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LETTERATURA TEATRALE COMPARATA Steiner delinea nella prima parte del “Le

Antigoni” alla fortuna di Antigone come essenza dalla Filosofia del tragico nata, come
dice Peter Szondi, come il canto di una nottola di Minerva (immagine hegeliana) che
canta quando muore il giorno, così la filosofia del tragico fa con la tragedia, iniziato
secondo Steiner da Hölderlin che traduce l’Antigone di Sofocle. La seconda parte
delinea la fortuna di Antigone in Europa tra il ‘500 e il ‘700/’800 del mito di Antigone.
La terza parte è l’interpretazione/lettura di Antigone di Sofocle. Alfieri sceglie Antigone
perché consapevole dei difetti costruttivi della tragedia. Brecht riprende la traduzione
di Hölderlin e porta Antigone a Berlino che sta per essere liberata dai nazisti. Antigone
è un modo di rappresentare la scena in modo tribale che supera la teoria dello
straniamento, ciò è delineato dall’amico Neher (scenografo) che rappresenta in scena
un particolare ring, questo sarà ripreso dal Living Theatre. o Come la cultura
occidentale ha ripreso e interpretato i testi tragici? La tragedia era uno dei generi
desueti durante il Medioevo. Il significato di tragedia cambia diventando un genere
alto, grazie anche alla Poetica di Aristotele, passato a Sant’Agostino dalle traduzioni
arabe. La tragedia viene considerata come stile alto, anche se Seneca era conosciuto,
questo non venne tenuto in conto nella scelta retorica, Dante usa il tragico come stile
elevato, lo stile tragico più alto è il genere della canzone usato in senso “amoroso” e
dottrinale. Il tragico si slega dal teatro per via dell’individuazione nel “De Oratore” di
Cicerone del punto di partenza nella scelta di una lingua deprivata che fluisce nella
canzone. Il cambiamento avviene nel XV secolo con l’avvento dello Umanesimo,
l’epoca delle “scoperte umane” che unita alla caduta di Costantinopoli portano tutti i
testi greci e romani in Occidente, si scoprono le sette tragedie di Sofocle ma non vi è
una ripresa tragica nelle lingue moderne, chi scrive tragedia lo fa in greco o latino, il
primo che scrive una tragedia in lingua moderna è Gian Giorgio Trissino, che nel 1524
scrive “Sofonisba” la prima tragedia in volgare, egli cerca di inserire un argomento
greco nell’ambito della tragedia greca classica. La tragedia moderna non ha ideologia
tragica di fondo, nella tragedia greca il motivo è da identificarsi nella nascita seguita
dalle feste dionisiache e dalla ideologia politica, tipica ateniese, della democrazia. I
letterati italiani, francesi, spagnoli, inglesi e tedeschi iniziano a scrivere tragedie con
una grande differenza tra il 1548 e il 1550 dove è nata una polemica per le
interpretazioni della Poetica di Aristotele. Nel ’48 Francesco Robertello commenta
liberamente l’opera, invece solo due anni dopo Bartolomeo Lombardi e Vincenzo
Maggi pubblicano un altro commento interpretando l’opera sull’idea della
Controriforma. La Poetica ha salvato la tragedia in una Europa cattolica dall’accusa di
essere un genere eretico, per via della derivazione che la tragedia segue il fato e il
destino (Tyche). Se nel genere della tragedia si fosse continuato a seguire il tema del
fato in Europa il genere nel 1500-1800 non avrebbe avuto fortuna, ma nella Poetica
l’atùchema (la colpa destinata dal fato) non è presente. Invece nell’Etica Nicomachea
Aristotele delinea tre tipi di colpe: adìkema, la colpa per un gesto compiuto
volontariamente; atùchema, ovvero la colpa destinata dal fato e hamartia, la colpa per
un errore di calcolo o per ignoranza (perché non si è capito appieno). Nella Poetica
questo discorso è diverso, Aristotele descrive la tragedia come il luogo dove si
confrontano du termini di terrore: la Mochtheria, ovvero la crudeltà abituale e il suo
opposto ovvero l’Hamartia / Amàrtema. L’eroe deve essere di “media bontà”, non deve
essere perfetto (andrebbe contro Dio) e non deve essere crudele (meriterebbe il finale
tragico). Eroe deve commettere solo errori di valutazione e ignoranza. Nel 1550 in
Italia si rincorre a collegare l’Amàrtema con le distinzioni cavillari (giuridiche e gesuite)
decidendo che il solo agire innocente è quello per ignoranza, il resto è agire colpevole.
La catarsi tragica è stata un “granchio” rinascimentale dal ‘500 al ‘700, periodo
ossessionato dalle passioni. Quando Aristotele scrive della catarsi la discussione si
aprì nelle modalità di purificazione delle passioni, causa dell'infelicità e
insoddisfazione dell'uomo. Nel ’48 Robertello nel commento intende la catarsi come
rimedio omeopatico, cioè come se alla continua rappresentazione di compassione e
terrore l'uomo si adegui alla visione e al riconoscimento. Lombardi e Maggi due anni
dopo dicono che, con una linea cattolica, le passioni a cui bisogna curarsi sono odio,
invidia ed avarizia. In Edipo ad esempio l'errore è da riconoscere quando egli uccide le
guardie del padre poiché si lascia prendere dall’ira (secondo i coniugi Dacier). In
Francia la tragedia classica trova luogo nella civiltà di corte, nella ideologia dell'onore
che cozza con l'amore, in Corneille e il suo Cid, l'eroe viene offeso dal padre della sua
amata ed egli deve per forza, poiché offeso nell’onore, sfidare a duello il padre che
muore, qui vi è il conflitto tra onore e amore. Nel ‘700 il privilegio è legato al senso
comune, ciò non facilita la tragedia, il testo del 1713 “Menope” di Scipione Maffei e
messo in scena da Luigi Riccoboni, è basato su l'amore filiale, basata sull’ideologia di
giustizia poetica, dov'è la tragedia può finire bene, ovvero contro la Poetica di
Aristotele, privilegiata dalla maggior parte dei letterati italiani, 1 il cambiamento
sostanziale però avviene con Alfieri che pone l'attenzione sull’ingiustizia e non
permette l’accontentarsi del male che diventa bene. La filosofia del tragico ha altre
basi che non è dovuta alla Poetica di Aristotele, ma si basano su un fraintendimento
avuto su una lettura di Aristotele nel passaggio sulla catarsi scoperto nel 1820, infatti
le passioni vanno lette come emozioni e ciò va delineato successivamente alla visione
della tragedia. Mito di Antigone Antigone è la figlia di Edipo e Giocasta. Prima di porre
attenzione ad Antigone, poniamo attenzione al mito di Edipo: Un oracolo predice,
secondo Sofocle, che il figlio, che nascerà da Giocasta, ucciderà il padre. Si decide
allora di sbarazzarsi del neonato che potrebbe creare dei problemi e lo si abbandona
dopo avergli trapassato le caviglie con una cinghia (Edipo = Piede gonfio) viene salvato
da un pastore che lo porta a Corinto. Qui Edipo viene allevato alla Corte del Re.
Divenuto adulto decide di recarsi a Tebe per sconfiggere la Sfinge a cui gli abitanti
della città dovevano sacrificare, ogni anno, sette fanciulli e sette fanciulle. Nessun
guerriero era riuscito a sconfiggerla fino ad allora e liberare Tebe da tale flagello. Nel
suo viaggio, quasi alle porte di Tebe, Edipo incontra Laio (il padre), il cui araldo
Poliplate gli uccide il cavallo che non era stato lesto a ritrarsi dalla strada al passaggio
del re. Edipo, infuriato, uccide il padrone e il domestico, arriva a Tebe, in lutto, dove è
già arrivata la notizia. Si reca nel palazzo dove dimora la Sfinge. Risolve l’enigma posto
a coloro che la sfidano. La Sfinge si suicida. Divenuto eroe nazionale sposa la regina
Giocasta, sua madre vedova a causa sua, da questa ha quattro figli: Eteocle, Polinice,
Antigone e Ismene. Edipo scopre l'incesto con la madre si cava gli occhi e parte
ramingo fino ad arrivare in un bosco sacro dove viene prelevato dagli dei e lo
restaurano di tutti i mali. A Tebe la ricerca di Edipo continua, i figli decidono di
governare un anno a testa fin quando che Eteocle non vuole abbandonare il trono
così Polinice ritorna dall’esilio per permettere un altro insediamento, i due fratelli si
uccidono uno per mano dell'altro, il trono passa a Creonte, fratello di Giocasta, che
decide di non far seppellire il corpo di Polinice per tradimento della patria. Antigone di
Sofocle (442 a.C.) L'opera inizia un'ora prima dell'alba, ciò è utile per delineare il
personaggio di Antigone associato più a divinità come Ade. Per Alfieri Antigone è un
animale notturno e cupo, derivante anche dal suo neoclassicismo cupo. Creonte
invece sempre per Alfieri è la figura negativa che opera alla luce. Pag.21 : Fin da subito
si denota l'uso in “Sangue del mio sangue” del duale greco, usato molto di più nelle
commedie. Nella versione greca Antigone non pronuncia mai il nome di Creonte, nella
prima battuta lo chiama Strategos (nel testo Creonte). Antigone non vuole nominare il
nome di Creonte, poiché non lo riconosce al potere, poiché egli prima fu comandante
poi tiranno. Spesso nella tragedia vi è una situazione di parresia (dove chi dice la
verità rischia la vita) ciò viene delineato dalle figure di Antigone e della guardia ma
Creonte non capisce i suoi errori se non un momento prima di morire. Pag.21 :
Ismene non sa nulla e Antigone risponde di sapere e che prevedeva quello che sta per
delineare. Antigone e Ismene, le due sorelle sono contrapposte, divise tra la donna
forte (Antigone ) e la donna debole che ubbidisce (Ismene). Antigone
etimologicamente sta per “generata contro”. Ismene non sa prendere decisioni,
questa contrapposizione continua in tutte le tragedie, tranne in Alfieri dove Ismene
non è rappresentata. Pag.21 : Antigone dice a Ismene che Creonte ha deciso di non
seppellire Policine seppellendo però l'altro fratello Eteocle. Il non seppellimento del
cadavere non permette al corpo di andare nell'Ade, il fattore da aggiungere è anche la
puzza del cadavere che non permette il pianto di qualcuno creando ribrezzo. Pag.21-
22 : Antigone dice a Ismene di dimostrare di essere figlia di nuovi genitori. il fraseggio
tra le due donne, qui diventa veloce passa da battuta a battuta e Ismene non decide,
chiedendosi che vantaggio può avere sei compirà o non compirà il volere di Antigone.
Antigone vuole seppellire il corpo di Policine, lo propone a Ismene, Antigone dice “se
tu ti opponi, non sarò io a tradirlo!”. Ismene porta tutto sul piano della pena pensando
al padre alla madre che si impicca e alla morte dei due fratelli. Ismene si dimostra alla
mercé degli uomini e di chi governa e non ha coraggio di affrontare il potere maschile
tanto da dire “siamo donne, ricordalo, non possiamo batterci con gli uomini”. Ismene
ha introiettato il sistema educativo che la richiederà inferiore ai maschi alla legge di
chi governa e degli uomini. Pag.22-23 : Antigone non cercherà più Ismene e non
gradirà più l'aiuto della sorella, Antigone commenta con “giacerò accanto a colui che
mi amava “ pensando al fratello e “colpa è santa “ per fare quello che è giusto,
Antigone è sola, non ha il supporto della sorella, vive nel buio ed è propensa ad
andare da Ade, Ismene non ha la forza di sfidare la città, le due sorelle sono
totalmente distaccate, Antigone si in colpa disboulia (follia, dissennatezza ) Ismene
continua 2 chiudere in una grotta Antigone con un poco di acqua e un po' di cibo, per
la prima volta Creonte pensa al confronto con gli dei infatti dice “la farò portare in un
luogo dove non vi sono tracce di uomini e la farò seppellire viva in una grotta. Avrai il
cibo necessario evitare il sacrilegio e a preservare la città dalla contaminazione. Là
preghiera Ade -il solo Dio che adora - e forse scamperà alla morte, oppure finalmente
capirà che è vana impresa vedere i morti” . Creonte comprende questo culto di
Antigone verso la divinità infernale, sotterranea. Il coro elogia Eros in uno stasimo,
Eros è il dio dell'amore che ha acceso il contrasto tra padre e figlio ma l'attenzione
viene spostata subito su Antigone che si avvia a essere chiusa nella grotta qui inizia il
lamento di Antigone. Pag. 43-44-45-46-47-48 : Cambia la versificazione, vi è un
lamento dedicato alle nozze mancate con Emone che la porta a rimpiangere la vita,
ma prontamente vi è un cambio di prospettiva che passa dal matrimonio alla morte. Il
corifeo dà onore ad Antigone dicendo “Tutta gloriosa e da tutti lodata ti incammini
verso il regno dei morti“ Antigone si sente diventare roccia paragonandosi così a
Niope, la figlia di Tantalo, che viene pietrificata, il coro risponde che Niope era divina,
discesa dei giganti, invece ella è umana, mortale quindi, vi è qui un tono sarcastico e
Antigone se ne accorge, ella sarà rinchiusa in una terra di mezzo dove “non sarò con
gli uomini e neppure tra le tombe non con i vivi e neppure con i morti”, il corifeo dice
che ha toccato il limite estremo dell’audacia e che la ha assalito il trono di Dike ma
tutto ciò è l'espiazione della colpa di suo padre, Antigone dice che il corifeo ha toccato
un tasto dolente della memoria, qui entra Creonte che ordina la segregazione di
Antigone, a cui segue un proclamo di Creonte che definisce le sue mani come pulite,
pure, poiché ad Antigone viene solo proibito di vedere la luce. Antigone risponde
dicendo che raggiungerà i suoi cari ma rivendica ciò che ha fatto, poiché quello che ha
fatto è stato fatto con ragione, il motivo sostanziale è da ricercare nelle parole “Perché
se muore il marito posso averne un altro, e si perde un figlio posso averne un altro.
