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GEOGRAFIA URBANA E ANALISI DELLA CITTA’

prof. ing. Stefano Aragona, corso UE, canale B


di Aldina Silvestri

Area numero 4: “Le città invisibili”

TESTO DI RIFERIMENTO: “Le città invisibili”, Italo Calvino

La nuova concezione di città non più come luogo statico e delimitato in ogni suo aspetto ma come
prodotto di relazioni, sensazioni, immagini, desideri e sentimenti dell’uomo.

"Che cos'è oggi la città per noi? Penso d'aver scritto qualcosa come l'ultimo poema d'amore alle
città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città".
Erano gli anni Settanta quando Italo Calvino diceva queste cose. Ma cosa si intende veramente con
questa frase?
In un certo senso l’autore distrugge quel significato di città che fin dall’antichità ha sempre avuto: i
Romani gli attribuivano gloria, fama, potenza; i signori borghesi ricchezza e commercio; i
produttori polo di industrie. Noi oggi a quale oggetto, o aggettivo, la associamo?
Oramai il vero “valore” di città è andato perduto. In un mondo schiavo della globalizzazione e della
comunicazione di massa, tutto è diventato virtuale, indiretto; vige la supremazia delle reti
telematiche, dei computer, delle macchine che l’uomo vuole potenziare ogni giorno di più; ed è
proprio per la potenza di tali macchine che oggi ogni contatto diretto tra gli individui è cessato. Non
è più priorità fondamentale il bisogno umano della vita in comunità, intesa appunto come comunità
cittadina. Non sono importanti le relazioni interpersonali, come fine di conoscenza della società di
oggi. La comunicazione, e l’informazione, avvengono ormai per vie mediate dagli strumenti della
tecnologia. E allora cosa ci rimane dell’immagine della città?
Un tempo poteva essere una figura nitida fatta di abitazioni, strade, aree verdi, fabbriche, negozi.
Un viavai di genti, di scambi, di parole. Una tavolozza colorata e variopinta, che era in grado di
distinguerle l’una dall’altra in base ai colori che avevano.
Oggi invece che sfumatura ha acquisito? La sua forma ormai è sbiadita, confusa. Non vi sono né
dialoghi, né scambi, né rapporti diretti. I colori sono stati lavati via, fino a mostrare lo scheletro di
un corpo senza muscoli, senza pelle. E senza identità. La città non ha più valore in quanto singola
sede di oggetti (abitanti, abitazioni, servizi), ma in base al frammentario rapporto che si è instaurato
tra questa e altre entità.
Si parla ormai di “città senza confini”. Prima questi erano delimitati da grandi mura, talvolta da
bastioni di pietra, fortificazioni. Erano considerati sacri, invalicabili: da essi si contraddistinguevano
le città. Erano clausola basilare, nocciolo, forma primaria dell’immagine cittadina. La dividevano
dal resto del territorio, la racchiudevano in un’area definita che era conosciuta esattamente da tutti.
Ed in tale area ogni abitante poteva svolgere la sua attività, poteva rilassarsi usufruendo dei servizi
interni, poteva circolare per strade che conosceva.
Ma se oggi qualcuno dovesse individuare i confini delle nostre città, come potrebbe farlo? Qual è il
perimetro che racchiude, in un’unità di spazio, tutti i bisogni di cui l’uomo necessita?
Partiamo dal bisogno dell’abitare. Ormai nessuno oggi ha una “casa” fissa in un punto, e la
riconosce come tale: la maggior parte delle persone possiedono due, tre abitazioni che utilizzano a
seconda dei periodi. Talvolta esse sono centrali, talvolta periferiche, talvolta sono in altre città. Si
crea allora una rete abitativa che fa perdere alla parola “casa” il suo intrinseco significato.
E così ogni cosa perde evidenza: i servizi dei quali i cittadini hanno bisogno, non hanno sede nella
città in cui essi risiedono: spesso allora sono costretti a spostarsi per soddisfarli tutti. Così come
l’occupazione che essi svolgono talvolta si trova ad essere “fuori” : e allora non esiste più una
singola città che, come diceva un centinaio d’anni fa Le Corbusier, doveva garantire le quattro
funzioni principali (abitare, lavorare, circolare, ricrearsi) per una “comunità” di gente che
richiedeva uno standard di servizi e necessità primarie, ma una rete di città che relazionando le loro
parti l’una con l’altra tende a soddisfare i bisogni individuali (e non più collettivi) di ogni cittadino,
in un contesto che è completamente spezzettato.
Ed è forse tenendo conto di tale contesto che a seguito della nascita della “città globale”, Calvino
vuole ritrovare, se non riscoprire, un’essenza, una particolarità, una qualsiasi specificità che può
individualizzare le città ormai collettivizzate.
