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11
David Lynch
Perdersi è meraviglioso.
Interviste sul cinema
a cura di Richard A. Barney
PERDERSI È MERAVIGLIOSO
INTERVISTE SUL CINEMA
a cura di
Richard A. Barney
traduzione di
Francesco Graziosi
INDICE
David Lynch: dal film di culto a The Elephant Man di Jimmy Summers
David Lynch e Laura Dern: Inland Empire – L’impero della mente di John
Esther
Appendici
Cronologia
Filmografia
INTRODUZIONE
DI RICHARD A. BARNEY
Per usare un’espressione alla buona, simile a quelle per cui David Lynch è
famoso, si potrebbe dire che intervistarlo è in molti sensi come tentare di
afferrare un serpente sinuoso, per quanto assai amichevole e loquace.
Questo tratto della sua personalità e della sua carriera spiega perché la
qualifica di sfuggente, che spesso gli viene attribuita, non gli renda
giustizia: Lynch ama conversare; prova un autentico divertimento nel
raccontare storie, scambiare battute, improvvisare discorsi filosofici e via
dicendo. Ben altra cosa, tuttavia, è per Lynch rivelare aspetti della sua vita
privata o diffondersi sul significato dei suoi film, anche solo per esporre la
sua personale visione di artista. Dunque Lynch non è tanto sfuggente
quanto enigmatico: un bersaglio mobile per chi lo intervista, un
conversatore accorto che spesso dice più cose tacendo che parlando; tutto
ciò è il suo inconfondibile marchio di fabbrica.
Sono varie le ragioni per cui intervistare Lynch può essere
un’esperienza tortuosa e ondivaga, e la principale è la sua documentata
difficoltà col linguaggio. Sia Lynch sia le sue ex mogli e compagne hanno
fatto riferimento più volte al suo cosiddetto «stadio preverbale» degli anni
Settanta e dei primi anni Ottanta, durante il quale anche le comunicazioni
relativamente più semplici fallivano a causa della sua apparente incapacità
di usare le parole. Isabella Rossellini, per esempio, ha descritto numerose
occasioni nelle quali, in risposta a una domanda o a un’osservazione,
anziché formulare frasi coerenti Lynch allargava le braccia in gesti vaghi o
produceva sibili con le labbra. Al riguardo lui stesso, durante una
conversazione (del 2008) inclusa in questo volume, mi ha raccontato fra le
altre cose che nelle sue prime interviste, soprattutto all’epoca di
Eraserhead – La mente che cancella, «non avevo idea di cosa volesse dire
parlare di qualcosa. Per cui non dicevo molto, e la cosa è andata avanti a
lungo».
Naturalmente, come dimostrano le interviste qui raccolte, dagli anni
Ottanta e fino a tutti gli anni Novanta Lynch ha compiuto uno sforzo
deciso per parlare dei suoi film in maniera sempre più efficace.
Accantonando per il momento la questione di come gli intervistatori
cerchino di addomesticare il suo personalissimo modo di esprimersi, c’è
una chiara differenza, per esempio, fra le locuzioni imprecise e zoppicanti
delle prime interviste sul Soho Weekly News e l’East Village Eye e le
conversazioni molto più composte e articolate con gli intervistatori del
New York Times Magazine nel 1990 e del Salon Magazine nel 1999.
Ciononostante, Lynch rimane un regista che intrattiene col linguaggio un
rapporto problematico: le sue frasi – sempre sostenute da un enorme
entusiasmo – si muovono tuttora con un ritmo sincopato che può lasciare
avvinti o sconcertati. E le espressioni popolaresche o gergali di cui sono
infarcite le sue dichiarazioni – da «una favola» a «proprio fico» a
«fantastico!» – hanno quasi sempre lo scopo di spiegare uno degli aspetti
più difficili dei suoi film: quella che Lynch chiama «astrattezza», una
suggestività atmosferica che per lui non va ridotta a una formula
intellettuale o ingabbiata in una descrizione definitiva.
Questo ci porta al secondo motivo della ritrosia di Lynch a discutere le
proprie opere, cioè l’impegno, fin dagli esordi, a creare un’estetica
cinematografica basata sul valore essenziale del non-identificato e del
non-detto. In quanto fautore dell’idea che i film possano e debbano far
sognare gli spettatori, Lynch mira a produrre opere vividamente concrete
ma anche evocative e misteriose, e in questo senso non meraviglia che fin
dalla sua prima intervista del 1977, con Stephen Saban e Sarah Longacre,
la parola mistero sia una di quelle da lui usate con più frequenza. Non si
tratta, però, del generico «mistero» che nel corso di una specifica
narrazione verrà risolto o dissipato. Al contrario, lo scopo di Lynch è
creare dei film perpetuamente misteriosi, tali cioè da indurre un senso di
meraviglia che susciti e al tempo stesso frustri – in un ciclo
potenzialmente infinito – il desiderio dello spettatore di dare un senso alle
immagini e alle storie che gli vengono offerte. Questa preoccupazione,
peraltro, fa sì che nelle interviste Lynch eviti accuratamente di dissolvere
tale aura misteriosa fornendo quelle che lui percepisce come «soluzioni»
superficiali agli enigmi creati dai suoi film. Nel 2001, per esempio, lo
interrogai riguardo a Mulholland Drive e ottenni in risposta un
lunghissimo silenzio. Quando gli chiesi se la mia domanda fosse troppo
difficile, lui replicò con un secco: «No, è che non voglio dire troppo».
Altrove, durante un’intervista con Chris Hodenfield (non inclusa in
questo volume), ha espresso il concetto in modo più articolato: «È molto
pericolosa, l’industria del cinema. Perché nessuno saprà mai che film
potrebbe essere, se il regista deve parlarne e convincere la gente a
parole».1 Dunque per Lynch è assolutamente necessario, discutendo dei
suoi film, girarci intorno, nel vero senso della parola. Le circonlocuzioni
non sono dettate da diffidenza o ritrosia, ma dalla volontà di lasciare che
siano gli spettatori a ricavare il senso.
La combinazione dello sviluppo di abilità linguistiche con l’adesione ai
propri principi estetici ha prodotto quella cosa spesso idiosincratica e
sempre avvincente che è l’intervista a Lynch. In termini di contenuto,
Lynch è più che disposto a parlare del processo di lavorazione dei suoi
film, piuttosto che del significato di certi elementi precisi, sebbene
esistano delle eccezioni notevoli a questa regola, come il suo perdurante
rifiuto, fin dal 1977, di rivelare come abbia creato il «bambino» in
Eraserhead. Inoltre, come hanno ammesso in altri casi sia Lynch sia i suoi
intervistatori, ogni discussione sull’origine di un singolo personaggio o
elemento della trama può facilmente essere letta come una «guida»
autorevole all’interpretazione delle sue opere: un’altra tentazione da cui
Lynch si guarda sempre attentamente.
Col tempo, Lynch ha sviluppato un vocabolario dai significati speciali e,
proprio perché si è sforzato tanto nel corso degli anni per crearlo, vi
attinge costantemente quando parla dei suoi film, ma sempre spiegandoli
solo fino a un certo punto. Spesso, per esempio, descrive alcuni aspetti dei
suoi film come «bellissimi», «mozzafiato» o «magici»; come fondati su
principi di «armonia», «contrasto» o «equilibrio»; grazie ai quali
l’«umore» o l’«emozione» generati aiutano a creare un «mondo» di cui «ci
si innamora» e che può «lasciare spazio a un sogno». L’ispirazione per
alcune immagini particolari, così come l’emozione che esse vogliono
suscitare, è spesso «nell’aria», un «dono» proveniente da una fonte che
non può essere localizzata con precisione. Questi termini per Lynch non
sono semplici formule di comodo bensì assumono sfumature diverse nel
contesto della situazione o conversazione specifica e soprattutto, sebbene
lui li definisca di rado, acquistano senso in virtù della frequenza con cui li
adopera. Dunque proprio come Lynch, secondo cui la «grana» delle parole
è tanto importante quanto il loro significato letterale, i lettori delle sue
interviste devono disporsi ad avere pazienza, a raggiungere gradualmente
la comprensione del testo per via intuitiva anziché soltanto analitica.
Se da un lato è inevitabile, quindi, che l’intervistatore e il lettore
abbiano la sensazione costante che Lynch sappia più di quanto non dica,
dall’altro emerge chiaramente dai testi qui raccolti che durante la
lavorazione dei film Lynch preferisce spesso non sapere troppo sui
possibili esiti. Come fa notare a Michel Ciment e Hubert Niogret, anziché
ridurre un progetto a un’idea troppo semplificata, «è un bene non saperne
troppo su quello che stai per fare». Questo approccio è condensato in
modo chiarissimo nella metafora che Lynch usa probabilmente più di
frequente per descrivere il processo con cui crea un film: il regista
«pesca» delle «idee» che arrivano alla rinfusa e seguendo un ritmo tutto
loro da un «oceano» di possibilità. Secondo Lynch, questa modalità fa sì
che egli non abbia mai il quadro complessivo dei suoi film fin quasi dopo
la postproduzione. Inoltre egli immagina che il suo compito consista
principalmente nel mantenersi fedele a queste idee, e le contrappone alla
nozione di «tema», che imporrebbe uno schema riduttivo alla capacità del
film di svilupparsi in modo più organico (si leggano in proposito le
osservazioni da me raccolte su Mulholland Drive nel 2001). Quando
descrive in un’intervista come ha raccolto le idee per un certo film, Lynch
evita di specificare quali fossero esattamente tali idee (sempre per timore
di condizionare l’opinione degli spettatori) e soprattutto di rivelare quale
ha avuto per prima, perché potrebbe essere adottata come fondamento o
origine che spieghi tutto il resto. Dunque la natura enigmatica delle idee
vale tanto per il regista quanto per i suoi spettatori-lettori. Come Lynch fa
notare a Stuart Dollin, «credo che per me sia sempre questione di
sensazioni o intuizioni. Non c’è troppa elaborazione intellettuale».
La terza ragione per cui le sue interviste sono serpentiformi, e tendono a
scivolare in ogni direzione, risiede nel gran numero di ruoli artistici che
Lynch di volta in volta ha ricoperto nella realizzazione dei suoi film, da
Six Figures Getting Sick (Six Times) a Inland Empire – L’impero della
mente. Pur essendo famoso soprattutto come regista, Lynch ha lavorato
regolarmente (a volte citato nei titoli, a volte no) in qualità di produttore,
direttore della fotografia, cameraman, fonico, sceneggiatore, montatore,
tecnico e direttore del suono, animatore e scenografo. E questo non è che
un elenco abbreviato. Oltre a essere tra i cineasti viventi dotati di
maggiore intuito, Lynch è andato molto vicino a diventare il più completo,
grazie a una concretezza di approccio che supera quella dei registi suoi
contemporanei. Per di più i progetti e gli interessi di Lynch al di fuori del
cinema hanno plasmato fortemente anche i suoi film: l’esercizio della
pittura, ad esempio, ha influenzato quello che talvolta viene descritto
come un occhio «pittorico» per la composizione delle inquadrature; i suoi
progetti di design e costruzione hanno contribuito a set come quello per la
casa di Fred e Renée Madison (interpretati da Bill Pullman e Patricia
Arquette) in Strade perdute; e la sua nota passione per la musica, e più di
recente per il canto, si è concretizzata in una serie di colonne sonore, da
Velluto blu a Inland Empire. Ne consegue che Lynch è in grado di parlare
con notevole competenza di una quantità di argomenti più o meno legati
alla produzione cinematografica. Questo volume mira a restituire tale
varietà raccogliendo interviste che includono le osservazioni di Lynch sul
lavoro di ripresa e sulle pellicole (si leggano al riguardo Stuart Dollin e
Stephen Pizzello); le riflessioni semifilosofiche sulla pittura, sulla natura,
e la rappresentazione che Lynch dà della famiglia americana (Kristine
McKenna); i commenti sull’importanza del sonoro e della musica (Chris
Douridas, Michel Ciment e Hubert Niogret, e Michael Henry); e la
discussione sul rapporto fra il design e l’architettura e il modo in cui
Lynch immagina la dimensione spaziale dei suoi film (Kathrin Spohr).
Considerato nel suo complesso, l’arco della carriera di Lynch mostra un
apprezzamento sempre crescente per il modo singolare in cui il regista
realizza i film e ne parla, pur alternando reazioni entusiastiche del
pubblico – si ricordi ad esempio l’immensa popolarità della serie
televisiva I segreti di Twin Peaks – e insuccessi altrettanto clamorosi di
critica e di botteghino, come la reazione fortemente negativa al prequel
cinematografico Fuoco cammina con me. Nell’insieme, gli sforzi di Lynch
per intrattenere un dialogo più articolato con gli spettatori, e la crescente
diffusione delle sue opere negli Stati Uniti a partire dalla metà degli anni
Ottanta fino ai primi anni Novanta, hanno sortito il loro effetto: gli
spettatori hanno imparato a capire cosa aspettarsi, e il termine lynchiano è
entrato nel vocabolario di critica e pubblico come una sorta di controparte,
nel mondo del cinema, dell’aggettivo kafkiano, ispirato in precedenza da
Woody Allen.
Nel quadro di tale tendenza, le interviste qui raccolte suggeriscono
come la gamma delle reazioni allo stile personale e all’opera di Lynch sia
stata sorprendentemente varia. Alcune, come quella di The Face, si
appassionano agli elementi sovversivi di film quali Velluto blu; altre, per
esempio quelle di David Chute, Tim Hewitt e Richard Woodward, ne
sottolineano la dimensione inconsueta e bizzarra. Quest’ultimo aspetto
sembra generare, per un riflesso particolarmente comico, una serie di
formulazioni allitteranti e argute: «A cena con Lynch», «Mago del
mistero», «Zar del bizzarro», «Lynch a nudo» e via dicendo. Parecchie
delle interviste qui raccolte riflettono la tendenza più generale, soprattutto
negli Stati Uniti, a caratterizzare Lynch o i suoi film. In alcuni casi, questi
soprannomi nascono da un affetto genuino, riconosciuto da Lynch stesso,
come quando, durante la lavorazione di The Elephant Man, Mel Brooks lo
definì «un Jimmy Stewart venuto da Marte». Ma anche l’affetto genuino
può essere un’arma a doppio taglio: agli Independent Spirit Awards del
2007, in un impeto di eccentricità degno di un Frank Booth, Dennis
Hopper annunciò l’assegnazione di un premio speciale a Lynch e Laura
Dern con la frase: «Sapete, alla base di ogni film di Lynch c’è un mistero
fondamentale che si può riassumere soltanto così: “Ma cosa cazzo è
successo?”» Il tono di divertita esasperazione della battuta di Hopper è
riecheggiato in molte delle interviste che ho raccolto qui, rappresentato in
particolare dalla conferenza stampa per Fuoco cammina con me al Festival
di Cannes e dall’articolo di Dominic Wells per Time Out, che tradiscono
una certa stizzita delusione per le spiegazioni evasive di Lynch, se non un
sarcastico scetticismo sul fatto che il regista sappia davvero di cosa sta
parlando. Si noti che, in entrambi i casi, agli intervistatori erano ben noti i
parametri dei film di Lynch e il suo modo consueto di parlarne.
Certamente ci sono altri motivi più tangibili che a volte spingono gli
intervistatori a incalzare Lynch per ottenere spiegazioni migliori. Per fare
solo alcuni esempi, molti degli inviati alla conferenza stampa di Cannes
vogliono da lui una riflessione seria sulle implicazioni delle
rappresentazioni violente e sadomasochiste di film come Velluto blu e
Cuore selvaggio. Kristine McKenna chiede a Lynch di sciogliere
l’apparente ambiguità della sua visione di un mondo pieno di elementi
spaventosi che allo stesso tempo può essere interpretato come benevolo
nei riguardi dell’esistenza umana. David Breskin quasi incalza Lynch
affinché esplori il proprio modo di rappresentare le donne – la loro
manifesta passività e il loro bisogno di soffrire per un bene raffigurato
come più grande – un tema che in altre interviste Lynch non ha mai
affrontato in modo così dettagliato. Nella mia intervista a proposito di
Inland Empire trovo diversi modi per chiedergli di spiegare come
un’apparente similitudine fra i suoi film e la meditazione trascendentale –
uno scavo fino a livelli al di là della quotidiana comprensione umana –
produca conseguenze tanto drasticamente diverse: nei suoi film c’è
l’incontro terrificante con una dimensione della vita che di solito
dev’essere superata, mentre la meditazione appare come la tranquilla
esplorazione di una coscienza più vasta e invariabilmente edificante.
Lascio decidere ai lettori se Lynch abbia risposto in modo soddisfacente a
queste sollecitazioni.
A posteriori, il tema della meditazione trascendentale risulta
illuminante per un altro aspetto delle interviste di Lynch dal 1977 a oggi:
il suo interesse per gli stati di coscienza alterati, dilatati o amplificati.
Come ha raccontato a molti intervistatori, Lynch ha iniziato la
meditazione trascendentale nel 1973, e da allora l’ha praticata
quotidianamente, descrivendone gli effetti in termini di trasformazione
personale e artistica. Per quanto non ne faccia menzione esplicita a
Stephen Saban e Sarah Longacre nel 1977, è interessante notare come, nel
tentativo di spiegare il simbolismo delle oscillazioni di identità in
Eraserhead, gli autori ricorrano a un altro sistema spirituale orientale,
quello del buddismo tibetano. Nel complesso, tuttavia, almeno fino ai
primi anni Novanta, Lynch si è mantenuto perlopiù cauto nel discutere la
meditazione trascendentale nei dettagli. Quando David Breskin lo
interroga al riguardo nel 1990, per esempio, lui risponde: «Della
meditazione non parlo proprio. Molta gente è contraria. È solo una cosa
che mi va di fare». Eppure, nella stessa intervista, parla del proprio
interesse per un processo evolutivo di «diversi livelli nella crescita
dell’essere umano. Diversi gradi di consapevolezza o coscienza. Al
termine di questo percorso evolutivo vedresti una persona totalmente
consapevole e conscia di sé». Analogamente, nel 1992, Lynch osserva con
Kristine McKenna che la prova definitiva della mancanza di senso della
vita sarebbe «una totale beatitudine della coscienza».
Ciò non significa, naturalmente, che esista una correlazione diretta e
univoca fra l’adesione di Lynch alla meditazione trascendentale e le
esperienze che spesso subiscono i protagonisti dei suoi film, in cui il loro
normale senso di identità o consapevolezza è scosso da stati d’animo o
mentali oscuri e spesso minacciosi – gli esempi che vengono in mente
sono quelli di Henry in Eraserhead, Fred Madison in Strade perdute e
Nikki Grace in Inland Empire. Al contrario, come Lynch mi ha spiegato
nel 2008, egli percepisce una grossa differenza fra l’autentica
illuminazione della coscienza e i traumi meno spirituali dei personaggi
che rimangono invischiati in quello che lui definisce il mondo materiale
della «piazza del mercato». In ogni caso Lynch ha fatto più o meno da
portavoce alla meditazione trascendentale fin dal 2005, creando la
Fondazione David Lynch per l’istruzione basata sulla coscienza e la pace
nel mondo e, più recentemente, con lunghi giri di conferenze negli Stati
Uniti ha dimostrato una crescente disponibilità non solo a parlare dei
propri rapporti con la meditazione, ma anche a contemplare possibili
collegamenti fra il mondo della meditazione e quello dei suoi film. Come
indicano le osservazioni che mi ha fatto su Inland Empire, questi nessi
rimangono tenui, ma il singolo elemento unificante di entrambi i mondi è
chiaramente l’impegno infaticabile di Lynch nell’esplorare la
trasformazione radicale dell’identità basata sull’ego, indipendentemente
dal fatto che tale avventura conduca a una profonda serenità o a
un’angoscia straziante.
Da ultimo, in questo volume ho voluto dare almeno un assaggio del
forte interesse suscitato all’estero dai film di Lynch, un interesse cresciuto
notevolmente soprattutto a partire dalla metà degli anni Ottanta. Quattro
delle interviste qui raccolte – quelle di Kristine McKenna, Kathrin Spohr,
Michel Ciment e Hubert Niogret, e Michael Henry – provengono da
pubblicazioni europee in Spagna, Svizzera e Francia. Ho tenuto in
particolare a rappresentare le reazioni della Francia all’opera di Lynch,
dato che i francesi hanno avuto un ruolo assai importante non solo in
quanto pubblico influente dei suoi film, ma anche come finanziatori dei
suoi vari progetti. Nel 1990, Cuore selvaggio ha ricevuto la Palma d’Oro a
Cannes, e nel 2002 Lynch è stato presidente della giuria del Festival, oltre
a essere insignito del titolo di Cavaliere della Legione d’Onore. Lo stesso
regista ha detto scherzosamente, in totale sincerità: «Ringrazio Dio per i
francesi», e a ragione, visto il prezioso contributo di Canal Plus e
StudioCanal alla produzione di film come Strade perdute, Mulholland
Drive e Inland Empire. Anzi, date le note difficoltà che Lynch ha spesso
avuto a reperire fondi per i suoi progetti in America – l’esempio più
eclatante è la brusca decisione della ABC di cancellare la serie televisiva
Mulholland Drive ancor prima della messa in onda – si fatica a
immaginare che i film di Lynch dello scorso decennio avrebbero avuto lo
stesso impatto senza gli ingenti aiuti ricevuti dai francesi.
Per le interviste di McKenna e Spohr avevo a disposizione le versioni
originali in inglese, ma nel caso di quelle in francese le registrazioni
originali erano andate perdute, e dunque le ho ritradotte in inglese (la
lingua in cui Lynch conduce tutte le interviste con le pubblicazioni
internazionali). Ciò significa che le interviste di Ciment, Niogret e Henry
hanno patito di una doppia traduzione, e se da una parte ho fatto del mio
meglio per riprodurre la voce di Lynch, dall’altra è inevitabile che, a causa
del passaggio per il francese, in queste interviste Lynch abbia di tanto in
tanto un tono più formale che altrove nella raccolta.
Puoi solo dirmi se è una scultura? È fatta proprio bene. Una persona
con cui ho visto il film ha pensato che fosse un feto di vitello.
Lo pensano in parecchi.
E...?
(Silenzio)
E?
Se lo dico poi me ne pento.
Hai detto che i suoni sono tutti naturali. Hai usato anche i vagiti di un
bambino vero?
No.
È evidente che hai lavorato a stretto contatto con il tecnico del suono.
Ti va di parlarcene?
Certo.
Credo sia la più bella colonna sonora cinematografica che abbia mai
sentito, con l’eccezione di Quarto Potere.
Che dire, grazie. Alan Splet è un caro amico, e avevamo già lavorato
insieme per un mio film, The Grandmother. L’avevo conosciuto a
Philadelphia. Prima di allora, avevo lavorato sul sonoro insieme a un altro
tizio dello stesso laboratorio di Alan. Per The Grandmother, l’idea era
quella di tornare a lavorare con lui. E quando mi ha detto di no, che non
poteva, ci sono rimasto un po’ male, ma lui mi ha indirizzato da Alan. E
insomma, Alan è uno spilungone magro magro: quando gli ho stretto la
mano ho sentito scricchiolare le ossa. Ed è bravissimo... ha un sacco di
energia, siamo andati subito d’accordo in modo fantastico. È stato proprio
divertente. Il nostro metodo di lavoro era questo: è il film a dettare la
colonna sonora, e i suoni devono creare un’atmosfera. Abbiamo iniziato
con dei suoni naturali, molto grezzi; non abbiamo usato sintetizzatori
Moog per nessuno dei due film. Per dire, avevamo un sacco di materiale
elettronico, ma per prima cosa usavamo un suono normale, poi
cominciavamo a modificarlo in vari modi, tentando diversi effetti, finché
non trovavamo qualcosa che andasse bene per quel singolo dettaglio.
Per molti film ci sono qualcosa come cinquanta bobine di tracce sonore.
Però magari una contiene solo il rumore di uno sparo. Cinquanta bobine
per una scena di battaglia, e su una solo uno sparo. Invece noi avevamo
dieci, quindici nastri pieni, pieni zeppi di suoni... credo che a volte
avessimo fino a quindici suoni contemporaneamente, e in certi punti solo
una presenza. Ma erano molto strane, queste presenze con cui lavoravamo.
Pochi, pochissimi dei suoni erano reali. Li avevamo tutti prodotti noi
artificialmente. Per esempio, uno dei suoni per la scena d’amore lo
abbiamo realizzato così: abbiamo messo a galleggiare in una vasca una
bottiglia di acqua minerale, con un microfono all’interno. Poi abbiamo
collegato alla bottiglia un tubo da giardino e uno di noi (non ricordo chi,
mi sembra Alan) ci soffiava dentro, mentre io muovevo la bottiglia nella
vasca, così, e il suono che ne usciva era un tintinnio lieve, indistinto; l’aria
produceva una nota che cambiava continuamente a seconda dei
movimenti. È il suono più etereo che si possa ottenere... E noi
praticamente registravamo tutto, ci siamo ritrovati con centinaia di effetti
che poi non abbiamo mai usato. Alan ha anche progettato dei pannelli
isolanti, che abbiamo fatto costruire e appeso alle pareti, e alla fine c’era
un silenzio di tomba. Così per i dialoghi abbiamo ottenuto un suono molto
spento e pulito, e quelli sono stati gli unici suoni naturali che abbiamo
usato. Tutto il resto lo abbiamo aggiunto, non c’era assolutamente niente
di vero.
Per gli attori è stato un impegno molto lungo. Come lo hanno vissuto?
