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Capitini da Elementi di un’esperienza religiosa 1937

Da questo punto di vista la costituzione di una nuova Chiesa per lo sterminio


degli «eretici» col ferro e col fuoco o per affermarsi con l’untuosità di
giuramenti falsi è cosa assurda; e un persuaso religioso dovrebbe presentarsi
egli stesso come primo eretico per l’affermazione del sacrificio individuale,
apparentemente isolato, ma nella coscienza della presenza di Dio, sacrificio
da rinnovare in eterno dentro l’umanità. La gioia che deriva dal vedere altri
vivere e migliorare quelle direttive a cui uno ha offerto sé stesso, dal veder
gruppi e istituzioni in cui circola quel pane e quell’entusiasmo, la gioia della
storia, insomma, che cresce sotto gli occhi, non deve mai indebolire nel
persuaso religioso l’impeto di portarsi agli inizi, anche solo; perché solitudine
e società, per colui che dal centro religioso è aperto a tutto e a tutti,
non son piú due cose separate, ma una sola, germinante nell’intimo in ogni
momento. Nell’apertura dell’anima si realizza il contatto e la fusione con
una società infinita, e si può ben morire soli sulla croce. Chi ha la forza di
essere solo, ha anche la forza di sentire la comunione degli altri molto piú
profondamente, e li cercherà sapendo. Ogni cosa umana è sorta sulla prima
pietra di un’anima.
È bene rendersi conto di ciò per comprendere la differenza che c’è tra
l’impostazione religiosa e un piano utopistico. La persuasione religiosa suscita
un sentimento e un’iniziativa assoluta, e un fermento da rinnovare perennemente,
e proprio movendo da sé stessi, anche se soli. Che si aggiunga
uno o mille o piú non è essenziale, e l’aggiungersi non fa due, tre, mille,
ma lascia la religione come un atto dell’anima, e non come una somma
aritmetica. Il persuaso getta il proprio peso sulla bilancia: l’essenziale è che
egli compia l’atto religioso con tutte le sue forze, senza angolo di riluttanza;
e questo impegno è allora persuasione infinita, e se egli vi è arrivato, vi potranno
arrivare anche altri. Questo amore che si spende instancabile sa che
troverà sempre ostacoli, e questi ostacoli vincerà, sempre rinnovando l’atto
persuaso. La conversione di tutto l’agire al modo religioso per lui non soffre
eccezioni: la qualità della sua ispirazione è assoluta.

