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L.A.B.A.

LIBERA ACCADEMIA DI BELLE ARTI


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Diploma di Primo Livello in FOTOGRAFIA
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DENSITA’ URBANA
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Relatore:
Lorenzo Giotti
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Docente d’indirizzo:
Prof. Nome e cognome
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Diplomando:
Caterina Bezzini
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matricola:
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! anno accademico 2014/2015
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Indice

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Introduzione

Densità Urbana 3

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Martin Heidegger

Il concetto di “abitare” 9

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George Simmel 13

Effetto di reciprocità 14

La metropoli 15

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La fotografia di architettura

I primi incontri tra fotografia e architettura 16

Il Pittorialismo 22

La “nuova visione” 27

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La fotografia incontra la metropoli 33

I mutamenti del paesaggio 35

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Note

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Bibliografia

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Sitografia

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Introduzione

Densità Urbana

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Il progetto intitolato ‘Densità Urbana’, nasce da una lunga osservazione degli spazi che vivo

quotidianamente. Nella mia esperienza presente e passata non ho mai avuto modo di vivere fuori

dalle città, in spazi aperti e circondati in prevalenza dalla natura. Anche quando mi sono trasferita in

altri paesi europei ho sempre vissuto in città grandi se non metropoli. All’interno di esse è facile

venire a contatto con persone molto diverse tra loro ed avere accesso ad innumerevoli stimoli che

spaziano in ogni ambito artistico e non in quanto esse sono sempre ricche di proposte di ogni genere

e adatte ad ogni tipo di personalità.

E’ qui che ho sviluppato l’osservazione dei singoli individui. Immerso in una molteplicità di

persone ed ad un’infinità di palazzi, l’uomo ha iniziato ad apparirmi invece solo, individuo singolo

che si getta tutti i giorni nella molteplicità di edifici e persone, della quale lui stesso è elemento

portante e indispensabile all’esistenza della città presente e futura.

Per molti anni ho guardato alla metropoli soltanto come il luogo migliore dove un uomo della

società moderna potesse vivere, perché espressione fedele di una personalità in cerca di stimoli e

cambiamenti, che trovava la sua giusta dimensione in un luogo che esprime perfettamente la sua

fame di dinamismo e nuove spinte.

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Nonostante il soggetto delle mie foto siano in volumi architettonici delle città, il progetto nella sua

fase primordiale è nato dalla riflessione sull’uomo nella sua condizione di cittadino urbano.

Spesso ho potuto osservare persone che ogni mattina uscendo dalle loro case si preparavano una

borsa dove all’interno mettevano innumerevoli oggetti di genere, cosmetici, vestiti, acqua, qualcosa

da mangiare e magari un libro all’inizio soltanto di una semplice giornata lavorativa. I negozi di cui

una città è piena avrebbero potuto soddisfare queste esigenze ampiamente, quanto meno per poter

avere una bottiglia di acqua o un pranzo. Allora mi sono chiesta che cosa spingesse queste persone

ad un approccio verso la città di questo tipo. La mia fantasia ruotava intorno all’idea che la città

fosse piuttosto priva di ogni struttura capace di aiutare l’uomo nei suoi bisogni, immaginavo che

ogni giorno potesse essere vissuto dagli uomini come l’inizio di un’avventura in un deserto,

stracolmo di cose eppure vuoto. La città ha preso le sembianze di un’entità indipendente, slegata

dagli uomini che la hanno costruita e che la popolano. Essa è diventata piuttosto ai miei occhi una

cosa pressoché divina che non aveva relazioni reali con gli uomini, ma che viveva la sua esistenza

accogliendoci quasi come ospiti nei sui luoghi.

E’proprio sotto questa visione che ho scattato le prime fotografie del progetto. Volevo esprimere la

sensazione di vivere all’interno di un enorme corpo artificiale, che aveva in sé tutte le caratteristiche

di un luogo naturale ostico, come un deserto privo di ogni tipo di comodità ed abitato da persone

pronte ad affrontare tutti gli ostacoli che esso gli pone davanti.

Così l’uomo ha perso rilevanza nel progetto poiché egli era solo l’abitante temporaneo di un deserto

destinato a vivere per sempre o comunque oltre al tempo di una vita umana. Inoltre il cittadino non

è mai completamente consapevole del luogo in cui abita, o meglio posso dire che la vista limitata

che una città ci offre non ci rende capaci di essere consci della totalità della città come lo potremmo

essere in un ambiente aperto, dove il nostro sguardo è libero di vedere in lontananza.

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Le fotografie intendono mostrare la città nell’ottica di entità a sé stante attraverso la sua

rappresentazione come insieme compatto e denso di edifici e strade che sono l’essenza costituente

di ognuna di esse.

Per rappresentare più efficacemente la grande corposità e consistenza della metropoli, ho scelto la

prospettiva dall’alto che mi permetteva non di concentrarmi su un singolo edificio, ma di poter

includere la molteplicità degli edifici e quindi poter riprendere una porzione più ampia di spazio.

Osservando una città dall’alto si è capaci di percepirne la grandezza, spesso non riusciamo neppure

a distinguerne i confini, e di notare finalmente la densità molto alta di palazzi di ogni tipo e

funzione. Questo punto di vista è stato anche utile a selezionare le zone migliori per i miei scatti;

dall’alto infatti è possibile avere un’idea più precisa di quali luoghi hanno una densità di fabbricati

maggiore e quali minore.

La scelta non ha ignorato anche i vantaggi pratici che una prospettiva dall’alto poteva offrirmi: in

questo modo infatti ho ottenuto una grande libertà di spaziare sui volumi delle case e dei tetti, ho

potuto sfruttare al meglio le conformazioni naturali di una città come quella di Lisbona che si

estende su diversi colli, ho avuto la possibilità di scattare anche da un luogo solo girandomi a 360

gradi e sfruttando così al massimo un solo punto di vista.

Una visuale dall’alto: infatti valorizza i contrasti di luce e ombre e soprattutto rende possibile creare

sempre diversi giochi di volumi, inoltre permette di appiattire un po' la prospettiva per dare l’idea le

costruzioni siano quasi su un piano solo.

E’ molto importante che, nonostante si tratti sempre di prospettive di molti metri più in alto rispetto

al piano stradale, avendo avuto accesso a strutture che avevano altezze tra loro differenti, non ho

potuto omologare gli scatti fotografando sempre alla stessa distanza dalle costruzioni che si

trovavano via via davanti al mio occhio. In realtà non era neppure uno degli obiettivi principali

quello di unificare il punto di vista. L’obiettivo era mostrare la densità delle costruzioni di cemento

dalle quali siamo circondati e siamo compresi anche noi. Tale fine era possibile raggiungerlo molto
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bene anche accostando nel progetto prospettive, tagli e angolazioni diverse tra loro, ma sempre

concentrate sulla serie di palazzi. Le fotografie infatti hanno come intento quello di rendersi

testimonianza dell’estensione e della compattezza di una città.

In ogni casa o palazzo dove sono salita ho cercato di sfruttare al meglio il panorama che mi si

presentava davanti, ma è stato pressoché impossibile prevedere alla perfezione che cosa avrei visto

dalla cima della costruzione quando ancora mi trovavo sulla strada. L’unica cosa che ho potuto

controllare prima dello scatto è stata la zona; ho ricercato infatti aree della città che sapevo avessero

una concentrazione alta di palazzi. Ho avuto accesso a diversi luoghi, case private a qualche piano o

grattacieli, monumenti pubblici, attività pubbliche quali ristoranti, bar o hotel, punti panoramici di

libero accesso. La maggior parte delle volte non ho avuto particolari ostacoli nell’entrare negli

edifici da me scelti e neppure ho avuto necessità di permessi speciali per fotografare. Non sempre i

luoghi in cui sono andata hanno fruttato degli scatti soddisfacenti in quanto come già detto, non era

possibile immaginare approfonditamente la vista complessiva che avrei avuto. Purtroppo in diversi

casi sono riuscita ad entrare dal lato dell’edificio dalla cui parte si vedevano in prevalenza degli

spazi troppo vuoti, come parchi, cantieri edili o larghi viali di strade.

La decisione di includere queste città, Lisbona, Firenze, Torino, Milano, viene per ognuna di queste

da motivazioni diverse. Nel caso di Lisbona e Torino sapevo che entrambe le città seppure diverse

mi avrebbero consentito di riprodurre la densità urbana in maniera efficace: Lisbona perché sapevo

fosse una città molto panoramica, caratterizzata da una pianta urbana priva di regolarità e che grazie

alle diverse altitudini su cui si sviluppa, avrei ottenuto un gioco di volumi molto intenso; di Torino

invece conoscevo la pianta regolare che avrebbe invece giocato sulle forme geometriche e anche la

regolarità e ripetitività dei suoi tetti. Firenze è stata scelta perché è la città in cui sono nata e mi

trovo attualmente e la superficie dei suoi tetti ha una certa omogeneità. Di Milano non sapevo molto

se non che è ricca di strutture alte e data la sua grandezza poteva offrirmi molti luoghi dai quali

fotografare e così è stato.


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Venendo agli aspetti tecnici del progetto, inizio dicendo che ho usato due macchine fotografiche,

una Reflex Canon 600D e una Nikon Coolpix S01 di piccolo formato. Per la maggior parte dei

panorami ho usato la Reflex, ma spesso sono capitata in luoghi ottimi per scattare le fotografie

quando non avevo la possibilità di usare la Canon ma solo il piccolo formato della Nikon, che, date

le ridotte dimensioni della fotocamera, ho sempre portato con me. Quando ho avuto più tempo a

mia disposizione ho provato l’uso di diversi obiettivi, quello fisso 50 mm, il teleobiettivo 55-250

mm e l’obiettivo zoom 18-55 mm. Ho trovato comunque più risolutivo l’obiettivo zoom,

mantenendolo su ottiche grandangolari. Per quanto riguarda le inquadrature, in fase di post-

produzione ho dovuto effettuare dei tagli nei casi in cui all’interno del quadro fotografico c’era la

presenza troppo evidente di aree che contrastavano con l’essenza della mia idea di fondo, tipo zone

di vegetazione troppo ampie oppure piazze che distoglievano l’attenzione dell’osservatore dai

volumi intensi delle case. Ho eliminato dalle inquadrature inoltre anche i monumenti storici che

contraddistinguono una città dalle altre, come le loro chiese, i loro castelli o le loro piazze. (Firenze

a causa dei numerosi monumenti riconoscibili che svettano sulla città sopra la superficie delle case,

non ha prodotto un numero alto di immagini utili al progetto. Al contrario invece Torino si è

prestata bene alle mie ricerche per la quasi totale assenza di monumenti di rilevante evidenza). In

generale i tagli sono stati comunque pochi poiché in fase di scatto ho calcolato accuratamente le

inquadrature e i tagli sono stati necessari solo dove era stato impossibile già dall’inquadratura

eliminare le parti sopra indicate.

La mia intenzione era quella di “spersonalizzare” la città dalla sua identità e focalizzare lo sguardo

invece sugli aspetti che accomunano tutte le città.

Il mio progetto potrebbe trattare una sola città allo stesso modo che tutte le città del mondo, per

questo motivo non era importante che l’osservatore riconoscesse in una fotografia una città in

particolare.

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La scelta di port-produrre gli scatti in bianco e nero è una scelta di tipo non solo estetico ma

funzionale alla corretta lettura delle fotografie.