Ma poiché mio padre e mia madre sono nell’Ade non potrò avere più un altro fratello
ecco perché ho deciso di onorarti fratello mio “ qui vi è il principio dell’impossibilità di
sostituzione, lei ha dovuto compiere l'azione. Creonte intima le guardie di far
seppellire Antigone. Il coro con il suo stasimo riprende le storie delle donne che
hanno voluto andare contro il potere che sono in parte vittima del fato come per
esempio la storia di Danae. Pag. 49-50-51-52 :Qui vi è il confronto tra Tiresia e
Creonte, il primo affronta il secondo, Tiresia è cieco ed è l'indovino a cui tutti gli dei
chiedono il futuro egli si annuncia e fin da subito dice “Sappi [riferito a Creonte] che ti
muovi sul filo della sorte”. Qui Creonte rabbrividisce, segue Tiresia raccontando le
storie dei segnali che gli dei mandano per la loro sofferenza, racconta di uccelli che si
aggrediscono e dice “la città è malata, ed è per causa tua “ così Tiresia rimprovera
Creonte con “tutti gli uomini possono sbagliare, paesaggio e fortunato è colui che
nell’errore non persevera e cerca di rimediare al male. Mostrarsi irremovibili e da
sciocchi“ quel sbagliare è inteso come hamartia. Creonte dice che tutti sono contro di
lui, vi ritorna nell'uso della metafora il tema dell'arciere, poiché Creonte dice
testualmente "come arcieri sul bersaglio", vi ritorna inoltre il richiamo del denaro in
quanto Creonte dice "mi comprano e mi vendono". Creonte minaccia Tiresia, il quale
lo riprende subito dopo dicendo che la saggezza il più grande dei beni, ma Creonte
riprende a Tiresia dicendo che la stoltezza il più grande dei mali, Tiresia riprende con il
fatto che è proprio di stoltezza che soffre Creonte, Tiresia viene accusato di corruzione
ma i risponde “di turpi guadagni suonavi di tiranni“. Creonte inizia così a giocare sulle
colpe, dice che Tiresia ama l’ingiustizia ed è proprio qui che si usa il termine adikema,
l'ingiustizia volontaria. Tiresia minaccia di fare la predizione a Creonte e che questa
non sono comprabile. Nella predizione Tiresia minaccia sia la famiglia sia il potere di
Creonte, la profezia turba Creonte che inizia a cedere al deinos, la sciagura. Qui
Creonte rinuncia ai suoi piani, andrà a liberare Antigone, Creonte seguirà le leggi degli
dei che sono diverse rispetto le norme orali umane. Pag. 52-53 : Il coro segue con uno
stasimo dedicato a Bacco, Dioniso, delineando che il vino fa uscire dalla ragione,
inoltre viene annunciata la catastrofe. Arriva Il Messaggero che racconta ciò che è
accaduto, l'atto finale non viene rappresentato per via della sua difficoltà nella
rappresentazione poiché gli attori con maschere, calzari e coturni non permettevano
le azioni rapide. i messaggeri hanno una costruzione tale basata sull’attesa. Pag. 54 :
Arriva Il Messaggero che inizia con una lunga battuta e delineare ciò: “Ora tutto è
finito” e ancora “puoi accumulare, se vuoi, grandi ricchezze in casa tua virgola e vivere
nel fasto come un re ; Ma se non c'è gioia, tutte queste cose valgono quanto un ombra
di fumo, e non le scambierei con la felicità”. Il Messaggero delinea quindi che la felicità
è l'essenziale, Creonte ha il potere ma non è felice. Da sottolineare è quel “ombra di
fumo” metafora rimasta nella novellistica passata dalla cultura araba. Si trova in una
novella che fa parte del “Novellino” che parla dello scambio del prodotto con l'essenza
ovvero di un mendicante con una fetta di pane che va al mercato e appoggia al vento
il pane sopra un arrosto, in modo tale che la fetta si impregni del fumo dell' arrosto,
se il fumo può trasmettere un po' di sapore al pane in questo caso l'ombra di un fumo
e zero, perciò Il Messaggero non scambierebbe mai la felicità per il potere nemmeno
se è gratuito ciò ovviamente va contro il discorso che fa Creonte sul denaro. il coro si
domanda quale notizia possa portare il Messaggero ed egli risponde con “sono morti:
i vivi li hanno uccisi.” Emone è 5 morto e si ucciso a causa del padre che permesso
l'uccisione di Antigone. il coro invoca Tiresia dicendo che la sua profezia si è avverata.
arriva Euridice, la moglie di Creonte, che esce per la prima volta di casa solo nel finale,
ella “non è inesperta di sciagure” in realtà, in Sofocle, Emone è il figlio più giovane ed il
figlio maggiore è morto. Ella è abituata a lutto. Il Messaggero racconta più
dettagliatamente il discorso. Pag. 55-56-57-58 : Vi è il racconto del Messaggero.
Creonte stava andando da Antigone ma prima va a pregare gli dei Ecate e Ade per
Polinice. L'intento di Creonte è quello di placare gli animi degli dei infatti Creonte
pulisce il corpo di Polinice e solo dopo vanno da Antigone. La troveranno impiccata
con Emone che l' abbraccia, egli è arrivato troppo tardi. Creonte si accosta ad Emone
che lo attacca ma lo manca poiché Creonte fa un balzo all'indietro così Emone
“rivolgendo contro se stesso la sua furia, si conficca la spada nel fianco fino a metà”. Il
Messaggero narra in modo dettagliato la morte di Emone e conclude con “ora giace
morto accanto a lei morta e celebra le sue nozze nelle dimore di Ade, testimone al
mondo che per gli uomini il peggior dei mali è la follia.” Emone che manca il padre è
un topos delle tragedie dove si parla del rapporto padre figlio. Il termine follia invece
viene chiamata aboulia ovvero mancanza di ragione, follia di un padre che ha perso la
visione delle cose importanti della vita. Il Messaggero condanna la condotta di
Creonte ma qualcosa di strano avviene Euripide, la madre, se ne va e non proferisce
parola, si dispera in casa con le ancelle ed è solo qui che esce Il Messaggero incredulo
della fuga di Euridice ed entra Creonte. Moglie e marito ovvero Creonte ed Euridice
vengono definiti entrambi con il termine hamartia. Creonte cambia il componimento
che diventa in versi, egli si lamenta e si in colpa degli errori che ha fatto e per la sua
mancanza di ragione dall’incapacità di vedere le cose. Egli dice “ guardate: l' ucciso /
l'uccisore, entrambi dello stesso sangue [..] non per la tua ma per la mia follia”.
Uccisore e ucciso dalla stessa famiglia per via della sua aboulia. Creonte capisce che
ha sbagliato ma arriva ora il colpo di grazia con Il Messaggero che riporta il suicidio di
Euridice. Creonte cambia ancora versificazione e dice con estremo dolore “hai
distrutto un uomo già finito” entra così il corpo di Euridice e Creonte ha un doppio
lutto. Il Messaggero in questo caso rivela una frase importantissima “sei tu la causa
della morte di questo figlio e dell'altro: lei ti accusa”. Creonte risponde con “la colpa è
mia / soltanto mia”. Il coro segue la scena dando ragione alla scelta di Creonte di
portare il corpo di Euridice fuori dalla scena, Creonte invoca la morte, il coro dice che
questo sarà il futuro e Creonte desidera di morire. Il coro risponde con “l'uomo non
può scampare dalla sorte fissata dal destino” Creonte qui riepiloga la sua figura
“portate via, portate via questo folle / che ha ucciso te, figlio, senza volerlo, / e anche
te, Euridice. Sventurato me, / non so su quale dei due posare gli occhi, / tutto mi
sfugge, un destino intollerabile / mi è caduto addosso.” il coro chiude la fine della
tragedia con: “ chiave della felicità /è la saggezza /non dobbiamo / fare torto agli dei; /
le parole superbe degli uomini arroganti / si scontrano con i gravi colpi / del destino e
insegnano in vecchiaia / a esser saggi” con il termine saggezza si intende però la
prudenza, ovvero la saggezza pratica dell’agire politico. Creonte ha sbagliato tutto
senza pensare a ciò che ha prodotto e si trova distrutto. Lui non muore ma tutto è
perduto, lui è vecchio e non saggio senza eredi e senza moglie. Questo finale viene
ripreso a modello da Alfieri non solo in Antigone ma in molte tragedie poiché lo
scrittore astigiano elimina il lieto fine e cerca la sopravvivenza del cattivo
condannandolo alla infelicità. Vi è un concetto implicato per cui per ottenere la
saggezza non bisogna commettere in pietà verso gli dei, Creonte non rispetta gli dei
inferi e per questo viene punito, è qui l'errore che lui commette di hamartia. Le
Antigoni di Steiner Terzo Capitolo: Steiner mette in risalto la difficoltà nell’interpretare
l'Antigone di Sofocle. Non ci si può mettere dalla parte dello spettatore. Ci riferiamo al
testo senza la visione dello spettacolo e ciò rende il servizio della traduzione grande e
benefico. Steiner parla di un ponte levatoio riferendosi alla traduzione ma nessun
poliglotta può sapere perfettamente il pensiero e come siano state scritte le cose.
Ismene si distacca dall'idea di Antigone, la sua consanguinea e uscirà dalle Tebaidi.
bisogna studiare leggeri libri futuri dello stesso libro per comprendere totalmente
un’opera. Nelle circa seguenti trenta pagina egli delinea che la lettura ideologica che ci
portano alla completezza. Paragrafo 5 capitolo Terzo: Steiner cerca di capire l'
esclusività dell' Antigone di Sofocle che presenta il conflitto della condizione umana:
uomo contro donna, vecchi contro giovani, società contro individuo, vivi contro morti
e uomini contro Dio. Questi si definiscono nel conflitto con una definizione reciproca
per arrivare a noi ci si deve scontrare con gli altri. Codesti 5 antinomie che si
riprendono nel testo di Sofocle sono delle parti della condizione umana. segue
successivamente una serie di binomi fondamentali punto il testo di Sofocle e
completo per Steiner poiché a tutte queste cinque antinomie che fanno parte della
condizione umana. Tutte le opere hanno questi binomi fondamentali, ovvero due o
tre antonimie che sono eseguite. Solo Antigone di Sofocle rappresenta la perfetta
condizione umana. Paragrafo 9 capitolo Terzo: Steiner apre un altro discorso alle
interpretazioni. Il concetto di comprensione totale è la finzione. Noi non siamo in
grado di comprendere l’Antigone di Sofocle. A ciò seguono degli esempi di modi di
approccio verso un testo. Poi vi sono le riprese e le riscritture, con i rifacimenti del
mito di Antigone. La prospettiva 6 filologica è quella che posta un’equazione tra la
totalità della presenza significante e l’aggregato di unità forali distinte. Nella critica
non esiste nessuna garanzia di lucidità. Occhio del critico è soggettivo, la sua
attenzione è per forza argomentativa e strategica. Concorda con le idee di Mario
Fubini che diceva che la critica è l’intervallo tra due letture. Steiner arriva a dire una
cosa simile. Steiner si tiene lontano dalle scuole della teoria letteraria, preferisce la
dimensione fenomenologica dove l’esperienza è la base di tutto. Esperienza cambia la
lettura. Steiner inizia un percorso personale dove deve ripercorre le sue letture,
ovviamente rileggendo. L’Antigone di Anouilh viene scritta e messa in scena nel ’42
ebbe successo per via degli scarsi prerequisiti necessari per metterla in scena.
Considera la versione di Anouilh come una calunnia verso Sofocle, anche se non lo è.
Questa opera è priva di timore religioso ma pieno di pensiero argomentativo. Il lettore
lento deve definire e unire le due letture: quella filologica, di capire come fosse
recitata o derivazioni e quella delle letture successive. Salto dal V secolo a.C. al XVIII
secolo passiamo all’Antigone di Vittorio Alfieri In mezzo abbiamo un lungo silenzio e
dal XVI secolo abbiamo la riscoperta delle tragedie antiche con un paradosso che con
la tragedia classica che si richiama al modello antico (italiana e francese). Quella
francese ha fortuna in un ambito di monarchia assoluta nelle corti. Tragedia francese
deve essere organica alla civiltà di corte, che mette in scena il conflitto tra onore e
amore con quest’ultima vista come passione tragica, quasi tutte la presentano come
fulcro. Quando in Italia si tenta una via nostrana della tragedia uno degli aspetti
polemici è l’amore. Per distinguerci dai francesi bisogna tornare indietro ed evitare di
inserire l’amore come passione tragica. Il problema è trovare un conflitto tragico, con
la tradizione italiana che riprende, nel ‘700, l’idea della giustizia poetica e della
tragedia a lieto fine, si riprende anche la discussione basato sulla totale possibilità che
le tragedie fossero cantate nella loro totalità o se fossero cantate solo le parti del
coro, la questione nasce nel ‘500 e darà vita al dramma per musica (Melodramma),
allontanato poi dalla tragedia per via della non ripresa della Poetica di Aristotele con
l’elaborazione dell’unità (unicità) aristoteliche. Il Melodramma del ‘700 non punta a
quella direzione, cambiando le scene e cercando sempre il finale felice. Nel ‘600 e
tutto il ‘700 vi sono due generi teatrali che dominano in Italia: la Commedia dell’Arte e
il Melodramma. Per il Teatro non si ha la tradizione di testi recitati, lo si avrà dopo la
riforma di Goldoni nella seconda metà del ‘700 con attori che sono abituati a recitare
tipi fissi, maschere, con una non abitudine di interpretazione. Goldoni libera l’attore
dal tipo fisso per entrare nella parte, interpretare un uomo diverso. Goldoni
accompagna l’attore, lavorando con l’attore. Questa è un’eccezione. Di testi teatrali se
ne scrivono tanti in Italia ma nessuno dei loro autori lavora con gli attori. Ciò è
difficilissimo per chi scrive tragedie che non hanno attori in grado di mettere in scena
l’opera. Vi sono vari tipi di teatro in Italie e vari tipi di attori: gli attori professionisti che
recitano nei primissimi pseudo-prototipi di teatro stabile; i ciarlatani che sono
sottocategoria e ci sono i dilettanti, dall’etimologia seicentesca in ambito artistico
quando si vieta l’esercizio di attore a chi non è accademico. Coloro che si dilettano di
teatro sono dilettanti, lo fanno per piacere. Sono in più nobili o benestanti, da
ricordare i grandi dilettanti musicisti veneti come Benedetto Marcello e Tommaso
Albinoni, il quale perde poi la qualifica di dilettante perché diventa professionista. Tra
gli attori tra ‘600 e ‘700 accade qualcosa a livello di elevazione professionale. Si parla
di Commedia dell’Arte dal 1750, quando Goldoni ne parla. Esistevano invece i comici
dell’arte, arte come artes medioevale (simile alla corporazione) come quella della lana,
degli speziali e così via. Nel ‘600 viene proposta l’arte degli attori, attori dell’arte
diventano professionisti. Comico dell’arte all’inizio è il comico professionista ma
diventa successivamente comico che individua una modalità di spettacolo. Lo sviluppo
di questi due generi: Commedia dell’Arte e Melodramma non lascia altre espressioni,
è raro vedere spettacoli e ancora più raro vedere le tragedie. Dopo il 1748 (esperienza
goldoniana) si impone la tradizione della recitazione comica, meno diffusa e più
difficile da trovare è quella recitazione tragica per via del fatto che nel ‘700 c’è lo
sviluppo a livello europeo della recitazione, la Francia aveva elaborato una netta
differenziazione tra la recitazione comica e la declamazione tragica. Nella tragedia
francese vi era la predominanza del verso alessandrino con versi lunghi dodici sillabe
a rime baciate e in mezzo ad ogni verso vi era una cesura da rispettare, il tutto
suonava come una cantilena con una declamazione molto “affettata” caricata. In
Inghilterra l’attore comico non recitava parti tragiche, l’ultimo grande attore tragico fu
Queen che viene sorpassato dal grande genio del ‘700 superato da David Garrick,
passando dalla commedia alla tragedia, trasformando la recitazione di Shakespeare in
modo più shakespeariano possibile con il suo interpretare il grottesco. In Italia vi sono
tante proposte sulla recitazione ma non si sa ancora come scriverle le tragedie, è
sicuro l’uso del verso ma non si sa che verso usarlo. Giuseppe Baretti propone l’ottava
cioè il verso dei poemi epici. Pier Iacopo Martello inventa il martelliano con quattordici
sillabi di verso baciato, copiando l’alessandrino francese. Non avendo una tradizione
di recitazione tragica si trasporta nella tragedia l’abitudine delle poesie liriche, ciò
permette di esprimere l’amore come le tragedie francese e si permette di avere una
maggior facilità di scrittura e abitudine rispetto alle attese degli spettatori e dei lettori.
