizza una sostanza (neurotrasmettitore) che si chiama dopamina. I neuroni cosiddetti
dopaminergici, che cioè producono la dopamina, sono localizzati a livello della sostanza nera che si trova nel
mesencefalo e rilasciano la dopamina a livello dello striato.
programmazione dei movimenti; movimenti che saranno poi eseguiti per l’intervento dell’area motoria
primaria. Anche le conseguenze legate a lesioni all’area premotoria provocano deficit di motricità che non
rientrano nella sindrome frontale. La parte più anteriore del lobo frontale comprende diverse aree, dette
aree prefrontali, che sono di solito raggruppate in aree prefrontali dorso-laterali, aree prefrontali ventro-
mediali e aree prefrontali orbitali. È la lesione delle aree prefrontali che provoca quei deficit in genere indicati
con l’espressione “sindrome frontale”. La sindrome frontale è nota dal 1848, quando, in seguito a un
incidente sul lavoro Phineas Gage divenne, suo malgrado, famoso. Gage fu colpito da una sbarra di metallo
che gli attraversò entrambi gli emisferi. Sopravvisse e, col tempo, mostrò un completo recupero fisico e anche
intellettuale; tuttavia il suo comportamento mostrò cambiamenti sorprendenti. Prima dell’incidente era un
grande lavoratore, tranquillo e fidato. Dopo l’incidente diventò irresponsabile, impulsivo e molto aggressivo.
Il medico che lo aveva seguito propose l’esistenza di un legame di causa ed effetto fra la sede frontale della
lesione e l’apparente mancanza di controllo nelle relazioni sociali. Questa ipotesi fu confermata nel 1940 da
Hebb e Penfield, che osservarono come i pazienti con lesioni alle aree prefrontali ricevessero punteggi
normali nei test di intelligenza ma non riuscissero a condurre una vita normale. L’impressione che se ne ricava
era che in questi pazienti i processi cognitivi fossero intatti ma che fosse andata perduta l’abilità di
controllarli, organizzarli e di eseguirli nella sequenza corretta. L’ovvia ipotesi che ne conseguiva era che le
aree prefrontali fossero il substrato neurale di questi processi di controllo e di pianificazione e che le lesioni
delle aree prefrontali le compromettessero, producendo la sindrome frontale. La logica che guida il tentativo
di individuare e determinare le funzioni esecutive è abbastanza dubbia. Se un test segnala un deficit selettivo
in pazienti con lesioni alle aree prefrontali, allora quel test saggia una funzione esecutiva. In base alle
caratteristiche del test, è possibile ipotizzare di quale funzione esecutiva si tratti. In modo abbastanza
circolare, poi, si usa quel test in neuropsicologia clinica per individuare in un paziente un deficit di quella
funzione esecutiva.
Il compito Stroop → Nella sua versione più nota, il compito Stroop prevede la presentazione di nomi di colori,
i nomi sono mostrati scritti in caratteri colorati e il compito del partecipante è di pronunciare a voce alta, il
più rapidamente possibile, il colore con il quale è scritta la parola, ignorando la parola stessa. Ci sono
condizioni congruenti e incongruenti. I partecipanti normali rispondono più lentamente nella condizione
incongruente e commettono anche qualche errore. La spiegazione più accettata della compromissione della
prestazione nella condizione incongruente è che, in essa, l’esecuzione della risposta corretta richiede
l’inibizione della possibile risposta non corretta (la lettura della parola). Il processo di inibizione richiede
tempo e può anche fallire. I pazienti con lesioni delle aree prefrontali dimostrano TR eccezionalmente lenti
nella condizione incongruente e, in questa condizione, commettono un grande numero di errori. Ecco che la
capacità di inibire le risposte non corrette è inclusa fra le funzioni esecutive. Le ricerche di neuroimmagine
hanno esplorato quali siano le strutture neurali coinvolte nel compito Stroop. Si può dire che i processi di
controllo dipendono da strutture neurali localizzate anteriormente nel cervello (aree prefrontali dei lobi
frontali), mentre i processi che sono assoggettati a controllo dipendono da strutture neurali localizzate più
posteriormente (aree premotorie e motorie dei lobi frontali, lobi temporali, lobi parietali e lobi occipitali).