Il bianco e nero uniforma gli edifici senza parlare della loro identità attraverso il colore,

enfatizzando soltanto i volumi grazie ai giochi di luci ed ombre. Il contrasto è stato ottenuto

cercando di scattare durante le ore centrali del giorno quando il sole creava ombre più nette.

Il libro fotografico è sembrato il prodotto finale migliore per un progetto che tratta il tema dei

volumi architettonici delle città e la loro densità.

Posso concludere la presentazione di questo lavoro dicendo che il mio progetto non intende affatto

esprimere un giudizio che sia negativo o positivo sulla condizione delle nostre città; ciò che mostro

nelle fotografie è soltanto uno dei tanti punti di vista possibili fra molti altri, una realtà unica e non

oggettiva in quanto filtrata dal mio personale sguardo.

Mostrare la densità urbana era il mio interesse principale in quanto io stessa individuo che vive

all’interno di questa condizione abitativa.

Mi sono resa osservatrice del mondo circostante ricercando gli aspetti delle città che più

rappresentassero l’essenza multiforme delle metropoli moderne, cercando di unificarle attraverso la

rappresentazione di tutte le loro qualità globali, quelle qualità insomma che le rendono simili l’una

all’altra.

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Martin Heidegger

Il concetto di “abitare”

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Martin Heidegger (Messkirch 1889- Friburgo di Brisgovia 1976) è stato uno dei maggiori esponenti

della filosofia tedesca del Novecento. Il suo pensiero verte sul metter in dubbio la metafisica che ha

investito il pensiero filosofico da Platone fino a sui tempi. In fondo la Metafisica secondo

Heidegger è sì la ragione per cui gli uomini hanno iniziato a fare filosofia, ma è anche indefinibile e

l’oggetto che essa si è da sempre proposta di cercare, l’essenza della realtà, è una continua difficoltà

insolubile in cui si imbatte il ragionamento. Heidegger propone un tipo nuovo di pensiero che deve

allontanarsi da questo continuo interrogarsi di tipo metafisico.

Nel 1955 Heidegger venne chiamato a fare una conferenza e in quest’occasione fece un discorso

intitolato Costruire, abitare, pensare. Questo testo raccolto, nel libro Saggi e discorsi di Heidegger

apre la strada ad un lungo periodo di comunicazione tra due discipline specifiche, la filosofia e

l’architettura, che fino ad ora non erano mai venute in contatto così stretto né erano state messe in

dialogo tra loro così apertamente. Dopo questo scritto molti filosofi si sono soffermati ad esprimere

le proprie idee intorno all’architettura, così come ci sono diversi esempi di sconfinamenti

dell’architettura su temi di impronta filosofica. Il “costruire” ed il “pensare” comunicano adesso con

il concetto più ampio di “abitare”; proprio dalla spiegazione del significato di “abitare” Heidegger

inizia il suo saggio breve.

Chiedendosi che cosa sia l’”abitare”, il filosofo risponde dicendo in primis che si costruisce per

abitare, ma non tutte le costruzioni sono abitazioni nel senso di essere il vero luogo intimo di

qualcuno. I luoghi di lavoro per esempio non sono abitazioni nel senso stretto del termine eppure
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vengono abitate dall’uomo, abitate nel senso di fruite dall’uomo; quindi possiamo dire che tutte le

costruzioni hanno il fine ultimo di essere abitate.

Se vediamo questo processo come un rapporto di fine-mezzo, allora il “costruire” non avrà mai un

suo valore in sé, ma sarà sempre il mezzo dell’abitare che è il fine.

In realtà il “costruire” ha una sua essenza che è già un “abitare”.

Dobbiamo allora indagare il significato della parola “costruire” per capirne meglio il suo senso.

Costruire significa originariamente abitare. Nel nostro linguaggio noi abitiamo un luogo anche

quando non ci troviamo in esso, siamo in viaggio per esempio. In tedesco la parola antica “Bauen”

significa costruire e abitare ed è la versione arcaica del verbo essere tedesco “Bin”, quindi abitare

vuol dire più ampiamente essere, esistere, Baun è il modo in cui l’uomo è sulla Terra.

Nell’accezione di “costruire” Bauen significa anche “costruire i campi” nel senso non di produrre

ma proprio di edificare cioè “tirare su”, “far crescere”.

In ordine temporale “costruire” ha significato, abitare, successivamente l’abitare ha voluto dire

essere al mondo, poi è diventato costruire coltivazioni, diciamo un costruire che fa crescere, e

adesso è un costruire che edifica.

In sostanza dobbiamo pensare di costruire perché abitiamo. Abbiamo iniziato a costruire perché

abitavamo. Abitare significa anticamente rimanere, trattenersi e più specificamente ha la sfumatura

di “trattenersi nella pace”. Più ampiamente aggiungendo sfumature al termine, abitare diventa

“avere riguardo di qualcosa”, “essere posti nella pace”, “rimanere nella cura di ogni essenza” e

questo noi lo possiamo tradurre con il lasciare la libertà alle diverse essenze di essere in pace.

Nell’abitare allora emerge il fondamentale concetto di “prendersi cura delle cose” così come esse

sono e anche l’essenza di uomo in quanto “mortale che soggiorna sulla Terra”. I mortali abitano in

quanto conducono la loro essenza come esseri capaci di morte. I mortali soggiornano nelle cose,

abitano le cose, si prendono cure di queste cose.

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Proprio da qui possiamo tornare alla parola analizzata in precedenza, cioè “costruire”. I mortali

proteggono le cose che crescono, fanno crescere cioè che non riesce a crescere, proteggono la

crescita e quindi costruiscono perché mettono a riparo e si prendono cura (verbi compresi in quello

di “abitare”) delle cose.

Curare ed edificare costituiscono il costruire in senso stretto. L’abitare mette a riparo le cose quindi

è un costruire.

Quest’ultimo rientra nell’abitare in quanto, pensando ad un luogo in cui viene costruito un qualcosa,

possiamo dire che quel preciso posto già esistesse prima che vi venisse costruito là quel determinato

edificio, eppure si origina solo a partire dalla costruzione. Solo dopo di essa un luogo si dispone e

ordina. Già i Greci con la parola ορισµός (orismos) indicavano la limitazione, la determinazione,

ma contemporaneamente anche la definizione, ovvero un luogo si limitava ma anche si definiva;

riferendosi ad un luogo esso era limitato ma possedeva una sua definizione, un’essenza dunque.

Lo spazio è ciò che è posto entro dei limiti: uno spazio viene accordato e disposto (disposizione =

ορισµός). Lo spazio riceve la sua essenza da un luogo che viene limitato, non da se stesso.

Per comprendere l’essenza degli edifici, prodotti di quel costruire che edifica, dobbiamo prima

prendere in considerazione che rapporto c’è tra luogo e spazio e che relazione invece tra l’uomo e lo

spazio.

Prendendo come esempio un ponte, esso è un luogo in quanto capace di accordare, definire uno

spazio. Questo luogo accorda in sè diversi posti che possiamo chiamare anche punti, che sono

separati da una distanza, essa prende il nome dal latino spatium. Il ponte è quindi un punto che

collega altri punti intervallati da spazi. Di uno spazio possiamo inoltre individuarne l’estensione,

ovvero la larghezza, l’altezza e la profondità. Quello che spazio, spatium, ed estensione, extensio,

possono dirci non è certo il fondamento dell’essenza degli spazi e dei luoghi, ma solo un insieme di

numeri. Gli spazi in cui abitualmente ci muoviamo sono disposti dai luoghi, come abbiamo già

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detto, e l’essenza di questi si fonda in cose, edificazioni, costruzioni. Un luogo ha una duplice

funzione di “fare posto”: fa posto in quanto “dà accesso” e fa posto poiché “dispone”.

Per capire la relazione tra uomo e spazio innanzitutto non dobbiamo pensare che lo spazio sia di

fronte all’uomo, che esso sia da un’altra parte rispetto all’uomo. Se diciamo “un uomo” intendiamo,

come detto in principio, un essere che soggiorna presso le cose, per cui si tratta di un essere che

abita appunto in uno spazio. Ecco perché uomo e spazio non sono entità distinte. E non lo sono

neppure quando un uomo si rapporta con cose che non sono raggiungibili fisicamente poiché

quando egli pensa ad un luogo, si rapporta esattamente con quel luogo preciso e non con la

rappresentazione di esso nella sua mente. Un uomo, un mortale, è perché abita, soggiorna presso le

cose temporaneamente. Un mortale si muove attraverso gli spazi solo in quanto già risiede in essi,

non potrebbe infatti mai spostarsi se già non risiedesse in qualche modo in quello spazio.

Il rapporto dell’uomo con lo spazio non è nient’altro che l’abitare nella sua essenza. Un uomo è in

quanto abita. Abitare è ciò che relazione l’uomo con lo spazio. Essere è l’uomo nello spazio e

l’essere dell’uomo è già nello spazio.

Solo se siamo capaci di abitare possiamo costruire. Ma l’abitare è il tratto fondamentale dell’essere

in conformità del quale i mortali sono. Forse, questo tentativo di riflette sull’abitare e il costruire

può far capire meglio il fatto che il costruire rientra nell’abitare, e sul modo in cui da questo riceva

la sua essenza. Pensare e costruire rientrano nell’abitare e sono indispensabili ad esso. Entrambi

sono insufficienti all’abitare finché non si ascoltano l’uno con l’altro. Solo a quel punto costruire e

pensare appartengono all’abitare. Costruire e pensare diventano e devono essere funzione

dell’abitare.

Heidegger infine si chiede da cosa è dipesa la crisi abitativa che investe il dopo guerra. A noi non

interessa inserire questa domanda in un periodo storico preciso, ma possiamo riassumere l’idea del

filosofo dicendo che se esiste una crisi abitativa essa deriva dal non pensare quando costruiamo allo

scopo che deve essere l’abitare.


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Siamo in quanto abitiamo, costruiamo poiché abitiamo e dobbiamo pensare quando costruiamo al

fine di abitare.

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George Simmel

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George Simmel ( Berlino 1858- Strasburgo 1918) E’ stato un filosofo e sociologo tedesco. Ha

contribuito a creare la disciplina della sociologia anche se le sue idee non sono state molto popolari

al suo tempo.

Ogni visione del mondo è strettamente legata al contesto in cui viene pensata. Non si può separare

la filosofia dalla psicologia poiché ogni pensiero è necessariamente influenzato dalla vita propria di

chi lo produce. Quindi capiamo come per Simmel la filosofia si sforzi vanamente di trovare

qualcosa di oggettivo quando l’oggettività non è una caratteristica tipica del carattere dell’essere

umano. Così anche la scienza è frutto del tempo che vive. La storia a sua volta è l’espressione di un

mondo che vive di regole proprie, con i propri valori e principi che non sono paragonabili ad altre

epoche. Non esiste una verità assoluta quindi, poiché ogni cosa è dotata di una sua universalità che

nasce dalle caratteristiche specifiche di un tempo, di una società e degli individui che la creano.

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Secondo Simmel la sociologia è l’universale interazione e compenetrazione di tutti i fenomeni. La

sociologia non può spiegare la motivazione che muove un’azione umana, ma può studiare le diverse

forme che quest’azione può assumere, quindi i suoi riflessi sulla società, le conseguenze di essa.

