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Prima dell’euforia

Il cinema dei bambini a Monte Olimpino

Alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso Béla Balázs, importante
teorico del cinema e sceneggiatore ungherese, sosteneva la necessità di
introdurre la settima arte nelle scuole come materia di studio. In Italia, nel
1997 una “Commissione di Saggi” (leggi: un gruppo di esperti incaricati dal
Ministero della Pubblica Istruzione di redarre delle linee-guida sulle
“conoscenze fondamentali della scuola”) sottolineava l’esigenza “di far
uscire le arti sonore e visive, e tutto ciò che le integra (come il teatro e il
cinema) dalla condizione marginale alla quale sono relegate nella nostra
scuola”. Volendo, si potrebbe trarre da queste due notizie la più demagogica
delle conclusioni sui proverbiali ritardi del nostro paese in certi campi. Ma
non è questo lo scopo che qui ci si prefigge.
Di certo c’è che di cinema – e poi, risalendo nel tempo per avvicinarci al
presente, di televisione, video, videogiochi, internet: insomma di “linguaggi
audiovisivi” – dentro la scuola e nei suoi immediati dintorni se n’è parlato
molto, forse troppo. Di certo c’è che da tanto parlare non si è ricavato quasi
mai qualcosa di utile, e che se qualcosa di utile è venuto non è venuto (quasi
mai) dai dibattiti, ma dall’intraprendenza di poche persone di buona volontà.
Di certo c’è, infine, che da un po’ di anni il vento è cambiato e il cinema (e
gli altri “linguaggi audiovisivi”) nella scuola sono entrati e non soltanto a
parole. Sulla bontà di tale accesso ci sarebbe qualcosa da ridire, come in
parte vedremo, tuttavia la desolante cronaca quotidiana della scuola italiana
fa venir voglia talvolta di accontentarsi del bicchiere mezzo pieno.
Dunque oggi nelle scuole italiane, soprattutto medie inferiori e superiori,
si fa cinema: cioè, si dedica una parte dell’orario alla realizzazione di opere
audiovisive, anche se da un punto di vista tecnico il cinema vero e proprio,
fatto con cinepresa e pellicola, è stato rimpiazzato ovviamente dalla molto
più pratica ed economica tecnologia digitale. Ma noi qui ci occuperemo di
ciò che potremmo definire quasi come la preistoria di questo presente, dei
precursori italiani del cinema a scuola, di gente che ha dovuto lottare con le
unghie e coi denti per far capire l’importanza di un lavoro a suo modo
rivoluzionario, a dispetto degli anni in cui esso aveva corso; che erano gli
anni delle grandi utopie di una scuola diversa, veramente democratica,
aperta, solidale, ma non antipedagogica, come spesso clamorosamente si
equivocherà (gli anni di Mario Lodi, di Bruno Ciari, di Don Milani, di
Gianni Rodari, per fare i nomi più conosciuti – e più equivocati! Sul
concetto di “antipedagogia” dovremo poi tornarci, e sarà forse l’occasione
di fare chiarezza sul significato delle parole e delle cose). La questione
tecnica appena accennata è essenziale per capire le differenze fra quelle
avventure seminali e ciò che accade oggi: nel titolo, il discrimine è
identificato dalla parola “euforia”: Vediamo perché.
Io mi sono fatto da un po’ di tempo un’idea (in generale: poi,
documentandomi per questo lavoro, ho scoperto di essere, nello specifico, in
buona compagnia): quando dei mezzi di produzione culturale diventano
“troppo” accessibili (sia sul piano tecnico che su quello economico) si
ingenera una sorta appunto di euforia - nel senso etimologico di positivo
trasporto - il cui risultato a breve e forse anche a medio termine è quello di
far passare in secondo piano i presupposti oserei dire etici che stanno o
dovrebbero stare a monte del loro utilizzo. Faccio subito un esempio per
chiarire il concetto: i weblog. Questi spartani (all’inizio, poi nemmeno
tanto) siti internet predisposti in forma di templates pronti per essere
riempiti hanno sedotto una quantità pazzesca di persone a mettersi in rete
senza avere assolutamente nulla di interessante da dire: il web è stato così
sommerso da una pletora di diarii on line, nella totale mancanza di filtri
critici e in regime di assoluta auto-referenzialità; qualcosa a cui, dovendo
affrontare la fatica di costruire il sito per conto proprio, la maggioranza di
queste persone probabilmente non avrebbe neanche pensato. È quasi
superfluo aggiungere che la melassa prodotta da tutte queste persone rischia
di affogare i pochi cristalli estratti con sudore e passione da una minoranza
consapevole.
Tradotta nel campo del cinema fatto a scuola, la faccenda si può dire, con
parole altrui (Sandra Lischi), così: “Mi chiedo spesso se, fra le concause di
una produzione scolastica troppo spesso appiattita su modelli mediatici non
ci sia l’uso (l’abuso) del mezzo video. Il quale, proprio per le sue qualità
(facilità d’utilizzo, bassi costi, maneggevolezza, durata delle riprese) induce
forse a una «immediatezza» che nuoce all’articolazione del linguaggio, alla
sua scansione in immagini ben definite, in tempi e luoghi frutto di una
ricerca accurata. Un’immediatezza che non solo tende a facilitare il ricalco
dell’esistente, ma che diventa spesso, dal punto di vista del linguaggio,
sciattezza e disordine visuale”1. Come vedremo queste affermazioni hanno
un riscontro molto concreto nella realtà.