Il compito di compatibilità spaziale S-R → Il compito di compatibilità spaziale stimolo-riposta (S-R) è un test
delle funzioni esecutive, concettualmente simile al compito Stroop, che è diventato di impiego assai
frequente negli ultimi anni. Nella sua versione più comune, uno stimolo è presentato sul lato destro o sinistro
di uno schermo. Nella condizione compatibile, il partecipante risponde allo stimolo di sinistra premendo un
pulsante posto a sinistra e allo stimolo di destra premendo il pulsante posto a destra. Nella condizione
incompatibile, invece, le istruzioni sono di rispondere con il pulsante di sinistra se lo stimolo compare a
destra. I TR sono più lenti e gli errori sono più numerosi nella condizione incompatibile che nella condizione
compatibile. È di grande interesse il fatto che l’effetto di compatibilità si osservi anche quando la posizione
nella quale compare lo stimolo non è rilevante per l’esecuzione del compito. Nonostante la posizione della
luce sia irrilevante ai fini dello svolgimento del compito, le risposte sono più rapide e più accurate quando lo
stimolo appare dalla stessa parte della risposta che dalla parte opposta. L’effetto di compatibilità si verifica
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perché la comparsa dello stimolo provoca automaticamente l’attivazione della risposta spazialmente
corrispondente. Al contrario, nella condizione incompatibile, la risposta che si attiva automaticamente è
opposta rispetto a quella richiesta dal compito, e perciò, deve essere inibita. Questo processo inibitorio
richiede tempo e rallenta la risposta nella condizione incompatibile. L’inibizione delle risposte errate è una
delle funzioni esecutive che viene compromessa da lesioni delle aree prefrontali.
Il compito go/no-go → Un test classico di inibizione di una risposta è il compito go/no-go, che fu introdotto
a metà circa del XIX secolo da Donders. Ai partecipanti vengono presentati, uno alla volta, degli stimoli, per
esempio delle lettere dell’alfabeto, e le istruzioni sono di rispondere, premendo un pulsante, a tutte le lettere
ad eccezione di una, alla quale non si deve rispondere. Se F viene presentata infrequentemente, quando
finalmente compare, il partecipante deve inibire una tendenza a rispondere. Man mano che la sequenza di
prove del tipo “go” si allunga, più forte diventa la tendenza a rispondere e più forte diventa l’inibizione che
va esercitata per evitare di rispondere.
Il compito del segnale di stop → In una versione del compito “segnale di stop” (“stop-signal”), proposto per
la prima volta da Logan, i soggetti devono eseguire un compito di TR in risposta a degli stimoli, acustici o
visivi; quando, però, dopo lo stimolo, viene presentato un segnale di stop, la risposta non deve essere
eseguita. Un aspetto cruciale del compito con segnale di stop è il ritardo con il quale il segnale di stop è
presentato rispetto allo stimolo che comanda la risposta. Più lungo è il tempo che trascorre fra lo stimolo e
il segnale di stop, più si è sviluppato il processo di preparazione della risposta e più difficile risulta
interromperlo. Di conseguenza, più alto è il ritardo del segnale di stop, più probabile è che il partecipante
commetta un errore e risponda. È chiaro che il riuscire a trattenere la risposta anche quando il ritardo del
segnale è lungo indica una buona efficacia del processo inibitorio. Perciò il compito del segnale di stop è un
ottimo test dell’inibizione come funzione esecutiva.
La “flessibilità cognitiva” è un’abilità cruciale perché ci permette di adattarci all’ambiente circostante. Una
risposta che era perfettamente accettabile in una certa situazione, diventa non accettabile quando le
condizioni ambientali cambiano anche di poco. Perciò, la capacità di modificare rapidamente i criteri che
guidano le nostre risposte è una delle principali funzioni esecutive.
Il compito “Wisconsin Card Sorting” → Il compito “Wisconsin Card Sorting” è un test molto noto per valutare
il danno delle aree prefrontali e saggia un’altra funzione esecutiva. Inizialmente di fronte al partecipante sono
poste quattro carte, ognuna caratterizzata da un valore di tre attributi dei semi: numero, colore e forma. Poi,
il soggetto prende da un mazzo di carte simili una carta alla volta e deve accoppiarla a una delle quattro carte
iniziali. Per fare ciò può usare il numero dei semi, oppure il loro colore o, ancora, la loro forma. Non gli viene
detto, però, quale sia il criterio da usare, ma soltanto “giusto” o “sbagliato” dopo che la scelta è stata fatta.