Le tragedie francesi venivano lette e non recitate. Saverio Mattei, intellettuale
napoletano, arriva a dire che 7 dall’uso scrittorio della i che per non confondere le
lettere la i iniziale, i intervocalica e la i finale veniva scritta con la j, si usa fino a
Pirandello. Alfieri era ligio a certe caratteristiche grammaticali del tempo, la
punteggiatura non sempre o quasi mai vuole dettare pronuncia. Le virgole, seguendo
le norme del ‘700, andavano messe prima delle “e”. Ciò era sia “giusto” a livello
grammaticale del tempo e sia per palesare una pausa di respiro. Dopo alla Notte si
rivolge ai “Numi” cioè agli Dei, in modo che loro assecondino la sua impresa, dettata
dall’amore fraterno. Vede però una figura femminile avvicinarsi a lei. Le domanda chi
sia. Scena Terza: Argia risponde, ella è “infelice”. Abbiamo l’incontro tra Argia e
Antigone che non si sono mai viste prima, c’è il riconoscimento su cui alcuni avversari
di Alfieri fecero del sarcasmo. È il caso che le fa incontrare e conoscere. Argia cerca
Antigone. Antigone per paura non rivela la sua identità ma dice cosa hanno in comune
ella con Argia, quest’ultima risponde con: “Il dolore, la pietà” cosi Antigone si
“addolcisce” anche se tra le due vi è una sorta di interrogatorio dove il parlato di
Antigone la fa da padrona, Argia risponde solo alle domande. Argia sentendo che
Antigone “un fratello io piango…” capisce che ella è Antigone. Le due si rivelano,
sempre in correlazione con Polinice. Antigone si proclama come la sorella che piange
il fratello e Argia invece come la “vedova infelice del tuo fratel più caro”. Antigone è
l’unica speranza di Argia. Vi è la ripresa della sorellanza ideale tra due donne che
hanno amato in modo diverso lo stesso uomo ma che si riconoscono all’improvviso. Il
linguaggio è antiquati, “speme” per speranza, “amplessi” per abbracci. Il linguaggio di
Alfieri non è fatto tanto sui poeti lirici come Petrarca, vi è un fondo di linguaggio
petrarchesco. Per Alfieri quattro sono i grandi poeti: Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso.
Fa una ricerca linguistica anche dovuta alla traduzione, quando scrive Antigone non
aveva studiato le lingue antiche se non il latino in Accademia. Argia si rivela e Antigone
trema in quel punto, ella aveva solo la paura di morire, si materializza così
all’improvviso la sposa di Polinice, c’è qualcun altro che può subire l’ira di Creonte. Le
due non conoscevano il volto dell’altro ma vi era un grande amore precedente. Argia
senza Polinice non ha niente da perdere. Antigone dice che vi è il divieto di seppellire
Polinice che è lasciato alle intemperie del giorno. “non cale quell’empio” cale è un
verbo toscano che vale “non importa”. Creonte da barbara morte a chi cerca di
seppellire Polinice, sono già sei giorni che egli è in preda della natura senza sepoltura.
Argia non sa che Giocasta è morta e che vi è il divieto di seppellire di Polinice.
Antigone racconta con la metonimia con “ferro” per la spada, Giocasta estrae il
pugnale ancora “caldo” di Polinice e subito se lo conficca nel petto, morendo. Qui vi è
l’unico accenno di Alfieri a quell’incongruenza sulla tradizione di Antigone. Ella dice
che non si è uccisa in questo caso, per via del pensiero del padre, Edipo, che si era
“serbata […] a sua tremula etade” ma prima ancora “Per lui sofferta ho la abborrita
luce” ciò detto da Antigone, creatura notturna votata agli Dei dell’abisso ha più senso.
Cercare la vita e la luce per Antigone è una sopportazione. Argia dice che tutta la colpa
doveva ricadere sul padre “Ei vive? / E Polinice muore?” Antigone difende il padre,
Edipo soffre per lei una pena maggior che la sua colpa o con-colpe. Per la tradizione
antica è il fato che costringe Edipo a fare ciò che ha fatto. Alfieri, qui, non riprende
quelle idee anche cristiane successive, non affronta al tema della colpa e nemmeno
all’idea del fato, dando altre possibilità. Appena il padre (Edipo) viene cacciato o si
esilia da Tebe Creonte promulga le leggi che vietano il sepolcro di Polinice. Argia al
contrario di Ismene che non ha forza di volontà, Argia si offre di condividere l’opera
con la “sorella” Antigone. Antigone blocca l’eccesso di Argia che non vede già l’ora di
“riabbracciare” il marito defunto. Antigone “morte aspetto, e la bramo”. C’è il
contrappasso dell’immagine della doppia fiamma di Stazio, Antigone dice: “sola una
fiamma anco le morte nostre”. Argia dice nella battuta successiva: “Pari di amarlo / noi
fummo; pari; o maggior io. Di moglie / altro è l’amor, che di sorella”. Qui Alfieri sembra
fa il verso alla strofa che Antigone fa in Sofocle sul discorso della morte del fratello
che è insostituibile. Alfieri dà la versione moderna, la moglie ama di più della sorella
ribaltando l’azione di Sofocle. Antigone non vuole gareggiare di amore ma di morte.
Antigone è sola, la madre e i fratelli sono morti ed il padre è esiliato. Antigone dice ad
Argia di tornare ad Argo dove ha un figlio non colpito dalla maledizione della famiglia
(tutti sono morti), lì c’è il pegno del suo amore. Antigone si proclama unica che può
andare contro il divieto di Antigone. Argia maledice il nome di Creonte: “del suo nome
ogni uomo / sentirà orror, pietà del nostro… “ Antigone a questo punto ammette di
aver messo alla prova Argia “Ormai, te credo / non minore di me” Argia ha la forza
giusta per aiutare Antigone. Antigone si scusa per la prova fatta. Gli Dei aiutano
Antigone e Argia con una maggior oscurità notturna. Antigone informa Argia dei
pericoli. Antigone sa dove trova Polinice, Antigone porta le fiaccole “tede” coperte per
non fare eccessiva luce. Con la selce loro incendieranno il corpo di Polinice. Atto
secondo: Scena prima: Scena si apre a Tebe sempre nel cortile del palazzo, Argia e
Antigone sono andate a bruciare il corpo di Polinice. È mattino, in scena ci sono
Creonte e il figlio Emone. Dialogo tra figlio e padre. Inizia Creonte che domanda da
dove nascono i lamenti del figlio “duolti / d’Edippo forse o di sua stirpe rea?” Emone
risponde “ E ti parria delitto aver pietade / d’Edippo”. Si palesa la pietà di Emone per
Edipo e la sua famiglia. Creonte è il fratello di Giocasta, egli ha cercato il trono e perciò
ha sfasciato la famiglia di Edipo, accusato di aver messo contro i due fratelli, figli di 10
Edipo. Emone ha come principale passione l’amore. Creonte pensa che i tempi siano
migliorati, il regno di Edipo si era chiuso con la pestilenza del peccato incestuoso,
Creonte annuncia un miglioramento esistenziale, si presenta come l’uomo della luce.
Emone fa un resoconto diverso “Tra le rovine, e il sangue / de’ più stretti congiunti”
precisa un discorso tenebroso fatto di violenza e duelli fraterni, con la domanda finale
a Creonte se egli è lieto di ciò. Per Emone il regno di Creonte nasce sotto pessimi
auspici. Creonte riporta una notizia, che Sofocle sorvola, del sacrificio del figlio di
Creonte Menèceo, suicida per salvare Tebe. Dimenticare il passato e afferrare la
chioma della Fortuna. Alfieri era un ottimo lettore di Machiavelli e ne “il Principe” vi è
scritto che chi fonda il proprio regno sulla fortuna presto perde. Emone glielo spiega
dicendo che la sua norma di porre onoranza funebre a Polinice grida vendetta al cielo.
Emone propone di porre al fine al divieto dando alla infelice Antigone il corpo del
fratello sepolto. Creonte qui vede in questa richiesta di pietà si rivela esse l’empio re.
Creonte risponde “A me nemica / ell’è” Creonte ha come nemico Antigone poiché ella
ama Polinice e Edipo. Antigone ha una reazione umana, pietà verso i suoi familiari. Se
ella fosse senza pietà Creonte dice “la odierei pur meno”. Creonte è il Machiavelli, non
ha imparato che la fortuna è una dea incostante, ma egli ha imparato altre lezioni del
Machiavelli, il principe deve essere temuto piuttosto che amato. In tutti casi non deve
essere odiato, esso è sempre in pericolo. Temuto, ma deve far fuori tutti coloro che
sono stati offesi dal dolore e la ricchezza. Antigone viene tolta del padre per renderla
debole, se ella fosse andata con il padre eremita in un futuro sarebbe tornata per
portar giustizia a Tebe come fece Adrasto, attaccando Tebe. Creonte è machiavellico
che viene cercato da Alfieri come tiranno machiavelliano, sa che non deve farsi odiare
e se è odiato deve sterminare gli odiatori, egli è il re che perderà il potere e le
speranza di lasciare il suo potere al figlio, per essersi appoggiato troppo alla fortuna. È
stata una ragione che gli ha fatto promulgare il divieto. La ragione è quella di far fuori
Antigone. Antigone secondo Emone sta cercando vendetta. Il popolo non vuole quel
divieto, ne parla male e la vorrebbe superata con l’astuzia e rotta con la violenza. Se
essa si supera Creonte avrà la vita del primo che la infrangerà. Creonte ha creato una
trappola, non vi è ragione in Alfieri del divieto se non la trappola per Antigone per
condannarla a morte. Emone gli proporrà un’alternativa, sposare Antigone. Emone
dice: “Acchiusa spesso / nel silenzio è vendetta”. Creonte dice a Emone se vuole farsi
ingrati innanzi tempo in grado al padre, un pensiero di Creonte che anticipa di tanti il
Saul di Alfieri, cioè il tiranno teme già che il figlio un giorno possa sostituirsi a lui
quando egli è vivo, teme l’agitazione del figlio per la brama di potere. Pensiero è
interrotto dal rumore di soldati e catene. I soldati hanno catturato Antigone e Argia.
Creonte dice: ”Cadde l’incauta entro mia rete uscirne / male il potrà”. Le due donne
sono cadute nella trappola di Creonte. Scena seconda : Ci sono in scena i due
dialoganti precedenti, Antigone, Argia e una guardia con le fiaccole. Creonte dice che
delitto han fatto le due donne e Antigone prende parola dicendo che loro hanno
infranto il divieto dando fuoco, onoranza funebre, al corpo di Polinice. Creonte dice: “E
avrai tu stessa il guiderdon promesso / da me; lo avrai” torna quel “lo avrai” che si rifà
ad una frase importantissima dell’opera che verrà detta successivamente. Emone dice
che l’audacia di Antigone non merita ira, Creonte dice che non prova ira ma Antigone
deve morire, “la morte è con essa già” anche Argia avrà la stessa pena. Antigone dice
che la pena di morte deve averla solo lei. Antigone non sa chi fosse lei (fa finta) ma
Argia è colpevole, Antigone dice di tacere ad Argia che però si presenta: “Io son
d’Adrasto / figlia; sposa son io di Polinice; / Argia”. A Creonte non sembra vero e
Creonte non pensa tanto alla sua sorte, di morte, ma pensa al figlio di Polinice,
pretendente al trono di Tebe, per farlo fuori. Emone che capisce dove vuole parare il
padre, si inorridisce. Creonte è più destinato ad essere il debole dei quattro, insieme
ad Argia dove la tragedia diventa il confronto di Antigone e Creonte. Antigone ha un
eroismo che sembra essere anche il suo punto debole, in Sofocle la vediamo cedere
naturalmente alcune volte, qui è basata sulla base dell’odio contro il tiranno, contro
tutto quello che Creonte rappresenta. Sia per ciò che rappresenta a livello famigliare
sia per quello politico. Antigone riconosce che Emone non è un figlio degno di
Creonte. È una prova di innocenza essere condannati a morte dove Creonte è Re, la
parola “morte” viene ripresa più volte. Inizia qui una sorta di gara tra le due donne per
salvare l’altra, entrano nel discorso le parole “pietà” e “timore” ovvero le parole con cui
Aristotele definisce la tragedia. Siamo di nuovo con le parole di Antigone a quella
contrapposizione machiavellica: “Non ti dirò già, che non ti odiasse anch’ella; (chi non
t’odia?) ma te più ancor temea” dove il suddito teme ma non odia il sovrano, esso è
sicuro, non è un tiranno pericoloso. Argia non aveva la coscienza che Creonte fosse un
tiranno, ciò significano queste parole. Creonte non chiarisce la morte infame che
aspetta le due donne. Emone cerca pietà almeno per almeno Argia, che è figlia di
Adrasto. Alfieri gioca con la definizione aristotelica di catarsi, questa è la purificazione
di pietà e timore attraverso le stesse passioni. Creonte dice: “pietoso farmi tu per
timor vorresti?”. Era in corso una discussione in Germana dove in che modo passione
e timore potevano agire. Lessing si portava una diminuzione del terrore a paura o
timore e invece a una sua compenetrazione alla sua compassione o della pietà. Qui
Alfieri, che non conosce Lessing, anche lui Creonte ci scherza su. Sono le donne che
rifiutano la compassione. Argia dice: “contrari ha i tempi” riprendendo il termine
‘500esco da Machiavelli e Vasari. Machiavelli nel XXV Capitolo de “Il Principe” dice che
11 l’indole di ogni uomo si accordi con ciò che chiede con la qualità dei tempi, per
Machiavelli nessun uomo è così abile da accordarsi con i tempi che si chiedono alcuni
temporeggiano, invece la qualità dei tempi richiede un’azione impetuosa non si saprà
fare e si perderà lo stato. Avere contrari i tempi rispetto all’indole. Dovrebbe fare una
cosa impetuosa ma non è da Adrasto fare ciò. Creonte vuole il “trono”. Antigone ci
dice che Creonte vuole usurpare il diritto a governare che spetta a lei. L’immagine che
Creonte vuole dare è quella dei fratelli che scontano la loro nascita incestuosa.
Creonte ha istigato la morte dei due fratelli secondo ad Antigone. Antigone saprà che
morirà ma Creonte deve ascoltare per la prima volta la verità. Nel discorso di Antigone
in “Si, voglio, vo che il tiranno” vi è un vecchio precetto della teoria politica, in
particolare della politica e della costituzione di Atene di Aristotele dove chi sta intorno
a chi detiene il potere deve dirgli la verità dicendolo anche quando egli sbaglia. Ciò
viene ripreso con “Il Cortegiano” di Baldassarre Castiglione che nel quarto libro
sosteneva che il cortegiano doveva sempre dire la verità al re ma se esso è un tiranno,
il cortegiano deve andarsene per preservare il proprio animo di fronte al male. Il
cortegiano deve dire la verità, ciò viene spazzato via dieci anni dopo con Torquato
Accetto, di vicinanza assolutistica, che scrive il trattato “Della dissimulazione onesta”
dove compare la nuova concezione della corte, dove il cortegiano deve nascondere
ciò che pensa, corte è la sede della non verità. Qui Antigone condivide l’idea di corte
come luogo come inganno ma dice la verità, osa dire la verità al tiranno. “Odioso, / più
che a tutti, a te stesso, hai nell’incerto, / nell’inquieto sogguardar, scolpito / e il delitto
e la pena”. Ciò significa che Creonte ha nel suo sguardo la presentazione della sua
sventura dal delitto alla pena. Antigone e Creonte discutono, Creonte dice che gli Dei
sono contro la nascita dei figli incestuosi, Antigone dice a Creonte che lui crede in un
Dio utile, per lui. Adam Smith in Inghilterra, pensava l’utile economico come rimedio
alle passioni. Le teorie pratiche delle passioni potevano essere combattute dalla
passione stessa, ma a fine ‘700 si fa avanti dalla teoria che l’utile economico superi la
passione. Creonte sta agendo per un fine costruttore di tutto ciò che è successo, i suoi
maneggi sono stati quelli che hanno fatto perdere i fratelli di Antigone e quindi
prendere il tono. La teoria del superamento delle passioni dall’utile sono concetti
precapitalistici, questi modelli furono studiati da Albert O. Hirschman. Viene ribadito il
legame notturno di Antigone con gli Dei infermali. Emone chiede di sospendere la
sentenza. Creonte crea ancora una volta la contrapposizione tra notte e giorno:
Antigone animale notturno e Creonte personaggio del giorno, Antigone e Argia
saranno uccise per Creonte alla luce del sole. Vengono spedite entrambe dentro
l’orror, ovvero al buio, la prigione. Creonte non lascia occasione di fare un altro
scherzetto, divide le due. Atto terzo : Scena prima: Vi è il dialogo tra Creonte ed
Emone, parte Creonte. Emone non voleva affrontare il primo scatto d’ira ma adesso
che l’impeto da spazio alla ragione. Emone scongiura di aver pietà con le due donne.