Sì, è stata dura. Più di tutti per Jack Nance, anzi John Nance – preferisce
essere chiamato così; dunque, si è fatto tagliare i capelli per il personaggio
di Henry a maggio del 1972, mi sembra, e ha dovuto tenerli così per tutto
il tempo, solo che non stavano sempre dritti; portava anche un
cappellino... Le riprese sono andate avanti per anni, e quella è stata la
parte peggiore, perché nel frattempo chissà cosa poteva succedergli.
Tenere insieme tutto quanto, e mantenere quell’atmosfera, quel feeling, è
stato veramente difficile, con una lavorazione così discontinua. Per
esempio c’è una scena in cui Henry attraversa il corridoio e apre la porta, e
la scena successiva era stata girata un anno e mezzo prima. Cose così.
Però io credo che uno dei punti di forza di Eraserhead, anche se forse tu
non sarai d’accordo, sia il modo assolutamente rivoluzionario di
percepire la realtà. Nel film mostri cose che la gente non ha mai visto al
cinema, e credo che tu abbia allargato i confini di ciò che è accettabile
mostrare e per cui è accettabile provare interesse, e che il pubblico lo
capirà. Secondo me, tanto di ciò che vediamo in Eraserhead riflette, in
tutto e per tutto, il mondo in cui viviamo. La bruttezza e lo squallore in cui
il protagonista vive, lui li dà per scontati... non completamente, certo: per
esempio trova repellente il bambino, anche se gli sorride eccetera, si
capisce che ne è davvero terrorizzato... ma perlopiù quelle cose fanno
semplicemente da sfondo alla sua vita, come a molte delle nostre, del
resto.
In realtà... vedi, io sono arrivato al cinema dalla pittura. Ma quella
bruttezza la trovo bellissima. È questo il mio problema, capisci.
Quelli che hai usato nel film lavorano molto al cinema, o fanno
perlopiù...
No, Jeanne Bates prima faceva... ha fatto parecchi film con la Columbia
Studios. E l’ho vista in un vecchio film, erano tutti roba di serie B, e
adesso recita in una soap opera, mi pare... o almeno ci recitava fino a circa
un anno fa. E Allen Joseph, Bill, lui fa un sacco di teatro e un po’ di
televisione, come Jeanne... sì, credo che Jeanne fosse la più convenzionale
di tutti. E nel giro di una sera si è convinta. Era proprio presa. Charlotte
Stewart, invece, non credo che abbia gradito il film.
Lei è...
Lei è Mary. E subito dopo ha fatto La casa nella prateria. (Ride.)
Be’, ci sono alcune parti del film in cui ti sembra di dover gestire dieci
cose contemporaneamente, che si mischiano e si scontrano... e non sai se
ridere o metterti a urlare, ma ci sono diversi punti nella sequenza in cui il
pollo inizia a...
A muoversi, sì.
Ma ne eri soddisfatto?
Sì, anzi il più delle volte provavamo così tanto che per la stessa scena
avremo fatto al massimo quattro o sei ciak, mi pare. E di solito ne
bastavano uno o due. E spesso il secondo ciak non era per gli attori, ma
perché magari la cinepresa si era mossa un po’, o qualcosa del genere.
Cosa ne pensi del finale? Ora entriamo nel vivo di quel che accade nel
film...
È proprio un lieto fine.
In effetti.
Eh sì, Henry va in paradiso.
Da chi?
Uhm, si potrebbero fare dei nomi, ma va bene anche non farne. Io però
l’ho concepito come spedito da qualcuno. È come quando ricevi un
messaggio che ti rimane sepolto nel subconscio per un bel po’, e poi di
colpo inizia ad affiorare. In un certo senso è questo che accade qui.
Niente simboli, va bene... Quali sono state le scene che hanno richiesto
più tempo?
Per girarle? Be’, ogni ripresa ha richiesto un sacco di tempo, non ce n’è
stata una in particolare... anzi, una ripresa che ci ha messo a dura prova è
stata quella del pianeta sospeso nello spazio, hai presente? Perché abbiamo
girato anche quella alle vecchie scuderie dell’AFI, e dovevamo farla tutta
in un fine settimana. So che non sembra poco, ma c’era una lunga
carrellata, in avanti o all’indietro, e l’abbiamo girata al contrario.
Avevamo un fondale stellato di un metro per un metro e mezzo, fatto con
delle piccole lampadine, e il pianeta da montare su un supporto rotante.
Per la carrellata lunga avevamo impilato dei cassoni da giardino, e delle
tavole per i binari. Avevamo noleggiato un dolly spider Almack col
braccio allungabile, e dovevamo allestire il tutto: abbiamo iniziato il
venerdì sera, e il lunedì mattina, mentre stavamo girando, è sorto il sole.
Ormai era giorno, e la ripresa era da buttare. Abbiamo dovuto smontare
tutto e girare la stessa identica scena il fine settimana dopo. È stato un
vero inferno.
Terribile.
È stato terribile, sì. Dovevamo zavorrare il fondale con pesi di piombo,
per non farlo volare via col vento, e non ci riuscivamo: un incubo. E sul
set eravamo sempre pochissimi. Mi pare che quella sera fossimo un
discreto numero, una troupe di sei o sette persone. E abbiamo lavorato
giorno e notte per tutto il fine settimana, solo per l’allestimento e
l’illuminazione in modo che filasse tutto liscio... per certe riprese andava
così. Alcune cose hanno richiesto un tempo infinito per un motivo o per
l’altro. E quella è stata una scena particolarmente difficile.
Lo stile
Creare il colore
«Per ottenere una buona fotografia in un film in bianco e nero devi creare
da te i colori, e con questo intendo luce e ombra. Se hai il colore puoi
semplicemente illuminarlo e il resto lo fanno i colori da sé; ovviamente
non è proprio così semplice, ma non devi creare tante cose come quando
lavori in bianco e nero.
«Se indossi un vestito di un colore particolare e ti muovi su uno sfondo
di un altro colore, le due tinte risalteranno da sé. Col bianco e nero invece
devi illuminarle in modo tale che risultino come lo stesso colore, o due
colori diversi, e via dicendo. Se dai un’illuminazione piatta in bianco e
nero, la scena avrà un aspetto molto piatto – sarà tutto su un unico piano.
In altre parole col bianco e nero devi controllare le luci in modo molto più
preciso».
Ciò significa che girando in bianco e nero il cameraman deve sapere
esattamente quale sfumatura di grigio produrrà ogni singolo colore. Per un
operatore navigato come Freddie Francis ciò si riduce a una questione di
occhio esperto. Come dice lui, «c’è solo una cosa su cui può fare
affidamento il cameraman, in ultima analisi, e sono i suoi occhi. Se non
sono buoni, fa prima a tornarsene a casa».
Per un occhio meno esperto, una buona idea può essere quella di
costruirsi una scala di grigi dipingendo semplicemente su un cartoncino
strisce di tutti i colori primari e secondari – una specie di schema di colori
video – e poi fotografando il risultato sotto una luce forte con una
pellicola in bianco e nero. Poi si ingrandisce il negativo a una dimensione
di 20 x 25, si contrassegnano le singole strisce con i rispettivi colori e si
ritagliano. Se non si è sicuri di come appariranno i colori fotografati
insieme in bianco e nero, basta mettere le due strisce di colore l’una
sull’altra.
La composizione
Pensando per un attimo alla composizione, sì, è vero che si può usare il
colore per aiutarsi a comporre – quando si gira a colori. Un oggetto molto
colorato in una stanza, per esempio una bacheca, può essere usato come
punto di riferimento compositivo nell’inquadratura complessiva. In bianco
e nero non si può usare il colore ma si deve ricorrere a luci e ombre –
chiaro e scuro. In altre parole, quando si compone, i colori stanno al colore
come chiaro e scuro stanno al bianco e nero.
Tutto questo non risponde però in modo esauriente alla domanda: allora
dove vanno messi l’ombra e la luce, oppure i colori?
«Abbiamo cercato di creare la stessa atmosfera sia in The Elephant Man
sia in The Doctor and the Devils. Era la Londra degli anni Quaranta
dell’Ottocento ed era piuttosto tetra. Normalmente se si gira in modo
neutro è molto difficile rendere il tutto tetro e trasandato come dovrebbe
essere, ma secondo me guardando The Doctor and the Devils si capisce
che ci siamo riusciti, e così pure in The Elephant Man che è stato girato in
bianco e nero».
L’atmosfera
«In pratica non c’è un trucco magico, mi limito a sistemare le luci sul set
finché non ho l’illuminazione giusta. Pensando in particolare a The
Elephant Man, cerco di visualizzare la scena. Se mi trovassi a Londra nel
1840 in quel periodo dell’anno, da dove verrebbe la luce? Probabilmente
non ce ne sarebbe molta. Secondo: se ci fosse, la luce sarebbe mischiata
con un sacco di fumo proveniente dai camini accesi e dalle schifezze che
ci bruciano dentro, dunque metti insieme tutte queste cose finché
l’atmosfera che crei sul set non è quella della Londra vittoriana del 1840».
In un certo senso è lo stesso tipo di preparazione a cui si sottopone un
attore per calarsi nel personaggio che deve interpretare, per creare quel
particolare personaggio trovando gli elementi che vanno a comporre
qualcosa di credibile.
«Nei primi anni del cinema non si faceva così. Tutto quanto doveva
essere illuminato “per bene”: lame di luce fortissima dappertutto.
Dovunque si trovasse l’attrice protagonista, doveva essere illuminata da
dietro perché risaltassero i capelli, cosa che rendeva il tutto terribilmente
falso.
«Non abbiate paura di fotografare “male” per creare la giusta atmosfera.
Nei primi anni avevano esattamente quel timore».
La disponibilità
Un aspetto pratico da tener presente – e ciò vale sia per il 35 mm, sia per il
16 e il Super8 – è la disponibilità delle pellicole e dello sviluppo. The
Elephant Man è stato girato su pellicola Kodak Plus X. Tutto andò bene
finché, alcune settimane dopo l’inizio della produzione, Freddie non
scoprì che la pellicola era difettosa e l’intera partita andava rimandata
indietro. Si potevano trovare altre Plus X? Neanche per sogno. Non una
sola bobina sulla faccia della terra. La lavorazione rischiò di fermarsi, ma
per fortuna arrivò una nuova partita in tempo per scongiurare un blocco
totale. Il guaio era questo: venne fuori che la nuova pellicola era di uno
stop più veloce, e rispetto alla partita precedente sembrava richiedere
meno della metà di luce di riempimento. Ci vollero parecchi giorni per
abituarcisi.
Come sempre nel cinema professionale, avevamo fatto delle prove sulla
pellicola originale, una pratica che i cineasti dilettanti farebbero bene a
imitare. È molto meglio usare una cartuccia di Super per essere certi di
ottenere i risultati desiderati con impostazioni di macchina diverse,
piuttosto che andare avanti alla cieca per poi scoprire che tutto il girato
non è come lo volevi e probabilmente è da buttare.
Lo sviluppo
L’idea
L’intuito
L’efficacia
I problemi
Velluto blu
Il processo creativo
Si può dire in conclusione che David è influenzato più da altri pittori e dai
luoghi in cui ha vissuto e ha trascorso del tempo, che da altri registi. Luce
e ombra, sentimento e struttura predominano sulla visione cromatica.
Anche i suoi film a colori utilizzano questi concetti per costruire
l’immagine. Si crea prima di tutto l’atmosfera, e poi si procede da lì.
«Anche se ho scritto la sceneggiatura di quasi tutti i miei film, si tratta
più che altro di uno schema, una sensazione, un’idea. Certo, scrivo con il
film finito in mente. È quella l’intuizione, e bisogna mantenervisi fedeli.
Più ci si allontana da questa e più debole sarà l’idea, e quindi il film. Il
materiale che hai detta la sequenza e il ritmo, ma alla fine bisogna
fermarsi e ricordarsi della sensazione originaria».
Il bianco e nero ha un potere tutto suo. I registi non dovrebbero mai
considerarlo un surrogato inferiore al colore, bensì riconoscerne il
potenziale e la capacità di trasmettere idee che sarebbero irrealizzabili nel
bagliore della fotografia a colori.
(Da MovieMaker, ottobre 1985.)
C’È VITA DOPO DUNE?
DI TIM HEWITT
La prima cosa che la gente vuole sapere quando scopre che hai incontrato
David Lynch è: «E com’è? Strambo?»
Nel corso di una carriera che ha prodotto solo tre lungometraggi, Lynch
si è affermato come una sorta di maestro dell’assurdo, del surreale, del
grottesco, spesso riuniti in un unico film. Sebbene i primi lungometraggi
di Lynch – Eraserhead (1977), The Elephant Man (1980) e Dune (1984) –
abbiano avuto origine da fonti diverse, il regista gli ha conferito un’unità
di stile e di visione che li lega gli uni agli altri saldamente come se fossero
stati immaginati nella loro interezza dalla stessa mente.
L’ultimo arrivato nel corpus lynchiano è Velluto blu, il primo film dopo
Eraserhead che il regista ha sceneggiato a partire da idee proprie anziché
rielaborare quelle altrui. «Alcune parti, per l’atmosfera, mi ricordano
Eraserhead», riferisce Lynch, «ma è diverso da Eraserhead».
Velluto blu è una sorta di giallo, con tanto di omicidi, droga e una
vicenda sessuale alquanto bizzarra. Il De Laurentiis Entertainment Group
intende far uscire il film a settembre se Lynch riuscirà a montarlo in modo
da ottenere almeno il visto della censura per i minori di diciassette anni. A
livello di trama il film si discosta del tutto dai precedenti lavori di Lynch:
è ambientato nell’America contemporanea e popolato di personaggi che
gli spettatori troveranno, in alcuni casi, verosimili quanto i loro vicini di
casa. Lo stesso Lynch ha descritto Velluto blu come un «film di quartiere».
«È un piccolo film d’atmosfera», dichiara. «Non so se si possa definire
un noir. Ci sono molte scene sinistre, ma anche alcune leggere.
L’atmosfera per me è importantissima perché ha a che fare con la
sensazione tattile, gli odori e i luoghi del film e dev’essere perfetta. È così
che il film acquista una realtà».
Venendo subito dopo Dune, Velluto blu è quasi una vacanza per Lynch. È
il suo film più esiguo dai tempi di Eraserhead, e il regista ne apprezza la
dimensione intima. Preferisce lavorare su una scala più modesta e storce il
naso all’idea di un Dune ii. «Per ora non lo faranno. O almeno, io non ho
intenzione di farlo». Nonostante abbia lavorato a lungo sul progetto, Dune
sembra contenere ancora molti misteri per Lynch.
«C’è qualcosa che non va in quel film. Non so cosa, e non sono certo
che si possa “sistemare”. È che, vedi, è così imponente e pieno di cose.
Molte parti mi piacciono, ma molte altre no. Ha proprio dei problemi...»
La sua voce si smorza e Lynch fissa il suo ultimo dipinto, un paesaggio
industriale in stile espressionista.
«Esiste una versione più lunga di Dune?», chiedo, avendo sentito delle
voci a proposito di un director’s cut lungo più di quattro ore. «Be’, il
premontato era molto lungo. È un filmone. Ma non avrebbe funzionato,
non poteva essere il montaggio definitivo. Credo che il risultato finale sia
quanto di meglio se ne potesse ricavare».
Malgrado il suo lavoro nel genere, Lynch è pronto ad ammettere di non
essere un amante della fantascienza o del fantasy, e neppure dei gialli.
Quel che gli piace è il cinema. «Adoro l’idea del cinema. Adoro anche i
popcorn, per cui mi piace andare al cinema e mangiare i popcorn. Mi piace
quasi tutto ciò che ha a che fare con il cinema. A volte se un film tocca
qualcosa che amo divento critico, ma quasi sempre resto aperto a quello
che succede sullo schermo e cerco di non giudicare troppo. Mi piacciono
molte cose diverse nei film che guardo, ma i miei gusti personali sono
abbastanza ristretti».
Nonostante la sua formazione artistica, Lynch ritiene che la sua visione
non sia influenzata da nessun artista in particolare, né cita influssi letterari
o cinematografici.
«Le mie riflessioni interiori», racconta, «sono influenzate più che altro
dai luoghi che ho visitato e dalle persone che ho incontrato. Ma a volte mi
vengono delle idee e non so da dove. Sto seduto e mi arrivano delle idee. E
non sono legate a nulla in particolare. È esattamente come andare a
pescare e prendere un pesce. Non importa se ti piace proprio quel tipo di
pesce, è il pesce che hai preso. Le mie idee sono così».
Sebbene a Lynch non piacciano i gialli, intesi come storie di indagini su
un delitto, è affascinato dai misteri nel senso più ampio del termine. «In
realtà ogni cosa è un mistero, no? L’oscurità per me è un mistero. Non so
cosa contenga, ed è quello ad attirarmi. Non è necessariamente qualcosa di
malvagio, ma se lo fosse, probabilmente abiterebbe lì».
Spesso per Lynch ciò che l’oscurità rivela è una serie di immagini
assurde e inquietanti, come quelle di Eraserhead, oggetti d’uso comune
resi spaventosi. Per il regista la superficie delle cose è solo l’inizio della
visione. «Tutto procede per gradi. Anche un viso umano, se lo guardi
molto da vicino, comincia a diventare grottesco, persino il più bel volto di
donna. È così dolente, tutta quella carne, ed è un mondo imperfetto».
Ciò che il grottesco sembra rappresentare per Lynch è una visione
ravvicinata degli aspetti di noi stessi che di regola sono mascherati dalla
quotidiana normalità delle apparenze.
«Mi piacciono le cose che ne contengono altre», aggiunge. «Come The
Elephant Man. L’esterno era in un modo e l’interno in un altro. Anche
Velluto blu è così. Parla di una superficie che è bellissima, ma ciò che sta
sotto diventa sempre più strano».
La sceneggiatura di Lynch narra di uno studente universitario di nome
Jeffrey (Kyle MacLachlan di Dune) che torna a casa per via della malattia
del padre. Il giallo ha inizio con la scoperta di un orecchio umano in un
terreno incolto accanto alla casa di una cantante di night club (interpretata
da Isabella Rossellini). La polizia è restia a occuparsene: un singolo
orecchio non costituisce una prova sufficiente che sia avvenuto un
omicidio. Jeffrey decide di indagare per conto proprio, e così facendo
conosce un misterioso (e pericoloso) individuo che sembra esercitare un
controllo sulla cantante. Il cattivo è interpretato da Dennis Hopper.
Alcuni elementi della sceneggiatura ricordano Eraserhead, nel senso
che entrambi sono pervasi dalla stessa tensione sessuale. In Velluto blu c’è
un turbamento che contrasta con lo scenario banale in cui è ambientato.
Girato a Wilmington, Carolina del Nord, Velluto blu vede di nuovo
insieme Lynch e il direttore della fotografia Fred Elmes, che ha filmato
Eraserhead. Una delle scene iniziali, che si svolge a vari chilometri
dall’azione principale, è stata girata nel seminterrato del Cape Fear Hotel,
sul lungomare di Wilmington. Non si sarebbe potuto costruire un set
migliore. Il seminterrato è sudicio e pieno di tubi scoperti, molti dei quali
con il rivestimento isolante scrostato. Qua e là sono sparpagliati mucchi di
ciarpame dell’albergo, e sul pavimento ci sono delle pozzanghere. Qui
nulla è mai stato nuovo. Sembra proprio l’ideale per un film di David
Lynch.
In questa scena uno studente universitario, dopo essere uscito di
soppiatto da una festa ai piani superiori insieme alla sua ragazza, l’ha
portata in questo luogo appartato per pomiciare come si deve. Poco dopo il
ragazzo cerca di prenderla con la forza, e lei resiste disperatamente. Solo
l’intervento di Jeffrey, che lo ha seguito nel seminterrato e gli intima di
fermarsi, consente alla ragazza di tirarsi fuori dai pasticci in tempo.
«Mi piace tutta questa roba», spiega Lynch, indicando lo sfacelo del
seminterrato. «Mi piacciono le superfici». Le tubature e i macchinari
ricordano anche un’altra delle fissazioni di Lynch: le fabbriche. Lynch le
adora, le vede come luoghi di creazione, eppure nei suoi film appaiono
quasi sempre cupe e minacciose.
«Be’», dice, scandendo le parole, «nelle fabbriche possono accadere
degli incidenti. In un certo senso gli operai sono degli eroi, come i
minatori. Scendono giù, rischiano la vita. Ognuno di loro conosce la vita
in fabbrica, mentre quando tornano a casa i loro familiari non ne sanno
nulla. C’è una serie di cose che ruotano intorno a una fabbrica, un certo
ritmo e un certo modo di vivere. È una generalizzazione, ma mi piace
come punto di partenza per una storia. Non ho mai fatto un film veramente
ambientato in una fabbrica, credo, perché non ci ho mai pensato né me ne
hanno offerto uno. Ma mi piacerebbe fare un film su certi operai delle
acciaierie. Magari usarle come sfondo per un film».
Nel suo ufficio alla North Carolina Film Corporation di Dino De
Laurentiis, Lynch sembra un maestro di scuola imberbe. Indossa
esattamente ciò che mi aspetto: un giubbotto di pelle nero, una camicia
bianca abbottonata fino al collo, pantaloni beige e scarpe da tennis. È così
che appare in quasi tutte le fotografie esistenti.
Sparse sul divano ci sono alcune foto dei suoi «kit». Di solito Lynch
crea per ogni film un «kit», pezzi di animali montati su una tavola con
delle istruzioni per assemblare la creatura. Il kit del pollo, spiega, è
separato da quello delle piume. Ne ha realizzato uno per Velluto blu? «Ho
pronti nel congelatore sei topi per farne un kit, ma non ho ancora avuto il
tempo».
Su una parete dell’ufficio di Lynch campeggia il suo ultimo dipinto. La
tela emana un’atmosfera simile a quella che ci si aspetterebbe di trovare in
uno suo film, sebbene sia meno figurativa. Con un sorriso Lynch spiega
che il grande quadrato rosso nel dipinto dominato da tonalità marroni
«doveva esserci. Doveva e basta. Non doveva necessariamente essere un
quadrato. Avrebbe potuto essere dieci cose. Ma non undici».
Lynch non associa i propri quadri ai film, preferisce tenere separate le
due attività. «Tra i miei film, Velluto blu e Eraserhead sono i più simili ai
miei quadri, ma non sono come i quadri. Parti diverse del cervello
producono opere diverse. Quel che faccio quando dipingo c’entra poco o
nulla con la lavorazione di un film».
Per Lynch Velluto blu e Eraserhead sono film personali, e quando gli ho
fatto notare la sua somiglianza fisica con Jack Nance (Henry di
Eraserhead) e Kyle MacLachlan, ha annuito. «Non me n’ero mai accorto,
in realtà. Ma immagino che ci sia del vero in quel che dici. In un certo
senso io sono Henry, e sono Jeffrey. Non sono l’Uomo Elefante, e non mi
ritrovo proprio in Dune. Ma in Eraserhead e in Velluto blu sì».
Un altro film che avrebbe potuto contenere in sé qualcosa in più di
Lynch è Ronnie Rocket, un progetto di cui si è lungamente discusso ma che
sembra essersi ormai arenato del tutto. «Mi piacerebbe fare una
commedia», dice Lynch col suo lieve, svagato sorriso. «Ronnie Rocket
sarebbe stato una commedia. Non so se lo farò mai. L’ho riscritto e mi
piace molto. È una sceneggiatura gigantesca, lunghissima, ed è veramente
comico in un modo assurdo, e astratto. La magia è svanita, mi duole dirlo.
Mi ci vorrebbe molto tempo per realizzarlo. Personalmente lo amo, ma
non so se a qualcuno andrebbe di vederlo».
Ma anche senza Ronnie Rocket ci saranno indubbiamente altri copioni,
altri film, ciascuno con una visione squisitamente lynchiana. Velluto blu
porterà a quattro il numero di produzioni cinematografiche di Lynch, film
ricchi come la tela di un artista, film diversi da qualsiasi altro.
«E com’è? Strambo?», mi chiedono di David Lynch. Be’, lo è, ma non
nella maniera che credereste.
(Da Cinefantastique, vol. 16, 1986.)
A CENA CON LYNCH
DI DAVID CHUTE
Nessun film recente ha diviso così tanto l’opinione pubblica. Velluto blu,
in cui Isabella Rossellini è sottoposta a scene di sconvolgente
degradazione sessuale, esce a marzo e si preannuncia come il film più
discusso, e per alcuni morboso, degli ultimi anni. Il regista David Lynch
non smette mai di provocare.
Al New York Film Festival, lo scorso ottobre, nella cacofonia
cosmopolita dell’hotel (un lussuoso orrore in stile rinascimentale) che per
una settimana fungeva da quartier generale non ufficiale dell’industria
cinematografica, vengo fermato bruscamente da una delle agenti più
importanti della città.
«Devi assolutamente vedere Velluto blu», mi sibila, affondandomi
nell’avambraccio gli artigli rossi per meglio rimarcare il concetto. «Ne
stanno parlando tutti. È il film più discusso degli ultimi anni». Poi si ritrae
di scatto, indubbiamente per partecipare all’ennesima riunione e firmare
un altro contratto milionario.
Nessun altro film moderno ha diviso l’opinione pubblica statunitense
quanto il sorprendente thriller a basso costo di David Lynch. A ogni
proiezione di questa scioccante storia di omicidi, violenza e
sadomasochismo ambientata nella bucolica provincia americana, almeno
un pugno di spettatori esce dalla sala a metà del film.
Altri lo adorano. Secondo Newsweek, a Chicago un cardiopatico che
guardava Velluto blu è svenuto, è stato portato di corsa in ospedale per
farsi regolare il pacemaker, e poi riportato al cinema in tempo per il
finale. I critici Roger Ebert e Gene Siskel, che recensiscono i film in una
sorta di numero alla «poliziotto buono e poliziotto cattivo» durante il
Tonight Show, si sono trovati in disaccordo più che mai. Ebert ha definito
Velluto blu «uno dei film più morbosi mai realizzati», mentre Siskel lo ha
decretato uno dei dieci migliori dell’anno.