Quando il soggetto ha indovinato il criterio da usare per la classificazione, l’esaminatore cambia criterio senza
informarlo. Perciò la scelta che, fino ad allora aveva ricevuto la risposta “giusto”, inaspettatamente riceve la
risposta “sbagliato”. Perciò è necessario stabilire, per prove ed errori, quale sia il criterio da impiegare. I
pazienti con lesioni alle aree prefrontali scoprono il primo criterio in un numero di prove uguale a quello
necessario ai soggetti di controllo. Hanno, però, rispetto ai controlli, grosse difficoltà quando si tratta di
cambiare criterio. Chiaramente i pazienti mancano di flessibilità nel passare da un processo cognitivo a un
altro. Questo sintomo è indicato con il termine di “perseverazione” e la sua presenza è uno dei segni più sicuri
di sindrome frontale. La flessibilità nel cambiare criterio a seconda delle necessità del compito è inclusa fra
le funzioni esecutive. L’organizzazione e la pianificazione di sequenze di processi cognitivi è un’altra funzione
esecutiva.
Il compito della Torre di Hanoi → Il compito della “Torre di Hanoi” è una versione semplificata della nota
Torre di Londra. Richiede l’uso di tre pioli e di tre anelli di diametro diverso. All’inizio i tre anelli sono infilati
sul primo piolo e il compito del partecipante è quello di spostarli tutti sul terzo piolo, muovendo un solo
anello alla volta ed evitando di porre un anello sopra uno più piccolo. Il compito può essere eseguito nel
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numero minimo di mosse solo se le mosse stesse sono prima pianificate. I pazienti con lesioni delle aree
prefrontali impiegano, invece, un numero eccessivo di mosse e dimostrano, perciò, un deficit di
organizzazione e pianificazione di una sequenza di processi cognitivi. L’organizzazione e la pianificazione di
sequenze di processi cognitivi sono fatte rientrare, perciò, fra le funzioni esecutive. L’importanza della
codifica sequenziale di una serie di elementi è sottolineata da una ricerca di Brenda Milner. A un gruppo di
pazienti con lesioni frontali e a un gruppo di pazienti con lesioni temporali furono presentate coppie di
cartoncini, ciascuna contenente una parola scritta. Di tanto in tanto le due carte erano presentate con un
punto interrogativo posto fra loro. Quando compariva il punto interrogativo, il compito del paziente era di
indicare quale delle due parole era stata presentata più recentemente nella sequenza. I pazienti con lesioni
frontali dimostravano un deficit nel compito di memoria per l’ordine, mentre i pazienti con lesioni temporali
dimostravano un deficit di memoria a breve termine. I pazienti con lesioni delle aree prefrontali incontrano
molte difficoltà soprattutto quando devono produrre una sequenza nuova. In una ricerca riferita da Smith e
Kosslyn ai partecipanti veniva chiesto di spiegare i passi necessari a compiere azioni di routine, oppure a
compiere azioni nuove. Esistono molte sequenze altamente familiari. Schank e Abelson introdussero il
termine di “script” per indicarle. Nonostante la loro complessità, soggetti normali non incontrano particolari
problemi a produrre anche sequenze non molto familiari. I pazienti con lesioni delle aree prefrontali
incontrano, invece, grandi difficoltà con le sequenze nuove. Fra le funzioni esecutive è da includere anche
quella che permette di “monitorare” (monitoring) il contenuto delle rappresentazioni interne o anche di
monitorare la propria prestazione durante l’esecuzione del compito stesso. Per quanto riguarda il primo
aspetto, è spesso impiegato un compito di controllo del contenuto della memoria di lavoro, introdotto da
Petrides e colleghi. Nella prima prova del compito vengono presentati su un cartoncino sei disegni di oggetti
noti, e il partecipante ne indica uno. Nella seconda prova sono ripresentati gli stessi sei elementi ma in un
ordine diverso e il partecipante deve indicarne uno, che non sia quello già indicato nella prima prova. Nella
terza prova sono ripresentati gli stessi sei elementi in un ordine ancora diverso e il partecipante deve
indicarne uno che non sia fra quelli già indicati. Si procede così per sei prove. L’idea è che il compito sia
eseguito depositando in memoria di lavoro la prima scelta; poi, prima della seconda scelta, viene controllato
il contenuto della memoria di lavoro, per evitare di commettere un errore scegliendo di nuovo l’oggetto già
scelto. La seconda scelta è pure depositata in memoria di lavoro, che poi viene controllata al momento della
scelta successiva. Poiché sei elementi sono certamente entro i limiti di capacità della memoria di lavoro, la
prestazione dipende dalla capacità di monitorare il suo contenuto. I soggetti normali non hanno problemi
nello svolgere il compito, purché il numero di elementi resti entro i limiti di capacità della memoria di lavoro.