Il cinema dei bambini a Monte Olimpino (Como) nasce nel 1966, quando
l’intuizione di una maestra elementare - distillata in una semplice domanda:
“Bambini, volete fare un film?” – incontra la sensibilità di Marcello
Piccardo e Bruno Munari che in quella località (precisamente su una collina
denominata Cardina che poi diventerà nota come “la collina del cinema” dal
titolo di un libro di Piccardo) dal 1962 si occupavano di cinema di ricerca. 2
1
Sandra Lischi, “Il cinema è un ventaglio rotondo. Appunti su una formazione allo
sguardo”, in Il cinema fatto dai bambini. Omaggio a Marcello Piccardo di Stefano Vitale, a
cura dei CEMEA Piemonte 2002/2001.
2
Dal 1962 al 1972 lo studio-laboratorio, poi cooperativa, di Monte Olimpino produsse una
cinquantina di film - quasi tutti assai brevi, più un lungometraggio conclusivo -
suddivisibili in due gruppi diversi: film di ricerca e film d’informazione pubblicitaria.
Lo spirito con cui avviene l’incontro, anche questo si può dire tutto con una
frase, di Piccardo: “Poi abbiamo scoperto il cinema fatto dai bambini”. Il
“cinema fatto dai bambini” in quel momento è un film di cinque minuti che
la maestra ha consentito di realizzare agli alunni di una classe differenziale,
una classe cioè che, secondo l’ordinamento scolastico allora ancora vigente,
riuniva bambini con problemi caratteriali, deficit cognitivi o disabilità: “ha
sventolato via gli ultimi fogli di preconcetti che io potevo ancora avere sul
cinema: quindici bambini handicappati hanno messo lì un piccolo film di
ricerca venuto fuori da un condizione subnormale, da sotto rispetto a dove io
mi consideravo autore di cinema, e questo film stava sopra” (la “scorrettezza
politica” con la quale Marcello Piccardo nel suo racconto chiamerà le cose
come si usava chiamarle all’epoca - “bambini handicappati”, “condizione
subnormale” - è un biglietto da visita: perché nell’avventura del cinema dei
bambini di Monte Olimpino la prima cosa ad essere sovvertita è proprio il
linguaggio, il meccanismo di un’informazione che vuole sempre apparire,
appunto, corretta nella forma anche se la forma talvolta rischia di offuscare
la sostanza; non a caso le informazioni che arrivano da Monte Olimpino,
così come il suo cinema dei bambini, verranno definiti “capovolti”).
Dopo, verranno diversi altri film: la voce comincerà a spargersi destando
l’attenzione di istituzioni educatiche, ri-educative, culturali, di pedagogisti
illuminati; il cinema dei bambini arriverà, pur con difficoltà ed equivoci,
nella televisione, arriverà addirittura alla “Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica” di Venezia (1969), e non come cinema separato, per
bambini, ma come cinema tout court (nel 1995 la Biennale si ricorderà di
Marcello Piccardo premiandolo con una Targa d’Oro quale “maestro e
pioniere del cinema nella scuola”); arriverà alle orecchie di Cesare
Zavattini, che in quegli anni diventava profeta di ciò che ai giorni nostri si
auto-proclama, con un pizzico d’enfasi, “media-attivismo” promuovendo i
cinegiornali liberi, fatti dalla gente per la gente grazie alle maneggevoli
cineprese in super8 (ma, anche, diagnosticava già con grande lucidità il
problema della “euforia” e il pericolo che la democraticità degli strumenti di
produzione culturale si rivolgesse di segno trasformandosi in un ulteriore
pretesto di consumo culturale, passivo3); e continuerà dopo la conclusione
“ufficiale” dell’esperienza di Monte Olimpino grazie a nuovi protagonisti,
anche se qualcuno di questi comincerà a interpretarla in modo diverso da
quello di Piccardo, e a traghettarla di fatto verso il presente, dove come
forse si è capito, e comunque si capirà, è tutta un’altra storia. La storia, di