Creonte pensa di essere giusto. Creonte da la dichiarazione dell’assolutismo moderno,
dove il Re non deve dare conto ai sudditi ma deve dare conto a Dio. Per avere ordine
non bisogna scusare il delitto, “pochi impuniti danno ai molti licenza” con licenza si
denota la traduzione la oclocrazia ovvero la forma di democrazia corrotta diventato
un’anarchia senza regole se nessun adempie alle leggi. Creonte svela il suo peggior
machiavellismo, svela di aver fatto la legge contro le onoranze a Polinice apposta per
far fuori Antigone. Emone dice: “Oh cielo!... E tu, di me sei padre?”. Noi leggiamo
l’ultima versificazione che fa Alfieri, Creonte risponde a Emone dicendo: “Io ‘l tengo, è
mio tuttora / mio questo trono, che non vuoi. Se al padre / qual figlio il dee non parli,
al te tu parli”. Questa battuta era stata presentata nella prima versificazione in un’altra
versione, durante la messa in scena a Roma e poi ripresa nella risposta a Ranieri De
Calzabigi, nella prima versione delle tragedie. La prima versione è: “ Io ‘l tengo, è mio
finora quel che non vuoi tu trono” perché Calzabigi aveva parlato delle trasposizioni
troppo ardite. Con trasposizione si intende nel ‘700 di una non disposizione normale e
razionale di una frase, la poesia era pensata come il luogo della trasposizione, ciò è
essenziale anche per gli accenti nella poesia. Nella risposta a Calzabigi Alfieri diceva
che nell’epica parla per lo più il poeta, ma la tragedia non canta tra i moderni, poco si
sa. Alfieri continua con la lingua inglese e italiana hanno rifiutato la rima, i francesi
usano l’alessandrino. Alfieri dice “il coturno e il pugnale della tragedia” immagine non
musicale. Alfieri parla dell’armonia dei versi tragici italiana che deve essere diverso
alle poesie. Alfieri vuole evitare la cantabilità della poesia di Metastasio, di tutte le
liriche, del Melodramma. La tragedia non canta, non deve essere cantata. La non
comune disposizione delle parole è ciò che serve per evitare la cantilena, quel “trono”
trasposto che staccato dal tu portava su quella parola l’importanza. È importante a
livello teatrale anche se armonicamente suona armonicamente male. Dalla cantilena
si passa all’inverosimiglianza e poi al fallimento. Alfieri aveva un’idea molto forte di
teatro. Non tutti avevano questa idea molto forte. Emone ricorre alla pietà del padre, i
cittadini piangono il destino di Antigone senza sopportare la sua trappola per
ucciderla. Creonte dice a Emone: “Tu il regnar non mi insegni” siamo qui alla
negazione de “Il Principe” di Machiavelli egli accecato dal potere dimentica che è
meglio essere temuti che odiati e dimentica anche quella commistione di timore e
compassione. Qui è con la forza e il terrore che Creonte dichiara di comandare.
Creonte ha deciso di far uccidere Antigone, invece Argia non si sa che destino 12
libera e sta andando ad Argo. Attenzione passa su Antigone, capiamo solo ora cosa ha
detto Creonte all’orecchio a Ipseo, in scena terza. Emone guida una rivolta, Creonte
dice che tutto è inutile. Si apre la scena e compare il corpo esamine di Antigone,
Creonte a ordinato a Ipseo di uccidere Antigone, così l’ordine è eseguito dalle guardie.
Emone come molto spesso accade nelle prime tragedie di Alfieri minaccia l’avversario
e per non incorrere nella vendetta degli Dei, si uccide davanti a Creonte. “Ecco, a te
rendo il sangue tuo; meglio era non darmel mai” Emone rinnega ancora una volta il
padre e continua con “Io… ti fui figlio in vita… tu, padre a me… mai non lo fosti”.
Creonte non faceva capace il figlio di un’azione del genere per amore. Scena settima:
Creonte è da solo e finisce la tragedia. Il finale dell’Antigone è da aggiustare e Alfieri lo
fa passando dall’edizione del 1783-85 quella senese, all’edizione di Parigi negli anni
della Rivoluzione francese, la prima versione non vi sottolineava la solitudine di
Creonte. Una delle critiche che erano giunte ad Alfieri era il finale. L’abitudine in Italia
era il finale felice nelle tragedie, Alfieri rifiuta tutto questo, lo spettatore deve uscire
scontento, capendo che non c’è dietro una mentalità felice dove tutto il male del
mondo compare solo per far trionfare il bene. Alfieri, laico, non crede in queste teoria
filosofiche alla Leibnitz. La tragedia deve mostrare che il potere è violento e che il
buono quasi mai vince. Nel “Filippo” davanti a Filippo in carcere si suicidano Carlos, il
figlio e la moglie Isabella. Questo finale sembro insopportabile facendo sembrare che
il cattivo trionfasse ma Alfieri disse che Filippo era vivo ma non era rimasto bene, in
Antigone cerca di schiacciare l’acceleratore sull’infelicità del tiranno, gli resta il potere
ma la sua violenza viene punita da Emone che gli toglie ogni possibilità di
continuazione del potere, era l’unico erede. Egli resta in una solitudine disperata.
Abbiamo una tragedia che cerca di colmare il vuoto esagerato, Alfieri mantiene l’idea
che lo spettatore debba uscire scontento. Non bisogna né attraverso l’armonia del
verso, né attraverso la storia dare soddisfazione alla storia, tutto va male, Scontro è
anche la versificazione non armoniosa, con accenti posti in posizione che suona male.
Vi è una rottura costante del ritmo tutto diverso rispetto al Melodramma di
Metastasio e Calzabigi. Alfieri si pone con estrema durezza e cambi continui di ritmo.
Armonia del verso italiano cerca di intenerire, qui avviene l’opposto nella tragedia.
Alfieri ha imposto un tipo di poesia teatrale nuovo. Vi sono alcuni modelli che Alfieri
recupera sono delle tragedie francese tradotte nel 1765-68 da Agostino Paradisi,
nobile reggiano che insieme a Francesco Albergati Capocelli, uno dei più grandi attori
dilettanti del ‘700. Queste tragedie erano in endecasillabi scioli dagli alessandrini.
Paradisi tradusse le tragedie con il tentativo di non proseguire la tradizione lirica,
l’altro modello è quello delle Poesie di Ossian che erano state pubblicate agli inizi degli
anni ’60, alcuni canti di Ossian, un bardo ex guerriero gaelico III secolo. Sono poesie
epiche che ebbero un successo clamoroso fatte da Melchiorre Cesarotti del ’63. La
moda ossianica si sparge in tutta Europa. Ciò che interessa a Cesarotti e che ci sia un
poeta antico che non ha i difetti della poesia omerica. Aveva vezzi moderni, perché
riscritta da Macpherson. Il modello di Cesarotti funziona molto bene perché cambia
ritmo spesso e usa parti ritmate, usa l’endecasillabi sciolti ma le rime le usa con molta
fortuna nel melodramma del ‘800. Modello per Alfieri dei cori della “Mirra” e i salmi nel
“Saul”. Per la poesia tragica la tradizione si accettava l’endecasillabi sciolti formati dalla
tradizione epica cantabile dei versi monotoni, Alfieri vuole smontare la cantabilità.
Antigone di Alfieri non ha certo la profondità di quella di Sofocle, non ha dietro una
teoria tragica, ha dietro il pensiero machiavellico con il cambiamento della famiglia
che si stava aprendo nel ‘700. Antigone può diventare un oggetto tragediabile, il
grande successo di Antigone era nella presentazione della Tebaide, con lo scontro dei
due fratelli. Sono poche le opere dove Antigone è la protagonista, vi è un
melodramma dove si salva Antigone alla fine, cosa che avrebbe fatto inorridire Alfieri.
Dopo la Rivoluzione c’è una svolta nella ricezione di Antigone, Steiner fa notare che
Antigone è la tragedia per eccellenza ma non c’è questa diventa un problema
filosofico soprattutto quello legato alla libertà, proprio questo cambia rispetto
all’antico, la Rivoluzione francese con l’enfasi del passaggio alla democrazia, scopre
alcuni miti romani e greci: Bruto, tirannicidi che diventa quindi l’esaltazione della lotta
contro la tirannide e contro la monarchia. La svolta dell’enfasi sulla libertà si capisce
falsa, è una costruzione sulle repubbliche antiche che nella realtà si basavano sulla
schiavitù, di una élite che si posava sulla popolazione schiava. Si parla di una libertà
dei moderni, ciò occupa i costituzionalisti francesi, il tutto entra in Germania con le
armi francesi che invadono la Germania (Prussia). Il problema della libertà cambia un
po’ di segno in Germania con la svolta teorica di Kant che crea nuovi filoni di pensiero.
Il problema dal punto di vista teologico è la libertà di scelta tra bene o male oppure
come sarà in Hegel il problema dell’opposizione tra i diversi tipi di leggi, un individuo
immerso nello stato e uno che si spira ad altri modelli religiosi, personali o altri. Il
problema della libertà viene recepito rispetto alla tradizione classico viene recepito in
una classe di Tubinga dove si ritrovano a studiare Holderlin ed Hegel e più giovane
Schelling. In tutto questo la funzione della cultura classica e notevolissima anche la
figura dell’Antigone e di Sofocle. Holderlin vuole riportare in tedesco il senso e la
struttura classica del greco dell’Antigone e dell’Edipo Re. Holderlin è il corrispettivo di
Leopardi, ovvero un classicista che in realtà è un romantico. Hegel, Holderlin e
Schelling stilano ciò che è il 15 Manifesto dell’Idealismo tedesco. Hegel diventerà il
grande teorico, Holderlin tenta la traduzione dei classici in modo nuovo. È il periodo di
Goethe con Werther ha dato inizio al romanticismo tedesco. Holderlin e Hegel
pensano al problema posto della libertà dal cambiamento dello stato con il rapporto
tra individuo e stato. Si arriva ad una riflessione sulla forma dello Stato dove la
Germania è abituata da secoli alla conformazione federalista che all’improvviso trova
scardinato il sistema duraturo. Steiner inizia da lontano l’analisi di Hegel e
dell’Antigone di Sofocle. Fin dal 1787 Hegel prova a tradurre qualche passo dell’Edipo
Colono ma il problema è la trasformazione del concetto di libertà, di approccio alla
tragedia che diventa generalizzato all’analisi della tragedia umana, inizia proprio con il
cambiamento del potere francese che sfocia in Germania. Steiner ripercorre l’idea di
Hegel soprattutto prima della Fenomenologia dello spirito, Hegel per tutta la vita si è
confrontato con l’Antigone. Si riprende anche alle vecchie teorie di Aristotele, nell’Etica
Nicomachea aveva inserito la colpa destinata al fato tuchema la colpa predestinata,
nella Poetica lo aveva escluso, riducendo il conflitto tragico tra la colpa voluta, la
bestialitas e l’hamartia errore involontario compiuto per mancanza di informazioni,
Hegel sposta ciò in una contrapposizione tra individuo e Stato. Hegel nel ’95
percepisce le opposizioni latenti nella armonia della sfera civico politico e quella
rituale-religiosa, pensa alle contraddizioni tra storia e agire pratico. Hegel mette in
rilievo la storicità concreta delle scelte etiche che l’individuo è costretto a operare, la
coscienza va nello sviluppo teleologico (Steiner). Tragedia per Hegel si articola sulla
concezione particolare della legge e della punizione proprie del mondo ellenico. In
quel periodo Hegel si interessa della Moira (destino) arriva a parlare della colpa
predestinata, negata dal mondo cattolico, accettata dalla teologia luterana. Hegel
riprende il tema greco senza passare dall’Aristotele della Poetica senza la colpa
predestinata, Hegel parte dalle tragedie antiche. Hegel si libera dell’archetipo
precedente, dominata nel periodo di Lessing venti anni prima. Non si scrivono
tragedie ma vi è il pensiero tragico. Szondi scrive un saggio sulla tragedia dove
analizza le posizioni dei teorici degli idealisti tedesco e nell’introduzione dice che, con
un’immagine hegeliana, la tragedia finisce e nasce il pensiero tragico quando la
nottola di Minerva vola perché l’alba. Risalta nel pensiero giovanile di Hegel il pensiero
su Shakespeare, Sofocle e Goethe. Il tragico comporta la divisione dell’unicità
sostanziale tra l’uomo nello Stato e le istanze, Hegel cambierà posizione più volte ma
la possibilità della mediazione tra Stato e individuo è fondamentale. Inizio 800 per
Hegel la divisione della polis in sfere contrastanti è la messa in atto della tragedia
della sfera etica in cui ci deve essere una zona libera. Lo stato è uno stato di guerra
verso il diritto privato che lotta per la difesa della famiglia, Hegel determina la
contrapposizione tra lo stato di guerra e il diritto di famiglia e in ciò l’Antigone inizia a
diventare l’oggetto principale di riflessione, lo scontro tra stato di guerra e uomo
privato deriva da Antigone. Entra un diritto della morte nei diritti dei vivi, la idea di
generazione e di continuità familiare è in contrasto con lo Stato. Rimanda all’Antigone.
La tragedia nasce postulando e negando le antinomie. Il passaggio all’Antigone è
storico e fondamentale per la Fenomenologia dello spirito. Steiner parte dallo scontro
tra stato nazione che trova nel dio della luce apollineo e le esigenze della famiglia che
trovano fondamento nel culto della morte. Steiner drammatizza la Fenomenologia
dove mette i passi di Hegel con le entrate e le uscite del dramma di Sofocle. L’azione
etica coincide con Hegel con l’agire dello stato. Azione dell’individuo lo porterà a
scontrarsi con la norma razionale del fine realizzato dallo stato che reagirà. Scontro
tra la legge dello stato e norma etica interna, ciò ha inizio da due momenti dialettici:
sacrilegio o peccato tirannico che ne fa dell’ostinazione peccato, ciò da spazio alla
legge infondata sull’etica e obbliga la sostanza etica ad obbedire, il secondo è il male
più sottile con il mettere alla prova la legge con la conoscenza, una critica alla legge
dello stato. In tutto ciò c’è l’Antigone di Sofocle come base, senza essere nominata.