I pazienti con lesioni delle aree prefrontali, invece, hanno una prestazione inferiore a quella dei partecipanti
sani o dei pazienti con lesioni cerebrali più posteriori. Un altro compito che richiede il monitoraggio dei
contenuti della memoria di lavoro è quello della produzione di una serie casuale di elementi, in genere
numeri. Al partecipante può essere detto di produrre una serie casuale di, per esempio, 8 numeri composti
da una cifra. La maggior parte delle persone è, erroneamente, convinta che una sequenza casuale non possa
contenere ripetizioni o regolarità di qualche tipo. Nel produrre la sequenza casuale, i partecipanti
cercheranno, perciò, di ottemperare a queste false credenze e per farlo dovranno controllare il contenuto
della memoria di lavoro. Uno studio di neuroimmagine ha mostrato che, durante l’esecuzione del compito di
produzione di una sequenza casuale, si attivano selettivamente le aree prefrontali dorsolaterali. Il
monitoraggio si manifesta come funzione esecutiva anche nel caso degli errori che sono commessi
nell’esecuzione di un compito. I partecipanti sono, in genere, consapevoli degli errori che commettono
nell’esecuzione di un compito. Gehring e colleghi osservarono una componente del potenziale evocato, detta
“negatività dipendente da un errore”. Questa componente negativa si verifica in coincidenza della risposta
errata, frequentemente inizia prima che l’errore sia commesso e raggiunge il massimo circa 100 ms dopo
l’errore.
È chiaro che il cambiamento di compito richiede l’intervento di funzioni esecutive per pianificare e
coordinare l’esecuzione di più compiti. I passi necessari al passaggio da un compito all’altro sono illustrati
con chiarezza in un modello proposto da Rubenstein, Meyer e Evans. Questo modello si basa sulla
fondamentale distinzione fra processi necessari all’esecuzione dei compiti singoli e processi necessari al
coordinamento dell’esecuzione dei due compiti.
4. Il controllo dell’azione
Perché il nostro comportamento sia adattivo, è necessario che possiamo estendere il controllo anche
sull’ambiente che ci circonda, dobbiamo, cioè, esercitare un controllo “esterno”. Noi esercitiamo questo
controllo attraverso l’azione. Anche le basi neurali dell’azione sono “localizzate” nei lobi frontali. Il punto che
interessa maggiormente qui è la sequenza temporale dei processi mentali; in particolare siamo sicuri che la
decisione di compiere l’azione ha preceduto la sua programmazione e la sua esecuzione. Libet condusse una
serie di ricerche, il cui aspetto più interessante consisteva nel determinare quando si realizzava la decisione
di eseguire l’azione e quando si attivavano le aree corticali che presiedono alla programmazione (aree
premotorie) e alla esecuzione (area motoria primaria) del movimento. Al partecipante veniva chiesto di alzare
una mano, muovendo il polso, quando ne sentiva il desiderio. Il movimento era del tutto arbitrario e il suo
inizio non era in alcun modo determinato dallo sperimentatore. Il partecipante, inoltre, doveva riferire la
posizione occupata da un punto luminoso che si muoveva su un quadrante, quando in lui si manifestava il
desiderio di alzare la mano. Così Libet determinava il momento della decisione cosciente. Veniva anche
registrata l’attività elettrica del cervello in corrispondenza delle aree premotorie e motorie. In questo modo
si poteva determinare il momento dell’inizio dei processi neurali che avrebbero portato all’esecuzione
dell’azione. In base al resoconto sulla sequenza soggettiva dei processi mentali, ci si sarebbe dovuti attendere