Piccardo si occupava di cinema di animazione e pubblicitario già dagli anni Cinquanta.


3
Vale la pena di citare le sue parole, tratte da un articolo del 1968: “L’immenso esercito di
coloro che posseggono la macchina da presa a passo ridotto non usa la libertà di cui
potrebbe disporre; ma nutre soltanto l’ambizione di entrare negli usi e costumi del cinema
detto maggiore. Lo imita. E qualche eccezione conferma la regola” (Cesare Zavattini,
“Contro il cinema delega”, Bollettino dei cinegiornali liberi, giugno 1968; ora in Cesare
Zavattini, Opere. Cinema. Diario cinematografico, Neorealismo ecc. a cura di Valentina
Fortichiari e Mino Argentieri, Milano, Bompiani, 2002, pag.g. 976-982).
Monte Olimpino e di quel che ne è venuto, non è questo scritto a doverla e
poterla raccontare come si conviene: qui ci basterà aggiungere, alle pillole di
cronaca minima appena dispensate, qualche cenno ai punti-cardine della
filosofia piccardiana per capire come e perché essa può entrare dalla porta
principale in un’iniziativa come Puerilia.
Primo punto: far fare cinema ai bambini nella scuola non significa fare
entrare nella scuola degli “esperti” deputati ad insegnare norme e metodi, né
significa chiedere agli insegnanti di fare cinema con i bambini dall’alto della
loro posizione gerarchica di insegnanti. Il “cinema fatto dai bambini” si
chiama così perché agli adulti spetta soltanto il compito di mettere a loro
disposizione il tempo e lo spazio, e i mezzi tecnici, necessari, superando il
pregiudizio che essi non siano capaci di fare da soli.
Secondo punto: fare cinema è molto più che fare un film. La qualità della
esperienza di Monte Olimpino è infatti legata alla prassi di percorrere per
intero il processo di produzione cinematografica, dall’elaborazione delle
idee fino alla distribuzione dei film fatti (a parte l’esecuzione materiale delle
riprese, che fu sempre affidata ad un “grande” esterno ai gruppi dei bambini
ingenerando in altri e successivi operatori perplessità e polemiche4).
Terzo punto: il cinema nella scuola non deve entrare come una materia
accanto alle altre materie, né tantomeno come un’attività sussidiaria, un
oggetto di “laboratori”; perché il processo nel suo insieme, e le varie
occorrenze specifiche, necessari alla produzione intera di un film sono un
programma didattico completo, che comprende pensiero, locuzione verbale,
scrittura, disegno, calcoli aritmetici, misurazioni, e tutto ciò nell’ambito del
lavoro di gruppo e della responsabilizzazione di ogni singolo bambino .