Hegel concepisce il concetto di unità dell’uomo, tipi immacolati che non sono anime
belle ma sono presenze immagini conservano l’integrità del loro essere. Qui Hegel
nomina l’Antigone. Antigone ritorna all’unità etica che si oppone alla legge dello stato,
ciò è una lotta continua. Antigone è sostanza etica pura con assoluto che deve
scendere con la realizzazione individuale per essere realizzate, per ciò il mondo etico
viene scisso da leggi umane e divina, molto diversa da quella greca, non vi è confronto
uomo-Deo come Prometeo. La morte lega la famiglia alle divinità sotterranee, la
morte per Hegel è la realizzazione e opera suprema in questa situazione. Ciò deriva il
primato della sepoltura con il ritorno di Antigone. In opposizione all’apollineo dello
Stato di Sofocle e Alfieri (immagine di Creonte, luce) e Antigone (bestia notturna), nella
morte l’uomo abbandona la polis per tornare nella famiglia (donna), il ritorno alla
custodia della donna, il rito funebre è un compito prettamente femminile per Hegel.
Antigone difronte allo stato è colpevole, l’editto di Creonte è una punizione politica
per Antigone è una colpa ontologica. Antigone sta sopra al padre perché contrappone
l’ontologico femminile al politico maschile. Hegel riprende il concetto di destino,
entrambi devono morire Antigone e Creonte. Steiner dice che il conflitto tragico e tra
due livelli di esistenza: uno è privo di valore per chi agisce ma non per altri, l’agente
(Antigone) non ha coscienza di operare da criminale e appena vince accetterà il suo
destino senza cercare di capire. Il conflitto tragico non è solo conflitto tra stato e
individuo. Alfieri giustifica Antigone, cercando hamartia nell’amore per Emone, ma qui
l’attore tragico crede di subire il fato. Hegel arriva con l’Estetica a depotenziare lo
scontro etico con la legge dello stato e la legge della natura. Tutte le 16 interpretazioni
successive recuperano il dualismo hegeliano e lo portano al rischio di dare una visione
consolatoria del conflitto tragico, come Nietzsche che pensa alla non risoluzione del
conflitto. Unicità di Antigone è la realizzazione piena dell’essere immacolata davanti
alla legge, “essi sono” dice Hegel. La pienezza permette di opporsi allo stato nazione.
Stato deve imporsi sulla famiglia. Hegel arriva a usare la tragedia di Sofocle sull’essere
etico. Oltre all’Idealismo tedesco si sviluppa il romanticismo letterario, Steiner dedica
un paragrafo a Kierkegaard. In Germania il romanticismo nasce prima di quello
italiano e si dividono, uno di questi è quello di Jena che a fine ‘700 ha un’importanza
culturale enorme, con insegnamenti di Fichte e Hegel. Nel primo romanticismo (Jena)
c’è una componente dell’ironia romantica, questa è un procedimento con i quali i
romantici leggono alcune cose più innovative delle culture europee, le hanno anche
modificate, per esempio le fiabe di Carlo Gozzi che con le fiabe antilluminista ea
antiborghese diventano un mito dopo trenta anni. La fiaba come luogo di invenzione
diventa il luogo prediletto del romanticismo. Il fiabesco di Gozzi viene letto alla luce
dell’ironia che segna una continuità diventa una possibile chiave di lettura
dell’esperienza di Kierkegaard. In questa riflessione che Kierkegaard si confronta con
l’Antigone. Ironia arriva a dare una chiave di lettura che inventa una nuova Antigone,
inventa un nuovo personaggio di Antigone, egli non scrive il testo teatrale, il punto di
partenza di Kierkegaard è il legame con il filone culturale, secondario dal ‘500 in poi,
lucianesco, ciò è secondo Steiner che fa derivare dalla definizione che ricorda Luciano
di Samosata soprattutto con il Dialogo dei morti, egli usa un metodo ironico e
stralunato con le premonizioni. Ironia tende a mettere in crisi alcune convenzioni non
più a livello di invenzione narrativa, ironia può diventare anche antieconomica. La
fiaba va contro il romanzo di formazione. La realizzazione dell’individuo nella società è
il fine del romanzo di formazione, fiaba e ironia romantica sono opposti. Modello
lucianesco dell’ironia romantica entra in Kierkegaard. Anche la sua opera è costruita
sul frammentario e aforistico. Una sorta di letteratura ibrida, dove entrano in
Kierkegaard entrano vari discorsi con frammenti, lettere finte e falso nome. Ironia
romantica con la ripresa dei generi all’interno della stessa opera richiede la licenza di
confondere, i modelli sono Luciano da Samosata e Petronio che usa forme confuse.
Dietro c’è la ripresa del modello lucianesco con la ripresa tedesca fino a Hoffmann. Da
ciò, linea comica, che parte. Steiner ricorda che il confronto è quasi una moda, con
esempi di Racine, Voltaire (fine ‘600) con il romanticismo si palesa altro. Kierkegaard
parte dal concetto hegeliano e mostra la come la nozione di tragico abbia subito delle
mutazioni dalla tragedia antica a quella moderna, ciò tende a individuare la vera
essenza del tragico, Kierkegaard ha indietro altre letture come Schiller. Kierkegaard
dice che il nostro è un tempo più malinconico rispetto a quella greca dove l’eroe è
libero ma incastrato in categorie come quella della famiglia, stato e del destino.
Soggettiva cosciente di se stessa è una caratteristica dell’età moderna, qui nasce la
differenza del carattere epico (non senso greco) incentrato sull’azione della tragedia
greca dall’altro il tono piscologico e introspettivo della tragedia moderna. Nella
tragedia greca l’eroe subisce il destino fatale, mentre nella moderna subisce le
conseguenze delle proprie azioni. In ciò inserisce il passaggio dal piano dall’estetica
all’etica, ciò avviene per via della determinazione della colpa tragica. Eroe moderno
deve rispondere delle proprie azioni, supera così la condizione estetica. Confronto con
Goethe che rappresenta l’ambivalenza del codice tragico tedesco con Ifigenia pone il
modello del classicismo tedesco. Diversa da quella greca. In Goethe vi è un confronto
di civiltà tra Ifigenia e il re che l’ha ospitata. Liberazione da un tragico moderno
possibile, dove i figli ereditano le colpe di padri (presente nella malattia anche in Gli
Spettri di Ibsen) Oreste qui in Ifigenia si libera delle colpe del padre (Ifigenia è la
sorella). Rifacimento classicista. Goethe ricerca il Faust e supera la tragedia. Vi è la
dissoluzione del tragico nel comico. Hegel rappresenta i due mondi antico e moderno.
Kierkegaard trova una personalizzazione dell’esperienza tragica: sia un principio
femminile e materno, sia religiosa espressione paterna. Kierkegaard parte da Hegel,
che ragiona sull’Estetica sulla mera compassione tramutata da Lessing in poi nel
punto centrale dell’illuminismo tedesco. Nel pensiero di Kierkegaard viene ripresa la
discussione della compassione, empatia verso la giustificazione morale della vittima
tragica. Questa è diversa dallo spettatore moderno rispetto a quello antico, poiché
basati sul concetto mutabile di pena e di dolore provato. Nella tragedia antica è
profonda la pena tragica, si soffre meno. Nella tragedia moderna è più profondo il
dolore dello spettatore rispetto alla pena. Concezione moderna risente del
cristianesimo però. Steiner parla di un salto dialettico, la colpa tragica diventa
ereditaria, con la riflessione sul cristianesimo derivata al concetto di libertà (luterano o
meno). Kierkegaard riprende il concetto di male ereditario. Colpa ereditaria è
contraddizione in sé. Kierkegaard la deriva alla tradizione cristiana (la colpa ereditaria)
ebrea, vi è il paradosso tragico della colpa innocente. Kierkegaard introduce il
concetto di opacità, la pena tragica richiede un elemento di colpa, il vero dolore
tragico un elemento di innocenza. Commistione di pena e innocenza. Eroe tragico
aristotelico doveva essere né totalmente colpevole, né totalmente innocente. La pena
tragica richiede trasparenza, il dolore tragico di opacità. Commistione tra pena e
dolore è possibile nel mondo cristiano per Kierkegaard, ma qui fa un altro passo e
dice sull’Antigone proponendola diversa, con la teoria del Don Giovannismo. Antigone
è una creazione, i suoi pensieri sono i miei pensieri dice Kierkegaard, ella è un essere
autonomo che ha confessato l’integrità della sua persona all’autore. Confluiscono i
due principi di pena, castigo e 17 il testo antitedesco, militaristico. Il soldato racconta
di aver visto il corpo di Polinice ricoperto di terra, questa è la prima descrizione della
sepoltura, viene seppellito con un secchiello e una paletta da bambina, richiama
all’infanzia. Creonte vede già il bambino giustiziato (nel senso di attuazione della
giustizia). Creonte ragiona da tiranno moderno. C’è l’ordine di Creonte che raddoppia
l’ordine di guardia. La guardia esce e Creonte dice al paggio (bambino) se egli in un
caso morirebbe per lui e il paggio risponde annuendo. Escono Pag. 84: Entra
inaspettatamente il Coro. Il coro parla della tragedia, la “molla è carica” e la carica
quando la molla è carica dà il meglio di sé. Il coro dialoga con il pubblico sulla tragedia
e le sue modalità con i suoi se e i suoi ma, sviluppando una sorta di codice tragico.
Questo coro che dice che la carica e innesta con il contrasto tra dramma e tragedia, il
dramma è teorizzato in Francia da Diderot nel 1775. Il dramma borghese porta il
dramma tra borghese, non case regnanti, si palesa il riscatto finale alla fine, non
sempre però. La distinzione tra il dramma che è il luogo della possibilità e la tragedia
dove tutto è predeterminato. In ciò per Anouilh è un modo di presentare il fatalismo.
Il coro riprende il metateatro. La forma della tragedia obbliga la soluzione di morte
che avviene dopo che la molla è carica, vi è predestinazione. Testo strizza l’occhio alla
tragedia antica trasportata in epoca moderna. La forza del fato è data da ciò che lo
spettatore sa. Il teatro nel teatro moderno è ripreso sicuramente da Pirandello, ciò
porta quindi alla presentazione parodica delle guardie. Anouilh strizza l’occhio a più
forme teatrali, consapevole di essere un uomo di teatro. La scelta non è soltanto di
mettere un anacronismo alla storia ma è il tentativo di portare la storia antica alla
storia moderna. Riflette sulla predestinazione tragica che diventa l’aspettativa dello
spettatore. Si sa dove si va a finire con la tragedia. Questa è la sede del tragico
moderno per Anouilh. L’ingresso in scena di Antigone non cambia la struttura del coro
meta teatrale, che dice “La piccola Antigone potrà essere se stessa per la prima volta”
qui per la prima volta entra nella storia di Antigone Pag. 85-89: La guardia porta in
scena Antigone, con altre guardie, vi è proprio la linea comica con Antigone che è la
parte seria di tutto, Antigone dice “Io voglio morire” è ben decisa di compiere il suo
ruolo. Antigone si guarda le mani strette alle manette che sono sporche sorridendo,
sono sporche perché, ci racconta la guardia, ella ha dovuto dopo aver perso la pala,
scavare con le unghie in pieno giorno. Siamo alla seconda volta, viene mantenuto per
motivi di azione che porta al seppellimento. Tutto ciò ci porta a livello da osteria a
livello di parole e tematico, si parla infatti di osteria e dove andare a mangiare per la
promozione. Steiner ha in mente queste parti quando dice che Anouilh fa una
parodia, nella tragedia classica questo abbassamento di tono non ci sarebbe mai
stato, rimanda a livello poetico a Shakespeare che usa il misto tra commedia e
tragedia. Entra Creonte che si fa spiegare cosa è accaduto dalle guardie, hanno
catturato Antigone. La storia ha un carattere lieve ma viene permesso alla fine di far
parlare Antigone che dice il fatto della paletta con il nome di Polinice sopra. Creonte
licenzia le guardie. Pag. 89-106: Dialogo tra Creonte e Antigone, Creonte dice a
Antigone se qualcuno è al corrente del progetto, egli sta pensando di salvare la
nipote. Non è il Creonte di Alfieri o Sofocle che voleva morto l’erede. Lui trova una via
di uscita. Creonte crea un alibi. Polinice ha diritto al riposo secondo Antigone, Creonte
si domanda se Antigone lo sapesse del divieto, il discorso inizia a distruggere il
conflitto della tragedia antica. Antigone sente il dovere di farlo, perché deve farlo
teatralmente. Creonte cerca di salvarla. Antigone fa un paragone, se ella fosse una
serva avrebbe comunque compiuto l’atto, anche se ella è la nipote del Re, nonché
fidanzata del figlio del Re. Ciò recupera la teoria drammatica di Diderot. Siamo al
confronto che va al di là della tragedia. Antigone nega la sua “nobiltà “ da figlia di
Edipo. Antigone è certa che Creonte l’avrebbe fatta uccidere. Creonte qui tira fuori
l’orgoglio di Edipo, un approccio morale rispetto al potere, che nella Francia occupata
dai nazisti con questa teoria del mantenimento del potere poteva prendere pieghe
diverse. Creonte non accetta l’orgoglio di Antigone, che si fa a quello nazionale,
francese, secondo la visione rivoluzionaria. Creonte si dedica all’ordine, Antigone di
Kierkegaard è l’unica depositaria del segreto familiare, qui è tutto di dominio pubblico.
Creonte inizia a dire di cosa pensa della gestione del potere, questa è un mestiere, di
tutti i giorni. Esercizio del potere come un mestiere burocratico. Tutto è negato, il
mito, l’incesto, tutto. Antigone ha vent’anni. Tebe non ha bisogno della morte di
Antigone, Creonte vuole bene a Antigone a salvarla, la bambina Antigone continua a
essere a trattata come una bambina, Antigone sta pe uscire dalla scena ma prende
una porta sbagliata che la conduce sul campo di Polinice. Creonte la ferma è dice “Che
gioco stai giocando?” Antigone risponde “Non sto giocando” in francese giocare è reso
con joue che sta per recitare. Creonte è il moderno che si confronta con il modello
antico che non c’è più. Creonte pone un ultimatum ad Antigone, ella è monotematica,
ha una smania che non è giustificata. Antigone se non se ne va è costretta a morte,
Antigone deve morire, ella sembra un automa che non può tornare a casa, ma deve
seppellire Polinice. Creonte rinfaccia il rischiare la morte per Polinice, ella non fa per
nessuno se non per lei. L’approccio all’assurdo è evidente, non ci sono cause. Anouilh
scrive una tragedia quando questa non c’è più. Il ruolo di Antigone è quello, Creonte
dice che ha il ruolo del cattivo, lui ha il ruolo di ostacolare Antigone e deve farlo. C’è
questo tiranno che fa finta di essere sanguinario. La scena è paradossale. Creonte
vuole salvare Antigone, non vuole farla morire in una storia di politica, Polinice è una
storia di Polinice. 20 Polinice è il pretesto di Creonte di far vedere la potenza ai nemici,
Anouilh viene preso qui per essere pro-resistenza. La puzza di Polinice prende la
storia del partigiano ucciso, rimasto diseppellito per mettere paura ai nemici dello
stato. Creonte si pone come colui che lavora con i nazisti, collaborazionista. Creonte si
richiama ancora come operaio, colui che fa un mestiere “operaio che rifiutava un
lavoro” Antigone vuole dire no a tutto ciò che non gli piace e Creonte ha detto si, ha
detto si a governare. Vi è lo scambio di battute che palesa problemi, il dire si o no ha
un senso diverso nel ’44, vi è dietro la presa di posizione di Creonte della cultura del
‘900 occidentale con il mito del lavoro ben fatto, vi sono varie idee del lavoro e
contrapposizioni, studiate da Arendt che ne parla in “Vita Activa”. Nella letteratura
piemontese si porta avanti un concetto di lavoro afflittivo, da Don Bosco a Pavese, con
“lavorare stanca” con poi il richiamo di Bobbio del detto “Crepa mi ha fatto dovere”.