Velluto blu è un film di formazione. Narra la storia di un giovane che
scopre le forze e le emozioni nascoste appena sotto la superficie nella sua
famiglia, fra i suoi amici e nel vicinato. Secondo il regista e sceneggiatore
David Lynch tali forze comprendono l’amore, l’odio, l’omicidio, la
perversione, la corruzione e la degradazione. Velluto blu è una sorta di
viaggio interiore nella terra del Peccato Originale.
È un film fatto di estremi. A Lumberton (cittadina di taglialegna e
carpentieri che esiste realmente, nella Carolina del Nord) gli uccellini
cinguettano tutto il tempo, le staccionate bianche risplendono come nubi
estive e i vicini sono così affabili e gentili che paiono usciti da una sit-
com. Ciononostante i criminali sono tanto malvagi e sadici, la
degradazione così profonda, che il film evoca nello spettatore una specie
di terrore primordiale. Il terrore sarebbe a tratti quasi intollerabile, se non
fosse per gli spezzoni di umorismo stravagante e goliardico di cui il film è
infarcito. Come nell’Esorcista – a mio parere il film più autenticamente
spaventoso degli anni Settanta – il terrore suscitato da Velluto blu non è
esteriore – la paura di un mostro o di un assassino – ma interiore – la
paura della malvagità che si annida nelle nostre menti e nelle nostre
anime.
«In un certo senso ti mette a nudo», ha dichiarato un mio amico al quale
il film è piaciuto moltissimo, aggiungendo che due delle quattro persone
con cui era andato a vederlo sono uscite a metà proiezione.
Per molti americani l’aspetto più problematico di Velluto blu è il
personaggio di Dorothy (Isabella Rossellini), una cantante di night che ha
conosciuto tempi migliori, costretta ad atti sessuali violenti e sadici dal
terrificante maniaco Frank (Dennis Hopper).
E fin qui tutto bene. Il fatto è che a Dorothy tutto questo piace. Si eccita
a farsi picchiare e umiliare. Quando seduce Jeffrey (Kyle MacLachlan), lo
implora di picchiarla. Lui obbedisce. Il personaggio di Dorothy è stato
bollato come l’incarnazione delle peggiori fantasie maschili, una
negazione dei progressi femministi degli ultimi vent’anni, un’istigazione
allo stupro e via dicendo.
«C’è una sola cosa peggiore del far parlare di sé, ed è il non far parlare
di sé», diceva il buon vecchio Oscar. A quanto pare David Lynch non è
d’accordo. Il quarantenne regista è talmente seccato del vespaio di critiche
suscitato dal suo film da essere divenuto estremamente cauto nel parlarne.
Ed è un peccato, perché Velluto blu è una creazione molto personale. Parte
della sua forza risiede nel fatto di non essere il prodotto del solito
comitato hollywoodiano con la solita trafila (Buono, Cattivo, Storia
d’amore, Soggetto, Scioglimento, e così via), ma di un individuo con una
visione tanto vasta e potente da persuadere grazie alla sua stessa intensità.
Il fatto che alcuni dettagli della trama siano deboli o oscuri importa poco
nel contesto della storia lacerante che Lynch vuole narrare.
«L’unica cosa da dire riguardo a tutte le polemiche», dichiara Lynch,
cedendo finalmente alle mie insistenze, «è che la gente dovrebbe chiedersi
se ho inventato tutto quanto o se ci sono esempi di cose del genere nella
vita reale. E ce ne sono un’infinità. Quindi perché ci si scandalizza tanto
vedendole in un film?»
Con un ciuffo di lucenti capelli castani che gli ricade sulla fronte, occhi
tondi e penetranti, una camicia bianca abbottonata con cura fino al collo e
una voce nasale dal tono perennemente stupito, Lynch è americano fin nel
midollo. Basta guardarlo per trenta secondi per capire che il giovane
protagonista del film – il giudizioso, curioso, intelligente studente
universitario Jeffrey – è una creazione assai autobiografica.
Lynch difende il suo personaggio più controverso, la sadomasochista
Dorothy. «La gente si caccia in ogni genere di situazioni strane e, per
quanto possa sembrare incredibile, ci prova gusto. Potrebbe tirarsene
fuori, ma non lo fa, per un sacco di motivi che appartengono alla
psichiatria».
Dennis Hopper nei panni di Frank ci regala uno dei più raggelanti,
terrificanti maniaci omicidi mai visti sullo schermo. Relegato per anni a
ruoli da «ubriacone drogato» (parole sue), Hopper ritorna con
un’interpretazione destinata a fare la storia del cinema tanto quanto il
Norman Bates di Tony Perkins.
«Un giorno mi ha chiamato Dennis Hopper», racconta Lynch, «dopo
aver letto il copione. Mi ha detto: “David, devi darmi la parte di Frank,
perché io sono Frank”.
«La cosa mi ha spaventato a morte».
Parlando di Frank ci sembra di cogliere una delle possibili motivazioni
di Lynch nel realizzare Velluto blu.
«Per me Frank è un tipo che gli americani conoscono bene», dichiara.
«Sono sicuro che quasi tutti crescendo hanno incontrato qualcuno come
lui. Magari non gli avranno stretto la mano né ci saranno andati a bere
insieme, ma quando incontri una persona del genere basta scambiarsi uno
sguardo per capire che tipo è».
Secondo Lynch, Frank non è tanto malvagio quanto deviato. «Frank è
totalmente innamorato. È solo che non sa come dimostrarlo. Sarà anche in
preda a passioni strane (sesso sadico con ruoli incestuosi, omicidi,
sventramenti, inalazione di elio, spaccio di droga e omosessualità latente,
solo per citarne alcune), ma è pur sempre motivato da sentimenti positivi.
Velluto blu è una storia d’amore».
David Lynch ama rievocare il suo primo incontro con Isabella
Rossellini. L’attrice gli era stata presentata al ristorante da un comune
amico durante i casting di Velluto blu. Colpito dalla sua serena bellezza
europea, le disse: «Potresti essere la figlia di Ingrid Bergman». «“Idiota”,
mi fa il mio amico», ricorda Lynch, «“lei è la figlia di Ingrid Bergman!”»
Lynch sostiene che con Velluto blu non mirava a sollevare un polverone.
La Rossellini era stata scelta per la parte di Dorothy perché emanava quel
senso di sofisticato mistero e di vulnerabilità indifesa che Lynch stava
cercando. Ma se il regista fosse stato in cerca di polemiche, non avrebbe
potuto compiere una scelta migliore.
Figlia di Ingrid Bergman e volto dei cosmetici Lancôme, Isabella
Rossellini fa parte di quel gruppo elitario di star americane che, come la
famiglia reale inglese, vengono «nazionalizzate» dalla stampa e dalla
televisione divenendo proprietà pubblica. Sotto l’occhio impavido della
rivista People e dei suoi imitatori, ogni visita al supermercato di queste
celebrità diventa di pubblico dominio. Con Isabella Rossellini nel ruolo
della perversa Dorothy, Velluto blu si è trasformato all’istante da piccolo
film d’autore girato da un regista notoriamente eccentrico in un possente
attacco alla morale americana.
Di persona, con un cardigan nero quasi sciatto e pochissimo trucco, la
Rossellini porta il proprio status di diva con placida dignità. A pranzo al
Sam’s Cafe, un ritrovo di gente dello spettacolo moderatamente
pretenzioso (per essere a New York), mentre Isabella si chiede se la
compagnia cinematografica abbia scelto il luogo per la sua somiglianza
con il Rick’s Café «del film di mia madre, Casablanca» e David Lynch
inizia a entusiasmarsi per le tazze da caffè, «le più grosse che ho mai visto
– non ti danno l’idea di esserti rimpicciolito?», sono colto da disperazione
all’idea che i due abbiano ripassato allo specchio i ruoli di figlia d’arte ed
ex studente di cinema prima dell’intervista.
Ma quando azzardo l’idea che la madre di Isabella fosse, a detta di
un’autorità sulla Hollywood degli anni Quaranta (cioè mia madre), la più
bella donna di Hollywood del decennio, Isabella reagisce («Ah, grazie
mille») con gratitudine e dolcezza autentiche, persino con un accenno di
sorpresa, così spontanea da risultare toccante.
Passando con destrezza dal sublime al fango, dico: «Isabella, il critico
Rex Reed ha detto che tua madre si rivolterebbe nella tomba se vedesse la
parte che reciti in Velluto blu».
«Non voglio commentare», risponde lei tranquilla. «I miei genitori sono
morti. Per me è già abbastanza difficile vivere senza di loro, per cui lascio
certi giudizi agli altri. Penso che a dire cose simili siano delle persone
morbose, perché fanno vendere i giornali. Non spetta a me disturbare le
tombe.
«Non so se il film gli sarebbe piaciuto o no», continua decisa. «Non
sono qui a vederlo. So solo che mia madre adorava The Elephant Man
(diretto da Lynch) e a mio padre David è piaciuto molto, quando si sono
conosciuti».
Per i lettori appena rientrati da una vacanza di quarant’anni su un altro
pianeta, Ingrid Bergman suscitò uno scandalo internazionale nel 1949
quando lasciò il primo marito a Hollywood per il regista italiano Roberto
Rossellini, dal quale aspettava un figlio. Hollywood reagì come se Ingrid
Bergman avesse inventato l’adulterio, esiliandola dall’industria
cinematografica per più di un decennio. Rossellini, regista geniale ma non
uno stinco di santo in fatto di donne, lasciò Ingrid quando Isabella era
piccola.
Chiedo a Isabella se da bambina era consapevole che suo padre fosse un
genio. «Da bambina», risponde, «pensavo fosse Dio. Poi crescendo l’ho
dovuto ridimensionare un po’ e limitarmi a dire che era un genio. Anche
mia madre era una dea, ma sono sempre stata più legata a mio padre. Ero
una cocca di papà».
Per la maggior parte della sua infanzia Isabella ha vissuto a Roma con il
padre, facendo spesso visita alla madre a Parigi. Nel 1972 si è trasferita a
New York, dove ha lavorato dapprima come inviata per la televisione di
stato italiana e poi come modella. Con il marchio di cosmetici Lancôme
ha firmato un contratto quinquennale da due milioni di dollari, rinnovato
l’anno scorso, che l’ha resa una delle modelle più pagate al mondo.
Trentaquattro anni sono un’età avanzata per una modella, soprattutto della
sua fama.
«Quando diventi il volto di un marchio, per la compagnia è molto
difficile cambiare immagine, per cui ti tengono a lungo», spiega Isabella
con modestia insolita per una modella.
Nell’accettare il ruolo di Dorothy, Isabella sapeva esattamente a cosa
andava incontro. Come Lynch, sente che il personaggio è realistico e
complesso in modo interessante. Non trova stimolanti le donne in carriera
unidimensionali attualmente in voga a Hollywood. «Vedo Dorothy
soprattutto come una vittima e una persona che soffre», dichiara. «È vero
che è lei a mettersi in quella situazione, ed è vero che le piace essere
picchiata, ma probabilmente è una donna contorta, totalmente pazza e
triste. E verso la fine del film inizia a venirne fuori.
«Il film è fondamentalmente una ricerca nell’ignoto. Nel corso di una
ricerca, qualcosa si trova sempre. Si inizia a capire qualcosa, nel bene e
nel male, su di sé e sul mondo, e sulla possibilità di scegliere. È un
processo di conoscenza e di esperienza.
«Ho cercato di ritrarla non solo come un personaggio, ma come un
personaggio in evoluzione». Nella sua indipendenza e nell’impegno
recitativo, è degna figlia di sua madre. Per tacere del fatto che quando
sorride in quel modo familiare, caldo e radioso, ti viene voglia di calarti il
cappello su un occhio e biascicare dall’angolo della bocca che dei
problemi privati di due persone qualunque non importa un accidente a
nessuno in questo pazzo mondo.
Dopo Velluto blu, la Rossellini ha avuto diverse piccole parti («Odio
starmene lì senza fare niente») e un ruolo importante, a fianco di Ryan
O’Neal, nel film tratto dal libro di Norman Mailer e da lui diretto, I duri
non ballano. Colpito dalla sua interpretazione in Velluto blu, Mailer ha
riscritto la parte apposta per lei. Isabella non è rimasta particolarmente
impressionata da Mailer, e non si aspetta granché dal film, appena
terminato.
«Sono ancora agli inizi come attrice, e Mailer è agli inizi come regista.
Credo che insieme fossimo tutti un po’ smarriti. Il film ha avuto dei
problemi».
Dice che farebbe l’attrice a tempo pieno «se tutti i film fossero come
Velluto blu». Finché non si presentano altre opportunità simili, rimane
possibilista sull’idea di dedicarsi totalmente alla recitazione. «Mio padre
ha sempre incoraggiato la curiosità, e ha sempre trovato un piacere
incredibile nelle scoperte, nella conoscenza. E per me la cosa migliore
della vita è espandersi, esaudire la propria curiosità più profonda, non solo
la parte ficcanaso, ma quella della conoscenza. Per me è in questo che
consiste la felicità».
Se nel secolo della loro supremazia imperiale gli Stati Uniti hanno dato
un qualsivoglia contributo originale alla cultura del mondo, è
probabilmente nello sviluppo di una forma d’arte dedita all’esame delle
superfici e delle immagini esteriori, sia in quanto tali sia come indizi di un
significato recondito. Questo approccio o sensibilità, che si potrebbe
definire warholiana, è particolarmente appropriata alla moderna società
consumistica, in cui i prodotti con cui abbiamo a che fare ogni giorno
diventano sempre più complessi, mentre il confezionamento e la
pubblicità grazie ai quali si vendono cercano ingegnosamente di farli
apparire sempre più semplici.
David Lynch ha trasferito questa sensibilità nei suoi film. Così descrive
Henry, l’eroe del suo film di culto del 1977, Eraserhead – La mente che
cancella: «Henry è proprio sicuro che stia accadendo qualcosa, ma non ci
capisce nulla. Osserva le cose molto, molto attentamente, per cercare di
decifrarle. Potrebbe studiare l’angolo di quella tortiera, lì all’altezza della
sua testa, soltanto perché si trova nella sua traiettoria visiva, e magari si
chiederebbe perché si è seduto proprio qui così che quell’oggetto si trovi
lì. Tutto è nuovo. Forse non sarà spaventoso per lui, ma potrebbe essere la
chiave di qualcosa. Tutto dovrebbe essere osservato: potrebbe contenere
degli indizi».
A proposito di Velluto blu: «Esiste sempre una superficie e qualcosa di
completamente diverso che si svolge al di sotto, come degli elettroni che
si agitano in tutte le direzioni senza che noi possiamo vederli. Questa è
una delle cose che fanno i film: ti mostrano quel conflitto».
L’immagine chiave di Velluto blu è l’orecchio mozzato che Jeffrey trova
in un campo. Quando Jeffrey lo rigira, scopre che è infestato da centinaia
di formiche. Tutto quel che segue nel film deriva dalla decisione di Jeffrey
di indagare su come quell’orecchio sia finito lì. Secondo Lynch, l’orecchio
è «il biglietto d’ingresso in un altro mondo».
Lynch ha trascorso la sua infanzia in varie cittadine nel Nordovest aspro
e boscoso degli Stati Uniti. Suo padre era uno scienziato che lavorava per
il Servizio Forestale.
«Passavo un sacco di tempo nei boschi ad accendere fuochi».
«Ti piacevano i boschi?»
«No».
«E cosa volevi fare, incendiarli?»
«No, volevo cucinare qualcosa».
Quando era adolescente, la famiglia si trasferì nella periferia di
Washington. «Così è finita la mia esperienza con i boschi. Adesso mi
piacciono le città. Però i boschi mi piacciono ancora». Dopo il liceo ha
frequentato tre scuole d’arte: la Corcoran School of Art, la Boston
Museum School e l’Accademia di Belle Arti della Pennsylvania. «Amo
l’arte e la pittura, e la pratico ancora».
Chiedete a Lynch di parlare di arte, e lui s’illuminerà di colpo. Diventa
allegro ed entusiasta. È come se intervistando Rod Stewart passaste tutt’a
un tratto dalla musica al football. Quella era lavoro, questo è uno spasso.
Una delle descrizioni sintetiche di Velluto blu preferite da Lynch è «un
incrocio fra Norman Rockwell e Hieronymus Bosch». Gli chiedo come
mai gli piaccia tanto l’arte. «Vita da artista è... (pausa di silenzio)... è solo
un altro modo di definire una vita piena».
«David», interviene la Rossellini con sollecitudine quasi materna (ha
una figlia di tre anni, Elettra, dal precedente marito Jon Wiedemann),
«adesso sei troppo enigmatico».
Sembra preoccupata che la riservatezza di Lynch possa impedirmi di
apprezzare i suoi talenti.
Lynch riconosce di essere stato influenzato da Stanley Kubrick,
Hitchcock e Jacques Tati, dai film Viale del tramonto, La strada e Lolita, e
dallo scrittore Franz Kafka. Ma quando gli chiedo che cosa l’abbia ispirato
più di tutto, non esita neppure un secondo.
«Philadelphia».
«Perché è orrenda?»
«Sì, orrenda, ma in un modo molto interessante. C’erano posti lasciati
andare in rovina, così pieni di paura e criminalità che per un attimo
sembravano l’ingresso di un altro mondo. Si avvertiva paura, ma era così
forte, così magica, come una calamita, che a Philadelphia
l’immaginazione faceva sempre faville.
«Anche adesso mi basta pensare a Philadelphia e mi vengono delle idee,
sento il vento e mi trovo subito nel buio, diretto da qualche parte».
Da allora, dice Lynch, le ristrutturazioni urbane hanno cambiato il volto
della città e distrutto la magia.
È molto contento che Velluto blu abbia guadagnato più dei sei milioni di
dollari che è costato produrlo. «Nessuno pensava che sarebbe mai
diventato un film commerciale. Ora che sta guadagnando si è dimostrato
un’eccezione. È fantastico quando succede».
Il successo del film lo aiuterà anche a far decollare il suo prossimo
progetto, Ronnie Rocket.
«Sono dieci anni che lo scrivo, da quando ho finito Eraserhead. È un
mistero assurdo sulle strane forze dell’esistenza. Parla di elettricità».
Certo. Elettricità. Di cos’altro potrebbe parlare?
Da qualche mese ormai circolano voci su una relazione sentimentale fra
Isabella Rossellini e David Lynch, entrambi divorziati.
«Isabella, mi risulta che voi due stiate insieme».
«Non sono affari tuoi».
«David, se la storia di Velluto blu fosse continuata oltre il finale, con
quale delle due ragazze si sarebbe messo Jeffrey, la biondina americana
tipica o la misteriosa cantante di night, mora e straniera?»
«Io ho le mie idee, ma credo che il film debba terminare lì dove finisce.
In ogni caso è abbastanza evidente».
«Mi spiace, adesso dobbiamo andare».
L’attrice e il regista sorridono gentili e si alzano. Vestiti entrambi
sobriamente di nero, entrambi in silenzio, escono in fila dal ristorante.
David Lynch è nato a Missoula, nel Montana, nel 1946. Suo padre lavorava
nelle foreste per conto del governo; la madre, casalinga, si prendeva cura
di David, del fratello e della sorella. La famiglia visse a Spokane, nello
stato di Washington, e a Sandpoint e Boise nell’Idaho, prima di stabilirsi
ad Alexandria, in Virginia, dove Lynch frequentò di malavoglia le scuole
superiori. (Si candidò a tesoriere di classe con lo slogan «Save with Dave»
[«Risparmia con Dave»]. Non fu eletto.)
Dopo aver frequentato sia la Corcoran School of Art di Washington, sia
la Boston Museum School, e dopo un fallito viaggio di studi in Europa per
seguire le lezioni di un pittore che ammirava moltissimo, Lynch
collezionò una serie di lavori umili, distinguendosi solo per l’abilità nel
farsi licenziare. Invischiato in una lunga adolescenza, si rifugiò negli studi
d’arte, stavolta all’Accademia di Belle Arti della Pennsylvania. Lì iniziò a
studiare pittura, ma finì, quattro anni dopo, per realizzare il suo primo
film recitato, The Grandmother, in cui un bambino angosciato, che bagna
ancora il letto ed è maltrattato dai genitori, fa crescere di nascosto da un
seme una nonnina benevola.
Nel 1970 Lynch ottenne una borsa di studio per il Centro di studi
cinematografici avanzati dell’American Film Institute di Los Angeles. Il
suo primo film d’avanguardia, Eraserhead – La mente che cancella, non
uscì nelle sale che nel 1977, per via del tempo dedicato a dipingere,
consegnare il Wall Street Journal, raccogliere spazzatura, costruire
capanni, sezionare animali, divorziare, fumare sigarette, ingozzarsi di
frullati e starsene seduto in silenzio a pensare. Eraserhead, una
meditazione tetramente umoristica e spassosamente disgustosa sulla cura
di un neonato – praticamente una fiera dell’ansia! – riscosse un grande
successo nel circuito delle proiezioni di mezzanotte. Il suo film
successivo, The Elephant Man, al confronto era sofisticato e discreto, se
non sentimentale. Una poesia d’atmosfera sull’Inghilterra vittoriana (per
Lynch un luogo in cui la Bestia era la Bella), conquistò otto nomination
agli Oscar e conferì al suo autore lo status di regista che vende. Subito
dopo, Lynch mise a repentaglio tale posizione con Dune, il suo unico flop
di critica e di botteghino, con il quale aveva cercato di convogliare
l’immensa narrazione attraverso il suo sguardo ipnotico, fallendo in
maniera spettacolare.
Velluto blu segnò un ritorno alla forma, alla grandezza e all’intuito.
Orchestrazione strabordante e perversamente comica di tutte le ossessioni
di Lynch, ambientata in una cittadina della provincia americana, Velluto
blu fu con ogni probabilità il film statunitense più originale e potente degli
anni Ottanta. Ricordato e discusso soprattutto per l’enfasi sulla violenza
più sordida, portò Lynch alla ribalta fra i registi americani.
Il film successivo, Cuore selvaggio, spinse ancor più all’estremo il
genere di farsa surreale e psicosessuale che è diventata il marchio di
fabbrica di Lynch. Pur vincendo la Palma d’Oro a Cannes, non fu un
capolavoro al pari di Velluto blu: la sua eccentricità sembrava posticcia e
artificiosa, e rasentava pericolosamente l’autoparodia. Ma Cuore
selvaggio fu pur sempre un film curioso e avvincente – un viaggio
melodrammatico ed esilarante nel cuore dell’immaginazione stessa di
Lynch.
Fra questi due film, Lynch e il socio Mark Frost scatenarono I segreti di
Twin Peaks. La serie, un capriccio che sovverte, pur senza distruggerli,
tutti i canoni televisivi, offriva una strana fetta di torta di mele in cui
s’incontrano il distorto e il familiare, producendo un’overdose di melassa
kitsch, con tanto di gelato. Accompagnata da un’attenzione frenetica e
vorace da parte dei media, la prima stagione di Twin Peaks nella primavera
del 1990 fu eccezionale: nove ore di nani ballerini, echi di rapaci notturni
e un’aura senza precedenti nella storia della televisione americana. Ma la
seconda stagione si rivelò fiacca e banale, e la serie fu presto cancellata.
Esasperato, Lynch cercò di avere l’ultima parola, che in questo caso
sarebbe stata la prima. Il prequel cinematografico Fuoco cammina con me
voleva essere il suo tentativo di esplorare ulteriormente il carattere
improbabile della mitica cittadina, libero dalle restrizioni della tv
commerciale.
Oltre a sceneggiare e a dirigere, David Lynch ha scritto anche ingenui
testi di canzoni, prodotto album pop e la Industrial Symphony No. 1 (che
tutto è tranne che sinfonica), e disegnato per anni la striscia The Angriest
Dog in the World per il L.A. Reader. Scatta fotografie, dipinge, realizza
pubblicità di profumi e sta preparando un volume illustrato che raccoglie
le sue opere visive, e che rifletterà in parte il suo interesse per l’igiene
dentale.
Le nostre due conversazioni si sono svolte a fine giugno e inizio luglio
del 1990, fra la prima e la seconda stagione di Twin Peaks. La sessione
iniziale ha avuto luogo nel centro di Manhattan nell’appartamento/studio
del suo esperto musicale Angelo Badalamenti, che era al lavoro nella
stanza attigua; la successiva, in un separé dello Studio Coffee Shop di
Hollywood, una tavola calda démodé molto amata da Lynch.
Lynch è stato sollecito, cortese e totalmente a disagio nell’analisi e nella
verbalizzazione richieste da un’intervista approfondita. Le sue espressioni
americane colorite e il suo anti-intellettualismo – la personalità di «Jimmy
Stewart venuto da Marte» – sono deliziosamente fuori dal comune:
divertenti, rilassanti, ma con una certa freddezza che tiene (e si tiene) a
distanza. Mi ha dato l’impressione di riflettere su tutto ciò che gli
chiedevo: semplicemente, non voleva vuotare il sacco.
Prima sessione
Parlando della tua infanzia, hai detto che è piena di ricordi beati ma
anche di orrori traumatici. Potresti articolare un po’ meglio?
Be’, è difficile articolare, ma venivo spesso a Brooklyn a trovare i miei
nonni, e questo faceva parte dell’orrore. Una parte, però. In una grande
città mi rendevo conto di quanta paura ci fosse, perché la gente viveva a
stretto contatto. Si sentiva nell’aria. Credo che chi ci vive ovviamente ci
faccia l’abitudine, ma venendo dal Nordovest ne eri travolto come da un
treno. Come da un vagone della metropolitana.