4
La questione è lunga e complessa, qui vi si può solo accennare. Pochi anni dopo Monte
Olimpino due giovani insegnanti di Torino diedero vita ad un’animazione cinematografica
nella scuola con ragazzi dai dieci ai quattordici anni: nel libro che ne racconta le vicende
parlano di Monte Olimpino come di un’esperienza “condotta in maniera seria e finalmente
in un’ottica scientifica e non pubblicitaria”, tuttavia segnalano “il riscontro di alcuni limiti,
di alcune ambiguità” principalmente proprio nella decisione di non affidare ai bambini
materialmente la macchina da presa: “è sorprendente che si possa affermare che il
linguaggio degli audiovisivi è un linguaggio alla portata degli allievi, i quali possono e
devono appropriarsene, e contemporaneamente si sminuisca l’importanza del fattore
tecnico e formale, quale superfluo e privo di incidenza qualitativa” (Cfr. Virginio Pevato,
Paolo Quaregna, Il bambino con la macchina da presa. Un’esperienza di animazione
cinematografica nella “scuola dell’obbligo”, Milano, Fletrinelli, 1978, pag. 28). In realtà
né Piccardo né alcuno dei suoi compagni-collaboratori, a quanto mi risulta, ha mai parlato
della questione tecnica in termini di “superfluità”: le riprese a Monte Olimpino erano
affidate a un adulto perché, prevedendo “una più ampia distribuzione possibile dei film”, fu
scelto anziché il super8 il formato 16mm, la cui macchina sarebbe stata troppo pesante e
complessa per dei bambini delle elementari; i quali comunque, sia durante le riprese che
nella successiva fase del montaggio, erano chiamati a svolgere il ruolo di vero e proprio
regista collettivo, verificando momento per momento l’adesione dei vari passaggi tecnici
alla sceneggiatura e ai dati documentali emersi nel corso di sopralluoghi e misurazioni (di
tempi, di spazi, di luci etc.).
Quarto punto: per questi motivi la produzione di cinema a scuola esclude
qualunque ipotesi, nel bene e nel male, di improvvisazione e spontaneità:
“Per garantire all’espressione la massima fedeltà al pensiero originario è
necessario il massimo del rigore. Un rigore giocoso, magari, ma da cui non
si deve derogare”5: principio questo che avvicina moltissimo le cose fatte a
Monte Olimpino alla didattica di Mario Lodi, Gianni Rodari e via dicendo,
anche se curiosamente esse da quel mondo restarono sempre discoste. E, per
questi motivi, per questo rigore, l’idea di “antipedagogia” è quanto di più
assurdo si possa pensare di riferire al “cinema fatto dai bambini” (come del
resto alle sperimentazioni di Lodi, Rodari etc.), anche se paradossalmente la
bruttissima parola è stata messa in circolo dallo stesso Marcello Piccardo.
L’equivoco non è però difficile da sbrogliare: lui dicendo “pedagogia”
sentiva di dire tutta l’architettura che aveva trasformato il delicatissimo
compito di “accompagnare” i piccoli verso la conoscenza in una prassi
burocratica, da una parte, repressiva dall’altra, per ragioni che più o meno
tutti sappiamo; e quindi dicendo “antipedagogia” voleva dire il desiderio di
essere capace, una volta capitato dentro la scuola, di “vincere la tentazione
diabolica di prendere la scorciatoia dell’indottrinamento piuttosto che la
strada difficile di lasciare che i bambini conquistino autonomamente i mezzi
(…) Ci accorgiamo appena in tempo che sbagliamo tutto: vogliamo
ragionevolmente cominciare con tanto di tutto, quando invece la meraviglia
che ci muove ha avuto principio da tanto di niente da parte di noi grandi,
solo un punto piccolissimo, e soltanto così i bambini fanno tanto davvero”
(Marcello Piccardo, Il cinema fatto dai bambini, Roma, Editori Riuniti,