Levi aveva il pensiero di lavoro come affermazione di sé stessi. Levi riflette sul mito del
lavoro ben fatto. Creonte parla della politica come mestiere. Levi ricorda che il mito
del lavoro ben fatto è alla base di Da Vinci e Einstein e anche della produzione della
bomba atomica e dei campi di concentramento. Anouilh mostra questo problema
attraverso gli occhi di Creonte, del lavoro ben fatto che Creonte ha. Confronto tra
Antigone e Creonte continua, Antigone è la ragazza del no, mentre Creonte è il re del
sì. Creonte ha detto sì, ha accettato e ora pagherà sempre, anche i collaborazionisti
devono pagare. Creonte scuote Antigone, che vuole imporre il pensiero alla ragazza.
Creonte dice che qualcuno dovrà sempre dire sì. Creonte è un governante che non
progetta, tenta a tirare a campare, senza progettualità, è il buon burocrate che non è
utile in una situazione di emergenza. Creonte riprende sempre l’idea del lavoro, per
dire si bisogna rimboccarsi le mani, è facile dire no anche se si paga con la vita. Il
dialogo continua con loro due che non si capiscono. Creonte riduce la politica ad un
mantenimento economico dell’esistenza, il sogno sarebbe quello di avere il popolo
come un branco che va avanti. Il ruolo di Creonte non è bello ma è il suo ruolo.
Richiamo al ruolo. Creonte gioca la carta della distruzione del mito, dello scontro
fratricida tra Eteocle e Polinice, viene demitizzata. Polinice è un “piccolo festaiolo
imbecille” viene screditato il ruolo di Polinice che ha il ruolo di uomo contro la
famiglia. Scontro con il padre, Eteocle è un santo, Polinice è il cattivo. Tutti e due i figli
tentano di uccidere il padre, però i due fratelli erano morti. La storia del mito è
distrutta con la pugnalata del corpo che spiattellato era irriconoscibile, quindi i due
forse non sono gli stessi. La storia di demitizzazione giustifica il potere di Creonte che
tiene su la barca. Antigone si convince e torna in camera, Creonte la invita a sposarsi
con Emone, Creonte capisce le parole di Antigone perché avrebbe fatto lo stesso se
avesse avuto vent’anni. “Niente è vero se non quello che non si dice”. Creonte qui ha
dietro la discussione secolare della tradizione francese della delusione storica con la
divisione tra felicità pubblica e privata, la prima era derivata dal migliorare la nazione,
la seconda vedeva il ritiro dalla storia. Delusione senile che porta il vecchio sconfitta
dalla storia che cerca la felicità nelle piccole cose “La vita, non è forse, comunque la
felicità”. La felicità per Antigone è quasi senza una guida, Antigone deve fare una
scelta, qui davanti alla storia, da che parte stare davanti alla storia. La scelta è urgente,
immediatamente, queste costruirono al mito di Antigone dell’Anouilh con lo scegliere
da che parte stare. Antigone ha questa opposizione tragica, tipica della tradizione
francese, come nei testi di Racine, ella può scegliere la “scelta” tragica, Antigone deve
recitare una parte smitizzata senza senso, siamo all’interno della tragedia e non del
dramma. Bisogno ritornare allo scontro tragico non simile a quello antico ma più
simile a quella francese del ‘700 con base amore e la libertà di opporsi alla gestione
del potere. Antigone si dichiara a Emone, ma se egli impara a dire sì allora ella non lo
amerà più. Antigone è l’Antigone dell’assoluto, ella non vuole invecchiare, si oppone al
mondo dei vecchi, della solitudine, della delusione storica. Se ella deve finire per una
storia borghese dirà no. Antigone rifiuta la felicità, ella vuole tutto e subito, intero, così
o morte. Il volere tutto è il grido delle rivolte del ’68. La scelta della morta per opporsi
al potere. Anouilh apolitico, riesce a dire le cose che nessuna aveva detto, ciò riesce
per via del legarsi al mito e lo spostamento dell’argomento mitico gli permette di farlo.
Opposizione di Antigone non ha nemmeno più senso, ella non ha niente. Antigone si
deve opporre all’idea della gestione del potere. C’è qui l’opposizione di Antigone, ella
si paragona il padre con Creonte dice ad Antigone di stare zitta perché urlando si
palesava brutta, Edipo, risponde Antigone, che il padre era contento quando scopre di
aver ucciso il padre. Antigone rivendica il mito paterno, il padre è arrivato alla verità,
tuti gli altri non la vedono, non sanno di essere sudditi. Antigone dice “Siete voi a
essere orrendi, anche i più belli” perché essi si accontentano della felicità spiccia. Pag.
106-107: Entra Ismene che si offre per morire con lei, Antigone dice che ella dovrà
essere la sola a morire. Ismene ha scelta la vita, Antigone la morte. Creonte chiama le
guardie e portano via Antigone. Ismene esce gridando dietro Pag. 107-109: Creonte
rimane solo in scena, il coro entra e va da lui. Il coro da del pazzo a Creonte, egli dice
“Bisognava che morisse” e dopo “E lei che voleva morire” Antigone è fatta per essere
morta. Polinice era un pretesto. Il coro dice “è una bambina, Creonte” che risponde
“dovevo condannarla a vivere?” Ella ha rifiutato il potere. Qui entra Emone gridando.
L’incontro padre figlio vede Emone come un bambino che non riconosce il padre, il
figlio deve accettare la morte di Antigone come passaggio dall’infanzia alla grandezza
dell’adulto, ma questo passaggio i personaggi di Anouilh non lo vogliono fare, non
vogliono essere maturi. Emone ricorda il padre quando era piccolo, il 21 ricordo di
Creonte di un padre premuroso che però non risolve niente. Di fronte a tutto Emone
non riconosce il padre che ora ha detto si, non può più guardarlo. Creonte difronte
alla responsabilità, alla richiesta giovanile risponde con l’idea dell’esistenzialismo, si è
incredibilmente soli, Emone corre via, gridando Antigone. Pag. 110: Coro riparla con
Creonte dicendo che deve fare qualcosa per il figlio, Creonte risponde sempre con
l’esistenzialismo “Si, siamo tutti feriti a morte”. Ma la scena si sposta. Pag. 110-115:
Segue la scena di Antigone e la guardia con un contrasto grottesco preponderato con
le guardie che parla di fare carriera mentre Antigone è condannata a morte, dopo
segue la dettatura della lettera e segue l’ordine di portarla via (condannandola a
morte). La guardia nega l’epopea, il dialogo ha questa funzione, parodia dell’epopea
con il modello shakespeariana dell’alternanza tra comico e tragico con la letteratura
postuma dell’antimilitarismo. Mentre attende la morte e pensa a scrivere un
messaggio ad Emone, la guardia gli parla della carriera nelle guardie e dell’esercito,
dell’epica che è morta dalla Certosa di Parma di Stendhal con la rappresentazione
cruda della battaglia. Ciò che rimane dopo lo sguardo epico è la burocrazia, qui
pervade i modelli alti del potere e il regno dell’onore in battaglia, l’esercito, il dialogo è
un dialogo grottesco con la guardia che pensa solo al confronto con gli altri corpi
dell’esercito, però accetta la corruzione della guardia con la lettera per Emone, accetta
il pagamento e alla fine la scena si risolve che si riduce alla banalità. In ciò c’è la
funzione della scena che diminuisce l’eroicità di Antigone e mancherebbe senza la
stupidità della burocrazia delle guardie, Creonte invece è quella di alto rango di chi
non sa che cosa stia facendo. Pag. 115-118: Il coro entra: “è la fine per Antigone.
Adesso si avvicina il turno di Creonte” ed entra il messaggero, le morti non vengono
mostrati, tradizione della tragedia francese che trova in Racine in maestro nel non
insanguinare la scena. Il messaggero annuncia la morte di Antigone con Emone che è
nella tomba di Antigone, ella è morta impiccata (“come una collana da bambina) e
Emone che la sorregge, ritorna alla fine di Sofocle, quando Emone una volta visto il
padre sguaina la spada con lo sguardo che da bambino ed occhi neri di disprezzo,
Emone si ammazza. Il bambino Emone, la bambina Antigone, Emone si ammazza. Qui
tutti devono morire, secondo il mito. Saputa la notizia il coro porta la notizia della
morte di Euripide. Creonte nel saperlo dice “Bene. La giornata è stata dura. Deve
essere buona cosa, dormire.” Creonte richiama il paggio (unico piccolo). Creonte è
prigioniero della sua burocrazia, del suo lavoro ben fatto. Creonte dice “Bisognerebbe
non diventare grandi mai”. Si rivolge al paggio che da segretario gli ricorda dopo che
Creonte gli chiede gli impegni della giornata. Creonte dice “Bene, se abbiamo
consiglio, ci andremo” come se nulla fosse, nella sua burocrazia. Esce Creonte e il coro
commenta con: “Senza la piccola Antigone sarebbero stati tutti più tranquilli. Adesso è
finita. Quelli che dovevano morire sono morti […] Una grande quiete triste cade su
Tebe e sul palazzo nuovo dove Creonte comincerà ad aspettare la morte”. Entrano le
guardie che giocano a carte. Antigone di Berthold Brecht (1948) Brecht nasce nel 1888
ad Augusta, nel ’27 si avvicina al marxismo, anche se le prime opere lasceranno
dubbiosi i critici di sinistra, successo del ’28 con L’opera dei tre soldi che nasce dal
ripensamento di un’opera messa in scena di John Gray. Per la prima volta Brecht
mette a frutto l’effetto dell’estraniamento, il teatro opposto a quello dell’illusione,
creando empatia e di non farlo immedesimare nell’azione, si deve distanziare lo
spettatore, deve avere uno spirito critico, non ci deve essere una recitazione calcata,
con tutti gli elementi extradiegetici che richiamavano la distanza, fino ad arrivare ad
un teatro epico. Epicizzare le acque è confondere le acque che permette all’autore di
intromettersi nell’opera. Brecht è un mito del secolo ‘900 fino al crollo del crollo
comunista, uno degli autori più commentati nel suo tempo. Antigone ha dei problemi
diversi rispetto al Brecht più nuovo, lui mette in scena dopo il suo ritorno in Europa,
nel ’33 egli vaga per l’Europa, scappa a Praga, vaga a Parigi, in Danimarca poi penisola
scandinava per approdare in California. Torna in Svizzera. Storia simile a Thomas
Mann con entrambi che hanno coltivato un senso di identità nella lingua tedesca
classica, Brecht si trova due componenti nella lingua tedesca: imbarbarimento della
lingua e la recitazione teatrale di stampo nazista. Per la lingua il nazismo aveva
sfavorito il rapporto con il classicismo. Il nazismo propone l’imbarbarimento della
lingua con il linguaggio da caserma. Un declino sostanziale, la lingua del nazismo è
uno shock, anche se da una parte costruisce la sua costruzione nel classicismo ma
uccide la lingua tedesca classica, il contrasto viene evidenziato da Brecht e Mann.
Ripresa del classicismo è importante per coloro che tornano dopo l’esilio. Brecht
riprende il classicismo con Antigone nella traduzione di Hölderlin. Il teatro tedesco
nazista ha portato ad un livellamento verso il retorico per il tragico. Attori che Brecht
trova vengono da quella scuola, con la recitazione totalmente diversa, si trova meglio
in Svizzera, neutrale, dove quel livellamento espressivo non c’era stato. Brecht torna
in Europa con la moglie che da quindici anni non recitava, tornerà a recitare con
Antigone. Brecht a Berlino avrà successo. Brecht ha un teatro e una casa nella parte
Est. Tutto ciò che voleva. A Berlino mette su un modo di recitare diverso, fino al ’56
dove morirà. Brecht nel suo periodo svizzero tedesco vuole proporre un modello di
recitazione, anti-modello scuola nazista. Insieme a Caspar 22 Antigone di Brecht
diventa una rivisitazione della tragedia, la aggiorna alla storia. Il Living Theatre
riprende l’Antigone di Brecht, insiste sul carattere tribale, di sacrificio sul testo di
Brecht. Il teatro del Living è politico, si eleverà a teatro dilettantistico che va al di là
della messa in scena del testo, vuole diventare atto politico, diventerà troppo esplicito
che mette in scena un mito e una tradizione popolare del lutto, del dolore, della
perdita. Beck scrive nel testo dell’Antigone come ricerca della rivolta, il pubblico è in
azione. Il lungo inizio è di lutto, vi è lentezza nel lutto. Attori ci mettono tanto per
andare in scena. Il pubblico è borghese pagante, pubblico abituato al rispetto dello
spettacolo. Qui non succede nulla, ma il pubblico accetta la provocazione dell’inizio
del Living. Abbiamo il silenzio, creano attesa gli attori che entrano uno alla volta. Il
movimento sarà fondamentale nel Living. Il testo di Brecht viene enunciato come
pronuncia epica verso il pubblico. Vi è un basso continuo di lamento, come una sirena
(ambulanza). Ci sono dei gesti, delle urla che evocano i gesti della battaglia, delle urla
di battaglia. Seguono le teorie di Mejerchol’d dell’acrobata. Tutto lo spettacolo evoca la
guerra e il sopruso, rappresentazione rituale di tutto. Antigone è uno spettacolo
rituale, la parola non ha importanza. Mette insieme molte cose dell’avanguardia
storica e di Brecht come il non immedesimarsi dello spettacolo che riesce
pienamente. Viene ripreso la ritualizzazione della scena pensata da Nerher con la
denuncia qui con il dionisiaco con gesti troppo espliciti. Creonte è rappresentato
come un sacerdote, Antigone è uno spettacolo per il ’68, per la liberazione, per la
protesta. Antigone è diventata la rivolta verso il maschilismo e dalla violenza
capitanato del capitale. Le Antigoni - Steiner Capitolo I Paragrafo 1: “Siamo solo gli
interpreti di interpretazioni” citazione a Montagne, Antigone di Sofocle è la miglior
tragedia greca, l’opera d’arte più vicina alla perfezione. La storia del pensiero e della
sensibilità ha attinto, per tutto il XIX secolo dalla riflessione sulla Grecia classica.