Anzi, prendendo la metropolitana mi sembrava di scendere all’inferno.
Scendendo le scale, addentrandomi sempre più in profondità, mi rendevo
conto che tornare indietro e risalire era difficile quasi quanto andare avanti
e arrivare a destinazione. Era la paura totale dell’ignoto: il vento
provocato da quei treni, i rumori, gli odori, la luce e l’atmosfera diverse,
erano qualcosa di speciale in un modo traumatico.
Poi ci sono stati dei traumi anche a Boise, nell’Idaho, ma erano molto
più naturali, per così dire. C’era più luce, e non così tanta paura nell’aria.
Era una scena abbastanza normale a casa tua. Hai detto che i tuoi
genitori non fumavano né bevevano, e che non litigavano mai; ma che tu
ne provavi vergogna. Avresti voluto che facessero un po’ di storie. Volevi
una stranezza che mancava.
Sì, era come negli anni Cinquanta: c’erano molte pubblicità nelle riviste
in cui si vedeva una donna ben vestita che sfornava una torta, con un certo
sorriso sul volto, o una coppia sorridente che passeggiava verso casa, una
casa con la staccionata. Quei sorrisi erano praticamente ovunque.
Ma tu li trovavi falsi.
Be’, sono dei sorrisi strani. Sono come il mondo dovrebbe o potrebbe
essere. Mi facevano davvero sognare fino all’inverosimile. E mi piace
molto tutto quell’immaginario. Ma desideravo che accadesse qualcosa...
non di catastrofico, ma di fuori dall’ordinario. Qualcosa per cui tutti mi
avrebbero compatito, come se io fossi una vittima. Per esempio, se ci
fosse stato un terribile incidente e fossi rimasto solo. È un bel sogno, in un
certo senso. Invece le cose proseguivano normalmente.
Avevi il desiderio segreto di restare orfano?
Be’ no, non orfano, ma di essere speciale e di distinguermi. Forse è una
scusa per non dover fare nient’altro. Diventi immediatamente importante.
In un certo senso sei arrivato. Facevo pensieri di questo tipo. Mi
vergognavo un po’ di avere dei genitori così normali.
Per cui andavi in cerca di pericoli per dare un tocco di anormalità alla
tua vita?
Non è che mi cacciassi in molte cose pericolose. E non parlo di cose
molto pericolose. La gente fa quel che vuole in ogni caso, ma non è bello
promuovere quest’idea, perché per creare non serve fare molte cose
pericolose. Già il fatto di esporre certi pensieri non è una buona cosa.
Volevi che i tuoi genitori litigassero, ma hai detto altrove che non ti
piacevano le tensioni e i conflitti, che cercavi sempre di appianarli.
Sì, facevo così. Dipende anche quello dalle brutte sensazioni nell’aria.
Vedevo i miei amici che un attimo prima andavano d’amore e d’accordo, e
un attimo dopo andava tutto in pezzi. E cercavo di far tornare la pace, per
poterci divertire tutti insieme.
Il «sorriso» di cui parlavi, nelle pubblicità: provavi qualcosa di simile
a questo sorriso interiore, o i tuoi sentimenti erano del tutto diversi?
No, avevo un sorriso magnifico. Ho delle foto che mi ritraggono sotto
l’albero di Natale con un sorriso che esprime una felicità pura, totale.
Diciamo che ero contento.
Hai detto che da piccolo sentivi «una forza, una sorta di dolore
selvaggio e di disfacimento, che accompagnavano ogni cosa». Che tipo di
dolore era?
Non so a che proposito lo stessi dicendo, ma ogni volta che finisci
qualcosa, questo qualcosa inizia a disfarsi. All’istante. Proprio come New
York. L’idea di New York è grandiosa: ci sono quartieri d’affari e
residenziali, tanta gente tutta insieme, ottimi ristoranti e teatri, cinema,
un’architettura bellissima! Edifici imponenti e ben costruiti. Sono
funzionali, ma anche scultorei. Però il tempo passa, e guarda come
marciscono i ponti! Le strade, gli edifici vanno in rovina. Ne costruiscono
di nuovi, ma non sono fatti allo stesso modo. Questa del disfacimento e
del fatto che nulla rimane costante è un’altra fonte di preoccupazione.
Non senti più di abitare nei tuoi film come una volta?
No, non così a lungo e in modo altrettanto soddisfacente.
Tu a cosa ti ribellavi?
Non ci ho mai pensato davvero. La chiamano ribellione. Io,
semplicemente, non volevo saperne d’altro che di dipingere, e di vivere
una vita da artista. Era l’unica cosa che mi stimolasse.
Quale orrore?
Be’, lo sforzo di mantenere il segreto.
Il fatto che non sapessero cosa facevi, che vivevi questa vita notturna da
artista, ti ha aiutato a sentirti indipendente?
Sì. Mi sentivo già indipendente, ma non ragionavo allo stesso modo.
Cioè, fumavo le sigarette, da prima che ci fossero tutte le altre droghe.
Non so se avrei potuto fare uso di droghe, ma sono assolutamente nato per
fumare. Mi piaceva molto guardare mio nonno Lynch fumare le sigarette.
Non vedevo l’ora. Amavo il gusto del tabacco. La dipendenza è una cosa,
ma io amavo davvero ogni aspetto: la consistenza del fumo, i gesti, gli
accendini e i fiammiferi. E il gusto, soprattutto.
Eppure nei tuoi film si percepisce che la carne è qualcosa di cui è bene
non fidarsi.
Be’, credo che, finché una persona non ha raggiunto un certo grado di
evoluzione, non si possa proprio parlare di fiducia.
E quale stadio dell’evoluzione sarebbe?
(Pausa) Se credessi all’evoluzione, vedresti che ci sono diversi livelli
nella crescita dell’essere umano. Diversi gradi di consapevolezza o
coscienza. Al termine di questo percorso evolutivo vedresti una persona
totalmente consapevole e conscia di sé. E con un mazzo di carte completo.
E una volta che hai in mano un mazzo di carte completo, secondo me sei
abbastanza degno di fiducia.
La desideravi molto?
Ah sì, ci puoi scommettere!
Ti sentivi un fallito?
Sì. Mi ci hanno fatto sentire, e ci ho creduto. Anche in passato, come
durante The Elephant Man, c’erano stati momenti in cui mi sentivo finito,
ma Dune è stato un duro colpo. E i segnali negativi avevo iniziato a
sentirli già in fase di postproduzione.
Cos’è che ti ha fatto temere di essere finito durante The Elephant Man?
Dovevo creare il trucco per Elephant Man. E anche stavolta lavorai per
due mesi, forse più, in Inghilterra, e il risultato fu un disastro totale,
assoluto, perché non ero attrezzato a creare qualcosa per un essere umano.
E non sapevo come funzionassero certe cose. Alcune parti erano
interessanti, ma nel complesso era un disastro. Per quattro notti ebbi gli
incubi, ma quando mi svegliavo era peggio. Mel Brooks [produttore del
film] venne in Inghilterra e trovò la persona giusta per realizzarlo in
tempo. L’atteggiamento positivo di Mel mi salvò dal tormento di sentirmi
un fallito.
Ti eri mai sentito così prima, durante gli anni in cui hai svolto tutti quei
lavori deprimenti, prima e dopo la scuola?
No. All’epoca mi ero sentito più che altro frustrato. C’è un mare di
gente che si sente così, e per me è durata un bel pezzo. Per poter dipingere
un quadro servono tele, cavalletti, colori, pennelli, trementina. Ci vuole un
posto dove dipingere. Ci vuole tempo. E serve una certa libertà mentale,
per pensare al quadro. Ma se hai un lavoro, o altre responsabilità, o abiti in
un appartamento dove ti fanno causa se schizzi tutto quanto di vernice? Ci
sono tanti ostacoli che si frappongono al mestiere di pittore. Anche solo la
spesa iniziale. È un problema quasi insormontabile. È sconcertante quanto
ci voglia solo per cominciare. Se vuoi dedicarti alla fotografia, solo per
avere una camera oscura... ci sono tante cose che ti limitano. È proprio
scoraggiante. Io mi sono sentito così per tutti quegli anni, perché non ero
mai pronto per lavorare.
Non sto dicendo che non esista anche là fuori sulla Trentaquattresima
Strada, ma è decisamente presente, in modo specifico, nella tua visione del
mondo.
Potrebbe essere per varie ragioni: in parte ciò che percepisco là fuori. In
parte, le storie che mi attirano. Quella tensione. Sai, io vedo i film come
sempre più separati dalla realtà esterna, qualunque essa sia. E li considero
più come favole o sogni. Per me non sono politici né didascalici in nessun
modo. Sono solo delle cose. È un altro mondo in cui immergersi, se vuoi.
Ma devono obbedire a certe regole. Stessa cosa per un quadro. E queste
regole sono astratte e si trovano in natura.
Una di queste è il contrasto. Non può essere una linea piatta e dritta di
pura felicità. La gente si addormenterebbe. Quindi ci sono conflitti e lotte
all’ultimo sangue. Mi piacciono i gialli con un assassinio. Mi prendono,
perché c’è del mistero e hanno a che fare con la vita e la morte. Quindi mi
acchiappano subito. Rimani deluso se la storia è banale o se non è ben
strutturata e non ti dà soddisfazione. Ma quando esordisci dicendo
«giallo» e «assassinio», io mi appassiono sempre, e se ci aggiungi «hotel»
o «fabbrica» mi ci appassiono ancora di più.
Hai parlato di vita e morte. È interessante che in tutti i tuoi film ci sia
un parto – o una nascita in senso astratto – e anche scene di morte, di
omicidio o intento omicida. E alla fine, in Cuore selvaggio la scena del
parto è una scena di morte: un aborto. Per te il tema più importante è
come nasciamo e come moriamo?
Assolutamente. (Pausa.)
È un chiodo fisso?
Penso di sì. (Ride.) Dev’essere così. Sai, è nelle interviste che a volte
riesci ad articolarlo. Il più delle volte è un pensiero che esiste a livello
astratto. Non ti preoccupi neppure delle cose che hai già fatto, o di dove
siano collocate, se siano sproporzionate e via dicendo. Ti limiti a seguire il
treno dei pensieri che ti porta a un nuovo mondo e a un’altra storia.
Cioè, i treni sono diretti a ogni genere di destinazione e attraversano
ogni genere di paesaggio...
Ma potrebbero finire tutti nello stesso posto. (Ride.)
Dai, David.
No, perché già la parola malattia, usata in questo modo... è così bello
lasciarla come idea astratta. Una volta che diventa specifica, smette di
parlare a tanta gente, mentre l’idea astratta contiene una verità per tutti.
Che mi dici di Lula in Cuore selvaggio? Nel film Lula [sempre Laura
Dern] è senz’altro indietro rispetto alla Lula del romanzo, come
assertività, aggressività e controllo sul mondo circostante. Nel libro Lula
dice a Sailor [Nicolas Cage] dove scendere, gli ordina quando deve
ripartire. Lo trova che balla con un’altra donna in un locale e gli tira
addosso una bottiglia, colpendolo, e gli fa capire quanto è arrabbiata con
lui; mentre nel film c’è una scena in un locale in cui Sailor in un certo
senso la «salva», e difende il proprio territorio quando un altro cerca di
ballare con lei. Non si potrebbe dire che nel tuo adattamento
cinematografico Lula è una donna meno moderna?
(Lunga pausa. In tono seccato) Mah, non so niente delle donne
moderne. Tranne che Lula è... si dà il caso che quelle altre due scene le
abbiamo girate entrambe, poi per motivi di tempo e altro sono state
eliminate. Magari lei non tira una bottiglia addosso a Sailor, ma ci sono
comunque parecchi indizi che lei se la prenderebbe moltissimo se lui
facesse una cosa del genere. Si vede dal modo in cui lei si comporta.
Quello che mi attirava di Sailor e Lula è il loro rapporto: sono affettuosi e
innamorati l’uno dell’altra, e si trattano con rispetto, a mio giudizio. Non
so granché dell’uomo o della donna moderni, ma questa è una storia
d’amore moderna, perché Sailor sa essere freddo e macho, ma comunque
tenero con Lula, e la tratta alla pari. Non le parla mai con condiscendenza,
le parla e basta. E lei fa lo stesso con lui. Uno dei motivi per cui amo il
loro rapporto e il libro è che sono alla pari.
Ma nel libro lei è suscettibile all’idea che lui possa trattarla con
condiscendenza. Non le va che lui la chiami sempre «Nocciolina». Dice:
«Non sono sicura che mi piaccia essere chiamata sempre Nocciolina... mi
sembra di trovarmi alla fine della catena alimentare».
Ah, questo non me lo ricordo nemmeno. No, lei adora essere chiamata
Nocciolina.
Allora lasciami fare un’ultima osservazione. Alla fine dei tuoi film si
percepisce il potere di redenzione della fantasia, dell’immaginazione in
sé. Si avverte da parte tua l’intento, non puerile ma forse simile a quello
di un bambino, di immaginare qualcosa di totalmente nuovo, come se a
salvarti fossero le potenzialità della tua immaginazione.
Sì. Ripeto, è difficile parlare in generale, ma credo – per quanto mi
riguarda – nella forza dell’evoluzione. Trovo interessante vivere
nell’oscurità e nella confusione, ma si può andare oltre, sollevarsi e vedere
le cose per come sono davvero. Capire che esiste una sorta di verità totale,
se solo si riesce a raggiungerla, a viverla, a sentirla e via dicendo. Credo
sia un obiettivo molto lontano. Nel frattempo, ci sono la sofferenza e
l’oscurità e la confusione e le assurdità, e la gente gira in tondo. È
fantastico. È come uno strano carnevale: molto divertente, ma anche
molto doloroso.
Dunque non sei contrario all’idea che i tuoi film abbiano un significato.
Assolutamente no. Ma hanno significati diversi a seconda di chi li vede.
Speriamo.
Già. Ma anche così, alcuni hanno suppergiù lo stesso significato per un
gran numero di persone. Va bene. Purché non sia un solo messaggio,
propinato a forza. È a questo che si riducono i film su commissione, e io lo
trovo deprimente. È difficile non comunicare nessun messaggio, perché la
gente interpreta qualsiasi cosa. Non puoi fare un film privo di messaggi, è
impossibile.
Dunque dire che l’arte non deve necessariamente avere senso perché la
vita non ha senso...
La vita è molto, molto complessa e i film dovrebbero poterlo essere
altrettanto. Si avvicinerebbero di più alla realtà.
Esiste un momento, in questo processo di filtraggio – i quindici miliardi
di decisioni – in cui incontri un limite che intuitivamente vorresti valicare,
ma poi ti trattieni perché la gente lo troverebbe eccessivo?
Sì. Ed è successo con Cuore selvaggio. Quando fai un film, è come una
minestra. Buona parte evapora prima che la versi nella zuppiera, un altro
po’ cade dal mestolo, e un altro po’ ti rimane fra i denti e lo risputi più in
là: è importante solo quello che alla fine ti va nello stomaco, cioè quel che
va sullo schermo. Il processo di realizzazione del film termina soltanto
quando gli spettatori si siedono in sala. Come dicono, è il proiezionista a
decidere il montaggio finale. Si possono tagliare dei pezzi, rimontare le
bobine. Quindi si continua a verificare la propria intuizione, oppure, come
in Cuore selvaggio, se un gran numero di persone si alza ed esce dalla
sala, devi prendere una decisione.
Quale pensi che sia la causa di tanto disagio per gli spettatori che
vedono certe immagini?
Non so. Anche qui ci vorrebbe un medico esperto per dircelo. So solo
che mi ero spinto troppo in là, e avevo compromesso la loro
partecipazione alla storia. Se ne sono staccati, poi si sono alzati dai loro
posti e sono usciti dal cinema. E quelli che sono rimasti fino alla fine non
si sono mai più appassionati al film. Non posso proprio dargli torto.
Ci sono cose che tu non guardi, per motivi che non siano la noia?
Ah, certo. Non so quali siano, ma tutti noi abbiamo cose che non
vogliamo vedere.
Ti ha stupito il fatto che ci sia voluto uno stimolo esterno, una reazione
del pubblico, per farti eliminare quella scena di Cuore selvaggio?
Sì. È stato allora che ho iniziato a cambiare idea sulle proiezioni in
anteprima. Centinaia di persone sedute in sala hanno il loro peso. Non è
tanto quello che scrivono sui foglietti alla fine della proiezione, è la
sensazione che si prova a stare seduti lì insieme a loro. Non importa chi
siano. C’è una reazione condivisa. È importante vedere il film sentendo
quella presenza. Si impara tantissimo. Se ci fosse una macchina per
riprodurre la sensazione di trovarcisi in mezzo... ma non c’è. Servono,
tutte quelle anime sedute accanto a te. Senti le cose in modo
completamente diverso. È incredibile. È spaventoso ma molto importante.
Il motivo per cui alla gente non piace è perché è difficile da sopportare.
Per cui dicono: «Non mi piacciono le proiezioni in anteprima. Non mi
convincono». Be’, a me non piacciono, ma mi convincono. Oggi ci credo
davvero.
Quindi anche se a livello macroscopico non t’importa quello che pensa
il pubblico tu vuoi comunicare, giusto? Non fai i film soltanto per te
stesso.
No, non li fai solo per te stesso; ma non li fai per... diciamo che non
capisco come funziona. Puoi pensare di farli per te stesso, ma quando ti
trovi seduto insieme a trecento persone, ti rendi conto che se davvero fosse
così avresti agito in modo diverso. Non capisco esattamente come
funziona, ma gli spettatori ti dicono qualcosa con la loro presenza. Certe
illusioni che avevi coltivato cadono di colpo e non funzionano più quando
hai intorno trecento persone. Insomma, grazie a loro puoi fare un
autoesame.
Seconda sessione
Parliamo di alcune tue opere che non sono state prodotte, a cominciare
dal progetto più vecchio, Gardenback.
Gardenback è un buon esempio. Avrebbe dovuto essere un corto. Molto
astratto. È la sceneggiatura che inviai insieme a The Grandmother al
Centro di studi cinematografici avanzati. Nessuno capì cosa stessi
cercando di fare. Non posso dargli torto.
Dopo Velluto blu eri interessato a un altro paio di progetti. Che mi dici
del Delitto della terza luna, il romanzo che Thomas Harris ha scritto prima
del Silenzio degli innocenti?
Me ne sono occupato per un po’, finché non mi sono stufato. Stavo per
entrare in un mondo che per me era davvero molto violento. E
completamente degenerato. Una di quelle cose senza possibilità di
redenzione.
Quindi quel film non aveva proprio posto nel tuo orizzonte?
Per come la vedevo io, non volevo nemmeno che ci entrasse. Poi
l’hanno fatto. Si intitolava Red Dragon.
Il tuo primo progetto insieme a Mark Frost, che non è mai decollato,
era Goddess. Cosa puoi dirmi al riguardo?
È stato allora che ci siamo conosciuti, io e Mark. Mi è sempre piaciuta
Marilyn Monroe, come a milioni di altre persone, ed ero affascinato dalla
sua vita. Dunque quando si è presentata questa opportunità ero interessato,
ma sai com’è, no? Mi ci sono avvicinato con cautela. Dovevano incaricare
un autore. Alla Creative Artists Agency piace accoppiare la gente, e mi
hanno messo con Mark. Ci siamo conosciuti e l’ho trovato simpatico, e
avevamo un programma. Abbiamo incontrato Anthony Summers, l’autore
del libro. Più andavamo avanti e più ci sembrava di avere a che fare con
degli UFO. Sono affascinanti, ma non puoi dimostrare che esistono. Anche
se vedi delle foto, o leggi delle storie di gente ipnotizzata, non ne hai mai
la certezza. Stessa cosa con Marilyn Monroe e i Kennedy e tutto il resto.
Ancora oggi non saprei dire cosa fosse reale e cosa fosse inventato. È
diventato sempre più un biopic sui Kennedy e sempre meno la storia di
un’attrice che stava crollando. Ho perso l’entusiasmo. E quando abbiamo
inserito nella sceneggiatura il nome di quello che secondo noi l’aveva fatta
fuori, lo studio si è tirato indietro subito.
Cioè non l’hai fatto per mettere in mostra il tuo petto virile?
Avevo paura che poi tanti altri si sarebbero sentiti inadeguati. Mi
dispiace.
Fai ancora i kit? [Lynch era solito costruire dei «kit» con parti di
piccoli animali, come delle scatole di montaggio biologiche.]
Ho un grande desiderio di costruire dei kit. Ho fatto un’anatra e un pollo
mentre giravo Dune. Ho fatto un pesce. Durante Velluto blu non ne ho fatti.
E nemmeno di recente. Quello dell’anatra non è venuto bene. La fotografia
era molto sfocata, non si leggevano le scritte. Volevo farne uno di un topo.
Ho una foto, che potrebbe finire in un libro, del kit di un pesce per
bambini, molto più semplice della versione per adulti.
Il periodo dopo Velluto blu, in cui eri bloccato dal fallimento del tuo
produttore Dino De Laurentiis, è stato...
Tribolato?
Sissignore.
Sì, decisamente. All’epoca stavo quasi per girare One Saliva Bubble.
Avevamo tutti gli scout, avevamo messo insieme il cast, eravamo pronti a
partire. Dino continuava a rimandare, rimandare. Alla fine divenne chiaro
che non avrebbe mai visto la luce: non c’erano soldi. Poco dopo la sua
società ha dichiarato fallimento. Avevamo visto i segni premonitori.
Ma alla fine del primo anno della serie guardavi per vedere chi erano
gli sponsor, ed eri contento che fossero grosse compagnie; eri cambiato e
diventato più partecipe del mondo della pubblicità.
Sì, io... è vero. Ora faccio parte dell’assurdità. (Ride.)
Credi che per queste persone si tratti di un semplice atto della volontà?
Che «decidano» di compiere il male soltanto perché ne hanno voglia?
No, credo che sia una faccenda complicata. Penso che ci sia un disturbo,
di natura elettrica o chimica, e alcuni lo ritengono ancora più profondo.
Uno squilibrio per cui, mentre ti sorridono, gli vedi negli occhi qualcosa
che ti fa tremare le ginocchia. E non cambiano idea neppure se gli sorridi a
tua volta. Le cose da mangiare che gli offri, le scuole che frequentano:
niente di tutto ciò fa differenza per queste persone. Faranno quello che
vogliono in ogni caso.
Ovviamente il pubblico è goloso di questo tipo di personaggi, non solo
al cinema e in televisione, ma anche nei notiziari, come se ci liberassero
dai vincoli della civiltà. C’è una sorta di libertà sfrenata in ciò che fanno,
che esercita un’attrattiva.
Non credo affatto che sia così. Noi non vogliamo fare certe cose. Siamo
affascinati solo da... non ho mai capito esattamente in cosa consista, ma
credo che vogliamo comprenderlo in modo da poterlo sconfiggere. Intanto,
vogliamo vederlo coi nostri occhi, per assicurarci che sia vero. E poi
vogliamo saperne di più per poter intervenire in qualche modo. È solo
troppo, troppo... c’è qualcosa che cattura il nostro interesse, ma non credo
si tratti di morbosità.
Hai compiuto una scelta estetica precisa nel renderlo così evidente e
diretto, anziché evocarlo in maniera obliqua o subliminale. È stata una
decisione difficile?
Sailor e Lula sono semplicemente affascinati dal Mago di Oz. Ce
l’hanno nel cuore, come tanti altri.
Come descriveresti Cuore selvaggio? Non vale dire, come hai fatto in
passato, «Un road movie, una storia d’amore, un dramma psicologico e
una commedia violenta».
Be’, allora non saprei come descriverlo. (Lunga pausa) Non ho una
definizione sintetica.
Sì. Hai detto che Jeffrey impara una lezione sul mondo e intanto aiuta
Dorothy. Sosterresti la stessa cosa a proposito di Cuore selvaggio?
Be’, come dico sempre, tutti guardiamo le cose da prospettive diverse. E
credo che Sailor e Lula cerchino di vivere decentemente. Si dibattono nel
buio e nella confusione, come tutti. È difficile dirlo. Non lo so con
certezza. L’idea che ci sia posto per l’amore in un mondo freddo per me è
molto interessante.
Alla fine del film, la strega buona sospesa nella bolla ci dice: «Non
fuggire dall’amore, non fuggire dall’amore, non fuggire dall’amore». Si
potrebbe accusare David Lynch di mandare un messaggio tramite Western
Union?
No. È la strega buona che parla.
Nel tuo primo film da studente, il loop animato di dieci secondi, alcune
teste prendono fuoco e poi vomitano. In Cuore selvaggio l’immagine
dominante è quella del fuoco e il vomito è un motivo ricorrente...
(Ride.) Non riesco a liberarmene!
Non ci sono molti film in cui si vedono una madre e una figlia che
vomitano!
Sì, sono un vero spasso. Valgono da sole il prezzo del biglietto.
Hai detto che cerchi sempre di non essere troppo indaffarato, perché in
quel caso non puoi tuffarti e pescare il pesce più grosso. E invece ora sei
tremendamente indaffarato!
Sì, e infatti non sto prendendo nessun pesce grosso. In questo momento
sono su un motoscafo, e sto pescando a strascico per prendere qualcosa
che non mi rallenti: i pesci in superficie. Dovrò spegnere il motore, gettare
l’amo e dare più lenza possibile.
Anni fa hai detto che i tuoi film rivelano e allo stesso tempo nascondono
le tue paure. Pensi che sia ancora così?