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Effetto di reciprocità

Importante fondamento di questa sociologia è il concetto da Simmel sviluppato e chiamato “effetto

di reciprocità”, o <<azione reciproca>> (1) che sarebbe l’influenzarsi reciprocamente di un insieme

di elementi. Un elemento ne causa un altro ma è anche causa retroagendo di quella che pare essere

la sua causazione. Simmel sostituisce il termine “causa” con quello di “corrispondenza”, cioè di

un’influenza reciproca, di scambio tra diversi fenomeni.

La società per il sociologo, dato appunto questo concetto di reciprocità, nasce come <<cerchia di

individui, legati l’un l’altro da varie forme di reciprocità>> (2).

Una società non è solo un insieme di singoli che si influenzano reciprocamente ma anche il risultato

nel tempo di queste influenze e corrispondenze, cioè è anche il risultato della <<sedimentazione nel

tempo di forme di azione reciproca>> (3).

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La metropoli

Nel suo saggio si interroga proprio su cioè che nella società è <<spiritualmente tipico>> (4). Non

usa il termine “universale” ma quest’espressione atipica perché non vuole indagare ciò che è

universalmente vero, ma bensì ciò che resta invariato nella molteplicità delle intersezioni della

società. Lo spiritualmente tipico è l’intersezione del sociale con lo psicologico cioè il modo in cui la

psicologia di un individuo cambia in relazione con la pluralità degli elementi circostanti di cui è

causa e dalla quale causa dipende a sua volta.

La vita per Simmel è un fluire continuo e con questo fluire è anche un produrre incessante di forme.

Esse non sono forme fisiche ma sociologiche come le relazioni, le idee, i simboli. E’ soggetta a
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questo continuo mutare anche la cultura totale della società in quanto non ci sono forme oggettive

su cui essa si può basare, o meglio non ci sono forme stabili nel tempo su cui essa si possa basare.

A questo proposito applicando alla modernità la stessa idea, Simmel dice che essa è in crisi

permanente in quanto ogni ordine tradizionale a cui si appoggiava è caduto e ne continuano a cadere

sempre altri creandosene sempre di nuovi, quindi la crisi della modernità è dovuta alla sua essenza

di mutamento, di flusso e di instabilità. Questa modernità ha i suoi tratti caratterizzanti e si esprime

compiutamente nella metropoli a proposito della quale Simmel spiega che essendo molto larga la

cerchia sociale che si trova a vivere all’interno di una metropoli, l’individuo singolo sente una certa

libertà di sviluppare la sua autonomia e esalta il suo senso di unicità. In una stretta cerchia sociale al

contrario l’uomo non ha in sé una forte individualità.

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La grande città è quindi il luogo dove si manifesta la modernità e le sue numerose e differenti

tendenze che a causa dell’effetto di reciprocità, si influenzano a vicenda e sono l’una la causa

dell’altra. La metropoli è il regno della libertà e dell’individualità. L’uomo ha infinite possibilità di

movimento ma a sua volta non è capace di percepire le differenze sostanziali e qualitative di una

cosa dall’altra, non è libero dal un sistema di interdipendenza che governa la società moderna.

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La fotografia di architettura

I primi incontri tra fotografia e architettura

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Nella prima metà dell’800 la fotografia sconvolse drasticamente la realtà proponendosi come nuovo

strumento di rappresentazione sia qualitativo che soprattutto quantitativo. Il nuovo mezzo è capace

di riprodurre la realtà in maniera esatta, meglio delle litografie e dei dipinti e disegni.

La formazione di un architetto fino a quel momento si basava sui disegni e sugli scritti descrittivi;

adesso si aggiunge al materiale a disposizione un mezzo così pulito e perfetto da riprodurre ciò che

esiste in ogni suo dettaglio. Questo è il momento in cui l’architettura prende visione di se stessa, si

vede riflessa e da qui in poi le due discipline si legano strettamente influenzandosi inevitabilmente e

reciprocamente in maniera sempre più evidente e forte.

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Nicéphore Nièpce,

Maison du Gras,

1827

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L’architettura e la fotografia sin dall’invenzione di quest’ultima, sono state collegate strettamente

tra di loro. Non dobbiamo dimenticarci che la prima fotografia riprende proprio un edificio, dal

cortile della Maison du Gras, la casa della famiglia di Nicéphore Nièpce. Naturalmente capiamo che

la scelta che l’inventore della fotografia fece fu guidata dalla necessità di riprendere un soggetto

fermo per la lunga esposizione di cui necessitavano i primi esperimenti di impressione delle lastre.

Il rapporto delle due arti si infittisce sempre di più andando avanti nella storia e arrivando ai giorni

d’oggi, la fotografia è il mezzo usato dagli architetti per illustrare in maniera più immediata, diretta

e pulita le loro opere, sia in fase di costruzione che nella fase finale quando una struttura viene

fruita definitivamente. Addirittura adesso si formano coppie di architetti e fotografi, coppie di

professionisti che collaborano assieme perché intendono l’uno la visione dell’altro.

Eppure dopo questo primo incontro forse non immediatamente comprensibile, se ne ebbero molti

altri. Ancora più significativo è il dagherrotipo del 1838 che ci mostra Boulevard du Temple a

Parigi. La prospettiva che Louis Daguerre scelse è dalla finestra di un palazzo piuttosto alto. Da

lassù egli puntò la sua macchina da ripresa verso il basso nel momento in cui la strada era

probabilmente molto trafficata. Con questo scatto abbiamo la possibilità di vedere molto bene i

volumi degli edifici parigini dell’epoca e il boulevard che si snoda dopo la curva e si sfoca piano

piano in lontananza. Parigi è decisamente la protagonista di questo scatto dove è molto probabile

che sia stato usato un tempo di esposizione di alcuni minuti e per via di questa lunga posa, la vita

della strada in quell’attimo è scomparsa a causa della scarsa sensibilità dei supporti dell’inizio della

fotografia, eppure quei minuti sono bastati per lasciare sulla lastra l’ombra di una figura che sta

ferma per tutto o molto del tempo dell’esposizione: è un uomo che attende la fine della lucidatura

delle sue scarpe. Questa foto è passata alla storia come la prima fotografia che sia stata fatta di un

uomo. In fondo però la lastra guarda al panorama di Parigi e di esso ne è testimonianza. In

particolare, Daguerre non ruota la camera verso sinistra ponendo così la vita del boulevard in

evidenza, ma la punta in modo tale da porre proprio l’edificio a lui quasi di fronte, in primo piano.
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Lo riprende con grande capacità di osservazione ai volumi del palazzo. Di volumi geometrici,

accennati, laterali e frontali, quasi astratti, è pieno il riquadro anche subito dietro al primo edificio, e

su tutto il lato sinistro del fotogramma si staglia una serie di costruzioni di diverse altezze. La

profondità prospettica non è data come nel Rinascimento dal convergere di tutte le line in un punto

di fuga, ma è costruita con il diversificarsi delle dimensioni dei palazzi sui vari piani.

Anche William Henry Fox Talbot nella sperimentazione dei suoi calotipi si cimentò da subito nella

ripresa di soggetti architettonici. All’Abbazia di Lacock, Talbot arrivò ad un risultato di questo altro

modo di impressionare un supporto con la luce molto buono proprio in questo edificio. Il calotipo

dell’interno dell’Abbazia è probabilmente la prima ripresa di un interno di un’architettura ed è

datato 1840. Talbot fece anche fotografie più simili al dagherrotipo di cui ho parlato sopra, per

esempio The Boulevards of Paris, uno scatto dove è riproposta la prospettiva dall’alto e dove si

possono notare di nuovo i volumi dei palazzi parigini, il viale dritto con i suoi alberi e un edificio

tagliato per buona parte fuori dalla composizione che però ci suggerisce l’attenzione alle

architetture che già in questi primi anni di vita delle fotografia, i fotografi avevano.

Hippolyte Bayard invece, usò la fotografia più da amatore anche se vendette alcuni scatti, ma solo

più avanti si associò ad un atelier. Egli prediligeva le vedute frontali dei palazzi, verticali o

orizzontali, prevalentemente verticali, spesso dal basso. Calcolava l’inquadratura e riusciva ad

equilibrare molto bene gli elementi all’interno di essa. La maggior parte delle volte dispone i

soggetti architettonici sugli assi dell’inquadratura. Bayard fu anche il primo a scegliere di

fotografare di una costruzione un dettaglio che potesse rappresentare la fattezza e la struttura

geometrica del soggetto totale a discapito di una ripresa intera dell’edificazione. Questo tipo di

scelta sarà poi una costante nella fotografia di architettura.

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Hippolyte Bayard,

Madeleine Paris,

1845

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Prima della fotografia la realtà visibile era quella di fronte ai nostri occhi, mentre da qui in avanti la

possibilità di scattare immagini in tutto il pianeta, di riprodurre queste immagini un numero infinito

di volte e di poterle stampare sui libri o sui giornali da all’uomo una nuova visione della realtà tutta.

Con la diffusione del dagherrotipo i fotografi si spargono in tutto il mondo e offrono al mondo

intero riproduzioni di luoghi e culture lontane. L’uomo si confronta con l’imprevista possibilità di

accedere a porzioni di realtà che non si trovano direttamente davanti a lui. Una realtà che non è

quella del disegno o della litografia che pure tentava di copiare il reale ottenendo risultati molto

buoni. La fotografia si impone come copia perfetta di ogni cosa che ci circonda.

Quando nel 1839 all’Académie des Sciences di Parigi, viene annunciata l’invenzione della

fotografia sotto forma di dagherrotipo, François Arago, matematico del tempo, consigliò a tutti

coloro che praticavano questa nuova tecnica di andare in giro per il mondo a fotografare monumenti

e quant’altro con lo scopo di diffondere queste immagini al più alto numero di persone in tutti i

paesi del mondo.

20
Dopo circa un decennio dalla proclamazione della nuova invenzione in Francia si stava già facendo

largo uso della fotografia di architettura a fini di inventario dei beni culturali francesi, sia con

committenze pubbliche che private, sia da parte di amatori che di professionisti della fotografia. Le

commissioni pubbliche in questo paese che riguardano la fotografia di architettura sono anche

dovute al fatto che Napoleone III commissionava moltissime opere pubbliche delle quali di

conseguenza veniva richiesta una documentazione in itinere.

I primi architetti che usarono la fotografia lo fecero soprattutto per documentare lo stato di edifici su

cui avevano il compito di intervenire con restauri. Ancora non ci sono diffusi usi della fotografia per

fotografare le proprie opere da parte di questi ultimi.