che il momento dell’insorgere dell’esperienza di avere deciso di muovere la mano precedesse l’attivazione
delle aree cerebrali dalle quali il movimento della mano dipende. Sorprendentemente accade, invece, il
contrario: le aree premotorie e motorie si attivano circa 350 ms PRIMA dell’insorgere del desiderio di
muovere la mano. Il movimento della mano inizia 150 ms dopo l’attivazione delle corrispondenti aree
cerebrali. Nel 2007, Chun Siong Soon e colleghi estesero le osservazioni di Libet conducendo un esperimento
nel quale, oltre a registrare l’attività elettrica cerebrale, facevano uso della fMRI. I risultati ottenuti da questi
ricercatori confermarono quelli di Libet, con un’aggiunta importante: le aree prefrontali si attivavano diversi
secondi prima della decisione. Perciò, la sequenza di processi cerebrali è la seguente: attivazione delle aree
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prefrontali, attivazione delle aree premotorie e attivazione delle aree motorie. Secondo Libet la decisione di
muoversi, presa, in realtà, alcuni secondi prima nelle aree prefrontali, diventando cosciente, permette un
altro tipo di intervento delle aree prefrontali: l’inibizione. L’azione già decisa può essere inibita, bloccata
prima della sua esecuzione, proprio perché la decisione di agire è diventata cosciente.
La programmazione del movimento dipende dall’attività delle aree premotorie, localizzate nel lobo
frontale, subito davanti all’area motoria primaria. Questo ruolo delle aree premotorie, noto già da tempo, fu
definitivamente confermato, a metà degli anni ’80, dalle prime ricerche di neuroimmagine. Nell’uomo le aree
premotorie sono costituite prevalentemente dall’area BA 6. Fra le aree specializzate dell’area BA 6 è
necessario menzionare l’area supplementare motoria (SMA), È un’area che si attiva per la programmazione
dei movimenti e, per un certo tempo, fu considerata l’unica area della programmazione motoria. Dunque, le
aree premotorie giocano un ruolo cruciale nella programmazione del movimento. Per programmare un
movimento, però, sono necessarie informazioni spaziali, visuospaziali, di solito. Perciò l’attività delle aree
premotorie è integrata con l’attività delle aree parietali.
7. I neuroni specchio
I neuroni specchio furono scoperti da un gruppo di ricerca guidato da Rizzolatti nelle aree premotorie
(in F5, precisamente) della scimmia. Nell’area F5 si trovano due tipi di neuroni la cui attività è legata alla
programmazione del movimento. I “neuroni canonici” si attivano quando l’animale afferra un oggetto e la
loro frequenza di scarica varia al variare del tipo di presa. Il tipico neurone canonico risponde anche quando
la scimmia osserva semplicemente un oggetto che può essere afferrato con la presa per cui il neurone è
specializzato. I “neuroni specchio”, invece, rispondono soltanto se c’è un’interazione fra un “effettore
biologico” e un oggetto. Questi neuroni rispondono sia quando la scimmia compie un’azione specifica, sia
quando osserva un altro individuo (scimmia o uomo) compiere quell’azione. La vista di un oggetto o di un
agente che mima un’azione in assenza di un oggetto o di un agente che compie un gesto intransitivo non
provoca alcuna risposta. Un importante aspetto funzionale dei neuroni specchio è la relazione fra le loro
“proprietà visive” e le loro “proprietà motorie”. Essi mostrano congruenza fra le azioni viste e le azioni
eseguite che codificano. In altre parole, c’è congruenza fra la risposta allo stimolo visivo e lo stimolo motorio.