Quando ti affidi all’intuito, all’inconscio o comunque vogliamo
chiamarlo, non puoi filtrare certe cose. Devi lasciarle affiorare e
svilupparsi, senza interruzioni. Una volta che cominci a intellettualizzare
troppo, o a parlarne con l’analista, ti ritrovi a dire: «Oddio, no, che brutto,
non voglio che la gente pensi questo!», e inizi a filtrare, a chiudere quel
piccolo condotto. Quindi in un certo senso è meglio non preoccuparsi
troppo dei significati o delle interpretazioni, altrimenti rischi che la paura
ti impedisca di andare avanti.
A volte una cosa perde la sua bellezza se le dai un nome preciso. Non è
stato questo a tenerti lontano dalla psicanalisi?
No, anzi, una volta ci sono andato. La gente ha, o almeno io ho, dei
comportamenti abitudinari. Io volevo indagarne uno in particolare.
È stato destabilizzante?
Sì, per me e per altre persone.
Autodistruttivo?
No. È stato... sì. In un certo senso sì. Insomma ho deciso di andare da
questo psicanalista raccomandatomi da un amico. Mi ha fatto una buona
impressione, ci siamo seduti nel suo studio, abbiamo parlato un po’ ed è
stato interessante. Mi sono reso conto che spesso hai bisogno di parlare
con qualcuno che non ti giudichi. Ed è un po’ questo, il bello. Capivo che
sarebbe stato positivo per le mie idee. Il semplice fatto di pagare qualcuno
perché ti ascolti. E non solo, ma che sia anche affascinato da un punto di
vista tecnico, per cui ti sprona a parlare. È stato interessante, ma quando
gli ho chiesto se potesse influenzare la mia creatività, mi ha detto:
«Forse». E allora non se ne è fatto più nulla.
Influenzare non significa necessariamente guastare. Cambiarla,
magari?
Qualunque cosa potesse migliorarla andava bene. Ma se non ricordo
male gli chiesi se potesse avere degli effetti negativi, o interromperla;
questo non l’avrei accettato. Sapevo che se disturbi troppo il nido rischi
di... non sai cosa potrebbe succedere.
Un tempo eri come dominato dalla paura, dal terrore di essere costretto
entro dei limiti.
Sì, penso di sì.
In uno dei suoi ultimi libri, Camus ipotizza che per risolvere i problemi
esistenziali serva del denaro, perché il denaro è libertà.
Sì, fino a un certo punto è senz’altro vero. Ovviamente non ti aiuta
granché se hai una malattia grave, o se vuoi disperatamente andare su
Marte.
Hai detto che devi essere felice per poter creare, ma anche che devi
creare per poter essere felice. Abbiamo un problema simile a quello
dell’uovo e della gallina.
Sì, è come se creare ti rendesse forse più felice, ma se sei davvero giù di
corda non ti va di creare niente. Però se ti prende davvero, provi una sorta
di felicità: per esempio a incollare insieme dei pezzi di legno. Ti piace il
legno, c’è la giusta quantità di sole, hai colla a sufficienza. E un po’ di
filo. Sai come si comportano il legno, la colla e il filo, e la tua
immaginazione vede già l’opera finita. Un po’ di azione e reazione. È una
cosa fantastica, che ti può rendere più felice per il solo fatto di compierla.
Parti con l’umore giusto per farla, il che è già una forma di felicità.
Diversi anni fa, hai detto che la tua vita era divisa fra innocenza e
ingenuità da una parte, e morbosità e orrore dall’altra. Avverti ancora
questa polarizzazione?
Sì, e credo che mio padre... lui va per i settanta, ma lo vedo come una
persona davvero innocente, e un po’ ingenua come lo sono io. Penso che
entro certi limiti sia un bene, purché non faccia di te uno sciocco. Gli
europei sono molto più smaliziati, in generale. Da queste parti invece c’è
ancora un certo clima di innocenza e ingenuità.
Come il fatto che alcuni anni fa in Africa Bokassa gettasse i suoi rivali
in pasto ai coccodrilli? O che banchettasse con la carne delle sue vittime?
Cose come questa ti sconvolgono ancora?
Ci puoi scommettere!
Sì, invece.
Ci sono molte cose che nuotano insieme.
Oltre agli spermatozoi.
(Ride.) C’è un sacco di roba.
Orribile e morbosa?
Sì. Delle idee, insomma. Perlopiù è tutto a livello di idee. È quella
l’ultima frontiera, secondo me.
Pensi di no?
Assolutamente niente.
Ma non credi che i motivi che ti hanno spinto a votare per Reagan – non
necessariamente a livello intellettuale, ma più di pancia – siano legati alla
tua estetica, e a quello che scegli di mostrare, e al modo in cui decidi di
rappresentarlo?
(Lunga pausa) Si potrebbe pensare di sì, ma in realtà no. Però tante cose
hanno origine da un’idea. È un discorso molto lontano da me. So che è
importante, ma a me non sembra tale.
Jack Nance dice che tu sei il tipo più riservato che lui abbia mai
conosciuto.
Be’, probabilmente a te sto raccontando troppe cose. (Risata
imbarazzata.)
La tua risposta fu: «Sto facendo cose che non voglio far vedere ad
altri».
All’epoca probabilmente era vero. Non faccio sempre cose del genere a
casa mia. (Ride.)
Mi sto solo chiedendo se la tua passione per i segreti derivi dal fatto
che conferiscono un potere, una sorta di controllo. Penso che uno dei
motivi per cui i segreti sono tanto importanti per gli adolescenti è che per
loro il mondo sfugge completamente a ogni controllo.
Non so. A quel tempo per me i segreti erano qualcosa di traumatico,
perché stavo facendo molte cose che pensavo potessero influire
negativamente sul mio mondo. Vivevo in uno stato di terrore. I segreti e i
misteri ti offrono una sorta di piccolo corridoio in cui puoi galleggiare e
nel quale possono accadere molte cose meravigliose.
Tu usi due tipi molto diversi di musica: da una parte quella di Angelo
Badalamenti, che è romantica e lirica e vicina alla tradizione italiana, e
dall’altra il rock and roll.
Angelo Badalamenti ha composto più musiche per Velluto blu che per
questo film, mentre Cuore selvaggio è fatto con musiche già esistenti.
Sono state scritte appositamente due canzoni, ma solo una «Up in
Flames», è stata usata nel montaggio finale. Koko Taylor, la cantante blues
di Chicago, era assolutamente quello che ci serviva. Un’intera storia
prende vita per il semplice fatto che lei canta una singola parola. È
grandioso.
È stato così anche per la ripresa di Harry Dean Stanton nella sua auto
quando si mette in viaggio per la prima volta?
Ho sentito un pezzo che conoscevo, «Baby Please Don’t Go Down to
New Orleans», durante le riprese. Alcune stazioni radio trasmettono
vecchie canzoni, musiche degli anni Cinquanta e Sessanta, e anche degli
anni Trenta e Quaranta. E a volte capita di sentire il pezzo giusto proprio
quando ne hai bisogno.
Ha mai improvvisato?
Nella sua prima scena si è allontanata moltissimo dal testo che avevo
scritto. Ha colto perfettamente lo spirito della scena, ma non ha recitato
neanche una parola. Quindi l’ho presa da parte e da quel momento in poi
abbiamo lavorato benissimo insieme. Non era brava ad attenersi al
copione, ma amava molto interpretare un’emozione e lasciarsene
trasportare. Non è stata un’impresa da poco contenere tutta quell’energia.
Il legame intimo fra la superficie delle cose e ciò che sta al di sotto era
già centrale in Velluto blu.
Sì, senza dubbio. Ma tutti i miei film trattano di questo. Forse sono
ossessionato da ciò che è nascosto, forse questo tema mi assilla di
continuo. Gli scienziati e gli investigatori privati osservano il mondo e
scoprono cose nuove ogni giorno, ma sono sempre consapevoli di essere
ben lontani dal sapere tutto.
Agli inizi della tua carriera eri noto per aver lavorato molto sul suono
insieme ad Alan Splet.
Il sonoro è molto importante perché è davvero metà del film. Nel
cinema il tutto può essere maggiore della somma delle parti, se azzecchi il
suono, le immagini e la sequenza delle scene. Quando lavoro al suono
voglio che sostenga il film e le emozioni ma anche, se possibile, che
contribuisca a raggiungere un livello più elevato. Finché il sonoro non è a
posto non hai ancora visto davvero il tuo film. Ma quando ci arrivi
iniziano ad accadere cose magiche.
Cosa hai fatto nei tre anni fra Velluto blu e Cuore selvaggio?
Ho cercato di produrre Ronnie Rocket e, ancora una volta, One Saliva
Bubble. Avevo scritto Ronnie Rocket dopo Eraserhead. Mi piaceva molto
la mia idea, che era molto astratta. Era una sorta di commedia
dell’assurdo. In un certo senso assomigliava a Eraserhead col suo mondo
strano e funereo. Avevo già provato senza successo a produrlo, in
particolare con Francis Coppola prima che la sua compagnia Zoetrope
fallisse. Poi con Dino De Laurentiis ed è fallito anche lui! Ma in realtà nel
secondo caso non si è trattato di motivi finanziari. È stato perché Dino non
capiva davvero il progetto e non lo sentiva suo. Ho avuto la sensazione che
avremmo avuto dei problemi se, una volta finito, il film non avesse avuto
la forma che volevo io. Mi piacerebbe ancora produrre Ronnie Rocket, ma
con l’aiuto di persone che non sono spinte dal desiderio di grossi
guadagni. È un film che riguarda soprattutto le radici del rock and roll,
anche se non è specificamente storico. È come se volessi un film sugli
anni Cinquanta, intendo il 2050... Si svolge in un altro mondo con molte
megafabbriche, come ce n’erano una volta. Oggi le fabbriche sono più
piccole, più pulite, e tutto è computerizzato. E mi fanno paura. Il cast era
già deciso, con Isabella Rossellini e il piccolo Mike, il nano di Twin Peaks,
che doveva interpretare Ronnie Rocket.
One Saliva Bubble era un film pazzoide, una sorta di commedia
familiare dove non accade nulla di spaventoso. C’erano un sacco di
equivoci, un po’ come in Una poltrona per due, in cui un nero prende il
posto di un bianco e viceversa. L’idea mi venne durante un viaggio in
aereo, ma all’epoca non mi rendevo conto che si stavano producendo
venticinque milioni di film simili, ed è uno dei motivi per cui non l’ho
realizzato. Ma se la commedia degli equivoci è un genere, perché non
farne un altro? Steve Martin era molto interessato a uno dei ruoli. Anzi
avrebbe dovuto interpretarne due. E anche un altro attore avrebbe avuto
una doppia parte, per cui sarebbe stato zeppo di equivoci!
A questo proposito, Kyle MacLachlan, che era nei tuoi primi film e
anche in Velluto Blu, non è in un certo senso un tuo alter ego?
Così dicono. Ma io non ci ho mai pensato. Si potrebbe dire lo stesso di
Nicolas Cage.
Twin Peaks e Velluto blu sono un po’ come il mondo di Frank Capra
alla rovescia. Il sogno americano che diventa incubo. Che rapporto ha
questo con la tua infanzia?
Credo che a un certo punto – e deve accadere a tutti – ho intravisto la
possibilità di un mondo ideale e perfetto. A poco a poco mi sono reso
conto quanto quell’idea si sia deteriorata, quanto il mondo sia diventato
sempre più malvagio. Mio padre, che oggi è in pensione, ma che lavorava
per il Dipartimento dell’Agricoltura, ha fatto degli esperimenti sulle
malattie delle foreste, sugli insetti, e aveva a disposizione foreste
vastissime per le sue ricerche. Era un saggio dei boschi. Mia madre si
occupava della casa, ma insegnava anche lingue.
Una volta hai detto che il primo film che hai visto è stato Wait Till the
Sun Shines, Nellie, di Henry King.
Non voglio rivedere mai più quel film. Circa cinque anni fa lo hanno
dato in televisione. Ne ho visto un pezzetto e non potevo credere che fosse
così diverso da come lo ricordavo. Ho cambiato subito canale. Però sarei
curioso di sapere se riguardandolo rivivrei il mio stato d’animo di
bambino. Quando ero piccolo lo vidi al drive-in coi miei genitori. C’era
una scena che mi fece tantissima impressione, di una bambina con un
bottone incastrato in gola. Sono certo che fosse brevissima, e che non si
vedesse quasi nulla, ma ricordo ancora l’impressione che mi fece quel
bottone incastrato nell’esofago della bambina. In ogni caso è il primo film
che ricordo di aver visto.
Andavi al cinema da bambino?
Praticamente mai. Nell’Idaho ogni tanto ci andavo il sabato pomeriggio
perché c’era un cinema in fondo alla strada. Mi piaceva raccontare le
storie dei film che vedevo. Mi sembravano molto realistiche, come a tutti,
immagino. Ma non mi sentivo chiaramente destinato a fare dei film.
Apprezzavo molto le musiche di Henry Mancini, e ricordo Scandalo al
sole con Sandra Dee e Troy Donohue. Era fantastico guardare quel genere
di soap opera insieme alla tua ragazza. Ti faceva sognare!
(Da Positif, ottobre 1990, tradotto dal francese. Per gentile concessione.)
UN’INTERVISTA A DAVID LYNCH
DI KRISTINE MCKENNA
La seguente conversazione con David Lynch ha avuto luogo nella sua casa
sulle colline di Hollywood la mattina dell’8 marzo 1992. Il giorno in cui
abbiamo parlato, Lynch era appena tornato a Los Angeles da New York,
dove aveva lavorato insieme al compositore Angelo Badalamenti alle
musiche dell’imminente adattamento delle sua serie televisiva I segreti di
Twin Peaks; il giorno seguente doveva ripartire per Berkeley, dove
trascorrerà i prossimi mesi a missare il sonoro del film. Lynch è
perennemente in viaggio, e non sorprende che la sua vasta casa a più piani
dia la sensazione di una dimora il cui occupante è via per buona parte del
tempo. È quasi spoglia – qualche sedia anni Cinquanta, un divano basso e
un tavolino – dipinta con colori spenti, e non c’è nulla alle pareti (di
recente Lynch ha comprato due stampe della sua fotografa preferita, Diane
Arbus, ma non le ha appese). Nella cucina si trovano la sua preziosa
macchina del cappuccino insieme a pile ordinate di copioni, video e libri.
È la casa di un uomo indaffarato: non c’è alcuna traccia di ozio e relax.
Il fatto che sia domenica mattina non impedisce che arrivino in
continuazione telefonate di lavoro, e parlando con Lynch fra una chiamata
e l’altra si deduce che nella vita di quest’uomo non ci sono pause; riesce
ad ammassare in ogni singola giornata una quantità straordinaria di
attività altamente creative. Come si vedrà nella conversazione seguente, la
creatività e la vita di Lynch poggiano su una solida struttura di convinzioni
filosofiche. Si potrebbe arguire che è questa struttura a dargli l’enorme
vitalità che è alla base della sua opera variegata e in continua espansione.
Uno dei tuoi quadri recenti, So This Is Love, sembra esprimere una
visione alquanto cupa dell’amore. L’immagine si concentra su una figura
solitaria dalle gambe smisuratamente lunghe, sormontate da una testa
persa in uno spazio tetro e vuoto. Accanto alla testa gli passa
scoppiettando un aeroplano che erutta fumo nel cielo notturno; puoi dirci
qualcosa di quest’opera?
È come un’immagine in negativo della mia infanzia. In realtà il cielo
era azzurro e in Technicolor, e il velivolo era un grosso aereo militare che
produceva un ronzio. L’aereo ci metteva tanto ad attraversare il cielo, e il
rumore che faceva era molto sommesso. Il mondo sembrava più silenzioso
quando passava.
Rivedendo i quadri degli ultimi otto anni, sembra che la tua opera stia
diventando sempre più minimalista; sei d’accordo?
Sì, e il motivo è che provo un anelito alla purezza. Man mano che la mia
vita si fa sempre più complicata, voglio che la mia arte diventi più
semplice perché nella vita tutto ruota intorno al mantenere un equilibrio.
Ho notato anche che le superfici dei tuoi quadri diventano sempre più
modellate e scultoree; è una direzione che hai intrapreso
deliberatamente?
Sì, e vorrei dargli ancora più volume. Ora come ora l’idea della pittura
su una superficie piatta non mi stimola granché. Mi piace l’idea di un
campo dove qualcuno ha scaricato dei rifiuti – il mucchio spicca sulla
superficie del campo, e la cosa mi piace.
Gli aspetti violenti della nostra cultura sono aumentati o eravamo solo
più bravi a disciplinarli in passato?
Oggi sono molto più sviluppati. Il male c’era anche prima, ma era nel
giusto equilibrio con il bene e la vita era più lenta. La gente viveva in
piccole città e fattorie dove ci si conosceva e non ci si spostava più di
tanto, per cui era tutto più pacifico. C’erano sì cose di cui avere paura, ma
ora l’ansia della gente è a livelli stratosferici. La tv ha accelerato le cose e
ha fatto sì che la gente senta molte più cattive notizie. I mass media hanno
sovraccaricato la gente di informazioni, e anche la droga ha un grosso
peso. Con la droga la gente può arricchirsi e andare fuori di testa, e così si
è aperto tutto un mondo balordo. Queste cose hanno creato un nuovo
genere di paura in America.
Hanno avuto anche un ruolo nel crollo dell’istituzione familiare?
Sì, tutte queste cose fanno parte della stessa tensione. Se metti un
martello pneumatico sotto a un tavolo, ben presto tutto quello che c’è
sopra inizia a vibrare e a spaccarsi e a cadere giù. La gente non ha più la
sicurezza del futuro. Se hai un lavoro, è già tanto se riesci a tenertelo per
una settimana. Macy’s è andato in fallimento e non ci sono più certezze.
Qual è l’aspetto più difficile del successo di massa che hai conosciuto
con Twin Peaks?
È stato abbastanza problematico. È bello quando alla gente piace una
cosa che hai fatto, ma in un certo senso è inevitabile che la gente dopo un
po’ si stufi e si appassioni al tormentone successivo. Sei impotente di
fronte a questa dinamica, e la senti come un dolore sordo. Non una fitta
acuta – è più come una malinconia, per il fatto di vivere nell’epoca in cui
tutti sono a casa da soli. I cinema d’autore stanno scomparendo. Al loro
posto abbiamo le multisale dove proiettano dodici film
contemporaneamente, e sono quelli che la gente va a vedere. La
televisione ha abbassato il livello e ha reso popolari certi prodotti, la tv ha
un ricambio veloce, non ha molta sostanza, ha le risate registrate e basta.
Una volta hai osservato: «Questo è un mondo fatto di lezioni, ed è
nostro dovere imparare delle cose»; perché è nostro dovere?
Per poterci diplomare. La scuola è emblematica del percorso che
compiamo nella vita. Ci si diploma e si arriva in un altro posto che è così
incredibile da non poterlo neanche concepire adesso. L’essere umano ha il
potenziale di fare quest’esperienza che non ha niente a che vedere con
gang e automobili. È una cosa stupenda che sta su un piano superiore. Ma
bisogna sapersi organizzare per accedere a quel mondo.
Tu preghi?
Sì.
D: Signor David Lynch, vorrei farle una domanda in due parti. La prima
è: quando ha iniziato a girare il film, cosa voleva – o sentiva il bisogno di
– aggiungere a una serie che era già stata trasmessa in tutto il mondo? La
seconda è: crede che il film sia comprensibile da parte di chi non sa nulla
dei Segreti di Twin Peaks? Fin dall’inizio si presuppone che lo spettatore
conosca i personaggi.
LYNCH: Il fatto è che io sono innamorato del mondo di Twin Peaks e dei
personaggi che lo popolano. Volevo tornare in quel mondo prima del punto
in cui comincia la serie e vedere cosa c’era, vedere davvero cose che
prima avevamo [solo] sentito dire.
Il rischio, naturalmente, è che più sai riguardo a qualcosa, più
profondità di valutazione puoi ricavarne [sic]. Ma penso, anche se molte
volte in passato mi sono sbagliato, che si possa ricavare molto [dal film]
anche senza aver visto nulla della serie.
Il film contiene cose che gli altri non capiranno bene come chi ha visto
la serie. Ma le astrazioni sono una cosa buona ed esistono in ogni caso
tutto intorno a noi. A volte possono evocare nello spettatore un’esperienza
interiore emozionante.
D: Signor David Lynch, dal film mancano molti personaggi della serie
televisiva, come Audrey. Perché?
LYNCH: Per vari motivi. Sono state girate alcune scene che non
trovavano la giusta collocazione all’interno della storia. E alcuni
personaggi, già nella sceneggiatura, non erano presenti nella trama. È stata
una cosa un po’ triste perché avrei voluto averli tutti, ma non avevano una
presenza significativa nell’ultima settimana della vita di Laura Palmer.
D: La vita [?] del sogno americano appare sempre nei film. Siamo molto
consapevoli di questa idea. Lei sta giocando con il concetto della famiglia
e della coscienza sociale. Cerca di mettere in discussione il sogno
americano?
LYNCH: No, cercavo di creare la storia di Teresa Banks [che viene
assassinata all’inizio] e gli ultimi sette giorni di Laura Palmer. (Applausi.)
D: Penso si possa dire che tutti quanto sono innamorati di Twin Peaks
[la serie], a parte alcuni idioti scelti che hanno a casa un apparecchio che
misura gli indici di ascolto. Cosa possiamo aspettarci per il futuro
televisivo di Twin Peaks? E potrebbe anche descriverci brevemente a che
punto sono Ronnie Rocket e One Saliva Bubble?
LYNCH: Posso dirvi quasi con certezza che non ci sarà più Twin Peaks in
televisione. Ma come ho detto prima, è un mondo che amo. Non si sa se
potrò ancora visitarlo in futuro. Ma per me ci sono ancora delle cose da
chiarire, vicende da concludere, e sarebbe emozionante provare a scoprire
cosa succede.
Qual era invece l’altra domanda?
D: Sto cercando di scrivere una tesi sul suo lavoro, e nei suoi film, con
l’eccezione di Teresa Ray [?], la madre è sempre dal [?] lato oscuro,
mentre in Twin Peaks lo è il padre. È perché deve instaurare una relazione
sessuale con Laura o per qualcos’altro?
LYNCH: Ripeto, questo ve lo spiegherò in un altro modo.
D:La chitarra?
LYNCH: No.
D (in francese): Signor Lynch, c’è un intento parodico nel modo in cui
usa gli effetti sonori?
LYNCH: Ah, no.
D: Abbiamo saputo che il film uscirà in Giappone prima che nel resto
del mondo. È stato il successo della serie in Giappone a...?
LYNCH: Credo che a questa domanda debba rispondere Jean-Claude
[Fleury]. So che la serie ha un grande seguito in Giappone, ma anche in
altri posti. Non so perché esca prima da loro.
ENGELS: Dipende tutto dalla storia, credo. Si sceglie ciò che si vuole
raccontare. Lo stesso vale per i personaggi della serie che non compaiono
nel film. Abbiamo scelto di raccontare questa storia ed è così che è venuta.
LYNCH: L’umorismo è come l’elettricità. Ci si lavora ma senza capire
come funziona. È un enigma.
D: David Lynch, potrebbe dirci lo scopo delle sequenze oniriche nel film
e nella serie?
LYNCH: Nossignora. (Risate.)
D: Sono parte integrante del film. Perché ha voluto usare una sorta di
realtà [???]?
LYNCH (dopo una lunga pausa): Be’, io, e credo quasi chiunque, ho la
sensazione che là fuori possa esistere qualcosa di simile a delle particelle
subatomiche invisibili, dei raggi X e forse qualcos’altro ancora, e che forse
ci sia una piccola apertura dalla quale arrivare a un luogo sconosciuto. E
quest’idea in qualche modo mi appassiona.
[3]. La CIBY ha un contratto con Lynch per tre film (oltre ad aver finanziato
Lezioni di piano di Jane Campion, attualmente in postproduzione). Per
cogliere l’allusione [al regista Cecil B. DeMille] è necessario pronunciare
il «2000» di CIBY 2000 in francese.
LYNCH A NUDO
DI GEOFF ANDREW
Ci sono stati problemi con la logistica del ritorno alla stessa storia: il
cast giusto, i set, e via dicendo?
Be’, molte cose esistevano già. Seattle e la zona circostante erano lì. Per
cui tutto si è risolto abbastanza in fretta.
Anche se i suoi film danno un ritratto straziante della vita, in certi punti
sono anche divertenti. Quanto dobbiamo prenderli sul serio, quindi?
Be’, ognuno prende le cose a modo suo. Io non dico mai come si
dovrebbe prendere qualcosa. Quando leggi un libro, lo prendi per come lo
vedi; lo stesso vale per un film. Lo vedono in cento e ne danno altrettante
interpretazioni. È stupefacente.
Fra i suoi scopi c’è quello di dimostrare che la logica della trama non è
necessariamente importante?
Lo è e non lo è. Sarebbe il massimo se alla fine del film si potesse
lasciare il pubblico nel vago, a usare l’immaginazione, visto che spesso la
magia gli viene sottratta. La vaghezza mi fa sognare, ed è una cosa che
amo. Per esempio in un film di Bergman ci sono tante cose che non
capisco, ma mi fanno sognare e sono una delizia per l’anima. E aprono una
finestra su qualcosa di infinito.
Due parole?!
Barry Gifford ha scritto un libro intitolato Gente di notte. Due
personaggi accennano al fatto di percorrere la strada perduta, e leggere
quelle due parole mi ha fatto sognare, mi ha suggerito delle possibilità;
l’ho detto a Barry e lui mi fa: «Be’, scriviamo qualcosa». E così ci siamo
messi al lavoro.
