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L’ARTE AMBIENTALE

Con l'arte ambientale l'artista si confronta attivamente con l'ambiente che lo circonda: l'opera d'arte si
impianta dapprima aliena in un contesto spaziale, sia esso naturale, formale, storico, politico o sociale.
Poi, inizia concettualmente e fisicamente il suo dialogo con questo spazio, fino a confondersi e a
diventare parte di quella naturalezza, anche per contrasto. Le opere d'arte ambientale sono molto diverse
tra loro, sia per processo che per risultato finale. L'arte ambientale trova i suoi primordiali iniziatori già
negli anni Venti del Novecento, quando il ready-made di Duchamp sovvertiva l'essenza tradizionale
dell'opera d'arte, impiantando oggetti industriali di uso quotidiano nello spazio museale: un orinatoio, la
ruota di una bicicletta fissata su uno sgabello tra i vari. La traslazione fuori dal contesto abituale ci porta
a nuove riflessioni. L'arte ambientale parte per certi versi dallo stesso concetto, sottolineando
l'importanza – e talvolta anche l'arbitrarietà - del dialogo tra l'opera d'arte e lo spazio che la contiene,
indispensabile per definirne il significato. Ma qui l'importanza del rapporto tra l'opera è il suo contesto è
enfatizzato dall'essenza dell'arte ambientale: l'opera d'arte raggiunge ambienti che vanno oltre lo spazio
del museo, spingendosi ai confini della vita quotidiana e spesso immergendosi nella natura. Il termine
arte ambientale non deve però trarre in inganno, poiché non sempre si tratta di opere che hanno una
valenza ecologica. Dobbiamo distinguere quegli artisti che non prendono in considerazione gli effetti
che provocano sull'ambiente da quelli che non solo non intendono provocare alcun danno, ma si
impegnano a riportare il contesto al suo stato naturale. 

MARIA LAI: LEGARSI ALLA MONTAGNA


“Questo deve fare l’arte: farci sentire più uniti. Senza questo non siamo esseri umani.”

-Maria Lai
Negli anni in cui in Italia il rapporto tra il tessuto urbano e la dimensione partecipativa dell’opera non
sembrava più emergente dopo l’esplosione degli anni Sessanta e Settanta, Maria Lai avviò un’operazione che
si svolse in sordina, lontano dai centri dell’arte. L’operazione nasceva in risposta alla richiesta avanzata nel
1979 dall’allora sindaco del paese di realizzare un Monumento ai Caduti. Maria Lai disse che avrebbe fatto
un’opera, ma per i vivi. 
È l’8 settembre 1981 quando Maria Lai decide di “legare insieme” le case di Ulassai, sua terra natia
nell’entroterra sardo.
Le case e i suoi abitanti, che vivono a ridosso del monte e circondati da un teatro di rocce, sono i
protagonisti della prima opera relazionale realizzata in Italia. Maria Lai crea un’opera che coinvolga
tutto il paese e sia compiuta dai suoi concittadini. L’idea è quella di unire tutte le case tra loro con un
nastro, che poi verrà legato alla montagna sovrastante, come simbolo di complicità tra gli uomini e di
una relazione con la natura e il trascendente, con le proprie radici e la propria terra, con una “montagna
sacra” che rimanda a una dimensione più grande dell’uomo. Additando un ideale positivo si può sperare
di stigmatizzare il male: ogni male, ma specialmente la violenza che ci minaccia costantemente. Il senso
dell’azione, al di là dei significati simbolici del legare e del collegare è che uomini, donne, bambini,
tutt’altro che assidui ai meccanismi dell’arte, sono spinti forse per la prima volta nella loro vita a un
gesto che non ha un valore utilitario, come può essere lavorare, guardare i campi e il bestiame, pulire la
casa, accudire i figli, ma che ha un fine esclusivamente filosofico e estetico. 

ALBERTO BURRI: IL GRANDE CRETTO DI GIBELLINA


-Racconta il Cretto in poche suggestive righe il critico teatrale Fernando Marchiori:

“Siamo sulla più grande opera di land art d’Europa. Alberto Burri la realizzò tra il 1985 e il 1989,
ingabbiando con il cemento armato le macerie del paese raso al suolo nel 1968 dal terremoto del
Belice. Una colata bianca per contenere e dare una forma e un significato nuovo a quei metri cubi di
storia e di vita quotidiana sbriciolati. Perché fossero memoria, non macerie. Un ambiente a un tempo
artificiale e ‘naturale’. Nuovo nella sua concezione complessiva, antico in ogni frammento che lo
compone. Informe nel suo coprire senza distinzione, come un sudario rappreso in un tempo immobile,
le rovine e il dolore ma esatto nel suo aderire ai monconi del profilo edilizio, allo scheletro
dell’impianto urbanistico.”