I neuroni specchio strettamente congruenti rispondono quando l’animale osserva un’azione con uno scopo
e questa azione è eseguita in modo specifico. I neuroni specchio genericamente congruenti rispondono
quando lo scopo è quello per il quale il neurone è specializzato ma il tipo di azione non ha importante. Altre
aree nelle quali sono stati descritti neuroni con queste proprietà sono il “solco temporale superiore”. Il
circuito dei neuroni specchio comprende, quindi, due regioni principali: la parte posteriore del lobulo
parietale inferiore e la corteggia premotoria ventrale. L’area STS è strettamente legata all’area F5. Sono state
avanzate due ipotesi principali sul ruolo funzionale dei neuroni specchio. La prima, proposta da Jeannerod,
sostiene che l’attività dei neuroni specchio stia alla base dell’abilità di imitare le azioni altrui. La seconda
ipotesi, proposta da Rizzolatti e Craighero, sostiene che l’attività dei neuroni specchio permette la
comprensione delle azioni altrui. Prima della scoperta dei neuroni specchio, si pensava che la comprensione
delle azioni altrui richiedesse una “teoria della mente” e poi una serie di processi mentali di tipo
interferenziale. Rizzolati e Craighero sostengono che i neuroni specchio forniscono un meccanismo molto più
semplice e diretto per comprendere le azioni degli altri. In base a questo meccanismo, tutte le volte che un
individuo vede un’azione compiuta da un altro, i neuroni che rappresentano quell’azione si attivano nelle
aree premotorie del cervello dell’osservatore. Questa rappresentazione motoria dell’azione osservata
corrisponde a quella che si genera spontaneamente quando l’osservatore compie quella stessa azione. Kohler
e colleghi hanno indagato se i neuroni specchio sono in grado di riconoscere le azioni dal suono che
producono. Registrarono l’attività dei neuroni specchio nell’area F5 mentre la scimmia osservava un’azione
che produceva un rumore tipico o udiva lo stesso rumore senza vedere l’azione. Risultò che circa il 15% dei
neuroni specchio risponde sia in presenza di un’azione sia in presenza del solo rumore che caratterizza
quell’azione. Negli uomini, esperimenti di registrazione dell’attività elettrica del cervello hanno dimostrato
che, quando un individuo osserva un’azione eseguita da un altro, la corteccia motoria dell’osservatore si
attiva anche se egli non compie alcuna azione. Si trovò che la desincroniccazione del ritmo EEG registrato da
elettrodi posti in posizione centrale si verifica non soltanto quando il soggetto compie un movimento ma
anche quando egli osserva un movimento compiuto da un altro. Questa somiglianza fra attività elettrica
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CAPITOLO 8: Il PENSIERO
PERCEZIONE E PENSIERO
Il funzionamento della mente può essere concepito come un sistema unitario basato su regole.
Molte parti di questo sistema agiscono in modo silente, senza che noi ce ne rendiamo conto. Per
questo motivo è importante sia condurre esperimenti sia localizzare i processi mentali a livello
cerebrale. Un buon esempio sono le illusioni visive. Non ci accorgiamo di questi effetti illusori a
meno che non ci vengano resi evidenti tramite confronti e misure. Inoltre le illusioni percettive non
scompaiono anche se sappiamo che sono tali. Questa loro resistenza alle modificazioni è dovuta
a un sistema di regole che sono state fissate nel nostro cervello dalla storia naturale della mente
umana.
L'illusione visiva dipende da regole di inferenza immediata e non consapevole concernenti due
proprietà dell'ambiente. La mente assume che ci sia intorno a noi un mondo tridimensionale.
Prendiamo una figura in cui alcuni cerchi vengono visti come concavità ed altri come
protuberanze. Rovesciando il libro, si scopre che quelle che erano protuberanze diventano
concavità e viceversa. Di conseguenza la nostra mente interpreta le ombre dei cerchi come indici
per la profondità o la sporgenza degli oggetti utilizzando due principi: il primo è che la luce viene
dall'alto (il sole o la luna); il secondo è che c'è una sola fonte di luce. Queste due regole
corrispondono a modi di vita che hanno accompagnato la specie umana per centinaia di migliaia
di anni, fino a quando la tecnologia ha reso possibile le sorgenti di luce artificiali provenienti da
ogni direzione. Eppure ancora oggi nell'illuminazione di case e strade si continuano a preferire
fonti di luce poste sopra di noi.