Ma tale caratteristica non esiste più negli odierni centri abitati: bisogna rifugiarsi in un mondo
irreale. Ed è così che la nostra eccessiva complessità, dotata di tanti piccoli particolari che ne vanno
a caratterizzarla nella sua integrità, è scomposta per potervi estrarre tutti questi particolari e per
rappresentarli uno per uno.
In questo modo non è la città che si appropria del particolare, ma è generata da esso.
“Il libro è nato un pezzetto per volta, a intervalli anche lunghi, come poesie che mettevo su carta,
seguendo le più varie ispirazioni”. In ogni viaggio, in ogni spostamento da un luogo all’altro, lo
scrittore ha osservato, scrutato, studiato ogni piccolo dettaglio che contraddistingue un luogo. Poi
annotando tutto, ha plasmato su ognuno di questi un’idea di città, che poteva essere industriale,
contadina, sotterranea, soprelevata, ricca di gente o disabitata, talvolta bizzarra, talvolta talmente
fantasiosa da non poter fisicamente esistere; ma ciò non ha importanza, perché mano a mano che il
racconto va avanti perde importanza la reale esistenza dei luoghi e ne acquisisce invece la logica
delle differenze tra essi, differenze che generano tutte le variabili che fanno emergere ogni volta una
nuova possibilità fino a quel momento non considerata.
E’ questo il vero motore del racconto: ci si deve saper perdere all’interno delle leggi che il territorio
ci propone di volta in volta, e che generano automaticamente tutti i percorsi; ognuno di essi sarà
frutto della distorsione di un aspetto già osservato, e si muoverà su immagini ad esso simili, o
contrarie, o modificate dal tempo.
L’autore crea undici itinerari affini, e per ognuno descrive cinque città diverse. Poi li combina tra
loro e li posiziona a caso all’interno delle pagine del libro, per darci proprio l’idea di una
composizione senza regole fisse, ma dettate dall’associazione che nella nostra testa avviene mano a
mano che si va avanti con la lettura.
E così passa a parlarci di Zora, e di come riesca ad essere facilmente ricordata dall’uomo: “…città
che …ha la proprietà di restare nella memoria punto per punto…figure che si succedono come in
una partitura musicale nella quale l’uomo non può spostare nessuna nota… L’uomo… la notte…
sogna di camminare per le sue vie e ricorda l’ordine in cui si succedono l’orologio di rame, la tenda
a strisce del barbiere… l’edicola del venditore di cocomeri…il caffè all’angolo, la traversa che
porta al porto”. Tutte queste immagini possono apparire differenti agli occhi, o meglio al desiderio,
di chi osserva: quando si giunge a Despina, città isolata nel mezzo del deserto, essa “…si presenta
differente a chi viene da terra e a chi da mare… il cammelliere che vede spuntare all’orizzonte i
pinnacoli dei grattacieli…buttare fumo i fumaioli, pensa a una nave, sa che è una città ma la pensa
come a un bastimento…che sta per salpare;…nella foschia il marinaio distingue la forma della
gobba di un cammello… sa che è una città ma la pensa come un cammello…e già si vede in testa a
una lunga carovana che lo porta via dal…mare verso oasi d’acqua dolce”.
Sono tutte immagini che devono essere interpretate: esse ci si presentano sotto forma di segni, a cui
noi dobbiamo attribuire un significato. Spesso è difficile farlo, perché i segni ci ingannano, come
nella città di Ipazia, dove tutto è stravolto: “…un giardino di magnolie…io andavo tra le siepi,
sicuro di scoprire giovani dame a fare il bagno: ma in fondo all’acqua i granchi mordevano gli occhi
delle suicide con la pietra legata al collo...” “ Capii che dovevo liberarmi delle immagini che fin qui
m’avevano annunciato le cose…solo così sarei riuscito a capire il linguaggio di Ipazia…” “Ora
quando il mio animo chiede…musica, so che va cercata nei cimiteri…”
E’ un gioco di sensi, di percezioni, di visioni che appaiono confuse come spezzoni di film che poi
noi dobbiamo avere la pazienza di ricostruire. E una volta fatto ciò riusciremo a concepire anche
l’aspetto fisico e morfologico reale dei luoghi che incrociamo. Ma attenzione: reale in quanto
osservabile e descrivibile oggettivamente per come appare, e non realmente esistente. Altrimenti
non si spiegherebbe come si regga in piedi la città di Ottavia: “…c’è un precipizio in mezzo a due
montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e passerelle…si cammina su
traversine di legno…sotto non c’è niente per centinaia di metri…s’intravede il fondo del burrone”.
Immagini suggestive, incredibili, di luoghi irreali, ma descritti talmente dettagliatamente da essere