Dall’altro lato invece, i fotografi che iniziarono ad occuparsi di soggetti architettonici lo fecero con

due intenti distinti: da una parte alcuni mantennero lo spirito del voyages pittoresques, cioè l’intento

di documentare un viaggio e tutti i luoghi e monumenti visitati durante questo, un intento che aveva

anche una valore di memoria storica, dall’altra i fotografi usavano il loro mezzo per analizzare gli

edifici dal punto di vista scientifico. Di questa prima fase sono anche le immagini dei siti

archeologici sui quali crescevano l’interesse e gli studi. Anche gli archeologi del tempo si resero

subito conto dell’importanza del mezzo fotografico ai fini della documentazione fondamentale per i

loro studi. Degli anni Cinquanta dell’Ottocento sono le prime foto di siti archeologici della Grecia,

dell’Egitto e del Medio Oriente. I più grandi musei dell’epoca come il Louvre e il British Museum

facevano spedizioni di archeologi nelle quali quasi sempre erano presenti anche dei fotografi che

fermavano sulle lastre tutto ciò che vedevano compresi i reperti ritrovati in documentazioni

dettagliate e precise. Molti erano gli studiosi provenienti da campi diversi del sapere come

ingegneri, fisici, medici e pittori che compivano viaggi in tutto il mondo e che da appassionati

fotografavano monumenti. In Inghilterra invece gli amatori proliferarono ancora di più che nella

vicina Francia a causa delle limitazioni dovute al brevetto che William Talbot aveva rilasciato. In

Inghilterra come conseguenza di questa diffusa amatorialità della fotografia si svilupparono molte
21
associazioni fotografiche. Grande tema ricorrente nella fotografia inglese è il paesaggio rurale con

le sue architetture, le abbazie e le cattedrali.

Roger Fenton studiò legge e per piacere personale la pittura. Per un periodo della sua vita si occupò

esclusivamente della fotografia con risultati eccellenti, che lo fecero diventare famoso fino ai giorni

d’oggi. Nel 1854 ebbe l’incarico di fotografo ufficiale del British Museum; nel 1852 fotografò ed

espose l’anno successivo, gli scatti che aveva fatto in Russia al ponte sospeso che un suo amico

ingegnere stava costruendo. Come fotografo del British Museum si dedicò alla documentazione

delle opere che lo stesso museo esponeva. Grazie ai suoi studi di pittura Fenton aveva una visione

sempre molto paesaggistica, uno sguardo sempre molto paesaggistico anche quando trattava

soggetti architettonici. La sensibilità geometrica si unisce alla visione pittoresca. Fenton aveva

occhio per la profondità prospettica e le degradanti gamme tonali. Nella fotografia del 1857

dell’esterno del British Museum il fotografo riuscì ad attribuire alla struttura un forte valore

dinamico nonostante la staticità simmetrica della struttura neo-greca, questo grazie alla scelta di un

punto di vista non frontale bensì angolare che crea un evidente scorcio prospettico.

Di fotografi amatoriali abbiamo testimonianza anche in molti altri paesi europei come ad esempio

l’Italia, la Germania, l’Olanda.

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Roger Fenton,

British Museum,

1857

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Il Pittorialismo

Nel Novecento la fotografia di architettura fu sempre più praticata, ma non tanto dagli amatori

quanto sempre di più da professionisti. La corrente artistica del pittorialismo che nasce negli anni

Novanta dell’800 e continua fino alla prima guerra mondiale, propone una nuova categoria di

fotografi che cercano di farsi strada con il loro mezzo espressivo in ambito artistico. Il pittorialismo

nacque dalla voglia della generazione di fotografi precedente di distinguersi dalla massa che ha

avuto accesso alla fotografia a causa dell’introduzione di apparecchi fotografici di piccolo formato e

all’invenzione di negativi su pellicola. Questa corrente si proponeva di far elevare la riproduzione

fotografica a livello delle altre arti e, con lo scopo di suscitare emozioni come fino ad ora era stata

capace ad esempio la pittura, prediligeva il ritratto ambientato, la natura morta e il paesaggio. Non

mancano comunque anche in questo periodo fotografi che proprio all’interno del pittorialismo

promuovono la scelta dell’architettura come oggetto della loro espressione artistica.

Frederick Evans fu uno di questi, maestro nel cogliere la spiritualità di un luogo attraverso la lettura

dei suoi spazi e della luce che si trova all’interno di essi.

Proprio dagli stessi fotografi pittorialisti inizia una ricerca verso uno stile più minimalista e volto a

carpire l’anima dei soggetti in senso più oggettivo e meno personale.

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Alvin Langdon Coburn (Boston 1882-Colwyn Bay 1966) ricevette come regalo la sua prima

macchina fotografica, una Kodak, all’età di sei anni e prese subito confidenza con la fotografia.

Capiamo già che iniziando a fotografare in giovanissima età per gioco, da adolescente Coburn

aveva sviluppato una discreta capacità di osservazione che si esplicava all’interno del mirino della

sua macchina fotografica. Suo cugino, F. Holland Day vide negli scatti del ragazzo una discreta

bravura e si interessò di indirizzarlo e consigliarlo, essendo lui un fotografo con una soddisfacente

fama internazionale. Nel 1899 Coburn si trasferì dall’America fino a Londra dove proprio il cugino,

invitato ad esporre le proprie fotografie alla Royal Photographic Society, si prese la briga di portare
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con sé ben nove scatti dell’adolescente Alvin, che con questa ottima occasione di visibilità si garantì

una carriera promettente in ambito fotografico.

Negli anni 1908 Alfred Stieglitz pubblica nella sua rivista Camera Work altre dodici foto di Coburn.

L’anno successivo il giovane fotografo ottiene una mostra a lui dedicata nella famosa Galleria 291

creata anche questa da Stieglitz. Nel 1916, Coburn incontra George Davison che lo introduce alla

massoneria. Da questo momento in poi Coburn abbandona gradualmente la fotografia per

interessarsi maggiormente a studi mistici e metafisici. Intorno al 1920 invece incontra Ezra Pound,

incontro che fu produttivo nella carriera fotografica di Coburn. Con questa nuova conoscenza

Coburn aderisce al movimento ideato da Pound, il Vorticismo, parzialmente ispirato al Cubismo che

basava la sua visione artistica sull’uso delle forme geometriche con risultati molto vicini

all’astrattismo. Coburn voleva trovare un modo per creare forme geometriche con la fotografia, così

modificò i suoi obiettivi e inoltre sperimentò l’uso di un prisma davanti alla lente così produsse la

serie di Vortogrammi.

Possiamo dire che Alvin Langdon Coburn riuscì a attraversare l’Ottocento e il Novecento

rinnovando il suo stile fotografico. Iniziò come pittorialista e poi arrivò ad una fase simbolista della

sua arte, finché non decise di lasciare il mezzo fotografico per rifugiarsi nella ricerca di una

spiritualità più profonda e andò a stare in un convento in Galles. Coburn aveva un occhio che

guardava al passato e l’altro rivolto verso il futuro. Era capace di scattare immagini che erano di

grande rottura con il passato, come The Octopus, la foto del Madison Square Park, la cui forza

espressiva è evidente e che contestualizzandola ci rendiamo conto di quanto fosse lontana dal suo

tempo. Quest’immagine infatti apre le porte alla visione astrattista: senza manipolare la foto e senza

abbandonare la rappresentazione naturalistica, Coburn sceglie un punto di vista e una composizione

che fanno delle strade e dei prati innevati del parco, un soggetto che vive nella fantasia dell’artista,

come appunto un polpo (octopus).

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La sua serie “New York from its pinnacles” del 1913, ci mostra come la fotografia si sia allontanata

dal Pittorialismo, che voleva rappresentare l’essenza delle cose ritratte, attraverso i simboli e

l’interpretazione sentimentale ed emotiva.

Adesso il fotografo si approccia alla realtà cercando di vederci in essa qualcosa di altro dall’oggetto

in sé ripreso, qualcosa che sta dietro ad esso, nella mente del fotografo ed esalta fino alla

sublimazione i caratteri strutturali e formali dell’oggetto.

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Alvin Langdon Coburn,

Trinity Church, 1912

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Alvin Langdon Coburn,

The Octopus, 1912

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Proprio al riguardo della ricerca dell’oggettività Paul Strand parlò nel 1917 di come un oggetto

possa esprimere una forma astratta tramite una certa disposizione di esso. E’ all’inizio del XX

secolo che prende campo una fotografia diretta e pura. Le avanguardie artistiche come il cubismo,

influenzano anche la fotografia.

Charles Sheeler già pittore praticava la fotografia solo a scopi commerciali eppure influenzato dal

cubismo realizzò una serie di fotogrammi in cui rappresentava i grattacieli di New York. In questa

sequenza di fotografie egli decise di eliminare la linea dell’orizzonte, di ritagliare l’inquadratura in

maniera calcolata e talvolta stretta e scelse giorni in cui la luce del sole creava forti contrasti tra luci

e ombre. Sheeler riusciva ad indagare in maniera approfondita la tridimensionalità delle architetture

sia esterne che interne sfruttando la luce naturale e artificiale.

La città di New York fu ripresa ripetutamente anche da Alfred Stieglitz (Hoboken 1864 -New York

1946) che nacque in una famiglia ebrea di origine tedesca e passò l’infanzia e l’adolescenza nel

New Jersey, fino al 1882 quando si trasferì in Europa, a Berlino per frequentare la scuola di

Ingegneria Meccanica. Qui prese in mano la macchina fotografica per la prima volta ed iniziò a

dedicarsi alla fotografia. Dopo le prime incertezze vinse un premio di una rivista di Londra. Negli

anni successivi riuscì a farsi conoscere e apprezzare anche se ancora non era riuscito ad ottenere il

grande successo e la fama che gli arrivarono negli anni dopo il suo ritorno in America.

Nel 1890 infatti sbarca di nuovo a New York. Turbato comunque dal nuovo trasferimento, si sentiva

lontano dalla cultura americana e uno straniero nel suo stesso paese. Nonostante questo periodo in

cui faticò a riambientarsi dopo il soggiorno europeo, Alfred Stieglitz capì che la fotografia doveva

essere la forma di espressione con la quale riusciva a parlare di sé e che doveva necessariamente

partire dalle sue emozioni e sensazioni più intime e anche istintive.

Scattò la famosa foto The Terminal, scrivendo a proposito che era stata proprio la solitudine di quel

periodo di passaggio da una vita ad una nuova in America a fargli notare quel signore che si prende

cura dei cavalli. Aveva in sostanza notato quell’azione che si stava svolgendo in strada perché era
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mosso da un’emozione che lo faceva sentire affine a quei cavalli che dopo lo sforzo avevano

comunque qualcuno che li abbeverava.

I primi anni di attività fotografica sono anche per Stieglitz legati alla corrente del Pittorialismo, che

in quegli anni vuole la fotografia ai livelli dell’arte che fino ad ora era stata quella per eccellenza

cioè la pittura. I pittori si sentono minacciati dalla perfetta capacità della fotografia di riprodurre il

reale, ma i fotografi non si sentono invece artisti poiché sono costretti ad usare un mezzo che li

separa dal contatto diretto con le loro opere. Man mano che la fotografia acquisisce una popolarità

maggiore, i fotografi rivendicano una valenza artistica delle loro produzioni, in sostanza loro

vogliono essere considerati non solo lavoratori tecnici ma anche e soprattutto artisti.

Grazie all’esperienza che Stieglitz ha maturato in Europa è capace di fondare una rivista cha sarà

destinata a passare alla storia per il contributo artistico che ha donato alle generazioni successive e

per la possibilità che ha dato a diversi fotografi e artisti del tempo di pubblicare in essa le loro

opere. La rivista in questione è Camera Work. Con questo nuovo progetto editoriale Stieglitz

intendeva portare ai livelli europei la fotografia americana.

Ai suoi progetti editoriali Stieglitz affiancava sempre anche la produzione fotografica e scattò

alcune delle foto che cambiarono completamente l’approccio del mondo alla fotografia. Scorrendo

alcune di queste immagini

Nel 1915 Stieglitz scattò un’immagine della sagoma di alcuni palazzi newyorchesi di notte dal titolo

From the Back Window - 291 che esprime molto bene il suo sguardo verso le avanguardie europee;

infatti nonostante l’aria del pittorialismo aleggi nell’atmosfera che evoca quest’immagine, il gioco

delle forme angolari dichiara la sua affezione e familiarità con il Cubismo.

