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“Due o Tre Cose che so di Lei”.

Aspetti della messa in scena della città americana dagli


anni sessanta alle soglie del duemila.

1
INDICE

Capitolo Uno
La “città sulla collina”

1.1 Una “nuova oggettività”.


1.2 Città fuori campo.
1.3 “Paesaggio dell’anima”.
1.4 Una “edilizia mentale.
1.5 Autoritratto.
Capitolo Due
“Le mani sulla città”?.
A proposito di alcuni modelli di messa in scena urbana.

2.1 Verso una doppia interiorizzazione.


2.2 Interiorizzazione totale dell’ambiente urbano nel corpo di personaggi.
2.3 Mancata e irrealizzabile interiorizzazione dello spazio esterno.
2.4 Spazio urbano esterno indifferente.
2.5 Spazio urbano esterno fantasmatico.
2.6 Ambiente urbano come assoluta proiezione del rimosso dei protagonisti.
2.7 Ambiente e rimosso: il rimedio del voyeurismo.
2.8 Ambiente e rimosso: la morte come unica condizione di possesso
dell’ambiente.
2.9 Ambiente esterno e interno totalizzanti.
2.10 Small Town/Big Town.
2.11 Semidocumentarismo/Teatralizzazione.
2.12 Semidocumentarismo/Ipersoggettività.
2.13 Interiorizzazione del western.
2.13.1 Il viaggio e la missione del cowboy
2.13.2 L’assedio.
2.13.3 L’inseguimento.

Capitolo Tre

3.1 Se Questo (il Cinema) ucciderà Quella (la Città).

3.2 L’Esperienza urbana : espansione estetica e sindrome dello spettacolo.


3.3 L’Esperienza urbana: una rinnovata impronta mitologica.
3.4 La Reinvenzione della città.

Bibliografia

2
Introduzione

Mentre scrivo queste parole, Marsiglia ha già


cambiato aspetto.
E ciò che riferisco con mille parole è solo una piccola
goccia che traggo dal mare degli eventi, invisibile ad
occhio nudo, tremante sulla punta sottile della mia
penna.
Philip Roth, Le città bianche.

Chi cammina a lungo per le strade senza meta è colto


da un ebrezza. L’andatura acquista potenza a ogni
passo, e diminuisce man mano l’attrattiva dei bistrots,
dei negozi, delle donne sorridenti, mentre diviene
sempre più irresistibile il fascino magnetico del
prossimo angolo, di una piazza lontana nella nebbia,
delle schiena di una donna che cammina davanti. Poi
sopraggiunge la fame; ma egli non vuole saperne delle
mille occasioni, preferisce aggirarsi come una fiera
alla ricerca di cibo, di una donna, finchè
profondamente esausto, si concede freddamente a se
stesso nella sua stanza che gli è estranea, crolla.
Questo tipo d’uomo l’ha creato Parigi.
Walter Benjamin, Parigi ,capitale del
XIX secolo.

“La città, un edificio in questa città, una camera in questo edificio, è


l’inizio di Psyco (Psycho)”1. Lo sguardo che investe cinema e città è la
manifestazione di un movimento univoco e solidale che conduce dal più lontano
al più vicino, un riferimento che coinvolge il film e l’opera globale di Alfred
Hitchcock ma che può essere esteso alla maggioranza delle pellicole ambientate
1
François Truffaut, Le cinéma selon Hitchcock , Paris, R. Laffont, 1966; [trad.it. Il cinema
secondo Hitchcock, Parma, Pratiche Editrice,1977, p. 224].
Cfr. anche il bell’articolo scritto da Dietmar Steiner,”La città, un edificio in quella città, una
stanza di quell’edificio,così inizia Psyco” ,Filmaker, n. 3 (marzo/aprile), 1995, pp. 4-9.

3
in una grande città. A quell’unico sguardo danno vita due attanti: il film, che
attraverso l’incipit autorizza a cercare e approfondire gli eventi, e la città,
promotrice di una “veduta” che segue le modalità di un progetto urbanistico
distribuito secondo una scala rispettosa , come per il film in questione, del
principio che muove dal generale al particolare. Con un solo atto è possibile
congiungere due protagonisti e saldarli come due dispositivi, due moventi, due
spazi ( e due tempi) che si compenetrano e si nutrono a vicenda.

In questa esemplare coagulazione di movimenti e di immagini, la città


qualifica se stessa come “storia dello sguardo”2. Attraverso luoghi chiamati

2
Alberto M. Sobrero, Antropologia della città, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1992, p.144.

4
panorami3, passages4, esposizioni universali5, spazi non solo di mercato ma di
fascinazione, e pertanto deputati alla proiezione

dell’immagine e alla conseguente costruzione dello sguardo, è possibile


riconoscere i prototipi del futuro dispositivo cinematografico: essi traducevano la
magia della città garantendo l’esperienza della visibilità, come pure della
invisibilità.

3
Benjamin ha dimostrato come si potesse stabilire una relazione estremamente significativa tra le
funzioni e i significati che lo spazio metropolitano assumeva e il proliferare dei più aggiornati
meccanismi di rappresentazione spettacolare: tra questi c’erano proprio i panorami capaci di
traslare un intero paesaggio all’interno della città. “Nel loro tentativo di produrre , nella natura
rappresentata , trasformazioni fedeli fino all’illusione, i panorami rinviano in anticipo, oltre alla
fotografia, al film ed al film sonoro[…] I panorami, che annunciano un rivolgimento nel rapporto
dall’arte alla tecnica, sono insieme espressione di un nuovo sentimento della vita: il cittadino, la
cui superiorità politica si manifesta ripetutamente nel corso del secolo, compie il tentativo di
importare il paesaggio nella città. La città si amplia in paesaggio nei panorami, come farà più
tardi, in forma più sottile per il flaneur”.
Walter Benjamin, Das Passagenwerk, in Gesammelte schriften V/1-2, Frankfurt am Main,
Suhrkamp Verlag, 1982; [trad.it. Enrico Ganni, Rolf Tiedemann ( a cura di), Parigi la capitale
del XIX secolo, in I Passages di Parigi, vol. I, Torino, Einaudi, 1986, (2002³, p. 8)].
4
Anche l’esperienza dei passages sembra essere antesignana di quella cinematografica e ricalcare
le stesse qualità percettive di magia, sogno, trasparenza, identificazione . Questi luoghi, un po’
come il cinematografo che isola e preserva dal mondo reale, erano una sorta di spazio protetto,
dalle intemperie, dal caos, dalla sporcizia della strada, e, con il passare del tempo, diventano
proprio un ambiente speciale capace di incantare e sedurre, dove la città vera si allontana per
essere sostituita dalla trasfigurazione della città. Nelle vetrine di queste strutture in vetro e
cemento gli oggetti assumono un carattere fantasmagorico e vivono una vita magica, sollevati,
attraverso la presentazione e la loro relazione ( quindi con un effetto di montaggio), al di sopra
del valore d’uso e del valore di scambio.
Non sono solo gli oggetti ad acquistare un potere magico , anche le persone godono di questo
statuto. Nei passages uomini e donne respiravano l’atmosfera ambigua dello stare dentro un
universo chiuso come quello del cinematografo che offriva prodotti mai visti o di difficile
accessibilità. Stare dentro i passages consentiva anche di poter vedere l’esterno ed essere visti,
quindi trovarsi costantemente in scena e recitare molti ruoli. Nei passages i vetri che ricoprivano
la galleria filtravano la luce sprigionando una illuminazione quasi acquatica, oseremmo definirla
amniotica, creando un effetto onirico. “Quei vetri non servono né a dare luce né ad alleggerire il
corpo esterno della costruzione: sono inutili ma sono l’emblematico riflesso di un sogno, con i
suoi segreti, in quel collegare casa a casa, l’essere e non essere strada, […] lo spazio si confonde
come nelle favole”.
Norbert Fischer citato in Wolfgang Lauter, Passagen, Dortmund, Harenberg, 1984; [trad. it.
Gallerie, Legnano, Edicart, 1989, p. 28].
5
Molti ritengono che le esposizioni universali siano il punto di arrivo dell’evoluzione di
un dispositivo di
“mostrazione” che è il vero preludio del cinema. (Cfr., ad esempio, Vanni Codeluppi, Lo
spettacolo della merce. I luoghi del consumo dai passages a Disney World, Milano, Bompiani,
2000).
Tuttavia, al di là di questi prototipi che avrebbero fatto nascere il cinema da una costola della
città , altri osservatori hanno considerato cinema e città un parto gemellare, una natalità
addirittura privata delle naturali fasi di gestazione tanto da permettere al nuovo medium
uno svezzamento e una crescita avanzata di pari passo con quella della città. [Cfr.
Douglas Gomery che si occupa di illustrare e collegare i periodi di espansione del
cinema alle fasi dello sviluppo urbano. Shared pleasure: A history of movie presentation
in the United States, Madison (Wisconsin), University of Wisconsin Press, 1992].

5
Lo spettacolo urbano diventa prestissimo un nuovo strumento percettivo
dove “il reale si manifesta come spettacolo [e ] la finzione si rivela un
dispositivo sociale”6, patrimonio di massa, perfino strumento educativo, e tutti
( uomini, oggetti, edifici) sostituiscono all’esperienza del sacro quella della
mondanità producendo delle nuove o rinnovate mitologie.
Cinema e città intervengono poi sul tessuto della modernizzazione dando
vita ad un dispositivo linguistico in grado di proporsi come paradigma di

Ha un suo fascino, e anche una profonda gittata, l’idea che la città avesse potuto finalmente venire
alla luce solo contemporaneamente al cinema. E ci sembra altrettanto suggestivo che il cinema
avesse potuto costruire il proprio sistema espressivo seguendo anche il dettato urbanistico di quei
boulevards parigini, prodotto della hausmanizzazione, i quali, sorgendo dall’esplosione di interi
quartieri, avevano aperto, all’interno della città, un itinerario costruito come una narrazione visiva
prima insospettabile.
Alla metà dell’Ottocento dunque, in Europa come negli Stati Uniti, la città si afferma come una
“esplosione di acciaio e cemento”. [ Cfr. Leo Marx, The Machine in the Garden: Technology and
the Pastoral Ideal in America, New York Oxford, University Press, 1964; (trad. it. E. Kampmann,
La macchina nel giardino. Tecnologia e Ideale Pastorale in America, Roma, Edizioni Lavoro,
1987, p.165)].
Si tratta di deflagrazioni che aprono squarci non solo tra palazzi e strade, ma sollevano quelle
tenebre che avevano impedito fino ad allora la visione di cose e persone. Tutto questo accade
proprio nello stesso momento in cui arriverà il cinema il quale “con la dinamite dei decimi di
secondo ha fatto saltare questo mondo simile ad un carcere, così che noi siamo in grado di
intraprendere viaggi tra le sparse rovine”. {Walter Benjamin,"Das Kunstwerk im Zeitalter seiner
technischen Reproduzierbarkeit", Zeitschrift fur Sozialforschung, n. 5, 1936 ; [ trad.it. Enrico
Filippini, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966,
(2000³, p.41)]}.
Le tracce dell’esplosioni anzichè lasciare macerie fumanti ancora visibili, come era accaduto per i
primi sventramenti operati da Haussmann a Parigi, rilasciano piuttosto un campo di energia
elettromagnetica. Queste continue scariche, o manifestazioni “elettriche”, autentiche “scintille”
sprigionate dalla città, garantiscono la crescita di una macchina urbana dalle proporzioni
inusitate. La struttura urbana appare come un organismo vivente progettato per essere un cantiere
pulsante, tanto che ”Baudelaire parla dell’uomo che si immerge nella folla come in un serbatoio
di energia elettrica”: e subito dopo, descrivendo l’esperienza dello shock, definisce questa folla,
«un caleidoscopio dotato di coscienza»”.[Walter Benjamin, Schriften, Frankfurt am Main,
Suhrkamp Verlag, 1955; (trad.it. Renato Solmi, Angelus Novus. Saggi e Frammenti, Torino,
Einaudi, 1962, p. 107)]. Questo spazio cittadino, se possiamo anticipare le argomentazioni di
Georg Simmel, agisce direttamente sul corpo umano attraverso quello che è “il carattere inatteso
delle impressioni irrompenti” determinando anche la frantumazione del corpo umano. Del resto
siamo nel momento in cui il cubismo rileva che l’uomo non si staglia più sull’orizzonte, ha
perduto il posto di figura centrale nel quadro, non si stacca dal mondo tenendolo a distanza e
dominandolo, ma è lo spazio ad avanzare e avvicinarsi all’uomo a grandi falcate. Lo sfondo
aggredisce la figura, stringendola in una morsa e separandone le membra: “se in Matisse le figure
si libravano come nubi colorate in una spazialità sconfinata, qui – [soprattutto con Picasso] – il
fondo si avvicina, s’incastra a forza tra le figure, si spezza in tanti piani duri appuntiti come
schegge di vetro”. (Giulio Carlo Argan, L’arte moderna, 1770/1970, Firenze, Sansoni, p. 510).
Il rapporto tra figura e sfondo ha pertanto raggiunto una fase traumatica e, seguendo le riflessioni
di Benjamin, la categoria che risponde al nome di evento traumatico è quella più appropriata per
una disamina delle esperienze che rientrano nella vita urbana. Si tratta della ormai famosa
esperienza dello schock che il filosofo tedesco richiama proprio discutendo dell’esperienza
cinematografica e assimilandola a quella vissuta da un semplice pedone: ”il cinema è la forma
d’arte che corrisponde al pericolo sempre maggiore di perdere la vita, pericolo di cui i
contemporanei sono costretti a tenere conto. Il bisogno di esporsi ad effetti di schock è un
tentativo di adeguazione dell’uomo ai pericoli che lo minacciano. Il cinema risponde a certe
profonde modificazioni del complesso appercettivo, modificazioni che nell’ambito dell’esistenza

6
rappresentazione della realtà: qui vengono messi a punto sia i meccanismi di
ricezione che di autorappresentazione di coloro che vivono la nuova era
tecnologica. Questo dispositivo da un lato risponde al nome di “fenomeno della
metropolizzazione”7 facendo “ricorso a un incremento vertiginoso
dell’immaginario metropolitano e dei suoi mezzi di diffusione in ogni dove del
sistema sociale”. Dall’altro coinvolge l’industria cinematografica e la sua
capacita di ”essere stata in grado, mediante i linguaggi del montaggio, di
accelerare l’espansione delle dinamiche spazio-temporali della vita
metropolitana. Il linguaggio del cinema non solo è lo strumento che per primo
[…] ha favorito la necessità sempre più urgente che i processi di socializzazione
avevano di superare le barriere del territorio fisico, compresi quelli già più fluidi
e porosi della metropoli. Il linguaggio filmico costituì, innanzitutto, la svolta
comunicativa di una modalità espressiva dei linguaggi metropolitani che si
incarnava, facendosi tecnologia, nel dispositivo cinematografico”8.
Il cinema aveva dunque operato una conversione dei segnali della modernità e
della città in oggetti fruibili e riconvertibili in ulteriori manipolazioni. Questa
traduzione elaborata dal medium cinematografico era diventata possibile e
accessibile al pubblico non solo perché si consumava sullo stesso terreno che
aveva formato la civiltà della tecnica, all’interno cioè della città che ne era
diventata la sua più manifesta metafora; ma soprattutto in quanto il cinema,
grazie al suo apparato tecnologico, seppe realizzare quella carica semantica con
cui comprendere direttamente la realtà circostante perché era il mezzo tecnico
l’assoluto protagonista. Ecco allora che

per la prima volta la massa accedeva ad un linguaggio la cui


caratteristica tecnica era in grado di offrire una costruzione semantica
della realtà, che nei linguaggi espressivi precedenti era stata affidata
prevalentemente alla compatibilità tra elaborazione dell’autore ed
elaborazione del fruitore […] E’ il medium in sé a determinare la
piattaforma espressiva di base, senza l’apprendimento di nessun
codice linguistico che non sia quello «naturale» dell’uomo, senz’altra

privata sono subite da ogni passante immerso nel traffico cittadino, e nell’ambito storico da ogni
cittadino”. [Benjamin, Das Kunstwerk, (trad.it. L’opera d’arte, cit. nota 29, p.56)].
6
Cfr. Giorgio Tinazzi, La sinfonia della metropoli, in Paolo Bertetto e Germano Celant ( a cura
di), Velocittà. Cinema & Futurismo, catalogo realizzato nell'ambito della mostra "Futurismo &
Futurismi" organizzata a Venezia, Palazzo Grassi, dal 4 maggio al 12 ottobre 1986, Milano,
Bompiani, 1986.
7
Alberto Abruzzese, Metropolizzazione, in Id., Valeria Giordano ( a cura di), Lessico della
comunicazione, Meltemi, Roma, 2004, p. 330.
8
Ivi p. 334.

7
cornice che non sia quella dell’esperienza vissuta. Lo schermo dava
modo di entrare – «per incanto» - in un nuovo territorio
dell’esperienza umana attraverso il puro e semplice dispositivo
tecnico su cui si fondava: la duplicazione e rielaborazione del
territorio reale in una realtà percettiva altrettanto intensa 9.

Non va dimenticato però che il dispositivo appena descritto alberga e trae ragione
d’essere da strutture sociali di spettacolarizzazione 10 di più ampio respiro e di cui
non discuteremo in questa sede. E’ comunque bene tenere presente che queste
forme di spettacolarizzazione, coinvolgendo quasi in un unico movimento ora la
dirompente crescita tecnologica, ora il nuovo ruolo dell’artista, ora l’assetto della
città permeata e riscritta sia dall’universo della fabbrica che dalla fantasmagoria
delle esposizioni universali e dal cinema, hanno evidenziato una filigrana
interpretativa che risponde al nome di comunicazioni di massa.
Pertanto, pur non perdendo di vista il suddetto profilo d’insieme che ospita il
nostro percorso, vorremmo cominciare ad evidenziare e sviluppare il rapporto
cinema e città alla luce di due tratti distintivi che fino a qui hanno risposto alla
definizione di questo vincolo spesso definito costitutivo. Lo spazio comune che
cinema e città attivano comincia a ruotare soprattutto intorno a due perni:
1) cinema come “arte della fabbrica”11.
2) creazione di un pubblico.

1) Nel momento in cui lo spazio si afferma come non più “vuoto”, e soprattutto
non più annullato dalla presenza del soggetto,“lo sfondo di eventi significativi si
sposta dagli spazi sacri del cielo, della chiesa, del palazzo, agli spazi profani del
campo di battaglia, dell’officina, della piazza del mercato e della casa” 12. Lo
sfondo profano che si impone dalla metà dell’Ottocento è l’universo della
fabbrica. Esso operava come primo modello di spazio con cui ridisegnare non
solo un diverso profilo architettonico della città che intorno alla fabbrica veniva
articolato, ma definiva quel “salto di paradigma nel rapporto tra l’esistenza e le
sue forme”13. Emergeva pertanto uno spazio policentrico che produceva negli
9
Abruzzese, Cinema, in Lessico della comunicazione, cit. pag. 68.
10
Cfr. Sergio Brancato, Introduzione alla sociologia del cinema, Luca Sossella, Roma, 2001, p.
21.
11
Cfr. Alberto Abruzzese, Forme estetiche e società di massa, Marsilio,Venezia, 2001, pp. 87-91.
12
Stephen Kern, The Culture of Time and Space 1880-1918, Cambridge, Harvard University
Press, 1983; [trad.it. Barnaba Maj, Il tempo e lo spazio: la percezione del mondo tra Otto e
Novecento, Bologna, Il Mulino, 1988 (1995², p. 218)].
13
Sergio Brancato, La città delle luci: itinerari per una storia sociale del cinema, Roma, Carocci,
2003, p. 81.

8
individui contemporanei una perdita di orientamento a cui si poteva far fronte
soltanto con una nuova “segnaletica dell’immaginario”14. Essa corrispondeva
alle necessità di una emergente classe operaia che esprimeva una sua reazione ai
vincoli dettati della epoca industriale che la avvolgeva.
Il cinema allora si incaricò di tradurre in forma espressiva quel “calco cognitivo e
comportamentale dalla forte incidenza sui processi dell’immaginario” 15 che la
fabbrica, motore della modernità, impianto di regolazione e organizzazione dei
rapporti sociali, e la città, “fabbrica simbolica della contemporaneità” 16 nonché
“laboratorio di esperienze” e delle tecniche più avanzate, istituivano,
consolidavano e rilanciavano.
Con lo spostamento delle fabbriche nel centro città ed il conseguente
trasferimento della classe media in periferia le cui case erano state abbandonate a
stranieri ed emigranti provenienti dalla campagna o dall’estero, il centro della
città e i primi nickelodeons ruotavano intorno ad un etnia di estrazione
operaia.“Come giro d’affari e come fenomeno sociale, il cinema, negli Stati
Uniti, nacque quando entrò in contatto con i bisogni e i desideri della classe
operaia. «Il posto ideale per un cinematografo da un nickel», scrisse l’autore di
un manuale per manager e operatori nel 1910, « è un settore densamente
popolato in un quartiere operaio con l’ingresso principale su di una strada di
consumo molto frequentata»”17.
La Sortie des usines Lumiére ( L’uscita dalle fabbriche Lumiére, Louis Lumiére,
1895) aveva già riprodotto ed esaltato, nelle forme della sua messa in scena, le
figure delle dinamiche sociali e la partecipazione degli operai dentro la società
dando il via ad una rapida assimilazione, da parte del cinema stesso, dei modelli
ideologici, culturali ed economici, che ruotavano intorno all’universo della
fabbrica orientandoli verso forme rituali di consumo: “la riproducibilità tecnica
in quest’epoca si realizza, cioè, non soltanto attraverso la macchina, ma anche
attraverso il funzionamento automatico dell’uomo”18.

14
Ibidem.
15
Ivi p.78.
16
Ibidem.
17
Frank Herbert Richardson, Motion picture handbook; a guide for managers and operators of
motion picture theatres, New York city, The Moving picture world, 1910; citato in Robert Sklar,
Movie-made America. A Cultural History of American Movies, New York, Random House, 1975;
[trad.it. Cinemamerica. Una storia sociale del cinema americano, Feltrinelli, Milano, 1982, p.
160].
18
Abruzzese, Forme estetiche, cit. p. 95.

9
Il cinema può essere a ragione definito come l’arte della fabbrica dal
momento che racchiude in sé le forme e l’ideologia della moderna
civiltà industriale. Ereditava dalle grandi esposizioni la funzione di
spettacolarizzare i prodotti e i successi dell’economia capitalista, ed
anzi si poneva a sua volta come uno dei prodotti più avanzati del
sistema. Con la nascita del cinema si perfezionava il processo con cui
lo spettacolo delle merci tendeva a diventare una merce esso stesso,
prodotta dall’industria culturale e destinata alla fruizione durante il
tempo libero. Se la fabbrica produceva merci per i consumatori, a sua
volta il cinema funzionava sin dall’inizio, ed inequivocabilmente,
come strumento di produzione dei consumatori per le merci 19.

Ecco che accanto ai nuovi monumenti dell’economia incarnati dagli stabilimenti


industriali nascono, contemporaneamente, altrettanti spazi espressione di una
nuova tipologia di consumo, di evasione e tempo libero: “lo schermo
cinematografico si candidava a diventare per il tempo di non lavoro quello che
per il tempo di lavoro era stata la fabbrica”20.
Nelle città della tecnica si concentrano i nuovi processi relazionali e i
nuovi ritmi di percezione così che “organizzare sullo schermo le immagini della
metropoli vuol dire quindi sperimentare strutture della visualità dotate di ritmi e
sollecitazioni al più alto livello possibile”21.
L’attenzione verso il puro mezzo tecnico qualificò meglio di qualsiasi altra
accezione, almeno in principio, l’attività del cinema come espressione ed
erogazione di un senso collettivo di salvezza in grado di perpetuare la vita e
sconfiggere la morte. Ci sembra di poter attribuire soprattutto a David Wark
Griffith la paternità di aver consolidato in termini di compiutezza, l’affermazione
del potere della tecnica cinematografica che gareggiava in velocità, precisione e
potenza con la civiltà meccanica contemporanea. La conclusione di Intolerance
(1917) crea infatti un precipitato di relazioni che attivano un confronto diretto tra
la macchina cinema e gli altri strumenti tecnologici presenti fino alla prima metà
degli anni dieci. Basti pensare all’episodio del film ambientato nel presente
quando affianca la rapidità di treni, automobili, telefoni, alla scansione del
montaggio alternato. Da un lato vediamo espressa quella superiorità che la
moderna civiltà delle macchine ( ovviamente americana) stabilisce sulla messa in
scena degli altri episodi ambientati nel passato (la Passione di Cristo, la Caduta
19
Alberto Abruzzese, Davide Borrelli, L’industria culturale. Tracce ed immagini di un privilegio,
Roma, Carocci,2000, p. 123.
20
Ibidem.
21
Paolo Bertetto, Il cinema d’avanguardia. 1910-1930, Venezia, Marsilio, 1983, p. 61.

10
di Babilonia, il massacro degli Ugonotti) con i quali Griffith stabilisce un
evidente confronto. Dall’altro lo stesso regista eleva la tecnica del film a un ruolo
di demiurgo per via della capacità di regolare, attraverso un percorso narrativo e
salvifico, i singoli ritrovati della scienza. In definitiva, nel film di Griffith, le
distanze che separano i salvatori da una persona in pericolo di vita vengono
infrante e risolte positivamente solo nell’episodio moderno laddove il montaggio
operato dal cinema coordina le modalità necessarie e indispensabili per sottrarre
l’uomo al suo tragico destino.

2- La costituzione fisica del pubblico si produce all’interno dei processi di


massificazione che la concentrazione energetica delle città aveva stimolato
rintracciando una sua iniziale definizione durante le fasi che portano alle prime
Esposizioni universali. Queste ultime

non hanno soltanto trovato e sperimentato la psicologia di massa, ma


sono divenute delle scuole del pubblico. Attraverso il meraviglioso
spettacolo dei colori e delle luci di queste immense città ideali,
dentro alla città reale della giornata lavorativa, la massa contraeva il
vizio dell’abitudine”22. Una abitudine che consisteva nell’acquistare
la libertà di partecipare ai frutti della tecnica toccando e guardando la
merce, di prendere parte ad uno spazio e ad un tempo prima
inaccessibili. Questo pubblico nascente sentiva di appartenere ad una
nuova classe che poteva fare a meno delle distinzioni del passato e
che uniformava proprio sotto la denominazione di pubblico “un
unico modello di acquirente […] E’ a questo punto che il pubblico
acquista il suo pieno significato e la sua reale funzione . Quando cioè
la sua sostanza fisica è fatta dall’unione ideologica di più classi, ed il
controllo della sua crescita appartiene alla logica stessa del sistema 23.

La molla segreta della massa a farsi pubblico risiedeva su due fronti


opposti:”da un lato la sua paura e stanchezza per i ritmi della civiltà” che poteva
minare e annientare ogni singola personalità, “dall’altro il suo desiderio di
dimenticare la propria individualità alienata nel magma consolatorio della
massa”24. Lo spettacolo delle esposizioni attraverso lo strumento della “tecnica
del colpo d’occhio” atrofizza le capacità di riflessione del singolo individuo
“obbligandolo ad occupare la funzione di pubblico”25. Il cinema in qualità di
interprete della società dei consumi, distributore di forme spettacolari nella
22
Abruzzese, Forme estetiche, cit. p. 77.
23
Ibidem.
24
Ibidem.
25
Ibidem.

11
organizzazione della società, subentrerà a tutti i dispositivi protocinematografici
come le esposizioni e costringerà

ogni spettatore a vedersi come elemento di una massa urbana in


perenne movimento. […] La relazione tra l’avvento del cinema e la
questione delle manifestazioni collettive [come le esposizioni ad
esempio]26 era duplice: da una parte la sala cinematografica era un
luogo di riunione e dispersione: animata da un incessante viavai essa
raggruppava una folla di un genere particolare che era importante
definire; dall’altra, i film stessi, a differenza delle precedenti forme di
spettacolo, mettevano in scena folle estremamente varie. Così, nel
momento in cui i Lumiére effettuavano le loro proiezioni di pubblici
eventi, il film offerto alla folla, contribuiva a precisare come nozione
ancora fluida, riunendo nel medesimo luogo masse di curiosi e
fornendo al tempo stesso una determinata rappresentazione di questi
medesimi, conferendo insomma all’idea di folla lo spessore di
un’immagine in movimento27. […] Il cinema rendeva familiari tutte
le folle comprese quelle esotiche, e instaurava una distanza in
rapporto alle masse, coinvolgeva lo spettatore in una socializzazione
tutta provvisoria e nello stesso tempo la isolava dal mondo.
Presentando visioni contraddittorie di folle ordinate o di folle
caotiche, di folle guidate dalle loro abitudini o di folle travolte da
grandi eventi, i film conferivano una apparenza concreta alla nozione
piuttosto vaga di massa28.

La chiosa di Pierre Sorlin costruisce per il cinema un ruolo capace di cucire


attraverso la tecnica del movimento del film un percorso che, sfruttando il ritmo
urbano, rende la massa un dispositivo spettacolare, fruibile da se stessa perché è
diventata pubblico.“Si può dibattere all’infinito su ciò che fu la modernità, ma,
per Simmel e per molti suoi contemporanei, era simboleggiata dalla
massificazione e dal ritmo frenetico della vita urbana. Ora, il film rappresentava
la massa e la offriva in forma di spettacolo a una folla in perpetuo movimento”29.
A questo punto ci sembra che sia giunto il momento di provare a stabilire
una corrispondenza tra l’arte della fabbrica che vive sull’asse modernizzazione-
città-cinema e quella tra operaio-folla-spettatore cinematografico che si inscrive
sullo stesso asse di riferimento. Benjamin addotta come “scintilla” di questa
correlazione la sostituzione di una complessità di atti con un singolo gesto
definito “brusco”. Egli rileva che

26
n.d.a.
27
Pierre Sorlin, Les fils de Nadar. Le “siècle” de l’image analogique, Paris, Edition Nathan,
1997; [trad.it. Sergio Arecco, I figli di Nadar. Il “secolo” dell’immagine analogica, Torino,
Einaudi, 2001, pp.26-27].
28
Ivi p. 31.
29
Ivi p.34.

12
con l’invenzione dei fiammiferi verso la fine del secolo, comincia
una serie di innovazioni tecniche che hanno in comune il fatto di
sostituire una serie complessa di operazioni con un gesto brusco.[..]
Fra i gesti innumerevoli di azionare,gettare,premere, eccetera, è stato
particolarmente grave di conseguenze lo «scatto» del fotografo.
Bastava premere un dito per fissare un evento per un periodo limitato
di tempo. L’apparecchio comunicava all’istante , per così dire, uno
schock postumo. A esperienze tattili di questo genere si affiancavano
esperienze ottiche, come quelle che suscita la parte degli annunci in
un giornale, ma anche il traffico delle grandi città. Muoversi
attraverso il traffico comporta per il singolo una serie di schock e di
collisioni. Negli incroci pericolosi, è percorso da contrazioni in
rapida successione, come dai colpi di una batteria. […]
All’esperienza dello schock fatta dal passante nella folla corrisponde
quella dell’operaio addetto alle macchine”30.

Lo studioso tedesco salda poi, inequivocabilmente, l’esperienza della folla negli


agglomerati urbani e dell’operaio, con quella dello spettatore cinematografico:”la
tecnica sottoponeva il sensorio dell’uomo a un training di ordine complesso.
Venne il giorno in cui il film corrispose a un nuovo e urgente bisogno di stimoli.
Nel film la percezione a scatti si afferma come principio formale: ciò che
determina il ritmo della produzione a catena, condiziona, nel film , il ritmo della
ricezione”31.
La sala cinematografica, già nelle sue prime articolazioni, coagula intorno
a sé le posture sociali, emotive del lavoratore e del pubblico: è “cinghia di
trasmissione" dei corpi e dei ritmi della città, della modernizzazione; “ufficio
anagrafico”32 in grado di rilasciare una identità.
Lo spazio della sala consentiva agli spettatori di vivere un proprio ritmo,
certamente mutuato da quello prodotto dal mondo esterno ma anche in
competizione con esso: un ritmo che ci offre ancora una volta la portata del
respiro del solo mezzo tecnico messo in campo dal cinema.
“Il grande pubblico – ha scritto nell’aureo Manuel du parfait spectateur Ado
Kyrou – sensibile all’ambiente generale, all’oscurità, alle ombre che si muovono
non segue il film proiettato. Cullato da un nuovo ritmo comunica con questo
«nuovo mistero» in uno stato di sogno beato”33.

30
Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus novus, cit. p. 110 e 112.
31
Benjamin, Ivi p.110.
32
Cfr. Gian Piero Brunetta, Buio in sala. Cent’anni di passione dello spettatore
cinematografico, Venezia, Marsilio,
1989.
33
Ivi p. XXIX.

13
Che questo ritmo misterioso facesse da regia alla proiezione lo attesta il
fatto che “gli operatori che azionavano a mano la manovella, [sintonizzavano] il
ritmo del film a quello del pubblico” 34 anticipando o accelerando le scene.
Questo “ci dice come ogni spettacolo si costruisse a misura degli spettatori: tutti
insieme guidavano idealmente la mano dell’operatore imponendogli i mutamenti
di velocità, facendolo avanzare o terminare sulla base dei desideri” 35. Lo
spettatore, utilizzando i suoi sensi e la sua immaginazione, era in grado di fornire
a quelle prime e malferme immagini in bianco e nero, per quanto definite “figure
elettriche d’alta classe”, profondità, movimento e continuità.
“La necessità di una partecipazione attiva dello spettatore non scoraggiò uomini
e donne della classe operaia che costituiscono il primo pubblico cinematografico.
Proprio come scienziati quali Marey, essi dimostrarono un gran desiderio di
veder dominati il tempo e il movimento. Sebbene i loro gusti dovessero essere
soddisfatti in sale affollate, buie e puzzolenti, pochi di essi avrebbero fatto a
meno di simili opportunità di godimento e di illusione di potere. Andavano al
cinema come tanti affamati e con i loro nickel trasformarono uno strumento di
scienza e di divertimento nel primo mass medium spettacolare”36.
Gian Piero Brunetta ha individuato nella sala cinematografica non solo una
“dimensione unitaria”ma l’ha considerata un “sistema di forze” determinato da
“spazi interni ed esterni”, uno “spazio vettoriale –topologico”. Ci sembra che
questo spazio topologico, luogo fisico terminale e “seminale” della catena

34
Ivi p. 33.
35
Ibidem.
Robert Sklar conferma quanto il primo pubblico si concentrasse sulla “qualità della proiezione”
anziché sul contenuto del film. “Anche 12 anni dopo le prime proiezioni su grande schermo, il
meccanismo a intermittenza dei primi proiettori faceva traballare o sfarfallare le immagini sullo
schermo con un effetto deteriore per gli occhi. Inoltre il film stesso si deteriorava con l’uso. E la
velocità di scorrimento sullo schermo variava costantemente, perché le macchine da presa
venivano azionate a mano, e così di bobina in bobina c’erano grosse variazioni nel numero di
fotogrammi al secondo. Gli operatori potevano compensarle regolando la velocità di proiezione,
ma questo serviva ad aggravare il problema delle immagini che si muovevano sullo schermo
troppo velocemente o troppo lentamente rispetto alla vita reale. Nonostante gli esercenti non
potessero far molto per il problema delle immagini che sfarfallavano e nonostante fossero talora
indifferenti al deteriorarsi dei film, impararono a far tesoro degli entusiasmi del pubblico per
intervenire sulla realtà. Si poteva proiettare il film di un treno alla velocità doppia del normale,
tanto nessuno si sarebbe accorto che un treno lento è stato fatto diventare veloce. Ma era ancora
meglio conquistare risate e applausi con un trucco che il pubblico poteva apprezzare. I film
proiettati a velocità deliberatamente ridotte o accelerate producevano un grottesco effetto comico
[..] Era ancora più divertente proiettare i film all’inverso, per vedere nuotatori saltar fuori dalla
piscina con i piedi all’insù per poi finire sul trampolino, oppure automobili che correvano
all’indietro su per le strade della città”.
Sklar, Movie-made America, [trad.it. Cinemamerica, cit. pp.34-35].
36
Ibidem.

14
modernizzazione-città-cinema possa ora riflettere e rilanciare all’esterno quella
moltiplicazione spaziale che proprio la città e il cinema, con la loro interazione,
hanno determinato.
La sala, anche soltanto per la vicinanza fisica , diventa presto un prolungamento
naturale della propria casa. “A volte è sufficiente attraversare solo la strada, ma
quando il tragitto è più lungo [si vive] “una doppia avventura: quella della
conquista della città e quella delle emozioni che si susseguono a catena nella sala
fin dal momento in cui si varca la soglia dell’ingresso” 37. In questo doppio
percorso città e cinema si scambiano gli umori, le percezioni degli
attraversamenti e delle permanenze.
Attraverso il cinema ( come già era accaduto per la letteratura) le città
diventano autentici laboratori di generi e stili. Filmare la città, le sue strade, gli
edifici, le infrastrutture, i passanti, il traffico, significa scoprire e sperimentare il
linguaggio cinematografico. E vuol anche dire, dal momento che l’essere umano
non possiede le qualità per scandagliare l’altezza, il profilo e i volumi delle
architetture, che grazie a ad un occhio meccanico, diventa finalmente possibile
vedere la città: lo sguardo sulla città, come sostiene Lewis Mumford, può essere
solo uno sguardo “disumano”38, quello della macchina da presa.

Il titolo di questo studio, prendendo in prestito quello del film di Jean Luc
Godard (2 ou 3 choses que je sais d'elle, 1967), propone, come nodo centrale di
analisi, la città americana e il cinema nell’ottica di una reciproca messa in scena
di luoghi di seduzione e di prostituzione. E’ un percorso che, muovendo dagli
anni sessanta, attraversa le piattaforme, a volte incerte e instabili, della modernità
e della postmodernità e prova a costruire, se non una identificazione, quanto
meno un rapporto intimo ( ma spesso morboso e perverso) tra i soggetti ( i
personaggi), gli oggetti ( gli ambienti, le architetture) e il linguaggio
cinematografico che subisce , dove è stato possibile e lo si è ritenuto significativo
e pertinente , le infiltrazioni delle riflessioni (estetiche, sociologiche,
antropologiche) sulla architettura e l’urbanistica americana.

37
Brunetta, Buio in sala, cit. p. 57.
38
Cfr. Lewis Mumford, Sidewalk Critic, New York, Princeton Architectural Press, 1998; [trad. it.
Bianca Lazzaro, Elena Marchigiani ( a cura di), Passeggiando per New York: scritti
sull’architettura della città, Roma, Donzelli Editore, 2000].

15
Una delle ispirazioni principali che ha guidato la nostra indagine è stata quel
vibrante “erotismo”39 prodotto dalla grande città al cui interno la magia del
cinema costruisce quegli oggetti che diventano “attraenti”, seducenti, proprio per
il loro continuo dissolversi40.
Ulteriore suggestione interpretativa è risultata da quanto la messa in scena
degli ambienti urbani ( nel nostro caso operata dal cinema) potesse custodire, o
consentire di leggere in filigrana, quello che per Benjamin 41 è il racconto sul
futuro di ogni uomo. Per ogni essere umano infatti esiste una Città-Madre a cui
vengono associati turbamenti e sogni dell’infanzia, un luogo in cui - dice Peter
Szondi – “lo sguardo dell’adulto non cerca di identificarsi nostalgicamente con lo
sguardo del bambino, si volge piuttosto a quei momenti in cui al bambino si
annunciò per la prima volta il futuro” 42. Con lo sguardo dell’adulto Benjamin
ritrova dunque quella lama di luce attraverso cui capisce la profezia di quello che
sarebbe stato: “la striscia di luce sotto la porta della camera da letto la sera della
vigilia, quando gli altri erano ancora alzati – non era questo il primo segnale del
viaggio? Non penetrava nella notte infantile piena di aspettative, come più tardi
nella notte del pubblico la striscia di luce sotto il sipario?”43.
Ritrovare certe città, nei film che abbiamo esaminato, è stato un po’ come
aver finalmente compreso come si erano annunciate certe “forme future del
cinema”.

39
Cfr. Roland Barthes, "Sèmiologie et Urbanisme", L’architecture d’Aujourd’hui, n.153
(decémbre 1970 –janvier 1971); [trad. it. Semiologia e urbanistica, Camilla Maria Cederna ( a
cura di), L’avventura semiologica, Torino, Einaudi, 1991].
40
Si tratta della percezione “panoramatica” degli oggetti di cui parla Wolfgang Schivelbusch in
Geschichte der Eisenbahnreise, München-Wien, Carl Hanser Verlag, 1977; [trad.it.Consolina
Vigliero, Storia dei viaggi in ferrovia, Torino, Einaudi, 1988, p.201].
41
Cfr. Walter Benjamin, Berliner Kindheit um Neuzehnhundert. Fassung letzter Hand und
Fragmente aus früheren Fassungen, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1950; [trad.it. M.
Bertoli Peruzzi, Infanzia Berlinese. Intorno al Millenovecento, Torino, Einaudi, 1973, (trad.
Enrico Ganni, 2001³].
42
Peter Szondi, nachwort , in Städtebilder, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1955; [trad. it.
Marisa Bertolini, nota di Peter Szondi in Immagini di città, Torino, Einaudi,1971].
43
Benjamin, Berliner Kindheit; [trad. it. Infanzia berlinese, cit. P.86].

16
CAPITOLO UNO
La “Città sulla collina”

Scrive Michel De Certeau che “la volontà di vedere la città ha preceduto i


mezzi per soddisfarla. I dipinti medievali o rinascimentali raffiguravano la città
vista in prospettiva attraverso un occhio che però non era ancora mai esistito […]
E questa finzione già trasformava lo spettatore medievale in occhio celeste.
Creava degli dei. Ma cosa succede da quando è stato organizzato un ‘potere
onnivedente’ attraverso procedure tecniche?”1. Forse fu la visione dei risultati
che sarebbero stati raggiunti da queste capacità tecniche a far proclamare a John
Winthrop che i primi insediamenti puritani sul suolo americano sarebbero
diventati una “città sulla collina sulla quale saranno puntati gli occhi di tutti”2.

1
Michel De Certeau, L’invention du quotidien. L’arts de faire, Paris, Éditions Gallimard, 1990;
[trad. it. Mario Baccianini, L’invenzione del quotidiano, Roma, Edizioni Lavoro, 2001 (2005²,
pp.144-145)].
2
“We shall be as a Citty upon a hill, the eies of all people are uppon us” è la dichiarazione di
John Winthrop leader puritno a bordo dell’Arabella nel 1630 (citato in Daniel Boorstin, The
Americans. The colonial experience, New York,Vintage Books, 1958, p. 3).

17
La premessa dell’origine della città americana si fonda dunque sullo
sguardo e sulla progressiva costruzione di quello sguardo. Domandarci quali
siano state le modalità di messa in scena di questa città comporta dunque, in via
preliminare, affrontare la questione legata alla restituzione della sua immagine.

1.1 Una “nuova oggettività”.

Dopo che nel cinema di Hollywood si è consumata la frantumazione della


costellazione urbana classica, la città prima, e la metropoli poi, a partire dal giro
di boa degli anni sessanta, sembrano essere a tutti gli effetti reinventate secondo
una nuova mitologia che, in molti casi, ambisce, paradossalmente, a presentarsi
con il carattere dell’“oggettività”.
Assumere il carattere dell’“oggettività” come iniziale parametro di
riferimento ci sembra funzionale agli scopi di questa ricerca se, come riferisce
Dominique Noguez a proposito delle città filmate degli anni venti,

la grande città impone di per se stessa degli obblighi di verità [...] la città è come un
nome proprio, unico e riconoscibile. Non si possono ingannare gli spettatori su Parigi o
Berlino, sono troppi a conoscerle o riconoscerle. Così si impone quel patto referenziale
di cui parla ad un altro proposito Philippe Lejeune, secondo cui, implicitamente o
esplicitamente, l’autore ci dice: ‘Queste due o tre (o cento) cose che so di Parigi o di
Berlino e che vi mostrerò non sono truccate, sono vere, potete verificarle’ 3.

Queste affermazioni possono certo sembrare paradossali, dal momento


che oggi è difficile pensare ad una ripresa cinematografica in grado di
consegnare una visione del tutto depurata dagli interventi delle istanze narranti o
progettuali che presiedono alla ripresa stessa. E, in effetti, riteniamo che il punto
non stia tanto nel considerare se esistano pellicole effettivamente capaci di offrire
una visione il più possibile oggettiva, quanto nell’effetto prodotto da questo
sforzo.
Vanno tuttavia esaminati, per un opportuno confronto, sia quegli approcci che
hanno sfruttato strategie formali e interpretative dirette a formulare un disegno
quanto più aderente alla vita della città, sia altri percorsi che a volte, pur
utilizzando quelle stesse tattiche che miravano ad un’aderenza concreta, hanno
cercato di dimostrare quanto la città, quantunque registrata e “organizzata” dal
3
Dominique Noguez, Prises de villes, in Giampiero Brunetta, Antonio Costa (a cura di), La città
che sale: cinema, avanguardie, immaginario urbano, Trento, Manfrini, 1990, p. 26.

18
cinema, fosse in realtà inafferrabile. Molte delle scene, per esempio, girate in
location reali, non attestavano necessariamente un criterio di realismo. È una
considerazione ancora confortata da Noguez che, esaminando un film di Marcel
Carné, sostiene: “Con Trauner che gli rifà le sponde del canale Saint-Martin in
Hôtel du Nord (in cui sono rari i piani girati sul posto) oppure l’uscita del metrò
Barbès-Rochechouart in Les portes de la nuit, Marcel Carné è più realista, più
referenziale di molti cineasti della Nouvelle Vague o successivi, che girano
interamente in ambienti naturali, ma non collegano, così come sono nella realtà,
le diverse faccette della città filmata”4.
La domanda sull’esigenza di rendere visibile la città dunque non portava
con sé come risposta solo il fatto che dovesse essere espressa in modo reale.
Anzi, l’impegno a realizzare una corrispondenza oggettiva poteva manifestarsi
come la strategia meno idonea per accostarsi all’immagine della città. Per avere
accesso all’universo urbano, diventava dunque necessario seguire una serie di
indirizzi di analisi che, pur allontanandosi inevitabilmente dalla registrazione di
una città reale, erano spesso in grado di tracciarne quel respiro che risultava il più
aderente (più che alla “pelle”) allo “spirito” della città. Questo spazio dello
“spirito urbano” è strettamente collegato all’immaginario che la città evoca:

la città esiste in virtù dell’immaginario che suscita e che vi fa ritorno, che


essa alimenta e di cui si nutre, cui dà vita e che la fa rinascere ad ogni
istante. E, se l’evoluzione di questo immaginario ci interessa, è perché essa
riguarda al tempo stesso la città – le sue costanti ed i suoi cambiamenti – e
il nostro rapporto con l’immagine, che cambia anch’esso come cambiano la
città e più in generale la società. Porsi il problema della città immaginaria
vuol dire dunque, in fin dei conti, porsi la doppia questione dell’esistenza
della città e dell’esistenza dell’immaginario nel momento in cui il tessuto
urbano si estende, in cui l’organizzazione dello spazio sociale si modifica, e
in cui le immagini, le stesse immagini, si diffondono su tutta la Terra.

4
Ivi, p. 27. Noguez sostiene che la città può essere solo “attraversata” e mai veramente “presa per
se stessa”. È una riflessione avallata dal considerare i due movimenti ricorrenti che tentano di
abbracciare, di afferrare la città: quello che va dal tutto alla parte, come ad esempio accade in
molti film di Hitchcock (basti ricordare Psycho (Psyco,1960) e Rope (Nodo alla gola, 1948), e
dalla parte al tutto, come rivelano certe “sinfonie urbane”. Sono movimenti che si attestano
pressoché nell’incipit del film e che costituiscono il “substrato, il blasone” della città; ed altri che
invece si collocano di solito nella parte mediana (il rimando ad esempio va a Vaghe stelle
dell’Orsa di Luchino Visconti) e che invece rappresentano una “causa”: la città cioè spiega,
attraverso l’ambientazione, il cambiamento del carattere psicologico dei personaggi o del clima
della vicenda. L’unica eccezione che la studiosa riserva a questa impossibilità di oggettivare la
città, proprio perché solo e soltanto attraversabile, è quella di un certo cinema sperimentale che,
anziché attraversare la città, si ferma ad osservarla e “lo fa […] attraverso una frammentazione
quasi costante, talvolta frenetica del visibile […] altri lo fanno attraverso lunghi piani fissi
affascinanti”.

19
Significa, inoltre, porsi il problema delle condizioni attuali dell’esistenza
quotidiana5.

Era stata una falsa speranza quella di poter riprodurre fedelmente,


attraverso il cinema, la complessità del fenomeno urbano. Da un lato perché la
città, come avevano rilevato Marcel Roncayolo6 e Lewis Mumford7, era
considerata uno spazio totale8, principio organizzatore del mondo, schermo
vaticinante per il futuro destino dell’uomo, nonché intesa, a giudizio di Arnold
Hauser9, anche come prossima e diretta responsabile dell’annullamento stesso
dell’essere umano.
Pertanto, proposta in questi termini, era inevitabile che la città, per sua natura,
non potesse permettere un abbraccio completo attraverso una pura registrazione
del reale; purtuttavia, era sempre possibile intervenire su di essa in maniera
efficace tramite una continua e attenta parcellizzazione, operazione nella quale il
cinema, attraverso il suo proverbiale statuto metonimico, poteva esprimere tutta
la sua potenzialità.

5
Marc Augé, L’impossible voyage. Le tourisme et ses images, Paris, Payot & Rivages, 1997;
[trad. it. Alfredo Salsano, Disneyland e altri non luoghi, Torino, Bollati Boringhieri, 1999 (2002²,
p. 96)].
6
“[…] il piano urbano[..] porta in se stesso, sin dall’origine, un principio di organizzazione che
può essere contemporaneamente immagine e interpretazione del mondo”. Marcel Roncayolo, La
città. Storia e problemi della dimensione urbana, Torino, Einaudi, 1978 (1988², p. 106).
7
Per Mumford, la città “è la più grande concentrazione di vita umana, la sintesi più completa del
mondo […] La complessità e la capacità d’assorbimento culturale della metropoli personificano
la complessità e la varietà del mondo nella sua totalità. Inconsciamente le grandi capitali stanno
preparando l’umanità ad associazioni e unificazioni più ampie che la conquista moderna dello
spazio e del tempo ha reso probabili se non invitabili”. “Buona parte delle teorie recenti sui futuri
sviluppi delle città si fonda sui presupposti ideologici oggi di moda concernenti la natura e il
destino dell’uomo”.
Lewis Mumford, The City in History: its Origins, its Transformations, and its Prospects, New
York, Harcourt, Brace & World 1961; [trad. it. La Città nella storia. Dalla corte alla città
invisibile, 3 volumi, Milano, Etas Kompass, 1967 poi in Milano, Bompiani, 1977,( 2002³, vol. III,
pp. 692 e 655)].
8
L’immaginazione antica, quando si riporta alla città nella sua totalità, istituisce una similitudine
fra l’ordine cosmico che incarna la città come sua immagine fisica e il microcosmo individuale.
L’identificazione antropomorfica, con estensione a tutto il paesaggio naturale inteso come
organismo fisico, pare corrispondere ad un’esigenza profonda dell’uomo. Se nel paesaggio
naturale la coincidenza fra struttura del corpo umano e il suo corrispondente geomorfico era
misteriosa ma casuale, nella città quella coincidenza è vissuta come costruzione cosciente. La
cultura filosofico-letteraria del Rinascimento identifica la città ideale come un ordine morale.
Anche l’utopismo scientifico dell’Illuminismo, che fa giustizia di tutte le metafore di ordine
metafisico o biologico, resta legato a questa fiducia nella città come istituzione ordinata,
strumento della perfettibilità dell’uomo che vi specchia e si riconosce.
Cfr. Paolo Sica, L’immagine della città da Sparta a Las Vegas, Bari, Laterza, 1970.
9
Cfr. Arnold Hauser, Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, München,C.H. Beck, 1956;
[trad.it. M.G.Arnaud, Storia sociale dell’arte, vol. IV, Torino, Einaudi,1956 (trad. Anna Bovero,
1987² pp. 229-230)].

20
Dall’altro lato, anche operazioni più ardite, legate al montaggio sovietico o
francese degli anni venti e trenta, non scioglievano del tutto i nodi poetici e
stilistici su quale fosse la prassi più idonea per registrare e leggere la città. In più
andava considerata, come fa Siegfried Kracauer, l’instabilità dei fenomeni
urbani, che ne rendeva estremamente difficoltosa la lettura:

le visioni caleidoscopiche si fondono con forme non identificate e


complessi visivi frammentari, e reciprocamente si cancellano, impedendo
così a chi guarda di seguire una delle innumerevoli suggestioni che offrono.
Non si vedono individui nettamente disegnati, impegnati in compiti precisi,
ma piuttosto folle sparse di figure appena abbozzate e completamente
indeterminate. Ciascuna di esse ha una storia, ma la storia non ci è
raccontata. Vediamo invece un fluire incessante di possibilità e di
significati pressoché intangibili. Questo fluire affascina il flâneur, quando
addirittura non lo crea. Il flâneur è inebriato dalla vita della strada: vita che
continuamente dissolve le figure che sta per creare 10.

Ora, mettendo da parte per il momento le questioni di metodo, sembra che


il cinema americano avesse già provveduto da solo a darsi una risposta secca e
precisa sul problema di come riprendere le proprie città. Infatti, almeno fino alla
fine della Seconda guerra mondiale, risulta che proprio la città reale fosse stata
per lo più la grande assente dagli schermi cinematografici statunitensi. Sono
diverse le possibili ragioni della sua evanescenza, e proveremo allora ad
avanzarne alcune, servendoci del contributo di autori che in studi precedenti a
questo hanno esaminato il fenomeno.
Walter Uricchio, ad esempio, formula un’osservazione sul fatto che, a
partire dal 1896 e fino ai primi anni venti, le rappresentazioni urbane, sia nel
cinema narrativo sia in quello legato ad un approccio cosiddetto sperimentale o
di avanguardia (ovviamente con le dovute eccezioni), “sono accomunate da uno
sforzo di riproduzione delle strutture ‘ordinarie’ della visione, con un trattamento
del tempo e dello spazio che è profondamente radicato nel sistema di norme che
regolano la rappresentazione nel XIX° secolo”11.
10
Siegfried Kracauer, Theory of Film, New York, Oxford University Press, 1960; [trad. it. Paolo
Gobetti, Teoria del film, Milano, Il Saggiatore, 1962 (1995², pp. 143-144)].
11
Uricchio prosegue: “Le convenzioni che caratterizzano il film a soggetto urbano fino ai primi
anni Venti, continuano generalmente la tradizione di incontri fotografici con la città, i cui principi
erano già evidenti quasi mezzo secolo prima dello sviluppo del cinema. La vasta produzione di
fotografie e stereografie di ambientazione cittadina, prodotte da aziende come quella di H.C.
White e dalla London Stereographic Company, rivela non solamente un grado notevole di
similarità compositiva, ma proprio la centralità di questo tipo di immagine nel processo di
costruzione e trasmissione dell’iconografia urbana”. Walter Uricchio, “Berlin” di Ruttmann e i
film sulla città, in Gian Piero Brunetta e Antonio Costa (a cura di), La città che sale cit., p. 85.

21
Se ne evince un tentativo consapevole di ripresa dal vero delle città, ma non di
meno va sottolineato come tali “visioni” erano ancora legate a una pratica
fotografica che aveva costruito una sorta di sistema di omogeneità compositiva.
Essa si prestava dunque ad essere usata come un modello da applicare a
qualunque realtà urbana senza sufficienti differenziazioni, così da farne una sorta
di entità astratta all’interno di un processo di reificazione percettiva. Tuttavia, per
quanto tale unanimità all’interno dei codici della rappresentazione risulti
certamente un fenomeno significativo, appare allo stesso tempo come un dato
sconcertante, se si tenga conto della sempre più diffusa crisi culturale che investe
la descrizione e definizione dello scenario urbano, nonché della crescente
attenzione del cinema narrativo per la manipolazione delle coordinate spazio-
temporali. Come non ricordare, tra le altre, le tesi di Georg Simmel 12 datate 1903,
che ponevano l’accento sulla città come esperienza mentale e alimentavano,
pertanto, l’ipotesi e l’auspicabilità di considerare la rappresentazione della città
stessa come un “processo”?.
Quest’ultimo compito, per ritornare alla tesi di Uricchio, verrà assolto per la
prima volta da Berlin die Symphonie einer Großstadt13 (Berlino, sinfonia di una
grande città, Walter Ruttman, 1927), che si porrà dunque in anticipo rispetto ad
altre produzioni, come quelle di Dziga Vertov, René Clair, o al progetto di film
urbano di László Moholy-Nagy. ”Berlin è basato principalmente sull’immagine
diretta della città e dei suoi processi, eventi ed abitanti, il tutto strutturato attorno
ai ritmi e alla coerenza temporale di quell’entità temporale oggettiva che è il
giorno”14.
Va tuttavia sottolineato che, oltre a Walter Ruttmann, fu pressoché tutta
l’avanguardia a far da scudo nei confronti della descrizione oggettiva della realtà

12
Cfr.Georg Simmel, “Die Großstädte und das Geistesleben”, Jahrbuch der Gehe-Stiftung, IX,
1903; poi in Id., Brücke und Tür, Stuttgart, K.F. Koehler Verlag, 1957; {trad. it. Metropoli e
personalità in Wright Mills ( a cura di) Immagini dell’uomo, Milano Comunità, 1963; Le
metropoli e la vita spirituale”, in Thomas Maldonado ( a cura di), Tecnica e cultura, Milano
Feltrinelli, 1974; [ La metropoli e la vita dello spirito, Paolo Jedlowski ( a cura di), Roma,
Armando Editore, 1995]}.
13
Per un’analisi articolata della messa in scena della pellicola e per le sue relazioni con la
modernità, cfr. Derek Hillard, "Walter Ruttmann's Janus-Faced View of Modernity: The
Ambivalence of Description in Berlin. Die Sinfonie der Grossstadt", Monatshefte fur
Deutschsprachige Literatur und Kultur, vol. 96, n. 1 (Spring), 2004, pp.78-92.
Un confronto tra la metropoli di Ruttmann e quella di Vertov è rintracciabile in Carsten
Strathausen, Uncanny Spaces: The City in Ruttmann and Vertov, in Mark Shiel e Tony
Fitzmaurice ( a cura di), Screening the City, London - New York, Verso, 2003.
14
Uricchio, “Berlin” di Ruttmann, in Brunetta, Costa (a cura di), La città che sale cit., p. 83.