Idealismo tedesco è mediazione su Atene. Sensibilità barocca e neoclassica aveva
individuato nel cuore del “miracolo greco” nell’epica omerica, nella capacità di Omero
di istruire l’uomo civile nell’arte della guerra e dell’ordine domestico. Maggior sistemi
filosofici, dopo Rivoluzione francese sono stati sistemi tragici che hanno metaforizza la
premessa teologica della caduta dell’uomo. Dedicarsi alla filosofia, dopo Kant e
Rousseau, significa pensare in termini tragici. Schelling dice nel 1795 che la tragedia
greca celebra la libertà umana perché permette ai suoi eroi di combattere contro la
“prepotenza del destino”. I limiti e le costrizioni esigono la sconfitta dell’uomo, anche
là dove l’errore o la colpa sono fatali “predestinati”. Il fato nella tragedia greca è una
potenza invisibile inaccessibile alle forze naturali che comanda gli stessi dei. Alle
categorie di Schelling “libertà”, “destino”, le dinamiche dell’ “ego” e le componenti del
conflitto mortale a cui si riferisce la tragedia greca ha dato una forma primaria e
definitiva. Immaginazione idealistica e romantica ha innalzato Sofocle come massimo
poeta greco. Sofocle per Schlegel è il corifeo di un coro composta da poeti greci in
armonia. Sempre secondo Schlegel Sofocle è stato “il vero culmine dell’arte
drammatica”. Goethe pensa che Sofocle ha conferito la perfezione formale con le
istanze di terrore e di sofferenza contendo anche le intuizioni psicologiche che
dovevano palesare un elemento di estetismo e di spuria moderna. George Eliot pone
sullo stesso piano Sofocle e Shakespeare. Hegel dice che Antigone è “la tragedia
sublime per eccellenza” e di Antigone dice: “la più nobile figura mai apparsa sulla
terra”. Poche note di dissenso. Eliot dice che la tragedia mette in atto “quella lotta tra
le tendenze naturali dell’uomo e le leggi stabilite che porta la vita superficiale
dell’uomo al penoso e graduale conseguimento di un’armonia con i suoi bisogni
interiori”. A partire dal 1905 dopo l’influenza di Freud l’attenzione generale si è
spostata sull’Edipo Re. Primi adattamenti e traduzioni nel 1530. Più di trenta opere
sono composte sul tema di Antigone a partire dal Creonte di Scarlatti del 1699 fino
all’Antigone di Basili, di un secolo dopo. Nessun Antigone è messa a teatro almeno dai
primi del Settecento sino alla Rivoluzione francese. I cambiamenti che resero Antigone
“talismano dello spirito europeo” possono nascere da avvenimenti casuali o
contingenti. Il primo evento è Le voyage du jeune Anacharsis del 178, fantasia
pedagogica che ricostruisce la Grecia post-periclea dove nel Capitolo XI il protagonista
sta assistendo alla prima di Antigone di Sofocle che viene descritto come un
capolavoro tragico anche perché Anacharsis non “ha più lacrime da versare, non ha
attenzione da prestare”. Il secondo evento fu la presenza simultanea di Hegel,
Holderlin e Schelling al Seminario Teologico di Tubinga ed il loro approfondito
pensiero che vedere per Schelling la tragedia costituiva il discorso fondamentale
dell’essere. La terza causa del predominio di Antigone è legata alla storia del teatro
che vede l’ampio successo nel 1841 con la regia di Ludwig Tieck. Primo dramma greco
ad essere riproposto in dramma antico nel teatro francese (1844 – Parigi) da ricordare
i cori di Mendelssohn che vennero cantati per un decennio. La condizione femminile
vanne affrontata durante la Rivoluzione francese, donne avevano assunto obblighi
sacri della partecipazione alla vita civica, il dovere e il diritto di esprimersi
pubblicamente. Figure guida sono le donne spartane, compagne d’armi dei loro
mariti. Sospetto che esaltazione dell’eroina sofoclea, dopo il 1790, sia un surrogato
della realtà. Antigone drammatizza l’intreccio del pubblico e del privato, dell’esistenza
individuale e di quella storica. 25 Numerose descrizioni dell’invasione politica nel
privato. In Antigone la dialettica tra intimità ed esposizione agli occhi di tutti diventa
esplicita. Tragedia gravita intorno alla forzata politica dello spirito privato. Eroina
incarna il concetto di sorella. Con quel verso iniziale, intraducibile, si consolida nella
sorellanza l’essenza finale dell’identità e delle relazioni umane. Spirito di sorellanza sia
ricordato a Ismene sia come dovere di dare una degna sepoltura al fratello caduto. Vi
è amore profondo da parte di Antigone per Polinice. Utili sono le parole di Shelley
“non sono tuo: sono una parte di te” quasi incestuoso ma senza l’atto incestuoso. Solo
chi è nato dall’unione di fratello e sorella può introdurre il crepuscolo degli dei ovvero
l’alba dell’uomo. Vi è nella società idealistica e dopo romantica un compianto
incestuoso. Shelley parla di “sposa-sorella”. Anche per questo Antigone entra nella
sensibilità ottocentesca. Principio della perfetta unità interiorizzata nel pensiero di
Schelling (come in Schiller e Holderlin) dove bellezza e verità sono equiparate. Hegel
adotta la dialettica del progresso per cui la coscienza si dispiega e si realizza nella
storia attraverso la storia. Scissione del soggetto dal mondo. Cause sono discutibili,
periodo idealista vede fasi aperte al postulato di Rousseau alla caduta dell’uomo nello
stato di natura e immediatezza sensoriale (innocenza dell’intelletto) In Hegel (in alcune
fasi dell’argomentazione) l’origine della separazione sembra storica invece altrove
l’esilio dell’io sembra implicito nella vita della coscienza, nella capacità dell’ego umano
di pensare “fuori” e “contro” sé stesso. Critica idealistica della persona è antiplatonica
poiché eros per il Simposio era un passaggio verso l’unità invece psicologia idealistica
lo vede come una barriera. Vi è una sola relazione umana in cui l’ego possa negare la
sua solitudine, senza distaccarsi dal suo autentico io. Solo modo di incontrarsi dove
l’io entri in contatto con l’io di un altro, dove le polarità kantiane, fichtiane ed
hegeliane siano riconciliate. Questa è una relazione tra uomo e donna e deve essere
così se si vogliono rinsaldare le spaccature originarie dell’essere e che risolve il
paradosso dello straniamento inerente a ogni sessualità. Questa è la relazione tra
fratello e sorella. La sorellanza trova in Antigone la sua espressione eterna e suprema.
Tra la fine del ‘700 e l’inizio del ‘900 le linee radicali di parentela corrono
orizzontalmente come nel rapporto fratello-sorella. Solo con il Complesso di Edipo e
quindi con Freud queste corrono verticalmente. Con Edipo che prende il posto di
Antigone. Viene in menta una quarta causa della predominanza di Antigone ovvero il
motivo della sepoltura dei vivi che tormenta e affascina l’immaginario della fine del
‘700 e dell’inizio dell’800. Diventa un topos del teatro e romanzo gotico, tanto da
essere frequente anche nelle arti figurative e nei racconti fantastici di Poe. Soggetto si
rafforza con la speculazione scientifica e filosofica. Ciò si palesa anche con il contatto
extrasensoriale con i morti che va per quasi un secolo dal 1760 fino alla fine dell’800.
Discesa di Antigone nella morte vivente parlava alle generazioni rivoluzionarie e
romantica in modo immediato. Steiner vuole esaminare quattro rivisitazioni comprese
tra il 1790 e il 1840. Paragrafo 2: Il discorso di Hegel manifesta il rifiuto della fissità,
della chiusura formale. Il rifiuto è uno dei cardini del metodo hegeliano e rende
elusive le nozioni di sistema e di totalità. In Hegel riflessione ed enunciazione si
muovono costantemente su tre livelli metafisico, logico e psicologico. Questi si
compenetrano. Essenza del metodo e del pensiero hegeliano è la polemica con se
stesso. La negazione è lo strumento immediato del principio del pensiero avverso o
“contro-pensiero” hegeliano. Esso agisce in maniera ossessiva nel suo modello di
coscienza divisa e di alienazione. Per Hegel pensare, realizzare ed articolare la
dinamica dell’identità è “pensare contro “. Spirito è azione di un genere agonistico o
“conflittuale”. Il dramma tragico occupa una posizione privilegiata nello sviluppo del
pensiero hegeliano. Per Hegel la teoria della tragedia non è un’aggiunta all’edificio del
pensiero. Nell’universo di Hegel alcune tragedie greche e l’Antigone più di tutte hanno
la stessa funzione di certi poemi lirici ed espressionistici o delle Odi di Holderlin. Nel
1787 Hegel prova a tradurre l’Edipo a Colono, ciò è l’inizio del fascino che Sofocle
provoca al filosofo tedesco. In lui vi sono tre tematiche che influenzano le letture
successive dell’Antigone. L’idealizzazione hegeliana dell’antica Grecia è tipica della sua
generazione, egli a Tubinga scrive della “nostalgia ardente e dolorosa” che porta
l’animo dell’uomo moderno a ricordare la Grecia. Hegel non concepisce la polis come
un momento contingente nel flusso degli eventi umani. Nel 1795 Hegel percepisce le
opposizioni latenti nell’armonia tra sfera civico-politica e sfera rituale-religiosa. Su
questo si sovrappongono, in una triplice considerazione, la figura di Cristo, la figura di
Socrate e il regime oligarchico del governo di Berna. Hegel nel 1795 definisce la
religione “la balia degli uomini liberi” e lo stato come la “loro madre” ed è in questo
contesto che viene nominato l’Antigone di Sofocle. Dualismo stato-religione deriva da
un’alienazione precedente. Meccanismo di rottura tragico ovvero la scissione
dell’uomo dalla natura. Questo straniamento contiene l’origine della positività etica.
Condizione dell’individuo è sociale. Hegel prima del 1800 dice che l’uomo non può
pervenire ad un’autentica attitudine etica e cosciente di sé al di fuori dello stato, ma
quest’ultimo è una “totalità pensata” cos’ anche la religione attinge la sua vitalità
dall’immaginazione umana. Il conflitto tra le due non è necessario. In alcuni
frammenti vi è la teoria della tragedia, una di loro si riferisce alla figura di Abramo, egli
ha rinunciato alla patria, alla famiglia e alla natura stessa. Monoteismo di Abramo è
l’obbedire cieco di ordini. Il giudaismo incarna l’abbandono dell’interiorità dell’uomo
ad una “trascendenza estranea”. Concetto di destino, secondo Abramo, è antitetico a
quello greco. È un destino che 26 comporta il pathos dell’alienazione sterile, non ha
fecondità essenziale della tragedia. La sensibilità giudaica, nonostante la sua
immersione millenaria nel dolore, non produce tragedia. Tragedia si articola su alcune
concezioni particolari della legge e della punizione proprie del mondo ellenico dove la
relazione antagonista dell’uomo greco con se stesso, contro la natura e contro gli dei.
Tra il 1797 e il 1799 comincia ad emergere una teoria della tragedia. Al destino, con la
sua impersonalità dinamica, Hegel attribuisce la categoria di “colpa predestinata” di
un ordine di colpevolezza attraverso un individuo s’impossessa di sé. Hegel riflette su
Sofocle, sui primi tentativi di Hordelin di comporre tragedie, sui Macbeth di
Shakespeare e sulla rappresentazione dello scontro fra legami familiari nell’Ifigenia di
Goethe. I punti principali sono: ogni conflitto comporta una divisione e una divisione
con se stessi; il conflitto e lo scontro sono attributi necessari al dispiegarsi dell’identità
individuale e pubblica. Siccome la vita alla fine non può dividere se stessa e siccome
l’unità è lo scopo dell’autentico essere, vi è la colpa tragica. Hegel suggerisce “l’anima
bella” di cui sono modelli Cristo e l’Hyperion di Holderlin. In questi conflitto e dolore
non comportano alienazione dall’unità esistenziale. Hegel abbandona però questa
idea. Sulle Eumenidi di Eschilo Hegel si riporta nel testo più esteso sulla tragedia. Il
problema fondamentale in questo testo è la possibilità e la natura della dinamica
della mediazione tra individuo e stato-nazione. Hegel nel 1801 era arrivato a definire
la più perfetta identità umana con la forma più ampia di comunità civile. Nella
tragedia greca Hegel trova la soluzione delineata sia nel conflitto che la sua
risoluzione dinamica. Divisione della polis in interessi contrastanti è l’origine della
messa in atto della tragedia nella sfera etica. “Stato in guerra” contro il “diritto privato,
dove gli impulsi primari sono la difesa della famiglia. Divisione tra polis e individuo è il
riflesso dell’ingerenza dell’ “Assoluto” nella temporalità e nella contingenza
fenomenica. Divinità simbolo di questa ingerenza. Intervento divino nei conflitti morali
dell’uomo provoca una scissione interna nella natura del divino (Orestea, dove Atena
interviene al processo di Oreste) rende accettata il riconoscimento da parte della polis
dell’armoniosa opposizione degli Dei. Lo scenario dello scontro tra “Stato di guerra” e
il “diritto privato” deriva direttamente dall’Antigone. Hegel dice che l’etica concede una
rilevante porzione dei suoi diritti alle potenze “sotterranee”. Ciò adempie a una doppia
complessa funzione: riconoscere “il diritto della morte” e distinguere e distanziare
questo diritto dall’arbitrario etico-politico dei vivi. Famiglia perfetta totalità di cui la
natura sia capace e la generazione di figli è la totalità che riproduce se stessa. La
tragedia che esprime tutto ciò è l’Antigone di Sofocle. In Antigone la logica della
rivelazione in forma tragica è perfetta. Ciò articola in Hegel il passaggio da appunti
giovanili alla Fenomenologia. Il modo in cui Hegel si serve di Sofocle è pertinente
anche al pensiero di Antigone nel pensiero occidentale, anche se Hegel illustra tutto il
problema centrale dell’ermeneutica (interpretazione di antichi testi), della natura e
delle convenzioni della comprensione. Hegel nella Fenomenologia menziona Antigone
solo due volte, ma la presenza dell’eroina è viva a partire dalla sezione V dove Hegel
enuncia l’assioma dell’esistenzialismo. Essere è una pura “traduzione” dell’essere
potenziale in azione. Se azione individuale non è quella dello stato razionale essa
assume o meno una realtà sostanziale e può essere giustificabile. L’azione
dell’individuo lo porterà a scontrarsi con la norma razionale del fine realizzato nello
stato che reagirà opponendo la legge all’imperativo interno. Così inizia la tragedia.
Steiner usa un modo particolare di procedere dove cita entrate e uscite dei
personaggi ad ogni sviluppo del testo. Scontro ha due momenti dialettici: il primo
consiste nel peccato tirannico che fa dell’ostentazione una legge che ha volontà di
costringere la sostanza etica ad obbedire a tale legge; il secondo è più sottile ed è il
“mettere alla prova la legge” attraverso il “peccato della conoscenza” che attraverso il
ragionamento si libera della legge. Il primo denota senza dubbio Creonte, mentre il
secondo riguarda sia Creonte che Antigone. L’Antigone hegeliana è trasparente con se
stessa, padrona e vittima del suo agire che si identifica nel suo essere. Antigone vive la
sostanza etica pura che può essere afferrata solo dalla coscienza di sé. Ma la sostanza
etica che Antigone incarna rappresenta una parzialità inevitabile. Passo successivo di
Hegel è una congettura essenziale per la sua poetica dell’individuazione e dello
storicismo. Divisione tra leggi umane e divine non assume la forma di un confronto
diretto tra uomini e dei. Nella famiglia legge divina acquista triplice statuto: “naturale”;
“inconscia” e appartiene al “ mondo del popolo” ciò si trova in opposizione con la legge
divina nella sua applicazione alla religione della polis. Opposizione si manifesta nella
sepoltura dei morti. Dentro la famiglia, le forze dominanti della coscienza riguardano
il rapporto con la particolarità individualizzata. È la persona a essere concepita come
totalità e ad essa viene assegnato un valore di presenza negato all’ “individualità
generalizzata” del cittadino. La morte qui è vista come “la realizzazione e l’opera
suprema” che un individuo possa intraprendere. Nella morte l’individuo ritorna al
dominio etico della famiglia. Concretezza esoterica della visione hegeliana risveglia il
terrore ancestrale della decomposizione, della decomposizione, della violazione del
corpo da parte di animali che in Antigone è nel corpo di Polinice. Ricollega la famiglia
con quelle che sono appunto le due fonti, i due moventi dell’azione di Antigone:
“l’essenza della legge divina e il regno sotterraneo”. Hegel dice che all’interno della
famiglia c’è un rapporto privilegiato che è quello tra fratello e sorella, questo è
superiore per virtù dell’immediatezza. L’argomentazione è impregnata di Antigone.