Quindi vi siete seduti insieme e avete dato libero sfogo alla creatività?
Esatto, ci siamo seduti e abbiamo iniziato a scambiarci le idee che
avevamo raccolto, e a nessuno dei due piacevano quelle dell’altro. E siamo
rimasti un bel po’ in silenzio, finché non ho detto a Barry che l’ultima sera
delle riprese di Fuoco cammina con me mi era venuta un’idea. Ed era
quella del video e della coppia. A Barry è piaciuta molto, e quando ti
concentri su un’idea, anche se è solo un frammento, quello apre le porte ad
altri che vanno ad agganciarsi al primo e così abbiamo continuato a
scrivere.
Ecco una parola chiave: intuito. Cioè, se ricontrolli sempre quel che
stai facendo man mano che realizzi il film, e torni indietro a vedere a che
punto sei, è sempre l’intuito a guidarti, giusto?
Assolutamente. È questione di sentire cosa è corretto. E detto così
sembra astratto ma in realtà è abbastanza semplice.
...ti salvano!
Possono fare magie. Ma non sono una garanzia. Devi sempre andare a
naso.
Quando vedi il film sullo schermo nella sua forma definitiva, quanto
assomiglia al film che avevi in testa, che hai visto nella tua mente prima
che il tutto si definisse e prendesse forma?
Per molti versi gli assomiglia tantissimo. Ma di solito è più bello. È
migliore di quanto immaginassi all’inizio. Alcune scene possono essere
identiche; altre, per via delle location che magari non erano quelle che
avevi in mente, sono un po’ diverse. Ma l’atmosfera, il tono, dato che hai
sempre quelle idee originarie con cui fare il raffronto, di solito è più o
meno lo stesso. Però vedi, poiché il film vuol essere in un certo modo, c’è
sempre una sensazione, una differenza rispetto a quello che immaginavi.
Che mi dici della vischiosità di questo processo? Ti dai una direzione,
un limite che ti fa dire: «È troppo intenso, non riesco ad andare dove
voglio»?
Fa parte dell’intuito; per molti versi è un esperimento, e capisci da solo
quando una cosa non è sufficiente, quando è troppo, e quando è perfetta. Si
tratta di trovare la strada e approfittare degli incidenti, allestire una
situazione in cui possano verificarsi, in modo che, quando traduci un’idea
in un mezzo espressivo, questo diventi ricco di significato. È davvero
bellissimo vedere cosa può fare il cinema con le idee, ed è l’intuito a
guidarti.
Per molto tempo la gente ha dato per scontato che tu avessi avuto
un’infanzia travagliata. Che tu fossi cresciuto in un ambiente malsano,
mentre in realtà è proprio il contrario, ed è venuto fuori che tu hai avuto
un’infanzia praticamente perfetta.
Trent avrebbe potuto intitolare la sua canzone «The Perfect Childhood»
[L’infanzia perfetta]. Hai presente quando sei... Non importa che infanzia
tu abbia, hai la sensazione di percepire più di quel che vedi di fronte a te.
È una delle cose che ricordo della mia giovinezza. Ci arrivano un sacco di
informazioni, non solo sotto forma di parole o immagini, ma come
qualcosa nell’aria.
Mi pare che tu a un certo punto abbia detto che è stato lo studio delle
scienze. Che quando un ragazzo ci si accosta inizia a scoprire che nella
vita ci sono cose inevitabili.
La scienza... vedi, in un certo senso gli scienziati sono dei detective, lo
siamo tutti. Inizi da un certo punto, e il mistero ti porta ad addentrarti
sempre più nel mondo materiale o in un mondo di emozioni, in cui
cerchiamo e accumuliamo informazioni: è così che vanno le cose.
Immagino che a un certo punto, crescendo, impari che è probabile che
le cose non siano come appaiono, e questo è un tema ricorrente nelle tue
opere. Ovviamente è enfatizzato dal mezzo cinematografico, ma riflette in
qualche modo questo aspetto della vita, questa essenza della vita.
Esattamente.
Sì, c’è una tua meravigliosa citazione: «Quando vieni a contatto con
delle cose spaventose, inizi a temere che la vita pacifica e felice possa
svanire o essere in pericolo».
Credo sia un concetto che tutti noi comprendiamo.
C’è una canzone dei This Mortal Coil [«Song to the Siren»], che è nel
film ma non nella colonna sonora, e mi pare di capire che ci sia dietro una
lunga storia.
Sì, l’avevo sentita negli anni Ottanta, non so se fosse l’85, comunque
volevo disperatamente usarla in Velluto blu, ma c’era di mezzo qualche
intoppo legale, o una grossa somma di denaro, e insomma non abbiamo
potuto usarla. E mi piangeva il cuore. In compenso la rinuncia a questa
canzone mi ha portato a conoscere Angelo Badalamenti e, come sai, da
allora io e Angelo abbiamo sempre lavorato insieme. Lui mi ha davvero
trasportato nel mondo della musica, in profondità.
Per cui il fatto di non poter usare «Song to the Siren» ti ha fatto
scoprire un’alternativa.
Esatto. L’alternativa è stata «Mysteries of Love», scritta da Angelo, di
cui mi sono innamorato. Non credevo che... pensavo, ci sono un milione di
canzoni, come farà Angelo a scrivere qualcosa che prenda il posto
dell’altra? Ed è stato strano. L’ha sostituita davvero, e così è continuato
questo nostro meraviglioso rapporto.
E quando è uscito Strade perdute si è presentata un’altra opportunità di
usare il pezzo.
Sì. Avevo aspettato e aspettato, ed eccola lì, decisamente in cima alla
mia classifica delle canzoni più belle di sempre.
Be’, è una cosa che avete in comune, anche per te il potere di una
canzone ha un grande valore.
Assolutamente.
(Intervallo. La radio trasmette «Song to the Siren» e la cover di Marilyn
Manson di «I Put a Spell on You».)
Sì, tanta roba. Se non ho capito male il film è stato girato in parte in
una delle tue case, giusto?
Giusto.
Ma è vero che hai tre case una vicina all’altra?
È vero, sono stato molto fortunato. Durante la preproduzione sono
entrato in possesso della terza casa, e siamo riusciti a demolirne alcune
parti e a ricostruirla per adattarla alla storia. Per cui è quasi come stare in
un teatro di posa, ma si può anche uscire all’aperto.
E tu ci abiti.
Esatto.
Non è una cosa insolita per te, abitare sui set dei film che stai girando.
Be’, ci vivi comunque mentalmente, ma è molto bello viverci anche
fisicamente.
Quindi diresti che la maggior parte dei film che vediamo sono una
visione fugace dell’idea originaria?
No, non lo direi. Credo che al mondo ci sia tanta gente che realizza le
proprie idee e...
Certo.
Ed è molto impegnativo. Chi c’è passato lo sa. È solo che secondo me
chiunque sarà d’accordo sul fatto che più ti immergi nel mondo del film,
migliore è il risultato.
Hai detto che la gioia del cinema è in parte legata al fatto di creare un
ambiente e un mondo su cui eserciti un controllo totale. Che per un po’
abbandoni la realtà e crei quest’altro ambiente che puoi dominare.
Esatto. E a questo si aggiunge quello che l’immagine, il suono e la
musica possono fare per tradurre le idee che prendono forma in questo
ambiente; il mezzo cinematografico è così potente perché è sperimentale,
e può ancora fare tanta strada, questo mezzo meraviglioso. Ed è bellissimo
vedere come può funzionare sia con le idee concrete sia con quelle
astratte.
E ora stai esplorando questi confini... in questo momento della tua vita
stai in qualche modo tentando l’impossibile.
È tutto compreso nella gamma dei comportamenti umani, che come tutti
sappiamo è molto ampia. Ci sono tante possibilità nella splendida varietà
di comportamenti che c’è al mondo. E c’è ancora molto da esplorare.
Per esempio quale percentuale del nostro cervello non utilizziamo,
giusto?
Esatto.
Nel film sei citato anche come sound designer. Cosa significa? Cosa hai
fatto concretamente?
Sai, si lavora sempre in gruppo. E avevamo gente in gambissima a
lavorare sui suoni. Ma quando sei il regista ogni singola cosa di cui ti
occupi dev’essere in un certo modo, perché funzioni insieme al resto. È un
aspetto cruciale, e si basa sulle sensazioni. Per cui lavori insieme ad altri
affinché tutti i vari suoni siano corretti, e sfruttando anche le casualità e
gli incidenti. Quindi è un impegno collettivo che però passa attraverso un
unico filtro.
Ci ha chiamato una persona che ha citato Alan Splet, che era un sound
designer. E quando ti abbiamo fatto il suo nome tu hai sorriso.
Alan è stato uno dei miei più cari amici, che ora non c’è più. Ci siamo
conosciuti a Philadelphia, abbiamo fatto insieme il sonoro di The
Grandmother e siamo diventati grandi amici; ho lavorato con lui fino a
Velluto blu, e non avrei mai fatto niente senza Al. Uno degli esseri umani
più sensibili al mondo, con un immenso amore per i suoni e la musica.
È uno dei più... non ho parole per descrivere il terrore che incute in
questo film.
Sta facendo impazzire la gente, Robert Blake.
E poi che altro fai? Per un po’ disegnavi una striscia, The Angriest Dog
in the World. La fai ancora...
No, l’hanno cancellata.
Da quanto?
Nel ’92! Durava da nove anni, ed è andata bene.
Pensavo solo che non fosse più a Los Angeles ma da qualche altra
parte, una cosa del genere.
Capisco... No, è proprio finita.
...sezionato.
...montato. L’ho portato a casa per smontarlo, fotografarlo, farlo
assomigliare a qualcosa che si potesse costruire divertendosi.
È un animale complicato!
Sì, l’anatra è... be’, uno degli animali più belli.
Ma questa è pubblicità!
Sì, hai ragione, scusa, ma lui è fantastico. Mi piacciono... i vari
macchinari e le strutture dell’odontoiatria, quindi ho fatto qualche foto che
riflettesse questo mio interesse.
Hai descritto questa cattura di un’idea in modo simile a quello con cui i
cantautori che vengono qui ospiti descrivono il metodo per catturare una
canzone. A volte – e qui cito Tom Waits, come faccio spesso – le canzoni
sono come personaggi di un cartone animato, a volte non le prendi
proprio, ma le tiri per le mutande, cerchi di afferrarle...
Sì... be’, ci sono molti modi per dire la stessa cosa. Tutti fanno
affidamento sulle idee. Sono la cosa più importante che ci sia. Ogni
singola cosa al mondo creata da qualcuno ha avuto origine da un’idea. Per
cui catturarne una abbastanza potente da innamorarsene è una delle
esperienze più belle che esistano. È come ricevere una scarica di elettricità
e di conoscenza allo stesso tempo.
C’è qualcosa che hai imparato e che ti aiuta a essere più ricettivo nei
confronti di questi eventi casuali?
Sai com’è, io sono un mediatore, e in quanto tale cerco di espandere la
coscienza liberando gli ingranaggi che la azionano – cioè il sistema
nervoso; e più vasta è la coscienza – penso all’analogia della pesca – più a
fondo puoi calare il tuo amo per pescare le idee più grosse. Ed è molto
importante raggiungere questa condizione. Seduto comodamente, lasciar
vagare i pensieri, senza tentare di manipolare quel che hai di fronte, a
volte sprofondi in una regione meravigliosa oppure sali d’un balzo a
un’altra più elevata – a seconda di come la vuoi vedere – e peschi un’idea.
Esiste un mezzo che non hai esplorato e a cui sei interessato? Per
esempio la radio?
Non ho mai esplorato la radio, ma vederti qui in questo ambiente è una
bella fonte di ispirazione.
Allora se ti viene in mente qualche idea che vuoi provare su kcrw, facci
sapere.
Affare fatto.
Grazie mille per essere stato con noi.
È stato un vero piacere, Chris.
David Lynch.
Hai iniziato davvero a costruire quando eri uno studente, negli anni
Sessanta?
Sì, esatto. In quel decennio di cambiamenti...
Be’, parlaci dei tavoli in mostra a Milano. A quando risalgono?
Il tavolo Espresso ha circa cinque anni. Gli altri sono più recenti.
Alcuni dei tuoi tavoli sono molto piccoli. Sembra che servano soltanto a
uno scopo specifico in un’occasione particolare. Il tavolo Black Steel, per
esempio, sembra fatto per poggiarci solo una tazzina di caffè o dei
bicchieri. Un altro tavolo è per una tazza grande e un portacenere. Qual è
il segreto di questi tavoli in miniatura?
A mio modo di vedere quasi tutti i tavoli sono troppo grandi e troppo
alti. Fanno rimpicciolire la stanza e ingombrano tutto lo spazio, causando
attività mentali spiacevoli.
Ti sei mai chiesto quale potrà essere la reazione del pubblico di Milano
ai tuoi mobili?
No, per niente. (Ride.)
Dai tuoi film emerge in modo chiaro quanto tu sia attratto dal legno.
Nel tuo ufficio c’è una piccola falegnameria perfettamente attrezzata. Alla
prima di Strade perdute qui a Los Angeles hai tenuto un discorso in cui il
legno era una metafora della qualità contenutistica dei film. Come sei
arrivato a fare questo collegamento?
Intanto il legno è un materiale molto speciale, e la gente abbatte gli
alberi e lo lavora fin dalla notte dei tempi. Quasi tutti i tipi di legno si
possono inchiodare senza andare in pezzi. E si può segare, intagliare e
levigare. Ha una grana meravigliosa, c’è qualcosa che ti colpisce dritto al
cuore.
Gli oggetti della tua casa sono disposti in modo meticoloso. Hai
disegnato delle scatole che nascondono il telefono e l’impianto video.
Perché copri questi dispositivi? Trovi in qualche modo minacciosa la
tecnologia?
È un’arma a doppio taglio. In generale per me la tecnologia non è una
minaccia. Però potrebbe esserlo. Dipende tutto da come è usata. Ma se
porta a una qualità di vita migliore penso sia un’ottima cosa.
Forse gli altri lati sono più interessanti proprio per quello. Non sono
disegnati con la stessa attenzione del davanti.
Ma sono sempre più noiosi.
Hai detto che le idee ti si presentano molto spesso sotto forma di sogni
a occhi aperti. La Beverly Johnson House è la casa dei tuoi sogni?
È un posto stupendo. L’architettura è una cosa che dà sempre da
riflettere. Il design influenza la mia vita. Ho bisogno di spazi gradevoli.
Spesso la mia mente vaga in quella direzione, ma non sono un architetto.
Anche se apprezzo i grandi architetti e la differenza che può fare un ottimo
design nella vita di una persona.
L’intera opera?
Sì, mi piacciono i loro progetti.
Peraltro i lavori degli Eames sono più ammirati in Europa che negli
Stati Uniti. Secondo te perché?
Perché gli europei hanno più gusto per le cose belle.
Lavori ormai da molti anni con Patricia Norris, che ha progettato i tuoi
set. Anche lei influenza il tuo lavoro di designer?
Lei è incaricata delle scenografie e dei costumi. Per quanto riguarda i
costumi non le dico praticamente mai nulla, lei li crea come per magia.
Invece per quanto riguarda le scenografie, ecco, discutiamo sempre tutto.
Cerco di portarla sulla mia stessa lunghezza d’onda in modo che tutto
vada lascio, e poi manteniamo un dialogo costante. Ma è importante
progettare ogni dettaglio, se si vuole che il film abbia una coerenza.
Dopo Eraserhead Lynch sposò Mary Fisk, dalla quale ebbe un figlio,
Austin. All’epoca non era esattamente bombardato di offerte di lavoro. Ma
stava scrivendo una sceneggiatura intitolata Ronnie Rocket («Parla di
elettricità e di un ometto alto un metro coi capelli rossi»), costruiva
capanni («Ovunque puoi costruire un capanno, sei a posto») e andava ogni
giorno alle due e mezzo al Bob’s Big Boy Diner a imbottirsi di caffè e
frullati al cioccolato. «Scoprii che lo zucchero mi rende felice e mi dà
l’ispirazione», racconta. «Mi dava una tale carica che dovevo tornare di
corsa a casa a scrivere. Lo zuccherò è felicità in granuli. È un amico». Poi
arrivò la fatidica telefonata di Cornfeld, che gli offriva quello che sarebbe
diventato il suo secondo film, plurinominato agli Oscar: The Elephant
Man. «Mi misi letteralmente a girare per casa ripetendo quel nome:
“Stuart Cornfeld, Stuart Cornfeld, Stuart Corn-Feld”. E mi dava felicità»,
ricorda. «Ripensandoci oggi, capisco bene il perché».
Cornfeld portò la Brooksfilms di Mel Brooks a interessarsi al progetto.
Inizialmente Brooks aveva suggerito il nome di Alan Parker, ma quando
vide Eraserhead fu conquistato da quello che definì «il miglior film che
abbia mai visto sulle gioie della paternità!» Tuttavia, trattandosi della
prima produzione indipendente della sua compagnia, doveva prima
vendere l’idea della storia, e Lynch, ad altri.
«Mel fu straordinariamente aggressivo», dichiara Cornfeld, ricordando
un incontro con Freddie Silverman alla NBC. «Freddie domandò: “Allora,
chi è questo David Lynch?”, al che Mel rispose: “Se non lo sai vuol dire
che sei proprio un idiota del cazzo!”» Brooks fu irremovibile persino
quando Silverman gli chiese di poter leggere il copione. Cornfeld era
sbigottito: «Mel dice: “Che cazzo vuol dire fartelo leggere? Mi stai
dicendo che ne sai più di me su cosa decide il successo di un film?” Non
gli ha voluto concedere nulla». Ciononostante la NBC finì per dare un
anticipo di quattro milioni di dollari.
La fiducia che Brooks riponeva in lui protesse Lynch anche in occasione
della proiezione per la Paramount Pictures, che avrebbe distribuito il film.
«All’epoca ci lavoravano Michael Eisner e Barry Diller», ricorda
Cornfeld. «E dissero: “Accidenti, è un film fantastico, ma secondo noi
dovreste eliminare l’elefante all’inizio e la donna nel finale”. E Mel disse:
“Siamo soci in affari. Vi abbiamo mostrato il film per aggiornarvi sullo
stato della nostra attività. Non interpretatelo come la richiesta del parere
di quattro selvaggi”, e sbatté giù il telefono!»
Patricia Arquette, protagonista di Strade perdute, crede che i film di
Lynch «non vengano capiti nel momento in cui escono. Quasi tutti girano
film per un pubblico immediato: quello che la gente ha voglia di vedere. I
film di David, invece, devi rivederli cinque anni dopo per essere al passo
con quello che dicono». Alla domanda da dove prenda le sue idee, Lynch
ride: «Sono come una radio! Ma una radio guasta, per cui a volte i pezzi
non s’incastrano». Poi, in tono più serio, aggiunge: «Le idee sono la cosa
migliore che ci sia. Sono quasi come dei doni. Qualcosa che
simultaneamente vedi e conosci e senti, e sei travolto dall’entusiasmo e te
ne innamori. È incredibile che si possano avere delle idee e che qualcuno
ti dia del denaro per farne un film».
«Si siede e fissa una parete vuota», racconta Isabella Rossellini. «È così
che trova le idee. So che gli vengono dal profondo. Tanti vanno in analisi.
Lui invece pratica molta meditazione». Secondo Mary Sweeney: «Non va
in cerca di storie, tranne che nella sua testa. Gli piace avere trovate
originali. Vuole essere moderno. È quella la motivazione principale. Per
sua fortuna ha una mente traboccante. Diffida saggiamente dei grossi
budget – per via di Dune – ma anche perché è una persona modesta».
Lo spettro di Dune perseguita la carriera di Lynch dal giorno in cui ha
acconsentito a girarlo. All’età di trentacinque anni e con soli due film in
curriculum, si è imbarcato in quello che sarebbe diventato un progetto
pericolosamente difficile da gestire. La sola vastità della produzione
(settantacinque set, quattromila costumi e tre anni di lavorazione)
superava di gran lunga qualsiasi cosa Lynch abbia mai sperimentato, prima
e dopo.
«Quel film mi ha tranciato le ginocchia, forse anche un po’ più su»,
racconta Lynch dell’esperienza con il megaflop fantascientifico realizzato
per DEG, la compagnia di Dino De Laurentiis. «Mi ha fatto proprio
impazzire. Un po’ alla volta sono sceso sempre più a compromessi. Era
come se dicessero: “Dobbiamo tenere d’occhio David. Se va nella
direzione di Eraserhead, siamo fregati”, quindi dovevano tarparmi le ali.
Sono semplicemente finito in trappola. Era una condizione penosa». Lynch
era affascinato dal progetto e dal protagonista Paul, che incarnava «il
dormiente che deve risvegliarsi e diventare ciò che era destinato a essere».
Dune, per il quale Lynch non aveva l’ultima parola sul montaggio finale, è
stata una lezione imparata a caro prezzo.
Una redenzione personale e professionale come quella vissuta da Lynch
con Velluto blu è un fenomeno raro. «Quel che ho sentito dire di me dopo
Dune avrebbe potuto distruggere completamente la mia fiducia in me
stesso e la mia felicità», racconta. «Bisogna essere felici per poter creare».
Lynch è tornato sulla terra e, quel che è più importante, al sogno di
realizzare quello che la maggior parte dei critici considera il suo
capolavoro. Vedendo Velluto blu per la prima volta, David Thompson,
autore dell’enciclopedico e incisivo Biographical Dictionary of Film, ha
dichiarato: «È stata l’ultima occasione in cui ho sperimentato la
trascendenza al cinema, fino a Lezioni di piano».
Quali che siano i suoi meriti artistici, il film è essenziale per capire
come Lynch veda la condizione umana e se stesso. Il bene e il male non
sono mai stati tanto contrapposti, e l’equilibrio mai più doloroso o
difficile da raggiungere. La battaglia edipica tra Jeffrey (di nuovo
MacLachlan, questa volta ben vestito come Lynch) e il Frank Booth
preverbale (è in grado di esprimersi con un’unica parola: «Cazzo!»)
interpretato da Dennis Hopper è chiaramente una lotta fra due facce della
stessa persona. Il conflitto rivela un aspetto interessante del carattere di
Lynch. «È una persona molto religiosa», afferma Isabella Rossellini, «con
una forte spiritualità. Le sue visioni hanno piuttosto a che vedere con il
modo in cui la meditazione gli fa percepire il mondo. Vive i conflitti dei
grandi sacerdoti».
Mary Sweeney ricorda quando quattro psicanalisti ricavarono un profilo
di Lynch sulla base di Velluto blu. «Alcuni dissero che sicuramente era
stato maltrattato da piccolo, cosa che, conoscendo i genitori di David,
trovo alquanto offensiva». Lynch sembra capace di prendere in prestito, o
percepire, le esperienze altrui e infondergli un significato. «Come a tutti,
gli è toccata la sua parte di dispiaceri e paure durante l’infanzia», conclude
Peggy Reavey. «Ma queste particolari storie aiutano a esprimere quei
sentimenti, anche se non è andata esattamente così nella vita».
Comprendere Lynch significa anche riconoscere una feroce
indipendenza nella sua vita e nelle sue opere. Velluto blu è stato finanziato
dalla compagnia di De Laurentiis. Per certi versi è stato un risarcimento
per Dune, ma Lynch ha dovuto acconsentire a un dimezzamento del
budget, e del suo cachet, prima che il progetto fosse approvato.
«Non credo ci sia ragione per fare un film se non è come lo vuoi»,
afferma Lynch, serio. «Sarebbe come morire, e cosa ci guadagneresti?» In
questo Lynch ha ispirato una generazione di giovani registi. «Lui è un cane
sciolto. È quella la sua nicchia», sostiene Bob Engels, uno degli autori
principali di Twin Peaks (la serie e il film). «Non tornerà mai a fare cose
di massa. Se Hollywood pensasse di poterlo indurre a fare I cannoni di
Navarone, glielo proporrebbe. Avremmo una versione originale della
solita vecchia storia. Ma a David non interessa raccontare la solita vecchia
storia».
Twin Peaks («una serie tv sul senso di colpa pervasivo a cui la gente si è
appassionata all’istante», secondo Engels) ha confermato lo status di
«cane sciolto» di Lynch. Ha anche rafforzato un importante legame
professionale con il compositore Angelo Badalamenti, che spiega così la
tecnica da cui è nato il tema di Laura Palmer: «David diceva che all’inizio
la musica doveva essere molto cupa e lenta. Mi ha detto: “Immagina di
essere da solo nel bosco, di notte, e di udire solo il rumore del vento e
magari il verso soffocato di un animale”. Io iniziavo a suonare e lui
diceva: “Bravo, perfetto! Ora continua a suonare per un minuto, ma
preparati a cambiare perché ora vedi una bellissima ragazza. Spunta da
dietro un albero, è tutta sola e turbata, quindi adesso passa a una melodia
incantevole che cresce lentamente fino a raggiungere un apice. Fa’ che ti
strappi il cuore”. Non abbiamo cambiato una singola nota».
«Un colpo del destino» è la spiegazione che Lynch dà all’esplosione di
creatività e popolarità che nel 1990 lo aveva portato alla ribalta mediatica.
«Ma a volte il destino non ti apre la porta. La luce è rossa. E quindi se ti
viene data l’opportunità di fare qualcos’altro, e poi qualcos’altro ancora,
tu lo fai. Ma ti aspetta un tonfo clamoroso».
Il tonfo clamoroso è avvenuto nel 1992 con l’uscita di Fuoco cammina
con me. Dopo la crudele stroncatura a Cannes (lo stesso festival che solo
due anni prima aveva acclamato Cuore selvaggio), il prequel
cinematografico della serie tv, ormai cancellata, fu un disastro economico
e di critica. «Quell’anno non riuscivo nemmeno a farmi arrestare!»,
ricorda Lynch con una risata. «Avevo proprio un cattivo odore addosso.