22
urbana. Man Ray, ad esempio, sia in Retour à la raison (1923) sia, per certi
aspetti, in Emak-Bakia (1926), costruisce le uniche inquadrature di un esterno
associandole alle luci di una giostra che gira, riassumendo così la città, nel suo
complesso, in una pura traccia luminosa.
Paolo Bertetto individua giustamente una sovraesposizione dell’architettura
urbana nell’intensa rete di manipolazioni ottiche, tali da imprimere alla città le
stimmate di un altrove nascosto:

l’avanguardia radicale esalta la metropoli contemporanea, non la descrive,


ma la sussume in un’espressione cifrata, in un ritmo segreto, che è insieme
velocità e dialettica di forme astratte, montaggio di attrazioni della
modernità e giochi di luci. Quanto più è rigorosa l’operazione di ricerca
sulla struttura della modernità, tanto più l’immagine della modernità (della
città) viene ipersimbolizzata, inscritta nell’orizzonte della cifra […].
L’organizzazione dell’impalpabile, la composizione di materiali eterogenei,
apparentemente casuali, di scarti, di dettagli, di brandelli di narrazione,
intrecciati per creare un effetto di continuum della casualità e
dell’irrilevanza, rovesciano l’immagine abituale della modernità per cercare
nel tessuto della contemporaneità un altrove misterioso e forse opaco, quasi
un’alterità nelle pieghe della metropoli15.

L’essere risaliti, per quanto in maniera fugace, alle avanguardie e al cinema


sperimentale, ha, ci auguriamo, assolto la funzione di offrire utili motivi di
confronto con la rappresentazione urbana nel cinema di “fiction” americano, dal
momento che, come hanno notato Leonardo Gandini16 e Giulia Carluccio17, tra
questo cinema cosiddetto istituzionale e le suddette avanguardie si possono
registrare, per quanto riguarda proprio la messa in scena della città, numerose
“convergenze”. Convergenze che, ancora una volta, al di là delle apparenze, si
esprimono nella direzione di una lacunosa presenza della “città reale”; insistono
infatti sulle metonimie, su un astrattismo geometrico che omogeneizza ambienti e

15
Paolo Bertetto, Chaque soir a magic city, in Brunetta, Costa (a cura di), La città che sale cit.,
pp. 43-45.
16
Cfr.Leonardo Gandini, Convergenze urbane, in Brunetta , Costa ( a cura di), La città che sale
cit.
17
“È curioso notare che il discorso sulla spersonalizzazione dell’individuo nella dimensione
metropolitana […] appaia espresso attraverso una forzatura di opzioni stilistiche riconducibili al
cinema classico (l’uso marcato e simbolico della profondità di campo e quello allusivo dei
movimenti di macchina) tuttavia senza una vera rinuncia alla continuità narrativa; mentre lo
spettacolo della metropoli si esprime attraverso un rifiuto totale della coerenza classica, per una
emergenza di frammenti di sperimentazione e visività puri, dove le riprese dal vero, quasi
documentariste, si combinano a trucchi e suggestioni formali ricercate, in una sorta di sinfonia
ruttmaniana della grande città”. Giulia Carluccio, City films. New York nel cinema americano
degli anni Venti. Il caso di The Crowd, in Giaime Alonge, Federica Mazzocchi (a cura di),
Ombre metropolitane: città e spettacolo nel Novecento, Torino, Università di Torino, 2002, p. 51.

23
personaggi, oppure, ancora, su un montaggio che articola automatismi meccanici
nel passaggio da una certa inquadratura ad un altra. Si è così profilato, in
definitiva, tutto un campionario di strategie formali che costruisce e interpreta la
città e, anziché limitarsi ad osservarla, fa scivolare al suo interno quelle storie che
trovano in essa il proprio naturale regime esistenziale prima ancora che narrativo.

1.2 Città fuori campo.

Fin qui dunque è emerso che l’esigenza di realismo con cui abbiamo
esordito fu ben presto disattesa o considerata secondaria. Addirittura vissuta
come uno stimolo per indagare la profondità del profilmico, quel mistero che
trovava nelle aspettative dei primi spettatori proprio l’impressione di vedere
qualcosa di illecito e inammissibile. Il passaggio dallo sgomento del realismo
delle prime proiezioni alla fascinazione di un loro atteso antirealismo fu
decisamente rapido. È’ sufficiente seguire le annotazioni di Jurij Lotman per
comprenderlo. Egli sottolinea come “ad attirare l’attenzione [fosse] l’insolito
comportamento dello sfondo, che ancora veniva misurato con la norma della
scenografia teatrale”18 piuttosto che, come si potrebbe pensare, il movimento, in
quanto già le lanterne magiche avevano provveduto a renderlo, per così dire,
“familiare”. Poi, dopo aver analizzato il momento in cui il pubblico imparò a non
considerare più la sala come un prolungamento dello schermo (e siamo solo nel
1900), lo studioso conclude: “vedendo le onde sullo schermo, le signore ormai
non sollevavano più la gonna. Per incidere sul pubblico, il cinema doveva
appropriarsi del segreto del suo stesso linguaggio” 19 e attraverso questo
linguaggio agire direttamente sulla realtà.
18
Jurij M. Lotman, Dialog s ekranom, Tallin, Aleksandra, 1994; [trad. it. Silvia Burini,
Alessandro Niero (a cura di), Dialogo con lo schermo, Bergamo, Moretti & Vitali, 2001, p. 69].
19
Ivi, p.71.

24
Anche Robert Sklar conferma quanto l’attrazione per un antirealismo fosse
anticipatamente diffusa: “benché per un certo periodo proprio Edison fosse
riuscito a riempire i giornali di notizie elogiative che vantavano il realismo
assoluto del cinema, la novità dei film, del cinematoscopio, per il pubblico,
consisteva soprattutto nel loro antirealismo, nella curiosa illusione di vita di quei
minuscoli ometti. Dato che i protagonisti dei film erano per lo più attori dei
vaudeville, gli spettatori potevano andare a vederli dal vero, se lo preferivano” 20.
Se prendiamo poi, come punto di snodo verso una accentuazione realistica della
visione della città, l’avvento del sonoro, nonché i primi tentativi di uso del colore
(a cui però non faremo riferimento in questa sede), allora sarà opportuno anche
rilevare che proprio in questa fase della storia del cinema la città, come visione
esterna, era pressoché inesistente.
Andrew Bergman ad esempio esalta i cinema della città anziché le città del
cinema: ”L’America della Depressione sarà una nazione di Bijou, Germ,
Orpheum, Strand, Riviera e Mystic. Ci occuperemo di milioni di ore lavorative
passate in quei locali – i lussuosi palazzi rococò costruiti negli anni venti, e gli
squallidi capannoni che si trovavano nei villaggi e nelle cittadine agricole. Erano
luoghi importanti durante gli anni trenta” 21. In questi rifugi, places in the heart,
letteralmente luoghi del cuore, come li definisce Guido Fink 22, era possibile
abbandonare la città vera, e forse anche per questo, dunque, era più appetibile
indirizzare la messa in scena urbana verso l’utilizzo di stilizzazioni, di trasparenti
o riprese di repertorio, tecniche linguistiche che attestassero un distacco, una
pseudo lontananza tra personaggi, spettatori e ambiente.
È lecito a questo punto osservare che la novità effettiva della città
cinematografica degli anni trenta è la “corsa verso il falso”:

in un’epoca tanto preoccupata di abbassare il tasso di finzione nel mondo


dello spettacolo, nel ricondurlo a dimensioni “familiari” e “verosimili”
(pensiamo ai fireside chats roosveltiani e in genere all’uso domestico della
radio, ai toni intimi e dimessi di un certo teatro, alla stabilizzazione dei
generi cinematografici e della politica degli studios entro linee facilmente

20
Robert Sklar, Movie-made America. A Cultural History of American Movies, New York,
Random House,1 975; [trad. it. Cinemamerica. Una storia sociale del cinema americano,
Milano, Feltrinelli, 1982, p. 32].
21
Andrew Bergman, We’re in the Money: Depression America and its Films, New York, Harper
Colophon, 1972, p. XI.
22
Guido Fink, Per un viaggio nella città del cinema, in Franco Minganti (a cura di), 1930s. La
frontiera urbana nell’America del New Deal, Venezia, Marsilio, 1985, p. 23.

25
riconoscibili), finisce in realtà per contagiare con il falso quel mondo vero
che al primo è stato improvvisamente accostato23.

Negli anni trenta dominano città costruite per astrazione, senza “punti di
riferimento urbani identificabili, ma concetti”24, laddove l’ambiente è una sorta di
“cronotopo negato”25 che provvede a rilasciare dei segni grafici archetipici, veri e
propri segnali universali, come è il caso delle tante croci proiettate sulle strade,
nei locali notturni, e all’interno delle abitazioni in un film come Scarface
(Howard Hawks, 1932). E anche laddove gli esterni possono risultare realistici,
non servono a marcare tanto una connotazione spaziale, quanto un passaggio
temporale tra una scena ed un’altra. Per altro verso, come possono confermare
alcune pellicole di Frank Capra, tutti gli ambienti sono sovraccaricati di valori
etici, così che l’intera città ne subisce una saturazione e diventa non solo un
progetto utopico, ma una utopia negativa, cioè una città meravigliosa nel senso di
emersa dalla meraviglia, dal sogno depurato dallo shock della vita vera.
Inoltre, sempre durante gli anni che seguono la Depressione, l’esterno veniva
suggerito dalla messa in scena degli interni. Questo non solo per gli evidenti
problemi legati al trapasso del cinema verso la nuova tecnologia del sonoro, che
rendeva estremamente precario l’uso e il movimento della macchina da presa
fuori dagli studios e la conseguente sincronizzazione con il suono. Bisogna
considerare, infatti, che la ridotta presenza di ambientazioni esterne fu dovuta al
fatto che il sonoro stesso, probabilmente, fu capace di costruire una sorta di
quarta dimensione dell’immagine. Portando in dote una certa “pianezza”
dell’immagine, sembrava surrogare (o sostituire decisamente) riprese in
profondità di campo che potevano rilasciare maggiori punte di visibilità: la
funzione del suono, della voce, come giustamente dice Gilles Deleuze26, fu quella
di scavare lo spazio.

23
Id., “Andare al cinema negli anni Trenta”, Cinema & Cinema, n. 42 (gennaio-aprile) 1985, p.
18.
24
Vito Zagarrio, “La città trasparente, la città immaginaria”, Cinema & Cinema, n. 42 (gennaio-
aprile), 1985, p. 40.
25
“La città anni trenta assume la veste di un enorme appartamento, una congerie di nascondigli
ed “è la velocità del vivere moderno a rendere questi anfratti comunicanti direttamente fra loro, a
privarli di un percorso di collegamento ovvero di un tempo di interconnessione. Si esce da una
stanza e si entra direttamente in un'altra. Il resto non esiste. Lo spazio urbano è escluso dalla
logica stessa del nascondiglio”.
Giorgio Cremonini, “Il cronotopo negato”, Cinema & Cinema, n. 42 (gennaio-aprile) 1985, p. 48.
26
Gilles Deleuze, Image-temps: cinéma 2, Paris, Editions de Minuit, 1985;[trad.it.
Liliana.Rampello, L’immagine-tempo. cinéma 2, Ubulibri, Milano, 1989, (1997³, p. 257)].

26
Un ulteriore elemento determina la rimozione dell’esterno negli anni
trenta, e sembra far capo ad una sorta di esigenza di autocensura. In questi anni il
cinema, per lo più, aveva la necessità di dettare i sogni di massa e, per far questo,
occorreva parcellizzare il contesto esterno, quindi, se non proprio eliminarlo,
almeno falsificarlo o stilizzarlo, renderlo allusivo. Non a caso, per attirare il
pubblico allontanato dalla Depressione, i cineasti si erano concentrati non tanto
su tematiche accattivanti, ma più direttamente sulla ambientazione dei film. Uno
degli imperativi era che dovevano essere “ambientazioni che fornissero il
maggior numero di occasioni di portare al culmine l’eccitazione sullo schermo,
di scioccare, spaventare e anche stimolare sessualmente” 27. E quali potevano
essere le ambientazioni più accreditate per alimentare questi stimoli, se non le
strade di una città? Infatti, “se si cercava uno spettacolo scioccante, allora
c’erano poche cose più sconvolgenti del disordine e delle minacce di morte lungo
le familiari vie della città”28.
In altre parole, negli anni trenta la città sullo schermo si propone, ed è un
punto su cui concorda anche Colin Schindler 29 che ha inquadrato la sua analisi
durante gli anni della crisi del ’29 e del New Deal, come un autentico fuori
campo, o meglio come una contro-città. Le sole città visibili (e vivibili dallo
spettatore) erano, come anticipato da Andrew Bergman e ripreso da Guido Fink,
quelle delle sale cinematografiche. Esse indossavano le casacche delle singole
case di produzione:

le città del cinema non si chiameranno New York o San Francisco o Parigi,
ma si distingueranno per il look dei vari studios: c’è la città Warner, dove
sfrecciano le macchine dei gangsters, dove si nascondono nell’ombra i
politicanti corrotti e i ragazzi di strada come i Dead End Kids imparano la
dura legge della sopravvivenza; ci sono le tranquillizzanti case borghesi di
campagna marca Metro-Goldwin-Mayer, meglio se britanniche, meglio
ancora se ottocentesche […]; c’è l’esotismo patinato ed elegante della
Paramount; ci sono i castelli gotici, non proprio in buone condizioni,
infestati dai vampiri e dai Frankenstein della Universal: la città degli anni
Trenta, nel cinema è spesso un fuori campo30.
27
Sklar, Movie-made America, [trad.it. Cinemamerica, cit., p. 203].
28
Ibidem.
29
Colin Shindler, Hollywood in Crisis. Cinema and American Society 1929-1939, London - New
York, Routledge,1996.
30
Fink, Per un viaggio nella città del cinema cit., p. 25. Fink rintraccia tre motivazioni a cui
imputare questo ritardo nella messa in scena esterna della città americana:
1) una ideologia della borgata, che tende a ricostruire una neighborhood interna alla città, il
piccolo quartiere isolato custode di valori, positivi e negativi, che rimandano al villaggio
e alla piccola città di provincia;

27
Un fuori campo che tuttavia, come suggerisce ancora Fink 31, costituirà una
segnaletica prioritaria di orientamento per rintracciare la propria casa durante e
dopo il periodo della Depressione del ’29. Negli anni trenta sarà dunque il
privilegio riservato agli ambienti interni, come riporta Leonardo Gandini 32, a
costituire una importante ed ulteriore cifra interpretativa, così da tentare di
ricostruire quel costante richiamo, dovuto anche all’impatto del sonoro, nei
confronti degli esterni reali occultati per necessità o per scelta.
In definitiva, la città dei Thirties risulta trasparente nei suoi esterni o non
qualificabile nella sua connotazione perché è un “impero da conquistare” che,
facendo parte del regime del desiderio più virulento, non consente di essere
avvicinato. Ed è un desiderio così sfrenato da produrre personaggi fiaccati nel
corpo, allucinati, che scambiano la vetta di un gasometro con quella di un
grattacielo che ne avrebbe sancito la realizzazione non solo come criminale, ma
anche come individuo. È il caso dello spietato e malato (per l’appunto, di
desiderio di potere) protagonista di White Heat (La furia umana, Raoul Walsh,
1949) interpretato da James Cagney: braccato dalla polizia e finito in trappola, il
personaggio si rifugia su un gasometro e da lì, ormai solo dopo che tutta la sua

2) una ideologia del trasparente, che rimanda ad una istanza protettiva, rappresentata dalla
casa di produzione, che provvede a filtrare, a staccare dallo sfondo, a creare un alone che
non aggredisce, e che si rivela del tutto intercambiabile;
3) una ideologia della frontiera, che in uno spazio urbano posto fra parentesi recupera “il
codice della prateria e della vita libera, senza leggi o costrizioni”.
31
“Eppure la città esiste […] il viaggio proposto dagli Orpheum e dai Bijou, uniche oasi di calore
e di solidarietà immaginaria nel deserto della Depressione, non voleva affatto essere evasivo:
doveva, caso mai, aiutare chi si fosse disperso a tornare a casa, e a riconoscerla come tale”. Ivi,
pp. 25-27. Il riferimento dell’autore va ovviamente a due film fondamentali, realizzati entrambi
da Victor Fleming, che si basano sulla necessità di un ritorno a casa e cioè Gone with the Wind,
(Via col vento ,Victor Fleming, 1939) e The Wizard of Oz (Il Mago di Oz, Victor Fleming, 1939).
32
Successivamente al ’29, “la prevalenza delle ambientazioni in interno fa sì che l’oggetto città
venga espresso in modo molto più eterogeneo, attraverso una serie di componenti che
improvvisamente – nella strategia complessiva del film – acquisiscono maggiore importanza: il
décor degli interni, l’origine urbana o provinciale dei personaggi, il tipo di casa in cui la vicenda
è ambientata, i dialoghi sull’opportunità di assimilare il ritmo urbano o di rifiutarlo con la fuga, la
stessa presenza degli esterni che, facendosi più sporadica, richiede un diverso criterio di
interpretazione. A queste va poi aggiunto […] il sonoro, che si rivela un elemento espressivo
fondamentale per la definizione di uno spazio urbano […] La narrazione si svolge in un numero
di luoghi estremamente limitato […] e proprio per questa ragione gli ambienti prescelti vedono
aumentare la loro carica emblematica, determinata in primo luogo dal modo in cui vengono
descritti e dalle relazioni che li legano ai personaggi. Quanto meno lo spazio urbano viene
rappresentato in modo diretto, tanto più forti si fanno le allusioni, i riferimenti impliciti, le
componenti figurative di contorno: tutti elementi che concorrono a parlare della città
mostrandone solo una parte, un frammento che – se osservato con attenzione – può tuttavia
lasciarci intravedere il quadro complessivo”. Leonardo Gandini, L’immagine della città
americana (1927-1932), Bologna, Clueb, 1994, pp. 17-18.

28
banda è stata annientata, crede di poter ancora sfuggire ad una sorte segnata.
Così, dalle vette di quell’esplosivo e mortale piedistallo in metallo, prima di
saltare in aria, pronuncia il suo grido di vanagloriosa vittoria dedicato alla madre,
che ne ha per tutta la vicenda affiancato e legittimato le gesta: “Ci sono Mà, sul
tetto del mondo!”.
Inoltre c’è anche, crediamo, una ragione forse più propriamente politica a
giustificare questa protratta assenza degli scenari urbani durante il periodo che
segue la Depressione. Possiamo ritenere fondato che le case di produzione
cinematografica, deferenti nei confronti di Roosevelt (che aveva fatto emanare
una legislazione favorevole all’industria cinematografica), abbiano aderito al
messaggio del presidente americano, il quale in quel periodo aveva privilegiato,
almeno nei suoi messaggi diretti al cuore (ma non agli aspetti concreti della vita)
degli americani, la campagna ed il villaggio rispetto alla città. Dunque, ancora
una volta la maggior parte delle pellicole girate non dedica troppe attenzioni alle
ambientazioni esterne urbane, o, almeno, non le rende così riconoscibili, se non
per quanto riguarda gli interni.

1.3 “Paesaggio dell’anima”.

Negli anni quaranta, la rappresentazione della città prosegue nella scia del
decennio precedente. È vero che ora il sistema cinematografico si preoccupa in
maniera più consapevole e sistematica di coinvolgere il pubblico delle grandi
città; tuttavia gli esterni, pur facendo riferimento ad una impronta realistica, si
affermano come un territorio spirituale, un “paesaggio dell’anima” 33. Diventano
teatro di proiezioni dell’inconscio che dal noir, quel nucleo espressivo rilevante
che, come è noto, proprio a partire dagli anni quaranta incarna frequentemente la
città americana, spesso scivolano anche in altri generi cinematografici del
periodo.
Lo spazio urbano del noir allora si afferma come “scena primaria”, espressione,
per parafrasare le riflessioni di Marc Vernet34, della feroce dialettica
33
Franco La Polla, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood,Bari, Laterza, 1987, p. 83.
34
Marc Vernet, Topologie del film noir, in Margherita Fabbri, Elisa Resegotti (a cura di), I colori
del nero. Cinema, letteratura, noir, Milano, Ubulibri, 1989, in particolare a p. 242.

29
desiderio/legge, fra scopofilia e accecamento di Edipo. Si tratterebbe di uno
spazio riferito da un lato (la scopofilia) ad un limite da varcare per carpirne il
segreto, con tutti i rischi che questa infrazione può comportare; dall’altro
(attraverso il binomio desiderio/legge) si osservano ambientazioni in cui i
protagonisti devono provare a riconquistare un territorio che o è stato loro
bandito fin dall’infanzia, o si è promosso come un esilio volontario.
Ecco allora che le strade della città sono soppiantate dal territorio
dell’inconscio e, quando sono mostrate, sono vuote. L’aderenza temporale è
allentata, la città si divide in due, quella di giorno e quella di notte, dove anche la
notte, che spesso prevale sul giorno, manca di una sua autonomia naturale. In
questo ambito, “non è solo la notte a rendere buie le strade” e la città noir si fa
dunque apprezzare come quel “reame in cui tutto quello che è solido si dissolve
nelle ombre”35.
Tuttavia, in breve, negli anni quaranta, almeno altri due fattori
concorrono a costruire una immagine della città fantasmatica. Il primo riguarda
quel distacco tra visione e narrazione di cui scriveva Guido Fink 36 e che
contribuiva a rendere, da un lato, una visione enigmatica, e dall’altro una
narrazione spesso del tutto svincolata dal flusso delle immagini. Il secondo si
riferisce a due canoni del noir che andrebbero considerati complementari: si
tratta di una certa “assenza di logica topografica” 37 e di una accentuata
distorsione temporale. Quest’ultima, in particolare, veniva realizzata grazie a
opportune strategie stilistiche e figurative che provvedevano a non dare punti di
riferimento; in più, la scansione temporale del racconto, sulla base di un uso
iterato, per quanto sofisticato, del flashback, avvolgeva la narrazione, nonché
l’intera vicenda, su se stessa.

35
Frank Krutnick, Something More than Night, Tales of the Noir City, in David Clarke (a cura
di), The Cinematic City, London and New York, Routledge, 1997, p. 54, trad. mia.
36
Guido Fink, From Showing to Telling: Off-screen Narration in the American Cinema, in
«Letterature d’America», III, n. 12, 1982, p. 10. Inoltre, su queste riflessioni di Fink, La Polla
commenta opportunamente: “Il contrasto video-aurale di cui parla Fink è eloquente: un mondo
sconvolto, immagini difficilmente decifrabili, cupe, oscure, intricate, ombre sinistre, azioni
enigmatiche sono in perfetta opposizione alla calma, alla triste, seria tranquillità con cui la voce
fuori campo di turno esprime ormai l’ineluttabilità di ciò che è accaduto (qualunque cosa sia
accaduta) e la compresa volontà di ripercorrere quell’iter penoso, doloroso, testimonianza
inoppugnabile nel miglior caso della nostra dabbenaggine, nel peggiore della nostra
inadeguatezza a un ruolo demoniaco che non ci compete”.
La Polla, Sogno e realtà cit., p. 87.
37
Ivi, p. 84.

30
Dopo la Seconda guerra mondiale il pubblico manifestò dichiaratamente
una maggiore esigenza di realismo nei film: la platea americana cioè “voleva che
il suo paese venisse osservato in modo più onesto e severo, e non si sarebbe
accontentato delle strade ricostruite in studio che gli erano state proposte negli
ultimi dodici anni. Fu questa tendenza che riuscì a far evadere il film noir
dall’ambito del melodramma sofisticato, ponendolo dov’era giusto che
rimanesse, nelle strade, tra la gente comune”38. In sostanza, però, nonostante gli
sforzi dei cineasti e delle case di produzione, e le richieste del pubblico, la città
reale stentava ad emergere. Del resto, come riporta Robert Sklar, durante il
periodo postbellico

persino le scene in esterni venivano girate, per routine, in interni: con la


fine delle restrizioni del periodo bellico i set furono di nuovo illuminati
adeguatamente, ma quel senso di claustrofobia, tipico del senso tempo di
guerra, persisteva anche nel mezzo dello splendore più brillante. La
capacità di Hollywood di far sembrare sempre più realistiche le sue
immagini ebbe l’effetto paradossale di dare ai film americani un inconscio
aspetto surreale: uno dei motivi dell’impatto straordinario dei film
neorealisti italiani, in questo periodo, consisteva nella semplicità e
nell’immediatezza delle loro sequenze in esterni in confronto
all’artificiosità, molto elaborata ma sempre meno convincente, di
Hollywood39.

In fondo, potremmo aggiungere, il neorealismo italiano tanto apprezzato negli


Stati Uniti rappresentò forse quello che gli americani avrebbero voluto fare con
l’ambiente e che non riuscirono a fare.
Gli ambienti esterni delle metropoli americane, in effetti, pur servendosi
di quegli interventi luministici che erano riusciti a conciliare l’artificialità delle
tecniche espressioniste con le ambientazioni en plein air, mantengono una
costruzione stilizzata. Diventando più importanti degli attori, tutti i luoghi, anche
quelli che talvolta potevano apparire più familiari, determinano quel clima di
fatalità che, letteralmente, sottraeva aria ai protagonisti. Cercando di rispondere
al pubblico che ricercava luoghi reali, la messa in scena dei film era portata a
realizzare una città “sovraesposta”, non in termini di tecnica di illuminazione o di
38
Paul Schraeder, Note sul film noir, in Fabbri, Resegotti (a cura di), I colori del nero cit., p. 172.
A questo proposito si vedano gli esempi di Call North 777 (Chiamate Nord 777, Henry
Hathaway, 1948), Brute Force (Forza bruta, Jules Dassin, 1947) e Kiss of Death (Il bacio della
morte, Henry Hathaway, 1947).
39
Sklar, Movie-made America, [trad. it. Cinemamerica, cit., p. 318].

31
scelta e manipolazione della pellicola, ma offrendo un ambiente talmente
macroscopico da rimpicciolire i protagonisti e dando loro la caccia: fu così che
una vibrante e febbrile “tensione compositiva”40 si sostituì all’azione.
In definitiva, come nota Marc Vernet41, anche il noir, che pone al centro del suo
universo di indagine l’ambiente urbano e i rimossi dei personaggi, al suo interno
appare molto meno urbano di quello che appare. L’estesa pratica finzionale di
messa in scena della città, che ricorreva a riprese reali molto di rado, ha plasmato
a tal punto la prassi cinematografica che il noir, espressione prepotente e deviata
dell’urbanità, ha fatto ricorso agli esterni con avarizia, preferendo sempre di più
introiettare l’ambiente nei personaggi. Questo suggerisce ancora a Vernet che il
ricorso insistito del noir ad ambientazioni interne, o a luoghi marginali
(waterfronts, canali di scolo delle acque, depositi ferroviari) che non rendono
giustizia all’immagine del teatro di una grande città protagonista della vicenda,
sia imputabile anche ad un certo “orrore urbano”, dal momento che, come
sottolinea Jack Shadoian, “illuminare la realtà significherebbe mostrare che essa
è orribile”42.
Tuttavia, nonostante tutte le smentite dei fatti, cioè di una città reale del
tutto interiorizzata dai personaggi che la subiscono – formula estremamente
diffusa nelle pellicole degli anni quaranta, come si registra dagli interventi di
Barbara Deming43 –, molti studiosi erano convinti che il cinema americano,
anche grazie alle produzioni documentarie realizzate da Frank Capra (Why We
Fight, 1943) e da John Huston (The Battle of San Pietro, 1945), avrebbero
trovato un buon impulso a lavorare per un recupero del realismo. Addirittura, la
rivista «Look»44 colse, nelle tecniche documentaristiche messe a punto durante il
conflitto, una nuova possibilità e capacità del cinema di esportare messaggi di
democrazia sia all’estero sia nel mercato interno e rilevò, in queste tecniche, la
forza di consolidare la fede nei dettami democratici. Quindi, per lo più, la
richiesta di ambientazioni realistiche fu propugnata a fini propagandistici e
40
Ivi, p. 173.
41
Cfr.Vernet, Topologie del film noir, in Fabbri, Resegotti (a cura di), I colori del nero cit.
42
Jack Shadoian, Dreams and Dead Ends. The American Gangster/Crime Film, Boston, MIT
Press, 1977; [trad. it. Pasquale Portoghese, Sogni e vicoli ciechi. Il cinema gangsteristico in
America, Bari, Dedalo, 1980, p. 97].
43
Cfr.Barbara Deming, Running Away from Myself: A Dream Portrait of America Drawn from
the Films of the ’40, New York, Grossman Publishers, 1969, p. 201.
44
Si tratta di un numero curato dai direttori della rivista Look uscito nel 1945 dal titolo Movie
Lot to Beachhead. Citato in Robert Sklar, Movie-made America, [trad.it. Cinemamerica, cit., p.
293].

32
politici, scelta che poi in effetti si verificò, ma potremmo dire in senso opposto
rispetto a queste speranze, considerata la diffusione negli anni sessanta e settanta
di un certo cinema, sperimentale e non, definito anche come “militante”.

1.4 Una “edilizia mentale”.

“Eppure la città esiste” – aveva già osservato Guido Fink – e reputiamo


sia opportuno ripartire da tale constatazione, quella della sua esistenza,
nonostante abbiamo incontrato per ora, come ho cercato di dimostrare, una
rappresentazione che quasi la elide dal paesaggio oggettivo.
Ci si dovrà allora domandare quali siano i termini di questa esistenza, se
stabiliscano continuità o discrasie con le manifestazioni dei periodi storici di cui
fin qui abbiamo discusso. Ricercare quali siano le fondamenta di questa
immagine – se sia possibile rintracciarle almeno in parte, e quali siano gli
ulteriori pilastri che l’hanno proiettata nel futuro –, fondamenta che
costituiranno, a partire dagli anni sessanta, più approfonditamente, la questione
consistente del nostro oggetto di indagine.
Essersi posti il problema di una rappresentazione oggettiva della città
americana non può prescindere da alcune considerazioni che riguardano quella
che è l’immagine spaziale della cultura delle città, e delle città degli Stati Uniti in
modo particolare. Possiamo partire sostenendo che l’esistenza di uno spazio
concreto della città americana sembra poggiare su un “apriori topografico-
visivo”45, un modello contenitore pronto all’uso, un déjà-vu. Secondo Paul
Watzlawick, le ragioni di questo déjà-vu sono evidenti:

45
Gianni Canova, Lo sguardo sulla città, in Marisa Galbiati (a cura di), Proiezioni urbane. La
realtà dell’immaginario, Milano, Tranchida Editori, p. 78.
Riguardo a questo carattere primordiale della città, Francois Choay appunta: “nel momento
stesso, poi, in cui la città del XIX secolo comincia ad assumere una propria fisionomia, si crea un
nuovo procedimento di osservazione e di riflessione. Essa appare ad un tratto come un fenomeno
estraneo agli individui che la abitano e che nei suoi confronti si trovano come di fronte ad un
fatto innaturale, non familiare, straordinario,estraneo”. François Choay, L’urbanisme. Utopies et
réalités, Paris, Seuil, 1965; [trad. it. Paola Ponis, La città. Utopie e realtà, Torino, Einaudi, 1973,
p. 8]. L’esplosione e il consolidamento della tecnica, che sono visibili e si radicalizzano nel
territorio urbano, “sono il presupposto per un rinnovamento delle estetiche, e il cinema nasce dal
cinema, la continua riflessione di immagini crea un nuovo concetto di immagine, introducendo un
nuovo concetto di spazio, in un tempo diverso, dentro e fuori dall’ottica tradizionale”. Edoardo
Bruno, Film come esperienza, Roma, Bulzoni, 1986, p. 92.

33
le città americane sono effettivamente di un’inattesa uniformità. Nella loro
lenta avanzata verso Occidente, i colonizzatori del Nuovo Mondo
progettarono le città secondo lo schema più consono a certi uomini
d’azione, lo stesso applicato in passato dai Romani nell’edificare i loro
castra o dai conquistadores spagnoli per gli insediamenti in America
Latina: esse erano simili a grandi scacchiere dalle linee chiare, e solo
controvoglia e nei casi estremi – un corso d’acqua, una rupe – venivano
adattate alle condizioni naturali dell’ambiente. Ma anche nei casi in cui la
natura ebbe il sopravvento, la fisionomia della città resta monotonamente la
stessa46.

Maria Corti47 rileva che è proprio l’assenza della città reale a creare questo
déjà-vu, questo modello ripetitivo di rappresentazione: la vita oggettiva si blocca
in una “fissità codificata” che attiva una “edilizia della mente”. Secondo questa
premessa, sembra che l’impossibilità di riprendere la città dal vero, e quindi il
fatto di poter testimoniare soltanto la sua assenza, sia quella “condicio cine qua
non”48 per renderla estremamente visibile, sempre presente perché ipercodificata,
capace di essere sempre attiva davanti agli occhi proprio perché risolta, lo
ribadiamo, in sua “absentia”. Questa ipercodifica costruisce evidentemente, in
tempi rapidissimi, una pronunciata simbolizzazione, che sarà un trampolino di
lancio per le immagini future delle città: “il potere di simbolizzazione della città
può produrre un orientamento dei codici culturali in direzione del futuro, di
qualcosa che non c’è ma ci sarà. E’questa la principale funzione che il simbolo
della città, ovvero la città come luogo mentale, ha in epoca moderna”49.
La città americana, in particolare, come aveva già proclamato Elio Vittorini,
assume la veste di un luogo utopico, e, in quanto utopica, non può che essere
priva di storia ma densa di spazio e di mito. Essa appare, allora, come un luogo
mentale investito da una duplice accezione: da un lato è fuori della storia,
dall’altro si identifica con un ideale del vivere in società, con quello che, in base
alle convinzioni e alle speranze di Louis Wirth, si poteva definire come un
urbanism as an american way of life50.
46
Paul Watzlawick, Gebrauchsanweisung für America, München: R. Piper & Co. Verlag, 1978;
[trad. it. Enrico Ganni, America istruzioni per l’uso, Feltrinelli, Milano, 1985, p. 36]. L’autore
riferisce che anche San Francisco, spesso citata dagli americani per confutare le affermazioni in
merito all’omogeneità delle città a stelle e strisce, aderisce perfettamente all’esempio citato.
47
Maria Corti, “La città come luogo mentale”, Strumenti Critici, n. 71 (gennaio), 1993.
48
Cfr.Gian Piero Brunetta, Buio in sala. Cent’anni di passione dello spettatore cinematografico,
Venezia, Marsilio, 1989.
49
Ivi, p. 10.
50
Contrariamente alle riflessioni dei suoi contemporanei, che vedevano nella città americana un
crogiolo caotico di elementi eterogenei e di tensioni inarrestabili, Louis Wirth legge il nuovo

34
Questa visibilità “a priori” è resa possibile anche grazie alla costruzione di
una città americana come entità mitologica. Spiega Lotman che

le costruzioni architettoniche, i riti e le cerimonie cittadine, il piano stesso


della città, i nomi delle strade e migliaia di altri relitti di epoche passate
agiscono come programmi codificati, che rigenerano di continuo i testi del
passato storico. La città è un meccanismo che riporta di nuovo in vita di
continuo il passato, il quale ha la possibilità di cambiarsi col presente come
se passato e presente fossero su un piano sincronico. In questo senso la
città, come la cultura, è un meccanismo che si contrappone al tempo. […]
L’assenza di storia ha portato ad una crescita impetuosa della mitologia. Il
mito colmava il vuoto semiotico e la situazione della città artificiale si è
dimostrata adattissima a produrre miti51.

Nella città americana moderna, le concrete proprietà percettive si allentano e gli


stimoli esterni diventano
“suggestivi” anziché “significativi”: devono possedere la minor
determinatezza possibile, al fine di essere “aperti”, o meglio ancora
promuovere una pluralità di associazioni tale che ognuno possa “trovarci
dentro qualcosa”. […] Questi stimoli alludono a quel che di meglio il
mondo moderno può offrire: oggetti da possedere, ruoli sociali da

testo urbano che nasce dalle ceneri della Depressione del ’29 come un territorio aperto
all’integrazionismo. Wirth afferma quanto l’urbanesimo sia inevitabile, per una nazione che si
avvia a ricoprire un destino di potenza mondiale, e, in secondo luogo, quanto il fenomeno urbano
sia il solo in grado di costruire quella “fabbrica americana” capace di fecodare relazioni tra
uomini di nazionalità diverse. Un fenomeno di così vasta portata, da essere in grado di costruire
un quadro unitario dotato di una fisionomia propria, quello di un “mosaico di mondi” che incarni
l’esempio di una vita associativa. Wirth non chiarisce quali possano essere le strategie sociali
affinché il mosaico di mondi da lui auspicato mantenga il suo collante; si limita a sottolineare
quanto la distanza nelle interazioni sociali sia indispensabile per la realizzazione della sua idea.
La distanza diventa pertanto il presupposto della vita comune. Quello che è rintracciabile in
embrione nelle teorie di Simmel e Park - [cfr. oltre al già citato Simmel anche Robert E. Park,
Ernest W. Burgess, Roderick D. McKenzie, The City: suggestions for investigation of human
behavior in the urban environment, Chicago – London, University of Chicago press, 1925;
[trad.it. Armando De Palma, La città, Milano, Edizioni di Comunità, 1967)] - in Wirth viene
ampliato, raggiungendo una portata che non riguarda solo il singolo cittadino, ma intere
comunità, nonché la loro esistenza in ambito urbano. Al concetto di distanza Wirth associa la
necessità di un’immagine unitaria della città, che può essere realizata solo in contrapposizione
all’universo rurale, un’opposizione su cui il cinema aveva investito fin dal principio, anticipando
suggestive discussioni e analisi sociologiche e architettoniche. Cfr. Louis Wirth, “Urbanism As a
Way of Life”, American Journal of Sociology, vol. XLIV, n.1 (July),1938; [trad. it. L’urbanismo
come modo di vita, in Giuseppe Elia (a cura di), Sociologia urbana, Milano, Hoepli, 1971, pp.
407-425].
51
Jurij M. Lotman, “Simbolika Peterburga i problemy semiotiki goroda”, Trudy po znakovym
sistemam, n.18, 1984; [trad. it. Il simbolismo di Pietroburgo e i problemi della semiotica della
città, in Simonetta Salvestroni ( a cura di), Semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture
pensanti, Venezia, Marsilio, 1985, p. 232].

35
impersonare, situazioni affascinanti di cui fare esperienza […] per farci
sentire a casa nostra52.

Questa fucina di miti trova la sua ragion d’essere proprio nell’universo urbano,
all’interno di quel fenomeno che Alberto Abruzzese ha definito, articolandolo
lucidamente nella sua complessità, “metropolizzazione”53. Essa ha intercettato
coagulato e rilanciato la nascita, lo sviluppo e l’affermazione degli strumenti e
delle metodologie propri delle comunicazioni di massa, le quali, come è noto,
hanno recitato un ruolo trainante per la creazione di mito. Come scrive Marx a
Kugelman nel 1871, “Sino ad ora si è pensato che la creazione del mito cristiano
sotto l’impero romano fosse stata possibile solo perché la rotativa non era stata
ancora inventata. Ma è proprio il contrario: la stampa quotidiana e il telegrafo,
che diffonde le invenzioni della stampa in pochi secondi nel mondo intero,
fabbricano più miti in un solo giorno di quanti se ne producessero prima in un
secolo”54. Il mito infatti naturalizza la storia e costruisce un significato
direttamente dal suo significante: “il mito non nasconde nulla e non dichiara
niente: il mito deforma […] ridotto a svelare o a liquidare il concetto, esso si
risolve a naturalizzarlo […] tutto avviene come se l’immagine provocasse
naturalmente il concetto, come se il significante fondasse il significato” 55,
rendendo, come nel racconto che Marco Polo fa al Kublai Kan ne Le città
invisibili56, quasi del tutto incidentale l’esistenza concreta delle città.

52
Franco Moretti, Segni e stili del moderno, Torino, Einaudi, 1987, pp 237-238.
53
“Metropolizzazione è innanzitutto l’azione della metropoli ottocentesca sulla realtà sociale e
sulle forme dell’immaginario, dunque anche della comunicazione. Ma con metropolizzazione
diciamo anche il ruolo che la comunicazione – trasporti, messa in scena, stampa, illustrazione,
fotografia, spettacoli e divertimento – ha assolto nella trasformazione della città in metropoli,
nella sua costruzione ed evoluzione. […] Il termine metropolizzazione individua il
funzionamento (l’insieme dei fenomeni, la fenomenologia) di una città che – pervenuta al
massimo delle possibilità espressive di un contesto urbano: possibilità relazionali, comunicative,
generative –, produce all’interno e all’esterno del proprio territorio fisico un sistema di vita
destinato a distaccarsi nettamente e irreversibilmente dai modelli della città storica. Con
metropolizzazione ci si riferisce dunque al processo di costituzione e insieme espansione delle
qualità della metropoli […], qualità che sono a loro volta il risultato dell’azione strutturale
praticata sul territorio urbano dai processi più avanzati e centralizzati di industrializzazione e
socializzazione”. Alberto Abruzzese, Metropolizzazione, in Id., Valeria Giordano (a cura di),
Lessico della comunicazione, Meltemi, Milano, 2003, pp. 330-331.
54
Citato in Remo Bodei, Piccola e grande città, in Giacomo Martini (a cura di), Città e
metropoli: le culture, i conflitti, Modena, Edizioni Magazine, 1984, p. 51.
55
Roland Barthes, Mythologies, Paris, Seuil, 1957; [trad. it. Lerici editore, 1962, (trad. Lidia
Lonzi, Miti d’oggi, Torino, Einaudi, 1974², pp.210-211)].
56
Italo Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972.

36
A tale proposito, ancora Abruzzese 57 fa notare quanto non sia l’aderenza
all’immagine della città reale a permettere allo spettatore di credere che si tratti
davvero di quella città. Al contrario, a volte, si verifica esattamente l’opposto:
“quanto più lo spettatore si rispecchia nella diversità del film, quanto più questo
trasgredisce i codici del contesto sociale, tanto più la fruizione di cinema si fa
reale, concreta, vissuta. Il vortice che rivela immagini di un mondo altro dal mio,
è il vortice stesso in cui soddisfatto mi perdo per ritrovarmi, per ricompormi” 58.
Questa esperienza altra nasce dunque dallo scarto tra realtà e possibilità e ne
costituisce il richiamo seduttivo, “dove il doppio di sé che ciascuno costruisce
diventa, sia pure temporaneamente, reale”59. In questo spazio altro, tutto sembra
assumere movenze ludiche, erotiche; in questo luogo riservato all’alterità anche
noi siamo altro e cerchiamo di distanziarci da tutto ciò che non è alterità, come la
famiglia, la residenza, l’identità60.

1.5 Autoritratto.

Eppure la città reale, cacciata dalla porta, rientra ancora dalla finestra.
L’immagine urbana si affida alle qualità plastiche della città reale per emergere –
qualità di acciaio, cemento e vetro che sono quei protagonisti indispensabili che
la modellano incessantemente e ne turbano per sempre qualunque consistenza
concreta. È un’occorrenza che risulta chiara seguendo le riflessioni di Jonathan
Raban: “Decidete chi siete, e la città assumerà nuovamente una forma fissa
intorno a voi. Decidete che cos’è e la vostra stessa identità sarà rivelata come una
mappa definita da una triangolazione”61. Ciascuno adegua le città alla propria
immagine ed esse “a loro volta ci foggiano con la resistenza che offrono quando

57

58
Alberto Abruzzese, “Perché sogno immagini americane”, Il contemporaneo. Immagini e
fantasie degli anni ’70, supplemento a Rinascita, n. 15, 20 aprile 1979.
59
GiandomenicoAmendola La città postmoderna. Magie e paure della metropoli
contemporanea, Roma-Bari, Laterza,1997 (2003³, p. 27).
60
Cfr. Roland Barthes, “Sémiologie et Urbanisme", L’architecture d’aujourd’hui, n. 153,
decémbre 1970-janvier 1971; [trad. it. Camilla Maria Cederna ( a cura di), Semiologia e
urbanistica, in Id., L’avventura semiologica, Torino, Einaudi, 1991, pp. 57-58].
61
Jonathan Raban, Soft City, London, Collins Harvill, 1988, p. 9.

37
cerchiamo di imporre loro la nostra forma personale” 62. È in questo scambio di
azioni creative che si può attestare che

vivere in una città sia un’arte, e abbiamo bisogno del vocabolario dell’arte,
dello stile, per descrivere la particolare relazione che esiste fra l’uomo e la
materia nell’incessante gioco creativo della vita urbana. La città che
immaginiamo, la città mobile e malleabile dell’illusione, del mito, delle
aspirazioni, degli incubi, è reale, forse più reale della città fissa che
troviamo sulle carte geografiche e nelle statistiche, negli studi di sociologia
urbana, di demografia, di architettura63.

In questa capacità plastica della città, intesa come spazio dell’immagine, si


era già insinuato il sospetto che il belletto e il trucco generassero

un mondo d’ombre proiettategli attorno in ogni momento dalla carta, dalla


celluloide e da luci abilmente manipolate, […] un mondo che vetro,
cellophane e plexiglas isolano dalla mortificazione del vivere. In altre
parole un mondo di illusionisti di professione e di credule vittime […] un
mondo dove la carne e il sangue sono meno reali della carta, dell’inchiostro
e della celluloide. […] Dove le grandi masse, incapaci di una vita più piena
e più soddisfacente, vivono per interposta persona come lettori, spettatori,
ascoltatori e osservatori passivi. Vivendo così alla giornata, di seconda
mano, lontani dalla natura che sta loro intorno non meno che da quella che
hanno dentro, non fa meraviglia che affidino sempre più le funzioni della
vita, compreso persino il pensiero, alle macchine che i loro inventori hanno
creato. In questo ambiente disordinato soltanto le macchine conservano
certi attributi della vita, mentre gli esseri umani sono gradualmente ridotti a
un insieme di riflessi, privi di impulsi individuali o di mete autonome 64.

La realtà della città moderna si sottrae dunque allo sguardo vivo e si affida
alle macchine di registrazione del visibile. In questo contesto possiamo valutare
allora la rivalità tra reale e immaginario come un braccio di ferro mortale oppure
come un sofisticato sistema di pesi e contrappesi. Quello che risulta comunque
evidente, come ha spiegato Jacques Le Goff65, è che l’immaginario urbano
secerne dentro di sé il meraviglioso, dove il ruolo dell’immaginario è di offrire
un’irriducibile combinazione di idee e immagini attraverso cui una società
urbana esegue un proprio autoritratto66. Restiamo pertanto ancorati ad un

62
Ivi, p. 10.
63
Ibidem.
64
Lewis Mumford, The City in History [trad.it. La città nella storia ,cit. pp. 676 e 678].
65
Jacques Le Goff, L’imaginaire médiéval, Paris, Gallimard, 1985; [trad.it. Anna Salmon
Vivanti, L’immaginario medioevale, Roma-Bari, Laterza, 1993].
66
Questo autoritratto è “un personaggio a due facce: l’una materiale, fatta di strutture e aspetti,
l’altra mentale, fatta da rappresentazioni artistiche, letterarie, intellettuali”. Raffaele Milani,
L’arte del paesaggio, Bologna, il Mulino, 2001, p. 59.

38
personaggio dai due aspetti: uno materiale, fatto di strutture architettoniche,
meccaniche; l’altro mentale, coagulo di rappresentazioni artistiche, letterarie o
più ampiamente intellettuali e spirituali. La novità di questo coacervo di
immagini è che la città diventa soprattutto un occhio che vede, un ciclope che a
volte può rimirarsi allo specchio, e altre volte affronta il proprio autoritratto.
All’interno di questa condizione, Abruzzese suggerisce che

l’occhio della macchina da presa non nasce dentro la volontà o il desiderio


del soggetto individuale o collettivo che contempla e critica le forme del
proprio abitare. Bensì nasce dentro la città […], cioè in un processo di
assunzione dell’uomo nel destino necessario e ineluttabile della
territorializzazione metropolitana.
L’occhio della macchina da presa non nasce fuori dai destini
dell’architettura e dell’urbanistica in epoca industriale e massificata ma
nasce invece dentro ai suoi meccanismi […] la macchina cinematografica è
il risultato di una serie di dispositivi della produzione spettacolare in campo
territoriale, se il cinema deriva dalla sceneggiatura implicita al rapporto
scrittura-lettura nella stampa di massa nelle Grandi Esposizioni Universali,
lo sguardo filmico è già di per se stesso la metropoli che guarda se stessa67.

Se già da sola la metropoli si presenta come una sofisticata macchina da


presa che nel selezionare le vedute si sottrae allo sguardo, con il concorso del
cinema essa addirittura sparisce, non è solo il cittadino a dover ricercare la
pratica dello smarrimento, come propone Benjamin in Infanzia berlinese68. È la
città stessa che svanisce, che si rende indifferente (“Le mille insidie della
topografia cittadina di cui si è vittima potrebbero trovare collocazione, nel loro
succedersi appassionante, unicamente in una sequenza cinematografica” 69) e si
dissolve “cinematograficamente”.
La città scompare perché “si mette sulla difesa, si maschera, sfugge,
inganna, chiama a percorrere i suoi meandri fino all’estenuazione” 70: il cinema è

67
Alberto Abruzzese La parola all’architetto, in Marisa Galbiati (a cura di), Proiezioni urbane.
La realtà dell’immaginario cit., p. 101.
68
“Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica per
smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta. I nomi delle strade devono parlare
all’errabondo come lo scricchiolio dei rami secchi, e le viuzze del centro gli devono scandire
senza incertezze, come in montagna un avvallamento, le ore del giorno. Quest’arte l’ho appresa
tardi; essa ha esaudito il sogno, le cui prime tracce furono i labirinti sulle carte assorbenti dei miei
quaderni”. Walter Benjamin, Berliner Kindheit um Neuzehnhundert Fassung letzter Hand und
Fragmente aus früheren Fassungen, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1950; [trad. it.
Marisa Bertoli Peruzzi, Infanzia berlinese. Intorno al Millenovecento, Torino, Einaudi, 1973,
( trad. Enrico Ganni, 2001³, p. 16)].
69
Id., Städtebilder, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1955; [trad. it. Marisa Bertolini,
Immagini di città, Einaudi, Torino, 1971, p. 10].
70
Ibidem.

39
allora quella formula magica che consente alla città di farsi imprendibile, di
svanire.
Si deve ricorrere alle carte e alle piante, come suggerisce ancora Benjamin, per
tentare di afferrarla: “alla fine però carte e piante hanno la meglio: alla sera a
letto la fantasia si diverte a far giochi di destrezza con edifici, parchi e strade
reali”71; ma è pur vero che sono la “fantasia” e la “destrezza” a consentire una
sorta di richiamo a quella che dovrebbe essere la città reale: un tentativo per
l’appunto affidato a doti immaginative che non pertengono ad un’effettiva
oggettività. Si tratta di una ricomposizione che si affida anche alla memoria,
all’impressione che se ne è ricevuta, che consente una riproduzione. Lo spazio
della memoria diventa indispensabile per poter recuperare lo spazio
dell’immagine urbana e questo può essere focalizzato solo a partire da elementi
parziali, frammentari. Anzi, più sono parziali e frammentari, maggiore è la
possibilità di ingrandire e recuperare un’immagine della città reale. A questo
proposito, sembra pertinente richiamare una riflessione di Sergej Ejzenštejn che
riguarda New York. L’immagine della città, per usare la terminologia cara al
regista sovietico, si propone come una obraz72 e non come una convenzionale
rappresentazione (isobrazenie). Il fatto che si tratti proprio di obraz ci consente
di verificare quanto l’immagine della città, grazie agli esempi riportati dal regista
sovietico, possa opportunamente essere utilizzata nella nostra analisi anche per

71
Ivi, p. 11.
72
Spiega Ejzenštejn che “forma in russo vuol dire immagine (obraz). Ora l’immagine si trova
all’incrocio tra i due concetti di (obrez) e obnaruzenie (palesamento, manifestazione,
svelamento). Due termini che caratterizzano brillantemente la forma sotto i due profili: quello
statico individuale in quanto obrez (taglio), separazione del fenomeno dato rispetto a tutti gli altri
compresenti […]e sotto il profilo sociale attivo della manifestazione, cioè mostrando i legami che
esistono fra il fenomeno e quanto lo circonda”.
Sergej Mihajlovic Ejzenštejn, Neravnodusnaja priroda , in Izbrannye proizvedenija v šesti
tomach, III, Iskusstvo, Moskow, 1964; [trad. it. Giorgio Kraiski, Liliana Pantelich, A. Summa,
Pietro Montani ( a cura di), La natura non indifferente, in Opere scelte di Sergej M. Ejzenštejn,
III/1,Venezia, Marsilio, 1981, p.XXIII].
Per il regista russo la rappresentazione (isobrazenie) che incarna quello che vediamo non è
assimilabile all’immagine interiore (cioè l’obraz) ma costituisce solo un mezzo per realizzarla.
Solo muovendo da rappresentazioni parcellizzate la nostra mente riesce a produrre una immagine
del movimento. Il principio cinematografico risulta sullo stesso piano della “capacità eidetica
della coscienza, che è appunto la facoltà di collegare tutti gli aspetti particolari di un singolo
fenomeno in una immagine interiore unitaria”.
Sandro Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, Firenze Le lettere, 1994, p.48.

40
attestare uno dei principi chiave della storia del montaggio73. Riportiamo allora il
passaggio estratto da Ejzenštejn per chiarire meglio il concetto:

a New York la maggior parte delle strade non ha nome: esse vengono in
genere contrassegnate da numeri: la Fifth Avenue, la Forty-Second Street, e
così via. Per uno straniero sulle prime è assai difficile ricordare le strade
così contraddistinte: noi siamo abituati ai nomi delle strade, e il nome rende
tutto notevolmente più facile perché evoca subito l’immagine della strada e
con questa, tutto un determinato complesso di sensazioni che è associato al
nome. […] Attribuiti in modo del tutto neutrale, numeri come
“quarantadue” o “quarantacinque” non generavano in me alcuna immagine
in cui fosse concentrato il senso dell’aspetto generale dell’una o dell’altra
strada. A tal fine era necessario fissare nella memoria un’intera serie di
caratteristiche di questa o quella strada, e riportarle alla coscienza in
risposta, per esempio, al segnale quarantadue, tenendole ben distinte da
quelle evocate dal segnale quarantacinque. Per ciascuna via che occorreva
ricordare dovevo raccogliere nella mente teatri, cinema, negozi… […]
Questo procedimento mnemonico attraversava alcune fasi distinte, di cui
due in particolare meritano di essere ricordate. Nella prima, in risposta al
segno verbale “forty-second street”, la memoria passava in rassegna con
grande sforzo l’intera catena degli elementi caratteristici di quella strada,
senza riuscire ad ottenere tuttavia una vera e propria percezione di quella
via, perché i singoli elementi non si componevano ancora in un’immagine
unitaria. Solo nella seconda fase tutti questi elementi cominciavano a
integrarsi in un’autentica immagine unitaria: anche se la strada continuava
ad essere designata da un “numero”, ora tutta la serie dei suoi singoli
elementi prendeva forma non più come una catena, ma come qualcosa di
unitario, come il delinearsi complessivo della strada, come la sua immagine
integrale74.