2. LE CITTÀ SONO ORGANISMI VIVENTI


(Dal discorso di Giorgio La Pira tenuto a Firenze
il 2 ottobre 1955 ai sindaci di tutto il mondo)
Le città hanno una vita propria: hanno un loro proprio essere misterioso e profondo:
hanno un loro volto: hanno, per così dire, una loro anima ed un loro destino: non sono
cumuli occasionali di pietra: sono misteriose abitazioni di uomini e più ancora, in
[un] certo modo, misteriose abitazioni di Dio: Gloria Domini in te videbitur. Non per
nulla il porto finale della navigazione storica degli uomini mostra, sulla riva
dell'eternità, le strutture quadrate e le mura preziose di una città beata: della città di
Dio!
La nostra disattenzione a questi valori di fondo, che danno invisibilmente ma
realmente peso e destino alle cose degli uomini, ci ha fatto perdere la percezione del
mistero delle città: eppure questo mistero esiste e proprio oggi - in questo punto cosi
decisivo della storia umana - esso si manifesta con segni che appaiono sempre più
marcati e che richiamano alla responsabilità di ciascuno e di tutti. Ebbene: questa
epoca delle città nella quale siamo entrati coincide, per un misterioso paradosso della
storia, proprio con l'epoca nella quale la contemporanea distruzione delle città
essenziali può essere l'affare di pochi secondi! Non è ormai un sogno: entra nella
zona delle cose possibili: nello spazio di poche ore la civiltà umana potrebbe essere
radicalmente privata di Firenze e di tutte le capitali del mondo. Tutti si chiedono: -
che sarebbe il mondo umano privato di questi centri essenziali, di queste fontane
insurrogabili, di questi fari creatori di luce e di civiltà? Ecco il problema
fondamentale dei nostri giorni: il quale ha anche una sua precisa impostazione
giuridica. È il seguente. Hanno gli Stati il diritto di distruggere le città? Di uccidere
queste "unità viventi" - veri microcosmi nei quali si concentrano valori essenziali
della storia passata e veri centri di irradiazione di valori per la sto ria futura - con le
quali si costituisce l'intiero tessuto della società umana, della civiltà umana? La
risposta, a nostro avviso, è negativa. Le generazioni presenti non hanno il diritto di
distruggere un patrimonio a loro consegnato in vista delle generazioni future! Il
diritto all'esistenza che hanno le città umane è un diritto di cui siamo titolari noi delle
generazioni presenti, ma più ancora quelli delle generazioni future. Un diritto il cui
valore storico, sociale, politico, culturale, religioso si fa: tanto più grande quanto più
riemerge, nella attuale meditazione umana, il significato misterioso e profondo delle
città. Ogni città è una città sul monte, è un candelabro destinato a far luce al cammino
della storia. Ciascuna città e ciascuna civiltà è legata organicamente, per intimo nesso
e intimo scambio, a tutte le altre città ed a tutte le altre civiltà: formano tutte insieme
un unico grandioso organismo. Ciascuna per tutte e tutte per ciascuna. Storia e civiltà
si trascrivono e 6 si fissano, per così dire, quasi pietrificandosi, nelle mura, nei
templi, nei palazzi, nelle case, nelle officine, nelle scuole, negli ospedali di cui la città
consta. Le città restano, specie le fondamentali, arroccate sopra i valori eterni,
portando con sé, lungo il corso tutto, dei secoli e delle generazioni, gli eventi storici
di cui esse sono state attrici e testimoni. Restano come libri vivi della storia umana e
della civiltà umana: destinati alla formazione spirituale e materiale delle generazioni
venture. Restano come riserve mai esaurite di quei beni umani essenziali - da quelli di
vertice, religiosi e culturali, a quelli di base, tecnici ed economici - di cui tutte le
generazioni hanno imprescindibile bisogno.
La città è lo strumento in certo modo appropriato per superare tutte le possibili crisi
cui la storia umana e la civiltà umana vanno sottoposte nel corso dei secoli. La crisi
del nostro tempo - che è una crisi di sproporzione e di dismisura rispetto a ciò che è
veramente umano - ci fornisce la prova del valore, diciamo così, terapeutico e
risolutivo che in ordine ad essa la città possiede. Come è stato felicemente detto,
infatti, la crisi del tempo nostro può essere definita come sradicamento della persona
dal contesto organico della città. Ebbene: questa crisi non potrà essere risolta che
mediante un radicamento nuovo, più profondo, più organico, della persona nella città
in cui essa è nata e nella cui storia e nella cui tradizione essa è organicamente inserita.
E prima di finire questo discorso sul valore delle città sul destino per la civiltà intiera
e per la destinazione medesima della persona, permettete che io dia un ammirato
sguardo di insieme alle città millenarie, che come gemme preziose, ornano di
splendore e bellezza le terre dell'Europa e dell'Asia. Signori, ci vorrebbe qui, per
parlare di esse, il linguaggio ispirato dei profeti: di Tobia, di Isaia, di Geremia, di
Ezechiele, di San Giovanni Evangelista. Per ciascuna di esse è valida la definizione
luminosa di Péguy: essere la città dell'uomo abbozzo e prefigurazione della città di
Dio. Città arroccate attorno al tempio; irradiate dalla luce celeste che da esso deriva:
città nelle quali la bellezza ha preso dimora, s'è trascritta nelle pietre: città collocate
sulla montagna dei secoli e delle generazioni: destinate ancora oggi e domani a
portare alla civiltà meccanica del nostro tempo e del tempo futuro una integrazione
sempre più profonda ed essenziale di qualità e di valore! Ognuna di queste città non è
un museo ove si accolgono le reliquie, anche preziose, del passato; è una luce ed una
bellezza destinata ad illuminare le strutture essenziali della storia e della civiltà
dell'avvenire. Le città non possono essere destinate alla morte: una morte, peraltro,
che provocherebbe la morte della civiltà intiera.
(Dagli: Atti del Convegno a Firenze dei Sindaci delle Capitali - 2-6 ottobre 1955 - , Editrice R.
Noccioli, Firenze 1956.)