1974, pag. 9 e pag. 113).
Quinto punto: “Là dove si fa liberamente cinema di ricerca nella scuola,
là si fa già rivoluzione”. Questo è il punto più importante, e più difficile. Lo
spiegherei con un aneddoto. La bambina Luciana della classe differenziale,
la classe da cui tutto era partito, ha l’idea di fare un film sul suo compagno
Umberto, che è finito lì, nella differenziale, arrivando dalla quarta classe e
passando prima da una retrocessione in terza, perché il maestro di quarta e
sua moglie che è la maestra di terza, siccome lui “non fa il bravo”, non lo
vogliono. Il film non racconta altro che la pura verità e perciò i bambini
hanno chiesto che ad interpretarlo siano gli stessi protagonisti della vicenda
vera; allora tutti gli adulti, compresa “la signora direttirce” della scuola, si
spaventano pensando a come i loro abusi di autorità, peraltro a modo loro
“regolamentari”, verrebbero fuori; si rifiutano di fare da attori e riportano un
Umberto riluttante (perché evidentemente stava bene coi nuovi compagni)
in quarta, dove ricomincia a “non fare il bravo”. Con la tenacia tipica degli
“indipendenti”, i bambini risolvono il film con la ripresa dei fogli sui quali
Luciana aveva scritto il suo soggetto: “impediti di esprimersi nel mezzo, si
esprimono direttamente nella realtà, capovolgendola”. Questo film fatto con
delle “scritte” – qualcosa che nel cinema dei grandi verrà proposto soltanto
5
Sandra Lischi, “Il cinema è un ventaglio rotondo”, cit.
da qualche irregolare come Jean-Luc Godard o Guy Debord – è una risposta
indiretta, e definitiva, alla questione imperitura del rapporto fra arte ed
impegno, e tra forma e contenuto: “Questi film che noi presentiamo, così
giustamente brevi, sono piccoli di pretese e vuoti di intenzioni, diventano
improvvisamente grandi in una dimensione nuova che portano con sé e
sbattono nell’ambiente”, scriveva Piccardo (Il cinema fatto dai bambini, cit.,
pag. 133). Il Movimento di Cooperazione Educativa, che dal 1951 cercava
di sperimentare in Italia il pensiero pedagogico e sociale di Elise e Célestin
Freinet (ovvero quello di un’alfabetizzazione culturale e civile basata
appunto sulla cooperazione, e sulla comunicazione, come fattori di crescita e
di integrazione), e che annoverò tra le sue fila fra gli altri Bruno Ciari e
Mario Lodi, osservò che a Monte Olimpino in un certo senso quasi si
sprecavano delle occasioni facendo fare ai bambini dei film su qualunque
cosa gli paresse; Piccardo rispose all’obiezione senza difficoltà, dicendo
che, forse, all’MCE avrebbero preferito far fare ai bambini dei film su
quello che volevano gli adulti, magari dei film di impegno civile, dei film
politici; ma che questi film, per quanto forse guidati da ottime intenzioni,
non avrebbero fatto altro che esprimere un pensiero adulto attraverso il
mezzo-bambini, e che i film di Monte Olimpino, essendo concretamente
politici dal primo all’ultimo atto della loro realizzazione formale, potevano
anche fare a meno di esserlo ufficialmente per i loro contenuti: “Se tu dai
questo mezzo nelle mani ai bambini, loro lo sanno fare; se tu non gli dici
che cosa fare, loro fanno meglio di te; se non gli dici di fare politica e quale,
loro, i bambini, fanno cinema radicalmente politico” (Il cinema fatto dai
bambini, cit., pag. 116). Questa è una lezione capitale per l’oggi, dove non
si contano esempi di insegnanti che provano a farsi belli “convincendo” i
loro alunni a realizzare, non solo film ma di tutto, sulla scorta dell’impegno,
sui temi che scottano: e così all’oggi arriviamo.