Qualche pianeta doveva essere fuori allineamento, o qualcosa del genere».
Lynch si affida al destino nella vita professionale e privata. «Come si
suol dire: “Anche questa passerà”», spiega. «In un certo senso è stata
un’esperienza positiva. Quando sei a terra, quando ti hanno preso a calci
per strada e poi di nuovo, fino a lasciarti sanguinante e coi denti rotti,
allora puoi solo rialzarti. Rinasci, e le aspettative non sono più elevate
come prima perché te le hanno tolte. È meraviglioso ritrovarsi per terra,
meraviglioso».
In quattro anni di assenza dal grande schermo, Lynch si è dato da fare,
ma fino a poco tempo fa non era riuscito a farsi approvare un
lungometraggio. Uno dei copioni rimasti a languire in questo periodo è
Dream of the Bovine, che il coautore Bob Engels descrive così: «Tre tizi,
che prima erano mucche, abitano a Van Nuys e cercano di assimilare le
loro vite». Alla fine la compagnia europea CIBY 2000, con cui Lynch ha
firmato un contratto per tre film (Fuoco cammina con me è stato il primo),
ha accettato di finanziare Strade perdute.
Giova ricordare che Lynch ha iniziato con la pittura, un mezzo che non
ha mai cessato di esercitare un’influenza su di lui. Le turbinose superfici
nere delle sue tele, che richiamano immagini dell’infanzia (cerotti e
ovatta) e, di recente, temi più cupi (insaccati e scheletri di animali), sono
da sempre indizio di una mente agitata. «Sono smarrito nel buio e nella
confusione», dichiara il regista. Come «capo scout di Missoula, nel
Montana» è una descrizione semplice, ma altrettanto calzante. «Credo che
si sentirà sempre così», commenta Isabella Rossellini. «È uno stato che
ama e odia allo stesso tempo». «Quello che intende», chiarisce Mary
Sweeney, «è che viviamo in un mondo pazzo. Quanto ci siamo allontanati
dal bene, e dall’illuminazione». «È una persona solare e ottimista, ma
sensibile a ogni oscurità in modo intuitivo, inspiegabile», ride Peggy
Reavey, con affetto. «Dio lo benedica», aggiunge. «Adoro quando dice
queste cose!»
Quando finalmente Alvin arriva a casa del fratello, grida «Lyle!» due
volte: la prima soltanto per chiamarlo, la seconda in tono più
preoccupato, come se temesse di essere arrivato troppo tardi. A sentire
quel secondo grido io perdo la testa. Mi è sembrato quel tipo di
ispirazione che si instaura sul set fra il regista e l’attore. Di sicuro nella
sceneggiatura c’è soltanto un «Lyle».
Questi sono per così dire dei regali. Quando accade una cosa simile in
modo tanto normale, è bellissimo. Personalmente, quel che manda me
fuori di testa è quando Richard fa così – (Lynch inspira bruscamente, con
un singulto strozzato) – subito prima della fine. Quando lo sento
impazzisco. Mi mettevo a piangere in sala di montaggio, alle spalle di
Mary, mentre lavoravamo. Credo che il film abbia un profondo effetto
sugli uomini. Contiene molte cose sui nonni e i padri, e anche sui fratelli,
che arrivano dritte al cuore, al tuo e al mio.
E queste macchine, come quelle nel film, hanno carattere. Una qualità
che è scomparsa nel design contemporaneo, che fa sembrare tutto uguale.
Sì, il carattere delle macchine è scomparso. Non so quando è successo,
ma probabilmente ha a che fare coi computer, quando i fabbricanti hanno
iniziato a progettare tutto in modo aerodinamico, a usare modelli stampati
sottovuoto e tutto il resto. Si capisce il perché, è assolutamente sensato,
per certi versi è più sicuro, e in teoria sarebbe un’ottima cosa. Ma poi
pensi a com’era una Corvette Sting Ray del 1958, e quasi muori a vedere
cos’è diventata. Non c’è più alcuna gioia nel salire su un’auto, o
comunque non la stessa gioia di una volta. Ci saranno anche delle auto
abbastanza carine ma sono sempre più rare. Io ho una Mercedes del 1971 a
due porte, proprio bella; sto aspettando un’auto americana che mi faccia
venire voglia di guidarla, ma ancora non se ne vedono.
Ma a Los Angeles non c’è un clima che possa suscitare grandi reazioni
mentre te ne stai seduto!
No, non c’è un clima molto variabile a Los Angeles, ma c’è bel tempo.
E c’è una certa luce. Sono arrivato a Los Angeles nel 1970 da
Philadelphia, alle undici e mezzo di sera. La mia destinazione era tra
Sunset e San Vicente Boulevard. Il Whiskey a Go Go era proprio lì: ho
svoltato a sinistra e ho continuato per due isolati lungo San Vicente, dove
mi sarei fermato mentre cercavo una sistemazione. Quindi la luce l’ho
vista per la prima volta quando mi sono svegliato il mattino dopo. Ed era
così intensa, mi sono sentito tanto felice! Non potevo crederci. Per cui mi
sono innamorato lì per lì di Los Angeles. E mi piace l’idea di poter stare in
casa e uscire senza che la temperatura cambi: si vive al chiuso come
all’aria aperta.
C’è un che di speciale nello starsene seduti in poltrona e lasciar vagare
la mente. Col tempo diventa sempre più difficile, ma è davvero
importante, perché non sai in cosa ti imbatterai in quel vagabondaggio. E
non puoi cercare di controllarlo. Ti serve il tempo per pensare a cose
banali o assurde o insignificanti prima di arrivare a qualcosa di
potenzialmente utile. Non succede mica sempre che si presenti alla mente
qualcosa di utile, ma non accadrebbe di certo se non gliene dai la
possibilità.
Le sue reazioni emotive diventano fisiche, come quando il tizio che gli
vende la falciatrice John Deere gli dice che finora è sempre stato uno in
gamba, e lui crolla: solo per un secondo la sua dignità va in pezzi, in
modo comico.
Esatto. Si vede proprio come le cose lo colpiscano in maniera
particolare. Richard si è davvero immedesimato in questo personaggio e in
questo dialogo che va oltre ciò che si dice di solito; è uno dei matrimoni
fra il materiale e l’attore più riusciti che io conosca.
Hai preso in considerazione l’idea di caratteristi più giovani?
Alcuni attori avrebbero potuto, ma è più rischioso. C’è molto da dire in
favore di un attore anziano che interpreta un anziano: porta venti, trenta o
quindici anni di esperienza in più al ruolo. E la sua faccia sarà quella del
personaggio. Richard è semplicemente perfetto.
Questa è anche la prima volta che hai lavorato con Sissy Spacek, e con
suo marito Jack Fisk come scenografo, anche se sono entrambi tuoi vecchi
amici.
Jack è il mio migliore amico. Ci siamo conosciuti in prima superiore in
Virginia, e da allora siamo rimasti amici. Siamo stati gli unici due su
settecentocinquanta diplomati del nostro istituto a iscriverci a una scuola
d’arte. Jack conobbe Sissy mentre giravano La rabbia giovane nel ’72 o
’73; la portò alle scuderie che stavo allestendo mentre iniziavo a girare
Eraserhead. Ho sempre ritenuto Sissy una delle migliori attrici viventi;
ma finora non mi era mai accaduto di lavorare a un film con un ruolo
adatto a lei. E ne sono stato così contento che non avrei voluto nessun
altro. Insomma alla fine la cosa si è concretizzata. E non avevo mai
lavorato insieme a Jack come scenografo; ho sempre lavorato con Patty
Norris. Ma per la prima volta dai tempi di Velluto blu Patty mi ha detto
che le andava bene occuparsi solo dei costumi. Per lei non è stato facile
dirlo, ma questo film era perfetto per Jack, e quindi è andata così.
Il modo in cui Sissy riproduce la parlata tutta a scatti della figlia non
ce la rende mai ridicola, ma ridiamo comunque perché il suo personaggio
sembra quasi godere di come riesce a concentrarsi e portare a termine un
pensiero nonostante tutte le interruzioni.
È sempre delicato interpretare qualcuno che è un po’ fuori dal comune e
renderlo credibile, far diventare quel tratto caratteristico una cosa
secondaria rispetto a una qualità interiore. E Sissy è come un’equilibrista
che riesce a farlo sembrare semplice.
Avere Jack e Sissy deve aver dato al tutto una dimensione ancora più
familiare.
Tutte le varie età che viaggiano insieme, ed è stato bellissimo. Proprio
come nel film. Ci è voluto lo stesso tempo, abbiamo percorso le stesse
strade, per cui si è compiuto tutto un altro viaggio fuori dal film, dietro la
macchina da presa.
Una storia che sembra presente in tutti i tuoi film è quella del dottor
Jekyll e di Mr Hyde.
Be’, Alvin è cambiato, è diventato un altro rispetto a prima.
E il film parla di uno che per tutto il viaggio regala la vera saggezza
che il mago invece offre solo alla fine.
Ottima osservazione! Io non ci avevo mai pensato, e nemmeno Mary e
John, ne sono sicuro. Ma forse c’è qualcosa del Mago di Oz in ogni film: è
quel genere di storia.
In effetti corri un po’ il rischio di passare per quello che dispensa una
serie di piccoli messaggi morali.
Per come la vedo io non si tratta tanto di messaggi morali quanto di
maestri e allievi. E anche questo è un circolo, perché un allievo dev’essere
ricettivo o altrimenti il maestro non può insegnare. E dal canto suo il
maestro dev’essere intuitivo e impartire la lezione giusta al momento
giusto perché l’allievo possa farla sua. Ciò suscita una domanda
nell’allievo e una risposta nel maestro, e di colpo avviene questo scambio:
è una cosa che accade nella vita di chiunque.
E il film non vuole additare la via di Alvin come l’unica giusta; parla
dell’importanza di fare le cose a modo proprio e del raggiungere la piena
maturità e consapevolezza a settantatré anni suonati.
Esatto. Il modo in cui si compie questo viaggio è estremamente
importante: è un bene che Alvin lo abbia affrontato in una certa maniera e
ne abbia condiviso il significato con qualcuno.
Alcune battute hanno una risonanza unica, come quando Alvin dice:
«Non sono ancora morto». Altre invece sono davvero ambigue, come
quando dice ai due giovani ciclisti, Steve e Rat, che la cosa peggiore della
vecchiaia è «ricordare la giovinezza».
Precisamente. È quasi come se Rat uscisse dal proprio corpo e si
vedesse per la prima volta. Fino a quel momento per lui parlare con Alvin
non aveva significato granché; più per Steve, l’altro ragazzo. Non puoi
sapere com’è essere vecchi finché non lo diventi, ma puoi intuirlo. Ed è
questo che accade in quella scena, in un certo senso. Mentre dal punto di
vista di Alvin puoi pensare che la giovinezza è stata bella e che ora la vita
è cambiata, oppure puoi ricordare le cose che hai fatto da giovane e di cui
ora, o più avanti, pagherai il prezzo.
Una storia vera è il primo dei tuoi film di cui non hai scritto la
sceneggiatura. Cosa ti ha attratto inizialmente in questo progetto?
La sceneggiatura! Io vivo insieme a Mary [Sweeney]. E sapevo che era
affascinata da quella storia fin dal 1994. Me ne ha parlato un sacco. Mi
piaceva l’idea di questo tizio che sale sul tagliaerba e parte per andare a
trovare il fratello dall’altra parte del confine dello stato. Ma non avevo
mai immaginato che un giorno sarebbe diventata uno dei miei film. Poi
nel 1998, quando ha ottenuto i diritti della storia, Mary ha iniziato a
raccogliere i materiali necessari. Lei e il suo collega John Roach hanno
ripercorso il viaggio di Alvin Straight, incontrando i suoi familiari e gli
amici intimi. Io ho seguito i loro progressi. Tutt’a un tratto hanno
completato la sceneggiatura e Mary me l’ha data da leggere. All’inizio mi
sono detto: è molto poco probabile che mi piaccia abbastanza da volerla
dirigere. Mi sono persino chiesto come avrei fatto a dirglielo... E poi, nel
momento in cui ho iniziato a leggerla, tutte le mie riserve sono scomparse.
La mia immaginazione si è messa al lavoro e ho sentito le emozioni che
scaturivano dal materiale.
C’è una magnifica dissolvenza dal cielo alla terra, dal cielo stellato a
un campo di grano: esattamente a che punto della lavorazione del film è
emerso questo particolare? Era nella sceneggiatura?
Non ha importanza. Una sceneggiatura è per così dire uno scheletro.
Devi darle carne e sangue. E un regista è un interprete. Traduce le
immagini che riceve dalla sceneggiatura. Questo vale per tutte le idee, che
provengano da una sceneggiatura o da un libro. L’idea non ti appartiene.
L’hai ricevuta, comprese le immagini, i suoni, l’atmosfera che emana dal
materiale. Cerchi di tradurla in un film, e a volte ciò ti dà molta libertà, a
volte meno. Poi ci sono altre variabili che entrano in gioco: i luoghi delle
riprese, la scelta degli attori, e così via. Se ti sforzi di rimanere fedele alla
prima impressione, tutto andrà nel modo migliore.
Appartiene a una generazione che al cinema non si vede quasi più: gli
«uomini dimenticati» della Grande Depressione e della seconda guerra
mondiale. La scena del ricongiungimento nel finale ricorda le fotografie
di Walker Evans o Paul Strand.
Tutti hanno un padre o un nonno che ha vissuto in quel periodo. A volte
quando si mettono a raccontare la storia della loro vita, la gente ha
l’impressione di capirla, ma è solo un’impressione appunto, un concetto
vago, perché come puoi condividere quel che ti porti dentro con un’altra
generazione? Ciò che essi condividono non è la loro esperienza, ma ciò
che viene dopo, il modo in cui quell’esperienza li ha segnati.
Rispetto all’altro tuo road movie, cioè Cuore selvaggio, Una storia vera
sembra procedere a un ritmo più lento.
Quella lentezza si addice alla storia. La gente accetta questo tipo di cose
nella musica, e qui penso a certe sinfonie maestose che evocano un intero
mondo. C’è posto per diversi tipi di musica, lenta o veloce. Oggi la
velocità sembra essere in voga ovunque, ma in sé la realtà è fatta di
contrasti.
Fino ad ora, la natura non è stata una presenza forte nel mondo dei tuoi
film, che di solito è urbano e industriale.
In una certa misura lo era nei Segreti di Twin Peaks, anche se i
personaggi ne sono a stento consapevoli. Quanti di noi apprezzano il
mondo in cui viviamo? Quando cresci così vicino alla natura, in piccole
città rurali, e vai a New York, come ho fatto io quando ero piccolo e sono
andato a trovare i miei nonni a Brooklyn, è uno shock tremendo. Una
svolta a centottanta gradi. È qualcosa che non dimentichi mai più. Non
solo quello che hai visto, ma soprattutto quello che senti nell’aria. È come
quando qualcuno entra in una stanza e, senza che nessuno dica una parola,
sai che sta per scatenare un putiferio. È curioso, no? La gente non ce l’ha
scritto in faccia. Lo senti nell’aria, come se si addensasse. Se lo senti in
una stanza, a maggior ragione si avvertirà in uno spazio angusto e
sovraffollato come una città. Hanno fatto degli esperimenti coi ratti. Se li
metti tutti insieme, il loro comportamento cambia e diventa un po’
bizzarro. Dev’essere lo stesso per noi.
Tu stesso hai compiuto una svolta a centottanta gradi con questo film,
dove prevale la solidarietà fra vicini, dove la gente del posto è tutta
meravigliosa e dove la natura umana presenta il suo volto migliore.
Mary è di Madison, nel Wisconsin, e abbiamo una casa lì. La prima
volta che ci sono andato con lei ed entravamo nei negozi, pensavo che gli
abitanti fossero dei burloni che si prendevano gioco di me tutto il tempo,
tanto erano educati! Persino oggi li trovo più cortesi e premurosi che in
qualsiasi altro posto. Sono sempre pronti ad aiutarti se hai un problema.
Forse perché sono agricoltori. Quelle regioni sono così scarsamente
popolate che tutti fanno affidamento gli uni sugli altri. Se ti trovi in
difficoltà, subito arriva qualcuno a darti una mano. E Alvin ha ricevuto
molto aiuto durante il suo viaggio.
Hai scelto Freddie Francis come direttore della fotografia per via di
The Elephant Man?
In un certo senso sì. All’epoca diventammo amici intimi. E volevamo
lavorare di nuovo insieme. Era il progetto ideale: per l’età che abbiamo,
non per la natura del film. Lui ha ottant’anni, poco più vecchio di Alvin.
Ed è uno dei grandi nel suo campo. A Richard ha fatto bene vedere Freddie
al lavoro tutto il giorno, e viceversa. Per non parlare di tutti gli altri
anziani che c’erano. È stato un bene per il film e per tutti quelli che ci
hanno lavorato. Sarebbe stato molto diverso con un direttore della
fotografia giovane.
L’ultima battuta di The Elephant Man recita: «Niente morirà mai». Non
si potrebbe applicare anche a Una storia vera?
Assolutamente.
Anche la scena coi ciclisti evoca The Elephant Man. Dopo aver visto
Alvin e la sua falciatrice, la velocità dei ciclisti sembra incongrua, così
come sembrano grotteschi i cosiddetti normali che deridono John Merrick
come uno scherzo della natura. C’è ancora una volta un ribaltamento di
prospettiva, una svolta a centottanta gradi.
Esatto. Non so come abbiamo fatto a girare quella scena! La prima volta
che ho fatto il viaggio in macchina mi sono reso conto che non avevo visto
praticamente niente. Durante le riprese è stato diverso, sono durate quasi
quanto il viaggio di Alvin. Quando si gira in esterni per periodi
relativamente lunghi, il tempo diventa cruciale. Diventi come un
agricoltore. Inizi a vedere delle cose. Noti dei particolari. Adotti un certo
ritmo. Per cui è stata una sorpresa veder passare i ciclisti a tutta velocità!
Mi ha portato a girare la scena in un modo un po’ diverso. La stessa cosa
accade con i camion che passano. O alla fine del film, quando il trattore
sembra enorme accanto alla falciatrice.
Nel film ogni cosa è una questione di scala: l’uomo in rapporto al
cosmo.
La relatività! Sì, ma non è forse il tema di tutti i film?!
A che punto sei con l’episodio pilota della serie televisiva Mulholland
Drive?
L’ho girato mentre finivamo di montare Una storia vera. I due film
sono stati missati in successione. Ma per Mulholland Drive il mix del
sonoro è temporaneo. Non va bene del tutto e non sono ancora
minimamente soddisfatto del montaggio. Alla ABC il pilota ha fatto schifo
e si sono rifiutati di sviluppare la serie. Per il pilota la ABC ha i diritti per
due trasmissioni. In altri paesi la Disney lo venderà come film per la
televisione. Non sono certo che si possa proiettare nei cinema perché ha un
finale aperto, che era stato concepito per la tv. Quel che mi fa dannare è
che la serie era stata creata come una storia in costante evoluzione. Per me
è quello il bello della televisione: poter raccontare una storia che prosegue
da una serata all’altra. Ma i dirigenti della compagnia dicono che hanno
analizzato le abitudini del pubblico, e che spesso la gente salta delle
puntate. Continuano a ripetere che gli episodi dovrebbero essere autonomi.
Come se il pubblico non fosse abbastanza intelligente da capire una storia
già iniziata. Sono così ossessionati dai sondaggi di mercato che
dimenticano la magia di una storia in svolgimento. Anzi, quello che hanno
visto gli ha fatto schifo, e non c’è altro da dire.
Nel film diversi ruoli sono recitati da persone che lavorano da tempo
con te in altra veste: il compositore Angelo Badalamenti, che interpreta
Luigi Castigliane, e Monty Montgomery, che fra le altre cose è stato il
produttore di Cuore selvaggio: in Mulholland Drive è il cowboy. Come
sono nati i loro personaggi?
Nel caso di Angelo, conoscendolo dal 1986 e avendo sentito raccontare
vari aneddoti, il personaggio di Luigi Castigliane si è sviluppato sempre
più, e Angelo era come destinato a recitare quella parte. E ho sempre
pensato che Dan Hedaya e Angelo sembrino fratelli, per me farli
incontrare era un po’ un sogno, e quando si è realizzato è stato bellissimo.
Vanno d’amore e d’accordo. Sono dello stesso quartiere di Brooklyn. È
stata un’esperienza molto positiva, proprio fantastica. Adesso Angelo fa il
divo, già mi perseguita per avere un altro ruolo. E non mi stupirei se
avesse già un agente, come un attore vero, dico. Insomma è abbastanza
bizzarro (ride) come sono andate le cose con Angelo.
Per quanto riguarda Monty, l’idea per il cowboy mi è venuta durante una
sessione di lavoro in cui stavo dettando delle cose a Gay Pope
[un’assistente], e a un tratto è apparso il cowboy, e ha iniziato a parlare, e
ben presto si è identificato con Monty, o Monty con lui. Anni prima,
mentre giravamo il corto The Cowboy and the Frenchman, Monty era nella
casa di produzione, la Propaganda Films. L’ho conosciuto sul set, o forse...
Forse l’avevo già incontrato prima, non ricordo l’ordine degli
avvenimenti, ma ho sempre pensato che fosse abbastanza timido e che non
ci pensasse proprio a mettersi davanti a una cinepresa. Quando eravamo in
postproduzione per The Cowboy and the Frenchman, a fare il missaggio
del sonoro di questo personaggio chiamato Howdy in una scena in cui
domava un toro, non si capiva niente dei dialoghi perché c’era troppo
rumore. Il tizio [Rick Guillory] che interpretava Howdy era un vero
domatore di tori, ma era tornato nel Colorado, mi pare che fosse di lì.
Allora Monty mi dice: «David, lo faccio io», e io gli dico: «Oddio!», sai,
per scherzo. Poi gli faccio: «Va bene, Monty, prova un po’», e lui entra in
cabina di registrazione e l’azzecca al primo colpo: perfetto. Insomma mi
ricordavo di questa cosa, e quando è spuntato fuori il ruolo del cowboy
sapevo che Monty poteva interpretarlo, si trattava solo di capire se
volesse. E lui ha detto di sì.
Sì, quando lo vuole lui. Forse non fa paura a vedersi quanto l’uomo
misterioso, ma svolge molte funzioni simili. Sei d’accordo?
Sì, direi di sì.
Come con gli altri tuoi attori, non le hai fatto provare nulla.
No, no.
Ti dispiace un po’ che sia stato escluso dalla storia, date le modifiche?
Be’, aveva una scena molto bella più avanti, che non è stata inserita, e in
cui lui e il suo collega [Brent Briscoe nei panni del detective Domgaard]
erano fantastici.
Adesso dimmi la verità: quali sono stati i cambiamenti più grossi nel
passaggio dall’episodio pilota al lungometraggio finale?
Accidenti... be’, è stato tutto un altro paio di maniche. Il
lungometraggio utilizza molto di quel che c’era prima, ma visto da
un’altra prospettiva. E le idee che sono venute dopo a dargli la forma di un
lungometraggio erano oro per me. Erano come dei doni. E non sapevo se
sarebbero arrivate o no. Non sapevo come sarebbe andata, non avevo le
idee per trasformarlo in un lungometraggio: nulla. Poi mi sono messo
seduto un pomeriggio, e nel giro di mezz’ora eccole lì.
Come far uscire Irene e il suo compagno dalla scatola blu alla fine del
film. Le cose all’inizio sono piccole e poi finiscono per ingigantirsi.
Sì.
A questo proposito pensavo: hai detto spesso che Viale del tramonto è
uno dei tuoi film preferiti, il film che facevi guardare a tutti mentre giravi
Eraserhead, e via dicendo. Qui sono stato colpito da una somiglianza,
perché anche se non abbiamo un defunto narrante come in Viale del
tramonto, abbiamo un cadavere che sembra dare origine a tutta una serie
di eventi onirici o ricordi – cosa che mi ha ricordato molto l’espediente di
Billy Wilder.
Non ci avevo mai pensato. In Mulholland Drive c’è il cartello stradale
di Sunset Boulevard, c’è l’auto di Viale del tramonto al Paramount Lot,
quasi cinquant’anni dopo il film di Billy Wilder. Non importa che
qualcuno lo sappia, ma è abbastanza strano come nel cinema tutto sia
collegato, e che l’intero mondo del cinema sia vivo tanto quanto quello
reale.
(Ride) Nella prima parte del film c’è un’energia meravigliosa nel
montage del ballo. Poi c’è una sequenza molto interessante:
un’inquadratura del pavimento della camera da letto di Diane Selwyn, poi
una carrellata fino al cuscino, dove l’inquadratura s’ingrandisce e si
deforma; tutto a indicare che c’è una sorta di circolarità nell’intero film
quando, alla fine della storia, torniamo a lei sul letto che si spara. È il
tipo di circolo che trovi utile per tenere insieme gli elementi del film?
Non è per tenere insieme, è per raccontare la storia, e nella scena del
ballo ci sono alcuni fatti essenziali per capire ciò che sta accadendo.
Dunque ancora prima che inizino i titoli di testa, ci sono degli indizi
importanti che gli spettatori devono notare e ricordare, perché aiutano la
comprensione.
Una cosa che si nota è che molte delle stesse figure si replicano a
destra, a sinistra e al centro, e appaiono in versioni ingrandite e
rimpicciolite di se stesse, come ballerini. È uno degli indizi?
No, non è una delle cose a cui mi riferivo.