COSTRUIAMO UNA CITTÀ PIÙ AMICA (Cardinal Martini)


(Intervento agli Stati generali della città di Milano pronunciato l’11 giugno 1998).
Occorre dunque anzitutto avere amicizia per la città e una fondamentale prima
manifestazione di questa amicizia è il non fuggire da essa. Non nel senso fisico, perché è
tonificante fuggire talora verso i monti, i quali, almeno nei giorni in cui il cielo è limpido,
fanno parte del panorama di Milano; ma nel senso di non rifuggire dai problemi della città
vivendovi quasi per forza.
Bisogna invece prendersene cura, dire I care, “me ne faccio carico”.
La città non è il luogo dove abitare il meno possibile, ma il luogo nel quale imparare a
vivere. ...
Un secondo aspetto dell’amicizia per la città e nella città è dato dall’impegno a coltivare le
relazioni tra persone e gruppi, al di là delle affinità native di ciascuno. Troppe volte la città
mi appare come un agglomerato di tanti corpi separati, una serie di strati tra loro non
comunicanti. Sono strati costituiti da categorie sociali, ceti, professioni, interessi di lavoro,
interessi politici, etnie e subetnie varie. Talora si ha l’impressione che la città sia troppo
grande per sentirsi una.
Ebbene, è importante attraversare questi strati con amicizie che mettano insieme costumi,
interessi, linguaggi diversi. ...
Ne segue un impegno più generale: l’impegno di creare canali di comunicazione tra i
luoghi di lavoro e quelli della ricerca, i luoghi della sofferenza e quelli del tempo libero, le
carceri e la buona società, le istituzioni culturali e la gente comune, gli emarginati e quelli che
sono ricchi di relazioni. Solo un grande sforzo comunicativo può fare da substrato a tutte quelle
iniziative pubbliche e private che tendono a dare un nuovo volto alla città.