Il piccolo centro agricolo della valle del Belice fu scosso, nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968, da un
evento sismico di particolare violenza che idusse l’abitato in macerie fino alle fondamenta. Dopo i primi
anni di soccorsi e vita provvisoria nelle baraccopoli, fu di Lodovico Corrao l’idea di costruire una città
nuova conforme a più moderne idee urbanistiche. l Senatore Corrao pensò di fare del nuovo
insediamento un laboratorio per artisti viventi, per riempirlo di ornamenti ricchi di significato estetico.
Uno degli artisti chiamati ad ornare la città, Alberto Burri (1915-1995), sentiva questo ambiente urbano
come un limite e, durante una visita ai resti del vecchio insediamento, rimase talmente toccato e
commosso che decise di realizzare una particolare riscrittura estetico-monumentale: “Faremo un grande
cretto - annunciò - un sudario di blocchi di detriti del paese, che ripeta la pianta stradale di Gibellina.
Sarà un'opera monumentale, per raccontare il dolore a chi non c'era e non dimenticare”.
Si può dire che il Cretto sia un’opera d’arte ambientale in grado di comunicare il suo contenuto di
ricordanza e di memoria attraverso l’esperienza tangibile della permanenza nel cambiamento. Al di là
delle critiche che a buon diritto si possono avanzare per il gran tempo occorso per il suo completamento
e per il tempo altrettanto lungo che occorrerà per il suo restauro; al di là pure delle polemiche che si
potrebbero avanzare per il suo occasionale, e inopportuno, sfruttamento commerciale; resta vero che si
tratta pur sempre di una traccia, resa esteticamente bella, della vita degli uomini nell’ambiente naturale,
una traccia fatta per sfidare il tempo della natura e il suo rapporto impietoso con le opere dell’Uomo.

CHRISTO: L’ARCO DI TRIONFO


L’Arco di trionfo impacchettato è l’opera postuma di Christo, artista bulgaro venuto a mancare nel
2020. Impacchettare monumenti per lui aveva una fortissima valenza: significava nascondere alla vista,
ma con lo scopo di evidenziare ancora di più ciò che c’è oltre lo sguardo.

Christo ha cominciato a rivolgere la sua attenzione al monumento negli anni Sessanta, anche se il
progetto si è concretizzato solo di recente. Si tratta dell'ultima opera che porta avanti il filo conduttore
del nascondere, riflessione attuata in questi decenni su altri celebri monumenti in tutto il mondo, ma
anche su oggetti comuni. Prima è stata la volta di tavoli e bidoni, poi del Pont Neuf parigino (il ponte
più vecchio della città), del Reichstag berlinese (la sede del Parlamento), di Porta Pinciana a Roma nel
1974.
Il principio di fondo è privare della sua identità un posto, sottrargli qualunque valore calandolo
unicamente nel presente, senza alcun richiamo con la storia e il passato, senza alcun legame personale.
Il celare l’oggetto è un fattore scatenante della filosofia artistica di Christo, in quanto l’oggetto nascosto,
in realtà, viene risaltato perché immaginato, anelato. Il soggetto esiste, lo sappiamo, ma tolto al nostro
sguardo rivela tutto il vuoto che lascia il suo non esserci. La sua estetica, il suo peso, la sua storia, i
ricordi che a lui ci legano, vengono rimossi, in un’azione distruttiva che sappiamo però durare
fortunatamente poco.
Il risultato è un gioco di artifici paesaggistici in cui la razionalità viene travolta dall’onda emotiva e il
pensiero risultante è: “così sarebbe se non ci fosse” subito seguito dall’altro rassicurante pensiero,
essendo la trasformazione non definitiva: ” ma noi sappiamo che c’è!”.
Temporanei, i teli di Christo ottenuti con materiale di riciclo e interamente riciclabili, lasciano gli spazi,
le strutture intatte, morbidi e avvolgenti quanto basta per adattarsi alla magia del nascondere alla vista
un soggetto, per ricordare quanto è il valore che potremo perdere se non ci fosse.
Accanto a questo gioco di prestigio, Christo aggiunge in seguito una ricerca volta a dare un nuovo
valore estetico ai soggetti interessati: abbiamo così impacchettamenti ocra, fucsia, arancioni, ma anche
teli distesi tra valli o a circondare isolotti che in ogni caso si distaccano totalmente nella tonalità
cromatica dal contesto e ne esaltano la nuova veste allestita appositamente per una trasformazione in
chiave moderna, sempre limitata nel tempo.

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