In generale la mente umana cerca di capire che cosa c'è là fuori, nel mondo esterno grazie regole
incorporate nel cervello e alle informazioni provenienti dall'ambiente. L'assunto che la luce cadrà
sempre dall'alto è forte ma una serie di esperienze precedenti può indebolirlo.
IL RAGIONAMENTO
La specie umana ha la capacità di ricavare informazioni a partire da altre conoscenze
semplicemente pensandoci su. La retorica era insegnata per imparare a convincere gli altri, la
logica serviva a pensare bene con la propria testa e a smascherare gli errori altrui. La tradizione di
insegnamento della logica aveva appurato che alcune strutture inferenziali erano più facili di altre.
Gli allievi digiuni di logica, ne capivano subito il funzionamento e non facevano errori. Tuttavia solo
nell'ultimo mezzo secolo con grande ritardo rispetto ad altri settori delle scienze cognitive è nata
la psicologia sperimentale del ragionamento.
Per molto tempo si è pensato che l'uomo avesse in testa una sorta di logica naturale ossia un
insieme di regole che producono le prestazioni corrette e spiegano quelle erronee. Poi si è
scoperto che le cose non stanno così, dato che la variabile cruciale non è la struttura logica bensì
il contenuto del ragionamento. Consideriamo il compito di psicologia del ragionamento più
utilizzato in questo mezzo secolo di ricerche.si chiama compito di selezione ed è stato inventato
dallo psicologo Wason.
Mostrate a delle persone quattro carte, poggiate su un tavolo, spiegando che queste carte hanno
su un lato una lettera, vocale oppure consonante, e sull'altro lato un numero, pari oppure dispari e
poi date loro questa regola a proposito delle quattro carte, di cui vedono solo un lato: "se una
carta ha una vocale su un lato, allora ha un numero pari sull'altro lato"
(Vedi esperimento pag 248).
La logica non è la guida del pensiero come ancora pensava a metà del XIX secolo Boole,
l'inventore della logica di Boole, il sistema che è il presupposto per creare i software dei
computer. Molti psicologi evoluzionisti hanno usato questo risultato per suggerire che l'origine
delle nostre capacità di ragionamento è nel vivere sociale, nell'individuare chi cerca di prendersi
benefici del vivere comune senza contraccambiare con la sua quota di sacrifici. Questa tesi
evoluzionista, non è definitivamente provata e forse non lo sarà mai. Viceversa gli esperimenti con
gli animali hanno ridotto il baratro tra il presunto livello della ragione umana e l'intelligenza delle
altre specie, come voleva la tradizione filosofica religiosa.
LA SOLUZIONE DEI PROBLEMI
Nella vita incontriamo spesso delle situazioni in cui non sappiamo bene che cosa fare: sono per
noi nuove e non abbiamo una soluzione a portata di mano. Ci sono anche delle situazioni in cui
affrontiamo dei problemi ben definiti, dove c'è una sola situazione ottimale e si tratta di
individuarla. Gli psicologi tedeschi gestaltisti ,subito dopo la prima guerra mondiale, hanno
affrontato questo tipo di studi e hanno portato con loro la tradizione negli Stati Uniti. Essi avevano
constatato che spesso la soluzione di problemi non avviene per gradi, per prove ed errori, ma per
una sorta di ristrutturazione cognitiva.
L'esempio è di molti scienziati che dopo aver lavorato su un problema per anni senza trovare una
soluzione soddisfacente all'improvviso, la soluzione è apparsa di fronte ai loro occhi.
Un problema può venir concepito come composto di tre parti:
1) lo scopo del problema (goal state) e cioè il punto a cui si deve arrivare per risolvere il
problema, la meta finale;
2) lo stato iniziale (state state) cioè il punto di partenza in cui viene presentato il problema e i
vincoli per raggiungere 1.
3) l'insieme delle operazioni che si possono fare, le azioni spesso mentali per giungere alla
soluzione, a partire dallo stato iniziale.
Queste tre parti corrispondono alle fasi temporali della soluzione, da due a uno, passando per 3.
Ci sono dei problemi in cui questi tre Stati sono definiti in modo molto chiaro e corrispondono alle
operazioni necessarie per la soluzione del problema: partenza (problema dato), operazioni per la
soluzione (vincolati da regole), soluzione da raggiungere.