Il valore dell’amicizia
Sappiamo che una città nasce da diverse contingenze storiche,
economiche, commerciali, politiche, anche conflittuali.
Alla fine però è sempre il risultato di un atto di concordia e di
intesa: un gruppo di persone che decide di vivere e lavorare
insieme per scopi e vantaggi comuni. Ne deduco che il valore
fondamentale su cui si regge una città non è primariamente
la semplice buona volontà dei cittadini, pur se giustamente il
libro dei Proverbi dice: “Con la benedizione degli uomini retti
si innalza una città” (Pr 11,11); non è nemmeno, questo valore
fondamentale, il buongoverno, pur se un altro libro biblico, il
Siracide, ammonisce che “una città prospera per il senno dei
capi” (Sir 10,3).
È, di fatto, un valore molto più sostanziale a cui il mondo
classico dà il nome di “amicizia”. Qualcuno si stupirà per questa
denominazione. Ma già Platone stabiliva un’equivalenza tral’amicizia e la concordia (homónoia)
che fa prosperare la città.
E Aristotele osa affermare che “il punto più alto della giustizia
sembra appartenere alla natura dell’amicizia”14, descrivendo
l’amicizia come quel bene senza del quale “nessuno sceglierebbe
di vivere, anche se possedesse tutti gli altri beni”15; egli
dà a questo bene un significato politico, affermando che tutte
“le comunità sono manifestamente parti di quella politica e le
specie particolari di amicizia corrispondono alle specie particolari
di comunità”16.
Ora l’amicizia si esprime anzitutto verso la città stessa nel suo
insieme, nel suo considerarla un po’ come una persona vivente.
Così si esprimeva il santo sindaco di Firenze Giorgio La Pira in
un discorso tenuto a Ginevra nel 1954: “Le città [...] hanno un
loro volto, hanno per così dire una loro anima e un loro destino:
non sono cumuli occasionali di pietra: sono misteriose abitazioni
di uomini e più ancora, in certo modo, misteriose abitazioni
di Dio: Gloria Domini in te videbitur”17. La Pira coglie
con lucidità il nesso tra persona e città fino ad affermare che la
crisi del tempo nostro può essere definita come sradicamento
della persona dal contesto organico della città: “Non è forse
vero che la persona umana si radica nella città come l’albero nel
suolo? Che essa si radica negli elementi essenziali di cui la città
consta: e cioè, nel tempio per la sua unione con Dio e per la vita
di preghiera; nella casa per la sua vita di famiglia; nell’officina,
per la sua vita di lavoro; nella scuola, per la sua vita intellettiva;
nell’ospedale, per la sua vita fisica?”. E sottolinea ulteriormente
che “proprio per questa relazione così vitale e permanente che
esiste tra la città e l’uomo, la città è lo strumento in certo modoappropriato a superare tutte le
possibili crisi cui la storia umana
e la civiltà sono sottoposte nel corso dei secoli”18.
Non fuggire dalla città e coltivare le relazioni
Occorre dunque anzitutto avere amicizia per la città e una
fondamentale prima manifestazione di questa amicizia è il non
fuggire da essa. Non nel senso fisico, perché è tonificante fuggire
talora verso i monti, i quali, almeno nei giorni in cui il cielo è
limpido, fanno parte del panorama di Milano; ma nel senso di
non rifuggire dai problemi della città vivendovi quasi per forza.
Bisogna invece prendersene cura, dire I care, “me ne faccio carico”.
La città non è il luogo dove abitare il meno possibile, ma il
luogo nel quale imparare a vivere. Vi sarebbe qui da interpretare
il dato delle indagini demoscopiche secondo cui un milanese
su due vorrebbe andarsene, mentre dieci anni fa due milanesi
su tre preferivano restare. Io voglio interpretare questo dato
non come segno di un disinteresse, che sarebbe distruttivo, ma
come espressione del desiderio che la città sia più vivibile, più a
misura di persona umana, e anche come determinazione a voler
operare in questo senso.
Un secondo aspetto dell’amicizia per la città e nella città è
dato dall’impegno a coltivare le relazioni tra persone e gruppi,
al di là delle affinità native di ciascuno. Troppe volte la città mi
appare come un agglomerato di tanti corpi separati, una serie di
strati tra loro non comunicanti. Sono strati costituiti da categorie
sociali, ceti, professioni, interessi di lavoro, interessi politici,
etnie e subetnie varie. Talora si ha l’impressione che la città sia
troppo grande per sentirsi una.
Ebbene, è importante attraversare questi strati con amicizieche mettano insieme costumi, interessi,
linguaggi diversi. Come
già mi esprimevo nella Cattedra dei non credenti del 1995 a
proposito del tema della città, occorre creare “quelle reti di
relazioni che si coagulano in amicizie e accoglienze e che, se
autentiche e profonde, raggiungono anche persone diverse per
culture, razze e confessioni religiose”19. In tale contesto, si colloca
in particolare il compito della Chiesa ambrosiana e di tutte le