Ejzenštejn ci consegna dunque la città e la memoria come indissolubilmente


intrecciate. “La città è ridondante, si ripete perché qualcosa arrivi a fissarsi nella
mente”75, laddove anche “la memoria è ridondante, ripete i segni perché la città
cominci a esistere”76. È un tipo di memoria spaziale dove i ricordi sono immobili,

73
Cfr. Sergej Mihajlovic Ejzenštejn, Montaz 1937 e Montaz 1938, in Izbrannye Stat’i, Iskusstvo,
Moskow,1956; [trad. it. Pietro Montani (a cura di), Teoria generale del montaggio, con un saggio
di Francesco Casetti, Venezia, Marsilio, 1989]. Per quanto riguarda i rapporti tra cinema,
montaggio e architettura si può leggere anche il saggio, sempre di Sergej M. Ejzenštejn,
“Montage and Architecture”, with an introduction by Yves-Alain Bois, Assemblage, n. 10
(december), 1989, pp. 110-131.
74
Sergej M. Ejzenštejn,”Montaz 1938”, Iskusstvo Kino, n.1, 1939 ; [ trad. it. Pietro Montani (a
cura di), Il montaggio, Venezia, Marsilio, 1986, pp. 95-96]. Si possono ricondurre le tecniche
urbanistiche che classificano spazialmente gli oggetti alla tradizione dell’“arte della memoria”. Il
potere di costruire un’organizzazione spaziale del sapere (con “luoghi” assegnati a ciascun tipo di
“figura” o di “funzione”) sviluppa i suoi procedimenti a partire da questo tipo di procedimento.
Cfr. Frances A. Yates, The Art of Memory, London, Routledge & Kegan Paul, 1966; [trad. it.
Albano Biondi, L’arte della memoria, Torino, Einaudi, 1972].
75
Italo Calvino, cit., p. 27.
76
Ibidem.

41
tanto più solidi quanto più e meglio vengono spazializzati. Secondo David
Harvey

l’Essere, pervaso dalla memoria spaziale remota, trascende il Divenire […]


È questa la base della memoria collettiva, di tutte quelle manifestazioni di
nostalgia legata ai luoghi che contaminano le nostre immagini del paese e
delle città, della regione dell’ambiente e del luogo, del quartiere e della
comunità? E se è vero che il tempo è sempre memorizzato non come fluire,
ma sotto forma di ricordi di luoghi e spazi di cui si è avuta esperienza,
allora la storia deve davvero lasciare il posto allo spazio, quale materia
fondamentale di espressione sociale77.

Il pensiero di Ejzenštejn riveste un’eco che trascende le teorie


cinematografiche, trovando conforto, per esempio, anche nelle affermazioni di
Kevin Lynch, il quale, in qualità di studioso di fenomeni urbani, si era
concentrato su quali fossero le basi della percezione specifica della città ,
cercando di trarne le costanti per avanzare eventuali proposte di assetto o di piani
regolatori. La ricerca di Lynch rimanda ad un respiro più esteso,
multidisciplinare, e rileva, come in parte aveva anticipato Ejzenštejn, che la
percezione della città è parcellizzata, frammentaria, e spesso mescolata ad altre
sensazioni di varia natura. Dal momento che “la città non è soltanto oggetto di
percezione […] per milioni di persone profondamente diverse per carattere e
categoria sociale, ma anche il prodotto di innumerevoli operatori che […] ne
mutano costantemente la struttura”78, non è possibile addivenire ad un risultato
finale che non sia “una successione continua di fasi”79.
Questa conclusione sembrerebbe divergere da quelle rilevate da Ejzenštejn.
Tuttavia Lynch avanza l’ipotesi che, proprio perché l’arte di dare forma ad una
città è “un’arte del tutto distinta dall’architettura, o dalla musica, o dalla
letteratura”80 ed ha un “carattere visivo” 81, essa non può che risultare dall’analisi
dell’“immagine mentale di essa che i cittadini posseggono”. Come è stato per il

77
David Harvey, The Condition of Postmodernity: An Enquiry into the Origins of Cultural
Change, Malden, Blackwell Publishers, 1990; [trad. it Maurizio Viezzi, La crisi della modernità.
Riflessioni sulle origini del presente, Milano, Il Saggiatore,1997 (2002), p. 268].
78
Kevin Lynch, The Image of the City, Cambridge (Ma), Massachusetts Institute of Technology,
1960; [trad. it. Gian Carlo Guardan, Paolo Ceccarelli (a cura di), L’immagine della città, Venezia,
Marsilio, 1964 (2004¹¹, p. 24].
79
Ibidem.
80
Ibidem
81
Per “visivo”, o “figurabile”, Lynch intende il fatto che “gli oggetti non solo possono essere
veduti, ma anche acutamente e intensamente presentati ai sensi”.
Ivi p. 32

42
regista sovietico, allora, anche per Lynch l’immagine mentale dovrà costituire
l’oggetto privilegiato da raggiungere per ottenere chiarezza e leggibilità
attraverso un percorso ed una strategia di riconoscimento che va a pescare nel
patrimonio della memoria82 individuale (e frequentemente collettiva).
Lynch insiste aggiungendo che “un’immagine chiara consente ad uno di
muoversi attorno agevolmente e velocemente […] Ma un ambiente ordinato può
far più di questo: esso può funzionare come un ampio sistema di riferimento, può
organizzare le attività, le opinioni, la conoscenza. La comprensione della
struttura di Manhattan, ad esempio, può fornire la base per ordinare un largo
numero di fatti e di fantasie sulla natura del mondo in cui viviamo. […]
Un’immagine chiara di ciò che ci sta intorno è quindi una base utile alla
formazione individuale”83.
Nei nostri ultimi approfondimenti abbiamo apprezzato come la memoria
si sia proposta come attante di primo piano. In effetti occorrono frammenti di
memoria per colmare un possibile vuoto: quello di una città che può essere
proposta come una entità “invisibile”. Il cinema infatti sembra concentrarsi sulla
messa in scena della città come oggetto filmico privilegiato, perché la assume
proprio come una delle modalità principali per rendere l’invisibile, modalità che,
nella fattispecie, risiede nel transitorio, nel fugace, nell’effimero: tutto ruota
intorno alla figura del “passaggio”. L’invisibile urbano, secondo Jean Louis
Comolli, è “ciò che passa, che è passato, che non smette di passare, il tempo e il
suo corteo di fantasmi, il flusso temporale che rende ogni città un intreccio di
movimenti, il luogo di tutti i luoghi e il tempo di tutti i tempi: passaggio. La figura
del passaggio (Walter Benjamin) è la metafora principale della città: passaggio
degli uomini, passaggio delle merci, passaggio dei desideri, passaggio del
tempo”84. Ma questa città invisibile continua ad esistere, la stessa invisibilità che
82
“Nel processo di individuazione del percorso, il legame strategico è rappresentato
dall’immagine ambientale, il quadro mentale generalizzato nel mondo fisico esterno che ogni
individuo porta con sé. Questa immagine è il prodotto sia della sensazione immediata, che della
memoria di esperienze passate e viene usata per interpretare le informazioni e per guidare gli
atti”. Ivi, p. 26.
83
Ibidem.
84
Jean-Louis Comolli, Voir et pouvoir. L’innocence perdue: cinéma, télévision, fiction,
documentaire, Lagrasse, Verdier; [trad. it. Alessandra Cottafavi, Fabrizio Grosoli (a cura di),
Vedere e potere: il cinema documentario e l’innocenza perduta, Roma, Donzelli, 2006, p. 158].
“Ciò che l’inquadratura rivela del movimento della città subito lo nasconde, con i corpi in
movimento che oscillano tra il visibile e l’invisibile (e viceversa). Questo gioco dei corpi con il
fuori-campo porta a una erotizzazione dei bordi dell’inquadratura: dentro/fuori, vicino/lontano,
fisso/mobile, la città passante gioca a nascondino con la camera, al punto che si inscrivono
attraverso questo gioco i segni di un desiderio ambivalente: di apparire, di scomparire. Per il fatto

43
richiama la necessità di una visione indiretta, mediata, come quella indispensabile
per difendersi dallo sguardo di Medusa, porta sempre con sé qualcosa di diretto, di
familiare, come un ricordo, un odore, un profumo. Sono considerazioni che si
possono ricavare ancora dalla lettura del berlinese Benjamin, il quale, mentre
appuntava le sue impressioni su Mosca, scriveva: “Prima che Mosca stessa, è
Berlino che si impara a conoscere attraverso Mosca”85. Sarebbe un po’ come dire
che impariamo a conoscere le nostre città europee dopo aver osservato, proprio al
cinema ad esempio, quelle americane. E queste ci appaiono familiari anche perché
riportano, attraverso una sconosciuta alchimia, o le tracce del nostro vissuto o di
quello che avremmo voluto essere e delle vite che avremmo voluto vivere. Su
questa traccia Peter Szondi interpreta le riflessioni di Benjamin su Berlino, ma una
stessa attribuzione va estesa alle città straniere che lo stesso Benjamin aveva
visitato, come una sorta di richiamo al mondo dell’infanzia. La città straniera non
ha nulla di esotico e “non porta all’oblio di sé […] il viaggio nella lontananza non
agisce diversamente dal viaggio nel passato, che è pur esso un viaggio nella
lontananza. Il bisogno di smarrirsi in una grande città lo appaga meglio la città
straniera che la propria”; questo bisogno risiede nel fatto che “non solo […] le terre
lontane si sostituiscono nell’adulto alla lontananza dell’infanzia, ma esse lo
rendono bambino”86. Il tema dell’infanzia, come vedremo in seguito, è legato a
doppio filo con quello della città nel cinema americano. Intanto, a proposito di San
Gimignano, Benjamin dirà che questo luogo “non dà l’impressione che sia
possibile raggiungerlo. Ma se si fa tanto di riuscirvi, allora il suo grembo ci
accoglie, e ci si perde nel concerto dei grilli e nel vociare dei bambini”87.

Le città americane esistono e ci appartengono forse più ancora di altre, e


questo anche grazie alla diffusione che hanno ricevuto dal cinema, che la ha

che registra durate e passaggi, il cinema realizza una delle possibilità degli abitanti delle città:
esibirsi e nascondersi allo stesso tempo, coniugare la singolarità dei corpi e l’anonimato delle
folle” (ivi, p. 159). “La città filmata si dispiega come un insieme di temporalità parallele, di storie
sovrapposte. Il cinema sceglie di esaltare la città dei misteri, dei complotti. Tempo, finzione,
segreto, invisibile sono strettamente legati. […] la città filmata è un tavolo verde dove rotolano i
dadi dell’incontro, buono o cattivo, della perdita e della vertigine (le facciate arrampicate, i tetti
di Parigi) della prossimità del desiderio e del pericolo”.
Ivi, p. 160.
85
Benjamin, Städtebilder, [trad. it. Immagini di città, cit. p. 7].
86
Ivi, p. 105.
87
Ivi, p. 65.

44
costruite quasi come un supergenere. Esse si sono fatte portatrici di una particolare
cinegenia, sono quelle città reali che subiscono una sorta di “esaltazione […] e si
mettono ad assomigliare sempre di più alla loro versione filmata”88.
È noto quanto già Jean Baudrillard avesse riconosciuto questa proprietà
riferita non solo alle città degli Stati Uniti, ma a tutto il paesaggio americano. Lo
definisce come un paesaggio “immorale”, “siderale”, pressoché impossibile da
rappresentare e riconoscibile, interpretabile, proprio perché, per cogliere il segreto
della realtà e della città americana, era necessario procedere dallo schermo alla città
e non viceversa. Ci preme rimarcare quanto l’affermazione di Baudrillard poggi
almeno su due ragioni: la prima riflette sul fatto che in America “il cinetico e il
cinematico fusi insieme danno luogo ad una configurazione mentale, a una
percezione globale diversa dalla nostra. Infatti, questa precessione della mobilità,
dello schermo sulla realtà, non è assolutamente riscontrabile in Europa, dove le cose
mantengono per lo più la forma statica del territorio e la forma palpabile della
sostanza”89. La seconda insiste sul fatto che “l’America è un gigantesco ologramma,
nel senso che l’informazione totale è contenuta in ciascun elemento. Si prenda la
più insignificante stazione di servizio del deserto, una strada qualunque di una città
del Middle West, un parcheggio, una casa californiana, un Burgerking o una
Studebaker, e si avrà tutta l’America, al sud, al nord, all’est e all’ovest” 90. Sono
considerazioni che saranno portate all’estremo, tra gli altri, da Paul Virilio e Regis
Debray91, i quali, estendendo la riflessione a tutta la società mediatizzata
contemporanea, faranno notare che le immagini digitali non hanno più bisogno di
imitare la realtà dal momento che spetterà proprio ai prodotti di realtà (essere
umano compreso) l’imperativo di assomigliare alle immagini per rivendicare un
diritto all’esistenza. Non si tratta di una riflessione stupefacente, dal momento che
riprende, a sua volta, un pensiero che aveva già attraversato il Modernismo 92,
quando cioè si era tentato di rappresentare l’eterno e l’immutabile in mezzo al caos
della società, esigenza quest’ultima che comportò una preoccupazione nei confronti

88
Comolli, Voir et pouvoir; [trad.it. Vedere e potere,cit., p. 157].
89
Jean Baudrillard, L’Amérique, Paris, Seuil, 1986; [trad.it Laura Guarino, America, Milano,
Feltrinelli, 1987, (SE, 2000, p. 65)].
90
Ivi, p. 41.
91
Cfr. Regis Debray, Vie et mort de l'image : une histoire du regard en occident, Paris,
Gallimard, 1992; [trad. it. Andrea Pinotti, Vita e morte dell'immagine : una storia dello sguardo
in Occidente, Milano, Il castoro, 1999].
92
Cfr. Giovanni Cianci (a cura di), Modernismo/Modernismi, dall’avanguardia storica agli anni
Trenta e oltre, Milano, Principato, 1991.

45
del linguaggio per rappresentare verità eterne. Il risultato di questa operazione
modernista ne rivelò l’artificialità, e la struttura della realtà su cui si voleva
intervenire trasformò gran parte dell’arte in una “costruzione autoreferenziale
anziché in uno specchio della società”93.

Ora, nel momento in cui negli anni sessanta le produzioni


hollywoodiane abbandonano per lo più gli studios, sono le città reali a
trasformarsi in novelli studios. Questa uscita all’esterno percorre due indirizzi: da
un lato attesta un rinnovato interesse dei nuovi autori americani nei confronti dei
grandi temi della tradizione culturale americana. Ci riferiamo al fascino
archetipico per i grandi spazi o per il gigantismo urbano, dal momento che i
registi hollywoodiani contemporanei, diversamente dai loro colleghi della nuova
ondata francese, sono più inclini ad emulare che a ripudiare i loro immediati
predecessori. Dall’altro, come rileva Art Simon, viene usato il contesto urbano, e
New York in particolare, “per registrare le trasformazioni sociali attraverso le
trasformazioni del genere filmico. New York cioè si manifesta come luogo del
trapasso, di abbandono degli eroi tradizionali e si erge come posto che esiste e
stimola al di fuori dei miti creati dal cinema”94.

93
Eugene Lunn, Marxism and Modernism: an historical study of Lukacs, Brecht, Benjamin and
Adorno, Berkeley, University of California Press, 1982, p. 41.
94
Art Simon, La struttura narrativa del cinema americano, 1960-80, in Gian Piero Brunetta (a
cura di), Storia del cinema mondiale. Gli Stati Uniti, volume II, tomo 2, p. 1668.

46
CAPITOLO DUE

“Le mani sulla città”?.


A proposito di alcuni modelli di messa in scena urbana.

Sulla scorta di quanto precedentemente discusso, possiamo cominciare


a registrare le prime due tendenze relative alla messa in scena della città
americana. Esse tengono conto, come accennato, sia del rinnovato interesse
nei confronti di quello spazio legato alla tradizione portato alla luce dallo
scavo all’interno dei generi classici, sia di uno spazio metropolitano proposto
come quel terreno ideale sul quale confondere i solchi della tradizione e
ridisegnare traiettorie che favoriscano le sperimentazioni delle ancora acerbe
(per quanto eclettiche e sensibili al mutato quadro culturale ed economico)
leve registiche e attoriali.
La prima tendenza ruota dunque intorno ad una categoria che abbiamo
definito, in termini generali, come una interiorizzazione, nel corpo dei
personaggi, dello spazio metropolitano, e che fa riferimento ai diversi rapporti
che si vengono via via ad articolare tra figura e sfondo, tra il personaggio e
l’ambiente in cui è ripreso.
Esiste dunque una prima modalità di messa in scena che interiorizza la città
all’interno dei personaggi costruendoli come una sua proiezione, li rende cioè
geneticamente assimilati allo spazio urbano, così che essi sono, per così dire,
partoriti dalla città. Infatti, secondo Mario Perniola, nella città risulta più
evidente il rapporto percettivo tra uomo e mondo:” la sessualità neutra
dell’esperienza plastica può essere descritta come una dislocazione del sentire
in un contesto geopolitico: non è più l’uomo che sente il paesaggio, perché
egli fa parte di questo; […] le persone ormai non appartengono più a se stesse,
ma al luogo in cui si muovono: esse sono elementi mobili di ambienti a cui
possono essere aggiunti o tolte senza che l’insieme muti sostanzialmente.
Dell’architettura fanno parte anche i corpi umani allo stesso titolo delle case,
dei boschi e delle montagne”95.

95
Mario Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Torino, Einaudi,1994, pp. 112-113.

47
Al vertice opposto, ma più che di opposizione si dovrebbe parlare di
complementarità, sta una città non più o non solo autrice, bensì esperita come
una proiezione privata dei desideri e dei rimossi dei protagonisti, rimossi e
desideri che frequentemente sono il retaggio di una psicosi o di una cultura
collettiva. Quest’ultimo processo segue una scia forse non proprio originale
già tracciata in ultima istanza negli anni cinquanta soprattutto dal noir, ma
capace di costruire, probabilmente, esempi interessanti di rielaborazione
formale e diegetica anche all’interno di opere lontane dagli stilemi noir. E’ il
caso della commedia, sia quella definita “brillante” sia la sua versione
“sofisticata”, dal momento che ci consente proprio di apprezzare quali
metodologie formali, o quali tipologie di spazi, vengano mutuati e con quali
effetti.
Va considerato anche che questa introiezione/proiezione appare in
molte pellicole, non solo come un retaggio noir, ma anche come una costola
che sarà partorita da una certa interiorizzazione del western. Quest’ultimo
aveva già impartito, con The man who shot Liberty Valance (L’uomo che
uccise Liberty Valance, John Ford, 1962) , una profonda lezione verso
l’abbandono dei grandi spazi che Sam Peckinpah saprà poi tradurre
perfettamente, concentrandosi direttamente sulla “vecchiaia” della profondità
di campo, su personaggi irrigiditi nello spazio, capaci solo di articolare giostre
di primi piani frenetiche, e dove le posture di quelli che erano cavalieri erranti
sono scolpite nell’agonia di un ralenti che separa lo spazio dal tempo del mito.
Insomma, come sostiene Franco La Polla, lo spazio si “westernizza”, la sua
operatività viene ampliata a tal punto che spesso gli viene concesso il rango di
personaggio principale e molti film urbani diventano “cripto-western”96.
La seconda tendenza di messa in scena riguarda un semidocumentarismo
investito da una duplice influenza. Da un lato dalla concorrenza televisiva e da
molti futuri cineasti che, avendo avuto a che fare, nella loro fase di avvio alla
carriera cinematografica, con la regia televisiva e con il conseguente dettato
della diretta, avevano maturato un approccio di ripresa e montaggio
all’impronta il quale ben si poteva adattare alla imprevedibilità degli ambienti
esterni urbani. Dall’altro da una ricerca, per così dire, più militante, che faceva

96
Cfr. Franco La Polla, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Bari, Laterza,
1987, pp.304-308.

48
capo a molti rappresentanti della Scuola di New York e che influenzerà molte
produzioni almeno fino alla metà degli anni settanta. Ciò che costituisce
motivo di interesse è che questa ricerca, in molti casi una volontaria
ostentazione di realismo, si abbinava però, per converso, ad una messa in
scena, a volte, esplicitamente teatrale. Oppure a una forte prevalenza della
soggettività che, in certi casi, finiva per lo sconfinare in un eccesso di ego da
parte dei protagonisti dei vari film, tale da modellare il rapporto del
personaggio con l’ambiente urbano nei termini di un’astrazione pura.

2.1 Verso una doppia interiorizzazione.

Breakfast at Tiffany (Colazione da Tiffany, Blake Edwards, 1961) può essere


un buon referente iniziale per verificare la prima categoria che abbiamo
provato a denominare come doppia interiorizzazione. A nostro avviso, infatti,
il film di Edwards riesce a solidificare questo doppio regime: a) un
personaggio quasi partorito dalla metropoli, b) un universo urbano che,
attraverso il rapporto del personaggio con lo spazio in cui è collocato, coagula,
esprime e riflette, le conflittuali e spesso ambigue intimità dei protagonisti.
Cominciamo a considerare il primo punto.
La pellicola si apre con il campo lunghissimo di una strada di New
York ripresa frontalmente. La macchina da presa è collocata quasi al livello
dell’asfalto proprio per rendere un infinito rettilineo attraverso una linea di
fuga costruita da una prospettiva che disegna un orizzonte senza un limite
rintracciabile e modellata, ai margini della inquadratura, dalle costruzioni dei
grattacieli. È una composizione visuale comparabile alle aperture in grande
profondità di campo del western classico che preparavano, da quell’altrove
lontano, l’arrivo di un cavaliere impavido e senza macchia. Nel nostro caso,
sempre in questa prima inquadratura, non si tratta di un cavaliere, ma di una
donna, e già questa è una variazione interessante dal momento che è raro che,
almeno fino agli esordi degli anni sessanta, una ambientazione urbana sia
aperta da una figura femminile con ruolo da protagonista. La donna arriva con
un taxi che avanza dal fondo della strada, seguito, nella sua traiettoria finale,
da una leggera panoramica da sinistra a destra, un movimento che ne attesta

49
l’importanza dinamica rispetto alla straordinaria fissità del quadro pressoché
immobile, quasi dipinto, se non fosse per il lampeggiare dei semafori. La
ragazza, occhiali da sole, abito completamente nero, scende dall’auto e si
colloca di spalle, in campo lungo, sul marciapiede, ad osservare un palazzo di
fronte a lei. A questo punto uno stacco che è quasi un raccordo sull’asse, per
quanto spurio, ci restituisce un mezzo primo piano della donna ancora di
spalle, fortemente inclinato dal basso verso l’alto. È una inquadratura che
costruisce una forte aderenza figurativa. La donna appare “schiacciata” sul
palazzo che sta osservando, fatto che la rende parte integrante dell’oggetto di
osservazione, e questo anche grazie alle componenti cromatiche che collegano
due colori scuri come l’abito nero della donna e la facciata bruna e grigia della
gioielleria Tiffany.
Se nel western la presentazione e l’importanza del cavaliere
potevano prevedere un mezzo primo piano frontale o leggermente di profilo,
oppure anche una mezza figura ripresa dal basso, magari a cavallo, che si
stagliava contro il cielo, qui il cielo è stato sostituito da un palazzo ricolmo di
preziosi e da una figura che non vuol mostrare il suo vero volto (tutto il film
del resto è giocato sulla ricerca del volto, della vera personalità di questa
donna). Ma è pur vero che questo palazzo è il suo cielo, e se il cavaliere del
West, proprio in virtù dell’aderenza figurativa a quel cielo, espressione
cosmica di fusione con una natura ed un’essenza incontaminata, sapeva
trovare le qualità per affrontare le difficili prove da superare, così, per questa
donna, il palazzo di Tiffany sarà il suo spazio di riferimento attraverso cui
trovare un equilibrio interiore con il quale traguardare gli obiettivi della
propria vita (“Tiffany mi calma” dirà in una battuta al suo vicino di casa
nonché spasimante Paul).

In questo esordio non abbiamo dunque a che fare con quelle riprese
aeree o panoramiche dall’alto raccordate da progressive dissolvenze incrociate
che tentano di restituirci il piano della città, come accade nelle presentazioni
urbane di anni precedenti. L’incipit di Breakfast at Tiffany non innesca infatti
alcun movimento dal generale al particolare o viceversa, ma ci fornisce da
subito un establishing shot che fonde generale e particolare insieme. È una

50
donna partorita dal paesaggio immobile, una ambientazione che si impone
come assoluta protagonista, anche se la ragazza provvede a conferirle subito
una dinamicità, una vita. In effetti ciò che ci è concesso vedere di New York è
un conglomerato diafano, deserto, come spesso risulta nei più canonici
paesaggi western o, per converso, come nei più abbandonati e desolati registri
noir. Edwards comunque ci fornisce una ulteriore indicazione sul fatto che
possa essere l’ambiente urbano, e Tiffany come suo referente diretto, a
legittimare la nascita del personaggio. La scansione delle inquadrature che
costruisce la relazione tra le vetrine della gioielleria e la donna ci restituisce
un personaggio che non gode di una messa in quadro che ne faccia risaltare
uno status di maggiore importanza o autonomia rispetto al referente
architettonico. Alla donna infatti non è attribuito il privilegio di classiche
inquadrature frontali ma è ripresa di spalle o di tre quarti; ella non esprime
alcuna soggettiva che confermi la proprietà di uno sguardo, un intervento
diretto, magari, a determinare una proiezione illusoria. Sono soprattutto due
inquadrature, poste alla fine di questo primo sintagma, a rivelarci quanto la
sua presenza sia un riflesso, una immagine creata e rimandata da un soggetto
architettonico che fa le veci di un contesto metropolitano più ampio. Nella
prima la macchina da presa riprende una vetrina con una leggera angolazione
verso sinistra, così da permettere di percepire il riflesso di Holly senza che
essa entri concretamente in campo. Non si tratta di una soggettiva di Holly,
ma di una oggettiva che, attraverso la figura translucida della donna rimandata
dalla vetrina, la svuota di una residua carnalità per prepararne una nascita
come un parto del riverbero di quell’edificio.
L’inquadratura successiva, poi, evidenzia uno stacco in cui Edwards
opera uno scavalcamento di campo, mostrando dall’interno della vetrina la
mezza figura di Holly, collocata soltanto ora al centro del quadro, dove i
riflessi degli oggetti in esposizione creano una efficace manipolazione dello
spazio. La violazione formale dello scavalcamento di campo fa indossare
quasi un travestimento enunciazionale al negozio di Tiffany. Ferma sul
marciapiede, è come se Holly si trovasse all’interno della vetrina stessa. È una
composizione che, anche grazie alle costruzioni dei margini laterali
dell’inquadratura, non fa che rimandare ad una suggestiva cornice schermica

51
dove Holly è il contenuto della vetrina: è diventata, cioè, quello che la città,
attraverso le lenti fantasmagoriche di Tiffany, ci farà vedere.

Tuttavia il paradigma urbano a cui Holly appartiene ne contiene


anche le sue prorompenti proiezioni, riceve cioè attribuzioni dalla psicologia
della donna la quale ne modella la morfologia facendole assumere spesso i
propri caratteri. La “protagonista pallida” del film è proprio l’emblema
perfetto della solitudine di quel paesaggio, e quest’ultimo si conforma a lei
con perfetta aderenza.
A quell’ora del mattino Holly non torna a casa, ma consuma una colazione in
piedi osservando le vetrine della gioielleria più famosa del mondo. Del resto
non sembra che possegga una vera e propria casa a partire dal fatto che non ha
quasi mai con sé le chiavi del suo appartamento. L’interno della sua dimora
poi somiglia ad un accampamento, ad un bivacco temporaneo: è composto da
pochi mobili e valigie mai disfatte, si respira una provvisorietà all’insegna di
una condanna a vagare per certi aspetti vicina, visto che abbiamo chiamato in
causa il western, a quella di Ethan Edwards di Sentieri Selvaggi (The
Searchers, John Ford, 1956), colpito dai suoi rimossi. Rimossi che in effetti
appartengono anche ad Holly dal momento che porta con sé il segreto di un
marito e di una famiglia abbandonati in un lontano paesino del Texas non
dissimile a quelli quasi archetipici delle praterie. È scappata infatti da una vita
selvaggia per viverne una di profilo analogo, forse non più del tutto selvaggia,
visto che riesce condurre un’esistenza autosufficiente e a circondarsi di abiti
costosi, ma senza dubbio randagia. Aggettivo che le si attaglia perfettamente a
giudicare non solo da come sfrutta i suoi accompagnatori occasionali, ma
anche dal fatto che il solo legame cittadino che ella sente concreto è quello
con il suo gatto. Per concludere va annotata la presenza di alcuni archetipi del
western di fabbrica che possono aderire sia ad Holly, sia, in misura minore, al
suo rapporto con lo spazio urbano. Le interiorizzazioni o le esternalità di certi
parametri relativi al “cinema americano per eccellenza” sono ancora timidi
segnali che si collocano in maniera frastagliata e che tuttavia, come vedremo
in seguito, assumeranno una maggiore consistenza.

52
Come prototipo delle istanze di continuità, e al contempo di violazione, delle
procedure tipiche di certi generi o movimenti del cinema antecedente al crollo
degli studios, invece, il film si muove, in apertura, anche verso un recupero di
alcuni interventi formali propri dell’avanguardia e, soprattutto, stabilisce un
approfondimento e una deviazione rispetto a certi codici formali del noir. Con
l’avanguardia e certe “sinfonie urbane” divide, come si registra in Vertov e
Ruttmann, la presentazione di una città come una “bella addormentata” e,
contemporaneamente, l’uso della profondità di campo, seguito anche, come
abbiamo visto, da una violazione di quello che potrebbe essere un raccordo
sull’asse, reso con un’inclinazione ardita della figura umana rispetto al suo
referente spaziale. Inoltre, l’utilizzo delle vetrine di Tiffany come uno
stratificato sottotesto di riflessi richiama le stesse pratiche, certamente più
sofisticate, elaborate da Vertov o Ruttmann, le quali, come per i due esponenti
dell’avanguardia anni venti, conferiscono a questo spazio urbano quella
personalità che gli consente di andare oltre l’aspetto di puro fondale.
Sono tuttavia alcune componenti mutuate dal noir che hanno la più diffusa
rilevanza dal punto di vista di una estensione del carattere del personaggio
sull’ambiente. Esse si registrano in primo luogo all’interno del regime
diegetico che le innesta, spesso modificandole o rovesciandole, all’interno
della sophisticated comedy. Questi prototipi noir seguono diverse direzioni:
troviamo una femme fatale che irretisce uomini, pur uscendone sempre
sconfitta; oppure una donna che si muove anche in uno scenario malavitoso
dal momento che diventa la mediatrice inconsapevole tra un boss detenuto e la
sua organizzazione mafiosa; c’è una allusione (anche se presto disattesa)
ancora al mondo dei private eyes quando si crede che la casa dove abitano
Holly e Paul sia sorvegliata da un detective privato. Va tuttavia sottolineato
che quelli riconducibili ai modelli narrativi sono certo timidi indizi laddove è
il rapporto con lo spazio che offre maggiori garanzie di aderenza al registro
noir. Questo trova riscontro, ad esempio, nel ruolo di legittimi protagonisti
della vicenda di due luoghi che all’interno del noir erano considerati liminari:
le scale antincendio e il vicolo cieco. Saranno proprio tali spazi a costituire il
palcoscenico per la nascita e la consacrazione del rapporto sentimentale tra
Holly e Paul. Luoghi che il noir eleggeva nel territorio urbano come teatro per
inseguimenti parossistici, regolamenti di conti, omicidi improvvisi. Nel nostro

53
caso ospitano un sentimento e non la morte, ma attraverso le procedure
formali ne ricalcano degli stilemi che alludono piuttosto ad un quadro che,
invece di liberare i personaggi, li irretisce in una dimensione di costrizione.
Se procediamo all’analisi della scena che colloca i personaggi
principali tra le scale antincendio, si può notare come, utilizzando i dettami
del cinema classico, viene sfruttata la scenografia per sottolineare anche
quanto le composizioni dei quadri, le posture degli attori, e il conseguente
montaggio, determinino una costruzione geometrica che sconfina in una
precisione forse troppo fredda, quasi astratta (ancora un riferimento alle
geometrie di certe “sinfonie urbane”?). Mi riferisco al momento in cui Holly
esegue con la chitarra il refrain di Moon River seduta sulla finestra del suo
appartamento, esposta sulle scale antincendio dove si affaccia anche Paul a
guardarla. Qui Edwards utilizza, per l’appunto, tutta la forza di fuoco del
cinema classico: attraverso calcolati raccordi di movimento, sull’asse e di
sguardo, quasi immobilizza il segmento, lo sospende. È questo découpage
classico che, come spesso accade, costruisce il percorso di significati e
allusioni fino a realizzare, in tale caso, l’approdo verso uno scambio di
primissimi piani che suggella la nascita di una tenerezza, lo sbocciare di un
sentimento. Tuttavia questo stesso découpage incorpora le scale antincendio e
le finestre degli appartamenti che incorniciano le figure dei nostri protagonisti,
disegnando una scansione, una cadenza metallica eccessivamente regolare. Si
determina pertanto una precisione melodica di richiamo delle forme che
rasenta l’astrattismo, in modo tale da restituire, nonostante le apparenze,
l’efficace contrappunto al germoglio di un amore. Proprio l’elaborazione della
messa in scena e l’utilizzo anonimo di tale spazio suggerisce (lo si potrà
verificare nel prosieguo della vicenda) come questo sentimento sia ancora
lontano dal trovare accoglienza reciproca. La messa in scena si rivela come
l’esatto dettato della personalità di Holly. È lei che si è imposta di bloccare
qualsiasi sentimento attraverso la chiusura volontaria in una piccola prigione,
senza una via di accesso alle emozioni d’amore.
Al vicolo cieco in cui si chiude la pellicola spetterà poi suggellare la
faticosa unione tra Paul e Holly. Al suo interno questo spazio contiene
ulteriori rimandi al noir: Holly e Paul sono inzuppati da una pioggia
torrenziale che, pur senza nessun marcato intervento di illuminazione,

54
contribuisce a creare quel velo che sospende i protagonisti dalla realtà
circostante. Entrambi indossano un classico impermeabile e si trovano in un
luogo pieno di rifiuti, dunque uno spazio a parte rispetto al mondo che
vediamo filtrare come da una finestra in profondità di campo, e che sottolinea
la separazione dalla realtà contigua, falsa, in cui fino ad allora sono vissuti. E
anche in questo caso, come si è visto a proposito delle scale antincendio, il
regista sfrutta la morfologia di un luogo angusto, rovesciando i parametri di
validazione del congedo classico dalla coppia che vivrà felice e contenta in
uno spazio magari accogliente o denso di prospettive. Edwards infatti
costruisce tre consecutivi raccordi sull’asse incorniciati dalle mura spesse e
scure del vicolo che, dal bacio della coppia in primissimo piano scalano prima
al loro totale quasi frontale, poi ad un campo lungo e infine ad un campo
lunghissimo entrambi realizzati con una semi-plongée. Le figure di Holly e
Paul restano pertanto oppresse, quasi annichilite: il valore dell’amore
conquistato è ridotto, se non ribaltato, dalla messa in scena che riflette, sempre
da parte di Holly, una resistenza ad aprirsi al sentimento, e, in questi termini,
accoglie quel respiro di fatalità negativa ed ineluttabile che il noir inoculava
nella maggior parte delle sue produzioni.
Ma non ci sono solo gli esterni su cui la ragazza proietta se stessa.
Un’ulteriore parentela con la città noir ce la restituisce la configurazione degli
ambienti interni. Quelli di Breakfast at Tiffany non solo sono impersonali
perché spogli, come quelli della casa di Holly, oppure ridondanti ed
eccessivamente ordinati, omnicomprensivi nell’arredo, come quelli in cui vive
Paul, ma risultano, in una occasione del film particolarmente significativa, del
tutto claustrofobici. È una prigionia esaltata non da un eccesso dell’arredo,
causata cioè da una proliferazione degli oggetti, o del mobilio, che, come
poteva accadere nel noir ordinario di fabbrica, si comportavano come corpi
contundenti tanto da inibire i movimenti dei personaggi. Il caso a cui facciamo
riferimento mostra un ambiente affogato in una concentrazione e
proliferazione parossistica di uomini e donne. La festa ad esempio organizzata
da Holly a casa propria riesce a raggruppare una folla di personaggi che non
trova in tutti gli esterni del film un così forte concentramento. È una massa
concitata che viene registrata in interno con procedure formali simili a quelle
che si userebbero per rendere grandi assembramenti urbani ripresi in esterni.

55
Sono infatti sfruttate sia una pronunciata profondità di campo, sia
panoramiche ardite che sorvolano le teste degli invitati oppure movimenti
rasoterra. E questi movimenti di macchina vengono utilizzati per stabilire
relazioni tra ciò che accade in alto con quello che accade in basso
frammentando (anche per limiti oggettivi di spazio) i corpi degli attanti e
costruendo le loro azioni come gag97. Queste ultime poi subiscono
l’esasperazione di precisi meccanismi di causa-effetto e, anziché portare ad un
inevitabile punto di rottura, provvedono tra loro ad annullarsi reciprocamente.
Questo magma di corpi diventa allora un oliato ingranaggio che sposta, dentro
un piccolo appartamento, l’inarrestabilità, la caoticità e il respiro meccanico
della folla degli esterni di questa New York quasi spossessata dei suoi
elementi primari: i grattacieli e, per l’appunto, la folla. In sostanza gli interni
del film, limitati per lo più ai due appartamenti di Holly e Paul che
scandiscono una chiusura, fanno sì che, come sostiene Adriano Aprà 98, la
pellicola sia anche una manifesta critica della commedia sofisticata di
evasione.
Quanto ai rari esterni, sono spesso segnati dall’amarezza degli addii e
sanciscono la decapitazione del mito, di una identità dolorosa che si vuole
soffocare per sempre. Lo si registra, ad esempio, negli incontri tra Paul e l’ex
marito di Holly, Doc, in un parco deserto; in quelli tra Holly, sempre con Doc,
alla stazione degli autobus dove lo accompagna per congedarsi da lui per
sempre; e anche in quelle tre tappe (Tiffany, la biblioteca, il grande
magazzino) che sempre Holly e Paul si concedono per sancire la loro

97
Risulta emblematica la scena in cui Holly sta fumando con un lunghissimo bocchino.
Tutt’intorno si è sviluppata una ressa che pressa i corpi e li fa aderire l’uno all’altro creando
una sorta di unica conformazione così da impedire di rendersi conto degli effetti dei propri
gesti. La sigaretta di Holly, sfuggita al suo controllo, comincia ad incendiare la composizione
di paglia del civettuolo cappellino di una donna che le dà le spalle. La situazione potrebbe
degenerare e invece la stessa Holly, del tutto ignara di cosa sta provocando, domanda che ore
sono al suo interlocutore il quale per rispondere ruota il polso per osservare l’orologio e
inavvertitamente rovescia il contenuto del bicchiere che teneva in mano, spegnendo
involontariamente il piccolo incendio che si era sviluppato.
A proposito del meccanismo della gag, cfr. Juliette Nacache, Il Cinema Classico Americano,
Le Mani, Recco, 1996; Giorgio Cremonini (a cura di), Playtime. Viaggio non organizzato nel
cinema comico, Torino, Lindau, 2000; Giorgio Cremonini, Charlie Chaplin, Firenze, La
Nuova Italia, 1977; Giorgio Cremonini, Buster Keaton, Firenze, La Nuova Italia, 1976;
Roberto Nepoti, Jacques Tati, Firenze, La Nuova Italia, 1978; Giorgio Cremonini, Jerry
Lewis, Firenze, La Nuova Italia, 1979.
98
Cfr. Adriano Aprà, I miti infranti, in Edoardo Bruno (a cura di), Blake Edwards, L’occhio
composto, Genova, Le Mani,1997.

56
complicità e per scambiarsi le rispettive personalità. In quest’ultimo caso si
tratta di una comunicazione che avviene non tanto attraverso un dialogo, o
attraverso una reciproca manifestazione intima, ma attraverso un gesto:
consegnano l’uno all’altra gli emblemi di appartenenza ad un luogo, inteso
come una loro emanazione: Tiffany per Holly e la Biblioteca comunale per
Paul, che fa lo scrittore.
Tuttavia, entrambi questi ambienti non riescono a sancire una
esternazione realizzata delle rispettive personalità: Holly non può permettersi
di comperare nessun articolo regalo da Tiffany, e il nome di Paul è
semplicemente una schedina anonima di un autore qualsiasi, per la
bibliotecaria. I luoghi che dovrebbero essere la loro proiezione ideale li
respingono. Essi trovano la loro unica legittimazione come coppia nel
supermarket, dove addirittura sono costretti a rubare due maschere per potersi
cucire addosso una identità, per quanto provvisoria e fittizia. A questo
proposito c’è un episodio interessante, che si verifica durante la preparazione
e la realizzazione del furto. Tutti i tentativi che Holly e Paul fanno per
occultare i vari oggetti che provano a portare via attirano sempre l’attenzione
di un arcigno sorvegliante, attento ai loro minimi movimenti. Soltanto quando
i due “ladri” improvvisati decidono di prelevare da una cesta due maschere tra
loro fatalmente complementari, quella del gatto e della volpe, e di indossarle,
nessuno li nota, tanto che possono uscire con fare oltremodo circospetto dal
negozio e correre fino a casa, come soccorsi da una magica invisibilità. Sono
maschere protettive, ma soprattutto sanciscono la schiavitù di un ruolo
codificato e prefissato che li assume in questo teatro urbano come maschere,
e, come tali, liberi di agire finché restano all’interno di questo palcoscenico,
ma che tuttavia li colpisce nel momento in cui tentano di fuggire. Holly infatti
prova a lasciare New York, e lo fa cercando di farsi sposare dai ricconi di
turno che possono condurla via in un paese straniero. Tutti i suoi tentativi
naufragano anche perché la donna finisce per fare le spese dello stesso
bagaglio di finzioni che durante tutto il film ha messo in campo. Quella città
che lei stessa, all’inizio del film, ha provveduto ad aprire e a risvegliare con il
suo arrivo e che la consacrava come un’anima prescelta, ora la avvolge in un
abbraccio mortale. Tutti gli esterni, pertanto, si rivelano mistificanti quanto gli
interni: l’attestazione, questi ultimi, di una volontaria individualità artificiale,

57
sfuggente e semiclandestina. Si pensi a quale importanza riveste il trucco per
Holly che conserva profumi e belletti in tutti i luoghi della casa, anche quelli
più impensabili (la cassetta delle lettere, il frigorifero), affinché siano ovunque
e sempre disponibili, strumento essenziale di mediazione con la vita della
città.

Holly in definitiva è espressione, come abbiamo cercato di mettere in


evidenza, di questa doppia interiorizzazione. È un personaggio che già nel
nome rivela di essere una città a metà (Holly metà di Hollywood). Come sarà
per l’Alvy Singer (Woody Allen) di Manhattan, Holly ama New York. È la
sua città, quella che fin dall’inizio l’ha partorita e l’ha costruita, e quella in cui
vorrà con tutte le sue forze rispecchiarsi. New York è quello schermo che la
riflette e la legittima ad apparire, a recitare, a brillare, ma è anche quello
stesso schermo su cui lei stessa ha provato a dettare le regole del proprio
universo.
Proiezione dei protagonisti o territorio concreto che appare instabile
perché capace di attivare fantasmagorie, la città, la sua immagine, pare
pertanto garantire una aderenza tra cityscape e mindscape99. Lo sostiene
un’analisi di Alberto Abruzzese, che prende come spunto l’incipit dei film
americani ambientati in città, quando sottolinea: “c’è una perfetta coincidenza
tra territorio fisico e mentale […]. Quando vediamo un film americano accade
assai spesso che sui titoli di testa o di coda appaiano le panoramiche delle città
di New York o di Los Angeles. Queste immagini indicano lo spazio in cui o
da cui si svilupperà la narrazione. Ma soprattutto indicano l’immaginario in
cui essa si colloca, le modalità espressive che sfrutta, le sensibilità di cui è il

99
Per molto tempo sembrava esserci uno scarto tra cityscape e mindscape, cioè si presentava
un divario tra la forma della città culturale e i rapporti sociali. Nell’ Ottocento sembra che,
come sosteneva Baudelaire nella poesia Il cigno, “la forma della città cambia più velocemente
dell’anima dei mortali”. Da allora si è discusso se la maggiore velocità di cambiamento
attribuita alle forme fisiche fosse tipica della città industriale dell’Ottocento o se invece, alla
fine del secolo successivo, la grande accelerazione non fosse proprio nella cultura e nelle
menti delle persone. Oggi, forme e funzionamento della città fisica e cultura e sensibilità della
gente hanno trovato un equilibrio, così che cityscape e mindscape sembrano sovrapporsi.
Cfr. ad esempio: Giandomenico Amendola, La città postmoderna. Magie e paure della
metropoli contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1997,(2003³); Pierre Ansay, René
Schoonbrodt (a cura di), Penser la ville: choix de textes philosophiques, AAm Editions,
Bruxelles 1989.

58
prodotto”100. L’uso di immagini della città americana è così frequente nella
zona pre-liminare101 in cui lo spettatore si accinge ad entrare nel film, che
queste costituiscono un’autentica soglia, una chiave indispensabile per
accedere alla fantasmagoria del cinema.
Questa porta di ingresso ha assunto progressivamente le caratteristiche di un
marchio, di un riconoscibile patrimonio immaginario dello spettatore. Esso
accende aspettative e ne guida i percorsi di metamorfosi. Sono immagini che
con grande frequenza vengono attivate dal dispositivo della descrizione 102, la
quale, nel nostro caso, richiama e rinforza lo spazio della memoria dello
spettatore: quello spazio mitico e reiterato a cui si è fatto riferimento nel
capitolo Uno.
Tali rappresentazioni funzionano allora da “teaser non dell’azione e del
racconto, quanto piuttosto della sostanza mitologica a cui fanno riferimento,
come aura del cinema in quanto tale, del cinema appunto come forma epocale
della metropoli”.103

100
Alberto Abruzzese, “Metropolizzazione” in Id. ,Valeria Giordano (a cura di), Lessico della
comunicazione, Roma, Meltemi, 2003, p. 330.
101
Per quanto riguarda la funzione di soglia negli incipit letterari si può fare riferimento a
Gerard Genette, Seuils, Paris, Éditions du Seuil, 1987; [trad.it. Camilla Maria Cederna (a cura
di), Soglie: i dintorni del testo, Torino, Einaudi, 1987; e a propostito degli incipit
cinematografici a Veronica Innocenti eValentina Re (a cura di), Limina: le soglie del film,
Udine, Forum, 2004.
102
“La descrizione non fa certamente appello, come la narrazione, alla medesima «coscienza
linguistica»[…]una struttura narrativa […] in quanto vettore orientato,fa piuttosto appello da
parte del lettore ad una prevedibilità di tipo logico;[…] un sistema descrittivo prospetta […]
un orizzonte d’attesa lessicale e stilistico, in cui ci si aspettano delle serie semiotiche, in cui le
nozioni di inclusione, di rassomiglianza, di contiguità sembrano più importanti che non quelle
di trasformazione ed inversione[…] Descrivere significa quasi sempre attualizzare un
paradigma lessicale latente, sotteso da un sapere referenziale sul mondo[…]in quanto
l’insieme del sistema descrittivo è anch’esso organizzato globalmente come equivalenza
permanente:l’equivalenza tra una espansione lessicale e una condensazione-denominazione
lessicale(quando si legge una serie di termini di botanica, una serie di nomi di fiori, questa
successione deve essere percepita come equivalente, per il tempo di durata della lettura, della
parola giardino). La descrizione organizza dunque la persistenza della memoria di uno stesso
segno attraverso una pluralità di segni diversi”.
Philippe Hamon, “Qu’est-ce que une description?”, Poetique n. 16, 1973; [trad.it. Antonio
Martinelli, Cos’è una descrizione, in Id., Semiologia, lessico, leggibilità del testo narrativo,
Pratiche, Parma-Lucca, 1977 pp. 66-67].
103
Alberto Abruzzese,”La parola dell’architetto”, in Maria Galbiati (a cura di), Proiezioni
urbane. La realtà dell’immaginario, Milano, Tranchida, 1989, p. 102
Per una interessante ricognizione sulle immagini descrittive della città nei serial televisivi
contemporanei quali ad esempio Seinfield, Friends, Sex and the City, Felicity, The Sopranos,
che disegnano un “postcard effect”ed un “turismo narrativo” si rimanda a William J.Sadler e
Ekaterina V. Haskins, “Metonimy and the Metropolis: Television Show Settings and the
Image of New York City”, Journal of Communication Inquiry, vol.29, n. 3 (luglio) 2005, pp.
195-216.

59
Per tornare ora allo specifico di Breakfast at Tiffany, possiamo
quindi concludere che la vicenda ha presentato uno spazio dove la città
dettava i contrafforti della scansione narrativa, mettendo quasi in secondo
piano l’importanza della progressione temporale: il film giocava proprio su
quella sospensione del tempo consolidata, per quanto riguarda la messa in
scena urbana, ancora dal noir. Il che tuttavia non significa che nella pellicola
di Edwards la dimensione tempo sia assente o che non fornisca una
segnaletica di orientamento, ma piuttosto andrà rilevato come una certa
tensione compositiva abbia preso il sopravvento anche in quei generi, come la
commedia, che tendenzialmente sottomettevano lo spazio al tempo, e al tempo
dell’azione in particolare. È una tendenza che prosegue, come prima
annotavo, quella linea poetica espressa in termini più generali dalla modernità
e dalla modernizzazione, che si era fatta interprete di una rimozione 104 dello
104
Soprattutto con l’avvento della modernizzazione che si era concentrata sul progresso come
suo oggetto teorico e sul tempo storico come sua dimensione principale, lo spazio viene
ridotto ad una categoria di riflessione e di applicazione contingente che viene assorbita nel
concetto di progresso.
Proviamo a individuare e a riassumere alcuni dei nodi che hanno giustificato questa
circostanza di esclusione o minimizzazione all’interno degli studi semiologici, linguistici o
filosofici.
- I formalisti russi hanno dato ampio rilievo alla economia che impregnava di sé la
logica delle azioni assegnando un peso maggiore alle questioni della temporalità ritenendo
che queste potessero offrire una stabilità e una modellizzazione delle strutture narrative.
- Secondo Gerard Genette dal momento che siamo in grado di raccontare una storia
senza fare riferimento a luoghi, ma non possiamo esimerci dal collocarla in un tempo, le
determinazioni temporali, in ambito narratologico, sono più importanti di quelle spaziali; cfr.
Gerard Genette, Figures III, Paris, Éditions du Seuil, 1972; [trad.it. Lina Zecchi, Figure III.
Discorso del racconto, Torino: Einaudi, 1976, in particolare le pp.262-263].
Peter Brooks sostiene, dal canto suo, che il tempo, rispetto allo spazio, agisce sull’uomo in
modo “più costrittivo” in quanto l’essere umano è mortale e la narrativa usa sempre prendere
le mosse più dalle esperienze che tracciano le tappe costitutive della sua vita che dai suoi
spostamenti nello spazio; cfr. Peter Brooks, Reading for the plot: design and intention in
narrative, Oxford, Claredon Press, 1984; [trad.it Daniela Fink, Trame. Intenzionalità e
progetto nel discorso narrativo,Torino, Einaudi, 1995, p.24].
- Paul Zumthor dice che, per quanto riguarda la filosofia, l’esperienza dello spazio,
rispetto a quella del tempo, è reversibile e quindi ancora una volta una “maggiore costrizione”
del tempo sarebbe il vincolo o la necessità di inscrizione nella lingua; cfr. Paul Zumthor, La
mésure du monde, Paris, Seuil, 1993;[trad.it. Stefano Varvaro, La misura del mondo. La
rappresentazione dello spazio nel Medioevo, Bologna, il Mulino, 1995, pp.11-12].
- Infine si ritiene da più parti che non abbia giovato la stretta connessione o
coincidenza che si è venuta a costituire fra spazio e descrizione, dal momento che questa sorta
di equivalenza ha fatto della descrizione un oggetto poco studiato, considerato cioè una
“ancilla narrationis”; cfr. Gerard Genette, Frontiere del racconto in Roland Barthes et alii,
L’analisi del racconto, Milano, Bompiani, 1969.
Per una più estesa ricognizione sulle cause della rimozione della categoria spaziale, si può
leggere Sandra Cavicchioli, Spazialità e semiotica, in Id., I sensi lo spazio, gli umori e altri
saggi, Milano, Bompiani, 2002, pp.154-157. Per quanto riguarda, nello specifico, lo spazio
cinematografico, André Gardies lamenta come lo spazio filmico sia vittima di una

60
spazio, rimozione che aveva investito settori, quali ad esempio la narratologia
e la semiotica, che con il cinema hanno stretto, soprattutto a partire dagli anni
settanta, rapporti significativi e stimolanti.

Tiffany non è certo un caso isolato, all’interno di una categoria come quella
della doppia interiorizzazione della città, che segnaliamo all’inizio degli anni
sessanta e che si avvia ad esprimere anche un vincolo, una subordinazione del
tempo rispetto allo spazio della messa in scena. All’interno di questo registro
interpretativo, The Apartment ( L’appartamento, Billy Wilder, 1960) sviluppa
ulteriori modulazioni.
L’esordio della pellicola di Wilder esercita una collocazione del
personaggio principale all’interno dello spazio urbano che, come è già stato
sottovalutazione in campo teorico, “che si tratti della semiologia o dell’analisi strutturale del
racconto”, in quanto parente povero del senso. Secondo lui, infatti, lo spazio è collocato o
relegato al primo gradino di una catena che porta alla significazione filmica attraverso un
percorso “segnato, graduato, gerarchizzato”: spazio-tempo-azioni-significazione. Bisogna
attendere la fine degli anni cinquanta affinché, anche attraverso la rivalutazione di certi
classici e una politica degli autori, si potesse dedicare allo spazio una attenzione che mirasse
ad uno statuto teorico almeno di pari dignità rispetto al referente temporale. Infatti, sostiene
ancora Gardies: “fintanto che il racconto filmico tende alla valorizzazione dell’illusione
referenziale e rispetta perciò la gerarchizzazione dei suoi elementi costitutivi, lo spazio
subisce un effetto di occultamento; invece con l’avvento di una certa modernità, si incrina la
bella sicurezza del discorso pieno e si offusca la trasparenza della scrittura; lo spazio, sul
piano del significante come su quello del significato, chiede di essere rivalutato, reclama un
nuovo spazio teorico”. André Gardies, L’espace du récit filmique: propositions, in Daniel
Chateau, André Gardies, Françoise Jost, et alii, Cinémas de la modernità: films,théories,
Paris, Klincksieck, 1981; [trad.it. Lo spazio del racconto filmico, in Lorenzo Cuccu, Augusto
Sainati (a cura di), Il discorso del film. visione, narrazione, enunciazione, Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane, 1988, pp. 53-74].
Va segnalato, inoltre, che ad anticipare le giuste osservazioni di Gardies aveva già provveduto
Hauser, evidenziando quanto lo spazio filmico avesse avanzato una visione ed una
articolazione della dimensione temporale fortemente spazializzata: “nel film lo spazio perde il
suo carattere statico, la sua inerte passività per farsi dinamico, nasce davanti ai nostri occhi. È
fluido, illimitato, aperto, un elemento che ha la sua propria storia, i suoi momenti le sue tappe,
i suoi stadi irripetibili. L’omogeneo spazio fisico assume così le caratteristiche del tempo
storico composto di elementi eterogenei. Le singole fasi del movimento non sono più della
stessa specie, né le singole porzioni dello spazio di ugual valore. Il primo piano non ubbidisce
solo a criteri spaziali, ma rappresenta uno stadio da raggiungere e superare nel discorso del
film. Nel tempo del film noi ci muoviamo come di solito avviene solo nello spazio, cioè
liberissimi di cambiar direzione: passiamo dall’una all’altra fase del tempo, come da una
stanza all’altra, separiamo i singoli stadi nello sviluppo degli eventi e li raggruppiamo
suppergiù secondo criteri di ordine spaziale. In breve, il tempo qui perde la sua ininterrotta
continuità e la sua direzione irreversibile. Si può fermarlo nei primi piani, invertirlo nelle
visioni retrospettive, recuperarlo nelle immagini della memoria e saltarlo nelle visioni del
futuro”. Arnold Hauser, Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, München, C.H. Beck;
[trad. it. Maria Grazia Arnaud, Storia sociale dell’arte, vol. IV, Torino, Einaudi, 1956, (trad.
Anna Bovero,1987²,p. 233)].