Nella sua foto intitolata Old and new New York, mette esplicitamente in contrasto due facce della

New York che cambia, fotografando una serie di brownstone le vecchie case di New York e sullo

sfondo un grattacielo in costruzione. Questa immagine è perfettamente rappresentativa della nuova

direzione che la fotografia di Stieglitz sta prendendo: quello cui si assiste in questo periodo è un
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progressivo abbandono del discorso pittorialista, che viene soppiantato da un crescente interesse

estetico per le linee della città moderna, ritenute espressive di per sé. Intorno al 1910 insomma,

nell’ambito della cultura fotografica e ad opera di alcuni degli stessi protagonisti del pittorialismo,

si determinò una reazione contro il pittorialismo stesso in favore di quella che divenne poi la

fotografia diretta.

Un momento importante per la produzione urbana di Stieglitz si colloca a partire dai primi decenni

del ‘900. Quando scatta la serie di immagini intitolata New York Series con diverse vedute di notte e

la serie degli anni Trenta From my window at the Shelton, egli sembra non voler celebrare la

crescita massiva dei grattacieli di New York, ma piuttosto la permanenza e la stabilità di queste

costruzioni, quasi come se fossero delle nuove Piramidi.

Le immagini di Stieglitz, tra il 1915 ed il 1931, esprimono una visione di questo genere: esse non

toccano mai terra, sono tutte visioni dalla finestra, sin dalla metà degli anni Dieci ma anche nei

primi anni Trenta. Sono immagini molto belle, che testimoniano, con un misto di celebrazione e

tristezza, di questo mondo di linee e forme magnifiche che il fotografo vede affacciandosi dalla sua

casa o dalla finestra della sua galleria.

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Alfred Stieglitz,

New York Series,

ca. 1930

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La “nuova visione”

In Europa intanto durante gli anni Venti si andavano sviluppando diverse correnti che si

approcciavano ad un tipo di fotografia basato più sull’astrazione. Le nuove avanguardie del

costruttivismo, del dadaismo e dell’arte astratta, spingevano la fotografia verso ricerche di nuove

percezioni ottiche. L’architettura in questa fase venne vista come oggetto di questa fotografia

astratta, quindi l’architettura poteva essere riprodotta in immagini che non la descrivevano

didascalicamente ma anzi attraverso la libera interpretazione del fotografo che la osservava.

Per Làszlò Moholy-Nagy (Bacsborsod 1895-Chicago 1946) la fotografia era momento di

produzione creativa e non aveva a che fare con la rappresentazione oggettiva della realtà. Egli

cambiò il suo vero cognome che era Weisz dopo che suo padre abbandonò la famiglia e con la

madre si spostarono a vivere a Mohol nella casa dello zio materno il cui nome di famiglia era

proprio Nagy. Nel 1915 interruppe gli studi di giurisprudenza perché fu chiamato alle armi nella

Prima Guerra Mondiale. Durante la guerra inizia la sua attività artistica disegnando e la continuò

più assiduamente nel 1918 quando venne congedato. Con la pittura si avvicina alle avanguardie

russe e all’espressionismo tedesco. Quando la Repubblica Sovietica Ungherese iniziò la sua

repressione contro i comunisti e gli ebrei, Moholy-Nagy si trasferì a Vienna e dopo pochi mesi a

Berlino. é qui che ha la possibilità di conoscere molti degli artisti del movimento Dada. L’incontro

con la fotografa e storica dell’arte Lucia Schulz nel 1920, la stessa che un anno dopo diventerà sua

moglie, lo avvicinò decisamente al mondo della fotografia e fu proprio agli inizi degli anni Venti

che Moholy-Nagy cominciò a sperimentare il mezzo fotografico come strumento artistico. Non

abbandonò comunque il disegno e la pittura tanto che nel 1923 inizia la sua fase di costruttivismo,

accostandosi allo stile di artisti russi come Malevic, Rodčenko e El Lisickij. La sua serie di quadri

costruttivisti si intitola “Architetture di vetro”, dove sottolinea quella che poi diventerà il tema

costante del suo lavoro e che è proprio la smaterializzazione e la trasparenza.

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Nel 1923 dopo la sua prima mostra dei suoi Fotogrammi ad Hannover, fu chiamato da Walter

Gropius a sostituire l’allora professore Johannes Itten, alla cattedra del corso preparatorio della

famosa scuola del Bauhaus. Continua a promuovere lo stile costruttivista e anche la tecnica

fotografica come mezzo espressivo. Nel 1924 espose quadri in cui sperimenta nuovi supporti quali

la plastica, e l’alluminio. Contemporaneamente realizzò i suoi primi fotomontaggi, chiamati

Fotoplastiken. Nel 1927 lascia il Bauhaus insieme allo stesso Gropius e ritorna a Berlino. In questo

momento della sua vita per motivi finanziari si dedica all’allestimento di mostre e al lavoro

tipografico, nonché alla produzione di fotomontaggi e fotocollage per le riviste e per la pubblicità.

Per Moholy-Nagy la luce aveva valore costruttivo e mise in pratica questa idea con la produzione di

fotogrammi che non sono ottenuti con un apparecchio fotografico, ma solo in camera oscura

appoggiando oggetti sulla carta fotografica.

Il suo sguardo optava per tagli estremi delle inquadrature, riprese con angolazioni estreme, in

genere insomma aveva una visione molto dinamica e innovativa della fotografia in tutte le sue

espressioni. La nuova visione che in quegli anni si era diffusa in Germania e anche tra gli artisti

russi costruttivisti, aveva investito anche la fotografia di architettura. Moholy-Nagy giocava con le

forme geometriche, optava per scorci forti e inusuali, esaltava i contrasti di luci e ombre, ricercava

di punti di vista dal basso o dall’alto.

Rodcenko ancora di più adottò queste tecniche espressive applicate alla fotografia di architettura.

Moholy-Nagy iniziò inoltre a collaborare come scenografo per il teatro ed è durante questi lavori

che conobbe la sua seconda moglie, l’attrice e sceneggiatrice per il teatro Sibyl Pietzsch. All’inizio

degli anni Trenta realizzò un film che fu il primo di una serie di pellicole girate fino al 1936. Nel

1934 a causa del regime nazista e delle due repressioni fugge ad Amsterdam e l’anno successivo

raggiunge Walter Gropius a Londra. Qui apre uno studio di Design, gira altri film come Lobsters e

pubblica libri fotografici come The Street Markets of London.

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Moholy-Nagy decise di trasferirsi nuovamente in un’altra città, stavolta oltre oceano. A Chicago

arrivò nel 1937 e prese la direzione della American School of Design. In questi anni sperimenta

un’altra forma artistica, la scultura, fabbricando sculture di plexiglas. Dopo l’avvento della

Kodachrome nel 1936, Moholy-nagy inizia a fotografare a colori. Scrive libri sull’insegnamento

della fotografia e del design.

Nel 1946 muore di leucemia a Chicago.

In quel periodo in Germania si era sviluppata questa Nuova Visione, che si esprimeva come già

detto in una ricerca di forme astratte con inquadrature, tagli e prospettive appositamente studiate.

Questo nuovo tipo di approccio astratto investì più profondamente la fotografia astratta che quella

di architettura. Non sempre questa versione della fotografia di architettura si sposava bene con le

nuove forme di architettura, come per esempio quelle di Walter Gropius uno dei fondatori del

Bauhaus. Infatti nonostante le avanguardie avessero coinvolto ogni espressione artistica, il mondo

dell’architettura era ancora molto legato alla rappresentazione il più fedele possibile degli edifici.

Gli architetti spesso non hanno apprezzato l’interpretazione visiva che un fotografo aderente alla

nuova visione, aveva della proprio opera architettonica. L’architetto preferiva ancora una fotografia

che esaltasse le caratteristiche strutturali della costruzione, che la trattasse in maniera didascalica e

non filtrata dall’occhio di un fotografo che invece intendeva esprimere la propria sensazione di

fronte ad essa. Convivevano comunque entrambi i tipi di fotografia di architettura, quella più

documentaristica e quella che nasceva dal sentimento del fotografo e dalla sua personale opinione.

E’ importante notare come anche all’interno del Bauhaus fosse presente questo duplice uso della

fotografia che da una parte presentava l’architettura semplicemente e dall’altra era libera di

proporre arbitrariamente le sue interpretazioni. Quindi deduciamo che la nuova fotografia non

conviveva sempre in rapporto stretto con le avanguardie architettoniche, che l’una non equivaleva

necessariamente all’altra. Anzi è fondamentale accennare che gli stessi fotografi sperimentali

praticavano contemporaneamente anche una fotografia di architettura informativa e


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documentaristica. Questo aspetto della produzione di alcuni di questi fotografi fu volutamente

messo da parte nella storiografia per dare più luce alla fotografia di rottura con il passato e quindi

avanguardistica.

Un fotografo che si oppose in maniera decisa allo sperimentalismo fu Albert Renger-Patzsch che

aveva come scopo ideologico la riproduzione oggettiva di ciò che fotografava. Per lui un fotografo

doveva cercare l’essenza delle cose, diventare oggetto lui stesso per dare spazio al soggetto di

esplicitarsi nella sua vera forma. Ogni soggetto era degno di essere fotografato ogni soggetto

appartenente sia al mondo naturale che a quello artificiale. Egli voleva esprimere un grande senso di

ordine che da solo avrebbe conferito all’immagine valore estetico. Un po’ lo stesso principio della

fotografia di Edward Weston che esasperava l’oggettività e creava arte da quella.

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Albert Renger-Patzsch,

Railroad bridge,

1927

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In Cecoslovacchia invece la Nuova Visione si sposò più pienamente con la nuova architettura che in

altri paesi europei. Non è da escludere che la fotografia sperimentale abbia influenzato quella di

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architettura più scolastica se non altro nella tendenza a decontestualizzare l’edificio, ad evidenziare

i dettagli dei materiali voluti dall’architetto e a esaltare i volumi.

Una fotografia informativa non è sempre priva di valore artistico, può anzi assumerlo di

conseguenza ad un’inquadratura molto studiata e ad un equilibrio perfetto delle linee e delle forme

dell’edificio.

In Francia invece la corrente più forte e diffusa è quella del Surrealismo. Tutte le avanguardie si

propongono come distacco dal passato e istituiscono approcci con l’arte del tutto nuovi. Ma se in

Germania il dadaismo propone un’astrazione più volta al disorientamento e allo sconvolgimento

dell’osservatore, in Francia il surrealismo parla di astrazioni oniriche, di assemblaggi di cose reali

del tutto distanti tra loro. L’astrazione fotografica più legata al surrealismo propone le cose reali in

forme che non sono a loro propriamente associate.