confessioni religiose di creare amicizie al di là delle affinità naturali,
per costituire quel tessuto di riferimento che fa da supporto
al senso civico e morale di una città.
Ne segue un impegno più generale: l’impegno di creare canali
di comunicazione tra i luoghi di lavoro e quelli della ricerca, i
luoghi della sofferenza e quelli del tempo libero, le carceri e la
buona società, le istituzioni culturali e la gente comune, gli emarginati
e quelli che sono ricchi di relazioni. Solo un grande sforzo
comunicativo può fare da substrato a tutte quelle iniziative
pubbliche e private che tendono a dare un nuovo volto alla città.
Creare le condizioni per vivere bene
La terza caratteristica dell’amicizia per la città e nella città
è la determinazione a creare le condizioni non solo per viverci
bene, nel senso di vivere comodamente, ma anche di operare
per il bene, nel senso di predisporre le condizioni sociali e civili
necessarie per uno sviluppo virtuoso. Non possiamo dimenticare
che la nostra città ha vissuto in questi ultimi anni, grazie alla
sua coscienza civile e all’opera dei suoi magistrati, una difficile e
non ancora conclusa stagione di lotta alla corruzione. La città ha
addirittura ricevuto un nuovo nome, un neologismo – Tangentopoli
– che dice appunto il carattere strutturale del fenomeno
della corruzione. Ora, ogni formazione della coscienza ai valori ideali non può prescindere dalla
valutazione delle condizioni in
cui la persona vive e opera. C’è un inquinamento etico dell’ambiente
che comporta il rischio di inquinamento della coscienza
stessa. In assenza di condizioni adeguate, la crescita della
coscienza è compromessa. In presenza di condizioni inadeguate
o nocive, tale crescita è disorientata. È quindi necessario creare
condizioni e strutture favorevoli all’agire onesto e legale. Ecco
perché la dottrina cristiana considera la politica come forma
esigente di carità: perché essa deve contribuire efficacemente a
rimuovere gli ostacoli e a predisporre tutti i mezzi necessari alla
crescita della coscienza.
Guardare prima di tutto ai fini
D’altra parte, se i valori ideali hanno bisogno della politica, a
sua volta la politica ha bisogno dei valori ideali. Occorre avere
davanti agli occhi non necessariamente una città ideale, ma almeno
un ideale di città. Una quarta caratteristica dell’amicizia per la
città sarà dunque quella di guardare non solo ai mezzi ma anche
e anzitutto ai fini. Viviamo in una società dominata dal calcolo,
dalla programmazione, dalla previsione. Avvertiamo la complessità
della città. Ma dove c’è calcolo, programmazione e previsione,
dove c’è complessità c’è decisione, scelta. Ogni decisione,
però, mette in gioco una certa idea dell’uomo, dei suoi veri beni
e dei suoi fini. Tuttavia le scienze, economiche e sociali, messe in
atto dai pianificatori economici e dai politici non sono in grado di
porsi il problema dei fini; sono scienze solo strumentali. Procedono,
metodologicamente, mettendo tra parentesi appunto la
determinazione dei fini adeguati. Le scelte invece suppongono
sempre, in modo implicito o esplicito, criteri, valori etici, ideali.
Il riferimento ai valori etici è di fatto particolarmente forte,
in questi ultimi anni, nel campo dell’economia. La disoccupazione,
ina particolare quella giovanile, le difficoltà di difesa dei salari e dello stato sociale, la crisi dei paesi
dell’est e del sud
del pianeta, hanno posto un dubbio sulla capacità del sistema
economico di rispondere, da solo, agli interessi generali.
Proprio mentre ci si accinge a ridisegnare la città bisogna
ricordare, per amore verso di essa, che la razionalità economica
è una razionalità parziale e la sua legittima autonomia è relativa,
non assoluta. Essa esige di essere integrata in una razionalità più
ampia che si interroghi sulla qualità o validità dei fini perseguiti
e non solo sull’efficienza dei mezzi impiegati. Ecco il punto di
inserimento di una responsabilità etica: a proposito delle grandi
scelte che presiedono alle nostre opzioni dentro una società
del calcolo e della previsione. Tali scelte richiedono un grande
senso di responsabilità e una misura non comune di afflato etico
e spirituale.
Due emergenze
A questo proposito mi preme richiamare due emergenze
particolarmente gravi nella nostra città a cui guardare con
occhio amico: la condizione degli anziani e dei giovani. In primo
luogo menziono il fortissimo processo di invecchiamento della
popolazione, processo comune al territorio nazionale ma che a
Milano assume dimensioni e accentuazioni di gran lunga superiori.
Tale tendenza configura un’area di intervento particolarmente
cruciale negli anni a venire, con l’emergere della cosiddetta
“quarta età”. La condizione anziana è inoltre segnata da
diverse, gravi forme di povertà: povertà economica, povertà da
insufficienza o inadeguatezza dei servizi socio-sanitari, povertà