61
notato, proprio per la particolare attenzione nei confronti dello spazio
suggerisce quella del John Sims di The Crowd, ( La folla, King Vidor, 1928).
Anche il C.C. Baxter di The Apartment, dopo una serie di vedute aeree che
introducono il contesto della città di New York, viene espressamente riferito e
collocato all’interno di un grattacielo. Questo è inquadrato in totale
dall’esterno ed ospita, come una città nella città, la compagnia di assicurazioni
presso la quale il nostro uomo presta servizio. E come accadeva per la messa
in quadro di John Sims nel film di Vidor, la macchina da presa ricerca e
individua Baxter come una delle tante postazioni tra file infinite e simmetriche
di scrivanie. Anche lui, attraverso questo procedimento di messa in scena, è
messo al mondo, reso visibile, come un figlio legittimo e naturale di questa
città che ne è il grembo, di cui incarna i geni. Rispetto a Breakfast at Tiffany,
che si concentrava su una venuta al mondo tutto sommato sospesa in una bolla
magica, The Apartment fin da subito stringe il personaggio all’interno di una
rete, di una griglia spaziale che lo irrigidisce e lo posiziona geometricamente.
Egli appare come un piccolo punto su una ordinata – il suo luogo di lavoro: un
edificio la cui altezza è la proiezione di tutte le sue aspirazioni e dove l’ascissa
è rappresentata dalla strada, che invece incarna le sue umiliazioni e le attese
frustrate.
L’attenzione primaria al regime spaziale è segnalata, proprio in avvio del film,
105
da una voice over che recita: “Collocando tutti i cittadini di New York in
posizione orizzontale e calcolando una altezza media di un metro e
sessantanove, da Time Square si potrebbe raggiungere Karachi nel Pakistan”.
Alla città verticale mostrata da immagini documentarie di repertorio, e quindi

105
La voice over è una voce di commento o di narrazione che rientra nella categoria più ampia
di suono off ,“quello la cui supposta sorgente è non soltanto assente dall’immagine, ma anche
non diegetica, vale a dire situata in un altro tempo e in un altro luogo, rispetto alla situazione
direttamente evocata”
Michel Chion, L’audio-vision. Son et image au cinéma, Paris, Éditions Nathan, 1990; [ trad.it.
Dario Buzzolan, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Torino Lindau, 2001, p.67].
Rispetto alla definizione data da Chion il caso offerto da The Apartment risulta particolare e
merita una integrazione. In principio ascoltiamo una classica voice over di puro commento
delle immagini di presentazione dell’ambientazione del film, per poi scoprire, solo in un
secondo momento, che quella stessa voce appartiene al protagonista della pellicola e non,
com’era lecito aspettarci, ad un semplice commentatore estraneo alla vicenda.
Pertanto, il suono off dell’incipit del film di Wilder si può interpetare come una voice over
omodiegetica dal momento che appartiene ad un personaggio visibile e interno alla diegesi,
per quanto non lo vediamo pronunciare direttamente le parole di commento alle immagini che
vediamo.

62
atemporali (girate cioè chissà quando rispetto alle riprese del film in
questione), si affianca l’immagine spianata, appiattita, di un individuo che può
essere solo una piccola traccia nello spazio, una coordinata su un piano
orizzontale assente nel tempo. La voice over accompagna ancora le immagini
sul posto di lavoro, si concentra su professione e mansioni e scandisce una
sequela tambureggiante di numeri, di dati che non solo esprimono un
assoggettamento burocratico, gerarchizzato del singolo individuo, dove ogni
aspetto della vita è un ramo assicurativo, ma ne mettono in evidenza proprio
una fredda valutazione quantitativa. In questa città l’essere umano è
semplicemente una unità di misura geografica o economica, non emotiva, né
desiderante, e in questo percorso spaziale e numerico egli perde la sua
dimensione, il suo volume, il suo tono nel tempo e acquista la sola
dislocazione nello spazio.
Non si tratta, tuttavia, di una estensione che preveda uno sfogo
palese verso uno spazio esterno. L’interiorizzazione della città è talmente
radicata che, come vedremo, gli spazi pubblici hanno preso il posto di quelli
privati. Anche per il protagonista del film di Wilder le proiezioni dei propri
desideri sullo spazio esterno urbano (cioè della vita privata su quella
pubblica), in termini di arrampicata sociale, sono molto forti: basti
semplicemente pensare alla chiave dell’appartamento che trova, come anima
gemella, nei sogni di Baxter, la chiave del bagno dei dirigenti.
Come in Tiffany, allora, gli spazi esterni sono molto rari, e, laddove
compaiono, rispetto agli interni, tradiscono una maggiore solitudine
dell’individuo, che non può nemmeno indossare le maschere che avevano
consentito ad Holly e Paul di diventare invisibili, anche solo per breve tempo.
Il Baxter (Jack Lemmon) di The Apartment, che presta, per l’appunto, il suo
appartamento ai propri dirigenti aziendali per ottenerne vantaggi in termini di
carriera, viene ripreso a dormire in un Central Park notturno, spoglio e
desolato; oppure, lo vediamo davanti a un teatro, nella vana attesa dell’arrivo
della donna di cui è innamorato.
Gli interni di Tiffany, gli appartamenti di Holly e Paul, esprimevano
certamente per lo più solitudine, precarietà, claustrofobia, e una diffusa
provvisorietà, ma, in qualche frangente, mantenevano una sottile e fragile
pellicola di intimità. Quelli del film di Wilder, oltre alle qualificazioni di cui

63
sopra, ne aggiungono una che le travalica: diluiscono cioè, in un unico colore
la dimensione pubblica con quella privata. Gli interni di The Apartment infatti
sono all’insegna della promiscuità: luogo di lavoro e casa diventano quasi
indistinguibili. Se Holly dimenticava sempre le chiavi di casa (tranne nel
momento in cui ritorna indossando emblematicamente una maschera), Baxter
prostituisce volontariamente il proprio spazio domestico lasciando le chiavi
sotto lo zerbino, sempre a disposizione dei suoi superiori, così da determinare
un andirivieni continuo di funzionari che travasano i loro affari (che da privati
sono diventati pubblici, dal momento che tutti i fruitori sono al corrente dei
molteplici utilizzatori) dall’ufficio alla casa di Baxter.
D’altro canto il posto di lavoro viene spesso declinato come il luogo che vive
in funzione di quello spazio intimo prostituito, laddove l’assegnazione
dell’appartamento segue addirittura le procedure dell’iter di una pratica
amministrativa. Due esempi esplicativi: la chiave dell’appartamento che
circola in una busta facendo il giro dei piani recapitata da un fattorino, e
l’agenda di Baxter che, anziché contenere appuntamenti di lavoro, è il
calendario delle giornate in cui la sua casa è occupata dai funzionari dei vari
uffici i quali, a conforto della permeabilità dell’estensione dei due ambienti,
sono tutti al corrente del passar di mano delle chiavi. Spesso sembra dunque di
assistere ad una sovrapposizione dell’appartamento e delle sue logiche di
fruizione sul funzionamento della stessa società di assicurazioni, senza
dimenticare l’aspetto di messa in scena dei due spazi, che prevedono
l’impiego di una pressoché onnipresente profondità di campo, così da
innescare un’ulteriore parentela indissolubile.

Una storia d’amore, come già accadeva in Tiffany, sembra fare da guida, ma
anch’essa, per larga parte, resta filtrata dalla sovrapposizione pubblico-
privato. La donna di cui Baxter è innamorato è una addetta agli ascensori della
sua compagnia: l’ascensore del grattacielo fa dunque da legame tra desiderio
di conquista di una posizione dirigenziale e quello del successo in amore. E se
lo sviluppo di questa vicenda sentimentale sembra mantenere la rotta di una
progressione temporale, tuttavia la costruzione della pellicola evidenzia in
alcuni punti, se non proprio il fatalismo di una frustrazione delle previste

64
attese narrative, almeno una forte ambiguità. La scena che forse ci sembra più
adatta a proporsi come miccia di questa impressione riguarda il momento in
cui Baxter può approfittare di uno dei rari momenti di intimità in casa propria.
Mentre si appresta a consumare un cibo precotto accende la tv che sta per
trasmettere Grand Hotel (1932) di Edmund Goulding, film che accoglie una
parata di star invidiabile (Greta Garbo, John Barrymore, Joan Crawford,
Lionel Barrymore, Wallace Beery) una qualità opportunamente enfatizzata dal
presentatore del programma. Tuttavia, l’attesa della messa in onda del film
verrà più volte dilazionata da continue promozioni pubblicitarie. A Baxter,
sconfortato, non resta che spegnere l’apparecchio e andare a letto. In questo
caso, le promesse di una storia annunciata non vengono mantenute: non può
esistere alcuna progressione narrativa effettiva all’interno di uno spazio
televisivo prostituito che richiama, già nel titolo del film (Grand Hotel), uno
spazio molto più piccolo, e senz’altro meno luminoso, che, tuttavia, è
altrettanto svenduto e spogliato di identità di quello televisivo. La casa di
Baxter allora, attraversata di continuo da presenze estranee, registra la
precarietà di costruzione di una storia personale in cui il nostro impiegato
risulta essere interessante solo in quanto “corpo”. Un corpo idoneo
esclusivamente per gli studi di anatomia patologica, come dichiara il dottore
suo vicino di casa, il quale vorrebbe per l’appunto che dopo la morte, Baxter
lasciasse le proprie spoglie all’Università.
La decisione del protagonista di abbandonare i due spazi, quello
dell’appartamento e quello dell’ufficio di dirigente (ottenuto proprio grazie
allo sfruttamento della sua casa), determina la chiusura della vicenda e
l’avvicinamento della donna amata. Come per il finale di Breakfast at Tiffany,
anche qui la cornice è costituita da uno spazio spoglio (Baxter ha
impacchettato tutto per il trasloco), ma, contrariamente a Edwards, Wilder,
anziché contrappuntare l’unione della coppia con una costruzione che la
immerga in uno spazio claustrofobico ben visibile, decide di rinunciare alla
profondità di campo all’interno dell’appartamento, e di comporre una
rassicurante inquadratura frontale della coppia seduta sul divano a giocare a
carte, come nelle riprese dei più classici quadretti americani filtrati dagli anni
cinquanta. È un cambio di rotta significativo, forse anche troppo marcato da
un punto di vista formale rispetto a tutto il film, il che lascia una certa

65
ambiguità irrisolta sul futuro destino della coppia nata da questo camaleontico
appartamento.

2.2 Interiorizzazione totale dell’ambiente urbano nel corpo dei


personaggi

Nei film che ora prenderemo in considerazione l’introiezione


dell’ambiente urbano, ancora più di altre rappresentazioni, si basa sul
desiderio di appartenere ad una immagine, ad una logica di affermazione e di
proiezione di sé che diventa tutt’uno con l’incorporeità della città del cinema,
che a sua volta, pertanto, risulta una istanza quasi sempre invisibile.
L’assunzione della città hollywodiana avviene sul e dentro il corpo dei
personaggi: il corpo diventa l’unica traccia possibile per rendere l’invisibile
urbano: è un corpo che reca con sé tutte le ferite inferte da quello spazio
aspirato al proprio interno. Questa forma di interiorizzazione è avvenuta in
modo così totalizzante e perverso, da non poter rimandare all’esterno alcuna
immagine: lo sfondo, la città, per questi personaggi, rappresenta un loro
violento rimosso, spesso ineffabile – pena, in molti casi, addirittura la morte.
Da un lato, dunque, questa città è un mostro non rappresentabile, che alberga
come un demone all’interno dei personaggi e non può essere estirpato;
dall’altro, sono i personaggi stessi che, volontariamente, custodiscono
gelosamente, come un segreto inviolabile, quello scenario urbano di gloria,
irraggiungibile o rifiutata, cui non possono dare visibilità.
Rintracciamo queste peculiarità in quelle pellicole che per lo più investono il
contesto della città di Los Angeles e, nello specifico, l’universo
cinematografico di Hollywood. È il caso di What Ever Happened to Baby
Jane?( Che fine ha fatto Baby Jane?, Robert Aldrich, 1964), Heat ( Calore,
Paul Morrissey, 1972), The Day of the Locust ( Il giorno della locusta, John
Schlesinger, 1975), Barton Fink (Ethan e Joel Coen, 1991), The Players, ( I
Protagonisti, Robert Altman,1992).
Si tratta di film che spesso si concentrano in un unico ambiente determinando
quella implosione del mito della città del cinema a cui abbiamo accennato.
C’è la casa in stile gotico di Baby Jane, dove due sorelle consumano una lotta
senza quartiere: qui si scontrano le loro infermità, fisica di Joan e psichica di

66
Baby Jane, ostaggi entrambe di una perversione dettata dalle frustrazioni del
loro ormai trapassato successo nel mondo dello spettacolo. C’è l’albergo di
Burton Fink, ricettacolo mentale del tormento di uno sceneggiatore, dove
pernottano i liquami di una creatività, cresciuta in principio come erba
spontanea e che marcisce al contatto con il luogo del cinema per antonomasia.
Incontriamo poi nel film di Morrissey un residence di nullafacenti che
trasformano l’attesa annoiata di una nemmeno cercata occasione proveniente
da Hollywood, nella disarmante e arida periferia della propria vita. Troviamo
ancora un residence, quello di San Bernardino Arms dell’opera di Schelisinger
che, per quanto ricostruito in studio (come del resto tutto il film) con le
sembianze di una sorta di giardino dell’Eden, accogliente e rigoglioso, si
rivela una sorta di waste land. È un luogo che richiama una Hollywood come
un territorio invaso da una natura matrigna, aspra e rude, è lo spazio di una
gold rush in cui si dibattono personaggi percorsi dal brivido della fine,
avventurieri che annaspano sperduti nella rete di questo Eldorado
irraggiungibile.
I rari esterni che rintracciamo in queste produzioni non rilasciano una loro
effettiva autonomia di azione. Essi appaiono sempre subordinati alla logica di
uno spazio interno che è un costante richiamo al corpo, vero e unico
catalizzatore della vicenda. E’ quanto ci appare evidente nel corpo-albergo in
putrefazione di Barton Fink, nella casa-vagina di Baby Jane, del residence di
Day of the Locust che mummifica i rifiuti della Storia, o negli studios di The
Players che, proprio a partire dal lunghissimo piano sequenza dell’esordio,
attesta un fantasmatico, inesplicabile e gratuito passaggio di corpi e voci.
Il fatto poi che tre delle pellicole prese in esame si concludano en plein air –
su una spiaggia la pellicola di Aldrich e dei fratelli Coen; per i viali del centro
di Los Angeles quella di Schlesinger, non significa che sia avvenuta una
liberazione dagli spazi claustrofobici di partenza, al contrario. In Baby Jane le
due sorelle ricercate dalla polizia rimangono alla mercè di uno scenario e di
un pubblico di bagnanti che le etichetta come mummie del passato, rendendo
vana quella lotta mortale per una reciproca affermazione del proprio antico
prestigio spettacolare, che si è consumata tra loro durante tutta la vicenda. In
Barton Fink la spiaggia emana fantasmaticamente da un quadro dell’albergo
andato a fuoco attestandone l’appartenenza ad un universo centripeto. Quanto

67
alla conclusione di The Day of the Locust, che mette in scena un altro incendio
come quello che distrugge l’albergo di Barton, la “fine”si manifesta ancora
come l’espressione di un girone infernale sotterraneo che trasuda i miasmi di
quel mondo hollywoodiano che abbiamo visto, fino a quel momento, battersi
per ottenere proprio una esposizione pubblica e acclamata per le vie di Los
Angeles. Una Los Angeles che in quest’ultimo caso brucia senza le stimmate
della catarsi. Lo fa dopo aver mostrato al suo interno tutte le tracce di un
avvilente decadimento laddove, come osserva giustamente Franco La Polla 106,
le crisi individuali dei personaggi riflettono quelle dell’America stessa, una
interiorizzazione che è diventata di tale portata da restituire, attraverso la
messa in scena delle ambientazioni interne, una nazione di emarginati e
reclusi dai loro stessi bisogni di affermazione.

Una delle rare eccezioni a questo regime di quasi totale invisibilità


dello spazio esterno, ma pur sempre legato ad un contesto autoreferenziale che
prende avvio e si sviluppa intorno al mondo di Hollywood, è Targets
( Bersagli, Peter Bogdanovich, 1967). Il film dichiara come ambientazione
principale un sobborgo di Los Angeles, la San Fernando Valley, oltre ad
alcune vedute di Beverly Hills e del Sunset Boulevard. Costruisce così una
feconda dialettica metacinematografica tra spazi interni ed esterni
modellandoli su due personaggi portatori sia di qualità comuni sia di
antinomie che viaggiano parallele per tutta la vicenda, fino a determinare un
cortocircuito finale nel momento in cui vengono direttamente a contatto. Sono
due personaggi che esprimono, inizialmente, due rapporti analoghi con gli
spazi urbani della Los Angeles città del cinema. Il primo è un ragazzo che in
principio elimina i membri del suo nucleo domestico, colpevoli di aver
replicato da un modello televisivo un contesto asettico da quadretto alla
Norman Rockwell e poi, attraverso un fucile di precisione con mirino
telescopico, comincia a sparare sugli occupanti delle auto che affollano le
freeways, per dirigere, infine, la sua psicosi contro gli spettatori di un drive-in.

106
Cfr. Franco La Polla, Consummatum west. Cowboy, locuste, scarafaggi: 3 film
hollywoodiani di John Schlesinger, in Id., Stili americani, Università di Bologna, Bononia
University Press, 2003.

68
Il secondo personaggio, interpretato da Boris Karloff, recita la parte dell’attore
del cinema dell’orrore che, vecchio e stanco, vuole abbandonare per sempre la
vita del set per condurre una vita normale lontano da quelle platee che lo
hanno consacrato in tutto il mondo.
In entrambi i protagonisti c’è dunque un iniziale punto di congiunzione
determinato dalla volontà di allontanarsi dai loro rispettivi ambienti di
riferimento di cui avvertono il peso di una irreversibile estraneità. Il loro
punto di contatto si innesca a partire da una componente metacinematografica
che ispirerà quel rapporto tra questi spazi urbani che abitano e attraversano.
Questa relazione avviene già dopo la prima sequenza del film. Il giovane sta
acquistando il suo fucile di precisione e, puntando l’arma dall’interno del
negozio, si trova a traguardare, attraverso il mirino, proprio la figura
dell’attore che, dall’altra parte della strada, sta uscendo da uno studio dove ha
assistito ad una anteprima del suo ultimo film. Il fucile del ragazzo esprime un
chiaro richiamo al primordiale fucile cronofotografico di Marey che, come è
noto, fu uno dei prototipi107 più importanti che, opportunamente sviluppati,
portarono alla produzione e commercializzazione delle prime macchine da
presa. Il ragazzo dunque “riprende” il suo primo soggetto che, guarda caso, è
proprio un attore professionista del cinema dell’orrore, orrore che si travaserà
in maniera perversa dalla finzione interpretata dall’attore a quella quotidiana
del ragazzo, dall’interno degli studios agli interni del focolare domestico, fino
allo spazio aperto del drive-in che coagula in sé i due ambienti e i due
personaggi entrambi artefici di due distinti aspetti dell’orrore. Bogdanovich
costruisce progressivamente questo intreccio tra gli ambienti che, in maniera
diretta o simbolica, hanno per protagonisti soggetti e oggetti cinematografici:
il fucile come macchina da presa mortale, la sala di proiezione, il locale
notturno, l’albergo dell’attore, come pure quelli direttamente prelevati dalla
esistenza ordinaria, per quanto deviata, dell’omicida. Compie questa
operazione alternando scrupolosamente le azioni del giovane con quelle di
Karloff, spesso servendosi di analogie, rime, contrasti formali, che ancor di
più validano il loro rapporto linguistico con il cinema. Ad esempio, da una
107
Per una accurata e affascinante escursione sui prototipi che condussero alle prime
macchine da presa si possono almeno esaminare i contributi di Gian Piero Brunetta, Il viaggio
dell’iconauta, Dalla camera oscura di Leonardo alla luce dei Lumière Venezia,
Marsilio,1997;e Laurent Mannoni, Le grand art de la lumière et de l’ombre, Paris, Nathan,
1995; [trad. it. La grande arte della luce e dell’ombra, Torino, Lindau, 2000].

69
panoramica nella camera d’albergo di Karloff si passa ad una panoramica
nella casa del ragazzo; da ambienti interni ed esterni in cui il killer si muove e
che hanno come dominanti il blu e il bianco – dunque colori molto freddi, tali
da esprimere lo stato d’animo occluso del protagonista –, si passa con uno
stacco alle atmosfere calde in cui si muove Karloff, contraddistinte da ricche
miscele di giallo, marrone e beige. È opportuno rilevare, inoltre, sempre
riguardo alle rapporti tra i colori delle ambientazioni e al loro rapporto
metacinematografico, che le dominanti blu scuro che rintracciamo,
paradossalmente, nelle fattezze da “casa della prateria” in cui abita il ragazzo
richiamano in maniera evidente le stesse componenti cromatiche utilizzate per
la scenografia dell’ultimo film gotico girato dall’attore, che ci è stato mostrato
nell’incipit.

Ci sono anche particolari movimenti di macchina che creano tra le due


vicende parallele dei contrappunti efficaci. Penso all’uso frequente, negli
interni della casa del giovane, del long take attraverso cui viene espressa la
sua personalità disturbata. La macchina da presa costruisce infatti uno stato
febbrile di attesa per l’esplosione delle sue azioni e la alimenta con ulteriori
voci e suoni fuori campo che rimandano ad una netta separazione tra il proprio
mondo e quello della famiglia con cui vive. Mentre le scene che riguardano il
vecchio attore sono per lo più costruite con un montaggio ispirato al
découpage classico, e l’unico apprezzabile long take (si tratta di un lungo
dolly in avanti a finire sul primissimo piano di Karloff), guarda caso, quasi per
raccordarlo alla connotazione orrifica di quelli del giovane, si riferisce al
momento in cui racconta una storia che parla di morte. Pertanto, se è vero che
la qualità comune dei due personaggi risiede nella estraneità al loro ambiente
di appartenenza, tuttavia, come visto, viene messa in scena con modalità del
tutto differenti. Addirittura il giovane arriva a mimetizzarsi con l’ambiente, sia
con quello interno sia con quello esterno, dal momento che indossa spesso
abiti dai colori molto simili o identici a quelli dei luoghi che si trova a
frequentare, a testimonianza di una situazione avvolgente e a senso unico che
sente di vivere. Il caso forse più evidente si registra nel momento in cui,
vestito di bianco, sale in cima ad una installazione di gasometri

70
completamente bianchi per poter sparare sulle auto che circolano
sull’autostrada.
Per quanto concerne la assimilazione degli ambienti attraversati o
abitati dai due protagonisti rileviamo poi un interessante passaggio dai
cadaveri della madre e della moglie del ragazzo (composti sui rispettivi letti
dopo esservi stati trasportati dal luogo dell’omicidio), alle sagome
addormentate dell’attore e del suo regista sul letto di un albergo dopo una
forte sbronza. Sono queste alcune delle modalità formali e tematiche con cui
Bogdanovich relaziona ambienti e personaggi e prepara il terreno per
l’incontro tra questi due professionisti del terrore. Il confronto finale tra loro si
giocherà in un drive-in e, quindi, sempre su un piano squisitamente
metacinematografico. Il giovane in definitiva si ritrova a sparare contro due
riti collettivi del movimento: quello della circolazione quasi senza fine sulle
freeways (mito del continuo movimento) e quello dello schermo di un cinema,
altro rito collettivo, espressione per eccellenza di movimento per la cultura
americana: uno schermo all’aperto dove poi tutte quelle auto, già prese di mira
sull’autostrada, sembrano quasi confluire.
Il programma del drive-in prevede un film di Karloff e la sua partecipazione
alla proiezione con un suo commento conclusivo. Il ragazzo è appostato dietro
lo schermo gigante della struttura, ha praticato un foro nel telone e, mentre
scorrono le immagini del film, spara contro gli spettatori. Progressivamente si
diffonde il panico, il killer viene individuato, cerca di sfuggire alla folla, ma si
imbatte nel vecchio attore che gli si fa incontro. A quel punto, il ragazzo,
scivolato ai piedi dello schermo, si sente preso tra due fuochi: vede, sia nello
schermo che davanti a lui, la stessa figura che sta per catturarlo. Spara allora
confuso ad entrambe e, quello che dovrebbe essere il “vero” Karloff (ma la
questione dell’intervento del doppio di celluloide rimane aperta e
affascinante) riesce a disarmarlo e a consegnarlo alla polizia.
Bogdanovich, dunque, allestisce una città capace di proporre un
efficace doppio gioco che prende corpo grazie ai riflessi prodotti dal mondo e
dal linguaggio cinematografico e intercetta uno scambio di accezioni
all’interno della dialettica realtà/finzione. In altre parole gli esterni urbani, pur
presentandosi come realistici, risultano, ad un esame della messa in scena, del
tutto astratti. Questo anche grazie agli interventi cromatici, che disegnano una

71
normalità glaciale e perturbante, mentre i latori di un universo per
antonomasia fittizio, gli ambienti e i personaggi appartenenti al mondo del
cinema, comunicano, con strategie spesso opposte, un mondo non solo
familiare, ma quasi verosimile.
Quella di Targets, in conclusione, è senz’altro una riflessione sul passaggio tra
vecchio e nuovo cinema e istituisce, attraverso la particolare tipologia di
questa messa in scena, una sorta di trampolino per confrontarsi con successive
produzioni che hanno rappresentato la città, soprattutto negli anni settanta,
attraverso particolari dicotomie che analizzeremo più avanti, e che riguardano,
ad esempio, il rapporto tra semidocumentarismo e astrazione.

2.3 Mancata e irrealizzabile interiorizzazione dello spazio esterno.

Alcune pellicole mettono in scena personaggi che desiderano, come


indispensabile per la propria esistenza, una interiorizzazione dello spazio
esterno che, celebrato nella sua ineffabilità, si rivela un inganno, una trappola.
Questa cornice ambientale – ma sarebbe più opportuno qualificarla come
“esistenziale” – è costruita secondo una pura proiezione di forme. Sono
allegorie geometriche, magari anche sinuose, un pirotecnico gioco erotico di
figure, ma che restituiscono, in conclusione, un ambiente arido, un ventre
incapace di accogliere la vita. Ci riferiamo, per esempio, a quelle forme che
esplodono in Manhattan (Woody Allen, 1979) e che si materializzano, per
l’appunto, solo come un puro fuoco di artificio, incapaci di determinare
risultati positivi e concreti sui personaggi verso i quali quell’ambiente
collocato in primo piano si comporta esclusivamente come uno schermo
autoreferenziale.
Si tratta allora di una interiorizzazione sterile: come dirà il protagonista
di Crimes and Misdemeanors (Crimini e misfatti, Woody Allen, 1989),
“l’ultima donna in cui sono entrato è la Statua della libertà”. Lo spazio della
New York del film di Allen non si può interiorizzare perché inesistente,
ideale, autoerotico ed inviolabile.
È uno spazio che già nella sequenza d’apertura, con i suoi quattro piani
di insieme fissi, attesta quanto l’accesso verso l’esterno sia difficile, se non

72
impossibile: il narratore eterodiegetico108, attraverso una voice over, deve
ricominciare ben sette volte per provare, senza riuscirci, a descrivere quella
città le cui immagini stanno scorrendo davanti ai nostri occhi.
L’impressione dunque è quella di una città ineffabile di fronte alla quale,
come nota Jean Mottet109, ogni descrizione arrischiata rischia di perderla per
sempre. La fissità dei piani di New York è particolarmente significativa dal
momento che essa è sinonimo di movimento permanente. Inoltre queste
vedute appaiono del tutto svincolate e asincrone rispetto al desiderio – del
narratore prima e dei personaggi poi – di possederla, di farne il proprio spazio,
dal momento che questo sentimento dovrebbe comportare proprio un’azione,
un atto reciproco dall’interno verso l’esterno, movimento che invece viene
negato ancor prima che la vicenda abbia avuto inizio.
Invece, come abbiamo accennato, la sola continuità che si riscontra tra
gli ambienti esterni ed interni è di carattere formale, grafico: nell’incipit, ad
esempio, dopo i falliti tentativi del narratore di raccontare New York, si passa
dal profilo dei grattacieli a quello delle bottiglie del bar dove quattro dei
protagonisti del film stanno trascorrendo una serata. È una composizione che,
anziché instaurare una forte analogia di intimità tra esterno ed interno,
evidenzia al contrario una dissonanza. Infatti le prime relazioni che si
intuiscono tra i personaggi fanno emergere che alla perfezione delle forme
della città fa da contrappunto l’estrema imperfezione interna, morale, dei suoi
abitanti. A questo proposito, ancora Jean Mottet appunta come “gli esterni
della città, e particolarmente gli esterni naturali, appaiano proprio come la
condizione indispensabile all’espressione di ciò che è dentro! E quando il
fuori manca, allora il dentro entra in crisi”110.
In effetti l’estraneità di questa metropoli nei confronti dei personaggi è
confermata soprattutto dall’assenza di tempo storico: non tanto perché non ci
vengono fornite delle coordinate all’interno delle quali comprendere
l’evoluzione delle innumerevoli storie che si intrecciano, quanto perché Allen,
nell’organizzazione della messa in scena, si concentra nel dare priorità al
tempo ritmico. Questo andamento è dettato dall’incipit attraverso un sintagma
108
Cfr. Gerard Genette, Figures III, Paris, Éditions du Seuil, 1973; [trad.it. Lina Zecchi,
Figure III. Discorso del racconto, Torino, Einaudi, 1976.
109
Cfr. Jean Mottet, “Una pastorale in costume di città. La rappresentazione di New York
nell’opera di Woody Alllen”, Cineforum, n. 400 (dicembre), 2000.
110
Ivi p. 54.

73
a graffa111 che, attraverso un efficace contrappunto rispetto agli establishing
shot del cinema classico restituisce, come spiega André Gardies 112, delle
visioni parziali e sincopate, orchestrate intorno alla musica di Gershwin. La
funzione ritmica pervade dunque l’intera struttura del film:

Manhattan è infatti un film concepito per blocchi, relativamente


autonomi anche quando molto brevi, spesso girati e montati in piano
sequenza. […] L’unità di misura del montaggio è lo stacco netto […].
Manhattan è un film interamente composto da sequenze o sottosequenze
che privilegiano una temporalità interna continua o fortemente
compattata, raccordate tra loro per stacchi netti che impongono un forte
senso di cesura e di segmentazione. […] Ciò che ne consegue è un forte
contrasto tra la temporalità continua interna alle sequenze […] e quella
fortemente discontinua tra le sequenze. È questo contrasto, tra un
andamento continuo e uno discontinuo, che determina il ritmo del
film113.

La messa in scena, anche grazie all’utilizzo del formato scope, convoglia ogni
accadimento verso uno spazio centrifugo, l’inquadratura è spesso lasciata
vuota dalle continue entrate ed uscite dei personaggi: permane solo l’eco,
fuori campo, del loro dialogo.

2.4 Spazio urbano esterno indifferente.

L’indifferenza dello spazio esterno si registra in quel rapporto con il


personaggio per cui quest’ultimo si ritrova ad attraversare l’ambiente urbano
senza produrre su di esso degli effetti significativi e, per converso, anche
l’ambiente non si rivela concretamente come adiuvante od opponente nei
confronti dell’azione di un protagonista che non riconosce più come tale. È
una configurazione ben tracciata, ad esempio, in Point Blank (Senza un attimo
di tregua, John Boorman, 1967). In questa pellicola, un uomo chiamato
Walker è stato ingannato dal suo migliore amico, Mal Reese, che gli ha

111
Si ricorda che per Christian Metz il sintagma a graffa è composto da più piani (brevi scene)
che vengono accostati e trattati come degli esempi tipici di un dato ordine di realtà, di un
concetto, senza collegarli da un punto di vista cronologico.
Cfr. Christian Metz, Essais sur la signification au cinéma, I, Paris,
Klincksieck,1968; [trad.it.Adriano Aprà, FrancoFerrini, Semiologia del cinema : saggi sulla
significazione del cinema, Milano, Garzanti, 1989].
112
Cfr. André Gardies, L’espace au cinéma, Paris, Méridiens Klincksieck, 1993, pp. 131-135.
113
Elena Dagrada, Woody Allen. Manhattan, Torino, Lindau, 1996, pp.50 e 57-58.

74
sparato nella vecchia prigione dismessa di Alcatraz dove i due hanno
organizzato una rapina nei confronti di una potente organizzazione criminale.
Reese, dopo la riuscita del colpo, abbandona l’amico agonizzante e fugge con
l’intero bottino e con la moglie di Walker divenuta sua complice. Il film si
concentra sui tentativi di Walker di recuperare la sua parte di denaro,
riprendersi la moglie e vendicarsi dell’amico.
Le ambientazioni riprese da Boorman costituiscono una serie di
soglie solo attraversate dal personaggio (impersonato da Lee Marvin), per
almeno due ragioni. La prima ha a che fare con il carattere fantasmatico di
Walker: le ferite ricevute nella prigione di Alcatraz avrebbero dovuto
ucciderlo, invece, la sequenza che comprende i titoli di testa e che segue il suo
presunto assassinio, ci mostra l’uomo fuggire a nuoto dall’isola che accoglie il
penitenziario senza offrirci una precisa indicazione della sua morte effettiva,
ma operando in un regime di forte ambiguità sulla sua sorte. In secondo luogo,
l’attraversamento dei luoghi di Los Angeles, dove si è spostata la vicenda per
mettere in scena la ricerca di Walker, sembra anche strettamente legato alla
natura anacronistica dello stesso Walker, che del resto incarna già nel nome il
suo ineffabile passaggio in un mondo che non riconosce e che non gli
appartiene più. Walker infatti stilizza una categoria di gangster che è diventata
una razza vecchia, è una categoria di uomini che ha concluso il proprio ciclo
vitale di fronte ad un mondo che, d’altra parte, è diventato incapace di
contrapporgli antagonisti come referenti chiari. Inoltre le stesse relazioni tra
personaggi, e tra questi e l’ambiente, si giocano non direttamente, ma
all’insegna della mediazione di sistemi elettronici che riducono al minimo
ogni contatto fisico.
Boorman ci offre molto presto il segnale del registro dominante
dell’attraversamento dello spazio urbano. Dopo la fuga da Alcatraz del nostro
uomo, il regista costruisce un montaggio alternato tra immagini della moglie
del protagonista, in casa propria, e quelle di Walker che percorre il lungo
corridoio dell’aeroporto, dove il suono dei suoi passi scandisce un cadenza
temporale ipnotica che fa da colonna sonora anche per le immagini riferite alla
donna. Il tragitto di Walker, ripreso con un carrello a precedere (a parte alcuni
inserti in cui guida un’automobile), è costruito attraverso una dominante
cromatica verdognola e fredda e, attraverso un sonoro sovradimensionato,

75
elabora, più che l’inizio di un percorso, o la preparazione di un’azione da
portare a termine, piuttosto l’eco di un’azione lontana, retaggio esclusivo della
memoria e del rimosso. Boorman conclude questa alternanza con Walker che
irrompe in casa della moglie, sperando di sorprenderla con il suo amante: i
suoi spari contro il letto matrimoniale vuoto sono il primo segnale di un
bersaglio mancato, che diventerà sempre più irraggiungibile ed evanescente.
Si tratta dunque solo del primo indizio di una catena di azioni prive di un
intervento volontario e diretto di questo personaggio, dove egli si registra
come una presenza quasi parallela al corso degli eventi. Già in casa della
moglie si determina un vistoso distacco tra loro, determinato non solo dalla
pressoché completa mancanza di relazione, ma anche da una costruzione
straniante resa attraverso la voice over omodiegetica della donna. Questa,
senza rivolgersi all’uomo, risponde da sola a domande che il marito non le
pone; questi anzi, per tutto il tempo in cui la donna conduce una sorta di
soliloquio, dimostra tutta la sua indifferenza sprofondato in un altrove. Con la
morte della donna, causata da una eccessiva dose di tranquillanti, si attiva una
catena di effetti privi di quella causa che Walker non riesce ad impersonare
direttamente. Questa catena prosegue e si manifesta in una serie di luoghi di
Los Angeles: attici trasformati in fortezze presidiate dai suoi avversari, canali
di scolo delle acque che diventano palcoscenici ideali per agguati allo
scoperto, sottopassi di freeways, ville deserte. Nella ricerca del traditore
Reese, Walker penetra in una serie di ambienti controllati da una potente
organizzazione malavitosa senza alcuna difficoltà, e soprattutto senza che
spesso risultino palesi i sistemi da lui utilizzati. Semplicemente appare, senza
una azione vera e propria che ne manifesti lo sforzo, quasi dotato di una sorta
di invisibilità. Le sue azioni restano sempre poco marcate, gli interventi che
determineranno la morte dei suoi avversari si possono definire come incidenti.
Walker si limita ad essere presente, il resto gli sfugge; ciò che accade non
dipende da una sua precisa volontà. Quando ad esempio Walker cattura
l’amico che lo ha tradito, questi, preso dal panico, perde da solo l’equilibrio e
cade dall’ultimo piano del palazzo in cui ha costruito il suo quartier generale.
Oppure, uno dei capi dell’organizzazione che lo vuole morto rimane a sua
volta ucciso, scambiato per Walker, da un killer che lui stesso aveva assoldato
per eliminarlo.

76
Nel rapporto tra ambiente urbano (sia negli interni che negli esterni) e
personaggi, Boorman opera da una parte creando una assimilazione tra i
protagonisti e l’ambiente, dall’altra offrendo una distanza tra quest’ultimo e
gli attanti.
Alla prima strategia possiamo ricondurre, per esempio, il trattamento
cromatico, per cui spesso i colori degli abiti degli attori e quelli degli oggetti
dello spazio che li circonda si richiamano reciprocamente, stabilendo una
precisa relazione funzionale che toglie umanità ai personaggi, rendendoli una
sorta di estensione degli oggetti e degli arredi. Uno dei casi più evidenti lo
rintracciamo quando Walker si serve della propria cognata, da cui Reese è
morbosamente attratto, per poter raggiungere il suo attico, presidiato giorno e
notte. Durante la fase preparatoria, il verde pallido stabilisce un vincolo
comune tra il colore dell’abito della donna, quello del telescopio pubblico con
cui Walker fa una ricognizione dell’attico, e quello dell’ascensore che dà
accesso al piano privato di Reese. Dunque un essere umano e due oggetti,
accomunati da un identico colore, sono gli strumenti indiretti per arrivare
all’obiettivo di Walker. Oltre ai colori, anche il suono contribuisce ad allestire
una efficace fusione delle azioni dei personaggi nella indifferenza dello
spazio. Emblematica è la scena ambientata nel locale notturno dove viene tesa
una imboscata a Walker da parte di alcuni guardaspalle di Reese. All’interno
del night-club si sta svolgendo una scatenata jam session dove un cantante
intona alcune grida ritmate e accordate con le note suonate dalla band che
esegue la base musicale. A questa session partecipano anche gli spettatori, i
quali vengono sollecitati dal cantante a rispondergli gridando a loro volta. Nel
frattempo Walker, fiutato il pericolo, sale sul palcoscenico e cerca di
guadagnare una uscita laterale, ma qui, proprio dietro le quinte, viene bloccato
da due energumeni. La lotta dei tre uomini e le loro urla ora si accordano con
il ritmo della session. L’atmosfera dell’ambiente e l’apice di fusione tra questo
evento violento e lo spettacolo si realizza quando una cameriera, accortasi
della lotta e degli uomini coperti di sangue, comincia a lanciare delle grida che
esprimono forse il miglior intervento solista sulla session. Un’azione di
violenza estranea al contesto dell’ambiente è stata dunque del tutto risucchiata
all’interno di questo, diventandone parte integrante e suggellando la chiusura
dello spettacolo.

77
Quanto alla seconda strategia, innumerevoli sono i congegni elettronici o
acustici che scandiscono una costante separazione tra gli ambienti e i
personaggi: si va dagli interfono che costituiscono una impermeabilità tra
spazi attigui, agli strumenti ottici che spesso, anziché consentire una visione
migliore, confondono i contorni delle cose nello spazio. L’impossibilità di
Walker di portare a termine un’azione negli spazi a cui accede si lega
indissolubilmente al tema, innescato fin dall’incipit del film, della latente e
rimossa omossessualità maschile tra Walker e Reese. Essi infatti prima
vengono mostrati distesi e avvinghiati l’uno sull’altro in un abbraccio
disperato dopo essersi ritrovati dopo molto tempo, poi Reese, non potendo
soddisfare la sua sessualità con Walker, ne possiede prima la moglie e poi
tenta di conquistarne la cognata. Walker da parte sua manifesta allora tutta
l’impotenza di colui che, perduta la moglie che costituiva un mezzo indiretto
di possesso dell’amico, non riesce a sfogarne il desiderio: il percorso spaziale
che lo può condurre a Reese, e da lì alla soddisfazione del suo obiettivo, non
può che essere impenetrabile, dal momento che convive, ormai, con un
desiderio che non può e non sa colmare.
A partire da Alcatraz, che fa da apripista ad un regime urbano in cui
tutti i personaggi si esprimono come se convivessero in una prigione, tutti i
luoghi di Los Angeles scelti e messi in scena rimandano ad una ambientazione
opaca che sottolinea la sterilità dei personaggi, la loro impossibilità di
“fecondarla” con il loro intervento. Siamo in presenza di un contesto, di una
Los Angeles, non tanto impersonale, quanto insensibile e frigida.
L’organizzazione contro cui si scaglia Walker e che permea la città è una
entità che non ha volto. Essa ha un organigramma che, nella parcellizazione
dei ruoli e nella rigida specificità delle funzioni, non conduce a vertici
concreti che possano impartire ordini o direttive: semplicemente esiste, mentre
non sono chiarite le sue forme e finalità. Walker è il passaporto per il
trasbordo verso un'altra epoca: “quando il film del crimine abbandonò i
viottoli e i bassifondi per il modernismo disumanizzato del grattacielo, il
denaro sparì come oggetto d’uso e fu rimpiazzato dalla nuova moneta del
reame, il potere illimitato, una astrazione”.114
114
Carlos Clarens, Crime Movies. An Illustrated History, New York, Norton, 1980; [trad.it.
Giungle americane. Il cinema del crimine, Venezia, Arsenale Cooperativa Editrice, 1981, p.
222].

78
A ben guardare le sequenze relative a Los Angeles sono un nucleo
avviluppato intorno ad una cornice che nell’incipit e nell’epilogo riguarda
l’isola di Alcatraz. È qui che si concluderà l’esperienza di Walker: qui gli è
stata promessa la restituzione della parte di bottino che a suo tempo Reese gli
aveva sottratto. Sarà sempre ad Alcatraz che il protagonista rinuncerà ai soldi
mettendo il sigillo ad una avventura, ad una ambientazione, che lo ha privato
progressivamente di un obiettivo: è come se, ferito a morte dai proiettili
dell’amico nella sequenza di apertura, avesse reso interminabile l’atto della
morte. La prospettiva finale sull’isola-prigione ormai dismessa e sulla baia di
San Francisco, sanciscono la veduta di un teatro che non ha un sipario da
chiudere sui suoi attori. Quella “tomba d’acqua” con cui lo speaker del
barcone per turisti definisce la rocca della prigione campeggia in primo piano
come esclusivo sipario della città.

2.5 Spazio urbano esterno fantasmatico.

La fantasmaticità dello spazio della metropoli può presentarsi come


il luogo della fine, o meglio, dell’agonia di una civiltà, come accade in Bye
Bye, Monkey (Ciao maschio, Marco Ferreri, 1978), o come un ambiente per lo
più desertificato in cui implode silenziosamente il passato dei protagonisti,
tipologia che può essere applicata, con alcune variazioni, a film come The
King of the Marvin’s Garden (Il re dei giardini di Marvin, Bob
Rafelson,1972) e Brother (Takeshi Kitano, 2000).
In Bye Bye Monkey l’accezione fantasmatica assunta dallo spazio di New
York in rapporto ai personaggi viene articolata principalmente attraverso una
teatralizzazione della storia della civiltà e delle età dell’uomo incarnandosi,
come si vedrà, in determinati luoghi e seguendo diverse modalità di messa in
scena che si intrecciano tra loro determinando un conflitto. È un tipo di
teatralizzazione che esprime esperienze ed azioni di personaggi che
rispondono a logiche logore e prive di spinte vitali. Si consuma in luoghi
magazzino delle scorie della storia, una merce avariata e tossica del percorso
storico e politico dell’essere umano. Già nell’incipit è presente questa prima

79
lettura in quanto l’ambiente esterno è pattugliato da milizie armate che
indossano il corredo completo per proteggersi da aggressioni chimiche o
radioattive.
La città, innanzitutto, si presenta come luogo oggetto di una
minaccia imminente e percorso da improvvise apparizioni che tuttavia non
forniscono in sé una spiegazione né della loro manifestazione né della loro
scomparsa. Le stesse truppe armate, al di là della prima sequenza, non faranno
più la loro comparsa per tutto il corso del film. A questa prima apparizione ne
fa seguito un’altra decisamente più significativa e che costituirà un ancoraggio
privilegiato per interpretare la natura e la conformazione di questo spazio
urbano. Si tratta del corpo di un enorme scimmione di gomma che giace
disteso e abbandonato sulla spiaggia artificiale ricavata lungo l’Hudson River
per la costruzione del World Trade Center. Ferreri infatti costruisce
un’inquadratura in cui la scimmia, in avampiano, risulta aderente, schiacciata
contro la sagoma dello skyline della città collocata sullo sfondo. Per quanto la
relazione tra le due figure possa far pensare ad una classica antinomia urbana
legata al rapporto orizzontale/verticale e/o anche organico/inorganico, il loro
accostamento diretto tuttavia suggerisce una interpretazione che proietta il
quadro verso la rappresentazione di una natura morta. Sono due figure di un
immaginario ormai standardizzato e ipercodificato che, nel registro di
sospensione temporale dettato dal contesto desolato, brumoso, quasi paludoso,
della spiaggia artificiale, esalano i contorni di un fantasma avulso da ogni
retaggio storico.

Il corpo spaziale di questa città si rivela fin da subito come un


mondo falso, una copia, una citazione, si dichiara come luogo eccellente per
ogni tipo di fantasmagoria. È a partire dal corpo di questo defunto Kong
stagliato sullo skyline che Ferreri, da un lato costruisce le fondamenta del
film, dall’altro riflette sulle fondamenta irrimediabilmente contaminate della
nostra civiltà: la scimmia come l’alba dell’uomo su cui aveva già insistito
Stanley Kubrick in 2001: A Space Odissey ( 2001 Odissea nello spazio,
1968).

80
Questo vecchio Kong più che un corpo andato alla deriva e arenatosi
sulla spiaggia, sembra piuttosto emerso dallo scavo, un residuo archeologico
che non verrà rimosso né tantomeno preservato ma progressivamente e con
indifferenza ricoperto dai detriti prodotti per la costruzione delle Twin Towers
al cui simbolico potere fallico sembra delegata ogni fecondazione futura. Da
questo primo sito ancestrale si irradia un percorso che tocca, come accennato,
una serie di luoghi deputati a richiamare l’evoluzione delle epoche storiche e
della vita dell’essere umano. C’è lo scantinato dove vive LaFayette il quale,
incarnando nel nome la fede illuminista nel progresso, si investe del ruolo di
padre putativo di una piccola scimmietta ritrovata nel grembo dello
scimmione. Egli diventa l’educatore di questa bestiola che dovrà essere una
nuova specie depurata dai vizi e delle aberrazioni di quella vecchia. E alla
neonata progenie insegna innanzitutto a fare a meno del linguaggio, sempre
più ridotto a una appendice senza significato: si serve infatti molto spesso di
un fischietto che modula i suoi richiami e le relazioni con gli altri. C’è un
teatro in cui un gruppo di donne, con cui lavora lo stesso LaFayette, mette in
scena uno psicodramma femminista il cui risultato produce una collettiva e
falsa maternità, quasi, in gruppo, avessero sperimentato una sorta di
autofecondazione del tutto svincolata dall’intervento maschile, dove emerge
invece la sterilità del grembo femminile. C’è il museo delle cere dove il
direttore, Flaxman, con l’aiuto di Lafayette, ha costruito dei tableaux vivants
commentati da una voce registrata che riproducono episodi chiave della storia
della civiltà senza alcun riferimento preciso o prova bibliografica. Ancora c’è
un altro interno, costituito dalla casa di Luigi, un vecchio anarchico, amico di
LaFayette, il quale farà il padrino di battesimo della sua piccola scimmia. E
infine c’è la casa di una signora ormai sfiorita che fa parte di un gruppo di
vecchi (emarginati e soli) dei quali Lafayette si prende cura. Si tratta per lo
più di luoghi che non hanno contatto con l’esterno urbano, non possiedono
finestre (se si eccettua l’appartamento all’ultimo piano della vecchia signora),
e risultano impermeabili a qualunque sonorità esterna. Gli interni di questa
città sembrano condurre una esistenza sigillata, e sono tutti luoghi connotati
da sterilità: la comune teatrale femminile, l’appartamento della vecchia
signora, la cantina di Lafayette, il teatro di Flaxman, e il tugurio in cui morirà
impiccato Luigi. Il seme dell’uomo, in questa città emblema del mondo, non

81
ha fecondato una concreta evoluzione della specie, ma una sua fragile
regressione, rappresentata dalla piccola scimmietta battezzata Cornelio.

Il film di Kitano elabora una messa in scena in cui le icone per


eccellenza di una città americana come Los Angeles, i grattacieli ad esempio,
incombono su spazi vuoti, dove manca la folla e il traffico delle automobili è
rarefatto. È un territorio che matura come un diretto confronto con il
Giappone da cui il personaggio principale, Aniki, è fuggito per sottrarsi a un
sicuro destino di morte determinato da una guerra perduta con un clan yakuza
rivale.
Nelle sequenze riferite al Giappone la messa in scena degli spazi in
cui vengono esercitati i rituali reiterati delle famiglie criminali sono
all’insegna di un marcata geometria. Essa determina una ambientazione senza
vita e distaccata dalle figure che vi risiedono, in cui le lotte intestine
producono uno spargimento di sangue che non intacca i luoghi in cui
avvengono: soltanto i corpi, e non le mura o le pareti, o gli arredi, subiscono le
conseguenze dei colpi mortali che le bande si scambiano. Così accade anche a
Los Angeles scelta da Aniki per ricostruire una sorta di universo parallelo a
quello che ha abbandonato. Ma se nella patria di origine poteva essere
pertinente il richiamo ad una messa in scena degli ambienti per così dire
ovattata rispetto alle violenze consumate dagli attori, a Los Angeles la
desolazione, l’impermeabilità degli ambienti esterni e la sospensione
temporale in cui sono immersi gli interni costituisce un marker significativo.
L’ascesa al potere di Aniki rovescia i canoni del classico gangsterismo urbano
– non solo quello riconducibile ai prototipi di genere come Scarface (Howard
Hawks, 1932), Public Enemy (Nemico pubblico, William Wellman, 1931),
Little Caesar (Piccolo Cesare, Mervyn LeRoy,1930), The Roaring Twenties
(I ruggenti anni venti, Raoul Walsh, 1939) –, ma anche ad esempi più recenti
come lo Scarface (1983) e Carlito’s Way (1993) di Brian De Palma.
L’acquisizione di potere da parte del clan di Aniki non si manifesta in un
progressivo arricchimento dello spazio. Il luogo di potere, come spesso si
presentava nelle pellicole classiche, è sempre collocato in alto, in questo caso
un loft che dà su un tetto, ma è un ambiente che ora non si distingue per il
lusso o per la ridondanza delle protezioni o per un ricettacolo di mondanità e

82
belle donne. Sono invece per lo più spazi svuotati dall’interno nei quali il
protagonista cerca di ricostruire la fratellanza di un gruppo che ha perduto
nella sua terra. Così questi ambienti diventano non tanto teatro di decisioni
strategiche o regolamenti di conti, quanto di gioco, di esigenza di una
appartenenza. È facile ad esempio ricordare le partite di pallacanestro
disputate nel quartier generale del loft, o il passatempo di indovinare il sesso
dei passanti che sono talmente rari che uno dei giocatori istruisce una
complice a passare più volte per la strada adiacente per vincere la scommessa.
Le numerose azioni violente, inoltre, avvengono con una rapidità
estrema tanto che sembrano quasi risucchiate dalla glacialità dei luoghi che ne
sono il palcoscenico. Si perdono istantaneamente così come nascono per
lasciare il ruolo di protagonista solo allo spazio lasciato vuoto, e, come
accadeva per le sequenze giapponesi, quasi del tutto intatto: privo di buchi,
schegge o sangue prodotti dal parossistico fuoco delle pistole e dei
mitragliatori. La salita verso l’alto di questi gangster, come nota Vincenzo
Buccheri115, è una ascesa verso il vuoto, e non c’è parabola come per le
costruzioni classiche, proprio perché qui lo spazio è esposto fin da subito a
una desertificazione irrimediabile. Il film sottolinea con frequenza la
solitudine del gangster in relazione allo svuotamento dello spazio e lo fa
costruendo, a volte, delle scene che registrano un tono di trasparenza
dell’ambiente. È il caso, ad esempio, di quando Aniki lancia da una finestra
del loft un aeroplanino di carta le cui evoluzioni vengono seguite dalla
macchina da presa che mostra facciate di edifici e strade quasi prive di forme
di vita: agglomerati di costruzioni che si propongono come un fondale senza
prospettiva, una quinta teatrale sconfitta dalle evoluzioni, dal dinamismo di un
semplice giocattolo di carta così da determinare quel registro etereo e
fantasmatico a cui si è già fatto riferimento.

2.6 Ambiente urbano come assoluta proiezione del rimosso dei


protagonisti.

115
Cfr. Vincenzo Buccheri, Takeshi Kitano, Milano, Il Castoro, 2000.

83
Esistono documenti filmici in cui ogni dettaglio dell’ambiente, dalle
costruzioni architettoniche ai personaggi che ne fanno parte, costituisce un
evidente rimando alle ferite inconsce non sanate del protagonista il quale, per
poterle tenere sotto controllo, elabora un universo autoreferenziale in cui
mettere ripetutamente alla prova la solidità delle difese maturate nei confronti
dello shock subito la cui origine, frequentemente, risiede nel mondo
dell’infanzia.
Ci sembra che a questa categoria possano innanzitutto fare da guida le due
pellicole realizzate da Tim Burton sull’uomo-pipistrello: Batman (1989,) e
Batman Returns (Batman. Il ritorno, 1992).
Le indicazioni che Gotham City sia una proiezione della mente dell’uomo-
pipistrello provengono da due ambiti principali. Il primo è di ordine
squisitamente architettonico: “Gotham è una sorta di appendice metropolitana
e moderna del castello gotico in cui vive Batman, ne riproduce su scala urbana
le caratteristiche di solidità e pesantezza, così come l’idea di solitudine e
desolazione che trapela dalle forme massicce, dalla smisurata ampiezza degli
ambienti, dalla onnipresente dialettica tra visibilità/socialità […] e
occultamento”116.
Questo iniziale registro del doppio, del riflesso, innesta il secondo paradigma
di analisi, quello su cui, a livello profondo, poggia tutto il mondo di Batman,
ossia la propria immagine. La necessità vitale del nostro eroe è non tanto di
condurre una lotta serrata contro il crimine, ma di salvaguardare con tutti i
mezzi l’immagine generata dalla sua proiezione. In Batman Returns ad
esempio la pellicola si propone fin da subito come il marchio di fabbrica della
mente del protagonista. Infatti Gianni Canova osserva che il logo costituito da
un pipistrello stilizzato compreso in un ovale si staglia sul cielo della città “a
suggerire che l’habitat del film e dell’intera serie è un logo del personaggio e
che lo spazio funzionale di Gotham non è che la maschera architettonica di
questo logo”117. Tutti gli avversari di Batman in effetti svolgono il ruolo di
antagonisti proprio perché le loro azioni, il loro modo di comportarsi, sono un

116
Leonardo Gandini,“Batman: architetture della solitudine”, in AA.VV., “Tim Burton”,
Garage, n. 4, 1995, pp. 121-123.
117
Gianni Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo,
Milano, Bompiani, 2000.

84
attentato mortale all’immagine di Batman proiettata sulla città. Se i tratti
distintivi di Gotham e del maniero in cui dimora Bruce Wayne, il
multimiliardario alter ego di Batman, sono contraddistinti da una appesantita
voluminosità degli edifici e da una monocromia che vira in una dominante blu
elettrica e fredda, gli avversari di Batman, al contrario, costruiscono le loro
armi all’insegna di un uso spregiudicato del colore e dell’uso di una maschera
che di solito, come è il caso della figura del Joker, è il loro stesso volto. Un
volto che ha subito una deformazione e li ha trasformati in uno sguardo
irriverente e beffardo sul mondo, in veri e propri iconoclasti. Gotham, in
sostanza, assume le caratteristiche di uno schermo cinematografico che tutti
gli antagonisti del pipistrello cercano di marchiare con le proprie insegne.
Batman pertanto deve difendersi prima da un Joker che cerca di deturpare
qualunque elemento faccia parte dell’universo di Gotham: tagliando fotografie
degli abitanti, deturpando con la vernice i quadri del museo cittadino,
sfregiando per sempre quelle donne che hanno adoperato i suoi prodotti di
bellezza adulterati diffusi sul mercato. Poi deve respingere gli attacchi di una
Catwoman che insidia le stesse azioni eroiche di Batman, o ancora combattere
contro il Pinguino che istituisce un doppio reame, un’immagine riflessa della
città nelle sue stesse profondità.
La città di Batman, nel rispetto del costume indossato dal protagonista,
è “un’estensione [del] sé […] una città maschera […] palcoscenico su cui la
lotta per il dominio territoriale si manifesta non come occupazione dello
spazio bensì come rimodellizzazione nel continuo tentativo di far parlare
all’architettura il proprio stesso linguaggio, o di rendere la città il proprio
omologo di pietra”118. Batman in definitiva deve difendersi da questi
distruttori di immagini i quali sono ancora più temibili perché apertamente in
contrasto con la rigidità psicologica del protagonista. Più temibili anche
perché riescono a vivere quasi con gioia la loro condizione di maschere, di
doppi: “molti hanno pensato che il vero protagonista fosse il Joker, ma molti
altri hanno trovato la parte di Michael [Keaton] tanto più affascinante proprio
[…] per la sua capacità di cogliere la sottile tristezza del personaggio. È come

118
Gianni Canova, L’alieno e il pipistrello, cit. p.110.

85
se stesse pensando: ‘Ecco, guardate lui, lui riesce a venire fuori, a saltare, a
fare il buffone, mentre io sono costretto a restare nell’ombra’”119.
Sia Joker sia Catwoman vivono infatti la loro natura deviata, la loro maschera,
come una liberazione, come l’esplosione di una energia positiva,
contrariamente a Bruce Wayne, per il quale indossare la maschera e il
costume di Batman costituisce sempre il richiamo ad una esperienza dolorosa,
ad una colpa da espiare in eterno. Joker e Catwoman si esprimono poi
attraverso una dimensione aerea che emana leggerezza: si va dalle movenze a
passo di danza del Joker – nel pieno rispetto delle caratteristiche che hanno
sempre contraddistinto le figure dei gangster classici, dal James Cagney di
Public Enemy (William Wellman, 1931) al Jack Diamond di The Rise and
Fall of Legs Diamone (Jack Diamond Gangster, Bud Boetticher, 1960) – alle
traiettorie feline e sinuose della ex segretaria inibita e ingenua.
Per contro, le azioni di Batman in città hanno sempre a che fare con un
corredo meccanico e rumoroso, apertamente in contrasto con la natura del
volatile notturno.