Uno di questi fotografi legati al surrealismo è Andrè Kertesz che nacque a Budapest nel 1894 e fin

dalla giovinezza si interessò alla fotografia evitando la carriera economica che avrebbe dovuto

seguire secondo le volontà del padre. I suoi primi incontri con la fotografia sono di stampo

documentaristico e di fotografie in studio. Durante la Prima Guerra Mondiale, per esempio, scattò

da soldato alcune fotografie della vita di trincea e delle lunghe marce con un obiettivo 75mm, ma

evitò di riprendere i momenti di crudi della guerra. Nel 1925 Kertesz decide di trasferirsi a Parigi

poiché in quel momento è la città dove convogliano tutti i più grandi artisti del momento. Qui gli è

possibile venire in contatto con tutti i più famosi fotografi che si stanno facendo strada nella scena

mondiale tra cui Robert Capa, Man Ray e Berenice Abbott. Le sue foto hanno ancora in questa

prima fase più aderenza allo stile oggettivo e razionale che non al movimento Surrealista che va

sempre più crescendo in quegli anni. Conobbe a Parigi anche un suo connazionale, Gyula Halasz,

meglio conosciuto come Brassaï, a cui per altro insegnò la tecnica fotografica prestandogli la sua

macchina fotografica ed introducendolo ai procedimenti base di questa disciplina. Partecipa inoltre,

dopo tre anni dal suo trasferimento nella capitale francese, alla mostra indipendente di fotografia
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nella quale sono esposti anche gli scatti di Atget fotografo parigino la cui importanza artistica fu

esaltata postuma proprio dalla sua assistente, Berenice Abbott, e Nadar, che aveva fatto del suo

studio un punto di riferimento e incontro per artisti, pittori e letterati, che qua potevano esporre e ai

quali Nadar faceva delle bellissime fotografie. A Parigi era anche collega di Henri Cartier-Bresson

nella rivista Vu, ed ottenne cinque pagine a sua piena e libera disposizione nella rivista Le sourire.

In quest’occasione Kertesz elabora un progetto destinato a diventare a distanza di anni un esempio

molto significativo della storia della fotografia. Il titolo è Distorsioni e ci mostra il corpo umano di

due modelle ripreso con specchi deformanti e illuminato in maniera elaborata. Il risultato fu una

serie di immagini che si dividono tra lo statuario e il grottesco.

Kertesz però sentiva il bisogno di ampliare le sue ricerche artistiche che comunque vertevano già su

un’impronta surrealista, con le Distorsioni se ne avvicina decisamente anche se in ritardo ormai

rispetto al movimento, simbolica e metafisica, e di seguire il flusso di artisti che in quel momento a

causa dell’insorgere di regimi totalitari in europa, si stava spostando verso l’America. Nel 1936,

dopo aver sposato Erzsébet Salamon, decise di trasferirsi assieme a lei a New York. Eppure nel

nuovo continente l’artista non trova un terreno fertile come aveva pensato e non riesce fin da subito

a farsi notare ed a piacere alla critica che preferisce uno stile più didascalico dove era meno

evidente l’interpretazione personale. Kertesz infatti ha uno gusto molto più intellettuale, che non è

facilmente comprensibile ai più e quindi meno immediato. L’editoria americana preferisce qualcosa

di più narrativo e spettacolare, meno legato ai concetti e più vicino alla volontà di stupire. Kertesz

allora cerca di adattarsi alle richieste e lavora per diverse riviste. Fa esibizioni e firma contratti con

diverse riviste e giornali. Nel 1946 ottiene il primo riconoscimento importante da quando si è

trasferito a New York, una mostra all’Istituto d’Arte di Chicago. Dagli anni Sessanta in poi la sua

visione artistica viene veramente apprezzata. Nel 1964 espone una cinquantina di fotografie al

Museum of Modern Art di New York. Torna a Parigi e recupera i negativi che aveva scattato e

salvato durante la Prima Guerra Mondiale e espone alla Biblioteca Nazionale. Espone a Tokyo e
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pubblica diverse raccolte di fotografie. Negli ultimi dieci anni di vita torna indietro ad alcuni temi

già affrontati in gioventù. Riceve la laurea honoris causa e diverse onorificenze. Nel 1985 muore a

New York proprio prima dell’apertura di una sua mostra.

Riguardo alla fotografia di architettura o forse sarebbe meglio parlare di fotografia che tratta la città,

Kertesz è molto attivo e ha un interessante sguardo che continua negli anni a stupirsi di questo

soggetto e a rinnovarsi. Possiamo dire che ha una grande capacità di cogliere l’anima di una città e

di riproporne l’essenza dei suoi abitanti. Le sue immagini delle città sono spesso ricche di forme

nette ed esplicite che sembrano riassumere l’essenza di una società e di una grande metropoli come

lo era già Parigi e anche New York. Lo sguardo del fotografo cerca di scorgere linee che disegnano

forme e delimitano spazi, persone nella luce piena del giorno che producono lunghe ombre nette,

scorci di alberi che tagliano e chiudono lo sguardo dello spettatore dentro un rigore quasi

geometrico. Ci propone porzioni di mondo e soggetti colmi di un forte simbolismo e che sono

eternamente sempre gli stessi: le panchine vuote, i profili dei comignoli che si stagliano contro il

cielo, le ombre degli uomini solitari per le strade che paiono essere state disegnate. In genere questo

tipo di sguardo possiamo interpretarlo come alla ricerca dell’universale, di qualcosa che è parte di

questo mondo e che lo sarà sempre. Non ci racconta mai una realtà quotidiana, non ci porta mai al

centro di un’azione che si sta svolgendo, al centro di un qualcosa che potrebbe non ripetersi più il

giorno dopo e che quindi è frutto del momento. Kertesz cerca la bellezza statica, atemporale,

l’uomo che passa nella via da solo non è soggetto dell’immagine ma solo un oggetto aggiuntivo che

rende la composizione completa. La sua scelta inoltre di riprendere spesso dall’alto, memore della

lezione della nuova visione tedesca, ci fa capire come lui non si sente complice di quella vita che si

sta svolgendo in città, ma anzi lui si sente osservatore di essa, lontano fisicamente e vicino solo in

quanto artista quindi sensibile a ciò che quel mondo può ispirargli e da cui può trovare stimoli.

E’ solo in Italia che l’entrata della fotografia nelle arti non riuscì ad avvenire. I futuristi che pure

apprezzavano ed esaltavano il progresso tecnologico e industriale, si sentirono minacciati dalla


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nuova tecnica e rimasero i soli nelle avanguardie ad allontanare lo strumento fotografico dalle arti

classiche. La coerenza del mezzo fotografico con l’avanzamento tecnologico non fece cambiare

idea ai futuristi che si pongono in una posizione di rifiuto di questo.

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La fotografia incontra la metropoli

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La Seconda Guerra Mondiale e in precedenza gli anni dei regimi totalitari avevano frenato e poi

bloccato lo slancio delle avanguardie che ricomincia alla fine della guerra con la Pop Art, il filone

concettuale e anche con la Land Art. La fotografia si divide in ricerca di forme astratte e simboliche

e in invenzione di realtà surreali e spirituali.

Gli anni a seguire dopo la Seconda Guerra Mondiale sono anni di grande cambiamento nella storia

del mondo e tutte le arti ne risentono. La destabilizzazione di cui soffre la società del post-guerra

investe anche la fotografia di architettura. La storia inizia così ad influenzare le scelte dei fotografi,

molti di loro infatti riprendono le macerie del dopoguerra, la città distrutte e le conseguenze della

guerra su di essa. Da qui in avanti lo sguardo del fotografo non si rapporta solo con la descrizione di

un edificio, ma anche con il suo valore nella storia e nella società in cui si trova. Nasce un generico

bisogno da parte degli artisti di documentare il territorio in cui vivono, di raccontarne i connotati,

come per ricercare delle sicurezze o la propria identità dissestata. Il fotografo di architettura ha

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anche trovato più ampi raggi di azione su cui lavorare e non circoscritti più ad aree e locali. Adesso

è propenso ad indagare il mondo tutto, a guardare oltre i confini della sua nazione. La città inizia ad

essere fotografata anche dal punto di visto sociologico: l’uomo entra nell’inquadratura degli edifici

come soggetto che li abita.

La fotografia animata fu molto usata in Inghilterra e in Olanda. John Szarkowski, americano, fu uno

di quelli che optarono per questo genere di fotografia.

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John Szarkowski

The Face Of Minnesota,

1957

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Negli anni Settanta la fotografia a colori si impose anche su all’interno di quella di architettura. Nei

successivi anni Ottanta ancora di più. Il bianco e nero resta ancora oggi molto diffuso perché si

presta bene alla resa delle linee essenziali delle architetture e ai suo contrasti volumetrici. Al giorno

d’oggi è una scelta legata ai gusti personali del fotografo o nei casi specifici, al gusto dell’architetto

che richiede l’uno o l’altro tipo.

L’avvento del digitale nel mondo fotografico ha rivoluzionato il processo di creazione e stampa di

un’immagine. Non solo la quantità possibile di scatti, la visualizzazione immediata del risultato e la

comodità delle nuove macchine fotografiche in generale, ma soprattutto la fase della post-

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produzione con i diversi software che non hanno limiti di potenzialità. Si può creare una fotografia

anche senza averla mai scattata con i programmi di costruzione grafica di un prospetto

architettonico. Così come si possono creare realtà inventate partendo da una fotografia ed

cambiandone le caratteristiche anche totalmente. Così la fotografia ha assunto un nuovo mezzo che

non è più solo la macchina fotografica, ma il computer con i suoi software.

Andreas Gursky (Leipzig 1955) è diventato molto famoso con le sue fotografie dove esaspera la

realtà ripetendo all’infinito una parte del fotogramma. Figlio di un fotografo commerciale, Andreas

Gursky nasce a Leipzig in Germaia nel 1955. Studente con profitto della Folkwangschule a Essen

dal 1978 al 1981, si trasferisce per completare i suoi studi all’Accademia di Belle Arti di

Dusseldorf, dove si diploma con il maestro Bernd Becher. Fin dall’inizio della sua attività artistica

Andreas Gursky si è rivolto a temi della rappresentazione estremamente contemporanei, dividendo i

suoi temi in macro categorie, come, lavoro, tempo libero, presentazione e rappresentazione. Gursky

riceve una forte influenza dai suoi professori Hilla e Bernd Becher, una coppia fotografica che si

contraddistinse per il loro spassionato catalogare di macchinari industriali e architettura, tipicamente

in bianco e nero. Gursky mostra un simile approccio metodico con le sue fotografie in grande scala.

Dopo gli anni Novanta ha iniziato ad usare il digitale e a immortalare soggetti ricchi di dettagli

come gli scaffali dei supermercati o il ripetersi di finestre e terrazze nelle palazzine di provincia. Le

immagini di Gursky appaiono sempre chiare ed ordinate, ma attraverso la ripetizione e la variazione

di elementi individuali, strutture decorative, pattern grafici riesce a conferire una diversa sostanza

all’immagine. Egli basa le sue fotografie sull’invenzione partendo da fatti concreti e veri.

Fondamentale è il rapporto tra paesaggio naturale e paesaggio artificiale.

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Andreas Gursky,

Montparnasse,

1993

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La fotografia di architettura come arte autonoma

A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta continua quello slancio culturale, già intrapreso dalle

avanguardie, che portava a ridurre al minimo le differenze tra arti minori e arti maggiori, che si

muoveva a favore di un ampliamento dello scenario dell’arte. La fotografia si propone in quanto

fotografia, pura e semplice e, fondamentale, sufficiente a se stessa. Il linguaggio fotografico si fa

più essenziale, privo di stile o abbellimenti estetici. La fotografia diventa indagatrice dei mutamenti

paesaggistici o, come in alcuni casi italiani, si fa registrazione dei centri storici delle città.