relazionale prodotta da solitudine e accentuata dall’ambiente
metropolitano, povertà da perdita di autosufficienza. Non è
difficile prevedere come questa problematica appaia destinata
ad accentuarsi nel prossimo futuro e richieda il dispiegamento
di un notevole impegno sociale. La seconda emergenza: quella giovanile. Fra non molti anni
a Milano i giovani saranno la metà degli attuali, da 200 mila a
100 mila, con tutti i problemi legati alla occupazione, alla spinta
all’innovazione e al carico sociale per chi lavora. Si può parlare
anche per Milano di un rischio giovanile che ha nei fenomeni
di devianza la sua manifestazione più eclatante. Nel 1997 la
Lombardia contava il più alto numero di casi di AIDS. Un altro
drammatico primato riguarda i decessi per assunzione di eroina
(dati 1995/6): 116 casi. E la fascia di età più colpita risulta essere
quella compresa tra i 25 e i 29 anni. Altri relatori in questi giorni
si fermeranno con maggiore competenza sulle emergenze della
città. In ogni caso, il compito ambizioso di ridisegnare la città
deve ripartire dagli ultimi. Non dimentichiamo che anche la
maggioranza degli stranieri extracomunitari presenti a Milano
sono giovani e ragazze che hanno diritto alla stessa assistenza e
allo stesso amore di tutti gli altri giovani.
Un segnale positivo
Accanto a queste gravi emergenze vorrei segnalare un fenomeno
di segno positivo e sempre più importante per la nostra città.
Mentre altre città che vantano una secolare tradizione universitaria
– penso alla vicina Pavia – conoscono una preoccupante crisi,
Milano vede crescere il numero dei giovani che la scelgono come
luogo per la loro formazione universitaria. Di fatto, invece, la
nostra città non si pensa come “universitaria” mentre questa sua
nuova e recente vocazione potrebbe costituire per essa una sfida.
Il pericolo oggi per un Paese e in particolare per una città è quello
di investire culturalmente in modo monotematico rispondendo a
sollecitazioni indirizzate ad un utilizzo immediato, con il conseguente
rischio di inseguire progetti a breve respiro. La ricerca va
invece intesa come investimento educativo sulle giovani generazioni
perché si abituino ad una progettualità a lungo termine. Conclusione
Milano è dunque sollecitata oggi da sfide cui può essere in
grado di dare risposte recuperando l’operosità e generosità che
ne hanno caratterizzato la storia, nel quadro di un sostanziale
consenso etico e sociale.
Vorrei qui lasciare la parola a un grande amico della nostra
città, il cardinale Giovanni Battista Montini, poi papa Paolo VI.
Così diceva nel suo discorso di ingresso in diocesi il 6 gennaio
1955:
A Milano, più che altrove in Italia, e forse più che altrove al mondo,
concorrono in alto grado la ricchezza stupenda e secolare di una tradizione
religiosa – e voglio dire di fede, di santità, di arte, di storia, di
letteratura, di carità – con una ricchezza meravigliosa e modernissima di
vita – e voglio dire di lavoro, d’industria, di commercio, di arte, di sport,
di politica20.
In questo contesto, Montini intendeva promuovere emblematicamente
da Milano una “pacificazione” sul piano “ideologico-
morale […] della tradizione cattolica italiana con l’umanesimo
buono della vita moderna”.
È l’ideale che promosse anche un altro grande amico della
nostra città, Giuseppe Lazzati, “milanese di Porta Ticinese”,
come amava presentarsi. Nel suo scritto La città dell’uomo, spiega
il perché di una preferenza per l’espressione “costruire la
città dell’uomo” usata come sinonimo di politica. Egli intendeva
riscattare il senso e il valore della politica come la più alta
e la più nobile tra le attività umane nell’ordine naturale, ove
l’uomo in quanto persona (cioè in relazione con gli altri e con
Dio) è soggetto-artefice e fine che armonicamente si compone dentro il bene comune21. È un ideale
di armonia che si richiama
a quello di Platone e di Aristotele, passando per il discorso della
montagna e le pagine dell’Apocalisse ed è ancora oggi capace di
creare amicizie per la città e nella città.
Ridisegnare la città non vuol dire soltanto riscrivere la cornice
estrinseca del nostro vivere quotidiano. La città fa corpo con
l’uomo che la abita. E la persona umana vive di relazioni e di
amicizie. In tal senso l’uomo è la sua città e la città è il luogo
delle sue buone relazioni e delle amicizie. Per questo Paolo VI
scriveva nella Octogesima adveniens:
Costruire la città luogo d’esistenza degli uomini e delle loro dilatate
comunità, creare nuovi modi di contatto e di relazione, intravedere
un’applicazione originale della giustizia sociale, prendere la responsabilità
di questo avvenire che si annuncia difficile è un compito al quale i
cristiani devono partecipare22.
A questo compito la Chiesa ambrosiana vuole contribuire
come amica della città, facendosi in essa e per essa nient’altro
che voce del Vangelo.