Si può concludere sottolineando che, nella serie elaborata da Burton, il


rapporto tra protagonista e ambiente si determina contemporaneamente sia
come adiuvante sia come opponente. Infatti, se è vero, come evidenziato, che
la città-schermo di Gotham è indispensabile alla sopravvivenza di Batman, è
altrettanto vero che essa costituisce un universo chiuso, centripeto, sterile, una
cornice che lo irretisce in un esilio di impotenza sociale e sessuale.
L’ossessione del controllo dell’immagine della città scorre per entrambe le
pellicole attestata dal sistema panottico messo a punto nel castello, dove,
attraverso un sofisticato display di schermi dislocati nei punti strategici di
119
Mark Salisbury, Burton on Burton, London Faber and Faber, 1995; [trad.it Il cinema
secondo Tim Burton, Parma, Pratiche Editrice, 1995, p.128]. Alberto Abruzzese evidenzia la
conflittualità complementare tra il Joker e Batman, dimostrando quanto entrambi siano
determinati determinanti per costruire il corpo della città di Gotham: “Messa in scena (Joker)
invece che segreto (Batman) […]. Eccesso di consumi – che intende annullare nel soggetto la
produzione – invece che eccesso di produzione – che intende annullare ogni devianza e ogni
‘resto’ del consumo. Eccesso di disordine contro eccesso d’ordine. […] La lotta tra i due
contendenti è l’alterna vicenda della lotta metropolitana nelle sue apparizioni e nelle sue
interdizioni. Il corpo della città – insieme territorio, memoria, sistema di comunicazione,
campo di identificazione – si esprime dando ai soggetti che vi si intrattengono la forma
complessa di un’attività censoria”. Alberto Abruzzese, L’occhio di Joker. Cinema e
modernità, Roma, Carocci, 2006, p.17.

86
Gotham, Batman consuma la sua esperienza di flâneur divorato dall’ansia di
perdere per sempre l’immagine di se stesso.

Una variabile a questa proiezione totale del rimosso possiamo


rintracciarla in Marathon Man (Il maratoneta, John Schlesinger, 1977). Qui,
rispetto ai due Batman, è presente una ambientazione che prima si mostra, per
usare la terminologia di Dmitrij Lichacev 120, completamente opponente nei
confronti del protagonista, e, successivamente, opera un ribaltamento radicale
diventandone il più efficace adiuvante. In più, la parte di primo piano recitata
dalla dimensione spaziale è affiancata dal ruolo altrettanto determinante
rivestito dalla dimensione temporale, che attiva un canale di interpretazione
parallelo di tutto rilievo. Infatti il personaggio del film in questione si trova ad
attraversare l’ambiente urbano cercando di costruirsi una forza interiore che lo
separi sempre più da uno spazio che accoglie ed emana un sottofondo
temporale: la sua dolorosa storia personale ed eventi orribili che hanno
segnato la memoria del mondo. Per questo il Maratoneta cerca di operare una
sorta di straniamento dedicandosi quotidianamente ai rigidi allenamenti
previsti per la preparazione di una maratona. Tuttavia non risulta esserci
alcuna gara dichiarata cui ha intenzione di partecipare, manca un obiettivo
preciso, un percorso da compiere, e domina una forzata astrazione mentale,
resa evidente dagli inserti documentari presentati da Schlesinger: un
montaggio parallelo ci mostra l’allenamento del protagonista e immagini
estratte dalle prestazioni di Abebe Bikila, uno dei più leggendari corridori di
tutti i tempi, che faceva del sacrificio e della resistenza la sua arma vincente.
La ricerca del nostro Maratoneta, in effetti, è in primo luogo quella della
costruzione di una esemplare disciplina morale, di un allenamento alla
sopravvivenza in un ambiente che gli è ostile. Ne sono un esempio, fin dalle
prime sequenze, i conflitti che si sviluppano con altri corridori che si allenano
con lui nel parco, la rete metallica di recinzione che circonda il percorso di
allenamento come una prigione e che fa da cornice alla sua corsa, lo scherno
continuo subito dai propri vicini di casa, e infine un appartamento che
120
Cfr. Dmitrij Sergeevič Lichacev, Vremja v proizvedenijach russkogo fol’klora”, Russkaja
literatura, n.4, 1962, in Jurj M. Lotman, Boris A.Uspenskij (a cura di), Semiotičeskie
issledovanija, 1973 [trad. it. Le proprietà dinamiche dell’ambiente nelle opere letterarie, in
J.M.Lotman, B.A.Uspenskij (a cura di), Ricerche Semiotiche – Nuove tendenze delle scienze
umane nell’URSS, Torino, Einaudi, 1973].

87
assomiglia alla tana di un animale solitario ed avulso dal proprio ecosistema.
Schlesinger ci presenta dunque un individuo che vive in un esilio volontario,
una condizione risultante della espiazione di una colpa paterna, quella cioè di
essere il figlio di un professore universitario di storia suicidatosi in quanto
accusato di attività antiamericane durante il maccartismo. Il nostro corridore
tenta invano di astrarsi dall’ambiente rifiutando un contesto storico di più
ampia portata che travalica anche la sua stessa vita. Tuttavia sarà proprio la
storia, nella fattispecie quella dell’olocausto nazista, ad intercettare le
traiettorie della sua piccola esistenza: la Storia con la S maiuscola, che lui
disperatamente respinge (è un promettente laureando in Storia che alle lezioni
universitarie non risponde alle domande pur conoscendo le risposte), lo
richiama obbligatoriamente ad affrontare le tragica vicenda familiare e ad
interrompere la precarietà della sua emarginazione volontaria.

Ma ad un certo punto la situazione muta e l’ambiente diventa il


principale artefice del suo riscatto. La città di New York, teatro delle due
accezioni di Storia che abbiamo proposto, diventa un alleato, un adiuvante nel
guidarlo ad affrontare la storia della sua vita attraverso l’eliminazione di un
protagonista malvagio della storia del mondo. Nel momento in cui viene
coinvolto inconsapevolmente in una vicenda che vede un ex criminale nazista
tornato negli Stati Uniti per recuperare una ingente partita di diamanti sottratta
agli ebrei nei campi di sterminio, verrà risucchiato da quello stesso ambiente
urbano dal quale fino ad allora si era distaccato e da cui al contempo era stato
rifiutato. Lo spazio esterno si offrirà come una sorta di mezzo magico: quello
che era stato solo un luogo di allenamento al sacrificio, alla sofferenza, al
controllo spasmodico delle proprie funzioni corporee e mentali, gli consentirà
di sfuggire alle torture e alla morte. Parallelamente, quelli che fino ad un certo
punto erano stati luoghi di rifugio, di astrazione dall’esterno, cioè gli spazi
interni (il suo appartamento, la biblioteca o l’università) diventano scenari di
pericolo estremo e di morte.
La città, dunque, ha progressivamente, nel corso del film, cambiato
pelle. Da palestra fredda e indistinta, priva di risorse od obiettivi per il nostro
uomo che la attraversa in modo meccanico e ripetitivo, si è proposta in veste

88
di un territorio di cui sfruttare ogni infrastruttura per nascondersi, sfuggire ai
pericoli e, contemporaneamente, costruire strategie per stringere in una morsa
fatale i propri avversari, con quegli stessi mezzi che, per molta parte del film,
si erano presentati, invece, come dei nemici oppure ostacoli insuperabili.

Se Batman riesce a mantenere faticosamente un certo controllo


sull’ambiente in qualità di territorio-osservatorio privilegiato del proprio
rimosso, e il Maratoneta matura un superamento del trauma infantile,
parallelamente ad un connubio risolutivo e vincente con lo spazio di New
York, il personaggio guida di After Hours (Fuori orario, Martin Scorsese,
1985), Paul Hackett, non solo risulta irretito dalla topologia di una labirintica
“Città in piedi”121, ma subisce, in particolar modo, i dettami di una esperienza
ciclica che lo avvolge in una scansione temporale facendolo regredire fino ad
uno stadio prenatale. In questo caso, dunque, è il tempo, ancor più dello
spazio, che scrive le regole del rapporto tra il vissuto intimo e inconscio del
personaggio e la città.
L’avventura di Paul richiama quella della Dorothy di The Wizard of
Oz (Il mago di Oz Victor Fleming, 1939). Entrambi esprimono il comune
bisogno di abbandono di una realtà grigia e ripetitiva e il desiderio di approdo
in un reame fantastico (nel caso di Paul il quartiere di Soho) dove il
protagonista del film di Scorsese però, contrariamente alla Dorothy di
Fleming, rimane schiacciato dal ribaltamento delle regole della vita ordinaria.
Per di più, ancora all’opposto dell’eroina incarnata da Judy Garland, è
incapace di rintracciare con le proprie forze la strada di casa.
Scorsese, in effetti, nel momento in cui Paul decide di intraprendere il
suo viaggio notturno, pone un forte accento sul tempo almeno in quattro
occasioni, molto ravvicinate e messe in scena in forme del tutto diverse, così
da connotare, attraverso la ricchezza delle soluzioni, l’abbandono della realtà
ordinaria. La prima si riferisce al percorso accelerato, quasi parossistico, del
taxi che si comporta come un tappeto volante impazzito trasportando l’uomo a
Soho; la seconda rovescia la prima accelerazione in un ralenti quando Paul
perde dal finestrino del taxi in corsa la banconota da venti dollari che

121
Cfr. Gilles Deleuze, Image-temps: cinéma 2, Paris, Editions de Minuit;[trad.it.
Liliana.Rampello, Cinema 2. L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 1989, (1997³].

89
costituisce tutti i suoi averi; la terza costruisce un découpage estremamente
frammentato nel delineare il percorso di un mazzo di chiavi che gli vengono
lanciate dalla finestra della casa in cui ha un appuntamento; infine
rintracciamo la quarta occorrenza quando Paul, una volta entrato nel palazzo,
sale le scale, e il suo breve movimento di ascesa è spezzato in due non da un
raccordo di movimento, bensì da una dissolvenza che comunica proprio l’idea
di una dilatazione temporale indefinibile di ogni sua azione.
L’accento posto sul tempo nulla toglie al rilievo dato all’ambiente, che
riveste un ruolo altrettanto decisivo. Soho infatti esprime una parcellizazione
dell’universo urbano dal momento che contiene al suo interno delle
microfrontiere da attraversare che, per l’ingresso e l’uscita, richiedono delle
vere e proprie prove, che si possono quasi accostare a quelle suggerite da
Propp122. La Soho di Scorsese gioca la stessa funzione ricoperta dalla foresta
che circonda il maniero di Nosferatu 123 nel film di Murnau. In entrambi i casi i
protagonisti penetrano i luoghi di un loro rimosso ed entrano in uno spazio
proibito da cui però scopriranno di non poter più andar via sino a che la loro
esperienza non sarà radicalmente estinta.
Le frontiere che si trova ad affrontare Paul tuttavia si riferiscono più
che a luoghi diversi, a tempi diversi. Esse sono determinate da una articolata
coniugazione della figura femminile (si tratta in totale di cinque donne
diverse) che progressivamente riporta Paul all’interno di un utero materno. In
principio infatti incontra Marcy che, come lui, è espressione di una
contemporaneità insoddisfatta e disorientata dalla codificazione dei
comportamenti e, come rivelerà la chiusura della pellicola, del tutto impotente
e incapace di evadere dalle proprie inibizioni e dai propri traumi. Poi è la volta
di una scultrice, Kiki, coinquilina di Marcy, espressione tipica dell’artista
underground anni settanta. Successivamente è la volta di Julie, una donna che
è rimasta congelata in una arcaica e marcescente mistura di cultura hippie e
country anni sessanta. Si imbatte in Kay, la cui generazione di riferimento è
quella degli anni cinquanta, una donna che con il suo furgoncino di gelati

122
Cfr.Vladimir Jakovlevic Propp, Morfologija skazki, Leningrad, Accademia, 1927; [trad.it.
Gian Luigi Bravo (a cura di), Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi, 1966].
123
Per una analisi dello spazio del film in relazione anche alla architettura e alla filmografia
tedesca del periodo si può consultare: Spyros Papapetros, Malicious Houses: Animation,
Animism, Animosity in German Architecture and Film – from Mies to Murnau, Grey Room
n.20 (summer), 2005 pp.6-37.

90
sembra rimandare sia alle figure rassicuranti che erano diffuse nel periodo in
questione sia, soprattutto per quanto riguarda il comportamento sconnesso,
alle personalità nevrotiche e intrise di sospetto per chiunque che dilagavano
durante il maccartismo. Infine troviamo June che per l’età dimostrata potrebbe
essere la madre di Paul e riferirsi agli anni quaranta, una figura che vive
nascosta come in una situazione di guerra, all’interno di una cantina-
laboratorio, quasi il modello, o la replica aggiornata, di un rifugio antiaereo.
Ciascuna di queste donne avvolge Paul in un paradigma temporale a
lui incomprensibile, di fronte al quale si rivela impotente. Questa condizione
lo indirizza verso una progressiva e nemmeno troppo metaforica castrazione,
disegnando una dimensione ad imbuto in cui ogni donna rappresenta un
cerchio, ed ogni cerchio un girone che lo proietta in quello successivo, sempre
più basso, sempre più lontano dal presente. Marcy si suicida attivando
l’irreversibile caduta di Paul; Kiki lo spoglia della sua personalità
marchiandolo con gli strumenti del suo lavoro di scultrice, in questo aderente
alle dottrine della body-art; Julie ne fa l’oggetto di una vendetta femminista;
Kay lo denuncia senza alcuna prova ad una folla inferocita che lo vuole
linciare credendolo un topo d’appartamento e June, che pure lo salva da
questo pericolo di morte, in realtà lo imprigiona come una matrigna
possessiva all’interno di un calco di gesso, una eterna placenta senza vita.
Alla variazione delle soluzioni temporali fa eco uno spazio notturno
che, stando anche alle riflessioni di Gilbert Durand124, innesca alcune costanti
così da contribuire a richiamare sempre gli stessi ambienti. Il reiterato ritorno
degli stessi luoghi segnala evidentemente che Paul non riesce a superare le
prove a cui viene inconsapevolmente sottoposto. Il conclusivo abbandono del
suo corpo davanti ai cancelli del proprio ufficio ne attesta l’espulsione da
parte di quell’ambiente che, pur con le sue aggressive stravaganze, si era
proposto in principio come un mezzo liberatorio delle sue inibizioni.
124
Secondo Gilbert Durand, lo spazio notturno ha alcune costanti che rintracciamo
nell’avventura del protagonista: la caverna, che è un evidente riferimento alle stanze infere di
June dove Paul viene ridotto in una statua di gesso; la ricorrenza delle figure femminili; il
tema dell’incastro; la dimensione minuscola (quando Paul, ormai accerchiato da ogni parte,
viene ripreso con una plongée in campo lungo mentre prega inginocchiato per poter tornare a
casa); la madre tellurica e la cavità; la viscosità, rappresentata ad esempio dalla vernice con
cui viene ricoperto e da altri liquidi che lo sporcano ripetutamente contrassegnandone una
sorta di mutazione. Cfr. Gilbert Durand, Les structures anthropologiques de l’imaginaire,
Paris, Presses Universitaires de France,1963; [trad.it. Enzo Catalano, Le strutture
antropologiche dell’immaginario, Bari, Dedalo, 1972, pp.193-279].

91
Nel film è presente una prevalenza di interni che diventano via via
sempre più deserti: è il caso del loft di Marcy e Kiki o dei vari diners in cui
cerca rifugio Paul. Sono questi interni che proiettano i loro effetti sull’esterno
che, a sua volta, rimbalza il personaggio in un ulteriore interno, alimentando
un gioco spasmodico e apparentemente senza fine. Quelle soglie che abbiamo
indicato all’inizio dell’analisi del film di Scorsese si fanno allora quasi
trasparenti e costruiscono un ambiente unico e labirintico dove Paul vive
l’esperienza di un flâneur mancato. Una esperienza però che esalta le qualità
dell’ambiente e il desiderio ancestrale dell’uomo, dell’essere umano, di
possesso (visivo) della grande città. All’interno di questa deficienza visiva di
Paul, infatti, lo spazio rappresenta “l’antico sogno umano del labirinto” 125
laddove, “come la flânerie può mutare l’intera Parigi in un intérieur, in
un’abitazione le cui stanze, non divise da soglie come le camere vere e
proprie, sono i quartieri, così, d’altro canto, la città può schiudersi al passante
da ogni parte come un paesaggio senza soglie”126.

2.7 Ambiente e rimosso: il rimedio del voyeurismo.

Esiste tutto un paradigma, inaugurato e approfondito ripetutamente dai


film di Brian De Palma, che allestisce un ambiente esterno configurato come
un luogo inviolabile, un desiderio continuamente frustrato che sollecita
l’emersione del rimosso dei protagonisti e sottolinea la sua insanabilità.
L’ambiente, attraverso opportune e diversificate tipologie della messa in
scena, si incarica di respingere i personaggi, ai quali non resta che l’ausilio del
voyeurismo. Si assiste allora ad una parossistica operazione di reiterata
125
Walter Benjamin, Das Passagenwerk, in Gesammelte Schriften, Theodor W.Adorno, Pier
Giorgio Agamben, Gershom Scholem, Rolf Tiedemann, Hermann Schweppenhauser ( a cura
di), Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, VII voll, 1972-1989; [trad.it.Enrico Ganni, Rolf
Tiedemann (a cura di), I Passages di Parigi, Torino, Einaudi, 2000, vol. I-II, p.481].
126
Ivi p. 472.

92
osservazione a distanza dell’oggetto desiderato compiuta anche con sofisticati
dispositivi ottici che tuttavia non consentono di colmarne fisicamente la
lontananza.
È uno sfondo sempre separato dal personaggio, che cerca appunto di
azzerare questa distanza ma ne viene escluso, e tutte le iterazioni del suo
tentativo sono un fallimento peggiore del precedente. Egli può decidere allora
di far saltare in aria lo sfondo, come in Hi Mom! (Brian De Palma ,1970)
oppure di costruire, come in Body Double (Omicidio a luci rosse, Brian De
Palma, 1984), un doppio inavvicinabile dell’oggetto desiderato.

In Omicidio a luci rosse, la dialettica fra spazio visto e spazio abitato


caratterizza in pieno la vita del protagonista […] la cui soddisfazione per
aver trovato un appartamento spazioso ed elegante è subito mitigata dal
desiderio frustrato di essere altrove, nella casa di fronte, quella dove
ogni sera si spoglia la ragazza che lui spia con un telescopio. Tuttavia
qui tra visione e abitazione non c’è continuità: al contrario, il possesso
virtuale fornito dal telescopio non ne anticipa uno materiale 127.

In Body Double accade esattamente l’opposto di quanto si verifica in Hi


Mom! Non si passa dal possesso virtuale fornito dal telescopio ad uno
effettivo; tutt’altro: lo spazio concreto si manifesterà come inaccessibile, tanto
che il protagonista non riuscirà a salvare la ragazza che osserva dal suo
assassino. Gli spazi dunque non solo fanno resistenza come luoghi che
impediscono la visione, ma registrano degli autentici attacchi alla persona.

A volte la proiezione sull’ambiente non è visiva ma acustica, come in


Blow Out (1984), e anche in questo caso è una distanza incolmabile che
conduce alla morte dell’oggetto desiderato, completamente inglobato
nell’ambiente esterno.
È noto come tutte le pellicole di De Palma ruotino intorno al tema del
voyeurismo, ma ci sembra che all’interno dell’ambiente metropolitano esso
trovi una delle manifestazioni più intriganti nel già citato Hi Mom!.
In questo film, il bersaglio del regista è costituito da una congerie di individui
stipati all’interno di un palazzo che si mostra come un enorme schermo
composto da ben 270 quadri/finestre. Questo palazzo è l’oggetto del desiderio
127
Leonardo Gandini, “Spazi, ambienti e personaggio”, in AA.VV, “Brian De Palma”,
Garage,p. 74.

93
cinematografico di John Rubin, un film-maker autodidatta che installa la sua
cinepresa amatoriale in un appartamento che gli consente di osservare e
filmare le scene di vita quotidiana che si svolgono oltre le finestre poste
proprio di fronte a casa sua.
Non vediamo tutti coloro che abitano nell’edificio – il protagonista si
limita a puntare la macchina da presa all’altezza della propria finestra –, ma
questo non sacrifica nulla alla totalità espressa dalla sineddoche, in quanto la
manovra di avvicinamento condotta attraverso un dispositivo ottico costruisce
una miniaturizzazione che serve ad esaltare il riferimento a ciò che non viene
mostrato. Infatti, come scrive Gaston Bachelard, “nell’asse di una filosofia
che accetti l’immaginazione come facoltà di base, possiamo dire, come
Schopenhauer, che ‘il mondo è la mia immaginazione’. Io possiedo il mondo
tanto meglio, quanto maggiore è la mia abilità nel miniaturizzarlo, ma, ciò
facendo, è necessario comprendere che nella miniatura i valori si condensano
e si arricchiscono. Non è sufficiente una dialettica platonica del grande e del
piccolo per conoscere le virtù dinamiche della miniatura: bisogna superare la
logica per vivere quanto vi è di grande nel piccolo”.128
In Hi Mom! la moltitudine di inquilini non viene registrata seguendo i
canoni del cinéma verité. De Palma ci mostra questo spaccato dopo aver
alterato la velocità di ripresa dal momento che le scene che osserviamo spesso
sono accelerate. Attraverso questo dispositivo il regista sembra sollecitare due
riflessioni: l’ impossibilità di rendere giustizia a quella massa di persone
attraverso una oggettiva registrazione della realtà, nonchè segnalare,
all’opposto, che quella stessa realtà, senza un qualsiasi intervento
interpretativo sarebbe stucchevole.
Quella congerie di individui osservata attraverso la macchina da presa
è una fonte erotica per la cinepresa, che tuttavia deve essere guidata, diretta,
non può essere lasciata a se stessa. E’una folla qualificabile come un soggetto
prezioso di erotismo, ma è un universo erotico che va selezionato e orientato.
Il protagonista Rubin allora sceglie da quelle finestre, da quegli schermi, da
tutte quelle storie possibili, una ragazza che decide di corteggiare, per poterla
coinvolgere in un rapporto sessuale davanti alla finestra che finora aveva

128
Gaston Bachelard, La poétique de l’espace, Paris, Presses Universitaires de France, 1957;
[trad.it. Enzo Catalano, La poetica dello spazio, Bari, Edizioni Dedalo, 1999, p. 173].

94
osservato da lontano. L’uomo dovrebbe dunque diventare il coprotagonista di
un rapporto sessuale filmato automaticamente dalla cinepresa collocata in casa
sua, nel palazzo di fronte a quello della ragazza.
L’esperimento tuttavia fallisce. La macchina da presa, ad un certo punto,
sembra dimostrare tutto il suo pudore verso una scena artefatta: proprio nel
momento in cui Rubin e la ragazza hanno cominciato a fare l’amore, la
cinepresa scivola dalla testa del cavalletto verso il basso: distoglie lo sguardo
o, per usare una metafora ricalcata sul voyeur de The Rear Window (La
finestra sul cortile, Alfred Hitchcock, 1954), si addormenta. Tuttavia, se nel
film di Hitchcock il sonno del protagonista attiva il prosieguo del film, in
questo caso la carriera di novello operatore di Rubin viene stroncata per
sempre. Come il giovane killer di Targets, Rubin punta il suo fucile contro la
folla e sceglie il suo bersaglio, che all’ultimo momento gli viene sottratto
perché manca una direzione, che non può essere programmata
automaticamente ma necessita di un intervento. Quella folla è ancora un
soggetto cinematografico desiderato e desiderabile, ma necessita di una
distanza critica che Rubin non è in grado di garantire.
Il protagonista allora si annulla nella massa omogenea che abita il
palazzo osservato con tanta ossessione, e lo fa sposando la ragazza che voleva
filmare. Tuttavia si tratta di una ulteriore recita, dal momento che, dopo aver
piazzato una carica di dinamite nei locali lavanderia, farà esplodere la casa
con tutti i suoi inquilini.

2.8. Ambiente e rimosso: la morte come unica condizione di possesso


dell’ambiente.

Le pellicole di De Palma tracciano dunque le traiettorie audiovisive del


desiderio, dirette a estinguere la distanza dall’oggetto incorporato
nell’ambiente osservato, e definiscono l’impotenza del protagonista attraverso
l’impotenza del mezzo tecnico deputato a realizzarne il compito. Su questo
modello, Abel Ferrara decide di operare attraverso un ulteriore registro che,
pur investendo i personaggi della stessa morbosa aspirazione e della stessa

95
sconfitta, scardina completamente la personalità, il corpo e il vissuto dei suoi
attanti.
I protagonisti delle pellicole di Ferrara entrano a tal punto a contatto
con l’ambiente, uno spazio per lo più sordido e contaminato dalle
depravazioni e dalla violenza di una umanità malsana, che ne sono travolti
irrimediabilmente. Tendono così ad assorbire e a riflettere sul proprio corpo,
come contrappunto, le stimmate di una redenzione deviata. Ogni loro azione si
manifesta non come un percorso mistico o guidato da una condotta di
rettitudine morale e sociale, ma, al contrario, come una tappa verso l’abisso
della dissoluzione. Gli atti dei protagonisti assurgono al rango di stazioni
abominevoli di una inarrestabile via crucis verso una morte che vorrebbe
purgare, dopo averlo richiamato su di sé, ogni misfatto del mondo, ma che, in
realtà, si limita ad imprimere a quella stessa colpa un marchio di irreversibilità
e di disarmante iteratività.
Uomini e donne del cinema di Ferrara sono spesso confinati negli
ambienti interni come dei reclusi, come accade in particolare in Angel of
Vengeance (L’Angelo della vendetta, 1981), The King of New York (1991),
The Bad Lieutenant (Il cattivo tenente, 1992), The Addiction (1995). Essi nel
rapporto con l’esterno cercano con estrema veemenza quella redenzione,
vogliono lasciare un segno importante della loro presenza che salvi l’umanità,
oppure, come in The Addiction, il loro desiderio morboso diventa malattia,
contagio da diffondere.

2.9 Ambiente esterno ed interno totalizzanti.

Sfondo esterno ed ambiente interno prevalgono sui personaggi, che


progressivamente si elidono e vengono cancellati dal contesto in cui sono
inseriti, dal momento che tutto ciò che può determinarne l’identità si sfuma
fino a far perdere loro ogni consistenza reale.

96
The Long Goodbye (Il lungo addio, Robert Altman, 1973) può
funzionare da chiave di lettura di questa modalità di messa in scena attraverso
la diluizione di tre parametri.
Il primo investe la componente cromatica e attinge direttamente alla nuova
veste del noir contemporaneo:

la contrapposizione tra diversi colori o diverse tonalità di colori, insieme


al ricorso ad un codice cromatico, spesso molto elementare, […]
rappresenta una delle novità più interessanti del noir contemporaneo”
[…] e possiamo rintracciare una “affinità col modello narrativo della
fiaba, dove la qualificazione dei personaggi è a sua volta affidata a
definizioni cromatiche (principe azzurro, fata turchina ecc.). Questo tipo
di analogia può essere spiegata con il tentativo […] di aggiornare il noir
rinunciando in partenza ad una delle sue componenti più caratteristiche,
l’ambiguità, a favore di un racconto che, al contrario, ponga chiaramente
e rapidamente in luce la dicotomia tra “buoni” e “cattivi”, tra figure
positive e negative129.

Altman interviene sulla semplicità di questo paradigma spostando sempre più


in là i limiti di chiarezza dei personaggi e facendoli diventare, alla fine,
sempre più opachi o trasparenti, fino a farli scomparire, come accade proprio
al Marlowe de Il lungo addio.
Il secondo parametro si concentra sulle superfici riflettenti e sul
fuoricampo: “il ‘lavoro’ sul fuoricampo si radicalizza: i bordi
dell’inquadratura non tracciano i confini del visibile ma perdono la loro
funzione di limite consegnando all’inquadratura stessa la funzione di scena e
riflesso. […] Il personaggio soffre la scissione tra sé e il mondo per mezzo
dell’esperienza di non essere visto né identificato”130. Viene meno il senso
della vista; lo sfondo, “risucchiato in scena mediante la sovrapposizione sul
vetro”131, si fa immateriale per i personaggi. Essi vedono solo ciò che è loro
prossimo, la profondità si perde, il loro sguardo ha subito una drastica
limitazione – una miopia che sembra portare una perdita della memoria: ciò
che si allontana viene, per così dire, dimenticato.
Inoltre, come accadrà anche per Nashville, lo sfondo diventa più importante di
ciò che sta in primo piano: a questo proposito è emblematica la morte dello

129
Leonardo Gandini, “Il nero a colori”, in AA.VV., “Il colore nel cinema”, Fotogenia, n. 1,
1994, p. 133.
130
Flavio De Bernardinis, Robert Altman, Milano, Il Castoro 1995, p. 40.
131
Ibidem

97
scrittore Roger Wade, che viene ripresa in campo lungo attraverso le grandi
vetrate della sua villa mentre Marlowe e la moglie dello scrittore discutono,
del tutto ignari, in primo piano.
Guido Fink rileva quanto il fuoricampo costruito da Altman determini
un gioco articolato con le soglie e le linee di confine; esse

dividono l’interno dall’esterno, il palcoscenico da quello che si estende


al di là delle quinte, il presente dal passato, il reale dall’immaginario; e
già Enrico Magrelli acutamente sottolineava come i rapporti tradizionali
fra gli spazi deputati del cinema – quello scenico generatore, di solito
utilizzato come sfondo della descrizione o profondità di campo; lo
spazio secondo, area privilegiata ritagliata all’interno del primo; e le
variazioni prospettiche della distanza fra i due – venissero sensibilmente
modificati e, spesso, rovesciati attraverso un processo di
disarticolazione132.

Infine, il terzo aspetto si riferisce alla assoluta necessità del personaggio


mitico di astrarsi dall’ambiente circostante per poter sopravvivere: “La
creatura chandleriana può essere fatta rivivere per l’ultima volta […] sullo
schermo solo a patto di non occultarne – al contrario, sottolineandone – la
sostanziale estraneità con l’ambiente circostante, la sua incapacità, o meglio la
sua rinuncia, a incidere significativamente sugli avvenimenti”133.

2.10 Small Town134 / Big Town.

Quella che per molto tempo si è configurata come una antinomia,


ossia, per semplificare, l’opposizione tra la grande città, la metropoli, e la città
di provincia, nasce da una costola della relazione tra città e campagna, in
quanto le fasi iniziali della storia del cinema certificarono come principale

132
Guido Fink, Un amore diviso in due: cinema e teatro in Robert Altman, in Roberto
Salvatori (a cura di), Robert Altman, un acrobata nel circo americano, Firenze, Loggia dè
Lanzi, 1997, pp. 45-46.
133
David Bruni, Commiato da un genere, in Leonardo Quaresima (a cura di), Il cinema e le
altre arti, Venezia, La Biennale di Venezia, Marsilio, 1996, p. 297.
134
Per una buona ricognizione sulla messa in scena della piccola città americana di provincia
cfr. Kevin MacKinnon, Hollywood’s Small Towns: an Introduction to the American Small-
Town Movie, Scarecrow Press, Metuchen, N.J., 1984.

98
messa a fuoco della città il rapporto parallelo con la campagna. Una delle
strategie per poter esprimere la visione della città era stata, infatti, quella di
costruire delle relazioni con un contesto che stabilisse con essa una evidente
opposizione.
Il confronto proposto da Sunrise – A Song of Two Humans (Aurora, Friedrich
Murnau, 1927) ha gettato probabilmente le basi più solide per elaborare un
fecondo registro interpretativo di questo conflitto, ma anche pellicole come
Our Daily Bread (Il nostro pane quotidiano, King Vidor, 1934) hanno dato,
nel periodo del muto, un contributo eccellente per poter definire in quali
termini stavano evolvendo la crescita e la diffusione del modello urbano nei
costumi degli americani, anche in coloro che decidevano di rimanere legati ad
un universo rurale, non solo o non tanto perché sopraffatti dalle paure
trasmesse dalle grandi città come ricettacoli di vizi e di pericoli. Porre dunque
la questione in termini di una partita a due comporta innanzitutto una
considerazione preliminare. Se in termini di messa in scena le innovazioni e le
sperimentazioni formali suggerite dalle architetture urbane e da quegli shock
metropolitani osservati da Benjamin135 e Simmel136 risultano particolarmente
135
Secondo Benjamin, la categoria che risponde al nome di evento traumatico è quella più
appropriata per una disamina delle esperienze che rientrano nella vita urbana; si tratta della
ormai famosa esperienza dello shock che il filosofo tedesco richiama proprio discutendo
dell’esperienza cinematografica. “Il cinema è la forma d’arte che corrisponde al pericolo
sempre maggiore di perdere la vita, pericolo di cui i contemporanei sono costretti a tenere
conto. Il bisogno di esporsi ad effetti di shock è un tentativo di adeguazione dell’uomo ai
pericoli che lo minacciano. Il cinema risponde a certe profonde modificazioni del complesso
appercettivo – modificazioni che nell’ambito dell’esistenza privata sono subite da ogni
passante immerso nel traffico cittadino, e nell’ambito storico da ogni cittadino”.
Walter Benjamin, "Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit",
Zeitschrift fur Sozialforschung, no. 5, 1936 ;[ trad.it. Enrico Filippini, L’opera d’arte
nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966 (2000³, p. 56, nota 29].
136
“La base psicologica su cui si erge il tipo delle individualità metropolitane è
l’intensificazione della vita nervosa, che è prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di
impressioni esteriori e interiori. L’uomo è un essere che distingue, il che significa che la sua
coscienza viene stimolata dalla differenza fra l’impressione del momento e quella che
precede”. Le parole di Simmel richiamano due questioni di vitale importanza. La prima,
riferita ad una intensificazione della vita nervosa dell’individuo, apre quello scenario che
Benjamin ha indicato in maniera illuminante per saldare ancora una volta il cordone
ombelicale tra il fenomeno urbano e quello cinematografico attraverso l’esperienza dello
shock di cui abbiamo fatto menzione. Organizzare sullo schermo le immagini della metropoli
vuol dire sperimentare strutture della visualità dotate di ritmi e sollecitazioni al più alto livello
possibile, laddove Simmel rileva che la rapidità delle immagini urbane consuma una quantità
di coscienza individuale attraverso “l’accumularsi veloce di immagini cangianti, o il contrasto
brusco che si avverte entro ciò che si abbraccia in uno sguardo, o ancora il carattere inatteso
di impressioni che si impongono all’attenzione”. La seconda questione, che faceva riferimento
alla attenzione da prestare, per così dire a due inquadrature (due immagini urbane) contigue,
rimanda un’eco sulle problematiche e sui dispositivi del montaggio cinematografico,
richiamando quella operazione “differenziale” che consente di stabilire un contratto, un
prodotto, una operazione di discontinuità, una scultura del tempo, insomma differenti visioni e

99
ricche e sofisticate rispetto a quelle registrate per gli ambienti rurali, a livello
di diegesi, tuttavia, i punti a favore della campagna assegnano una netta
vittoria a quest’ultima. Infatti quasi tutte le vicende ce la presentano come un
patrimonio nazionale di virtù (per quanto a volte ingenue) spesso risolutive
dei nodi drammatici. Ci preme altresì appuntare che non sempre la relazione
città/campagna investe la città marcandola con una accezione negativa, come
del resto anche la campagna non costituisce in senso assoluto un palcoscenico
idilliaco e privo di conflitti. Ne sono una attestazione a nostro avviso (per
rimanere anche solo nell’ambito di film già chiamati in causa), proprio
Sunrise137 e lo stesso Our Daily Bread.

approcci del montaggio a seconda delle scuole o dei movimenti.


Cfr. Georg Simmel,“Die Großstädte und das Geistesleben”, Jahrbuch der Gehe-Stiftung, IX;
poi in Brücke und Tür, Stuttgart, K.F. Koehler Verlag, 1957; [trad. it.“Metropoli e
personalità” in Wright Mills ( a cura di) Immagini dell’uomo, Milano Comunità, 1963; “Le
metropoli e la vita spirituale” in Thomas Maldonado ( a cura di), Tecnica e cultura, Milano
Feltrinelli, 1974; La metropoli e la vita dello spirito, Paolo Jedlowski ( a cura di), Roma,
Armando Editore, 1995].
137
Il film di Murnau ci sembra infatti sia modellato in modo da scardinare il classico registro
città/campagna che disegnava un paradigma del tipo natura buona vs cultura malvagia, e
quindi una campagna equivalente di sincerità, solidarietà e sicurezza, e una città emanazione
di alienazione e pericolo. Il ribaltamento si instaura anche perché le sequenze che hanno per
teatro la città rivestono sia un ruolo subalterno alla campagna, sia soprattutto uno specchio
riflettente dell’universo rurale da cui derivano la loro stessa apparizione ed esistenza. Infatti,
da un punto di vista strutturale, la cornice naturale del film imprigiona tutta la sequenza
ambientata in città e sebbene questo – per così dire – “inquadramento” costituisca una sorta di
nucleo che potrebbe rimandare ad un livello privilegiato di interesse, tuttavia a nostro avviso
si tratta di un’anima centrale dipendente, anche nelle modalità di attivazione, da un incipit ed
un excipit innescati altrove. È la campagna che fa da schermo di proiezione, e anche, ad una
analisi letterale delle immagini, da macchina da presa per mostrare le immagini della città. Lo
dimostra per l’appunto quel “proiettore mentale” che viene metaforicamente acceso nella
palude dalla seducente donna di città che irretisce Ansass persuadendolo ad uccidere la
moglie, vendere la proprietà e trasferirsi in città. Per di più ci sembra che la stessa città in cui i
due coniugi approdano dopo il tentativo di uxoricidio si presenti come un sintagma ad episodi
tale da ricalcare un andamento ritmico e iconografico quasi rassicurante, come se riproducesse
un ciclo stagionale. Ansass e la moglie Indre vengono messi di fronte a dei tableaux vivants
che rientrano a pieno titolo in una cerimonia rituale che, pur con le opportune distinzioni,
richiama le tappe di un apprendistato, un progressivo avvicinamento alla vita di città. Questo
tirocinio, per quanto fatto di esperienze contigue, che in parte avvalorano la rapidità e la
contrazione del tempo urbano rispetto a quello della campagna, tutto sommato, prese
nell’insieme, rispettano una certa prevedibilità e leggibilità di aspettative. Lo spazio della vita
urbana non appare dunque come un mostro che assale o assorbe le energie vitali. Tanto meno
impedisce di attivare delle reazioni perché si è impreparati a farlo. Per Ansass e Indre quella
città in cui approdano è il luogo della loro memoria, dei riti, delle stesse tappe, in questo caso
forse solo più marcate (un matrimonio, un salone di bellezza, un fotografo, un lunapark come
una festa di paese o un dancing), di quella esistenza trascorsa insieme nel loro rifugio di
campagna. La città, in questo caso, si propone, attraverso il cinema, come la riproduzione
condensata della loro vita. Quest’ultima proprio nella città appare “rovesciata” rispetto a
quella trascorsa in campagna, capovolta nell’immortalità come nella lastra che li ha
impressionati all’interno del gabinetto fotografico. Immortali in città, anche se apparenti,
come immortali in campagna dopo aver superato anche la prova di rischiare di perdere la vita
nella tempesta. Le due prove mortali che avvengono in uno spazio naturale, pur attivate o
dalla volontà di partenza per la città o dal ritorno da essa, ci conducono a concludere che il

100
Probabilmente l’influsso esercitato dai film di Frank Capra 138 e le necessità
politiche del governo Roosevelt di mutuare dall’ambiente rurale, nel periodo
successivo alla Depressione del ’29, la spinta morale al risanamento della
nazione, ha modellato per un lungo periodo quella tendenza diffusa volta ad
offrire una connotazione positiva della campagna, soffocando anche quelle
istanze negative già seminate, ad esempio, dallo stesso Murnau. In effetti,
nelle opere dirette dal regista italo-americano è spesso presente un giovane
protagonista, espressione delle sane tradizioni legate alla terra e alla nazione,
il quale, attraverso il suo approdo e permanenza in città, riesce ad inoculare al
suo interno forti tensioni di rinnovamento, così da promuovere con le proprie
azioni un autentico riscatto di tutte le degenerazioni presentate nella vicenda, e
che proprio dallo spazio cittadino avevano tratto il principale nutrimento.
Quest’uomo comune era dotato di straordinarie virtù assimilabili a
quelle incarnate da un Abramo Lincoln; pertanto, il suo arrivo in città assume
quel potere taumaturgico importato solo da chi è un genuino latore di quei
valori americani cresciuti e custoditi grazie, lo ripetiamo, al contatto diretto
con la terra. È il caso dei protagonisti di Mr. Smith Goes to Washington (Mr.
Smith va a Washington, Frank Capra, 1939) o Meet John Doe (Arriva John
Doe, Frank Capra, 1941): uomini semplici, a volte anche esageratamente
ingenui, ma capaci di scontare sul proprio corpo, quasi come una metafora
cristologica, le colpe commesse dai maggiorenti della città, autentici tentacoli
di una piovra che soffoca ogni spinta vitale.

mondo naturale non solo è il protagonista principale della vicenda ma ne è al contempo il


soggetto dotato di una velenosa verginità. Si dimostra infatti come una corolla, un fiore
pericoloso il cui profumo inebria coloro che abitano in città – cosa del resto attestata non solo
dalla donna dai capelli scuri che circuisce Ansass, ma anche visibilmente dalle continue
attenzioni che ai due sposini vengono indirizzate da tutti quelli che incontrano in una giornata
di vita urbana. Giuliana Bruno sostiene che “l’amore della coppia si basa sul loro amore per la
città”, ma riteniamo invece che questa coppia abbia semplicemente smarrito l’orientamento
delle proprie immagini di riferimento e che la città, come abbiamo cercato di dimostrare, le
abbia semplicemente “riprodotte” e ricollocate nella loro memoria, in questo agendo
certamente come scintilla emotiva.
Sulla città come “atlante delle emozioni” si possono leggere pagine interessanti in Giuliana
Bruno, Atlas of Emotion: Journeys in Art, Architecture and film, London-New York, Verso,
2002; [trad. it. Maria Nadotti (a cura di), Atlante delle emozioni: in viaggio tra arte,
architettura e cinema, Milano, Bruno Mondadori, 2006].
138
A proposito della relazione tra le pellicole di Capra ed il New Deal si può consultare John
Richards, Visions of Yesterday, London, Routledge &Kegan Paul, 1993.

101
Esistono poi ulteriori testimonianze filmiche che alla campagna hanno
affiancato non tanto delle virtù, quanto un registro di infrazioni autorizzate
dalle rigide regole del vivere urbano, principi che possono esprimersi come il
retaggio di una fredda razionalità o come una netta separazione degli individui
in caste. Mi riferisco nel primo caso a film come Bringing Up Baby (Susanna,
Howard Hawks, 1938), dove un antropologo che lavora e risiede in città,
trascinato suo malgrado da una ricca ereditiera in un contesto rurale, si trova
ad affrontare situazioni paradossali che sovvertono completamente,
vivificandolo, il suo paradigma di esistenza a binario unico. Oppure ci si può
richiamare a It Happened One Night (Accadde una notte, Frank Capra, 1939):
qui, proprio in una stalla di campagna i due protagonisti svestono
(letteralmente) i panni di due individui appartenenti a estrazioni sociali del
tutto opposte e possono amarsi, scelta che sarebbe stata impossibile all’interno
dei vincoli e dei rigidi confini di classe presentati nella metropoli del film.
Anche il noir sembra prendere ispirazione dalle tendenze positive e
liberatrici della campagna. In diversi documenti è significativo il passaggio
dalla perversione della città ad un universo incontaminato e talvolta, come in
High Sierra (Una pallottola per Roy , Raoul Walsh, 1941), si penetra in una
dimensione addirittura cosmica e mistica. Siamo giunti in un momento in cui
il gangster, il malvivente, l’uomo braccato dal destino, cerca infatti
disperatamente di abbandonare la città per la campagna. Essa ora esprime il
ritorno ad un ventre materno, ad un equilibrio interiore – per quanto messo in
scena, ad esempio in The Asphalt Jungle (Giungla d’asfalto, John Huston,
1950), come un residuale e mortale approdo. Oppure è rifugio e guarigione
delle proprie nevrosi omicide ormai del tutto incontrollabili, come accade per
il poliziotto di On Dangerous Ground (Neve rossa, Nicholas Ray, 1951). È
pur vero che ci sono pellicole che non investono lo spazio rurale di accezioni
positive, come è dimostrato da Gun Crazy (La sanguinaria, Joseph H. Lewis,
1949). Qui una coppia fuorilegge, macchiatasi in città di efferati omicidi, resta
avviluppata nell’atmosfera fantasmatica di una campagna che si trasforma in
palude. Nonostante casi estremi come questo, bisogna comunque registrare
una inversione di quel movimento a senso unico che portava i personaggi
dalla campagna alla città o che vedeva i protagonisti del noir esclusivamente
come delle creature urbane. Quello che pertanto ci sembra significativo è che

102
queste brecce iniziali nella roccaforte urbana, intesa sia come universo
omnicomprensivo, unico teatro dove poter recitare la propria vita, sia come
amante fatale che non si può abbandonare a rischio della propria vita, lasciano
un segno profondo.

D’altra parte anche le virtù proverbiali della campagna hanno


cominciato a vacillare profondamente, soprattutto nel momento in cui si è
tentato di travasare quelle stesse virtù in città di modeste dimensioni, quasi
surrogati della campagna, che avrebbero potuto o dovuto costituire invece un
solido avamposto per arginare la violenza e il vizio della metropoli. È nella
Small Town, allora, che non solo si trasferiscono i conflitti insoluti della
metropoli, ma dove fioriscono i baccelli, spesso demoniaci, di una invasione
che rischia di contaminare irrimediabilmente la grande città, come bene
conferma nel 1956 The Invasion of The Bodies Snatchers (L’invasione degli
ultracorpi, Donald Siegel).
La piccola realtà della città di provincia, erede silenziosa delle sane tradizioni,
ha portato a galla, come ormai si manifesta compiutamente in molte
produzioni americane attuali, tutti i cadaveri su cui è stata costruita la sua
mistificata normalità.

Sulla scorta di quanto abbiamo discusso va rimarcato che negli anni


sessanta Big Town e Small Town cominciano ad essere raccordate come
facenti parte di un universo senza soluzione di continuità. Proviamo ad
assumere come capofila di questa categoria Psycho (Psyco, Alfred Hitchcock,
1960).
Il film elabora un percorso che da un albergo di Phoenix conduce fino al motel
di una piccola realtà di provincia gestito dalla personalità disturbata di
Norman Bates, innestando così una perfetta simbiosi tra i due ambienti.
Dall’albergo ha infatti origine la vicenda legata a Marion Crane. La vediamo
intrattenere una relazione clandestina con un uomo separato, impulso
scatenante che porterà la donna a commettere un furto nell’agenzia
immobiliare presso la quale lavora per poter pagare tutti i debiti del suo uomo.

103
Questa azione, e la fuga conseguente, la condurranno direttamente nel regno
di Norman, il personaggio che è la deviata emanazione dell’identificazione
con la propria madre, avvelenata anni prima perché colpevole di aver avuto,
come la stessa Marion, rapporti sessuali con un uomo già sposato. Marion,
dunque, riflette il comportamento della madre di Norman e pertanto la colpa
primaria si sposta (o forse semplicemente ritorna) dalla grande città in un
piccolo centro che, del resto, già contiene tutti i sedimenti di quello stesso
peccato.
Il parallelo tra le due realtà urbane e le due donne in rapporto a
Norman è giocato anche su tutta una serie di analogie che creano opportuni
richiami. Innanzitutto, Hitchcock stabilisce delle corrispondenze spaziali: sia
l’hotel in cui Marion si incontra di nascosto con il suo amante, sia la casa in
stile gotico della defunta signora Bates sono collocati in alto, e la loro messa
in scena è spesso contrassegnata da riprese aeree. Sono evidenti, ad esempio,
le progressive dissolvenze che dalle panoramiche sulla città spiano Marion
penetrando attraverso le veneziane chiuse della finestra dell’albergo e, in
parallelo, le inquadrature dal basso verso l’alto della casa della madre di
Norman stagliata contro il cielo scuro, e all’interno di casa Bates dove
dominano le semi-plongée che marcano importanti momenti drammatici. Si
può rilevare anche un ulteriore accostamento figurativo tra gli ambienti
frequentati da Marion a Phoenix e il Bates Motel. A Phoenix la ragazza si
muove tra l’albergo, l’ufficio e il proprio appartamento – tutti luoghi marcati
sia dall’impersonalità, sia da una colpa latente o da una infrazione imminente,
dal momento che in tutti e tre il registro dominante è quello del passaggio e
della semiclandestinità. Gli stessi spazi appena descritti li ritroviamo
condensati nel motel. Norman fa accomodare la donna per cenare nel proprio
ufficio, un posto che traccia la stessa linea di disagio e di pericolo vissuto
dalla stessa Marion in quello di Phoenix; inoltre, la stanza presa in affitto al
motel fa il paio sia con quella dell’albergo dell’incipit, sia con la camera del
suo appartamento in città.
Compaiono poi motivi onomatopeici: l’anagramma di Marion si può
facilmente leggere come una possibile variazione di Norman; il cognome della
donna è Crane il che non può non richiamare, dato il suo timbro gutturale, il
grido, il verso di un uccello e, considerata l’importanza determinante che

104
viene attribuita nella pellicola ai volatili, ci sembra una assonanza
significativa. Senza dimenticare che la città di provenienza della donna è
Phoenix, una traccia ulteriore che congiunge l’origine e il carattere di Marion
con il luogo in cui viene messa in scena la passione per la tassidermia di
Norman, che è arrivato, come è noto, ad impagliare la madre per renderla
immortale dentro se stesso.
In sostanza, il motel in cui l’uomo uccide le donne che ripropongono
l’infrazione materna diventa il catalizzatore di tutti gli ambienti prima
descritti. Esso si propone come un cordone ombelicale tra la Big Town e la
Small Town, dal momento che queste due realtà si rimandano a vicenda
l’immagine di una violazione inaccettabile. Il motel, luogo dello scambio
simbolico in cui è concesso al rimosso di Norman di essere messo in scena,
costituisce quel “blocco orizzontale”139 che fa da perno, da conduttore
140
elettrico, di un “blocco verticale” (l’hotel di Phoenix e la casa della signora
Bates).
L’analisi del piano comune su cui poggiano piccola e grande città può,
in questo caso, anche spingersi oltre. Marcello Walter Bruno, ad esempio,
anche sulla scia delle note riflessioni di Raymond Bellour 141, propone, a nostro
avviso, una interpretazione interessante che sembra confortare il percorso fin
qui proposto. Bruno, analizzando la figura di Norman, il quale non solo ha
incarnato una doppia personalità, ma ha del tutto introiettato la figura della
madre, tanto da assumerne oltre ai tratti fisici e all’abbigliamento anche la
voce, sostiene che la sua psicosi è il rimosso scatenante che dà l’avvio alla
messa in scena del film stesso. Infatti il morboso voyeurismo diffuso in tutta
la pellicola e che attanaglia Norman arriverebbe a determinare anche l’avvio
della messa in scena dello stesso film. A Norman sarebbero dunque da
imputare, in termini di soggettive, di proiezione deviata, le panoramiche
dell’incipit che conducono all’albergo in cui giacciono i due amanti che, lo
ripetiamo, sono la riproposizione del trauma subito dall’uomo. Le due città
esprimono in definitiva un circuito circolare dove “la fine risponde all’inizio

139
François Truffaut, Le cinéma selon Hitchcock, Paris, Éditions Ramsay, 1977, [trad.it.
Giuseppe Ferrari e Francesco Pititto, Il cinema secondo Hitchcock, Parma, Pratiche Editrice,
1977 (1985), p. 231.
140
Ibidem
141
Cfr. Raymond Bellour, L’analyse du film, Paris, Albatros, 1979; [trad.it. Carla Capetta e
Abderrazak Chaoni Aziz, L’analisi del film, Torino, Kaplan, 2005].

105
facendo del film l’equivalente metaforico dell’inizio della storia di
Norman”142.

Sono trascorsi solo quattro anni dal film di Hitchcock e, ne Naked Kiss
(Il bacio nudo, Samuel Fuller, 1964), il connubio fra piccola e grande città
proposto da Psycho dimostra di essersi già profondamente radicato, in termini
di un esteso territorio non solo di psicosi singola, ma di una profonda
abiezione che pare avvolgere silenziosamente una intera comunità. Fuller ci
presenta una prostituta di alto bordo, Kelly, che da una importante realtà
metropolitana si trasferisce a Grantville, una cittadina di provincia dove la
donna comincia un percorso di redenzione lavorando in un ospedale per
bambini afflitti da un grave handicap motorio. Tuttavia, l’ambiente sordido
che ci ha fatto intuire la realtà della grande città e che la protagonista ha
deciso di abbandonare è presente anche qui, anzi forse in maniera più marcata.
La donna infatti intreccia un relazione con l’uomo più altolocato e ricco di
Grantville, un autentico punto di riferimento morale e sociale per tutta la
comunità. Questo rapporto sembra avviato verso un matrimonio felice e
sincero, dal momento che la donna gli ha confessato apertamente il suo
passato. Improvvisamente però Kelly scopre che quest’uomo è un pedofilo e
lui, una volta smascherato, le confessa che avrebbe potuto sposarla proprio
perché entrambi appartengono a un universo deviato, uniti da una complicità,
da un sordido segreto inconfessabile che avrebbe sancito per sempre la loro
unione, la loro forza.
Fuller non mette in scena solo il vizio, anzi, sono molte le scene che
riprendono l’ospedale per bambini dove non solo si riscontra la bontà del
comportamento della ex prostituta, ma si ricava anche la solidarietà delle
istituzioni di una piccola città. Altrettanto frequenti sono i personaggi
residenti che dimostrano una spiccata umanità e disponibilità verso il
prossimo. Anche le figure femminili che sono portate a smarrirsi e a cadere
nelle trappole della prostituzione sembrano restare dei casi isolati.
È la rivelazione che sia un depravato colui che fin a quel momento
abbiamo visto come il rappresentante colto e sensibile di questa cittadina, che
142
Marcello Walter Bruno, “La psicosi fatta cinema: fratture, finzioni, depistamenti,
ricorrenze nel capolavoro hitchcockiano”, Segnocinema, n. 565, 2000, p. 42.

106
ne muta l’impressione di una sua sostanziale genuinità. Soprattutto, ci porta a
considerare quante siano le realtà anomale e deviate che si celano in
quell’universo apparentemente regolare e armonico. Sembra addirittura che la
maggior parte della comunità avrebbe voluto mantenere il più forte riserbo
sulla propria realtà sotterranea. Questo appare evidente nel momento in cui
Kelly, dopo aver ucciso il suo futuro marito, lo accusa di fronte a tutti.
Discolpata dall’accusa di omicidio, lascia Grantville mentre una folla ne segue
il congedo manifestando l’atteggiamento di chi è stato defraudato di un
sacrosanto diritto a nascondere ogni eventuale depravazione. Il fatto che il
regista abbia rovesciato del tutto il paradigma della donna di città che
avvelena con il suo arrivo una piccola dimensione di provincia, come ad
esempio accadeva in Sunrise, concede un ulteriore peso alle sozzure che ci
vengono mostrate. Non sono più i personaggi della metropoli ad esportare il
vizio, è la Small Town che, riproducendo ora autonomamente i germi del
vizio, ne esalta le mutazioni aberranti.