In questo contesto si sviluppa l’importanza delle riviste di architettura e l’importanza artistica del

mezzo fotografico che insieme producono diverse esperienze internazionali sul tema

dell’architettura, sia da parte di fotografi legati direttamente al mondo degli architetti e delle riviste

specializzate, sia da parte di artisti interessati a scoprire le possibilità della fotografia di architettura

come opera d’arte autonoma. In questo quadro si distinguono due grandi filoni, quello dei fotografi

che ricercano e raccolgono fotografie relative a zone geografiche circoscritte con intento quasi di

reportage e quello dei fotografi che hanno come obiettivo la costruzione di un’immagine

architettonica e allo stesso tempo artistica.

I coniugi Becher tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta si sono interessati alla documentazione

seriale alle architetture senza architetto, soprattutto delle architetture industriali. Questa serialità dà
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al soggetto una sua morfologia. Le immagini sono sempre prive di forti contrasti, la luce non tagli

mai le strutture con ombre nette e l’assenza di figura umana serve a esaltare la plasticità

dell’architettura. La loro ricerca resta a cavallo tra il documento e l’arte. Bernd Becher fu anche tra i

fondatori della Scuola di Düsseldorf.

Edward Ruscha (Omaha, 1937) studia arte a Los Angeles e nel frattempo lavora come illustratore

per alcune riviste pubblicitarie. La sua pubblicazione nel 1963 del libro fotografico Twenty-six

Gasoline Stations è considerata spesso la prima pubblicazione veramente moderna. Si tratta di un

archivio di forme architettoniche combinate ai segni pubblicitari che identificano quei luoghi.

Ruscha è un pittore e fotografo decisamente appartenente alla Pop Art e in questa scelta di

fotografare le stazione di benzina lo dimostra chiaramente. Queste immagini sono caratterizzate da

una grande purezza e un disinteresse per l’importanza delle immagini che gli permettevano persino

di utilizzare delle fotografie non scattate da lui stesso. Il valore delle fotografie è solo un valore

informativo, quasi come se fossero appunti di lavoro e catalogazioni. Non c’è nessun tipo di ricerca

estetica in questo progetto, nessuna voglia di emozionare o di sorprendere. Le inquadrature sono

casuali, sembra quasi che l’autore abbia puntato la macchina fotografica verso la stazione e abbia

scattato senza pensare al punto di vista migliore.

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Fotografo di fama internazionale, Stephen Shore è noto in particolare per la sua collaborazione nel

progetto di neotopografia "New Topographics: Photographs of a Man-Altered Landscape”.

Cresciuto artisticamente nella Factory di Andy Warhol . Nel 1972 espose il progetto fotografico

intitolato America Surfaces che era un insieme di fotografie raccolte durante il viaggio che aveva

fatto per l’America l’anno precedente. L’approccio è simile a quello di Ruscha senza nessuna

pretesa estetica, e inemotivo. Gli Stati Uniti sono una fonte di innumerevoli spunti visivi e Shore

compie molti altri viaggi all’interno del suo paese e crea un altro progetto, Uncommon Places,

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cambiando macchina fotografica riesce a sfruttare il maggior numero di dettagli e un’inquadratura

più studiata.

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I mutamenti del paesaggio

Intorno agli anni Settanta, la nuova generazione di fotografi nati durante o subito dopo la guerra,

opera intorno ai temi del nuovo paesaggio, al rapporto tra l’uomo e l’ambiente da lui creato, con

particolare attenzione all’ambito delle metropoli, molto spesso in dialogo diretto con le discipline

dell’architettura, dell’urbanistica e della sociologia. Se in Europa il cambiamento è visto come

perdita della vecchia cultura soprattutto a causa della guarda che ha costretto ad un rinnovamento

dell’aspetto delle città e dei paesaggi, in America, che non è stata vero e proprio terreno di guerra, il

mutamento è sentito come una violenza di un territorio che fino ad ora era rimasto piuttosto

intaccato. In particolar modo l’America sta vivendo un periodo in cui perde spazio la natura e lo

acquisisce la città, una città però che non ha una forma precisa e studiata, ma piuttosto è segnata

dall’incoerenza. L’europa è il continente della storia, mentre l’America quello del futuro e delle

novità in ogni ambito. E’ una terra anche dal punto di vista della documentazione fotografica ancora

molto poco battuta e si offre bene a questa sperimentazione.

Indagatore delle materie della natura Paolo Monti nasce l'11 agosto del 1908 a Novara. Il padre

Romeo, originario della Val d'Ossola, era un foto-amatore dilettante e Monti trascorre l'infanzia e la

giovinezza tra le lastre e i pesanti apparecchi dell’epoca. Dopo gli anni passati spostandosi con la

famiglia tra le piccole città dove il padre veniva trasferito dalla banca in cui lavorava come

funzionario, Monti si stabilisce a Milano per frequentare l'Università Bocconi. Si laurea in

Economia Politica nel 1930 e ritorna in Piemonte, dove lavora per qualche anno.

Poco dopo la prematura scomparsa del padre, nel 1936, sposa Maria Binotti, coetanea e compagna

di giochi negli anni infantili trascorsi in Val d’Ossola. Nello stesso anno Monti viene assunto dalla
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Montecatini e lavora per diverse filiali dell'azienda, cambiando spesso città. Nel 1939 viene

trasferito a Mestre e vi rimane fino al 1945, quando decide di lasciare la Montecatini.

Parallelamente all'attività professionale, Monti si dedica con sempre maggior devozione all'hobby

della fotografia. Nel 1947 con alcuni amici fonda il circolo La Gondola, che nel giro di pochi anni si

impone sulla scena internazionale come movimento d’avanguardia. La sua opera, trascorso il primo,

importantissimo periodo veneziano, superò la semplice visione descrittiva indirizzandosi anche

verso l’informale con sperimentazioni “off camera”. Scelse come campo d’attività le riproduzioni

d’arte e l’architettura collaborando con prestigiose riviste ed illustrando più di duecento volumi.

Nel 1953, forte delle collaborazioni avviate con alcune riviste di architettura, Monti decide di

cambiare lavoro e ritornare a Milano per dedicarsi alla fotografia. Viene scelto come fotografo per

la X Triennale e dà inizio a una feconda attività editoriale. Negli anni sessanta, come esponente

significativo della realtà culturale legata alla fotografia, Monti è parte di una fitta rete di relazioni

che gli portano notevoli fortune anche in ambito lavorativo. Nel 1965 intraprende il censimento

delle valli dell’Appennino tosco-emiliano cui seguirà quello esemplare del centro storico di

Bologna. La catalogazione dei centri storici lo impegnerà per oltre dieci anni fotografando

numerosissime città. Nel 1979 è chiamato a collaborare con Einaudi alla realizzazione dell'apparato

iconografico della Storia dell'Arte Italiana. Monti insegna Tecnica della Fotografia alla Scuola

Umanitaria di Milano dal 1964 al 1966. Quattro anni più tardi accetta la cattedra di Tecnica ed

Estetica dell'Immagine presso il Dipartimento di Arte, Musica e Spettacolo della Facoltà di Lettere e

Filosofia dell'Università Bologna. Monti continua ad affiancare la ricerca sui temi e i soggetti che

ha sempre amato. Accanto alle immagini di Venezia, Milano e molti altri luoghi, trovano spazio i

ritratti, il paesaggio, la materia e gli esperimenti astratti. Dal 1980 si dedica al censimento del Lago

d'Orta e della Val d’Ossola. Monti muore a Milano il 29 novembre 1982.

foto monti

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Paolo Monti,

Venezia,

1947

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I moti degli anni Sessanta e Settanta uniti alle conseguenze sociali della seconda guerra Mondiale,

porta i fotografi ad indagare il senso dei luoghi da loro vissuti. L’approccio a questo tema da parte

dei fotografi avviene in duplice senso: da un lato c’è l’attenzione topografica per un paesaggio

industriale e post-industriale caratterizzata dalla vicinanza di alcuni fotografi con architetti;

dall’altro lato un altro tipo di attenzione sviluppa il tema del mutamento del paesaggio in chiave

personale, affettiva e legata fortemente alla memoria, questo atteggiamento è presente soprattutto in

Italia. Tra i protagonisti di questo secondo approccio va certo nominato Gabriele Basilico (Milano,

1944 – Milano, 2013).

Egli dopo la laurea in Architettura al Politecnico di Milano (1973), si dedica alla fotografia con

continuità; il suo primo progetto fotografico è Milano ritratti di fabbriche 1978-80, ampio lavoro

che ha come soggetto la periferia industriale milanese. Questo progetto lo portò a diventare nel

corso degli anni, uno dei maggiori interpreti del paesaggio metropolitano contemporaneo. Il primo

incarico internazionale è del 1984, quando viene invitato a partecipare, unico italiano, alla Mission

Photographique de la DATAR, l’importante progetto di lettura fotografica del paesaggio

contemporaneo voluto dal governo francese e iniziato nel 1984 che finirà nel 1988. Nel 1991

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partecipa, con altri fotografi da tutto il mondo, ad una missione a Beirut, città devastata da una

guerra civile durata quindici anni.

La sua ricerca va sempre più allargandosi alle grandi metropoli del mondo.

Numerosi altri artisti a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta trattarono il tema del nuovo paesaggio

e del rapporto dell’uomo con esso. Basilico riordina il disordine del paesaggio contemporaneo

segnato dallo sviluppo industriale, ridisegna il caos attraverso il mezzo fotografico, insistendo sul

rigore dell’inquadratura, sulla decisa tensione al totale controllo dell'opera anche in senso formale,

senza aprirsi a vedute momentanee di un luogo, cioè senza soffermarsi sulla vita quotidiana di un

luogo che di esso è la parte più caduca. Gabriele Basilico uno dei fotografi italiani più noti a livello

internazionale per la sua ricerca sul paesaggio e l’architettura. Da architetto Basilico è interessato

all’osservazione delle forme che lo circondando, alle facciate, agli angoli, alle superfici e alle

prospettive volumetriche, ma non solo, poiché non è solo questo che contribuisce alla nascita della

città come la vediamo oggi. Attraverso la fotografia Basilico codifica uno spazio, lo studia e ne

comprende le forme, la storia e la società. Uno spazio diventa l’espressione delle conseguenze che

lo hanno fatto nascere e della presente vita che lo abita. Ha intuito i mutamenti epocali più

significativi in un confronto continuo con esponenti del mondo dell’architettura, dell’urbanistica,

della sociologia, della letteratura, della fotografia e dell’arte tutta.

Fotografie che testimoniano insieme la coerenza dell’ispirazione di Basilico e la sua straordinaria

capacità di ritrovare gli elementi di congiunzione tra le diverse metropoli, costruendo “un luogo

globale come somma di luoghi diversi”, come diceva lui stesso.

Anche Olivo Barbieri iniziò una ricerca che andò avanti per tutti gli anni Ottanta e che evolse in una

lettura particolare e personale della realtà metropolitana.