L’anima politica del lavoro sociale … l’anima sociale dell’impegno politico.


Animazione Sociale

NR 346

Le città sono tessuti emotivi


Qual è il clima emotivo che si respira in un caseggiato, in una via, in un quartiere? è una domanda
che come operatori sociali spesso ci poniamo. Quando interveniamo in un ambiente di vita delle
persone, la prima informazione ce la fornisce la nostra percezione. Possono essere luoghi freddi e
ostili, intrisi di sfiducia, rabbia, rassegnazione. O luoghi caldi e accoglienti, animati da interesse,
speranza, fiducia.
Il clima emotivo di un luogo ci offre molte informazioni su quel luogo stesso. Le
emozioni sono infatti atteggiamenti o risposte a una situazione o a un fatto oggettivo. Se
quel luogo è segnato da abbandono, povertà, incuria, questa situazione si riverberà
nell’interiorità dei suoi abitanti diventando emozione negativa. Viceversa, se
quell’ambiente è curato, denso di legami e opportunità, lì si respirerà fiducia e senso di
comunità.

Le emozioni dunque contano e raccontano. Per questo vanno ascoltate: perché oltre a dirci del
presente offrono anticipazioni del futuro. Se in un territorio cova rabbia, quella rabbia prima o poi
esploderà, producendo conseguenze drammatiche. Quante volte sentiamo dire, di fronte a scoppi di
violenza improvvisi, «chi l’avrebbe mai detto?». E poi se si scava appena, vengono a galla indizi
sottovalutati, segnalazioni cadute nel vuoto.
Come operatori sociali che conosciamo gli interni delle case, gli angoli delle strade, le vie dei
quartieri – la grande scena del sociale insomma – abbiamo antenne emotive sviluppate e soprattutto
siamo capaci di parlare la lingua delle emozioni. Che è il linguaggio della prossimità, dell’empatia,
del contatto profondo con la sofferenza sociale e con i desideri di felicità delle persone. E, non
sorprenda, dei diritti.
Perché se leggiamo le emozioni come il riverbero del «fuori» nel «dentro», le emozioni negative
sono tante volte il segno di una assenza di diritti. Là dove infatti la politica abbandona i territori,
cresce la rabbia della gente, come mostra bene la rubrica «Sguardi» di questo numero. Per questo
oggi è tempo di far più spazio alle emozioni nel nostro lavoro. Perché il cambiamento parte anche
da qui.

I care … Passeggiate … COS capitini, centri orientamento sociale

ITALIA

A proposito di Lucca e di tutto il


resto
Zerocalcare, fumettista
3 novembre 2023
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Zerocalcare è un autore di fumetti romano. Il suo ultimo libro è No sleep till
Shengal (Bao Publishing 2022).
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe
sapere cosa ne pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

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