Sulla scia dei primi due esempi, The Graduate (Il laureato, Mike
Nichols, 1967), propone sempre un’osmosi tra i due oggetti della nostra
categoria di analisi, ma la confeziona, contrariamente ai lavori di Hitchcock e
di Fuller, attraverso una efficace contrapposizione stilistica. Il film infatti è
articolato tra Los Angeles e Berkeley e registra la peculiarità di saper costruire
un rapporto tra Small Town e Big Town che poggia su evidenti diversità di
strategie formali. Nichols le fa risaltare strutturando il film in due sezioni
distinte che potremmo identificare come la “città della madre” (Los Angeles)
e la “città della figlia” (Berkeley). Nella prima, Benjamin Braddock, giovane
rampollo impacciato e disorientato di una ricca famiglia residente nel
quartiere di Berverly Hills, riceve una iniziazione sessuale e sociale dalla
signora Robinson, moglie del socio in affari di suo padre. La donna sembra
proporsi come una istitutrice che proietta il protagonista all’interno delle
convenzioni di casta. Esse vengono presentate come un modello
imprescindibile di educazione nei confronti della futura generazione
(rappresentata in questo caso proprio da Ben), orientandola verso un
conformismo abulico e asettico che non produce o innova, ma semplicemente

107
bada alla conservazione dello status di classe e alla rinuncia o al controllo
delle emozioni. In questa prima fase, le modalità di ripresa ed il montaggio
esprimono una ricchezza di soluzioni stilistiche per sottolineare l’inerzia, e
spesso il regime di costrizione, che avvolge il protagonista. Il quartiere di Los
Angeles infatti viene mostrato essenzialmente in interni, mentre anche le rare
apparizioni di ambientazioni esterne sono all’insegna di un rapido passaggio,
teatro cioè di corse in macchina attraverso un territorio impersonale. Gli
interni costituiscono dunque il filtro, la lente di ingrandimento con cui
traguardare l’intero habitat metropolitano. Fin da principio Ben è collocato in
un contesto che lo immobilizza e che ha come fulcro la casa dei suoi genitori.
Da essa si irradiano due direttrici che fanno da trampolino da un lato verso la
casa della signora Robinson, e dall’altro nell’albergo in cui i due amanti
consumano i loro metodici appuntamenti sessuali.

La prima inquadratura di Ben nella casa di famiglia è un primissimo


piano frontale schiacciato contro un acquario. Essa può consentire una lettura
che lo marchia come “un pesce fuor d’acqua”, oppure, ipotesi forse più
pertinente anche rispetto allo sviluppo della scena successiva, come un
soggetto che aderisce obbligatoriamente ad un universo ovattato, chiuso,
autoreferenziale e che si trasforma in un oggetto estetico avulso dall’esterno,
con un suo ecosistema indipendente. In più, questa inquadratura perde subito
anche quel minimo di rilevanza che le si poteva attribuire, nonostante
l’appiattimento sull’acquario. Infatti entrano in campo le sagome dei genitori,
i quali oscurano per qualche secondo il quadro e “impallano”, oscurano cioè
completamente l’immagine del figlio, restituendoci un soggetto del tutto
accerchiato e oppresso. Successivamente Nichols prosegue il richiamo alla
figura dell’acquario, estendendolo a tutto l’ambiente famigliare: il reiterato
uso del primo piano di Ben contribuisce ad isolarlo dallo spazio adiacente, che
sottolinea, in opportuni allargamenti del campo visivo, un habitat artificiale
sfruttando il riflesso dell’acqua della piscina e delle ampie vetrate perimetrali
della villa dei Braddock. In effetti la messa in scena di questo spazio-acquario
somiglia ad un grande laboratorio dove addestrare le nuove generazioni a
restare sospesi e a galleggiare. “Il futuro è nella plastica” – è la prima lezione

108
che viene impartita a Ben di ritorno dal college, un corollario il cui senso non
si riferisce a un investimento imprenditoriale, quanto ad un approccio nei
confronti della sua vita futura. È una metodologia per maturare una matrice di
inaffondabilità e infrangibilità rispetto a qualunque evento contingente.
Tuttavia questo marchio schiude evidentemente le porte ad inevitabili
insensibilità che spogliano il protagonista di personalità, di un punto di vista
accertabile. Tant’è che, in questa prima fase del film, sono rarissime le
soggettive del ragazzo, e quelle che compaiono o durano frazioni di secondo,
dal momento che sono presentate come una visione subliminale, oppure
negano quello che dovrebbe essere uno dei loro principali attributi, quello cioè
di una osservazione attiva. Come nell’occasione in cui Ben viene festeggiato
per i suoi ventun’ anni ed è presentato dal padre, durante il party in piscina,
come una attrazione da circo. Il neomaggiorenne è obbligato a vestirsi da sub
con pinne, maschera, muta, respiratore e bombole per l’ossigeno e spinto a
tuffarsi nell’acqua. Tutto ciò che indossa dunque è un surrogato del corpo.
Non solo lo abbiamo già visto come un alieno in questo contesto, ma viene
ora doppiamente imprigionato in una sorta di bozzolo. La muta sostituisce la
pelle. Per vedere ha bisogno di un maschera, ha boccaglio e bombole per
respirare, pinne che gli impediscono una normale deambulazione. Da queste
premesse le soggettive presenti in questa scena (espresse attraverso la sagoma
della maschera da sub) non possono che rilasciare il totale impoverimento
della sua personalità ed il conseguente assoggettamento di fronte a questa
investitura di classe.
Abbiamo già accennato a come Los Angeles sia presentata quasi
esclusivamente attraverso i luoghi frequentati da Benjamin e dalla signora
Robinson. Questo sistema centripeto coagula la sua implosione in una
sequenza estremamente significativa, che dimostra anche quanto il regista
applichi a questa “città della madre” un’impronta formale sofisticata. Infatti,
per mostrare la meccanica ripetitiva degli incontri della coppia e della loro
appartenenza allo spazio famigliare di Ben, Nichols costruisce un sorta di
montaggio connotativo sviluppato al suo interno da un sintagma a graffa 143
143
Cfr. Capitolo 2, nota 17. Nel caso del film di Nichols il blocco di inquadrature discontinue
che costituiscono il sintagma a graffa dei due amanti a letto rappresenta la freddezza e la
ripetitività della loro relazione che assume anche, in una accezione più ampia, lo stereotipo di
tresca clandestina all’interno di un certo ambiente composto da persone ricche e abuliche.
Altrettanto interessante risulta il concetto di un ambiente auterotico (dalle chiare evidenze

109
che, a sua volta, ha come nucleo quello che Noël Burch chiama un “sintagma
a comprensione ritardata”144. Non a caso il montaggio si conclude in modo
circolare, così da lasciare intendere che l’intera sequenza potrebbe anche
essere il frutto di un flashback o di un sogno del protagonista.

La seconda sezione della pellicola, che abbiamo etichettato come la


“città della figlia”, poggia su un registro stilistico del tutto diverso. Ben
comincia a frequentare Elaine, la figlia della signora Robinson. I due si
innamorano, ma la madre di Elaine svela alla figlia la propria tresca con Ben.
La ragazza, sconvolta, lascia repentinamente Los Angeles e torna al campus di
Berkeley. Ben la raggiunge e la corteggia senza requie, spostandosi
freneticamente da un luogo all’altro della piccola città universitaria.
Qui, in opposizione con la prima parte del film, dominano gli esterni:
gli spazi affollati del campus, lo zoo, le strade animate di Berkeley. Tutto è
all’insegna del movimento dei personaggi e del flusso continuo mostrato dagli
ambienti. A questo movimento incessante viene addirittura impressa una
accelerazione ulteriore. Ad Elaine viene pressoché imposto di sposare un
compagno di college a cui da tempo era legata e Ben, allora, con la sua
fuoriserie, intraprende una rincorsa disperata contro il tempo per rintracciare
la chiesa della cerimonia e impedire le nozze. Rimasto senza benzina si mette
a correre a perdifiato verso la chiesa, ma arriva nel momento in cui la sposa ha
appena pronunciato il suo sì. Comincia a battere i pugni sulla vetrata e a
gridare il nome di Elaine. Ed Elaine, come in uno stato di trance, gli risponde
e gli corre incontro. Ben la strappa allo sposo, sradica una croce e comincia a
sferrare violenti fendenti all’indirizzo di chiunque cerchi di fermarlo.
Imprigiona all’interno della chiesa parenti ed invitati, blocca la porta con
quella stessa croce che è stata la sua arma e fugge finalmente su un autobus
con la ragazza. E a questo punto, una volta che si sono accomodati sui sedili
in fondo, torna l’immobilità e l’impotenza. I due, inquadrati frontalmente

edipiche e sterile) reso attraverso una perfetta permeabilità tra ambienti familiari (la stanza di
Ben, la sala da pranzo dei genitori, la piscina) e la camera d’albergo in cui si consuma il
rapporto tra Ben e la Signora Robinson.
144
Questo raccordo consiste nel “far seguire ad un’inquadratura d’insieme un’ inquadratura
più ravvicinata di uno stesso personaggio e (nel) mostrare in seguito che questa seconda
inquadratura si situa in tutt’altro momento ( e forse in tutt’altro luogo)”.
Noël Burch, Praxis du cinéma, Paris, Gallimard, 1969; [trad.it. Cristina Bragaglia, Prassi del
cinema, Parma, Pratiche, 1980, p. 21].

110
all’interno delle cornici dei rispettivi finestrini, restano muti e attoniti: le due
città, per quanto opportunamente marcate da opposte messe in scena,
conservano le stimmate di un calco comune, quello di una fuga impossibile da
un territorio omogeneizzato che sembra negare le prospettive di un altrove.

La tendenza a riassumere in un unico territorio Small Town e Big


Town subisce a questo punto una interruzione. Negli anni settanta e ottanta,
protagoniste assolute sono le metropoli, più raramente le città di provincia.
Nei casi in cui questa relazione a due si ripresenta, essa pare piuttosto deviare
verso una dialettica che la fa aderire ad un'altra categoria di messa in scena,
che abbiamo definito “interiorizzazione del western”. Qui infatti è vero che
sono spesso presenti personaggi che da una piccola realtà di provincia si
spostano nella metropoli, ma non si tratta di un confronto fra o di un’aderenza
a determinati stili di vita, ma di un vero e proprio conflitto epocale e
generazionale.
Gli anni novanta vedono invece un rinnovato interesse per questa
assimilazione tra “piccola e grande città”. Essa viene trasferita – ma resta pur
sempre rintracciabile, attraverso i paradigmi narrativi e figurativi che utilizza
– all’interno del quartiere metropolitano: esso diventa, pertanto, quel relais in
grado di attivarne la relazione e i reciproci modelli di riferimento. A questo
proposito possiamo pensare a molte delle pellicole realizzate da Spike Lee, da
Do the Right Thing (Fa’ la cosa giusta, 1989) a Jungle Fever (1991) da
Croocklyn (1994) a Clockers (1995). In queste proposte, il quartiere è un terra
di mezzo fra la grande metropoli e la piccola comunità di provincia, uno
spazio che accoglie conflitti aspri e spesso mortali.
La novità di questa messa in scena risiede dunque nella implosione di
queste due entità, che coagula etnie diverse in un contatto troppo stretto, tale
da determinare delle deflagrazioni. Da un territorio omologato e dalle
proporzioni così dilatate da costituire un macrocosmo dominato da continue
spinte centrifughe e centripete, si è passati ad un ambiente miniaturizzato in
cui le forze centripete devono essere spinte al massimo della loro potenza per
garantire quella minima esistenza ed autosufficienza dello spazio.
Per quanto riguarda la messa in scena del “quartiere”, vanno anche
prese in considerazione le pellicole di Wayne Wang, Smoke (1995) e Blue in

111
the Face (1996), oppure interessanti proposte come The Wedding Banquet
(Banchetto di Nozze, Ang Lee, 1993) e Magnolia (Paul Thomas Anderson,
1999).
Sono documenti, come è il caso di quelli di Wang, che riattivano le
memorie delle esistenze dei personaggi attraverso la memoria e il vissuto del
quartiere. Oppure, come nelle proposte di Ang Lee e di Anderson, mostrano
una città quasi del tutto risolta negli ambienti interni della famiglia, ambienti
in cui si manifesta un ibrido concentrazionario tra memoria e violente tensioni
irrisolte.
La costante di queste diverse interpretazioni fa capo ad una città che
rende concreta l’ibridazione tra locale e sovranazionale. Si formano, come
sostiene Marc Augé145, un “mondo-città” (patria della uniformità) e una “città-
mondo” (regno della differenza). E il globale, come sostiene Paul Virilio ne
La bomba informatica vive all’interno del sistema: “il GLOBALE è l’interno
di un mondo finito […] e il LOCALE è l’esterno, la periferia, per non dire
l’estrema periferia del mondo”146.

2.11 Semidocumentarismo/Teatralizzazione.

Sono state già messe in luce le motivazioni che, a partire dagli anni
settanta, portarono soprattutto le nuove leve registiche non solo a fare della
città l’oggetto principe dell’indagine filmica, ma a mettere in campo una
metodologia di ripresa e una strategia di montaggio atte a restituire “visioni
rubate” di impronta documentaria o semidocumentaristica.
Occupandoci in questa sede del cinema squisitamente di fiction, ci
sembra che gli esperimenti più interessanti risiedano in quelle pellicole che si
145
Marc Augé, Tra i confini: città, luoghi, integrazione, Conferenza tenuta al Centre Culturel
Français di Milano, il 25 maggio 2006, ora in Marc Augè, Tra i confini. Città, luoghi,
interazioni, Milano, Bruno Mondadori, 2007.
146
Paul Virilio, La bombe informatique, Paris, Éditions Galilée, 1998; [trad.it. Gabriele Piana,
La bomba informatica, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000, p. 9].

112
spingono volontariamente al confine tra una operazione, per l’appunto,
semidocumentaria e una messa in scena di stampo teatrale. Questa dicotomia è
stata affrontata e sviluppata con ottimi risultati soprattutto da due autori di
rango, quali Sidney Lumet – con Dog Day Afternoon (Quel pomeriggio di un
giorno da cani, 1975), Serpico (1973), Cruising (1980) – e Robert Altman,
con Nashville (1975). Senza dimenticare la prova interessante fornita su
questo stesso versante operativo dal regista Al Pacino con Looking for
Richard (Riccardo III - Un uomo, un re, 1996) – regista già, guarda caso,
interprete degli stessi film di Lumet appena citati.
In Dog Day Afternoon, per quanto la città riveli un aspetto
documentario come vogliono validare le immagini dell’incipit, essa stessa, nel
momento in cui il plot della vicenda prende avvio, si ritrova al centro della
messa a fuoco di una precisa organizzazione teatrale. È una modalità che, in
pellicole come questa, rivela quanto la città americana della metà degli anni
settanta, accanto o addirittura in contrasto evidente con le sue istanze di
cinéma verité, ripristini certi dettami dell’epoca barocca che ruotavano
essenzialmente intorno al principio del “dietro le quinte”. 147 Tale principio è
costruito intorno alla banca dove viene tentata una rapina da tre maldestri
rapinatori, all’oscuro del fatto che il denaro dei forzieri è già stato trasferito e
che nelle casse sono rimaste solo poche centinaia di dollari.
La banca, per usare una terminologia già adoperata da Erwin
Goffman148, esprime la doppia accezione di “quinta” e di “ribalta”. Delle due –

147
In epoca barocca lo spettacolo era confinato in momenti precisi dell’anno e in luoghi
delimitati. Altrettanto rigida e chiara era la distinzione tra attori e spettatori e tra finzione e
realtà. Ciò che permetteva a questo apparato scenico di funzionare, ricorda Giandomenico
Amendola, era il “principio del dietro le quinte”. Senza quinte, teatro e rappresentazione non
potevano esistere dal momento che l’attore necessitava di uno spazio in cui riposare senza
maschere:”un’area dell’io vero e dell’autenticità”.
Cfr. Amendola, La città postmoderna, cit.
148
Cfr. Erwin Goffman, The presentation of self in everyday life, Edinburgh, University of
Edinburgh, 1956; [trad.it. La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, il Mulino,
1969, pp 127-164].

113
ricorda Goffman149 – è la quinta la parte determinante, senza di essa non
potrebbe esistere la ribalta
La banca come “quinta” è usata dagli attori del dramma che si
preparano per la recita all’esterno: è una recitazione che coinvolge tutti,
ostaggi e banditi. Entrambi i gruppi, dopo le prime battute dettate dalla
sorpresa e dalla concitazione della rapina, in cui è evidente una loro netta
separazione anche spaziale, si collocano promiscuamente in uno stesso
ambiente che diventa familiare e confidenziale, luogo in cui preparare le
entrate in scena, ripassare la parte, riflettere sulle battute già recitate e
osservare le reazioni del pubblico.
Il marciapiede contiguo alla facciata dell’istituto di credito dove
l’attore protagonista si esprime, diventa invece la ribalta, quel proscenio
percorso nervosamente su e giù da un Al Pacino rapinatore che si muove
perfettamente a suo agio e conscio del suo ruolo. Alla scarsa, inesistente
professionalità dimostrata nella rapina fa da contraltare un perfetto
adeguamento alla messa in scena della contrattazione con la polizia, allo
scambio rapido di battute, alla necessità dello spettacolo, che vince su un
preteso e volontario, per quanto disatteso, realismo della messa in scena della
città.
C’è poi una platea, costruita per un pubblico di occasionali passanti
che assiste sempre più numeroso all’evolversi della vicenda. Tra ribalta e
platea si colloca ancora una sorta di appendice del palcoscenico dove è
attestata la polizia, presa, per così dire, paradossalmente “tra due fuochi”: gli
astanti e i rapinatori. Infine, a completare il diffuso osservatorio spettatoriale
di una rapina fallita che si è trasformata ormai in una autentica messa in scena,
contribuisce il pubblico delle televisioni che hanno assediato e stanno

149
“Nei confronti di una data rappresentazione il retroscena può essere definito come il luogo
dove l’impressione voluta dalla rappresentazione stessa è scientemente e sistematicamente
negata. Le funzioni caratteristiche di tali luoghi sono naturalmente molte. È qui che viene
faticosamente costruita la capacità di una rappresentazione di esprimere qualcosa che vada
oltre se stessa; è qui che apertamente si creano illusioni ed impressioni. È qui che si possono
custodire arredi scenici e componenti della facciata personale, in una specie di composizione
smontabile di interi repertori di azioni e personaggi. Sempre qui si possono nascondere i
diversi tipi di equipaggiamento disponibili per un dato cerimoniale […] Qui l’équipe può
ripassare la sua rappresentazione cercando di eliminare le espressioni offensive: qui i membri
dell’équipe la cui prestazione non sia soddisfacente sotto il profilo dell’espressione possono
essere corretti o scartati dalla rappresentazione. Qui l’attore può rilassarsi, abbandonare la sua
facciata, smetter di recitare la sua parte e uscire dal suo ruolo”. Ivi, p. 133.

114
trasmettendo in diretta lo spettacolo 150 che si consuma davanti alla banca
assediata, con la giusta dose di pathos dovuta al sequestro degli ostaggi da
parte dei banditi.
Questa prospettiva teatrale si esprime, attraverso uno sviluppo
orizzontale delle azioni, sempre al livello terreno della strada, mentre la
dimensione verticale è occupata dalle forze di polizia. Le riprese dall’alto, o
dal basso verso l’alto, dei suoi cecchini e degli elicotteri rivestono quella
stessa natura documentaria attivata dall’incipit, che tuttavia si rivela quasi
staccata dalla dimensione orizzontale di stampo teatrale. Questa prospettiva è
del tutto impotente rispetto al regime della teatralità: a nulla serve il
pattugliamento degli elicotteri e nulla possono i cecchini.
Progressivamente, questa messa in scena teatralizzata della banca e del
suo esterno contiguo si estende a tutta New York, richiamando altri “attori” da
altre zone della città, come ad esempio il transessuale che ha sposato il
protagonista. In questa dilatazione della vicenda, gli spazi appaiono sempre
più impenetrabili gli uni agli altri e le separazioni risultano nette, per quanto
esistano dei tentativi di infiltrarsi negli ambienti deputati agli uni e agli altri. E
quando questi spazi vengono temporaneamente violati, sono interpretati non
tanto come una messa a repentaglio della vita degli ostaggi, quanto come una
violazione delle regole del dramma, del gioco.
Gli spazi urbani dunque si manifestano come un territorio in cui
vengono organizzate e distribuite spettanze spettacolari, in cui i ruoli sono
definiti dagli ambienti e dove, ad ogni cambio di quinta, va necessariamente
indossata una nuova maschera e modificato il copione – pena, ancora una
volta, la morte. Forse il maldestro rapinatore Sonny alla fine sopravvive
proprio perché è in grado di assumere molteplici identità. Si adatta cioè al
dettato dell’universo urbano di modellarsi come corpo spettacolare, mediatico,
laddove Sal, il suo complice, verrà eliminato in quanto incapace di modificare
il proprio profilo e adeguarsi agli indispensabili cambi di “maschera”.

150
Il coinvolgimento del pubblico, che letteralmente fa il tifo, con gli attori mescolati tra il
pubblico, potrebbe fare riferimento all’ormai consolidata attitudine del teatro di strada
americano di portare il pubblico dentro il dramma scomodandolo dalle sue poltrone, e questo
potrebbe in effetti costituire un elemento realistico che recupera le istanze della strada.

115
Nashville (Robert Altman, 1975) assolve il ruolo di trait d’union tra
questa categoria e quella successiva. Oltre a coagulare, infatti, una pratica
documentaria con una organizzazione teatralizzata dello spazio, provvede a
far lievitare un composto che sfalda le coordinate della visione, determinando
un prodotto che si avvicina ad una messa in scena astratta. Questo risultato è il
frutto di una serie di fattori, che proveremo a prendere in considerazione.
1. Il ruolo di assoluto protagonista del fuoricampo, che accoglie,
rilancia e gestisce la proliferazione dei personaggi. Esso funziona come un
luogo estremamente permeabile e pulsante che, se proprio non abbatte,
senz’altro depaupera la funzione primaria dello schermo: Altman “lavora sulle
cornici, sul diaframma sempre più labile che dovrebbe dividere il testo dal
fuori testo”151. Nashville appare pertanto evanescente, una città-schermo non
più in grado di filtrare storie, di organizzarle, di restituire un principio e una
fine152 possibile. È la città dello spettacolo che si è mangiata l’anima dei
protagonisti e ha lasciato, al suo posto, l’andirivieni dei personaggi, come in
un’indifferente sala d’aspetto o in un camerino dove l’attesa della vera entrata
in scena è continuamente dilazionata. In questa abnorme città-stato153

l’immagine non rinvia più a una situazione globalizzante o


sintetica, ma dispersiva. I personaggi sono molteplici, dalle interferenze
deboli, e diventano principali o ridiventano secondari. Tuttavia non si
tratta di una serie di sketch o di una successione di novelle, poiché sono
tutti presi nella stessa realtà che li disperde. Robert Altman esplora
questa direzione […] con piste sonore molteplici e schermo anamorfico
che permette regie simultanee. La città e la folla perdono il loro carattere
collettivo e unanimista, alla King Vidor; la città, nello stesso momento,
cessa di essere la città in altezza, la città in piedi, con grattacieli e riprese
dal basso, per diventare la città coricata, la città orizzontale o ad altezza
d’uomo, in cui ognuno fa la sua vita, per proprio conto154.

151
Guido Fink, I film di Robert Altman, Novara, Gremese, p. 14.
152
L’evoluzione temporale che soggiace ai film anni settanta non risiede nelle singole storie,
ma in quel sottotesto che prende in considerazione la costruzione della pellicola: attraverso la
rivelazione del dispositivo filmico si ragiona sulla storia del cinema, che è anche storia
dell’America. In definitiva è il discorso metalinguistico che garantisce il collante con una
storia, con una progressione temporale concreta, non tanto il percorso evolutivo, se esiste, dei
personaggi. Cfr. La Polla, Sogno e realtà americana, cit.
153
“A Nashville politica, spettacolo, vita privata e quotidianità si mescolano inestricabilmente
(esattamente come un anno prima, a Reno, Nevada, il gioco d’azzardo in tutte le sue forme
tesseva la vita di qualsiasi passante e abitante) e configurano un microcosmo che è solo una
fetta ingigantita delle ansie dell’America post-Watergate, dello spettacolare ripiegamento sul
delirio di potenza qualunquista dell’America reaganiana, dell’America oggi, un paese di
identità scollate e, spesso, senza cuore, che attendono solo il Big One per rinnovarsi l’anima”.
Emanuela Martini, Il lungo addio. L’America di Robert Altman, Torino, Lindau, 2000, p. 13.
154
Deleuze, Image-temps: cinéma 2; [trad.it Immagine tempo, cit. pp. 235-236].

116
2. Una ridondanza non selettiva che, come evidenzia Lino Micciché 155,
produce un effetto di realtà; il sovraccarico visivo si fa cioè complementare ad
una vistosa frammentarietà diegetica, laddove l’immersività della macchina da
presa cancella ogni estraneità tra soggetto osservante e oggetto osservato.
3. La fitta presenza di una “ontologia della serialità”, attivata attraverso
le apparizioni dei personaggi che rinviano la propria immagine l’uno all’altro,
determinando un sistema a specchio156 dai deboli raccordi sulle azioni e sulle
singole personalità, che, cosa più importante, ne marchia la irreversibile
omologazione157.
4. Emerge lo sviluppo e il consolidamento di una città duale: essa,
attraverso la coralità e l’assenza di protagonisti assoluti, supera la cultura
epica americana fondata sugli antagonismi, su quelle relazioni imprescindibili
tra cowboy, coloni ed indiani, tra bianchi e neri, tra buoni e cattivi. In questa
città duale si è perduta anche quella zona d’ombra in cui c’era spazio per far
riposare o annullare le conflittualità archetipiche e abbandonarsi alle seduzioni
delle rispettive personalità e delle razze diverse.

155
“Il vistoso sovraccarico connotativo, l’espansione della durata, l’apparentemente inselettiva
ridondanza […] contribuiscono a determinare […] un particolarissimo ‘effetto di realtà’,
un’inquietante immersione della cinepresa e del suo occhio nel ‘vissuto’. La dimensione del
gioco come assoluto, come realtà totale, ossessivamente ripetitiva e senza uscite, diventa
allegoria esplicita di un ‘fervore dell’esistenza’ – ha ricordato La Polla citando Fink – come
illusorio simulacro di vita, alienazione rituale, rassegnata accettazione del fatto che non c’è
vera vita nella falsa”. Lino Micciché, L’incubo americano. Il cinema di Robert Altman,
Venezia, Marsilio, 1984, p. 39.
156
“In Nashville, i luoghi della città sono raddoppiati dalle immagini che ispirano, foto,
registrazioni, televisione; e i personaggi si riuniscono infine con un ritornello […] Ciò che si è
spezzato è la linea o la fibra di un universo che prolungava gli avvenimenti gli uni negli altri,
o assicurava il raccordo delle porzioni di spazio […] I concatenamenti, i raccordi o i legami
sono deliberatamente deboli. Il caso diventa il solo filo conduttore”. Deleuze, Image-temps :
Cinéma 2 ; [trad. it. Immagine tempo,cit. pp. 236-237].
157
“Quasi tutti i suoi personaggi trovano una sorta di ‘doppel’ equivalente, che nel complesso
dell’opera comporta una vera e propria messa in serie: Linnea, per quel che riguarda il sistema
relativo all’adulterio, trova il diretto equivalente in Mary; Connie White non tanto sostituisce,
ma è Barbara Jean; Tommy, l’idolo nero della country music, è l’altra faccia di Wade, il nero
che protesta contro l’integrazione del primo (“più bianco dei bianchi”) nel contesto della
cultura bianca; il soldato che, spinto dalla madre, si è recato a Nashville per adorare in
silenzio lo stolido idolo di Barbara Jean è l’opposto identificativo del ragazzo che alla fine
compie l’attentato, l’infinitamente grande che è al tempo stesso l’infinitamente piccolo, la
caratterizzazione specifica che è insieme il suo contrario […] Ogni personaggio, in quanto
elemento di una messa in serie, assolve il ruolo di significante relativo al significato proposto
da un altro personaggio in quanto elemento di un'altra messa in serie […] Tra i film di
Altman, Nashville sceglie di filmare l’ontologia della serialità, la sua organizzazione a
rimando, l’eco impersonata da ogni singolo elemento strutturale nei confronti di un altro
precedente”. Franco La Polla, Il nuovo cinema americano: 1967-75, Venezia, Marsilio, 1985,
pp. 237-238 e 242-243.

117
2.12 Semidocumentarismo/ipersoggettività.
Al semidocumentarismo, oltre alla dimensione teatrale, è spesso associata una
componente complementare che si esprime in una resa iperbolica della
soggettività del personaggio principale intorno a cui ruota la vicenda e che
evolve, con formule parossistiche, verso una palpabile astrazione del
protagonista nei confronti dell’ambiente.
È una modalità di messa in scena che riguarda principalmente pellicole
riconducibili al filone generico del crime-movie, ma che ha tracciato traiettorie
altrettanto importanti anche attraverso documenti estranei a questa tipologia,
che le hanno fatto da apripista.
Infatti, già nel 1961, spetta ad un musical come West Side Story (Robert Wise)
dare avvio ad una marcata stilizzazione dei personaggi rispetto ad una
ambientazione del tutto realistica. Gli attanti del film di Wise sono come
marionette, irrigidite e contratte sia dalle coreografie, sia dai ruoli atavici che
si ritrovano a dover recitare come discendenti indiretti (gli Sharks contro i
Jets) dei Montecchi e dei Capuleti. Per contrappunto, gli interni e gli esterni
trasudano invece una aderenza alla realtà degradata di un quartiere
abbandonato di New York che, a sua volta, baratta con i personaggi la propria
impronta oggettiva per suggerire la miscela ed il profilo di un reame astratto.
Lo stesso Shadows (Ombre, John Cassavetes, 1959-60), che pur
dichiarava nei titoli di coda di essere il frutto di una improvvisazione, opera in
molti punti un esplicito richiamo al simbolismo ed all’astrazione, accostando,
e spesso assimilando, i personaggi ad oggetti, oppure reiterando determinate
azioni in modo da tratteggiare una trama che stimola una rarefazione già a suo
tempo individuata da Deleuze158.
Con Who’s that Knocking at my Door? (Chi sta bussando alla mia
porta?, Martin Scorsese, 1969), il binomio di cui ci occupiamo opera una
significativa variazione. Esso non coinvolge tanto rapporti opposti tra
personaggi stilizzati e ambienti reali, ma opera una netta contrapposizione
158
“La scuola di New York imponeva una veduta orizzontale della città, rasoterra, dove gli
avvenimenti nascevano sul marciapiede, e non avevano più come luogo che uno spazio
indifferenziato, come in Lumet. Oppure, o ancor più, in Cassavetes, che aveva cominciato con
film dominati dal volto e dal primo piano costruendo spazi sconnessi dalla forte gradazione
affettiva.[…] Si trattava per l’appunto di disfare lo spazio, non meno in funzione di un volto
che si astrae dalle coordinate spazio-temporali, che in funzione di un avvenimento che straripa
in ogni modo la propria attualizzazione, sia perché tarda e si dissolve, sia perché sorge troppo
presto”. Deleuze, Image-temps: Cinéma 2; [trad.it Immagine tempo, cit. pp.144-145].

118
linguistica tra gli spazi esterni ed interni. Secondo Sandro Bernardi, infatti, “la
città, nel suo rapporto interno/esterno è investita dalla opposizione degli
stili”159.
Scorsese, a partire dall’incipit, interviene sugli interni con una tecnica
che attinge direttamente al montaggio intellettuale sovietico, elaborando
accostamenti e parallelismi tra oggetti e personaggi che attivano anche
esasperate cifre simboliche.
Gli esterni, al contrario, manifestano una aderenza alla scuola francese della
Nouvelle Vague: macchina a mano, piano sequenza, jump-cuts, falsi raccordi,
tutto un bagaglio linguistico che gli consente di esprimere la spontaneità dei
rapporti dei personaggi in opposizione alle claustrofobie registrate negli
interni.
I due ambienti vengono pertanto proposti come due diversi referenti
della storia del linguaggio cinematografico: gli interni sono il “cinema dei
padri” e gli esterni quello dei figli.
La vicenda del film è funzionale a questa opposizione spaziale e stilistica. Il
protagonista vive liberamente l’amore con una ragazza negli ambienti esterni,
ma si sente costretto a rifutarla ogni qual volta si trova con lei in un interno. È
negli interni che subisce il retaggio di pregiudizi morali che trovano
espressione in una messa in scena sovraccarica di riferimenti a un cinema del
passato. Un cinema che, pur attraverso la sua ricchezza formale, sortisce
l’effetto di trasformare l’ambiente in una gabbia dorata per il protagonista, un
rifugio morale e linguistico che giustifica il suo rifiuto a mettersi in gioco.
Attraverso questo doppio registro, dunque, Scorsese riesce a tenere in
bilico il personaggio tra una registrazione degli spazi per così dire priva di
filtri, “sporca”, ma genuina, ed una decisamente controllata e progettata nei
dettagli.
Sarà con Taxi Driver (1975) che il regista italo-americano porterà al
punto di rottura l’equilibrio mantenuto in Chi sta bussando alla mia porta?.
Il protagonista del film è in continuo movimento, ma i suoi viaggi non
conducono da nessuna parte perché il suo taxi vaga in una città per cui prova
un enorme disgusto. È una New York che registra uno scollamento totale tra

159
Sandro Bernardi, “Il conflitto degli stili e lo stile dei conflitti. Ovvero: che cosa ha a che
fare Ejzenštejn con Cassavetes”, in AA.VV, “Martin Scorsese”, Garage,1996, pp. 43-50.

119
le visioni del personaggio e quelle che essa stessa rinvia e riflette dai vetri
delle auto e dei locali pubblici, dalle pozzanghere e dagli oggetti più semplici,
che acquistano una vita propria, gareggiando con l’identità dello stesso
protagonista.

Come abbiamo anticipato, è al crime movie o al filone poliziesco che si


deve la concentrazione maggiore di pellicole in cui si manifesta una messa in
scena che assimila una tendenza realistica dell’ambiente all’astrazione e alla
stilizzazione dei protagonisti che ne fanno parte: “Le immagini di corruzione e
di crimine, di solitudine e di comunione prodotte da questi film sono ancorate
ad una ambientazione in esterni, una estetica che stilizza e al tempo stesso
mette in primo piano gli spazi autentici”160.
Questa modalità di messa in scena o viene articolata intorno alla figura
dell’inseguimento – come accade in Bullit (Peter Yates, 1968), The French
Connection (Il braccio violento della legge, William Friedkin, 1971) o To
Live and to Die in Los Angeles (Vivere e morire a Los Angeles, William
Friedkin, 1985) –, figura che si modella sul canone dell’inseguimento caro al
western, oppure, come negli esempi che abbiamo pensato di analizzare, ribalta
la pratica investigativa nei confronti dello stesso investigatore, così da
determinare un’insolubile ricerca di se stesso, come esprime perfettamente il
personaggio di The Conversation (La Conversazione, Francis Ford Coppola,
1974).
All’interno di The Conversation la vita reale, sottotesto del film, si esprime
nella assoluta devozione dell’uomo contemporaneo nei confronti dei media. Il
suo amore per la manipolazione – attraverso bottoni, microfoni, interruttori…
– contrasta con il suo estraniamento quasi da marziano sia nei confronti delle
altre persone, sia, e in maniera anche più evidente, nei confronti di se stesso.
Harry Cawl, geniale tecnico del suono, si presenta come una specie di
fantasma che attraversa la città: il suo impermeabile lo rende letteralmente
“impermeabile” ai fatti, non perché non lo tocchino, ma perché la realtà si
presenta come inafferrabile per il protagonista, avvolto da un involucro che gli
impedisce di penetrare ciò che osserva attraverso la sua “arte dell’ascolto”.

160
Art Simon, La Struttura narrativa del cinema americano 1960-80, in Gian Piero Brunetta
(a cura di), Storia del cinema mondiale. Gli Stati Uniti, volume II, tomo 2, 1999, p.1665.

120
Come il protagonista di Blow Out (Brian De Palma, 1981), Harry Cawl è alla
ricerca di un suono che proviene dall’esterno: entrambi i personaggi non
producono dei suoni propri, ma elaborano qualcosa di riprodotto.
Il film, attraverso pedinamenti e appostamenti, presenta una San
Francisco tanto sovraccarica della presenza dei media da mostrare,
all’opposto, come i media che ne registrano ogni minimo spazio siano vuoti, e
quanto, di conseguenza, gli stessi spazi risultino delocalizzati e avvolti da un
segnale disturbato, che registra i personaggi come una interferenza o come
oggetti161. Già la camera oscura di Blow-up162 (Michelangelo Antonioni,
1964), con cui Coppola si è confrontato, aveva rivelato che l’istanza ultima di
verità non era la verità finale, così i dispositivi di registrazione di Coppola
dimostrano che in realtà non sanno registrare nulla. Come sostiene Virilio,

Privato dei limiti oggettivi, l’elemento architettonico va alla deriva,


galleggia in un etere elettronico sprovvisto di dimensioni spaziali,
inscritto nella sola temporalità di una diffusione istantanea. Ormai, più
nessuno può ritenersi isolato da un ostacolo fisico o da “distanze di
tempo” troppo lunghe; grazie all’interfaccia dei monitor e degli elementi
di controllo, l’altrove comincia qui e viceversa. Questa improvvisa
reversione dei limiti e delle opposizioni introduce, questa volta nello
spazio comune, ciò che fino ad ora era da riferirsi all’ordine della
microscopia; il pieno non esiste più, al suo posto una distesa senza limiti
si svela in una falsa prospettiva rischiarata dall’emissione luminosa degli
apparecchi. A partire da questo momento, lo spazio costruito partecipa
di una topologia elettronica in cui l’inquadramento del punto di vista e
la trama dell’immagine numerica rinnovano il parcellario urbano. Al
vecchio occultamento privato/pubblico, alla differenziazione fra
abitazione e circolazione, succede una sovraesposizione in cui viene a
cessare lo scarto fra “vicino” e “lontano”. […] L’architettura urbana
deve ormai venire a patti con l’aprirsi di uno “spazio-tempo
tecnologico”.163

161
Spesso Coppola adopera strutture e meccanismi per rappresentare le persone come oggetti.
Un esempio lo rintracciamo nella sequenza iniziale, quando due ragazze, ignare di essere
riprese, si rifanno il trucco nel finestrino a specchio che sta effettuando di nascosto le
registrazioni. Harry e il suo assistente le osservano dall’interno come due telespettatori di
fronte a due modelle ingaggiate per la pubblicità di un prodotto cosmetico. In questo modo il
film dimostra chiaramente che il problema del voyeurismo è la riduzione ad oggetto non solo
dell’essere umano in quanto bersaglio dell’osservazione, ma anche dell’osservatore, il cui
minuzioso ma passivo esame delle immagini che appaiono nei monitor, blocca ogni
sentimento soggettivo, ogni affettività.
Cfr. l’ottimo saggio di Lawrence Shaffer, “The Conversation”, Film Quarterly, vol. 28, n. 1
(Autumn), 1974, pp.54-60.
162
Per una analisi accurata della sequenza dedicata allo sviluppo ed ingrandimento delle
fotografie effettuato nella camera oscura cfr. Lorenzo Cuccu, La visione come problema:
forme e svolgimento del cinema di Antonioni, Roma, Bulzoni, 1973.
163
Paul Virilio, L'espace critique, Paris, Christian Bourgois, 1984; [trad.it. Maria Grazia
Porcelli, Lo spazio critico, Dedalo, Bari, 1988, pp. 10-11].

121
Ci sono talmente tanti dispositivi di registrazione e di scomposizione del
suono e dell’immagine, che l’effetto generale prodotto è che le persone non
siano mai correlate nello spazio da un punto di vista organico. In The
Conversation ogni tipo di gruppo, da quello eterogeneo “registrato” in Union
Square a quelli che via via si compongono alla Esposizione di prodotti high-
tech, o in ultimo quello presente al party di Harry, vengono ripresi come
compartimenti stagni ed esprimono tutta la loro disarmante solitudine, il loro
isolamento da qualunque vivo contesto.
Nella scena finale in cui un Harry, ormai completamente ossessionato
dalla sua malattia professionale, demolisce il proprio appartamento alla ricerca
di una microspia, la macchina da presa non lo segue nei suoi percorsi, ma si
sposta in ritardo sui suoi movimenti, come se si trattasse di un sistema di
registrazione automatico del tutto svincolato da una intenzione umana: la
macchina da presa risulta cioè un attrezzo statico, un occhio elettronico
pilotato da una entità indistinta e occulta.
Il reiterato ascolto dei nastri che custodiscono la conversazione tra due
amanti apparentemente in pericolo di vita non fa crescere in Harry Cawl una
reazione in linea con il massimo di oggettività, ma esattamente il contrario:
aumenta, in proporzione, la sua interpretazione soggettiva. Più Harry ascolta,
sempre meno capisce, ma dentro di lui sente sempre di più; le sue facoltà
percettive si dilatano fino a trasformarlo in un dispositivo quasi
extrasensoriale, o addirittura allucinatorio.
Sono pellicole come The Conversation, o più tardi come Blow Out
(Brian De Palma, 1981) che disegneranno un nuovo profilo del protagonista
urbano, il quale da flâneur si trasforma in écouteur. La metropoli americana,
nella sua declinazione ipertrofica da parte dei sistemi di ripresa, allontana il
personaggio dallo spazio collocandolo su un altro livello, da cui non gode più
né della veduta d’insieme, né di una veduta parziale. A dirigerlo è un suono –
scampoli di una conversazione indecifrabile e fuorviante nel film di Coppola,
o il grido di un’amica in pericolo di vita in quello di De Palma. In entrambi i
casi, è all’orecchio e non alla vista che sono deputati l’orientamento, la
decifrazione della realtà, e l’unico possibile intervento di risoluzione del
dramma.

122
E dove la città nega e ottunde l’immagine di se stessa e dei personaggi, il
suono metropolitano – dialoghi e rumori – traccia le traiettorie di uno spazio
ancora più minaccioso: le distanze o sono incolmabili come in Blow Out, o
irreperibili, come ne La conversazione. “Qualcuno è in ascolto”, si sarebbe
potuto leggere come epigrafe riferita a fantomatici alieni in certi film di
science-fiction degli anni cinquanta. Nei casi che abbiamo citato, quel
qualcuno è la grande metropoli, che ascolta e che rende asincrono, in ritardo o
disturbato, il segnale di ricezione del suono per coloro che la abitano. Lo
spazio del suono è la nuova sfida dell’antico flâneur.

2.13 Interiorizzazione del western.

Sul finire degli anni sessanta, gli scenari delle grandi praterie e dei
canyon protagonisti di innumerevoli film western vengono mutuati dalle
highways e dai grattacieli delle metropoli. In questo slittamento ambientale,
quello che nei western era il topos dell’esplorazione del territorio non è più un
percorso lineare (per quanto a volte accidentato), contraddistinto da prove da
superare dirette alla formazione del Sé o al riscatto di colpe e ferite sofferte.
Diventa, al contrario, un itinerario frammentato, spesso perturbante, che non
consiste in tappe, bivacchi o stazioni in cui riflettere sulla prova appena
superata e prepararsi per quella successiva.
Il paesaggio metropolitano westernizzato prende in prestito alcune
figure canoniche del western di fabbrica e comincia a lavorarle dall’interno.
Nella definizione di efficaci ed evidenti analogie con gli spazi e i paradigmi
narrativi deputati del western si insinua un batterio che assume almeno due
compiti essenziali e complementari.
Il primo è la progressiva erosione del mito, ottenuta attraverso un
sofisticato intervento sulla messa in scena che rende lo spazio l’attante
principale, relegando la figura umana in secondo piano.
Il secondo ha come obiettivo la costruzione di quelle “poetiche della
nostalgia”164 che, da un punto di vista sia linguistico sia estetico, sapranno
164
Cfr. La Polla, Il nuovo cinema americano cit.

123
rinnovare e arricchire le pellicole di nuova generazione grazie al
riconoscimento, e ad una conquistata consapevolezza, dell’esistenza di una
storia del cinema americano.
Ci concentreremo allora sulla rielaborazione della messa in scena,
all’interno degli agglomerati urbani, di tre figure che riteniamo essere tra
quelli portanti del western classico: 1) il viaggio e la missione del cowboy; 2)
l’assedio; 3) l’inseguimento.

2.13.1. Il viaggio e la missione del cowboy.

La figura del viaggio dell’eroe si presenta come un itinerario senza


soluzione di continuità e riavvolge su se stessa, come in un loop, l’esperienza
lacerata dei protagonisti, marchiata dalle immagini di un altrove
irrecuperabile. Questo sviluppo non è certo una novità, dal momento che
ricalca la scia delle istanze crepuscolari già tracciate dal genere americano per
eccellenza durante gli anni sessanta. L’elemento innovativo, probabilmente,
risiede nel fatto che quell’altrove mitizzato è diventato un luogo, la grande
metropoli, in cui viene negata l’immagine convenzionale del cowboy e dove il
passato, vissuto a contatto con realtà aderenti alle istanze figurative e narrative
del West, ha prodotto solo abbandoni e violenze.
Nel momento in cui una pellicola come Midnight Cowboy (Un uomo
da marciapiede, John Schlesinger, 1968) attinge, come ci ricorda Franco La
Polla165, a tutto il patrimonio della mitologia americana (il viaggio, il rapporto
città-campagna, l’incontro con l’altro, l’amicizia carica di omosessualità
latente, nel pieno rispetto, come ha ormai sancito Leslie Fiedler 166, dei classici
della letteratura statunitense), ne mette in scena una prospettiva quasi del tutto
rovesciata. Infatti, proprio partendo dal film di Schlesinger, il viaggio non
muove più verso il West, bensì è orientato in direzione opposta, da ovest verso
est: da un piccolo paese del Texas a New York.
Il punto di partenza è lo schermo bianco di un drive-in deserto e
abbandonato dal quale echeggiano, attraverso un suono extradiegetico, le voci

165
Cfr. La Polla, Consummatum west in Id., Stili americani, cit.
166
Cfr. Leslie Fiedler, Love and Death in the American Novel, New York, Criterion Books,
1960; [trad.it. Valentina Poggi, Carlo Izzo (a cura di), Amore e Morte nel romanzo americano,
Milano, Longanesi, 1967].

124
di un classico assalto alla diligenza. Dallo schermo bianco il regista stacca sul
corpo nudo di Joe Buck, che si prepara ad indossare i panni di un novello John
Wayne, pronto a dare l’assalto ad una New York vista come un nuovo
Eldorado, dove le pepite preziose sono le donne alle quali prostituire il proprio
corpo.
Schermo bianco, privo di ogni immagine archetipica del western, e
corpo nudo del cowboy sanciscono, già in apertura, le premesse di una tabula
rasa delle “immagini-mito”: i marciapiedi della grande città faranno
recuperare solo visioni ed esperienze di ferite e prostituzioni equivalenti a
quelle vissute nel luogo di provenienza.

Il viaggio verso New York, effettuato con uno di quegli autobus della
Greyhound che per una intera generazione di giovani avevano segnato la fuga,
la scoperta del proprio paese e di se stessi, si sviluppa invece all’insegna di
una presenza anonima. Il passaggio da un luogo all’altro è segnalato solo
dall’avvincendarsi delle stazioni di una radio che il protagonista porta sempre
con sé come unica bussola. È un oggetto che sancisce proprio la perdita delle
immagini a cui facevamo riferimento, nonché l’uniformità del territorio
attraversato: sono le voci e i suoni radiofonici che sovraintendono e
coordinano l’articolazione del percorso, sostituendosi a quelli che un tempo
erano stati paradigmi visivi evocativi.
Nel rapporto con lo spazio urbano, il protagonista vive la dimensione
di un bivacco forzato. A differenza delle pellicole western, governate da un
forte statuto diegetico e formale tra inseguito e inseguitori, il nostro cowboy è
braccato esclusivamente dalla propria memoria, da inserti spesso rapidissimi e
improvvisi, presentati prevalentemente in bianco e nero e con tecniche da
cinema sperimentale. Sono immagini ai limiti della connotazione
allucinatoria, in cui osserviamo brandelli di esperienze terribili, tra cui la sua
sodomizzazione e lo stupro collettivo della propria ragazza.
Le immagini di New York, inoltre, non sono presentate con attributi
derivati dalla pratica documentaria al cui interno è maturata l’esperienza del
regista: tutt’altro, la città quasi si fa da parte per lasciare spazio alle sole

125
azioni di questo “corpo-cowboy”167. Il suo movimento è contrassegnato da
un’orizzontalità senza meta, un continuo peregrinare a piedi. Sono frequenti,
infatti, le inquadrature riservate agli stivaloni che indossa e che, letteralmente,
lo costringono a “tenere i piedi per terra”, costantemente annichilito in ogni
suo slancio verso l’alto, verso un successo ricercato che si esprime come la
svendita di un corpo-immagine del mito.
Il personaggio sembra dunque ancorato al suolo, la sua deambulazione
è resa difficile, come se quei feticci di cuoio fossero imbottiti di piombo:
rimane irretito da un mito troppo pesante, da un fardello che lo fa incespicare
in ripetuti fallimenti.

In questo territorio contaminato, l’incontro con “l’altro”, in ultima


istanza, non solo non avviene più in un ambiente naturale (spesso edenico),
ma presenta “l’altro”, Rico Rizzo, come un emarginato, per giunta storpio e
malato di tubercolosi.
I due protagonisti sono dominati da un ambiente completamente
assorbito dalla pubblicità, che pulsa le luci delle insegne pubblicitarie sui due
compagni, marchiandoli come bestiame. Tuttavia, mantenendo questa
similitudine, se le mandrie ingrassavano nell’attraversamento di verdi pascoli,
in queste nuove “praterie urbane” domina la logica opposta. Il cowboy Joe
Buck, che si prostituisce, si fa letteralmente consumare dai clienti, ma poi in
particolare è il corpo di Rico, aggredito e consunto fino alla morte dagli stenti
e dalla tubercolosi, a tracciare in modo esplicito la connessione tra la
decomposizione delle strutture urbane e quella della dignità umana. Quando
infatti i due amici sono fermi, in piedi, nel gigantesco cimitero di Queens,
Rico dice a Joe che la tomba di suo padre potrebbe essere contrassegnata
semplicemente con una X, come quelle che vengono inchiodate sulle finestre

167
“[…] il rapporto in termini visivi tra il personaggio e la città – soprattutto per quel che
riguarda il vero protagonista del film, il destinatario della sua morale, Joe Buck – è pressoché
costantemente risolto in termini “antropocentrici”: vale a dire, a differenza di certo cinema
narrativo di superficie documentaria […] l’attenzione della macchina da presa non si appunta
sul personaggio in rapporto all’ambiente, ma solo e sempre sul personaggio e le sue reazioni
all’ambiente. L’ambiente, insomma non vive di vita propria, come elemento oggettivo e
autonomo nel quale il personaggio si immette come una delle componenti dell’ambiente
stesso […], ma come elemento funzionale alla storia psicologica e morale del personaggio,
vero e proprio protagonista del film”. Franco La Polla, Consummatum west. Cowboy, locuste
e scarafaggi: tre film hollywoodiani di John Schlesinger, in Id., Stili americani, cit., p.106.

126
degli edifici cittadini destinati alla demolizione, edifici come quello in cui
vivono lui e Joe e che compaiono ripetutamente nel film.
In definitiva, la composizione del film, nel passaggio dal vecchio al
nuovo West metropolitano, fa emergere uno spazio della memoria delle
origini che è un ripiegamento su se stessi e che realizza, come sostiene Enrico
Magrelli168, quella “riduzione geografica come riduzione di senso”.

2.13.2 L’assedio.

La figura dell’assedio, inscritta all’interno del paradigma che Francesco


Dragosei definisce come il “cerchio ferito” 169, riassume gran parte della storia
americana, ne è il compendio forse più significativo.
Il “cerchio minacciato” rimanda a una casa circondata da wilderness e
indiani, prototipo nato dalle captivity tales170, di cui quello sulla casa dei
Rowlandson è una delle declinazioni. Il trauma collettivo della casa (e di una
intera nazione) assediata è un incubo talmente diffuso, che probabilmente
deve la sua forza deflagrante all’analogia che si stabilisce tra la casa ed il
proprio corpo. Lo scambio della casa con il corpo è forse frutto di due
elementi: le modalità dell’attacco indiano e il terrore puritano di essere
posseduto dal demonio.
La guerra indiana, “capillare e atomizzata”, non frontale né dichiarata,
era caratterizzata da frequenti attacchi sferrati di sorpresa alle spalle. Le sue
168
Enrico Magrelli, A ovest di nessun est. Il viaggio testuale, lo spazio, il cinema, in Giorgio
Simonelli e Paolo Taggi (a cura di), L’altrove perduto. Il viaggio nel cinema e nei mass
media, Novara, Gremese Editore, 1987, p.26.
169
Secondo l’autore, gran parte della cultura americana fa riferimento a questo “cerchio”
attraverso il quale “scandisce una serie di grandi figurazioni”. Partendo proprio dalla casa dei
Rowlandson presa d’assalto e circondata dagli indiani, si passa dall’attacco di Pearl Harbour,
alle fobie legate alla bomba atomica e alle infiltrazioni comuniste; dalle psicosi del complotto
fino alla guerra del Vietnam, madre di tutte le successive formule di assedio che opprimono
gli americani, non ultimo il conflitto in Iraq. Cfr. Francesco Dragosei, Lo squalo e il
grattacielo. Miti e fantasmi dell’immaginario americano, Bologna, il Mulino, 2002.
170
Cfr. Frederick Drimmer (a cura di), Captured by the Indians, New York, Dover
Publications, 1985 [1961], pp.10-11; Richard Slotkin, The fatal environment. The
Myth of the frontier in the age of industrialisation, 1800-1890, New York,
Atheneum, 1985, p.63; Mary W. Rowlandson, A True Story of the Captivity and
Restoration of Mrs. Mary Rowlandson, London, Joseph Poole, 1682 ,(First published
as: Sovereignty and goodness of God : together with the faithfulness of his promises
displayed : being a narrative of the captivity and restoration of Mrs. Mary
Rowlandson and related documents, Cambridge, Mass., 1682).

127
armi erano silenziose, l’indiano era onnipresente e colpiva senza avvertire. La
lettera scarlatta (Hawthorne, 1850), ad esempio, può essere interpretato 171
come un’intersezione tra psicosi dell’invasione del corpo dell’uomo da parte
di Satana e psicosi dell’invasione della casa da parte delle sue demoniache
creature indiane.
Nell’aggressione indiana l’uomo nuovo americano coglie non tanto il pericolo
di una morte fisica, quanto di un’assimilazione culturale, di una “penetrazione
morale”, una condizione accreditata, ad esempio, dalle riflessioni di Jung:

nelle fantasie eroiche degli americani il carattere indiano ha un ruolo


fondamentale […] Solo le iniziazioni degli indiani possono competere
con la spietatezza e la crudeltà di un rigoroso training americano […] In
tutto ciò che l’americano vuole davvero, viene alla luce l’indiano; nella
straordinaria concentrazione su un certo obiettivo, nella tenacia del
perseguire, nella ferma sopportazione delle difficoltà più grandi,
emergono pienamente tutte le leggendarie virtù degli indiani 172.