C’è una serie di elementi visivi di cui volevo parlarti. Iniziando dal
colore: come sempre, c’è una tavolozza molto ricca, ma mi hanno colpito
soprattutto i toni caldi di marrone, verde e giallo del vecchio
appartamento a Hollywood della zia Ruth, che lo distinguono in qualche
modo dagli altri ambienti del film. Sembra quasi naturale, e infonde una
certa sicurezza, rappresentata forse dalla stessa zia Ruth. A cosa miravi
con tutti quei colori caldi?
Come hai detto, è un luogo che dà sicurezza, e dove quindi possono
accadere molte cose, soprattutto certi tipi di cose. E siccome è circondato
da un cortile, che rappresenta un’ulteriore protezione, al suo interno
personaggi come Rita e Betty si sentono al sicuro.
In tutto il film ci sono altri colori forti che appaiono in ogni genere di
posto – rosa, rosso e blu – il rosa della maglia di Betty, per esempio, la
vernice che Kesher versa sui gioielli della moglie e via dicendo. Come hai
pianificato questi accostamenti cromatici?
Ogni singolo elemento del film è basato sulle idee. Se potessi
racchiudere l’intero film in una singola idea alla volta, lo vedresti
comunque dall’inizio alla fine. Ma purtroppo le idee arrivano a frammenti.
Ognuno, però, è completo, e ti stimola la mente. Arriva rapido, come una
scintilla, e lo cogli quando la sua luce si sta affievolendo: in quel
momento ne hai consapevolezza. Scorre velocissimo, ma tu lo percepisci
alla velocità giusta. In qualche modo lo sai e basta, ed eccolo lì. Un
millesimo di secondo prima non c’era, poi scocca la scintilla ed è nella tua
mente. Il resto del lavoro consiste nel mantenersi fedele a quelle idee. E a
quanto pare è questo il segreto, tradurre le idee in cinema e rimanervi
fedele. Tutto qui.
D: Quant’è difficile?
LYNCH: Non è tanto difficile. È solo che non si può essere
autoindulgenti, perché ogni elemento è cruciale. Ogni elemento deve
risultare corretto prima di poter passare oltre, corretto dal punto di vista
dell’idea. Bisogna lavorarci finché non hai la sensazione che sia corretto.
Allora sì che hai fatto il lavoro della giornata. Poi il giorno dopo torni e ci
sono tutte queste cose incompiute che vanno sistemate un pezzetto per
volta. Per ogni elemento devi cercare di ottenere il massimo della
correttezza secondo l’idea originaria. È questo il tuo lavoro.
D: Laura, ovviamente tu hai già lavorato con David – Velluto blu, Cuore
selvaggio. È stata un’esperienza molto diversa lavorare in questo modo
particolare?
DERN: Sì. Chiaramente ci sono delle costanti nell’esperienza unica che è
lavorare con David. E la cosa interessante è che non si è trattato tanto del
lavorare scena per scena, senza un copione. È stato più che altro il fatto di
lavorare in digitale: la facilità con cui si possono girare le riprese della
giornata; la facilità con cui David può girare da solo, spostare la
telecamera e ottenere la scena che vuole; il fatto di avere alla fine di una
giornata dieci o dodici ore di girato, cosa impensabile sul set di un film
tradizionale in 35 millimetri. Andavamo sul set e ci mettevamo al lavoro.
Avevamo il lusso di girare un’intera scena senza tagli, perché nella
telecamera possono starci quaranta minuti. Ciò dà all’attore una grande
libertà, puoi restare nel momento anziché doverti interrompere, fissare
l’attimo e (ride) cercare di ritornarci e replicarlo.
Poi c’è il fatto che David mi ha dato diversi personaggi da interpretare.
È stata una gioia pura. Avere qualcuno che ammiro da una vita e che si
fida di me abbastanza da dirmi: «Lavoriamo in questo modo, tu esplora
queste varie persone, o aspetti di una persona, buttiamoci e basta». Se
David ha qualcosa da insegnare agli altri registi, una cosa che credo
sarebbe utilissima è che gli attori vogliono essere ciò che tu vuoi che
siano, ed essere coraggiosi, audaci e bravi quanto tu lo desideri. Bisogna
credere negli attori. E questo non si può fingere. David crede negli attori.
È molto preciso e dettagliato su quello che vuole. Siccome il film è
astratto, si potrebbe pensare che il suo modo di esprimere ciò che vuole da
te sia vago o surreale, e invece non è così.
D: Laura, in questo film sei anche produttrice. Che cosa hai visto, il
copione o l’autore?
DERN: Questa è una domanda per David, veramente. Io non saprei
neanche da dove cominciare a rispondere.
LYNCH: Non capisco la domanda.
DERN: Be’, da attrice, la prima cosa che vedo è l’autore, il regista, ed è
con lui che mi metto al lavoro. Quando mi chiama questo David qui, io mi
presento. Non mi serve un copione. Da produttrice, credo che sia stato un
bellissimo attestato di stima da parte di David avermi coinvolta in questa
impresa durata tre anni.
D: Nel film hai usato l’attrice giapponese Nae Yuuki, che è piuttosto
famosa.
LYNCH: Non potrò mai dire abbastanza bene di Nae.
DERN: L’affetto.
LYNCH: Seriamente, è l’affetto, la fiducia. Laura ha un grande talento.
Quando la persona giusta per una parte è qualcuno a cui vuoi bene, sei
felicissimo perché sai che farete insieme un bel pezzo di strada. È stata
una tale gioia vederla calarsi nel ruolo alla perfezione.
Dalla nostra ultima intervista del 2001, molte cose sono accadute a David
Lynch: il successo di Mulholland Drive ha riacceso l’interesse per le sue
opere; ha aperto il sito Davidlynch.com, creato la Fondazione David Lynch
per l’istruzione basata sulla coscienza e la pace nel mondo, compiuto
sessant’anni, pubblicato In acque profonde e realizzato Inland Empire –
L’impero della mente, e annunciato che d’ora in avanti il video digitale
sarà il suo mezzo cinematografico d’elezione. Ha moltiplicato i già
numerosi spazi, media e progetti che lo hanno tenuto occupato e, come
osserva alla fine di questa intervista, si è spinto persino a cantare e
incidere [brani musicali]. Sebbene dichiari che si tratta di uno «scherzo»,
ha effettivamente già pubblicato come cd singolo «Ghost of Love», la
canzone che ha interpretato per la sequenza iniziale di Inland Empire, ed è
alacremente al lavoro su un album completo.
Nella consueta modalità divagante, la nostra conversazione comincia
spaziando in varie direzioni, dalla sua traversata insieme a Jack Fish e al
fratello per trasferirsi da Philadelphia a Los Angeles, alla geografia del
Sudovest americano, a un cartello che vidi nel nord del Texas che
dichiarava, in toni quasi lynchiani: «Uscita per Rattlesnakes [in italiano
“serpenti a sonagli”]». Torniamo poi ai suoi film, al suo rapporto con le
interviste, e a quello che è accaduto nell’anno e mezzo trascorso
dall’anteprima mondiale di Inland Empire. Mi accorgo subito che il suo
ruolo pubblico relativamente nuovo di portavoce della meditazione
trascendentale, insieme al recente giro di conferenze negli Stati Uniti, lo
hanno reso insolitamente loquace. E anche le sue risposte evidenziano una
quantità di collegamenti, affascinanti seppur enigmatici, fra il suo
entusiasmo per la meditazione, il suo approccio tutto teso al processo di
realizzazione dei film e i temi specifici di Inland Empire.
A Indiana è piaciuto.
Sì, sì. Però ti dico, è stato un po’ un amore misto a odio. Il film fu
proiettato prima al Filmex, il festival di Los Angeles, e uscì un articolo
che ancora ho su Variety, ed era proprio, ecco... (pausa) – il tizio che lo ha
scritto, chiunque fosse, era la persona sbagliata.
Per Inland Empire invece ci sono voluti due anni e mezzo, giusto?
Direi da due anni e mezzo a tre. Ma dipende... l’inizio, non lo so di
preciso, ma ci è voluto un bel po’ per cominciare.
È la scena in cui Laura Dern, nei panni di Susan Blue, parla con Mr K
in una stanza fortemente illuminata...
Sì, forse. Ammettiamo che fosse quella. Per cui la guardo e dico: «No,
questa non è solo una scena, contiene qualcos’altro». E ci penso su.
Intanto, però, mi viene un’altra idea, e la scrivo e la giro. Ed erano proprio
due scene diverse, non collegate fra loro... Poi mi viene un’altra idea
ancora, la scrivo, giro la scena, e anche quella non c’entrava niente con le
precedenti, neanche un po’. Ma c’era qualcosa... stavo ancora pensando
alle scene di prima, ma non erano collegate tra loro, assolutamente.
Sei mai stato tentato di scrivere una sceneggiatura che potesse unirle?
Dunque, quel che hai appena detto significa: «Sei mai stato tentato di
scrivere la sceneggiatura di un lungometraggio?» Ma per poter fare questo
servono delle idee. Non puoi sederti e metterti a scrivere; immagino che
così facessero i surrealisti, che si mettevano a scrivere cose qualunque, del
tipo: «La fornace è d’argento, e ha del rosso». Oppure scrivi qualsiasi cosa
tu veda, qualsiasi cosa ti passi per la testa, ma potrebbe trattarsi di
scemenze. Per cui sì, puoi scrivere pagine intere di scemenze, ma ci
vogliono delle idee, quindi aspetti, e io dico sempre che, una volta che hai
qualcosa, puoi concentrarti su quello, è come un’esca che attirerà altre
idee. Ed è più o meno quel che stavo facendo io, per tutto il giorno, qua e
là: concentrarmi su una cosa e pensarci, pensarci; e di colpo arrivava altra
roba, altre idee. E queste nuove idee erano collegate alle precedenti, ma
c’erano volute quelle per farle arrivare. E ne è venuta fuori una cosa
completamente nuova, e quella sì che aveva l’aria di un lungometraggio.
Insomma è andata così.
E non hanno voluto un copione, per cui non hai mai dovuto pensarci
veramente.
No, no.
Ci sono stati dei momenti in cui avresti voluto che andasse avanti per
più di tre anni?
No, no, no. Non dico: «Ah, voglio starci quindici anni». (Ride.) È
assurdo. Sarebbe grandioso se le idee arrivassero tutte insieme e potessi
andare avanti senza sosta. Ma c’è un altro collegamento, la questione della
velocità con cui lavori. Io dico sempre che se stai facendo delle riprese più
tradizionali, l’importante è ingranare: una volta che hai messo insieme il
cast, la sceneggiatura e una tabella di marcia, a quel punto ingrani e non ti
fermi finché non hai girato tutte le scene. E la tabella di marcia è studiata
per essere il più breve possibile per via dei costi, per cui devi stare nei
tempi. Questo tipo di pressione e di atteggiamento mentali sono perlopiù
positivi, se hai compilato anche tu la tabella di marcia e ti immagini al
lavoro. Ma io sono un po’ ottimista e penso sempre: «Ma sì, posso farlo
senza problemi», e invece non è mai così. Finché non arriva qualcuno che
ti dice: «David, siamo realistici, ti serve più tempo di così». A quel punto
butti giù un programma che pensi di poter rispettare. Ma a quella velocità
non ti godi proprio il lavoro come quando hai ritmi più distesi, quando hai
tempo per fare delle pause, quando sei sul set o nelle location, a
fantasticare e catturare idee più profonde, e il film acquisisce tutta un’altra
dimensione di «realtà». Credo che in un certo senso alimenti il processo. A
ogni modo è molto piacevole. Spesso, mentre giravo Eraserhead, non si
faceva niente, me ne stavo sul set e immaginavo tutto il mondo che mi
circondava. Era proprio piacevole, così. Credo che renda il film più reale,
e che certe piccole scelte si modifichino e migliorino grazie al tempo
trascorso in quel mondo. È bello.
Hai parlato spesso del mondo che un film crea, ma con Inland Empire
questo discorso sembra estremizzato, c’è la sensazione di tanti mondi che
si scontrano, si scambiano, si mescolano moltiplicandosi molto più che nei
tuoi film precedenti. Ti sembra una descrizione corretta?
Sì. Non è diverso, però, dall’essere semplicemente un umano sulla terra.
Capisci cosa intendo? (Ride.)
Ho letto da qualche parte che stavi meditando quando hai avuto l’idea
del ballo con la canzone «Locomotion» insieme alle prostitute nella casa
di Smithy...
La casa di Smithy...
Quindi dalle sedute di meditazione sono emerse, secondo te, delle cose
non intenzionali?
È così: non usi la meditazione per trovare delle idee. La usi per
espandere la coscienza, e tutte le qualità della coscienza, che sono tutte
positive; e quando lo fai espandi l’intelligenza, perché è un campo di
infinita intelligenza. È come se contenesse tutta l’intelligenza che esiste,
ed è una pienezza totale: infinita energia, felicità, amore. È questo campo.
E come dico sempre, tutti quanti abbiamo una coscienza. E se vuoi sapere
cos’è, cancellala e ti renderai conto che senza la coscienza non esisti, e che
se anche esistessi non lo sapresti. Lo dico da tempo nelle conferenze.
Senza coscienza non esistiamo. Possiamo dire «Io sono» solo grazie a
essa. E inoltre: tutti hanno la coscienza, ma non nella stessa quantità. E
come dice Maharishi [Mahesh Yogi], ci sono molte persone che hanno più
coscienza di quelli che meditano... La coscienza è reale, è la realtà, e si
può espanderla, ma solo sperimentandone il vasto oceano.
E un’altra cosa: come dico sempre, prima della ricerca neurologica,
sapevamo di tutti i vari tipi di meditazione. Poniamo che sei persone si
incontrino e facciano ciascuna un tipo diverso di meditazione. E ognuna di
loro dice: «Ah, caspita, che bella meditazione, così profonda, così
sublime, così potente, ne sono uscito proprio ristorato». Ma stanno
parlando tutti della stessa cosa? In quale misura è solo immaginazione, e
in quale... capisci? È la solita storia: vediamo tutti lo stesso colore quando
diciamo «rosso»? È curioso. Invece oggi, con la ricerca neurologica,
possono mostrarti – ed è abbastanza sorprendente – quando uno trascende
davvero e sperimenta il livello più profondo della vita, bum –
automaticamente, davanti ai loro occhi, c’è una totale coerenza mentale,
l’unica esperienza della vita che illumini l’intero cervello. Abbiamo
sempre sentito dire che usiamo solo il cinque o dieci per cento del
cervello. Ecco un’esperienza che lo usa tutto. Per intero. Allora tu pensi:
«Aspetta un attimo, questo sì che è interessante».
...e non dice nulla, il suo volto non cambia molto, ma si ha la sensazione
che finalmente sia sopraggiunta un’immobilità, sembra...
Bellissimo, sì, è molto bello.
In quel momento c’è una tale quiete, che lei chiaramente non ha mai
provato in nessuna delle varie manifestazioni precedenti.
Esatto.
...che rimanda a Velluto blu e a Twin Peaks, c’è Laura Harring che era
in Mulholland Drive. Sembrava suggerire una sorta di unificazione...
È una bella parola...
...del cast, degli attori, di tutti quelli che hanno lavorato al film, e del
tipo di film che hai girato. Questa è solo una mia interpretazione forse
azzardata, ma sono curioso di sapere cosa pensi al riguardo.
Diciamo solo che è un bel modo di pensare.
Il passaggio al dvd sembra una vera novità per te, perché invece
dell’approccio essenziale in cui presenti solo il film, qui ci sono molte più
cose, e sembra un cambiamento nella tua disponibilità o nel tuo
apprezzamento. Ci sono delle storie, c’è il tuo programma di cucina
(Lynch ride), c’è «More Things that Happened», come lo hai intitolato, e
anche alcuni spezzoni non classificati. Lo hai vissuto come un
cambiamento importante?
So cosa intendi. Il film è sempre il protagonista, ma si possono inserire
altre cose, se non lo danneggiano. E anche con questi che chiamano
«contenuti extra», ho lavorato per tre anni e non ho guadagnato un
centesimo da Inland Empire. È una strana storia. Non avrei inserito nulla
che avrebbe danneggiato il film, e in un certo senso «More Things that
Happened» dà più spazio al sogno e a certe domande. Mi piace questa
idea. Il programma di cucina era più che altro uno scherzo, ma poi è nata
una storia con una sua atmosfera, per cui ho deciso che mi piaceva come
formato. Io non cucino (ride), per cui è stato divertente...
Quello che dicevi sulla vita di un film che continua è quanto è successo
per Fuoco cammina con me.
Fuoco cammina con me... lì ci si è messo in mezzo il destino. Sai, in
astrologia si possono seguire gli alti e bassi della nostra vita, e si vede che
questo sarà un periodo difficile. E mi è successo più o meno dopo il 1992:
Fuoco cammina con me è stato stroncato, ma poi col tempo è stato
accettato e apprezzato sempre più. Quindi sì, ci sono buone notizie. E poi
ho iniziato a cantare, quindi forse sarà quello il mio prossimo progetto.
1967
1968
The Alphabet
Produttore: H. Barton Wasserman
Scritto, diretto e filmato da David Lynch
Interpreti: Peggy Lynch (Bambina)
16 millimetri, colore
4 minuti
1970
The Grandmother
Sovvenzionato dall’American Film Institute
Scritto, diretto, filmato e animato da David Lynch
Consulenti alla sceneggiatura: Margaret Lynch, C.K. Williams
Fotografia: Doug Randall
Musica: Tractor
Montaggio sonoro e missaggio: Alan Splet
Effetti sonori: David Lynch, Margaret Lynch, Robert Chadwick, Alan Splet
Interpreti: Richard White (Ragazzo), Dorothy McGinnis (Nonna), Virginia
Maitland (Madre), Robert Chadwick (Padre)
16 mm, colore
34 minuti
1974
The Amputee
Prodotto, scritto e diretto da David Lynch
Fotografia: Herb Caldwell, Frederick Elmes
Interpreti: Catherine E. Coulson (Donna), David Lynch (Dottore)
Video, bianco e nero
Versione 1: 5 minuti; versione 2: 4 minuti
1977
1980
1984
Dune
Universal
Produttore: Raffaella De Laurentiis
Regia: David Lynch
Assistente alla regia e produttore associato: José Lopez Rodero
Sceneggiatura: David Lynch, basata sul romanzo di Frank Herbert
Fotografia: Freddie Francis
Montaggio: Antony Gibbs
Designer sonoro: Alan R. Splet
Musiche: Mary Paich, Toto, Brian Eno, Daniel Lanois, Roger Eno
Costumi: Bob Ringwood
Effetti speciali: Kit West, Albert J. Whitlock, Charles L. Finance, Barry
Nolan
Scenografie: Anthony Masters
Coordinatore di produzione: Golda Offenheim
Architetti-scenografi: Pierluigi Basile, Benjamin Fernandez
Interpreti: Francesca Annis (Lady Jessica), Kyle MacLachlan (Paul
Atreides), Dean Stockwell (Dottor Wellington Yueh), Max Von Sydow
(Dottor Keynes), Jurgen Prochnow (Duca Leto Atreides), Brad Dourif
(Peter De Vries), Jose Ferrer (Imperatore Padishah Shaddam IV), Freddie
Jones (Thufir Hawat), Silvana Mangano (Reverenda Madre Ramallo),
Kenneth McMillan (Barone Vladimir Harkonnen)
70 mm, colore
137 minuti
1986
1988
1989
Twin Peaks (I segreti di Twin Peaks) (episodio pilota per la serie, poi
distribuito a parte per l’home video)
Lynch/Frost Productions, Propaganda Films, Spelling Entertainment
Produttori esecutivi: Mark Frost, David Lynch
Produttore: David J. Latt
Regia: David Lynch
Sceneggiatura: David Lynch e Mark Frost
Fotografia: Ron Garcia
Sonoro: John Wentworth
Montaggio: Duwayne Dunham
Musiche: Angelo Badalamenti
Scenografie: Patricia Norris
Interpreti: Kyle MacLachlan (Agente speciale Dale Cooper), Michael
Ontkean (Sceriffo Harry S. Truman), Sheryl Lee (Laura Palmer), Ray
Wise (Leland Palmer), Grace Zabriskie (Sarah Palmer), Dana Ashbrook
(Bobby Briggs), Phoebe Augustine (Ronette Pulaski), Catherine Coulson
(Signora Ceppo), Al Strobel (Uomo con un solo braccio), Frank Silva
(Bob)
35 mm, colore
112 minuti
1990
1990-91
1991-92
1992
1995
1996
1999
2001
Mulholland Drive
Les Films Alain Sarde / Asymmetrical Productions
Produttore esecutivo: Pierre Edelman
Produttori: Mary Sweeney, Alain Sarde, Neal Edelstein, Michel Polaire,
Tony Krantz
Scritto e diretto da David Lynch
Fotografia: Peter Deming
Sonoro: Susumu Tokunow, Edward Novick
Montaggio: Mary Sweeney
Composizione e direzione d’orchestra: Angelo Badalamenti
Scenografia: Jack Fisk
Interpreti: Naomi Watts (Betty Elms / Diane Selwyn), Laura Elena
Harring (Rita / Camilla Rhodes), Justin Theroux (Adam Kesher), Ann
Miller (Coco Lenoix), Dan Hedaya (Vincenzo Castigliane), Angelo
Badalamenti (Luigi Castigliane), Robert Forster (Detective Harry
McKnight), Brent Briscoe (Detective Domgaard), Jeanne Bates (Irene),
Dan Birnbaum (Compagno di Irene), Michael J. Anderson (Signor Roque),
Joseph Kearney (Valletto del signor Roque), James Karen (Wally Brown),
Monty Montgomery (Cowboy), Maya Bond (Zia Ruth), Patrick Fischler
(Dan), Michael Cooke (Herb), Bonnie Aarons (Uomo nero), Marcus
Graham (Signor Darby), Melissa George (Camilla Rhodes), Michael des
Barnes (Billy), Lori Heuring (Lorraine), Billy Ray Cyrus (Gene), Chad
Everett (Jimmy Katz), Wayne Grace (Bob Booker), Rita Taggart (Linny
James), Michelle Hicks (Nicki), Richard Green (Il Mago), Cori Glazer
(Signora dai capelli blu), Rebekah Del Rio (Se stessa)
35 mm, colore
146 minuti
2002
Dumbland
Prodotto, scritto, diretto e montato da David Lynch
Interpreti: tutte le voci (Randy, Spark e gli altri) sono di David Lynch
Video digitale, bianco e nero
35 minuti in tutto, otto episodi online
Rabbits
Scritto, diretto e montato da David Lynch
Interpreti: Scott Coffey (Jack), Rebekah Del Rio (Jane), Laura Harring
(Jane), Naomi Watts (Suzie)
Video digitale, colore
50 minuti in tutto, otto episodi online
Darkened Room
Prodotto, scritto, diretto e fotografato da David Lynch
Interpreti: Jordan Ladd (Ragazza n. 1), Etsuko Shikata (Se stessa), Cerina
Vincent (Ragazza n. 2)
Video digitale, colore
8 minuti
2006
Inland Empire (Inland Empire – L’impero della mente)
Studio Canal, Camerimage / Tumult Foundation e Absurda Productions
Produttori esecutivi (Polonia): Ewa Puszynska, Marek Zydowicz
Produttori: David Lynch, Mary Sweeney, Jeremy Alter, Laura Dern
Produttori (Polonia): Kazimierz Suvala, Janusz Hetman, Michal
Stopowski
Scritto, diretto, fotografato e montato da David Lynch
Direzione artistica: Christina Ann Wilson, Wojciech Wolniak
Scenografia: Melanie Rein, Svietlana Slawska
Costumi: Karen Baird, Heidi Bivens
Interpreti: Karolina Gruszka (Ragazza smarrita), Jan Hench (Janek),
Krzysztof Majchrzak (Fantasma), Grace Zabriskie (Visitatrice n. 1), Laura
Dern (Nikki Grace / Susan Blue), Ian Abercrombie (Henry il
maggiordomo), Jeremy Irons (Kingsley Stewart), John Churchill (Chuck
Ross, primo aiuto regista), Justin Theroux (Devon Berk, Billy Side), Harry
Dean Stanton (Freddie Howard), Diane Ladd (Marilyn Levens), William
H. Macy (Annunciatore), Julia Ormond (Doris Side), Jeremy Alter
(direttore di scena), Mary Steenburgen (Visitatrice n. 2), Jason Weinberg
(Manager di Nikki Grace), Bucky Jay (Macchinista; voce di David Lynch),
Stanislaw Kazimierz Cybulski (Signor Zydowicz), Henryka Cybulski
(Signora Zydowicz), Emily Stofle (Lanni), Jordan Ladd (Terri), Kristen
Kerr (Lori), Terryn Westbrook (Chelsi), Jamie Eifert (Sandi), Kathryn
Turner (Dori), Michelle Renea (Kari), Erik Crary (Signor K), Leon
Niemczyk (Marek), Josef Zbiróg (Darek), Marian Stanislawski
(Franciszek), Masuimi Max (Niko), Nastassja Kinski (Cameo), Scott
Coffey (Jack Rabbit), Laura Harring (Jane Rabbit), Naomi Watts (Suzie
Rabbit)
Video digitale, colore
179 minuti
2007
Ballerina
Contenuto nel dvd di Inland Empire – L’impero della mente
Diretto e fotografato da David Lynch
Video digitale, colore
12 minuti e 19 secondi
Absurda
Scritto, diretto e fotografato da David Lynch
Video digitale, colore
2 minuti e 17 secondi
Boat
Scritto e diretto da David Lynch
Montaggio: Hilary Schroeder, David Lynch
Interpreti: David Lynch (se stesso); narrato da Emily Stofle
Video digitale, colore
8 minuti