Appartenente alla generazione più giovane di fotografi che all’inizio degli anni ottanta si riunisce

intorno alla figura di Luigi Ghirri partecipando a molti progetti da lui promossi, fra cui Viaggio in

Italia, si dedica alla fotografia dal 1971 concentrando le sue ricerche iniziali sull’illuminazione
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artificiale delle città. Realizzate qualche anno più tardi, altre fotografie danno conto dell’interesse

dell’artista verso una nuova rappresentazione del paesaggio e delle sue trasformazioni. Le

inquadrature si aprono a soggetti ritenuti fino ad allora di scarso interesse, rivelando la novità che

può scaturire da uno sguardo attento alle cose e dal loro diventare immagini fotografiche. Amante

del soggetto urbano, Barbieri ha sviluppato nel tempo una straordinaria capacità di osservazione che

si interroga sulle molteplici possibilità di narrazione attraverso il mezzo fotografico. Iniziando con

le periferie italiane Barbieri è arrivato a fotografare le megalopoli della Cina e le metropoli

americane. Le sue immagini indagano i luoghi vissuti dall’uomo con uno sguardo che tende sempre

un po’ verso la finzione, che esaspera le luci naturali o quelle artificiali dei lampioni nella notte e

che ci offre una visione delle strutture molto soggettiva.

Tutto il suo lavoro verte sulla ricerca del perché l’uomo ha voluto dare questa forma al mondo, se

esiste un meccanismo mentale, sociologico o culturale. Egli riesce a mettere in relazione

perfettamente luoghi che hanno nature diverse e storie molto lontane; riesce in questo perché ha

scoperto le caratteriste di similitudine tra un luogo e una altro, come tra una grossa rete stradale

asiatica e il Colosseo a Roma. Barbieri è interessato alla forma della città e alle sue icone che spesso

sono proprio la nostra rappresentazione mentale più immediata delle città di tutto il mondo. Fu uno

dei primi ad usare il colore con valore artistico quando ancora questo non era considerata una scelta

artistica. Usando la tecnica del fuoco selettivo, l’immagine diventa quasi una pagina di un libro

nella quale il fotografo decide di mettere in evidenza solo la storia di cui intende parlare.

foto barbieri

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Anche il Giappone segnato duramente dalla Seconda Guerra Mondiale, in questi anni dimostra la

voglia di comprendere il suo territorio.

Il lavoro di Ryuji Miyamoto offre uno sguardo d’insieme sulle trasformazioni del paesaggio nelle

città giapponesi, ma non mancano serie realizzate in altri Paesi, come quella relativa alla

demolizione del teatro Schauspielhaus di Berlino Est o Kowloon Walled City (1988), una

riflessione sul degrado e la demolizione dei noti condomini fatiscenti di Hong Kong. Sebbene

Miyamoto abbia rivolto attenzione anche agli aspetti sociali del vivere urbano, come in Cardboard

Houses (1994), che ritrae i ripari di fortuna costruiti con pezzi di cartone dai senzatetto, il tema

ricorrente è quello della fase finale della vita dei palazzi: la loro demolizione, sia essa dovuta a

disastri naturali o a razionali pianificazioni. Riflettendo sulla transitorietà implicita nell’architettura,

Miyamoto non intende muovere critiche alla società e neppure alla politica. Si propone piuttosto di

documentare una sospensione spazio-temporale, la pausa che intercorre tra perdita e rinnovamento,

quella condizione momentanea e ineluttabile che determina i cambiamenti del futuro. Nonostante la

consapevolezza della transitorietà del momento immortalato le fotografie di Miyamoto sembrano

senza tempo. L’assenza di esseri umani, la scelta del punto di vista a livello dello sguardo,

l’immobilità delle nuove forme assunte dai palazzi devastati con i loro cumuli di materiali

stratificati, tutto suggerisce allo spettatore la sensazione di essere l’unico sopravvissuto, l’ultimo

essere umano che si aggira in un mondo ormai finito. Sceglie inoltre una composizione ricercata e

un bianco e nero non troppo contrastato che rende l’atmosfera ancora più sospesa.

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Ryuji Miyamoto,

Kobe,

1995

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Yukio Futagawa (Osaka, 1932-Tokyo, 2013) è stato un famoso esponente della fotografia di

architettura giapponese. Divenne famoso particolarmente per aver lavorato nella ripresa delle più

significative opere architettoniche di Frank Lloyd Wright tra cui la nota Fallingwater House.

Questo ampio lavoro fotografico illustra in dodici volumi l’opera completa dell’architetto. Inoltre

Ha lavorato anche alla documentazione delle case tradizionali giapponesi, fotografie che sono poi

state pubblicate in una collezione di ben dieci volumi. Il fascino dell’architettura delle case rustiche

giapponesi è evidente. Futagawa era dinamico nel suo approccio. E’ riuscito a cogliere il ritmo

confortevole della serie di tetti e delle loro tegole, le forme audaci di tetti di paglia e la forza

assoluta che trasuda dalle colonne. Ha reso queste semplici abitazioni con una grande forza

evocativa che dona a queste una grande dignità.

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Guido Guidi nasce nel 1941 a Cesena, dove vive e lavora. Dal 1956 è a Venezia dove studia prima

Architettura allo IUAV e successivamente Disegno industriale. È nel clima vivace del periodo

veneziano che decide di dedicarsi con continuità alla fotografia. Dalla fine degli anni sessanta

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realizza importanti ricerche personali, indagando il paesaggio e le sue trasformazioni e

sperimentando al contempo il linguaggio fotografico.

Influenzato dal Neorealismo e dall'Arte Concettuale indirizza la propria attenzione sugli spazi

marginali del paesaggio Italiano. A partire dal 1980 viene chiamato a partecipare a progetti di

ricerca sulla trasformazione della città e del territorio, fra cui l’Archivio dello Spazio[1] della

Provincia di Milano (1991), le indagini sull’edilizia pubblica dell’Ina-Casa. Nei primi anni Novanta

documenta la nuova urbanizzazione sviluppatasi subito dopo la caduta del Muro di Berlino lungo il

tracciato dell’antico asse viario tra la Russia e Santiago di Compostela, pubblicando questa ricerca

nel 2003 in un libro dal titolo In Between Cities. Espone nelle principali rassegne e musei italiani e

internazionali – tra cui il Fotomuseum di Winterthur, il Guggenheim, il Centre Pompidou di Parigi e

la Biennale di Venezia. Particolarmente significativo il suo impegno nell’ambito della didattica:

dall’inizio degli anni Ottanta viene invitato a tenere laboratori e seminari in diverse università

italiane, fra cui lo IUAV di Venezia, il Politecnico di Milano.

Guido Guidi è stato tra i primi, in Italia, a fotografare il paesaggio di secondo piano della provincia.

Senza imporre idee preconcette raccoglie sistematicamente i segni del passato e del presente: le sue

fotografie portano alla luce le tracce dell’uomo all’interno di una società precaria e mutevole.

Guidi ci fa capire che la vita non è nella fotografia, poiché questa è solo un frammento, un indice: la

cosa fotografata, anzi, indica che la vita è fuori campo. Il bordo dunque – il margine – è il limite tra

la fotografia e la vita. Ciò che sta dentro il quadro è solo una porzione di spazio da lui selezionata,

ma la vita reale non è quella riprodotta in una fotografia bensì quella che non si vede in essa, quella

che sta fuori dai confini del mirino della macchina fotografica. Fotografa tutto e spesso predilige ciò

che è minore, marginale e decadente; con il suo stile fotografa ciò che è abbandonato allo stesso

modo e con la stessa sensibilità di un soggetto che non risente di nessun abbandono da parte

dell’uomo. Per Guidi non esiste differenza tra minore e maggiore, grande e piccolo. A tutto dà la

stessa importanza, praticando una fotografia aperta che riserva lo stesso tipo di attenzione a ogni
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aspetto del mondo. Per lui non esistono soggetti privilegiati né gerarchie estetiche. Per Guidi lo

spazio non è un contenitore di cose, ma un’entità in sé, di cui è possibile l’ascolto e la

comprensione. Il vuoto non esiste, poiché è esso stesso spazio. Dunque la sua non è una fotografia

affermativa, ma interrogativa che indica che il mondo, la vita, procedono comunque, oltre e

indipendenti dalla fotografia. Per questo egli ama una casa, una finestra, un muro, un palo, un prato,

tutti allo stesso modo, e ama lo spazio qualunque forma esso assuma.

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Tavole di progetto

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Note

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1 - Introduzione a sociologia, Alessandro Cavalli.

2 - George Simmel, Il campo della sociologia, in Forme e giochi di società, Milano, Feltrinelli,

1983

3 - Paolo Jedlowski, La metropoli e la vita dello spirito, in Introduzione, Roma, Armando Editore,

1995

4 - Paolo Jedlowski, La metropoli e la vita dello spirito, in Introduzione, Roma, Armando Editore,

1995

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Bibliografia

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Saggi e discorsi, Martin Heidegger, a cura di Gianni Vattimo, Mursia, Milano, 1954

La metropoli e la vita dello spirito, George Simmel, a cura di Paolo Jedlowski, Armando Editore,

Roma, 1995

Manuale filosofia , Abbagnano

Enciclopedia UTET, Torino, Unione tipografico-Editrice Torinese, 1969

Storia della fotografia di architettura, Giovanni Fanelli, Laterza, Bari, 2009

Il pensiero dei fotografi. Un percorso nella storia della fotografia dalle origini a oggi, Roberta

Valtorta, Mondadori, Milano, 2008

Una storia della fotografia del XX e del XXI secolo, Walter Guadagnini, Zanichelli, Bologna, 2010

Intercity, Gabriele Basilico,

Ritratti di fabbriche, Gabriele Basilico,

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Sitografia

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Estetica Urbana. Metropoli, Estetica, Geofilosofia. https://esteticaurbana.wordpress.com/

2010/10/21

P.A.G.E.S. a cura di Gianni-Emilio Simonetti e Stefano Montani, http://www.pages.mi.it/

2015/05/07/abitare-costruire-il-punto-di-vista-dellantropologia/

George Simmel, a cura di Antonino Magnanimo, http://www.filosofico.net/simmel.htm

Georg Simmel: La metropoli e la vita dello spirito http://it.scribd.com/doc/26216418/Georg-

Simmel-Le-Metropoli-e-La-Vita-Dello-Spirito#scribd

Andrè Kertesz pioniere della fotografia http://www.uia44-photo.fr/IMG/pdf/andre_kertesz2.pdf

Larte della fotografia: Brassaï http://freemaninrealworld.altervista.org/brassai/

Parigi, Andrè Kertesz http://win.ilas.com/website/news.php?news=1883&cat=11&titolo=Parigi-

Andre-Kertesz

Hungary: Andrè Kertesz http://www.fotografareindigitale.com/2013/05/andre-kertesz-

hun-1894-1985/

Libreriamo: Andrè Kertesz padre della fotografia contemporanea http://libreriamo.it/2013/06/25/

andre-kertesz-padre-della-fotografia-contemporanea/

Langdon Coburn https://books.google.it/books?

i d = 7 H d D Y _ P p 5 o Q C & p g = PA 1 1 6 & l p g = PA 1 1 6 & d q = l a n g d o n + c o b u r n + i n

+ g a l l e s & s o u r c e = b l & o t s = f f t C R m a a e P & s i g = 2 l d 9 7 U d Tw F r C L _ _ S M G D 9 J f o U 6 -

M&hl=en&sa=X&ved=0ahUKEwjGgsemqrHKAhUDvBQKHRYUDwEQ6AEIVzAN#v=onepage

&q=langdon%20coburn%20in%20galles&f=false

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