quasi credibili. L’autore parla non solo di abitazioni, palazzi, castelli, imponenti costruzioni,strade e
ponti, fiumi e montagne, ma entra fino in fondo nell’anima dei luoghi, costituita dai loro stessi
abitanti. E così intravede città come Cloe in cui questi si incontrano senza guardarsi, “…gli sguardi
si incrociano per un secondo e poi si sfuggono, cercano altri sguardi..”, o come Zemrude, che viene
osservata in base all’umore di chi la percorre: “Se passi fischiettando, a naso librato…la conoscerai
di sotto in su: davanzali…tende svolazzanti, zampilli; se ci cammini col mento sul petto…i tuoi
sguardi si impiglieranno…nei rigagnoli, nei tombini…la cartaccia”. E se invece arrivi ad Adelma ti
sorprendi perché fissando negli occhi le persone vi scorgi i volti di altre morte da tempo: “ …
un’erbivendola…metteva una verza in un paniere appeso a una cordicella che una ragazza calava da
un balcone. La ragazza era uguale a una del mio paese che era impazzita d’amore e s’era uccisa.
L’erbivendola alzò il viso: era mia nonna” “ Si arriva ad un momento nella vita in cui tra la gente
che si è conosciuta i morti sono più dei vivi. E la mente si rifiuta d’accettare altre fisionomie…su
tutte le facce nuove che incontra, imprime i vecchi calchi…”.
Ogni città presenta una parola chiave per essere letta, per essere interpretata; parola che va al di là
dei nomi di donna che le distinguono: l’autore sa che se non fosse per la magnificenza del suo
nome, Aglaura sarebbe ormai dimenticata da molti; e il nome di Pirra, associato da sempre ad una
città mirabile, perderebbe il suo valore una volta veduto tale posto; così come Irene, città che tutti
osservano da lontano e immaginano splendente e suntuosa, resterebbe priva di questi attributi,
entrati al suo interno.
Ma quali leggi hanno seguito questi luoghi per essere così particolari? Cosa c’è in loro di naturale,
cosa di insediativo? Che accorgimenti utilizzano gli abitanti di Zenobia, che “…sorge su altissime
palafitte…con case di bambù…su trampoli che si scavalcano l’uno sull’altro…” per mantenere
salda la loro città?
Forse esse nascono dai nostri desideri, come Zobeide: “…uomini di nazionalità diverse videro una
donna correre…per una città sconosciuta. Sognarono d’inseguirla…ma ognuno la perdette. Dopo il
sogno andarono cercando quella città…non la trovarono…decisero di costruirne una, come nel
sogno…”; o forse da arti magiche, come Perizia: “ …gli astronomi stabilirono il luogo e il giorno
della fondazione secondo la posizione delle stelle, tracciarono le linee incrociate del decumano e del
cardo orientate l’una…come il corso del sole, l’altra…come l’asse della terra…divisero la mappa
secondo…lo zodiaco, in modo che ogni…quartiere ricevesse il giusto influsso delle costellazioni…;
Perizia avrebbe rispecchiato l’armonia del firmamento.”
Non potremo mai risalire alla loro origine esatta, ma solo accettarci della forma che nel tempo esse
hanno assunto, e studiarla per comprendere appunto la loro origine. Almeno potremo sapere se il
“tappeto” sul quale si erge Eudossia, con le sue figure simmetriche che si ripetono ordinatamente,
sia stato disegnato seguendo l’immagine delle stelle del cielo o se provenga dal calco della città
quando questa era arrivata ormai al suo stadio attuale.
È impressionante come ognuna di loro nasconda qualcosa: il piccolissimo elemento, la sottigliezza
che tutte contengono le fa apparire ai nostri occhi eccezionali, rare per ogni forma, ogni parte. Forse
siamo noi che, leggendo il libro, ingigantiamo il loro valore, e ne deformiamo l’aspetto, poiché
quegli stessi segni che esse mostravano, che l’autore ha raccolto, e che hanno delineato tutte le frasi
di queste pagine, letti da noi altri cambiano totalmente; e allora chiunque leggerà il libro avrà una
sua immagine di questi luoghi, che rimarrà inalterata?
Forse è proprio così: le città non sono più concepite come luogo in quanto spazio fisso, ma mutano
in continuazione in base al ricordo che ci danno, agli occhi con le quali le vediamo, ai desideri che
ci generano, al nome che portano, al luogo in cui sono situate, al cielo che le ricopre, alla loro
origine, alla loro espansione, ai segni che ci inviano, agli scambi che hanno l’una con l’altra. E noi
non potremo mai cogliere la loro vera forma, il loro aspetto ci inganna, e anche se riuscissimo a
decifrarlo non sapremo mai se i nostri calcoli siano esatti o se quella che ci mostrano sia una
maschera di combinazioni matematiche che usano per nascondersi l’una con l’altra: sono diventate
invisibili.

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