Oggi, riprendendo il filo del discoso lasciato più sopra, il cinema a scuola
non è più faccenda di pionieri: la sovraesposizione di bambini e ragazzi ai
linguaggi audiovisivi è spaventosa, se paragonata a quarant’anni fa, e questo
ha convinto tutti a porsi il problema, pur se da una prospettiva assai diversa:
mentre infatti il cinema per Piccardo & Co. era uno strumento espressivo,
un’opportunità, diciamo pure un’arma di “offesa”, oggi si guarda al cinema
(e ancora di più ovviamente alla televisione e agli altri “new media”) come a
potenziali pericoli da cui sapersi proteggere, come a giocattoli minacciosi da
imparare a smontare; la produzione di un audiovisivo, prima che a costruire
qualcosa, serve a decostruire qualcos’altro che già esiste, è più un’arma di
difesa. Quest’aria da “cattivi maestri” (per dirla con l’epiteto quasi patetico
che usò il vecchio Karl Popper in un suo pamphlet contro la televisione) che
circonfonde come una nuvola pestilenziale la compagine degli audiovisivi,
l’euforia imperante procurata da mezzi tecnici sempre più potenti e sempre
più facili, l’invadenza di un’infosfera che arriva sottopelle e che stigmatizza
la “disconnessione” come una malattia; tutto congiura contro la libertà di
immaginazione, e i risultati si vedono: “Chi, come me, frequenta per motivi
professionali i festival e le manifestazioni cinematografiche in cui si dà
spazio alla produzione scolatica e giovanile, fa fatica a ritrovare quella
raffinatissima semplicità, quella capacità di trasferire collettivamente (e
singolarmente) il pensiero in immagini, quella «apertura» dello sguardo e
delle storie [che si trova nei film di Monte Olimpino, n.d.r] (…) Salvo rare,
felici, eccezioni la gran parte dei lavori realizzati a scuola (ma anche da
esordienti giovani e giovanissimi al di fuori dell’ambito scolastico) prende
come riferimento l’universo tematico e linguistico proposto dai media.
Magari per deriderlo, o smontarlo, o «blobbarlo», o per condannarlo”6.
Ma se il cinema nella scuola è molto cambiato, che cosa dire di quello
che vi si muove intorno? Come abbiamo visto Marcello Piccardo è entrato
come cineasta nella scuola per caso e, soprattutto, in punta di piedi, quasi
come l’ “aiutante magico” di una fiaba che dà all’eroe l’aiuto che gli occorre
e poi sparisce (o, per dirla con un famigerato motto: non regalando pesci ma
insegnando a pescare). Già dopo qualche tempo, anche questo l’abbiamo
visto – vedi nota 4 - si cominciò a parlare non più di “cinema fatto dai
bambini” ma di “esperienze di animazione cinematografica”, ovvero di
persone qualificate che decidono di entrare nella scuola mosse da propositi
socio-culturali precisi. E oggi? Oggi la situazione si può inquadrare bene
attraverso un esempio come quello del progetto “Ciak Junior” (anche se non
si può certo pretendere di fare di tutta l’erba un fascio, e quindi escludere
che vi siano in circolazione esperienze di altra ispirazione). Con questo
progetto, in auge dal 1989, viene invertito completamente il movimento
delle forze in gioco. Più sopra si è raccontato dei tentativi di Marcello
Piccardo di far conoscere il cinema fatto dai bambini, attraverso i media – la
RAI e il festival del cinema di Venezia, ma anche le associazioni e i circoli
culturali territoriali: nel caso del progetto “Ciak Junior” i media invece sono
a monte, e al tempo stesso anche a valle. Il progetto è stato ideato dal
“Gruppo Alcuni”, costituitosi nel 1973 per occuparsi in maniera integrata di
teatro, cinema, televisione ed editoria per bambini e ragazzi: esso consiste in
un concorso, spalmato in diversi paesi del mondo, per soggetti scritti da
studenti fra i dieci e i quindici anni, i cui vincitori hanno in premio la
possibilità di vederli realizzati e di parteciparvi come interpreti; essi vanno
poi in onda sulle emittenti televisive dei vari paesi – da noi su Italia Uno –
all’interno della programmazione per ragazzi. In più il “Gruppo Alcuni”
organizza corsi di formazione per insegnanti, ai quali vengono spiegati i
rudimenti del cinema e le pratiche “ottimizzate” per farlo a scuola. L’idea di
Marcello Piccardo di “capovolgere” la piramide della trasmissione del
sapere, se non di abolirla proprio – “Se nessuno dice loro [ai bambini,
n.d.r.] che cosa e come fare essi fanno cinema di ricerca, entrano
liberamente nel mezzo-cinema, lo aprono continuamente così che esso possa
6
Sandra Lischi, “Il cinema è un ventaglio rotondo”, cit.
contenere i bisogni espressvi di tutti (…) Se tu dai questo mezzo nelle mani
ai bambini, loro lo sanno fare; se tu non gli dici che cosa fare, loro fanno
meglio di te; se non gli dici di fare politica e quale, loro, i bambini, fanno
cinema radicalmente politico” (Il cinema fatto dai bambini, cit., pag. 42 e
pag. 116) – qui è letteralmente “suicidata”: dei professionisti penetrano nella
scuola con il loro know how preconfezionato e collaudato e con la porta del
mainstream già spalancata dietro e pronta ad accogliere il frutto del loro
lavoro. I risultati si vedono, come dice Sandra Lischi, e la colpa non è solo
della dieta audiovisiva liofilizzata ed ipercalorica dei ragazzi, ma anche di
un corollario di inesorabili aspettative verso le quali la loro immaginazione
(e la loro ambizione: e quelle dei loro insegnanti … ) sono convogliate: una
vera e propria nassa mediatica. Il fatto interessante, ma pure inquietante, è
che gli artefici di tutto ciò ne sono consapevoli, come si intuisce dalle
conclusioni di alcune “Considerazioni sull’ottava edizione del progetto Ciak
Junior” (era il 1997 ma non credo che le cose nel frattempo siano cambiate
… se non forse in peggio?): “L’impressione generale è che la maggior parte
dei soggetti subisca il forte condizionamento della televisione e che le storie
riportate spesso siano rivisitazioni di cartoni animati o di serie televisive di
successo. Molto spesso il testo è stato pensato come un veicolo utile per
poter diventare attori televisivi”.7 Consapevoli, ma imperterriti.