Vedi esempi pag (252/3).
Nella soluzione, invece, di problemi non ben definiti, si fa ampio uso di analogie. Ci si ricorda dei
problemi analoghi già risolti in passato e si cerca di fare tesoro di questa esperienza per codificare
il problema che si ha davanti. Trovare una nuova rappresentazione del problema, un nuovo punto
di vista e applicare a esso strategie di avvicinamento allo stato finale, usando il ragionamento
analogico, è lo strumento cognitivo per questo tipo di problemi che sono quelli più comuni della
vita quotidiana, nella scienza, nell'impresa e nell'arte.
CAPITOLO 9: IL LINGUAGGIO
LE ORIGINI DELLA CAPACITÀ LINGUISTICA
Molteplici sono i benefici che si ricavano dallo studiare la mente come un complesso di capacità
che emergono dal cervello, lo studio del linguaggio li contempla tutti. Da un lato l'approccio
integrato permette di avanzare ipotesi sulle origini del linguaggio, collegando la storia biologica
del nostro cervello alla storia naturale dell'uomo. In secondo luogo, come si è già visto, le lesioni
di una specifica area del cervello sono correlate alla perdita di alcune funzionalità mentali e questo
vale anche per il linguaggio. Infine la localizzazione indipendente di certe funzioni mentali
permette di corroborare modelli psicologici a scapito di altri. Le prime scoperte ottenute grazie a
questa metodologia hanno riguardato proprio la localizzazione cerebrale delle funzioni
linguistiche.
Nel 1993 Leslie Aiello e Robin Dunbar Hanno mostrato che perlomeno nei primati c'è una stretta
correlazione tra le dimensioni relative della neocorteccia e l'ampiezza del gruppo sociale con cui
interagiamo. Questa correlazione evidenzia un tetto massimo del numero e nella qualità delle
relazioni sociali che possiamo intrattenere simultaneamente con i nostri simili. Date le dimensioni
e le capacità del nostro attuale cervello, tale tetto non supera le 150 unità. Oggi sono disponibili
dei programmi che girano sul computer e permetterebbero di intrattenere rapporti con un numero
molto più alto di amici e conoscenti. Sebbene la mente, se potenzialelmente distesa grazie al
cellulare e computer vari, potrebbe, in linea teorica, dar vita a relazioni sociali molto più ricche
numerose, È sempre il nostro cervello che poi le deve filtrare. E così il vincolo del numero
massimo di circa 150 contatti che ritroviamo in molti ambiti, non scompare anche quando la
memoria umana può venire integrata dall'esterno. Le ricerche mostrano che i rapporti veri non
superano mai questa magica cerchia, una quantità chiamata da allora il numero di Dunbar e che
all'interno di questo gruppo le interazioni più frequenti riguardano un numero molto minore di
contatti. È importante non confondere il linguaggio con altre forme di comunicazione a distanza
tra gli animali. Molte specie animali possono trasmettere informazioni ai propri consimili. Ad
esempio le api segnalano ad altre apri la posizione nell'ambiente di interessanti prede
semplicemente mandando messaggi con diversi tipi di volo. Queste forme di comunicazione,
tuttavia, non funzionano come linguaggio umano, caratterizzato da quella che Chomsky ha
chiamato creatività. Chomsky ha mostrato che l'uomo ha una predisposizione innata per
apprendere un linguaggio formato da regole e che queste, una volta apprese, si possono
applicare creando un numero sterminato di combinazioni di parole. Diventa così possibile capire
frasi mai ascoltate in precedenza. Se invece un bambino imparasse a parlare per prove di errori,
sulla base dell'accumulo della sua esperienza personale, non basterebbero i pochi anni iniziali
della vita per apprendere a parlare e a capire la lingua madre
6. Il compito della torre di Hanoi (in cui sono presenti tre pioli e tre
anelli di dimensioni diverse), viene utilizzato per:
A. Valutare le abilità di organizzazione e pianificazione di sequenze di
processi cognitivi
B. Misurare le abilità di memoria
C. Valutare le abilità motorie
D. Valutare i tratti di personalità