Con Assault on Precinct 13 (Distretto 13 – Le brigate della morte,


1976), John Carpenter sfrutta il topos dell’assedio ed attua una riproposizione
metropolitana degli schemi figurativi e comportamentali a cui abbiamo fatto
riferimento. Lo spazio del film, pertanto, configura l’essere umano assediato e
lasciato solo contro una minaccia oscura e invisibile a cui far fronte.
Nello scenario di un distretto di polizia appena dismesso, un gruppo di
uomini e donne si trova al centro di una diafana wilderness e consuma la sua
lotta per la sopravvivenza, non potendo contare sul sollecito intervento delle
istituzioni. È una ambientazione priva di orizzonte in cui l’unità spaziale e
temporale esaspera i contorni della minaccia, dove gli assedianti non hanno
volto, appartengono ad una sedicente setta vodoo e non assumono mai lo
statuto di personaggi veri e propri, ma, come sarà per il Michael Myers di
Halloween (Halloween: La notte delle streghe, 1978, John Carpenter), sono
semplicemente delle “forze”173.
171
Cfr. Dragosei, Lo squalo e il grattacielo, cit.
Per una lettura comparata delle opere di Hawthorne e Melville e i temi portanti della
letteratura americana che, come cerchiamo di sottolineare, tanto rilievo hanno anche
all’interno della cultura cinematografica degli Stati Uniti, cfr. Barbara Lanati, Frammenti di
un sogno : Hawthorne, Melville e il romanzo americano, Milano, Feltrinelli, 1987.
172
Carl Gustav Jung, Seelenprobleme der Gegenwart, Zurich, Rascher, 1931; [trad. it. Arrigo
Vita e Giovanni Bollea , Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, Torino,
Einaudi, 1942, ( 1959² ,pp.141-142) ].
173
Il “male” raccontato e messo in scena da Carpenter proviene spesso dal passato. Nei suoi
film si respira sempre un odore arcaico: non si tratta mai di qualcosa che è partorito

128
In questo fortino, gli assediati compongono e rinnovano quel gruppo
misto di tipi americani che già un film come Stagecoach (Ombre rosse, John
Ford, 1939) aveva modellato. Si tratta di un gruppo che in una circostanza
ordinaria avrebbe mantenuto, probabilmente, tutta la sua inconciliabilità,
manifestata dai diversi caratteri e dai rispettivi credo; qui, al contrario, come si
era verificato nella pellicola di John Ford, trae alimento proprio dalla
condizione di assedio per provare a lottare con uniformità di intenti.
Del resto, se accettiamo le considerazioni di Beniamino Placido, non
poteva accadere altrimenti:

in virtù dell’esperienza della frontiera, dell’esposizione ai rischi, ai


pericoli, alle difficoltà, l’homo americanus è diventato indipendente
(non c’era alcun potere centrale a cui rivolgersi), inventivo (perché ha
dovuto orientarsi da sé o adattare alle sue esigenze gli strumenti di
sopravvivenza), individualista (perché non poteva chiedere aiuto a
nessun altro), ma al tempo stesso capace di solidarietà (quando si
trattava di aiutare l’occasionale vicino a farsi una capanna o a mettere le
trappole ecc.), democratico ed egualitario (siamo tutti uguali di fronte al
pericolo dell’indiano che ci guata con occhi selvaggi da dietro il tronco
di un albero).174

Per offrire la misura della wilderness urbana, il film di Carpenter opera


attraverso la desertificazione e lo svuotamento dello spazio esterno. Il regista
ottiene questo risultato giocando innanzitutto su una prospettiva orizzontale,
vuota, priva di immagini e di suoni identificabili, costruita attraverso una
accentuata profondità di campo e l’ampiezza del formato della pellicola. Sono
due strumenti che in questo caso, anziché determinare una consistenza
realistica, potenziano la paura del vuoto.
È il formato della pellicola, in particolare, che attiva le letture più
significative dello spazio teatro della vicenda: “Lo scope comunica al
pubblico che la storia non è fatta solo dalle piccole cose che succedono in
primo piano, ma che c’è un background, ci sono più strati e profondità
diverse”175.

all’improvviso dalla società, magari frutto della modernità o del consumismo.


174
Beniamino Placido, L’invenzione del cavallo, Seminario di studi della Biennale di Venezia
su “Industria culturale e cinema in USA negli anni dieci e venti”, 4-7 settembre 1975 pp.15-
16.
175
Giulia D’Agnolo Vallan, Roberto Turigliatto (a cura di), John Carpenter, Torino, Lindau,
1999, p. 132.

129
Carpenter allestisce uno “spazio altro”, un “luogo secondo” che solo
apparentemente coabita con quello del distretto di polizia, espressione della
identificazione, della personalità e del sodalizio dei suoi occupanti. La
dialettica delle azioni tra i due spazi risiede nel rimando continuo tra primo e
secondo piano, tra assediati e assedianti che governano lo sfondo, i quali si
rivelano, a pieno titolo, come l’unico sfondo. Quest’ultimo poi assume un
rilievo soprannaturale, dovuto alla inspiegabile e continua moltiplicazione
degli assalitori nonostante le gravi perdite subite nei ripetuti conflitti a fuoco.
Progressivamente, questa dialettica tra figura e sfondo, grazie anche ai
potenti obiettivi grandangolari, crea tra i contendenti una distanza
incolmabile, in modo tale da determinare uno stallo completo. Pertanto il
fulcro della vicenda si orienta verso una “disidratazione” del plot e dei
paradigmi narrativi del western classico, che erano sempre diretti, dopo aver
fatto temere per la sorte dei protagonisti, verso una soluzione finale.
A questo proposito Carpenter, come è solito fare, alterna spazi
concentrazionari, costruiti come una gigantesca trappola per i personaggi che
li attraversano, ad un vorticoso movimento interno, che si introduce in quello
stesso spazio circoscritto per indagarne ogni fessura, per coglierne il dettaglio
più inaccessibile.
Nella rielaborazione degli stilemi western, il regista prende come
riferimento Howard Hawks e interviene sul trattamento dei capisaldi poetici e
stilistici orchestrati dall’autore di Rio Bravo (Un dollaro d’onore, 1959),
ritenuta una delle pellicole che meglio hanno espresso le dinamiche
archetipiche del western dello studio system.
Carpenter innanzitutto lavora sulle immagini del gruppo e del suo
rapporto con lo spazio che si trova ad occupare. Quelle che nei film di Hawks
erano immagini di solidarietà, con i personaggi raccolti intorno alle luci
soffuse e alle lampade pensili che definiscono il calore degli interni (proprio
come nell’ufficio dello sceriffo di Un dollaro d’onore), in Distretto 13
diventano suggestioni di divisione e alienazione, con gli attori sparsi su tutta
la superficie disponibile dello schermo. Soggetti delle inquadrature del film di
Carpenter diventano gli ampi spazi tra i personaggi e il vuoto rimbombante
della stazione di polizia, uno scenario desolato, sovrailluminato dalle lampade
al tungsteno che proiettano, nelle dominanti blu, una freddezza istituzionale in

130
cui i riflessi dei volti degli assediati richiamano la fantasmaticità degli
assedianti.
Inoltre, mentre le personalità messe in scena da Hawks (anche coloro
che per varie circostanze vivevano emarginati dalla comunità) erano un
gruppo autoselezionato di professionisti, che con le loro sopraffine abilità si
erano scelti tra loro per dare vita a microsocietà definite da valori comuni,
lessici privati e prove condivise, i personaggi di Carpenter sono e restano
degli esuli. Lo sono non perché hanno scelto di esserlo, ma per il colore della
pelle, per il loro sesso, o per la loro origine sociale; sono, in definitiva, un
gruppo nato per caso e che come tale rimane ostaggio di uno spazio che si
sgretola.
Se, proseguendo nel confronto, in Un dollaro d’onore il ristretto
scenario della prigione e dell’ufficio dello sceriffo deflagra in una gioiosa
distruzione all’aria aperta, in Distretto 13 lo spazio continua a restringersi: da
un intero piano si passa ad una stanza, poi ad un sotterraneo, infine ad un suo
angusto ripostiglio.
Va evidenziato che anche il film di Carpenter, come quello di Hawks, si
conclude con un’esplosione che respinge il nemico; tuttavia essa non procura
alcun senso di libertà o di risoluzione definitiva: non solo la vittoria è del tutto
temporanea, ma l’arrivo della polizia, come un tempo quello della cavalleria,
non è affatto liberatorio. Il gruppo faticosamente costituito, e che nonostante
tutto è riuscito a respingere gli attacchi, si divide. Ogni personaggio, già
prigioniero di quello spazio che ha modellato ciascuno secondo scarne e
laconiche tipizzazioni, resta avvolto, durante il congedo finale, nel proprio
segreto.

Con Dawn of the Dead (Zombi, George Romero, 1979) si verifica una
interessante variazione sul tema dell’assedio: non abbiamo più uno spazio
interno in rapporto ad uno esterno, ma ora l’assedio è attuato esclusivamente
in un ambiente interno. Si tratta di un rifugio in uno spazio periferico, liminare
alla metropoli, un immenso shopping-mall popolato solo da morti viventi, che
contendono l’ambiente espositivo a merci e manichini e nel quale si
nascondono quattro personaggi fuggiti dalla grande città, caduta

131
completamente in mano a queste creature che occupano, metaforicamente, un
luogo di confine tra la vita e la morte.
Assediati e assedianti condividono, come anticipato, lo stesso ambiente
che colloca le due fazioni su uno stesso piano, destinandoli alla logica del
consumo reciproco. È un luogo in cui entrambe le fazioni manifestano il loro
essere “corpi consumatori”: gli zombi di carne umana, gli “umani” degli
oggetti della mercificazione. È un consumo contraddistinto dal gesto della
reiterazione, alimentato da un bisogno meccanico che trova la sua dimensione
complementare nel diventare, per gli zombi come per i personaggi umani,
corpi usurati e consunti da quello stesso bisogno.
Il consumatore, sia esso zombi o persona, risulta del tutto omologato, è
una figura “a una dimensione”, programmata in modo da esprimere
esattamente solo quei desideri che il sistema sociale può soddisfare: “le
persone si riconoscono nelle loro merci; trovano la loro anima nella loro
automobile, nel giradischi ad alta fedeltà, nella casa a due livelli,
nell’attrezzatura della cucina”176. Lo spazio dello shopping-mall, pertanto,
edifica e sancisce un corpo comune grazie alla disseminazione degli oggetti
capaci di determinare la sostanza e il valore di questa nuova comunità. Michel
Maffesoli sostiene che c’è un

vitalismo impazzito […] negli accatastamenti di oggetti offerti alla


contemplazione e al consumo in quei nuovi templi che sono gli
“ipersupergrandi magazzini” contemporanei […] È possibile che i
templi dell’oggetto assicurino la congiunzione fra queste due tendenze:
la gente che vi si raduna, temendo e tremando, per celebrare certe
divinità misteriose e, con questo pretesto, fare un corpo, affermare una
comunità […] In questo senso possiamo parlare di creazione a proposito
degli oggetti. Non si tratta dell’atto creativo che li fa nascere […] ma
degli oggetti in quanto creatori di comunità. Ritroviamo qui
quell’“emblematismo” di Durkheim: gli oggetti-emblemi creano intorno
a loro il rinnovamento. Possiedono una forza intrinseca che trasforma il
vizio in virtù, poiché ciò che è cosa (res), attraverso la costruzione
deificante, induce paradossalmente una crescita societaria. Che le cose
statiche producano un dinamismo costituisce la forza creatrice
dell’“oggettuale”.177

176
Herbert Marcuse, Der eindimensionale Mensch: Studien zur Ideologie der
fortgeschrittenen Industriegesellschaft, Berlin, Luchterhand, 1968; [trad. it. Luciano Gallino e
Tilde Giani Gallino, L’uomo a una dimensione, Torino, Einaudi, 1968, p. 9].
177
Michel Maffesoli, Au creux des apparences: pour un ethique de l’esthetique, Paris, Plon,
1990; [trad.it. Claude Beguin, Nel vuoto delle apparenze. Per un’etica dell’estetica, Milano,
Garzanti, 1993, p.250].

132
Nella logica dell’assedio non pare esserci più un fuori ma solo un
dentro, quello che James Ballard ha definito un “inner space”178, uno
sconosciuto “dentro” che, nel caso del film di Romero, non lascia tuttavia
intendere visioni fantascientifiche, avventure della conoscenza o
dell’ibridazione tecnologica. All’interno dell’ipermercato, i corpi degli zombi
e quelli degli umani elidono gli antagonismi, annullandosi nella reciproca
mercificazione diventano un’unica forma, mentre lo spazio, luogo dell’assedio
della merce, si affranca dai corpi. L’ipermercato diventa l’unico contenuto
capace di digerire gli stessi corpi che lo hanno abitato, percorso e goduto nello
sguardo estatico impregnato dal desiderio meccanico della propria
decomposizione. È il consumo visivo della merce che ha prodotto il luogo di
un corpo che vibra tra la vita e la morte:

abbandonati i luoghi delle relazioni parentali , dove prevale l’identità


radicata verticalmente di cittadini residenti in un luogo […] percorriamo
dunque lunghi corridoi davanti ai quali vibrano le nostre molteplici
identità di abitanti erratici del territorio, per giungere infine in un luogo
stabile e ripetitivo, dove possiamo assumere una identità di gruppo,
aderente alle nostra idiosincrasie di consumo e del tutto avulsa dai
caratteri del territorio che ci ospita. Ma questi spostamenti avvengono
senza soluzioni di continuità; sono paesaggi tenuti a distanza di
sicurezza dalla attitudine al loro rapido consumo visivo. 179

2.13.3. L’inseguimento.

La tipologia di inseguimento esportata nella metropoli che ci sembra


determinare il maggior numero di prestiti e infiltrazioni è quella che riflette
matrici legate allo spazio di un western censurato e scarnificato, ridotto a
poche componenti appena abbozzate o stilizzate: un semplice bivacco, un
capanno, una stazione per il cambio dei cavalli, vengono presentati come una
sorta di miraggio, la stanca immagine di un prototipo consumato. Questo non
vuol dire che gli ambienti urbani siano ridotti e privi di definizione, non è
tanto l’impronta figurativa ad essere mutuata dal western, quanto lo stile, la
prospettiva di uno spazio che nelle sue articolazioni (anche

178
Cfr. James Ballard “Qual è la strada per lo spazio interiore”, Re/Search, anno III, n. 2,1994.
179
Pierre Dalla Vigna, La filosofia degli Zombie, in Michel Foucault, Eterotopia, Luoghi e
non luoghi metropolitani, Mimesis, 1994 (2005), p.78.

133
semidocumentarie) anestetizza i personaggi, li rende semplici appendici di un
unico bisogno animale: quello di catturare la preda. È un bisogno espresso, per
lo più, dal dispositivo linguistico e narrativo dell’inseguimento a cui soggiace
del tutto ogni protagonista.
A questo principio aderisce The French Connection (Il braccio violento
della legge, William Friedkin, 1971): qui “l’inseguimento […] è elevato a
principale meccanismo stilistico”, così che “i personaggi sembrano abbozzati
e sono definiti meglio dai loro mezzi di trasporto”180; il che equivale a dire,
ripensando al western classico, che l’attenzione si sposta dal cavaliere al
cavallo. Inoltre, a conferma della riduzione di senso delle figure umane,
Leonardo Gandini annota che

l’insistenza sul pedinamento, sulla sorveglianza priva i personaggi di


ogni caratteristica psicologica, li riduce a pura funzione […]: inseguire
ed essere inseguiti, sorvegliare ed essere sorvegliati, correre, per
raggiungere o per non essere raggiunti. La funzione cui obbedisce il
ruolo di Popeye [il personaggio inseguitore di The French Connection,
N.d.A.] – inseguire, braccare, raggiungere i suoi avversari – non si
esaurisce insieme all’intreccio. Come un pupazzo meccanico a cui sia
stata data una carica eccessiva, il personaggio continua a fare ciò che ha
fatto fino a quel momento, noncurante che l’intreccio sia giunto a
conclusione181.

Nonostante lo sviluppo di questo tipo di caccia risulti astratto, vanno


comunque evidenziati il recupero di tutta una serie di prototipi cari al western
ambientato nelle grandi praterie: una percorribilità indefinita dello spazio
attraverso la velocità degli spostamenti, il desiderio irrefrenabile di evasione
da una prospettiva all’altra, così da vivificare un territorio in cui diventa lecito
esprimere la violenza dei rapporti diretti e dove è ancora lecito attendersi
avventure e incontri imprevedibili.
In questo contesto l’aspetto più diffuso, come anticipato, è una caccia
perpetua e ossessiva che si conclude frequentemente con il ritrovarsi di fronte
ad un altro se stesso. Le articolazioni delle vicende non veicolano soltanto il
topos della reciproca seduzione tra cacciato e cacciatore, ormai sedimentato

180
Carlos Clarens, Crime Movies. An Illustrated History, New York, Norton, 1980; [trad.it.
Giungle americane. Il cinema del crimine, Venezia, Arsenale Cooperativa, 1981, p.271].
181
Leonardo Gandini, Geografie della solitudine. I polizieschi di William Friedkin, in Daniela
Catelli (a cura di), Friedkin, il brivido dell’ambiguità, Ancona, Transeuropa, 1997, pp.115-
116.

134
nei film polizieschi: ora, inseguito e inseguitore risultano fin dal principio, pur
senza saperlo, la stessa persona.
Tra i modelli di riferimento western si possono senz’altro richiamare i
film di Bud Boetticher e in particolare The Shooting (La sparatoria, 1967).
Qui l’inseguimento si conclude con la scoperta che l’avversario rincorso, e
mai intravisto fino allora, ha le stesse fattezze di chi lo braccava. Per giunta,
nell’atto del confronto, del duello mortale, l’inseguito comunica con la sua
espressione tutto lo stupore per colui che, durante il perturbante percorso di
avvicinamento, non ha mai saputo riconoscere i segnali di questa identità. La
pellicola di Boetticher fa dunque da sponda a quanto il film di William
Friedkin porta in primo piano: benché diversi nell’aspetto e lontani
dall’estremismo di Boetticher, i due avversari di The French Connection, più
che definire un carattere complementare o di seduzione, di attrazione fatale tra
malvivente e poliziotto, danno vita ad una mimesi che risponde alla logica del
riflesso. Lo spazio urbano, nella fattispecie la sotterranea di New York,
permette di costruire tra i due antagonisti un balletto coordinato e preciso,
dove i gesti dell’uno vengono riprodotti dall’altro. Tra loro non ci sarà mai
contatto diretto durante tutto il film, anzi, l’inseguito non guarderà mai in
faccia il proprio inseguitore, laddove è quest’ultimo a sorvegliarlo
continuamente. In questa ipertrofia visiva da parte del poliziotto, a fronte di
una mancata risposta a questo sguardo, è lecito domandarsi quanta parte
giochi l’aderenza al dispositivo linguistico di cui stiamo discutendo e quanto
l’inseguito, a questo punto, non sia null’altro che il volontario riflesso
dell’immagine dell’inseguitore. Un’immagine elegante e sofisticata,
finalmente liberata nelle strade di una città accogliente, uno spazio
confortevole della possibilità, dove l’Altro – il suo rovescio, il poliziotto –
resta sempre fuori al freddo, costretto ad accontentarsi di qualche bicchiere di
caffè bruciato o a divorare in piedi un trancio di pizza.

C’è poi una modalità di inseguimento che attiva quelle che nel western
erano definibili come prove iniziatiche, volte ad attestare o meno il possesso
di alcune qualità imprescindibili per l’uomo del West: il coraggio, il senso del
dovere verso la propria comunità, l’adattamento al territorio. Walter Hill, con
The Warriors (I Guerrieri della notte, 1980), esplora questa prassi

135
rovesciando figure chiave come l’iniziazione e la capacità di “leggere” il
territorio e le sue incognite.
I “Guerrieri” sono stati invitati nel Bronx a partecipare a una grande
convention di tutte le gang della città per costituire una sorta di grande
alleanza. Incolpati a torto dell’omicidio di Cyrus, capo spirituale della
nascente coalizione, vengono inseguiti per tutta la notte da gruppi di bande
che vogliono vendicare l’assassinio. I Warriors, nel tentativo di ritornare nel
proprio territorio di Coney Island, percorrono New York attraversandola come
se fosse composta da un “palinsesto di frontiere”.
Emerge un territorio ibrido che, secondo Jean Gottman 182, già a partire dagli
anni sessanta presenta all’interno delle megalopoli i suoi caratteri distintivi. Si
tratta di segni mutuati da quell’intreccio tra rurale e urbano che modellava lo
spazio compreso tra le grandi città fino a costituire una “terra di mezzo”. Qui
le nuove colonie residenziali si erano stanziate in un habitat spesso a ridosso
delle aree occupate dalle grandi riserve naturali: il sogno americano della casa
nella prateria aveva cominciato ad estendere le sue radici anche all’interno del
sistema urbano.
Il richiamo alla frontiera, inoltre, sembra anche determinato da quello
che si può definire un ”effetto notte”. Nella pellicola di Hill, in effetti, la
vicenda si dipana e trova il suo fondamento in uno spazio notturno. Proprio la
notte, secondo quanto riporta Paolo Fabbri183, ha caratteristiche spaziali che
182
Cfr. Jean Gottmann, Megalopolis. The Urbanized Northeastern Seabord of the United
States, New York, Twentieth Century Fund,1961; [trad.it. Irene Magri Bignardi, Lucio Gambi
( a cura di), Megalopoli, Funzioni e relazioni di una pluri-citta, Torino, Einaudi, 1970].
183
“Dagli anni cinquanta in America e altrove, le radio e le televisioni cominciano ad
occupare la notte. […] La notte è colonizzata dai media e quali sono le caratteristiche di
questo effetto notte? […] Dopo una cert’ora sono quasi tutti giovani; ancora dopo, quasi tutti
uomini; quindi c’è una omologia strettissima con i modi di occupazione della frontiera storica
del West americano sul piano dello spazio. Uomini, giovani, poche donne, desiderio di
avventura e di spesa vistosa, gusto per lo scontro, per il largo movimento e così via. […] La
frontiera non è mai stata una sola frontiera, l’America è stata un palinsesto di frontiere. […]
Così lo spazio urbano è un palinsesto di frontiere notturne. Secondo Melbin c’è una analogia
stretta tra il tipo di persone che cominciano ad entrare nella notte, i vagabondi, come all’inizio
arrivavano i primi cacciatori, i lavoratori notturni, come i primi coloni che attraversavano la
frontiera western. Nella notte la popolazione è più sparsa e omogenea, la solitudine bene
accetta; gli eremiti urbani esistono e non è un caso se di notte trovate più omosessuali e
travestiti, ma è anche vero che dopo la notte questa realtà finisce e scompare rifluendo verso il
giorno.[…] C’è più rischio, di notte, ma con nemici più riconoscibili. È di giorno che non
sapete se la persona seduta vicino a voi è un pazzo o uno delle Brigate Rosse perché è vestito
come uno di noi”. Paolo Fabbri, Segnaletiche metropolitane: nite & day, in Giacomo Martini
(a cura di), Città e metropoli. Le culture,i conflitti, Modena, Edizioni Magazine, 1984, pp. 67-
69.
Per approfondire il tema della notte intesa come frontiera all’interno della città
contemporanea, cfr. Murray Melbin, “Night as Frontier”, American Sociological Rewiew,

136
accomunano i comportamenti che si manifestano in città a quelli riconducibili
al mito della frontiera.
Lo spazio urbano del film, inoltre, si trasforma in una selva che non si
presenta più come un luogo di iniziazione. È vero che sono ancora presenti
alcuni tratti che hanno costituito la cifra simbolica della foresta184, quali la
ricerca dell’identità o lo spazio dell’avventura, in quanto mondo “altro”
lontano della civiltà. Tuttavia, in questo caso, la foresta come spazio negativo
fotografico della città è scomparso:

oltre la città non c’è che la città. Oltre il recinto, la periferia sconfinata
appare come una seconda natura, come una immensa “foresta”. Si
attraversa la città non per conoscere, per aprirsi al mondo, ma per
raggiungere un nuovo recinto, in cui rinchiudersi e isolarsi. Non la si
attraversa per esporsi e per rappresentarsi, ma per sopravvivere 185.

I Warriors (nonostante alcune perdite) riescono a superare tutte le


aggressioni e a tornare a casa, a Coney Island. Ciò che ritrovano però è un
vecchio luna park pressoché dismesso e fatiscente e una spiaggia in cui
un’alba livida consegna loro il riscatto da un’accusa infamante e la salvezza
dalla vendetta da parte delle altre bande di New York coalizzate contro di
loro.
Il ritorno a casa è diventato un luogo disperato e desolato: respinti i nemici
della notte in uno spazio denso di apparizioni come quello raccontato
nell’Orlando furioso o nella Gerusalemme liberata, il giorno fa campeggiare
solo il grande scheletro della ruota immobile del luna park.
Non c’è retorica o nostalgia, nelle parole dell’ ”eroe” che suggellano la
conclusione del viaggio: il premio dei Warriors è stato quello di aver lottato
ed essere sopravvissuti senza gloria per un bel “posto di merda”.

1978, pp. 3-22; ora in Murray Melbin, Night as Frontier : colonizing the world after dark,
New York - London, 1987; [trad. it. Nicoletta Rosati, Matilde Dell'Isola, Le frontiere della
notte, Milano, Edizioni di Comunita, 1988].
184
Cfr. Piero Boitani, La Foresta, in Franco Moretti (a cura di) Il romanzo. Miti, Luoghi, Eroi,
vol. IV, Torino, Einaudi, 2003.
185
Rosario Pavia, Babele. La città della dispersione, Roma, Meltemi, 2002, p. 44.

137
138
CAPITOLO TRE

Se questo (il cinema) ucciderà quella (la città).

Giunti alle soglie del duemila, l’ipotesi che la città americana abbia consolidato una
“geografia immaginaria”1 si è talmente sviluppata, che possiamo rintracciare nei film (e non solo)
delle linee architettoniche simboliche che fungono da filtro, da permeabile “canale”di
comunicazione, svolgendo il compito di una sorta di funzione fatica 2 tra un luogo ed un altro, tra
una materia ed un’altra. Tutto questo anche grazie alla maggior parte delle recenti costruzioni
realizzate per comportarsi come semplici interfacce tra interno ed esterno. Per di più, per rimanere
nel campo di pertinenza cinematografica, con l’affermazione del simbolo architettonico, secondo
quanto riporta Robert Venturi3, e dei media buildings descritti, tra gli altri, da Paul Virilio 4, gli
edifici si affrancano dalle loro funzioni (private o istituzionali) e si trasformano, da atomi pesanti,
in supporti per le immagini. Un esempio di questo scenario lo attesta un architetto come Jean
Nouvel attraverso il suo uso del vetro:

trovo molto interessanti le qualità del vetro come materiale dove si possono proiettare
immagini, operare con differenti gradi di riflessione, opacità e trasparenza… Come campo di
1
Michel Maffesoli, Notes sur la postmodernité, Paris, Editions du Félin, 2003; [trad. it Vincenzo Susca, Note sulla
Postmodernità, Milano, Lupetti, 2004, p. 84]. Maffesoli parla anche della “(ri)nascita di un mondo immaginale,
ovvero di un modo di essere e di pensare interamente attraversato dall’immagine, dall’immaginario, dal simbolico e
dall’immateriale”. Ivi, p. 58.
2
Cfr. Roman Jakobson, Essais de linguistique generale, traduit de l'anglais et preface par Nicolas Ruwet, Paris, Les
Editions de Minuit, 1963; [trad. it. Luigi Heilmann (a cura di), L.Grassi, Saggi di linguistica generale, Milano,
Feltrinelli, 1966].
3
Per Venturi, il simbolo domina lo spazio architettonico: “questa architettura di segni e di stili è antispaziale; è
un’architettura di comunicazione invece che di spazio; la comunicazione domina lo spazio come un elemento
fomentale nell’architettura e nel paesaggio”.
Robert Venturi, Denise Scott Brown, Steven Izenour, Learning from Las Vegas: the forgotten symbolism of
architectural form Cambridge (Mass.), MIT Press, 1972; [trad.it. M.Sabini, Imparando da Las Vegas: il simbolismo
dimenticato della forma architettonica, Venezia, Cluva, 1985 (trad. it parziale Imparando da Las Vegas, in Gaetano
Chiurazzi (a cura di), Il postmoderno, Milano: Mondadori, 2002 p.96)].
4
“Oggi, con l’avvento dei media buildings, la funzione informativa tende a prevalere su quella residenziale; ciò
significa che a Times Square si può costruire un edificio la cui unica redditività risiede nell’informazione: questo
perché il valore dell’informazione, il profitto che se ne ricava, è tale che la funzione residenziale può essere
abbandonata. […] La funzione informativa significa dunque che si costruisce un edificio in una città, in una posizione
strategica (come Times Square) semplicemente per trasmettere informazioni, e che questa è l’unica giustificazione alla
base del progetto dell’edificio e della sua struttura fisica. […] L’architettura sta diventando infatti un supporto
dell’informazione, per non dire un supporto pubblicitario in senso lato, un supporto mediatico. […] La facciata
dell’edificio non è più semplicemente un’apertura per illuminare l’interno, quanto piuttosto una superficie per la
diffusione delle informazioni, sia verso l’interno sia verso l’esterno, tanto all’incrocio stradale, quanto nell’intero
centro urbano. Questa è dunque una ragione sufficiente per costruire un edificio, e a mio giudizio si tratta di un
avvenimento senza precedenti. Si può affermare che il media building rappresenta un’applicazione particolare di una
determinata funzione: esso esiste per illuminare le strade e gli incroci”.
Paul Virilio, “Dal media building alla città globale: i nuovi campi d’azione dell’architettura e dell’urbanistica
contemporanee”, Crossing, n. 1, 2000, pp. 7-8.

139
ricerca sullo spazio contemporaneo! Quello che mi interessa del vetro è la quantità di nuances
che fornisce, non una condizione di assoluta trasparenza. Sono interessato alla complessità di
risposte che il vetro può dare in condizioni differenti di luce, alla possibilità di sfruttarne lo
spessore per sovrapporvi immagini serigrafate, per esempio. Il vetro mi permette di accrescere
la complessità plastica di un edificio senza il ricorso a forme complicate; di giocare con la luce
come strumento di programmazione dello spazio, permettendo allo spazio di mutare durante il
giorno, di sovrapporvi segni5.

In rapporto a queste tipologie di edifici, molti dei protagonisti del cinema americano
contemporaneo assumono qualità aeree, sono cioè, letteralmente, fatti di aria, volatili, e riescono
ad imporsi alla verticalità delle architetture. Si possono vedere all’opera personaggi in grado di
concorrere in vertigine con gli edifici, che diventano, a loro volta, quel supporto dove le forme e i
movimenti di quelli stessi personaggi si riflettono.
Già con Batman, ma soprattutto grazie a The Matrix (Matrix, Larry e Andy Wachowsky,
1999) e Spiderman (Sam Raimi, 2002), ad esempio, sono gli attori che acquisiscono lo statuto di
“edifici mobili”. Attraverso le loro vorticose e funamboliche piroette (Matrix) o acrobatiche
soggettive (Spiderman), tende a scomparire la rigida dialettica alto/basso costitutiva della forma
architettonica, sostituita da traiettorie plastiche e cangianti che modellano costruzioni instabili.
Queste ultime aderiscono perfettamente ad una visione spettatoriale che, nelle continue
metamorfosi, in quelle che Deleuze potrebbe definire le “pieghe” 6 di un paesaggio urbano che si è
sviluppato indefinitamente, trova il suo maggiore godimento.
Grazie a queste visioni, la città acquisisce la connotazione di un chip e Matrix – scrive Furio
Colombo – “vede il punto di connessione, e forse di inversione, fra ciò che è immediatamente
flessibile e labile nella nuova tecnologia della rete, e ciò che ci era apparso così solido e
immutabile nella tecnologia del cemento”7. L’effetto di spaesamento provocato dal paesaggio
contemporaneo che rivela una metropoli indeterminata viene spesso affiancato da una
intensificazione della individualità, della percezione. Accade allora che il “corpo” della macchina
da presa surroga non tanto (o non solo) quello dei personaggi, ma quello dell’osservatore in platea,
il quale invoca il prestito di uno statuto “nomadico”, statuto seducente non tanto perché senza
vincoli, ma in quanto caricato di qualità estetiche. Come in effetti ha evidenziato Zygmunt

5
Alejandro Zaera, “Incorporaciones: entrevista con Jean Nouvel”, El Croquis, n.65-66, 1998, pp. 8-41. L’operazione
di Jean Nouvel mira a fare delle sue opere degli spazi capaci di diventare un prolungamento mentale di quello che si
vede. Se si osserva, ad esempio, la facciata della Fondazione Cartier, non è mai chiaro se stiamo osservando il cielo in
trasparenza oppure se alle spalle del vetro c’è un albero o se abbiamo a che fare con il suo riflesso. È una illusione che
gioca con la percezione per consentire all’architettura di non proporsi esclusivamente come un agente che provvede a
riempire lo spazio, bensì di generare essa stessa spazio.
6
Deleuze scrive che il mondo contemporaneo è contraddistinto dal fenomeno della “piega”. Per Deleuze piegare o
spiegare non significa soltanto tendere o distendere, contrarre e dilatare, ma piuttosto sviluppare, involgere/evolvere,
laddove gli organismi viventi si definiscono proprio per la loro capacità di piegare le parti di cui sono composti in un
movimento infinito. Cfr. Gilles Deleuze, Le pli. Leibniz et le Baroque, Paris, Éditions de Minuit, 1988; [trad.it. Valeria
Gianolio, La piega. Leibniz e il Barocco, Torino, Einaudi, 1990].
7
Furio Colombo, “La città diventa un chip”, La Repubblica, 22 maggio 1999.

140
Bauman, “il flaneur, il vagabondo, il turista e il giocatore, presi insieme offrono la metafora della
strategia postmoderna generata dall’orrore di essere legati e fissati” 8. Prese singolarmente queste
strategie (flaneur, vagabondo, turista e giocatore) “si intersecano e compenetrano a vicenda, hanno
la tendenza a rendere i rapporti umani frammentari […] e discontinui. Tutte [queste strategie
(n.d.a)] sono in favore di e promuovono una distanza tra l’individuo e l’Altro, e considerano
l’Altro come oggetto di valutazione estetica, non morale, come una questione di gusto, non di
responsabilità”9.
Tuttavia, alla strategia del nomadismo - risponde Massimo Cacciari - si oppone un disegno
parimenti significativo se non del tutto vincente rispetto a quello proposto da Bauman: l’essere
“prigionieri” di un luogo.

È concepibile uno spazio-senza-luogo laddove “resiste” quel luogo assolutamente primo che è
il nostro corpo? Come risolvere questo luogo del continuum temporale? […] Se siamo luogo,
come potremmo non ricercare luoghi? La “filosofia” del territorio post-metropolitano sembra
esigere la nostra metamorfosi in pure anime, o in pura dynamis, energia intellettuale […] Ma
[…] la ragione del nostro corpo? Potrà farsi energia energia puramente nomadica?” Ma “il
nomade stesso ha sempre a che fare con il luogo […] Passa dall’uno all’altro. […] E che cosa
rappresentavano i suoi tappeti se non la casa, il luogo della sua casa, che lo seguiva dovunque
e in cui essenzialmente abitava? Può essere che si giunga ad un punto […] in cui il nostro
corpo sia trasmissibile come qualsiasi altra informazione. […] Ma quell’uomo sarà oltre-uomo
davvero, in tutto e per tutto? Possiamo immaginarlo in trasmissione perenne, o non dovrà, in
qualche punto, in qualche momento, “prender terra”? […] E dove? in stazioni di
“ricaricamento”? In distributori di energia? O in luoghi, ancora, ma quali luoghi 10?

All’estremo opposto dell’effetto speciale, dell’euforia della soggettiva planante,


rintracciamo, pertanto, pellicole che fanno dello spazio della città una schematica proiezione
ortogonale, una prigione a cielo aperto. Infatti, gli spazi fisici che già una “edilizia mentale”
rendeva visibili in virtù di canoni stilistici digeriti dal pubblico dello studio system sono diventati,
grazie a Dogville (Lars Von Trier, 2003), crude linee bianche su un supporto nero. Per apprezzare
l’“architettura” della pellicola, è opportuno ricordare i capisaldi della vicenda.
Durante la fase più acuta della Grande Depressione, una donna di nome Grace, inseguita da
una banda di gangster, giunge nella cittadina di Dogville. La ragazza racconta di essere in pericolo
di vita e chiede asilo alla piccola comunità che, all’oscuro del passato della fuggitiva, accetta di
nasconderla, sotto condizione di poter mettere alla prova la sua sincerità. Trascorse due settimane
in cui Grace ha assolto tutti i compiti che le venivano richiesti, i membri della comunità deliberano
di accoglierla.

8
Zygmunt Bauman, “Da pellegrino a turista”, Rassegna Italiana di Sociologia, vol. 36, n.1 (marzo), 1995, p.13.
9
Ivi p. 22.
10
Massimo Cacciari, Nomadi in prigione, in Aldo Bonomi, Alberto Abruzzese (a cura di), La città infinita, Milano,
Bruno Mondadori, 2004, pp. 55-56.

141
I gangster tuttavia non desistono e continuano a cercarla. Nei cittadini di Dogville, il
pericolo di essere coinvolti da una rappresaglia innesca, come una sorta di preventivo
risarcimento, lo sfruttamento (sessuale) e l’umiliazione (fisica e morale) del corpo di Grace. Gli
abusi su di lei diventano pratica quotidiana, finché gli stessi residenti di Dogville arrivano a
incatenarla per evitare che possa fuggire. Poi, persuasi che la situazione abbia ormai raggiunto un
punto di rottura, decidono di consegnarla ai gangster per ottenere una ricompensa.
L’arrivo dei fuorilegge, tuttavia, restituisce la libertà a Grace: lei infatti è la figlia del capo
della banda, scappata per non sottomettersi al volere del padre, cioè subentrare a lui nel governo
dell’attività criminale. Grace, parlando con il vecchio boss e alla luce dell’esperienza vissuta,
chiarisce dentro di sé il proprio punto di vista sul potere e dà ordine di sparare su tutti gli abitanti
di Dogville e di incendiare la cittadina.
Ci siamo soffermati sullo sviluppo del plot per sottolineare quanto l’operazione di messa in
scena di Von Trier si sia concentrata sul tessuto interiore, sulle maglie intime del vissuto dei
protagonisti. Vogliamo tuttavia evidenziare quanto a questo contesto – definito sia dai rapporti
interpersonali all’interno della comunità, sia da quelli che esplodono nell’abiezione dopo l’arrivo
di Grace – corrisponda un’ambientazione piatta, senza prospettiva, senza un orizzonte.
Dogville è una spianata nera, come un palcoscenico sospeso nell’aria; l’architettura della
città è risolta in una planimetria di spazi disegnati per terra e gli abitanti sono disposti come su una
gigantesca mappa catastale. Non ci sono mura a Dogville, porte o finestre che separino i vari
ambienti, sebbene i protagonisti si comportino come se queste ci fossero realmente.
La dimensione teatrale che il regista sembra di primo acchito proporre è da subito
scardinata da due procedure: la prima è il ricorso a vertiginose plongées che spesso inquadrano in
uno sguardo d’insieme la planimetria di Dogville; la seconda, forse anche più determinante, è
l’uso costante della macchina a mano, attraverso cui lo spettatore rimane costantemente
avviluppato all’interno dello spazio di questa città piatta.
Un ulteriore spunto di riflessione è fornito dalla totale mancanza di soggettive, elemento che
in un film che ha per oggetto l’architettura dell’animo umano risulta estremamente significativo.
Pertanto l’assenza di soggettive, nonché l’uso senza soluzione di continuità della macchina a mano
rendono evidente e indispensabile la presenza dello spettatore sul terreno della messa in scena e
concorrono alla necessità primaria di ricostruire in prima persona le relazioni tra i protagonisti del
dramma attraverso l’assenza materiale degli ambienti.
È dunque sulla ricerca e sull’articolazione di forme solide che si concentra lo spettatore. Egli
diventa partecipe di un confronto tra spazio della città e spazio dell’anima, quindi tra due

142
architetture: la prima invisibile e da ricostruire, la seconda riconoscibile e, alla fine, come la prima,
da abbattere.
La dialettica proposta dalla pellicola ruota, lo ribadiamo, intorno ad un’assenza: quella
dell’ambientazione urbana a cui viene delegata la funzione di relais tra gli abitanti di Dogville,
Grace e lo spettatore. In questa invisibilità, attenuata solo da una traccia grafica, lo spettatore
esercita la sua opera dall’interno, come partecipante. L’invisibile si esplicita attraverso un
dispositivo panottico: per costruire gli ambienti e le relazioni che si instaurano al loro interno è
diventato necessario che lo spettatore ne colga l’immaterialità della comunicazione attraverso
quella che Cacciari ha definito una “Angelopoli”.

Si fa prepotentemente strada nella mente dell’«abitante» delle metropoli dell’Occidente un


desiderio-bisogno di effettiva ubiquità, di abitare una vera Angelopoli. Tutti i mezzi di
trasporto minacciano di apparire obsoleti di fronte a tale «misura». La quale null’altro
sembrerebbe rappresentare che «il delirio» della contemporanea «mobilitazione universale».
[Pertanto la nostra vita dentro la città non può che] svolgersi oltre ogni limite tradizionale,ogni
confine dell’.urbs. Non sarà mai più «geometricamente» circoscrivibile. Non sarà mai più
terranea. La sua dimensione è mentale. Ma proprio questa va fino in fondo realizzata. Bisogna
puntare alla progressiva eliminazione di trasporto-traffico-fisico. Bisogna realizzare il carattere
immanentemente immateriale della comunicazione 11.

All’ipertrofia visiva corrisponde una squadratura di luoghi assenti, una rigida mappa dell’abitato
che, a questo punto, solo lo sguardo dal vivo dello spettatore, privato di ancoraggi certi e materiali,
può assegnare a spazi e personaggi.

Con l’ausilio di film come quello di Von Trier incontriamo allora una messa in scena che ha
origine nel momento in cui ormai, secondo Nicholas Mirzoeff, “la nostra vita ha luogo sullo
schermo”12, e con questo si vuole intendere che “ogni esercizio della nostra esistenza, anche quella
non immediatamente riconducibile alla visione e alla visibilità, tende ad essere raffigurata
visivamente”13. Patrizia Mello aggiunge che questa sindrome della messa in onda del nostro corpo
determina il fatto che la nostra esistenza attuale venga quantificata proprio in base al consumo di
materiale visivo per garantirsi una “soddisfazione filmica della realtà” 14. È quindi legittimo
dedurre che l’oggetto della riflessione sulla immagine della città si sposti proprio nel campo
specifico dell’esperienza quotidiana che ogni essere umano, ogni cittadino, fa della città.

11
Massimo Cacciari, “Ethos e metropoli”, Micromega, n.1, 1990, p.44.
12
Nicholas Mirzoeff, An Introduction to Visual Culture, London, Routledge, 1999; [trad.it. Federica Fontana,
Introduzione alla cultura visuale, Roma: Meltemi, 2003, p.27].
13
Ibidem.
14
Patrizia Mello, Metamorfosi dello spazio. Annotazioni sul divenire metropolitano, Torino, Bollati Boringhieri, 2002,
p. 53.

143
Nel tracciare le modalità di un’esperienza di vita, la città ha bisogno di esprimersi come una
forma viva, reattiva, qualità che già le preveggenti riflessioni di Simmel 15 avevano rivelato e che
portavano ad affrancarla dalle radici di un territorio esclusivamente fisico.
Il corpo metropolitano era in grado dunque di richiamare tutte le sue membra per esprimere le
necessità dei suoi abitanti e i loro bisogni, ormai imprescindibili, di narrare un universo in
perpetua trasformazione. Il cinema era poi intervenuto a sancire e a rendere visibile lo spostamento
della città dal territorio fisico verso una dimensione quasi eterea: è con questo atto che esso ha
saputo rompere definitivamente le catene del territorio metropolitano, divenuto incapace di
rendere centrale lo sguardo del soggetto spettatore.
Ma anche le tesi di Simmel, forse già durante la loro redazione, non erano e non sono più
strumenti validi per comprendere quel mutamento giunto al suo culmine, al suo apice, con il
digitale. Anche lo studioso tedesco dovrebbe arrendersi di fronte alle nostre attuali “forme di vita”
che sembrano non trovare più concreto alloggio nella città, tanto che Jurgen Habermas sostiene
che proprio il nostro modo di vivere “si è evoluto ad una velocità tale che il concetto di città che
abbiamo ereditato non si può più sviluppare in simbiosi con esso”16.
È accaduto infatti, ribadiamo, che “il lavoro dei media immateriali ha fatto progressivamente
slittare le azioni sociali dai territori fisici delle metropoli a quelli fantasmatici degli schermi, le
culture dei valori della produzione a quelle dei valori del consumo diffuso”17. Ha ragione Jean
Nouvel quando dice che le città (e soprattutto le loro periferie) sono diventate dei territori estetici
dove sono nate una “nuova poetica del movimento e del segno attraverso la segnaletica, la
pubblicità, le installazioni, i tracciati stradali, le connotazioni aeronautiche dal potere evocativo” 18.
E alle annotazioni di Nouvel si possono far seguire quelle di Wim Wenders, che ricorda quante
sono ormai le immagini che vengono disseminate sul territorio urbano colonizzandolo ed
esportandolo al di là dei suoi confini geografici. Esse comprendono “segnali stradali; insegne al

15
La città, secondo Simmel, “si espande in onde concentriche su di un’ampia area nazionale o internazionale […]
l’essenza più significativa della metropoli sta in questa grandezza funzionale che trascende le sue frontiere fisiche […]
Come un uomo non si esaurisce nei confini del suo corpo o dello spazio che occupa immediatamente con le sue
attività […], allo stesso modo anche una città esiste solo nell’insieme degli effetti che vanno oltre la sua
immediatezza”.
Georg Simmel,“Die Großstädte und das Geistesleben”, Jahrbuch der Gehe-Stiftung, IX, 1903; poi in Brücke und Tür,
Stuttgart, K.F. Koehler Verlag, 1957; {trad. it.“Metropoli e personalità” in Wright Mills ( a cura di) Immagini
dell’uomo, Milano Comunità, 1963; “Le metropoli e la vita spirituale” in Thomas Maldonado ( a cura di), Tecnica e
cultura, Milano Feltrinelli, 1974; [La metropoli e la vita dello spirito, Paolo Jedlowski ( a cura di), Roma, Armando
Editore, 1995]}.
16
Jurgen Habermas, citato in Pierre Ansay, Renè Schoonbrodt (éds), Penser la ville: choix de textes philosophiques,
Bruxelles, AAm Editions, 1989, p. 359.
17
Alberto Abruzzese, Essere Moda. Appunti sui modi di affermarsi nel mondo ovvero sul mercato delle identità in
Alberto Abruzzese, Nicola Barile (a cura di), Communifashion. Sulla moda della comunicazione, Roma, Luca Sossella
Editore, 2001, p. 39.
18
Jean Nouvel, La finestra sul mondo, in Gli immaginari della differenza. La Triennale nella città, XIX Esposizione
Internazionale, Ente autonomo la Triennale di Milano, Milano, Electa, 1996, p.107.

144
neon sui tetti; pubblicità sui muri e sulle vetrine; le pareti video, le edicole, le macchinette
automatiche; i messaggi trasportati dalle automobili, dai camion, dagli autobus; le scritte sui taxi o
nella metropolitana. Non è meraviglioso sentirsi protetti, ammaliati da questi frammenti di
città?”.19
In queste nuove condizioni, con la metropoli che fa le veci dello schermo, anche lo schermo
non è più solo un istmo dell’immaginario, ma è diventato, per molti aspetti, un territorio
dell’abitare. La sala cinematografica, che già durante il periodo del muto era vissuta come
appendice della strada e della casa degli spettatori, vede ora concludersi il suo precoce
apprendistato di terminale abitativo20.
È “dentro lo schermo” che si consuma l’esperienza quotidiana dello spettatore. Già
l’operatore di Sherlock Jr. (Buster Keaton, 1924) poteva vivere i suoi sogni avventurosi balzando
dentro il telo di proiezione, e se, con The Purple Rose of Cairo (La Rosa purpurea del Cairo,
Woody Allen, 1985), sono i personaggi a scendere dallo schermo sedotti dallo spettatore (nel film
di Allen da una spettatrice), ciò non significa che lo schermo abbia perduto il suo fascino.
Dimostra, al contrario, che lo spettatore, seppure al di qua della superficie di proiezione, ha abolito
ogni distanza con l’oggetto della visione ed è pronto per compiere lo stesso percorso del pittore
cinese di cui scriveva Béla Balázs:

i cinesi antichi non consideravano i prodotti dell’arte come l’espressione di un altro mondo,
inavvicinabile da parte degli uomini. Una delle loro leggende sulla pittura narra di un vecchio
pittore cinese che dipinse uno splendido paesaggio. Si vedeva un sentiero che serpeggiava
lungo una valle amena e scompariva dietro un’alta montagna. Il quadro piacque tanto al pittore
che questi, vinto da un ardente desiderio, entrò nel dipinto e percorse il sentiero che egli stesso
aveva tracciato. Camminò a lungo, inoltrandosi sempre più nel quadro sino a che scomparve
dietro la montagna. E non fece più ritorno21.

C’è un altro dato che suggerisce quanto lo schermo sia diventato una nuova Urbe per lo
spettatore. Questo germe risiede nella natura stessa del racconto cinematografico proposto dal
cinema contemporaneo, nel cui contesto, chi vede un film, non sembra più turbato dai vuoti di
senso, tutt’altro. Come possono attestare documenti quali Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994),
queste lacune semantiche, talvolta volontariamente strutturali, diventano quasi la logica del
19
Paolo Federico Colusso, Wim Wenders. Paesaggi luoghi città, Torino, Testo & Immagine,1998, p.8.
20
La sala cinematografica, anche soltanto per la vicinanza fisica , diventa presto un prolungamento naturale della
propria casa: “ a volte è sufficiente attraversare solo la strada” Tuttavia altra volte si deve compiere un tragitto più
lungo vivendo una “doppia avventura: quella della conquista della città e quella delle emozioni che si susseguono a
catena nella sala fin dal momento in cui si varca la soglia d’ingresso”
Gian Piero Brunetta, Buio in sala. Cent’anni di passione dello spettatore cinematografico, Venezia, Marsilio,1989.
21
Béla Balázs, Der Film. Werden und Wesen einer neuen Kunst, Wien: Globus Verlag, 1949; [trad. it. Grazia e
Fernaldo Di Giammatteo, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Einaudi, Torino, 1952 (I ed. Reprints
Einaudi,1975, p.55)].

145
racconto. Addirittura, come lucidamente ha dimostrato Pietro Montani 22 analizzando Lost
Highways (Strade perdute, David Lynch, 1997), il vuoto narrativo è la riprova del potere
taumaturgico del racconto, che si fa carico di cicatrizzare, in piena autonomia, le proprie
lacerazioni strutturali. Ed è la proprietà, si potrebbe definire staminale, del racconto
cinematografico contemporaneo – prosegue Montani –, che interviene a suturare la perdita di
identità del soggetto, nonché ad annullarne quell’impotenza (anche con l’ausilio di audaci
metalessi) che sembrava avergli precluso ogni azione.
Quello che intendiamo sottolineare è che l’odierno spettatore è coinvolto innanzitutto nella
ricostruzione dello spazio del film, una operazione che comporta, necessariamente, la sua
immersività nello spazio dello schermo. Questo nuovo spettatore è spinto verso la rinuncia ad
essere soggetto della visione e vive, attraverso la “dissoluzione delle forme e la separazione della
funzione visiva da quella narrativa […] [l’] arte dello smarrimento […], una impossibilità della
visione”23, dove è necessaria la presenza di uno spettatore forte, “capace di abusare del film
stesso”24.
Tuttavia, si potrebbe annotare, non è sempre stato questo il comportamento dello spettatore
cinematografico? Non si è sempre comportato, anche nel periodo classico, come un’”ombra” che
balenava nel buio sullo schermo accanto a quelle star che facevano fluttuare le traiettorie del
desiderio e dell’azione? È un punto che riporta molto bene Paul Virilio:

ormai quando grida “azione”! ai suoi assistenti, il conducente-cineasta non ha più l’intenzione
di far sfilare davanti a sé il fondo-scenario, quanto piuttosto di traversarlo, di scoprirlo. Come
l’ordigno da guerra lanciato a tutta velocità sul bersaglio visivo che si deve distruggere, il
cinema si impegnerà a provocare un effetto di vertigine nel voyeur-voyageur, a dargli
l’impressione di essere proiettato nell’immagine. La star non sarà più lo spettro luminoso del
paesaggio, l’unica attrice dello scenario, ma la massa stessa degli spettatori. Jim Collins, ad
esempio, nota che nel film di Fred Astaire, Swingtime, “il primo piano è un piano soggettivo
che sfrutta il punto di vista di uno spettatore immaginario posto in galleria, mentre restano
perfettamente visibili sullo schermo il resto del pubblico, un po’ al di sotto, e Astaire, sulla
scena”. Tutto questo riproduce le condizioni di proiezione degli antichi cinema ambulanti,
come ce le descrive Gaston Bonheur: “lo schermo era un lenzuolo sospeso in fondo alla
rimessa del signor Sindaco. Noi scolari occupavamo la prima fila e aspettavamo con
impazienza il momento dei cowboys quando le nostre giovani ombre saltando si mescolavano
ai polverosi fuggi fuggi, ai bufali e cavalli scatenati 25.

Una delle novità dell’esperienza cinematografica contemporanea consiste, a nostro


avviso, nel fatto che da ombra sul telo della proiezione lo spettatore è diventato un luogo,

22
Cfr. Pietro Montani, L’immaginazione narrativa. Il racconto del cinema oltre i confini dello spazio letterario,
Milano, Guerini, 1999.
23
Sandro Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, Firenze, Le Lettere,1994, p.197.
24
Ibidem.
25
Paul Virilio, Esthétique de la disparition, Paris: Éditions Galilée, 1989; [trad.it. Giustiniana Principe, Estetica della
sparizione, Napoli, Liguori Editore, 1992, pp. 46-47]

146
una sala cinematografica privata, che vive la condizione urbana come un “requisito pre-
cinematografico”, un’anticamera da attraversare prima di accedere alle proprie stanze, che
sono il precipitato di ogni tipologia di proiezione.
L’idea di uno schermo non solo o non tanto luogo dello sguardo ma stanza, paesaggio,
architettura e metropoli abitata, nonché percorsa, dall’inquilino-spettatore americano, ci sembra
che sia descritta molto bene ancora da un passaggio di Balázs che prosegue il racconto del pittore
cinese già citato.

Nell’ambiente culturale europeo non sarebbe mai potuta nascere una favola come questa, né
svilupparsi una simile mitologia dell’arte. L’europeo che contempla un’opera d’arte avverte
come inaccessibile lo spazio compreso nei limiti della composizione del quadro. Si tratta,
l’abbiamo visto, del principio fondamentale della sua estetica. Nella testa di un americano di
Hollywood, invece, queste strane storie sarebbero potute nascere con estrema facilità. Le
nuove forme d’arte cinematografica, che si svilupparono ad Hollywood, dimostrano come
quegli americani non osservassero da lontano, e con profondo rispetto, il mondo interiore del
film; dimostrano che essi non lo ritenevano affatto inaccessibile né pensavano fosse dotato di
una dimensione diversa da quella reale. Non per nulla essi inventarono l’arte che non conosce
il concetto della composizione chiusa. L’arte cinematografica non soltanto rende superfluo il
“raccoglimento” dello spettatore dinanzi all’opera d’arte distante da sé, ma crea nello
spettatore stesso l’illusione di trovarsi al centro dell’azione, nei luoghi che il film
rappresenta26.

Perduto, assorbito o smaterializzato nello schermo, il concetto di territorio urbano, inteso


come la possibilità di raffigurarlo in una visione d’insieme (per quanto approssimativa) entra
definitivamente in crisi: l’oggetto della riflessione sulla struttura della città si sposta allora, come
abbiamo anticipato, sulla esperienza della città. Una esperienza che è diventata un abbecedario
indispensabile per leggere l’area metropolitana attuale, e che necessita l’acquisizione di nuove
abilità da parte dei suoi fruitori. Questo offre a Reyner Banham il destro di scrivere che “così
come antiche generazioni di intellettuali inglesi impararono l’italiano per poter leggere Dante in
italiano, io ho imparato a guidare l’automobile per leggere Los Angeles”27.

26
Bela Balázs, Der Film;[trad. it. Il Film, cit. p. 56].
27
Reyner Banham, Los Angeles: The Architecture of Four Ecologies, London, The Penguin Press, 1971; [trad.it. Los
Angeles: l’architettura di quattro ecologie, Genova, Costa & Nolan, 1983, p.4].
L’associazione tra città e linguaggio trova nella metafora sviluppata da Ludwig Wittgenstein nel suo Ricerche
filosofiche uno degli esempi più suggestivi: “Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: un
dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto
circondato da un rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi”, citato in Jean-Francois
Lyotard, La condition postmoderne: rapport sur le savoir, Paris, Editions de Minuit,1979; [trad.it. La condizione
postmoderna: rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli, 1981, p.74].

147
La città quotidiana, fatta anche di quelle che Michel De Certeau chiama semplici “retoriche
pedonali”28, capaci cioè di disegnare autentici racconti, inficia la città-concetto, rendendo
l’esperienza urbana non solo più autentica, ma “spaziale, antropologica, poetica e mitica.”29
Nel cinema americano questa esperienza è la risultante, a volte composita, di una serie di
direttrici di cui, di seguito, proveremo ad analizzare tre aspetti.

3.1 L’esperienza urbana: espansione estetica e sindrome dello spettacolo.

È un modello di esperienza urbana che affonda le sue radici nel Seicento e nel Settecento e
che venne adottato all’interno delle città barocche europee. Queste città trasformavano le loro
piazze e palazzi in palcoscenici teatrali legittimando, con le rappresentazioni, il potere del principe
o della Chiesa. Erano spettacoli che avevano confini ben precisi, non solo temporali (solo in feste
o ricorrenze deputate), ma anche fisici (in teatro o in piazze particolari). Va altrettanto sottolineato
quanto fosse ben definita anche l’attribuzione dei ruoli: solo i protagonisti erano attivi, mentre il
pubblico assisteva passivo. Ora, nelle pratiche attuali di una età spesso identificata come
“neobarocca”30, lo spettacolo si è diffuso ovunque invadendo ogni tipo di spazio e distribuisce,
indiscriminatamente, le casacche di personaggio e spettatore, giocando sulla continua commistione
dei ruoli.