Rispondendo ad un’intervista di Francesca Leoni su Puerilia. Festival di


puericultura teatrale 2011, Chiara Guidi ha tracciato in pochi minuti la
mappa del pensiero che promuove questa rassegna: una rassegna dove ci
sono degli artisti che “fanno vedere il loro lavoro a uno sguardo bambino” a
partire da una voglia di ritrovare “un’infanzia del teatro” più che da una
“preoccupazione pedagogica di dare ai bambini un teatro adatto a loro”. 8
Qui c’è subito un punto di adesione, anzi di com-penetrazione, giacché a
Monte Olimpino non solo non c’era la preoccupazione di un cinema fatto da
grandi per i bambini ma, all’opposto, la consolazione di un cinema fatto da
bambini, e per tutti. Dice Guidi che non si tratta di “avvicinarsi ai bambini
con uno sguardo ordinatore tipico di chi ha già un processo in atto, come
l’adulto, ma di avvicinarsi ai bambini con la consapevolezza di acquisire da
7
Sergio Manfio – Gruppo Alcuni, Fare cinema a scuola, Torino, Sonda, 1998, pag. 139.
8
Non resisto alla tentazione di riportare per l’ennesima volta in un mio scritto una frase di
Goffredo Fofi, che mi pare comunque anche qui appropriata: “Se il cinema ha un futuro è
grazie a registi capaci di reinventarlo, partendo di nuovo dal grado zero dell’espressione,
ma caratterizzati da ingenuità e da sapeinza, da purezza e da malizia, da scoperta e da
progetto che tengono conto di cent’anni di storia, e non incantati, non ricattati dalla novità
della tecnica, dalle lusinghe del mercato” (Goffredo Fofi, Come in uno specchio. I grandi
registi della storia del cinema, Roma, Donzelli, 1997, pag. 274). Del resto anche Sandra
Lischi, nel testo che abbiamo più volte incontrato, ritrova “lo straordinario interesse dei
film fatti dai bambini secondo il metodo illustrato da Marcello Piccardo” nella capacità “di
rappresentare un pensiero ‘altro’, con un linguaggio ‘altro’, lontano dagli stereotipi imposti
dal mercato audiovisivo, dalle mode culturali, dalle mitologie giovanili. Un ‘grado zero’
della scrittura per immagini”.
loro un modo diverso di fare ordine nella realtà”: e, trascritte le sue parole
sulla pagina, non viene subito da leggervi tra le righe quelle di Piccardo che
abbiamo ascoltato più sopra “vogliamo ragionevolmente cominciare con
tanto di tutto, quando invece la meraviglia che ci muove ha avuto principio
da tanto di niente da parte di noi grandi”? “Poi abbiamo scoperto il cinema
fatto dai bambini”: sembra quasi una confessione, questa frase di Marcello,
e stavolta è tra gli spazi radi che separano i suoi pochi ma densi lemmi ad
esplodere un pensiero, forte, di Chiara: “I bambini sono il medium della
ricerca, coloro che collegano dall’antichità ad oggi i vari passaggi delle arti.
L’infanzia ha questo potere, questa energia, forse perché sa soffermarsi sul
residuo e non, a volte, sull’intero e sa vedere dentro a quel residuo, a quello
scarto della realtà, un buco dove caderci dentro, ma anche starci fino in
fondo dentro”. Entrare, stare nel gioco, nell’illusione, del teatro, del cinema:
in-ludere. Entrarci, e starci, ambientarsi: perché come notava Carlo Infante
qualche anno fa, oggi il gioco ha perso in gran parte una delle caratteristiche
che lo rendono tanto importante per i bambini, cioè il piacere della funzione;
oggi, pazienza per gli adulti, ma purtroppo anche per i bambini il gioco si
declina troppo spesso nello “agonismo seriale del game” e troppo poco nella
“flessibile creatività del play”9: a Monte Olimpino il cinema non era una
gara a chi faceva le cose meglio, ma una prova a come fare meglio un cosa
insieme: “Quando i bambini sono autori della propria esperienza crollano le
differenze: ciascuno, restando quello che era, appare improvvisamente
perfetto in quello che fa” (Il cinema fatto dai bambini, cit., pag. 93).
È il cinema “capovolto”: non cinema-piramide dove una base di
“maestranze”, per quanto professionali, ben pagate e sempre gentilmente
ringraziate, deve reggere l’autore-demiurgo, ma cinema che regge sé stesso
al massimo dell’altezza, ovvero ad altezza di bambino. Cinema “capovolto”
come nella sua infanzia, quando era ancora soltanto una camera obscura, e
tutto doveva entrarci attraverso un buco. 10
9
Carlo Infante, Imparare giocando. Interattività tra teatro e ipermedia, Torino, Bollati
Boringhieri, 2000, pag. 29.
10
“Un cinema ad altezza di bambino” è il titolo di un saggio che il pedagogista Roberto
Farnè scrisse nel 1991 a premessa di un manuale di didattica degli audiovisivi piuttosto
singolare: creato presso l’associazione Cine/gram di Forlì da Massimo Missiroli e Patrizia
Ghirardelli, il “percorso nella storia e nella tecnica delle immagini in movimento” proposto
nelle sue pagine era incentrato sulla ricostruzione di semplici versioni delle apparecchiature
che costellarono la storia, più che del cinema, del pre-cinema, degli esperimenti grazie ai
quali si riuscì a comprendere i meccanismi fisici e fisiologici alla base della scomposizione
e ricomposizione del movimento, quella grande “illusione ottica” che poi diventerà il
cinema. Esperimenti e oggetti di fronte ai quali, osservava Farnè, i bambini erano stati fra i
primi a mostrarsi interessati e senza pregiudizi, a differenza di tanti adulti.
Già dal IV secolo gli arabi conoscevano e impiegavano per lo studio degli astri il
meccanismo della camera oscura, per cui la luce, passando attraverso un foro praticato su
una parete o sul soffitto di una stanza buia, poteva riprodurre l’immagine capovolta di un
soggetto esterno. Leonardo da Vinci descrive la camera oscura nel Codice Atlantico: una
piccola scatola buia capace di catturare le immagini. Nei secoli successivi molti scienziati si
occupano di questo strumento, lo descrivono accuratamente e lo perfezionano. Nel
Bibliografia.

Maurizio Della Casa, Facciamo cinema. Creatività filmica nella scuola e


altrove con e senza la cinepresa, Torino, Paravia, 1973

Sergio Manfio – Gruppo Alcuni, Fare cinema a scuola, Torino, Edizioni


Sonda, 1998

Virginio Pevato, Paolo Quaregna, Il bambino con la macchina da presa.


Un’esperienza di animazione cinematografica nella “scuola dell’obbligo”,
Milano, Feltrinelli, 1978

Marcello Piccardo, Il cinema fatto dai bambini, Roma, Editori Riuniti, 1974

Marcello Piccardo, La collina del cinema, Como, Nodo Libri, 1992

Prima dei Lumière. Materiali per un percorso nella storia e nella tecnica
delle immagini in movimento (a cura di Massimo Missiroli e Patrizia
Ghirardelli), Forlì, Comune di Forlì-Associazione Cine/gram, 1991

Elvira Vincelli, Il cinema capovolto. IL cinema di ricerca nella scuola


dell’obbligo, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1975

Stefano Vitale, Il cinema fatto dai bambini. Omaggio a Marcello Piccardo


(a cura dei CEMEA Piemonte 2002/2001)

Cinquecento Giovan Battista Della Porta applica una lente al foro della scatola e nel
Seicento Johannes Zahn realizza un primo modello di camera «reflex» introducendo nella
scatola uno specchio riflettente posizionato a 45°.

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