The Truman Show (Peter Weir, 1998) si propone come un significativo referente per
esprimere una totale compenetrazione e assimilazione tra schermo e sala cinematografica, tra
personaggio e schermo, tra la città-comunità riprodotta e quella accettata come reale per
convenzione narrativa.
La Seaheaven del film è una città che mette in scena 24 ore su 24 la vita di Truman
Burbank, ripreso da 6000 telecamere; una città dove tutti, tranne lui, sono attori al corrente della
finzione che stanno recitando. È un universo del tutto spettacolarizzato dove Truman, in qualità di

28
“La città del quotidiano costruita nelle pratiche, dai passi e dagli umori della gente s’inserisce nella griglia
razionale, ottimizzata e leggibile della città-concetto stravolgendola e rendendola vera” […] I percorsi dei passanti
seguono traiettorie o deviazioni assimilabili a ‘figure’ o a ‘stili’ particolari. Vi è una retorica del camminare. L’arte di
‘elaborare’ frasi ha come equivalente un’arte di inventare percorsi”. Michel De Certeau, L’invention du quotidien.
L’art de faire, Paris, Editions Gallimard, 1990; [trad.it. Mario Baccianini, L’invenzione del quotidiano, Roma,
Edizioni Lavoro, 2005, p.154].
29
Ivi, p. 93.
30
Cfr. Omar Calabrese, L’età neobarocca, Roma-Bari, Editori Laterza, 1987.

148
personaggio ignaro del suo statuto, “è il centro del mondo concepito come caos finalmente
organizzato, messo in scena da e attraverso lo sguardo, ed è per questo che il personaggio
cinematografico fa del mondo uno spettacolo”31.
Tuttavia, il desiderio di Truman, una volta scoperto l’inganno di vivere in un universo
fittizio, è quello di fuggire, di attraversare il mare come un novello Ulisse per approdare in quella
spiaggia spettatoriale che dovrebbe rappresentare per lui quello che per l’eroe greco era il mondo
della “virtute e canoscenza”. La rinuncia di Truman alla vita in diretta non sembra proiettarlo in un
universo caotico, come gli annuncia il suo regista per dissuaderlo ad abbandonare lo show.
Nell’universo spettatoriale oltre Seaheaven, il caos e la realtà non esistono, dal momento che il
mondo (del dietro le quinte e dello spettatore televisivo) risulta ancora più rigido, irreggimentato
ed esclusivo di quello fittizio che si vive nell’isola. A questo proposito è emblematico l’epilogo
del film: dopo l’uscita di scena di Truman e il conseguente termine del programma seguito da
milioni di telespettatori, due dei fruitori abituali, comparsi a più riprese tra i testimoni della
telenovela, felici per la sorte positiva del loro eroe si domandano distrattamente: “Che cosa danno
adesso?”.
Non c’è sgomento, non c’è rimpianto: vince l’abitudine per una programmazione, per un
segnale visivo senza soluzione di continuità; prevale il regime di uno sguardo ottuso ma totale,
semplicemente riscattato, se può essere considerata una qualità, dal vincolo di appartenenza ad una
comunione catodica.
L’esterno, dunque, questo ormai denaturato caos del contingente, nel film di Weir sembra
non avere nemmeno una feritoia da cui affacciarsi, a maggior ragione perché l’esterno ha subito la
contaminazione dell’interno, del nucleo, del nocciolo di Seaheaven.
Chi guarda il Truman Show infatti ha acquistato tutti i feticci dell’Universo di questa Città-
Mondo: si va dalle copie degli spazzolini da denti alla riproduzione di intere case presenti nello
show, tutto il mondo esterno riproduce quello interno dell’isola. Così Truman forse non evade
nemmeno, ritrova quello che crede di aver lasciato, anzi la copia di quello che ha abbandonato, e
Seaheaven rischia, per paradosso, di diventare il modello. Questa città da un lato segue la specifica
araldica, rappresenta cioè “l’inclusione nel tutto di un suo modello in scala ridotta”, ma dall’altro,
“mentre pretende di chiudere il testo in un dialogo con se stesso, ne mette in crisi le frontiere
interne ed esterne aprendo prospettive vertiginose, questioni ineludibili sul linguaggio-autore-
testo-mondo”32.

31
Marc Vernet, Personaggio, in Jean Collet et alii, Attraverso il cinema : semiologia, lessico, lettura del film, ed. it.
Antonio Costa ( a cura di), Milano, Longanesi, 1978, p. 148.
32
Donatella Izzo (a cura di), Il racconto allo specchio. Mise en abyme e tradizione narrativa, Roma, Nuova Arnica
Editrice, 1990.

149
Il rimando interno/esterno nella pellicola di Weir è pressoché continuo; non lascia, lo
ripetiamo, alcuna autonomia a nessuno dei due termini, creando percorsi di senso autoriflessivi e
labirintici. Il desiderio della copia parte dall’esterno (il mondo spettatoriale) per realizzare
l’interno (Seaheaven) e da questo, diventando anche solo temporaneamente originale grazie alla
presenza ingenua di Truman, ridiventa copia nell’esterno e così via.
Seaheaven esprime, per molti aspetti, la manifestazione di quella che viene definita la
“sindrome Disney”33: essa fa riferimento ad una estetica generalizzata dell’esistenza e conduce a
realizzare quel “populismo estetico” di cui ha discusso Fredric Jameson.
La città-isola del film di Weir è una forma di “eterotopia della compensazione” dove, scrive Mario
Vercelloni,

il confine tra vero e falso si assottiglia, si produce illusione stimolandone allo stesso tempo il
desiderio, poiché in fondo è meglio vedere da vicino un alligatore robotizzato che spalanca le
fauci che spendere una giornata tra le paludi della Florida senza scovarne uno. In questo senso
la tecnica dei mondi Disney è chiamata a produrre più realtà di quella fornita dal mondo
esterno, spingendo l’intera dimensione del parco a tema verso l’iperreale controllato dai
computer34.

Se la ricostruzione di intere realtà urbane è diventata talmente diffusa e standardizzata da


investire il globo di quell’ulteriore deriva della “disneyzzazione” che viene chiamata anche
“mcdonaldizzazione”35, forse ha ragione Franco La Polla quando dice che “il nostro mondo non ci
piace più”. L’avventura nello spazio, nel West o in luoghi esotici misteriosi, il movimento, il falso
movimento o il vagabondaggio, fanno adesso rotta all’interno del corpo dell’uomo, della sua
psiche, ne fanno un “Viaggio allucinante”, per adoperare il titolo di un noto film di Richard
Fleischer.
In The Truman Show va segnalato, tuttavia, che quello che conta non è tanto il corpo di
un’uomo “[Tru(e)man]”, pur violentato e deformato, bensì il corpo del mondo. Proprio questo, del

33
“Quel che veniamo a visitare non esiste. Noi vi facciamo l’esperienza di una pura libertà, senza oggetto, senza
ragione, senza posta in gioco. Non vi ritroviamo né l’America né la nostra infanzia, ma la gratuità assoluta di un gioco
di immagini in cui ciascuno di coloro che ci sono accanto ma che non rivedremo mai può mettere quel che vuole.
Disneyland è il mondo di oggi, in quello che ha di peggiore e di migliore: l’esperienza del vuoto e della libertà”. Marc
Augé, L’impossible voyage. Le tourisme et ses images, Paris, Payot & Rivages, 1997; [trad. it. Alfredo Salsano,
Disneyland e altri non luoghi, Torino, Bollati Boringhieri, 1999 (2002², p. 25)].
34
Mario Vercelloni, “Eterotopie della compensazione. I parchi a tema Disney e le loro strutture alberghiere”, Domus,
n.787, pp.35-42.
35
Il concetto di disneyzzazione proposto da Alan Bryman e quello di mcdonaldizzazione suggerito dal sociologo
George Ritzer sono in apparenza simili. Bryman però sostiene, ad esempio, che la disneyzzazione, pur comportando
un livello di omogeneizzazione, si caratterizza per la capacità di creare varietà e differenze. Per questo motivo,
secondo Bryman, il concetto di disneyzzazione si presta maggiormente a spiegare il funzionamento delle attuali
società postmoderne, dove dominano la personalizzazione e una grande varietà di scelte per il consumatore, mentre
quello di mcdonaldizzazione può esser applicato solamente ai sistemi sociali legati al modello industriale moderno.
Cfr. Alan Bryman, The Disneyization of Society, London-Thousand Oaks, Sage, 2001; George Ritzer, The
McDonaldization of Society: an Investigation into the Changing Character of Contemporary Social Life, Thousand
Oaks-London-New Delhi, Pine Forge Press, 1995, [trad.it. Il mondo alla McDonald’s, Bologna, Il Mulino, 1997].

150
resto, era l’oggetto dello sguardo di Ulisse a cui Truman sembra ispirarsi: che cos’è infatti “il
mondo sanza gente” se non esclusivamente la sua natura fisica, soltanto il mondo, il suo involucro,
il suo corpo.
Il nostro mondo, se proprio dobbiamo rintracciare un referente, così come appare nel film,
anziché andare stretto, appare invece troppo grande da osservare, tanto che lo si riduce ad un’isola
che ne è una riproduzione finemente organizzata. Qui la stessa casualità è la manifestazione di una
organizzazione, vedi ad esempio la caduta improvvisa di una lampada alogena o le interferenze
radio o le informazioni della regia, che il protagonista. riesce a captare grazie ad una interferenza.
Seaheaven diventa un enorme laboratorio tattile dove, seguendo la spiccata tendenza del
cinema contemporaneo – e di quello americano e del Sud-Est asiatico in particolare –, ciò che si
vede è letteralmente a portata di mano. Domina l’esperienza tattile, o, come meglio la definisce
Giuliana Bruno36, aptica, in cui il tatto è un senso esteso che riguarda anche l’occhio in quanto
pelle. Le immagini si possono toccare e ci toccano; la casa di Truman, questa piccola Ikea, è la
nostra casa, Ulisse-Truman, superate le colonne d’Ercole, si è ritrovato nel suo salotto.
La banalità del quotidiano, bene espressa dalla trasmissione continua della vita di Truman
da quando si sveglia a quando va a dormire, nel ripetere gesti usuali per tutti, dal lavarsi i denti
all’andare in ufficio, dall’essere imbottigliato nel traffico al fare acquisti in un supermercato, ha
trasformato i luoghi di una città in spazi sociali dall’alto contenuto simbolico, in cui proprio la
banalità del quotidiano diviene non solo immagine, ma patrimonio immaginario. È quanto sostiene
Michel Maffesoli chiamando questi spazi mondani e comuni “Alti Luoghi” 37, “ambienti che danno
vita ad un numero sempre maggiore di piccole comunità, di tribù: in tali spazi si acquisisce un
surplus dell’essere […] si partecipa a quel vasto insieme che […] possiamo chiamare il ‘divino
sociale’; partecipazione, nel seno stesso del quotidiano, a una trascendenza immanente, causa ed
effetto di ogni comunità”38.

36
Giuliana Bruno intende il toccare come il raggiungere qualcosa ma anche il venire raggiunti, condizione dove
l’aptico è quel modellarsi sull’asse spaziale vicino/lontano, dinamica alla base sia del linguaggio cinematografico, sia,
secondo la studiosa, della produzione delle emozioni. Cfr. Giuliana Bruno, Atlas of Emotion: Journeys in Art,
Architecture and Film, New York, Verso; [trad. it. Maria Nadotti (a cura di), Atlante delle emozioni: in viaggio tra
arte, architettura e cinema, Milano, Bruno Mondadori, 2006]
37
“Le megalopoli sono costituite da una serie di ‘Alti-Luoghi’ – nel senso religioso del termine –, ove sono celebrati
diversi culti dal forte coefficiente estetico-etico: culti del corpo, del sesso, dell’immagine, dell’amicizia,
dell’‘abbuffata’, dello sport, e la lista potrebbe continuare all’ infinito. Il loro denominatore comune è dato dalla
presenza di uno spazio ove tali rituali si celebrano, così che il luogo si fa legame – il luogo è il legame […] Si tratta di
spazi specifici dalla forte carica erotica […] dove si gioca contemporaneamente la prostituzione sacralizzata […] Sono
spazi della celebrazione, dove ci si osserva tra iniziati […] si tratta di luoghi dove si celebrano misteri. Ci si riunisce,
si conosce l’altro e solo in seguito ci si riconosce. Bisogna precisare che tali luoghi emblematici […] non
rappresentano altro che espressioni con la maiuscola di un testo che, da parte sua, viene continuamente scritto, con la
minuscola, all’interno del quotidiano. Come la punteggiatura in un testo, infatti la città è disseminata da una
molteplicità di piccoli ‘Alti-Luoghi’ che assumono la stessa funzione: elaborano continuamente ‘i misteri della
comunicazione-comunione’”. Maffesoli, Notes sur la postmodernité;[trad.it. Note sulla postmodernità, cit. pp.79-81].
38
Ivi, p.81.

151
3.2 L’esperienza urbana: una rinnovata impronta mitologica.

La città, come ai tempi di Benjamin, ridiventa campo mitopoietico per eccellenza e il mito
impregna di sé anche la vita quotidiana.
Diverse erano state le figure della mitologia che avevano incarnato il fenomeno
metropolitano, diventandone delle valide metafore. Benjamin, per esempio, assume come
riferimenti Teseo e Orfeo. Teseo ha sfidato, sconfiggendo il Minotauro, la città-labirinto, mentre
Orfeo, per amore di Euridice, si è spinto fin dentro l’Ade.
De Certeau invece, pensando all’opposizione verticale e orizzontale di una città come New
York, la “prua” del mondo, preferisce chiamare in causa Icaro e Dedalo:

salire in cima al World Trade Center significa sottrarsi alla presa della città. Il corpo non è più avvolto
dalle strade che lo fanno girare e rigirare secondo una legge anonima; né posseduto, attivamente o
passivamente dal frastuono di tante differenze e dal nervosismo del traffico newyorkese. Chi sale lassù
esce dalla massa che travolge e spazza via qualsiasi identità di autore o spettatore. Librandosi sopra
queste acque, Icaro può ignorare le astuzie di Dedalo in labirinti mobili e senza fine. Il suo elevarsi lo
trasfigura in voyeur. Interpone una distanza. Tramuta in un testo che si ha sotto gli occhi il mondo che ci
stregava e dal quale eravamo “posseduti”. Permette di interpretare con un Occhio solare, di posare uno
sguardo divino: esaltazione di una pulsione scopica e gnostica. La finzione del sapere consiste
precisamente nell’essere soltanto quest’occhio vedente.
Per ripiombare poi inevitabilmente – con la caduta di Icaro – nel cupo spazio in cui circolano le folle
che, visibili dall’alto, in basso non vedono?39

Quello di De Certeau è un passaggio importante, che attesta quanto la tecnologia delle


metropoli americane poggi ancora su radici mitologiche e dove, d’altra parte, quella stessa
impronta mitologica è spesso rappresentata dalla tecnologia: essa in effetti risulta quel traino
robusto che porta con sé, paradossalmente, il ripristino del dialogo con il passato. È un tragitto che
si impone già con la modernizzazione, in cui

quanto maggiore è il distacco dal passato, tanto più necessario è il ricorso ad esso come risorsa
per comunicare e rassicurare. Le prime lampadine sembrano candele, i primi vagoni ferroviari
carrozze a cavalli, le auto landò. Le fabbriche evocano i castelli, le stazioni ferroviarie
dell’Ottocento ricordano un po’ di tutto. Il campanile di San Marco è stato a lungo uno dei
modelli più diffusi per i grattacieli nordamericani, insieme alle torri gotiche diffuse nella
Manhattan a cavallo tra i due secoli40.
39
De Certeau, L’invention du quotidien,[trad.it. L’invenzione del quotidiano, cit. p. 144].
40
Giandomenico Amendola, La città postmoderna. Magie e paure della metropoli contemporanea, Roma-Bari,
Laterza, 2003, p. 138. Per Abruzzese invece è comunque “evidente che la creazione delle strategie del desiderio messe
in opera dei media più seduttivi dell’industria culturale ha sfruttato la nostalgia e insieme l’attesa per una comunità di
valori, per un insieme edenico di legami simbolici su cui il progresso tecnologico e la società di massa hanno fondato
l’appetibilità del presente in vista del futuro e in nome di un passato nullificato, svuotato dei suoi reali contenuti, vinto

152
Lo stesso processo di collegamento con il passato contamina le nuove tecnologie, dal
momento che “alcuni studiosi […] hanno ravvisato nella multimedialità e nell’interattività
consentite dai new media un ritorno a una concezione medioevale dello scritto in cui glosse,
commenti e immagini aprivano sempre finestre al lettore e in cui la lettura ad alta voce
coinvolgeva sia l’udito che la vista dell’ascoltatore” 41. Inoltre, è proprio la dimensione tecnologica,
spinta a volte all’eccesso, che ha saputo recuperare la qualità primaria del cinematografo. Si tratta
di una qualità che era stata in grado di intervenire sul “sensorio del soggetto, producendo effetti
(speciali) sulla sfera emotiva dello spettatore/operatore, ma [che] al contempo si allinea su
piattaforme comunicative che esorbitano dalla tradizione dello spettacolo industriale e realizzano
sintesi semiotiche sempre più vicine al soggetto e alla sua individualità” 42. Addirittura, secondo
Lev Manovich, il digitale rappresenterebbe un ritorno alla pittura, “alle pratiche
paleocinematografiche del XIX secolo, quando le immagini erano dipinte e animate a mano […]
Adesso che il cinema sta entrando nell’era digitale, queste tecniche stanno ridiventando abituali
nel processo di realizzazione del film […] Non è più una tecnolgia mediale basata sulla
indicizzazione delle immagini, ma piuttosto un sottogenere della pittura”43.

In questo territorio dell’esperienza come riviviscenza del mito, lo spazio urbano –


evidenzia Vivian Sobchack44 – è soggetto a due diverse condizioni. Da un lato è vissuto più come
un testo che come un contesto e, dopo aver assorbito il tempo e incorporato il movimento, lo
spazio contemporaneo è diventato un evento a sé, una esperienza autonoma del tutto convulsa e
non contigua. Dall’altro, proprio con la crisi della città-concetto, metafore quali corpo e macchina,
con cui era possibile abbracciare con un’immagine la città, non funzionano più. Anzi, sono i
termini che non qualificano più l’umano che si dimostrano pertinenti a offrire una – seppure
instabile – immagine della città.
Sulla base di questi presupposti Paul Virilio si esprime in modo perentorio:“quando l’estensione
del mondo si riduce progressivamente a nulla, con l’uso corrente dei trasporti supersonici e di
e in quanto tale interamente falsificabile”. Alberto Abruzzese, Modernizzazione, in Id., Valeria Giordano (a cura di),
Lessico della comunicazione, Roma, Meltemi, 2003, p. 354.
41
Gianfranco Bettetini, Fausto Colombo, Le nuove tecnologie della comunicazione, Milano, Bompiani, 1993, p.23.
42
Sergio Brancato, La città delle luci: itinerari per una storia sociale del cinema, Roma, Carocci, 2003, pp. 144-145.
43
Lev Manovich, The Language of New Media, Cambridge (Mass.), Massachusetts Institute of Technology, 2001;
[trad.it. Laura Toschi ( a cura di), Il linguaggio dei nuovi media, Milano, Edizioni Olivares, 2002³, p. 363].
44
Blade Runner si colloca in equilibrio nel punto preciso in cui il moderno avanzato e il postmoderno si incontrano
per poi divergere. Mentre le sue tematiche rendono esplicitamente elegiaci i misteri di durata e memoria, la messa in
scena del film celebra esplicitamente lo spazio come luogo di “eterogeneità stilistica sconnessa e priva di una norma”
(p. 36), in grado di “trasformare il flusso del tempo e dell’azione in una serie di oggetti-eventi finiti, puntuali,
compiuti, atomicamente isolati” (p. 50). Vivian Sobchack, Screening Space: The American Science-fiction Film, New
Brunswick, Rutgers University Press, 1997; [trad.it. Maria S. Checcoli, Spazio e tempo nel cinema di fantascienza:
filosofia di un genere hollywoodiano, Bologna, Bononia University Press, 2002, pp. 36 e 50].

153
telecomunicazioni istantanee, l’individuo diventa il suo proprio terreno di sperimentazione, l’unico
ambito di esplorazione”45. Sembra emergere allora quello che Roberto Marchesini chiama
“somato-landscape”: esso non va considerato semplicemente come una rappresentazione del corpo
in un paesaggio, bensì come “uno spazio di esperienza, un attrattore di nuove epistemologie, un
volano di nuove coniugazioni con il mondo”46.
Il corpo si presenta, allora, come una stazione di transito, “una sorta di pista di atterraggio, dove ci
si può fermare per fare rifornimento prima di decollare di nuovo nell’empireo cognitivo” 47. Si
tratta di percorsi interpretativi già preconizzati da Blade Runner (Ridley Scott, 1982) e conclusi da
Matrix, film in cui il corpo diventa una immensa metropoli abitata da realtà tecnologiche e “il
somato-landscape si trasforma […] in un insieme di ecosistemi che permettono la vita e […]
l’evoluzione delle nanotecnologie. Ciò significa non solo modificare il rapporto dimensionale tra
corpo e tecnologia, ma altresì adattare le nanotecnologie all’ambiente in cui si troveranno a
operare anche nei termini di rifornimento energetico”48. Ed è proprio quanto accade in Matrix: le
macchine, ormai padrone di una città-mondo, conservano e utilizzano il corpo degli esseri umani
esclusivamente per la propria alimentazione energetica.

Per tornare a Blade Runner, si tratta di un film in cui lo spazio urbano non aveva nulla a
che fare con il futuro, al contrario era la carcassa del passato, luogo di un possibile “dopo storia”,
come annota Mario Pezzella49. Era un ambiente che manteneva erette poche vestigia arcaiche,
come la piramide della Tyrrel Corporation (industria biogenetica produttrice dei Replicanti), uno
spazio svuotato50, lugubre, in cui il potere rivestiva la forma di una memoria andata a male.
Il futuro del film di Ridley Scott è “più spettacolo spaziale che rappresentazione o racconto
temporale”51. Questo aveva già fatto dichiarare a Jameson che viviamo immersi in “una situazione
45
Paul Virilio, Dal corpo profano al corpo profanato, in Pier Luigi Capucci (a cura di), Il corpo tecnologico, Bologna,
Baskerville, 1994, p. 9.
46
Roberto Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, pp. 210-211.
47
Ivi p. 525.
48
Ivi, p. 212.
49
“Siamo nel dopo-storia, dove il progetto razionale è imploso e i suoi frammenti spezzati ballano in tondo. Ancor
prima di decomporsi fisicamente, gli edifici sembrano rovine disabitate da qualsiasi principio costruttivo. Nessuno, del
resto,sembra preoccuparsi della loro manutenzione o di quella delle strade. Se ancora esiste una ‘pubblica
amministrazione’, essa gestisce quasi esclusivamente i giochi di suoni e di luci, che danno l’illusione e lo spettacolo di
una mente progettante, in verità inesistente”.
Mario Pezzella, “Blade Runner. Figure della megalopoli”, La nuova città, n.8 (maggio-agosto), 1995, p.103.
50
La levigatezza delle costruzioni, soprattutto la struttura piramidale della Tyrrel Corporation, trova immediatamente
il suo opposto nell’anfrattuosità dei loro interni, esaltata da alcuni elementi illuministici. A differenza delle altre città
cinematografiche, fantascientifiche o meno, questa invita ad intuirne un risvolto, cioè la dialettica dell’interno e
dell’esterno del formicaio. In Blade Runner l’interno diventa cavo: non spazio di vite, ma spazio simbolico, senza la
personalità che una casa dovrebbe esprimere. Allo spazio quasi senza mobilio della Tyrrel fa riscontro quello
domestico, stipato di oggetti, magazzino e inventario di frammenti biografici che non marcano di alcuna reale
biografia chi vi abita, poiché non esiste più uno spazio intimo e familiare. Cfr. Adriano Piccardi, “Blade Runner”,
Cineforum, n. 220, 1982.
51
Sobchack, Screening Space,[trad.it, Spazio e tempo nel cinema di fantascienza, cit. p. 274].

154
storica nuova e originale, in cui siamo condannati ad indagare la storia passando per nostre
immagini pop e per simulacri di questa stessa storia, che come tale resta eternamente
irraggiungibile”52.
Le ambientazioni della Los Angeles di Blade Runner sono caratterizzate simbolicamente
da due rappresentazioni diverse. La prima allestisce una scenografia eccessiva tanto ricca,
affastellata e complessa, da tendere a far passare in secondo piano la temporalità del film, e, a
volte, la sua coerenza narrativa. L’altra enfatizza un tipo particolare di spazio terrestre svuotato,
sgombro dal familiare disordine materiale che generalmente oscura la vista e si presenta come il
luogo di una potenziale apertura culturale ( il caso dell’ufficio della Tyrrel Corporation).
I luoghi in Blade Runner sono molto più che un semplice sfondo; “lo scenario è il film”. In
questo spazio brulicante d’ogni specie e razza di individui gli umani si muovono in modo
meccanico: basti osservare le figure che attraversano le strade e che presentano tratti distintivi
fortemente connotati, che ne fanno delle figure stereotipe. uesta folla non è più un “caleidoscopio
dotato di coscienza”53, ma una congerie di automi privi di sentimenti: è nel diverso rapporto con lo
spazio che il regista rende evidente l’opposizione tra umani e replicanti, rovesciandone i rispettivi
paradigmi. Ogni azione dei replicanti opera una destrutturazione dello spazio, lo ravviva non solo
con la sua presenza, ma soprattutto con la propria morte, lo rende cioè il simulacro di uno sguardo
perduto nel tempo “come lacrime nella pioggia”.
In una Los Angeles sovraccarica di rifiuti, di costruzioni lacerate, di liquami, di luci e
tenebre che si alternano senza sosta, il Sé è dunque considerato inumano 54 (una replica) e lo è
proprio a partire dalla ostensione e dalla messa in scena dello spazio, dal momento che sono gli
umani ad aver perduto gli affetti, aderendo completamente a questo spazio eccessivo e

52
Fredric Jameson, “Postmodernism, or The Cultural Logic of Late Capitalism”, New Left Review, vol. I/146, (July-
August), 1984; [trad.it. Stefano Velotti, Il Postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Milano, Garzanti,
1989, p. 51]. Ancora Jameson aggiunge: “Se infatti il soggetto ha perso la sua capacità di estendere attivamente le sue
pro-tensioni e ri-tensioni sulla molteplicità temporale e di organizzare il suo passato e il suo futuro in un’esperienza
coerente, diventa abbastanza difficile vedere come i prodotti culturali di un soggetto simile possano risolversi in
qualcosa di diverso da un ‘mucchio di frammenti’ e da una pratica indiscriminata dell’eterogeneo, del frammentario e
dell’aleatorio”. Ivi, p. 52.
53
:”Baudelaire parla dell’uomo che si immerge nella folla come in un serbatoio di energia elettrica: E lo definisce
subito dopo, descrivendo così l’esperienza dello schock, un «caleidoscopio dotato di coscienza»”.
Walter Benjamin, Schriften, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1955; [trad.it. Renato Solmi, Angelus Novus.
Saggi e Frammenti, Torino, Einaudi, 1962, (1995, p.107)].
54
Fabio Giovannini si domanda se davvero “la tecnologia innestata nel corpo corrisponde a una perdita di umanità”
oppure se è necessario comprendere che la novità degli innesti e delle ibridazioni meccaniche con la carne produce
una novità in termini di linguaggio che rompe con i confini di una identità alla semplice coazione a ripetersi. Cfr.
Fabio Giovannini, Mostri. Protagonisti dell’immaginario del Novecento da Frankenstein a Godzilla, da Dracula ai
cyborg, Roma, Castelvecchi, 1999. In effetti non è casuale che una parte della riflessione femminista [cfr. Donna
Haraway, Simians, Cyborgs, and Women: The Reinvention of Nature, 1991; (trad.it. parz. Liliana Borghi, Manifesto
cyborg. Donne, tecnologie e biopolitica del corpo, Milano: Feltrinelli, 1995)], ha colto nella figura del cyborg il
riscatto delle gerarchie dei ruoli sessuali, in cui il potenziamento del corpo diventa uno spazio ludico dove si
confrontano e si relazionano identità plurime.

155
acquitrinoso. L’ambiente ha fondato allora non delle identità, ma delle “euforie”, delle “intensità”,
che solo in apparenza surrogano l’affettività, l’umanità.
A questo proposito Jameson fa notare che, quando i mucchi di frammenti non vengono più
considerati come segni di malessere, diventano disponibili a “intensità più gioiose”, a un’euforia
che sostituisce “precedenti affetti d’ansia e di alienazione”. Tuttavia queste giocose intensità e
quest’euforia emergono in una forma particolarmente “distaccata”:

la liberazione, nella società contemporanea, dalla precedente anomia del soggetto potrebbe
significare non solo una semplice liberazione dall’angoscia, ma una liberazione da ogni altro
tipo di sentimento, dal momento che non si dà più un Sé che possa provarlo. Il che non
significa che i prodotti culturali dell’era postmoderna siano completamente privi di
sentimento, ma piuttosto che tali sentimenti – che sarebbe meglio chiamare più precisamente
“intensità” – fluttuano liberamente, sono impersonali e tendono a essere dominati da un
particolare tipo di euforia55.

La peculiarità di questa “euforia postmoderna” consiste nell’essere strutturata e


rappresentata non come un sentimento intenso, espressione di un soggetto centrato e costruito nel
tempo, ma piuttosto come una “intensità” che si sprigiona da una soggettività decentrata e
oggettivata nello spazio.

Lo spazio mitico non rivive solo attraverso la messa in scena del rifiuto o di un futuro
vecchio, ma anche attraverso una marcata e dichiarata rivelazione delle ibridazioni tra la chimica
della pellicola e l’elettronica. All’interno del contesto metropolitano, questo è un spazio
inaugurato da One from the Heart (Un sogno lungo un giorno, Francis Ford Coppola, 1982). La
volontà di Coppola, infatti, è quella di ricostruire una Las Vegas che, in qualità di progetto
architettonico di realtà, vada a ritroso alle origini della fiaba e del mito. La chiave interpretativa
del film sta proprio nella ricostruzione in studio della città dove la realtà oggettiva viene
reinventata e riprodotta in una realtà speculare alla prima. Il risultato “è un universo oggetto ma
onirico, fantasmatico ma riproducibile […] la stessa ‘opera d’arte’ rivendica il suo diritto
all’esistenza proprio in quanto ‘riproducibile’ e riprodotta dal computer, dalla steadycam”56.

Spetta poi a Strange Days (Kathryn Bigelow, 1995) rendere parossitico e patologico il ricorso
all’immagine elettronica. Infatti l’eccesso di spazio che si riscontrava in Blade Runner, nel film
della Bigelow, per quanto presente, soccombe se rapportato alle immagini che i protagonisti si
somministrano quotidianamente attraverso il dispositivo di proiezione soggettiva dello squid57.

55
Jameson, Postmodernism,[trad. it. Il Postmoderno, cit. pp. 33-34].
56
Vito Zagarrio, “L’ultimo Coppola, ovvero la rifondazione della realtà”, Bianco e Nero, n. II (aprile/giugno), 1985,
p.44.

156
L’accumulo di immagine da parte degli abitanti è tale, che questa preme contro gli ambienti di Los
Angeles facendola quasi scoppiare. È la riproposizione moltiplicata del mito di Sisifo come
sostiene Gianni Canova58, dove le visioni quotidiane, contrariamente ad un film, non si
esauriscono mai. È un futuro caratterizzato da un nuovo modo di guardare. Questo non consiste in
un rinnovato sviluppo tecnologico che potenzi i confini e le possibilità dell’occhio: la novità, in
questo caso, risiede nel contenuto della visione. Ciò che eccita questa comunità metropolitana di
fine millennio non è dunque lo sguardo, non è semplicemente la pratica del voyeurismo, ma è la
cosa vista, la possibilità ad esempio di vedere da protagonisti il coito e la morte, cioè quelli che
André Bazin59 considerava dei tabù visivi.
In Strange Days i festeggiamenti per il millennio che sta trapassando trascinano con sé un
drammatico solipsismo dello sguardo: nella società del narcisismo di massa, l’unico narcotico che
ancora funziona è quello che illude l’Io di poter amplificare se stesso fino al limite estremo: Los
Angeles è presentata come una città cervello “cronotopo […] del desiderio reiterato e
mercificato”60.

Nel recupero del mito, non può mancare quello che fonda la città, sul quale viene sancita la
“nascita di una nazione”.
Gangs of New York (Martin Scorsese, 2002), pur mutuando i prototipi classici di
celebrazione della nascita della città come Barbary coast (La costa dei Barbari, Howard Hawks,
1935) e In old Chicago (L’incendio di Chicago, Henry King, 1938), si concentra sulla
esplorazione dei cunicoli, dei sotterranei che daranno alla luce la futura metropoli come società
dello spettacolo.
Il film di Scorsese mette dunque in scena una società primitiva fondata sulla oscenità e sulla
violenza dello sguardo, tant’è vero che il film si apre e si chiude con una ripresa macro dell’occhio
di un macellaio i cui comportamenti efferati faranno da contorno a tutta la pellicola.
Quella di Gangs of New York appare, in prima istanza, come una “città altra”, ancora sotterranea,
sulla scorta di quelle raccontate da Charles Dickens o da Victor Hugo, che fatica ad emergere dalle
viscere della terra. Essa è segnata e attraversata, per tutta la durata della vicenda, dalla lotta tra due
57
Lo squid consiste in un casco che registra quanto vede in soggettiva chi lo indossa. L’aberrazione a cui conduce
l’uso di questo dispositivo visuale è il cosiddetto “black Jack”, ossia le registrazioni di un assassinio costruite anche
con il “punto di vista”, il vissuto emotivo, della vittima.
58
Cfr. Gianni Canova, “Oltre lo sguardo di Sisifo”, Bianco e Nero, n. 1-2, 1996.
59
Cfr. André Bazin, Qu’est ce que le cinéma? I-IV, Paris, Ed. Du Cerf, 1958; [trad. it. parziale Adriano Aprà, Che
cos’è il cinema? Milano, Garzanti, 1973].
60
Michela Carobelli, Kathryn Bigelow. La compagna degli angeli, percorsi e sogni di una regista americana, Recco,
Le Mani, 2005, p. 71.

157
fazioni che si ritengono depositarie della nascita della città, quella dei cosiddetti nativi e quella
degli irlandesi.
È una New York espressa come microcosmo centripeto, a cui ogni cosa fa ritorno senza nemmeno
essere partita. Scorsese ne offre un esempio particolarmente efficace quando, attraverso un piano
sequenza, prima segue con un dolly a salire coloro che appena approdati in America sono arruolati
e imbarcati per combattere contro i confederati e poi, con un movimento di macchina a scendere,
riprende le bare dei soldati che fanno ritorno dal fronte. È una città che si fa custode di un tempo
spazializzato, capace di condensare strati temporali e proiezioni temporali nello spazio: quelle bare
tornano effettivamente dai campi di battaglia o sono piuttosto visione simbolica di quanto accadrà
a quei nuovi soldati?
Anche quando un approccio più storico interviene a sedare la violenza ancestrale del mito, esso
non riesce del tutto ad estirpare il profilo di un mondo che potrebbe ribollire ancora ed esplodere
in superficie. Il film si chiude infatti con la sanguinosa repressione, da parte del governo centrale,
della rivolta contro la coscrizione obbligatoria: le cannonate delle navi si abbattono non solo sui
rivoltosi ma anche sul luogo dello scontro finale tra irlandesi e nativi. Entrambi vengono abbattuti
da una forza sconosciuta, quella appunto della storia, che per tutta la vicenda ha viaggiato come un
parassita sulle loro spalle.
Le tombe dei protagonisti in avampiano vengono progressivamente cancellate da dissolvenze
ripetute fino a che lo skyline di New York, come oggi lo conosciamo, prende il sopravvento. In
avampiano resta quella collina che ospita, sotto la sua terra, i corpi dei protagonisti dimenticati.
Quella terra, in cui le sepolture non sono mai per sempre, rimane come un monito.

3.3 La reinvenzione della città.

Nel 1949, E.B. White ha descritto New York come “un perfetto bersaglio”:
una singola flotta aerea non più grande di uno stormo di oche può mettere rapidamente fine
alla fantasia di quest’isola, bruciare le torri, frantumare i ponti, trasformare le metropolitane in
camere a gas, cremare milioni di persone. L’intuizione della sua natura mortale è insita nella
New York di oggi: è nel rumore dei jet che ci sorvolano, è nelle testate listate a lutto
dell’ultima edizione straordinaria.

158
Tutti i cittadini sono costretti a convivere con la realtà incontrovertibile dell’annientamento
[…] Nella mente di qualunque perverso sognatore che voglia lanciare l’attacco, New York
deve esercitare un fascino costante, irresistibile 61.

Leggiamo le riflessioni di White non tanto come una visione profetica dell’11 settembre,
quanto come l’attestazione che la città americana secerne in seno il gene della propria
distruzione. Ciò implica, secondo noi, che l’immagine cinematografica della città non
sembra dunque la principale responsabile degli atti di “un perverso sognatore”. Non sono
state le pellicole ad alimentare quell’“immaginazione” che ha determinato la disintegrazione
delle Twin Towers, ma la città stessa, in quanto bersaglio archetipico, protagonista assoluto
in tutto il suo acciaio, vetro e cemento.
Non è avvenuto semplicemente un crollo, uno “scambio simbolico” come sostiene Jean
Baudrillard62 o una violenta intrusione del “reale” nella nostra “sfera illusoria” ma, stando
alle considerazioni di Slavoj Zizek, è maturato un eccesso di “Reale”, uno Spettro. Infatti,
continua Zizek:

noi vivevamo nella nostra realtà prima del crollo delle torri e vedevamo gli orrori del terzo
mondo come qualcosa che non appartiene effettivamente alla nostra realtà sociale, come
qualcosa che esiste (per noi) come un’apparizione spettrale sullo schermo (televisivo). Quel
che è successo l’11 settembre è stato l’ingresso nella nostra realtà di quell’apparizione
fantasmatica sullo schermo. Non è successo che la realtà sia entrata nella nostra immagine, ma
che l’immagine sia entrata e abbia sconvolto la nostra realtà (cioè le coordinate simboliche che
determinano quel che sperimentiamo come realtà) 63.

La caduta delle torri è stata pertanto la caduta del velo dello schermo che rappresenta quello
che l’immagine copre, quello schermo che serve appunto, secondo Jacques Lacan64, a coprire la
realtà. L’immagine reiterata dell’aereo che affonda nelle torri è l’immagine dell’immagine dei film
catastrofici e come tale, chiamando in causa la catastrofe e rivelandone la messa in scena, schiude
l’accesso a quelle che sono le coordinate simboliche di messa in scena del reale: “il Reale che
ritorna ha la forma di un’(altra) apparenza”65.
61
E.B. White, Here is New York, New York, Harper and Brothers 1949; [ trad.it. Maria Baiocchi, Volete sapere cos’è
New York?, Roma, Arcana Libri, 2001, pp.53-54].
62
“Qualcuno ha detto che gli eventi dell’11 settembre costituivano un ritorno in forze del reale in un mondo divenuto
virtuale, con una sorta di nostalgia per i buoni vecchi valori del reale e della storia, foss’anche violenta. Non si tratta
affatto dell’irruzione del reale, ma dell’irruzione del simbolico, della violenza simbolica descritta da quello che vorrei
chiamare lo scambio impossibile della morte […] lo spirito del terrorismo è […] sfidare il sistema mediante un dono
al quale esso non può rispondere, se non con la propria morte e con il proprio crollo. L’ipotesi terroristica è che il
sistema stesso si suicidi per rispondere alla sfida multiforme della morte e del suicidio”. Jean Baudrillard, La violence
du monde, Paris, Éditions du Felin, 2003; [trad.it. Francesco Sircana, La violenza del globale, in Jean Baudrillard,
Edgar Morin, La violenza del mondo. La situazione dopo l’11 settembre, Como-Pavia, IBIS, 2004, p. 26 e pp. 33-34].
63
Slavoj Zizek, Benvenuti nel deserto del reale. Cinque saggi sull’11 settembre e date simili, Roma, Meltemi, 2002
(2003¹, pp. 22-23).
64
Cfr. Jacques Lacan, Les quatres concepts fondamentaux de la psychanalyse, in Séminaire. Livre XI, Paris, Seuil,
1973; [trad.it. Sciana Loaldi, Irene Molina, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, in Il Seminario, Libro
XI, Torino, Einaudi, 1964.].
65
“Proprio perché è Reale, cioè per via del suo carattere traumatico/eccessivo, siamo incapaci di integrarlo in (ciò che
sperimentiamo come) la nostra realtà, e siamo quindi obbligati a percepirlo come un’apparizione angosciante, come

159
La negazione del Reale, determinata in questo caso da una vicinanza eccessiva della città, ci
porta dunque a trasformarla in un’ulteriore immagine. Tuttavia, riteniamo che sia proprio
l’imperativo di questa negazione ad attestare la forza “oggettiva” della forma urbana sulla nostra
percezione.
La città americana dopo l’11 settembre si è avvicinata, è diventata di nuovo “carnale” e
abbiamo bisogno di creare una rinnovata distanza. È un tentativo che secondo noi ha prodotto, per
ora, nel cinema americano, un intervento che va nella direzione di riappropriarsi della città come
testo; una ricerca che riguarda più l’aspetto “duro”, di pietra, geofisico e morfologico, che quello
immateriale veicolato dalla celluloide. Ci sembra di assistere, nonostante la validità delle
affermazioni di Zizek, ad un ritorno significativo della città reale, che appare proprio nel momento
della lotta scatenata per difendersi dalla sua “tremenda fisicità”. In più va considerato quanto
l’aggressione a questa città sia stata “carnale” e “immediata”, anche in base al suo proporsi come
punto di arrivo o di rottura della storia. Per quanto lontano o collocato nella distanza
dell’apparenza, al di là delle interferenze mediatiche e delle pressioni politiche, è sembrato un
attacco alla propria vita e ha riproposto la città come un patrimonio della storia collettiva, ha
ripristinato uno spazio totale che sembrava perduto: quello di serbatoio ipermediale di storie
possibili.
Questa tragedia ha di nuovo proiettato la città all’interno del registro dello shock di cui
parlava Benjamin, anche se in questo caso, opportunamente, si parla di resilient city66, ossia di una
città in grado di riprendersi dopo uno shock e di reinventarsi, anziché semplicemente ricostruirsi.
A questo atto di reinvenzione partecipa in prima persona l’ambiente, con i suoi vuoti da riempire.
Si può trattare, come nel caso di The 25th Hours (La venticinquesima ora, Spike Lee, 2002), di un
percorso di definitivo allontanamento, dove la città, il testo abbandonato e corrotto, farà le veci di
un breviario da leggere ogni sera prima di addormentarsi; oppure, per quanto riguarda Marathon
(Marathon – Enigma a Manhattan, Amir Naderi, 2002), di una griglia grafica su cui scrivere o
riscrivere le coordinate della propria esistenza.

La venticinquesima ora esplora il vissuto di Monty, un uomo diventato spacciatore per


pagare gli estorsori che opprimono suo padre. Incastrato da agenti dell’FBI avvertiti da una
soffiata, Monty è condannato a sette anni di prigione, ma lui per primo, e tutti coloro che gli sono
più vicini, sono convinti che non ne uscirà vivo.
un incubo”. Zizek, Benvenuti nel deserto cit. p.23.
66
Sono definite resilient cities Berlino, Brema, Londra, Hiroshima, Beirut, Sarajevo: città che, attaccate o
semidistrutte da bombe, epidemie e incendi, sono state capaci di rinascere dalle macerie.
Cfr. Lawrence J. Vale, Thomas J. Campanella, The Resilient City. How Modern Cities Recover from Disaster, Oxford
(U.S.A), Oxford University Press, 2004.

160
La pellicola si concentra sul suo ultimo giorno di libertà ed opera, per quel che concerne il
rapporto con lo spazio urbano, un accostamento tra la sua vicenda e quella dell’11 settembre. Già
nei titoli di testa il regista avverte dell’importanza di questo contesto, dal momento che mostra
ripetute inquadrature che si susseguono, dal più vicino al più lontano, dello spazio lasciato vuoto
dalle Twin Towers. Si tratta dei fari che disegnano nel cielo notturno dei fasci altissimi di luce blu
elettrico e che ricalcano, stilizzandola, la traccia dei due edifici scomparsi.
Un’ulteriore sequenza crea un significativo richiamo con il prossimo futuro di Monty: ci
riferiamo al dialogo tra i suoi due migliori amici, che avviene davanti alla grande finestra di un
attico che affaccia su Ground Zero. Qui il cratere lasciato dalle Torri esprime, nelle parole degli
interlocutori, un evidente parallelo con la prospettiva di Monty. La città, privata delle torri e
rimasta come “una bocca senza denti”67, equivale al volto del protagonista, ad una bocca incapace
di parlare, di articolare correttamente frasi e parole. Il linguaggio di Monty, la sua espressione, è la
maschera di un vuoto, di un abisso. È una voragine che lo sta risucchiando e lo sta condannando a
morte.
A Monty, incapace di parlare, di raccontarsi una storia che possa andare in un modo
diverso da quello prevedibile come infausto, subentra allora la voce del padre. Sarà quest’ultimo,
mentre lo accompagna al penitenziario, a raccontargli una storia, quella in cui il fuoristrada su cui
stanno viaggiando non si fermerà alla prigione, ma continuerà il viaggio verso ovest, fino ad
incontrare un luogo dove Monty potrà nascondersi senza tornare mai più indietro. Qui, continua il
padre, un giorno il figlio potrà anche farsi raggiungere dalla persona amata e costruire una
famiglia, avere dei figli a cui, a sua volta poter raccontare cosa lo ha portato fino a lì.
Non è soltanto grazie all’abbandono della città che sarà possibile ricostruire la storia di
Monty; è quel vuoto spaziale lasciato dalle Torri che pare innescare il racconto del padre: riempire
quel vuoto che ha inghiottito storie è la necessità primaria.
Le inquadrature su Ground Zero spalancano le porte ad una metropoli dal vivo, in cui, secondo
Monty, il melting pot è una mela marcita. Sono immagini che schiudono un quadro vivente dove le
ruspe, le gru, i manovali, fanno parte di un paesaggio in miniatura. In questo quadro precipita
Monty, e da qui è proiettato nel dipinto cercato, trovato e narrato dal padre. Tornato piccolo
attraverso le parole del padre, Monty da prigioniero diventa un evaso. In questo racconto in
miniatura esalato dalle viscere della città, egli diventa come il recluso della favola di Hermann
Hesse, che ha dipinto sul muro della cella un paesaggio in cui un trenino sta entrando in una
galleria. E ai suoi carcerieri questo prigioniero domanda “gentilmente di attendere un momento
perché […] possa entrare nel trenino della […] tela per verificare una cosa. Secondo il loro solito,
67
Alessandro Portelli, America dopo. Immaginario e immaginazione dall’11 settembre alla guerra irachena, Roma,
Donzelli, 2002,(2003², p. 4).

161
si misero a ridere guardando[lo] come un debole di spirito”. Il prigioniero si fece piccino ed entrò
nel quadro, salì “sul trenino che si mise in moto e scomparve nell’oscurità della piccola galleria.
Per qualche istante, si scorse ancora un filo di fumo fioccoso uscire dal buco profondo, poi
anch’esso si dissolse e con esso il quadro e col quadro la [sua] persona”68.
Un grande vuoto ha dato dunque origine ad una “piccola” storia, una storia in miniatura in
cui la città, reinventando se stessa, ha riprodotto la vita del protagonista. In questa nuova città
Monty non resta un evaso, ma diventa autore, “pittore”. La storia raccontata dal padre prosegue: il
figlio si formerà una famiglia, esattamente come accadde a quel giovane di cui scriveva Béla
Bálazs: “un’altra favola cinese narra di un giovinetto che, in un tempio, scorse un magnifico
quadro raffigurante alcune fanciulle che giocavano nel mezzo di un prato. Una delle fanciulle era
così bella che egli subito se ne innamorò. Entrò allora nel quadro e prese la fanciulla in moglie. Un
anno dopo nel quadro comparve, accanto alla fanciulla e al giovane, un grazioso bimbetto”69.

In Marathon di Naderi, vediamo una giovane donna di nome Gretchen impegnata con se stessa in
una gara che consiste nel completare entro ventiquattr’ore più di 77 cruciverba estratti dai più
disparati quotidiani e settimanali. La ragazza svolge gran parte della sua prova all’interno delle
vetture o delle stazioni della metropolitana con cui attraversa ripetutamente tutta la città.
Il regista adopera una tecnologia digitale che gli consente, attraverso la leggerezza e la
strumentazione ridotta, di seguire con un occhio documentaristico gli spostamenti della
protagonista e di riprendere, in maniera semiclandestina, in luoghi dove è assolutamente vietato
farlo.
In prima istanza emerge un modello che abbiamo già incontrato in precedenza, cioè una
dialettica tra il semidocumentarismo e l’intimità del mondo del personaggio. In secondo luogo il
digitale, anziché determinare una visionarietà, un intervento, una manipolazione delle riprese,
insiste invece su immagini nude e scarne.
A ben guardare, non sono nemmeno le immagini ad essere protagoniste di questa città
sotterranea, ma i suoni, i rumori provocati dalla corsa del treno (porte automatiche, frenate,
accelerazioni), le voci elettroniche degli speaker che annunciano fermate o danno indicazioni sul
percorso, il suono di fondo generato dalla folla nelle stazioni.
Lo sfondo ambientale è determinato dunque dal ritmo costruito dalla banda sonora, mentre
le immagini, per gran parte del film, sono ridotte ad inquadrature in soggettiva dei treni, e a piani
di Gretchen che riempie le caselle dei cruciverba.
68
Si tratta di una favola di Hermann Hesse tratta dalla rivista Fontaine, n. 57, p. 725. Citato in Gaston Bachelard, La
poétique de l’espace, Paris, Presses Universitaires de France,1957; [ trad. it. Ettore Catalano, La poetica dello spazio,
Bari, Dedalo, 1975 (1999non trovo l’ordinale per indicare quinta ristampa#), p.173].
69
Béla Bálazs, Der Film., [trad. it. Il Film, cit., p. 56].

162
La metropoli, inoltre, risulta pressoché invisibile nei suoi esterni e questi, laddove compaiono,
sono risolti con inquadrature di breve durata. Naderi, infatti, decide di collocare la messa in scena
pressoché tutta in interni, nella sotterranea e nell’appartamento della ragazza, ed usa le coordinate
orizzontali e verticali dei cruciverba per stilizzare una città elaborata come un testo babelico che la
riporta come all’origine della civiltà, quella della “confusione” delle lingue.
La negazione dell’immagine della città, sostituita da un supporto grafico e dal suo
“rumore”, e l’urgenza esistenziale – si potrebbe dire vitale – di Gretchen di completare il maggior
numero di cruciverba entro il tempo stabilito, fanno della metropoli contemporanea un testo fatto
di vuoti da riempire, una griglia da interpretare e completare nel più breve tempo possibile, anche
mettendo a repentaglio la propria salute visto che la ragazza da frequenti segnali di un imminente
collasso.
Il suono, il rumore che avvolgono costantemente Gretchen, e poi il silenzio della sua
camera in cui completa la sua “maratona” conferiscono alla città un ritmo, un calore da fabbrica, le
restituiscono un profilo materiale che l’opposizione orizzontale/verticale dei cruciverba ha
tratteggiato come una mappa, come un progetto architettonico, dove i suoni e i rumori che
sentiamo sono quelli che poggiano sulla pietra, sulla roccia della città e non su uno strato
immaginario. La stessa Gretchen ha bisogno di quel rumore, di quel suono per concentrarsi, per
portare avanti il suo compito: senza di esso è perduta.
Le immagini in bianco e nero della pellicola, se da un lato consegnano un respiro
antirealistico, come si registra in molti film che volontariamente fanno a meno del colore,
dall’altro rendono esplicito quanto non siano tanto le immagini della città ad essere importanti. È
la loro corrispondenza con il “bianco e nero” dei cruciverba a mettere in risalto la natura
enigmatica di un testo urbano che non si può più leggere, e tanto meno scrivere, con gli strumenti
convenzionali.
Occorre a questo punto – come sembra suggerire Naderi – ascoltare la città, quel suono
negato anche dalle immagini della caduta delle Torri, un suono che avrebbe fatto comprendere e
vedere meglio quanto fossero “veri” i muri portanti, l’acciaio delle intelaiature, la carne, e infine la
polvere.
C’è un ulteriore elemento, in Marathon, che a nostro avviso interviene in ragione a dimostrazione
di una rinnovata realtà fisica della città: si tratta della folla di persone che la cinepresa si trova di
volta in volta a riprendere. Questi individui non sono attori, ma semplici passeggeri che, con la
loro sola presenza, tolgono alla città il calco immateriale che ha contraddistinto molto cinema di
fiction. Sono persone di cui non sapremo mai nulla, ma sappiamo che esistono e il loro mistero si
sostituirà alle immagini stesse del film. Il mondo di ognuno di loro è la città: l’unica realtà, l’unico

163
mondo possibile dove, eventualmente ritrovarli. È in questo semplice “passante” che il film cede
alla città reale, e in lui la città esiste per sempre. Questa anonima figura è la stessa che aveva già
sedotto l’Ejzenštejn estimatore dei film di David Wark Griffith: è un ignoto individuo che

passando, interrompe il momento più patetico della conversazione tra il giovane e la ragazza
che soffrono. Non ricordo quasi nulla della coppia, ma questo passante, visibile solo per un
breve attimo nell’inquadratura, è ancora oggi vivo dinanzi a me: eppure sono passati
vent’anni! A volte queste figure indimenticabili entravano nei film di Griffith quasi
direttamente dalla strada; un suonatore ambulante diventava un divo nelle mani di Griffith: il
passante che mai più sarebbe stato ripreso in un film 70.

Nel libro V, al capitolo I, di Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, l’arcidiacono Claudio,


dopo aver sostenuto con i suoi interlocutori il valore dell’alchimia come sola scienza affidabile e
aver disquisito sulla superiorità della materia e della pietra e degli edifici come unici libri in cui è
racchiusa la conoscenza, apre la porticina della cella canonicale che dà sulla chiesa di Notre-Dame
e viene preso dallo sconforto. “Considerò per qualche momento, in silenzio, il gigantesco edificio,
poi, stendendo con un sospiro la destra verso il libro a stampa che era sempre là, spalancato sulla
tavola, e la mano sinistra verso Notre-Dame, e spostando lo sguardo triste dal libro all’edificio: –
Ahimè! – disse – Questo ucciderà quello”71.
Ma la attuale rivoluzione digitale, come quella operata da Gutenberg, non ha abbattuto la
città; quest’ultima, come abbiamo cercato di mettere in evidenza, è ancora una condizione
primaria, “pre-cinematografica”, “pre-ipnotica”. La grande città, la città americana, è ancora quel
“luogo dell’erotismo moderno […] quel nero urbano […]dove tutto si svolge […] dove si sogna
prima di diventarne spettatori”72. Il nero del film, dunque, sta ancora in questo nero di pietra
chiamato città, metropoli, conurbazione…

70
Sergej Mihajlovic Ejzenštejn, [ translated by Jay Leyda, Film Form: Essays in Film Theory, New York, Harcourt-
Brace, 1949; {citato in Siegfried Kracauer, Theory of Film, New York, Oxford University Press, 1960; [trad.it Paolo
Gobetti, Teoria del film, Milano, Il Saggiatore, 1962, (1995², p. 134)]}.
71
Victor Hugo, Notre-Dame de Paris (1831); trad.it Luigi Galeazzo Tenconi, Notre-Dame di Parigi, Milano, Rizzoli,
1951 (2003,p.198).
72
«En sortant du cinéma», Communication, n.23, poi in Le Bruissement de la langue, Essais critique III, Paris,
Éditions du Seuil, 1984; [trad. it. Uscendo dal cinema in Id., Sergio Toffetti ( a cura di), Sul cinema, Genova, Il
Melangolo,1994 (1997², p.146)].

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Mulino,1998]

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QUARTA DI COPERTINA

Come si trasforma la città cinematografica americana a partire dalla deflagrazione dello


Studio System fino alla caduta delle Twin Towers? Questo studio, richiamando la storia del
cinema degli Stati Uniti, prende in esame i modelli più ricorrenti di messa in scena urbana
costruendo categorie di analisi che accorpano prodotti cinematografici appartenenti a generi,
poetiche e stili eterogenei. Si tratta di un percorso che, attraverso le piattaforme a volte incerte ed
instabili della modernità e della postmodernità, prova a costruire , se non una identificazione,
quanto meno un vincolo intimo ( ma spesso morboso e perverso) tra i soggetti ( i personaggi), gli
oggetti ( gli ambienti, le architetture), e un linguaggio cinematografico che subisce , dove è stato
possibile e lo si è ritenuto significativo e pertinente, le infiltrazioni delle riflessioni (estetiche,
sociologiche, antropologiche) sulla architettura e l’urbanistica americana.

Gian Marco De Maria è Dottore di Ricerca in Teoria e Analisi del Testo. Ha insegnato per diversi
anni Storia e Critica del Cinema presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino e
Linguaggio Cinematografico all’interno del Corso di Laurea in Ingegneria del Cinema del

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Politecnico di Torino. Attualmente collabora con la Cattedra di Letteratura Angloamericana della
Facoltà di Lettere di Torino.

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