Fratello e sorella sono dello stesso sangue, moglie e marito no, anche se ci fosse la
pressione della sessualità (Hegel non l’esclude) questa è stata superata. Il fratello deve
27 la tragedia moderna può trattarle in modo completo. Più esattamente, e qui sta
l’originalità «sintetica» del metodo di Kierkegaard, la tragedia totale deve «superare» –
la dinamica resta hegeliana – le componenti estetiche della tragedia classica e
trasformarle nella riflessività etica di quella moderna. L’isolamento puro è insieme
comico e disperato, una premonizione formidabile dell’estetica di Kafka e di Beckett.
Nell’accettare la relatività dei rapporti etico-familiari l’individuo entra nella sfera del
tragico. Però solo a questo patto può avvenire il «risanamento». Perché solo nella
sfera tragica, infatti, l’estetico funziona realmente all’interno dell’etico. È proprio
questo rapporto funzionale a garantire alla grande tragedia «un’infinita tenerezza». Le
antinomie di Kierkegaard diventano ancora più sottili. L’estetica risanatrice della
tragedia è come l’«amore materno» o come un principio femminile. L’asprezza
dell’etico è essa stessa temperata dal religioso, rendendo così l’elemento religioso
«espressione di un amore paterno». Entrambi sono funzionali alla tragedia, almeno
nei suoi limiti terreni. Kierkegaard riprende a operare distinzioni. Il punto di partenza
è una citazione dall’Estetica di Hegel sulla vera compassione, che è empatia verso la
«giustificazione morale» della vittima tragica. Kierkegaard propone una distinzione
fondamentale tra la partecipazione, la «compassione» dello spettatore antico e
moderno, e la messa in scena della colpa tragica a cui lo spettatore reagisce. I termini
chiave sono sande tragiske Sorg («vera pena tragica») e sande tragiske Smerts («vero
dolore tragico»). Nella tragedia antica, Sorg è più profondo, il dolore meno. Nella
tragedia moderna Smerts è più acuto, la pena meno. Questa differenza si fonda
direttamente sul concetto e sulla presentazione della colpa. La pena greca è «così
tenera e profonda» perché è priva della comprensione cosciente e riflessiva della
colpa. È una pena accordata alla sofferenza dell’eroe che è destinato a sbagliare. Nella
tragedia moderna, al contrario, la concezione della colpa è manifesta e personale.
Prevale una spietata trasparenza. Non è la pena a dominare le nostre reazioni, ma il
dolore. Segue il salto dialettico. La colpa tragica è una colpa ereditaria. Ma la «colpa
ereditaria» (l’eredità umana del peccato originale) «contiene la contraddizione interna
di essere una colpa e, tuttavia, di non esser una colpa». L’accettazione da parte
dell’individuo della colpa ereditaria è un atto essenziale di pietà, all’interno della quale
colpa e innocenza, trasparenza e opacità si mischiano indivisibilmente. Così la colpa
del personaggio tragico «ha ogni possibile ambiguità estetica». La conclusione di
Kierkegaard presenta un movimento di sintesi e di combinazione, di chiara matrice
hegeliana: «La vera pena tragica richiede, di conseguenza, un elemento di colpa, il
vero dolore tragico un elemento di innocenza; la vera pena tragica richiede un
elemento di trasparenza, il vero dolore tragico un elemento di opacità.» Il rapporto di
Kierkegaard con la figlia di Edipo è caratterizzato da un’ironia possessiva, da un
«dongiovannismo» dell’anima simile a quello che aveva descritto nella sua analisi di
Mozart. «Ella è una mia creazione, i suoi pensieri sono i miei pensieri, e quindi è come
se avessi trascorso con lei tutta una notte d’amore, come se mi avesse confidato un
segreto profondo, esalando questo segreto e l’anima nel mio abbraccio.» In un certo
senso, Antigone è il «possesso legittimo» dell’«ironista» erotico; in un altro, è un
essere autonomo che ha confidato all’amante-narratore l’integrità della sua persona.
Kierkegaard sta giocando dialetticamente con l’ambiguità dell’invenzione Poetica.
Antigone «inizia a vivere solo nel momento in cui la porto alla luce», eppure «devo
costantemente guardare dietro di me per ritrovarla». E attraverso Antigone si
uniranno le categorie di Sorg e di Smerts, di pena e di dolore. Nell’«Antigone» di
Kierkegaard, tutte le relazioni principali sono le stesse di Sofocle «eppure tutto è
diverso». Solo Antigone sa la verità sulla condizione incestuosa del padre, solo
Antigone sa che tipo di legame lo univa a Giocasta. Nella lettura di Kierkegaard
Ismene non esiste. Antigone è stata afferrata dai presentimenti di una verità
spaventosa che la «gettano nelle braccia dell’angoscia». L’angoscia, l’ansietà (Angst) è
l’elemento tragico moderno par excellence. Kierkegaard sostiene che nella versione
greca ad Antigone «non importa il destino infelice del padre». Certo, questo destino si
riflette nella morte sventurata dei suoi fratelli, e lo spettatore prova una pena
«infinita» nel constatare le ramificazioni fatali dell’eredità di Edipo. Ma il vero conflitto
deriva da un divieto puramente umano, proviene, per così dire, dall’esterno. La sfida
di Antigone all’editto di Creonte è una «necessità fatale», una visitazione sui figli dei
peccati dei padri. C’è, nel comportamento di Antigone, una libertà di azione sufficiente
a suscitare il nostro amore e la nostra ammirazione. Ma c’è, soprattutto, la cieca
«necessità del fato… che racchiude la vita non solo di Edipo, ma anche di tutta la sua
famiglia». Se Creonte non avesse proibito la sepoltura di Polinice, se il fatum non
avesse trovato la sua realizzazione contingente, l’esistenza di Antigone avrebbe potuto
raggiungere una felice maturità. Nel testo di Sofocle, quindi, secondo la lettura di
Kierkegaard, il rapporto di Antigone con il padre è allo stesso tempo «oggettivo»
(«determinato dal destino») e opaco. L’Antigone di Kierkegaard, al contrario, fa parte
dei «morti viventi». Porta dentro di sé la segreta conoscenza della catastrofe di Edipo
e della propria relazione con questa catastrofe. La nostra Antigone dovrei chiamarla
sposa in un senso forse ancora più bello: infatti, è qualcosa di più, è madre, è virgo
mater in senso puramente estetico, porta il suo segreto sotto il cuore, nascosto e
celato». La fama della casa di Edipo, la sua stessa sopravvivenza, in senso spirituale,
sono nelle mani del suo silenzio. Essa è sposata a quel silenzio; «non conosce nessun
uomo, eppure è sposa». L’Antigone di Sofocle, sostiene Kierkegaard, può quasi gioire
dell’editto di 30 Creonte perché le permette di manifestare al mondo il suo dolore per
la morte di Polinice. La sua Antigone non può dare voce alla propria pena: la causa del
dolore deve rimanere per sempre segreta. Ella vive, come dice Rehm, nell’incognito
del suo dolore. Edipo ora è morto. Antigone, mantenendo inviolato il suo silenzio,
rende ad Edipo gli onori estremi, giorno per giorno, quasi ora per ora. Ma anche
questa consacrazione silenziosa è piena di ambiguità. Antigone non è sicura che Edipo
stesso fosse consapevole del parricidio, dell’incesto. Secondo il filosofo danese questa
incertezza caratterizza la contorsione moderna dell’Angst. Consapevole di essere figlia
di Edipo e di Giocasta, ma non sapendo con certezza se suo padre conoscesse la
verità sulla sua procreazione. Viene dato l’ultimo giro di vite. «Antigone è mortalmente
innamorata.» Vista la profondità della sua anima, non può trattarsi di un amore
comune. Antigone deve portare al suo amato Emone la dote del suo io più intimo: il
suo segreto ed il dolore che nasce dal segreto. Questa è la prima parte dello «scontro»
tragico (Kierkegaard usa il termine di Hegel) ella non può parlare con l’amato del
segreto del padre. La seconda parte vi corrisponde dialetticamente poiché per via del
primo ella non fa accedere Emone al io intimo. Antigone può trovare pace solo nella
morte. Solo la sua morte può fermare la contaminazione (l’eredità della colpa) che la
rivelazione del suo segreto e la consumazione del suo amore, fatalmente, avrebbero
trasmesso alle generazioni future. «Chi, allora, è il vero assassino di Antigone?» –
chiede l’«ironista». «È Edipo, morto, oppure l’amante, vivo?» «Entrambi» – risponde il
dialettico. Due volte straniera nella casa dell’essere, Antigone viene mandata due volte
nel buio della morte. La versione immaginaria che Kierkegaard offre dell’«Antigone» si
muove su più livelli. La superficie formale, come abbiamo visto, è quella della
parabola ironica secondo la maniera romantica. Il concetto chiave «di ciò che suscita
l’interesse», piuttosto che, diciamo, la compassione o l’adesione ideologica o anche
l’intervento pragmatico, era stato esposto da Schlegel e da Tieck. «L’interesse», affilato
fino ad una sottigliezza psicologica tagliente come un rasoio, è lo scopo supremo
dell’esperimento narrativo. La trappola della dialettica si richiude sempre di più, sino a
ridurre Antigone a una estremità assoluta. Su questo livello estremo di interesse, la
posizione del prestigiatore e dei morti è voyeuristica. Il teatro del dolore sognato da
Sade non è molto lontano. Kierkegaard è perfettamente consapevole di questo
elemento di osservazione compulsiva e di spettacolo. La cecità innocente della visione
tragica greca è scomparsa; la drammaturgia moderna dipende da un «vedere» molto
intenso. In questo gioco o concetto psicologico-filosofico, gli aspetti autobiografici
sono, naturalmente, fondamentali. Il rapporto tormentato di Antigone con il padre,
l’immanenza devastatrice del padre morto nella figlia viva, rispecchiano esattamente
l’immagine che Søren Kierkegaard aveva della propria situazione. L’altra relazione
dominante in questo codice è quella con Regina Olsen, la donna amata che
Kierkegaard abbandona così pubblicamente e con tanta apparente brutalità. Il
copione di «Antigone» è la trascrizione letterale di questa crisi suprema della vita e del
pensiero del filosofo. Le osservazioni preliminari sulla tragedia antica e moderna
mostrano che il filosofo danese, come Sant’Agostino e Pascal prima di lui, sta lottando
con il paradosso della «colpa innocente», dell’eredità del peccato originale nell’anima
e nella carne dell’individuo. Il Cristianesimo e la riflessione moderna hanno assegnato
a tale paradosso una visibilità negata alla «natività» greca, alla nozione primitiva della
condanna iscritta nel destino dell’eroe. Kierkegaard trova nel rapporto della sua
Antigone con Edipo una messa inscena (il termine diventerà «incarnazione»)
illuminante e concentrata della fatalità ereditata, nel senso antico, e di una percezione
riflessiva di questa fatalità, nel senso moderno. Paragrafo 6: Secondo Goethe e
Schiller, il modo in cui Hölderlin aveva trattato il testo greco provava in maniera
tangibile il collasso mentale. Le edizioni di Hölderlin del 1808 e del 1846 riflettono tale
diagnosi. Le «traduzioni» dal greco antico sono delle cose selvagge, pazze, oscure da
interpretare. Quando Heidegger diede le sue conferenze su Hölderlin, negli anni
Quaranta, la rivalutazione fu spettacolare. Ma la riscoperta delle «traduzioni»
hölderliniane di Sofocle, in particolare dell’Antigonä, ha di gran lunga superato
l’ambito degli studi classici. Testo importante per ermeneutica moderna. L’Antigonä
porta agli estremi la radicalizzazione dei mezzi lessicali e sintattici, il passaggio dalle
convenzioni logico-sequenziali e dai riferimenti esterni del discorso ordinario ad una
coerenza assimilata della metafora e dei gruppi di immagine che rendono il tardo
lavoro di Hölderlin una fonte primaria del modernismo. l’Antigonä di Hölderlin poneva
quelle domande fondamentali sul carattere del significato che diventeranno l’oggetto
della semiotica e della «grammatologia» moderne. In un ambito più limitato, ma
ancora vasto, gli adattamenti hölderliniani di Sofocle sono centrali nel problema
irrisolto dell’evoluzione e delle crisi della sensibilità tedesca. Repulsione di Holderlin
da parte di Goethe. C’era la percezione di una certa nudità emotiva, di un
«arruolamento» dell’irrazionale. Le differenze tra il rapporto di Goethe con Sofocle
nell’Ifigenia e l’approccio a Sofocle di Hölderlin rispecchiano esattamente le differenze
tra il classicismo europeo, codice di equilibrio stilistico derivato dallo umanesimo
rinascimentale, e la nuova anarchia distruttrice di se stessa. Il paradosso della
«sottomissione dominatrice» verso l’originale antico, che Hölderlin si sforza di
applicare, ha in sé i germi dell’annientamento. Il tentativo di Hölderlin è stato studiato
e approfondito sotto ogni aspetto, benché molto resti da fare per stabilire con
esattezza il debito di Nietzsche e di Heidegger nei confronti della visione che Hölderlin
aveva della Grecia. Nel Sofocle di 31 Hölderlin, poetica ed ermeneutica, filologia e
politica sono rigorosamente inseparabili. Come vedremo, lo stesso atto del tradurre è
un momento cruciale all’interno di un disegno più vasto. L’ideale è quello della
fusione, del ritorno all’unità tra la coscienza ed il mondo. I tentativi di Hölderlin di
tradurre Sofocle risalgono, molto probabilmente, al periodo della sua amicizia intima
con Hegel e con Schelling, a Tubinga. Nel palinsesto del Sofocle di Hölderlin sono
riconoscibili almeno tre livelli di traduzione, non divisi nettamente: «idealismo
classico» in cui Hölderlin, spesso sull’esempio di Schiller, cerca di rendere l’originale
greco «con fedeltà, ma anche con libertà»; Il modello latente è quello di una
traduzione interlineare, di un’equivalenza parola per parola che non si cura delle
norme che regolano l’uso dei vocaboli, della grammatica e dello stile della lingua
madre del traduttore; traduzione in tedesco, tra Sofocle e Friedrich Hölderlin, assegna
un carattere dinamico e teleologico alla distanza temporale che separa l’Atene del V
secolo dalla Germania dell’Ottocento. Il tempo stesso, a cui il tardo Hölderlin ascrive
un mistero di propositi e di energie creatrici molto vicine all’essenza del divino
trasforma il testo classico. Nel testo originale vi sono, latenti, verità e ordini di
significato, potenzialità operative che sono incompiute quando il testo si presenta
nella sua incarnazione iniziale. Questa incarnazione è, per certi aspetti, solo
un’annunciazione, per quanto ben eseguita, delle forme dell’essere che sta per venire.
Il «traduttore» ha il compito «sacro», paradossale e addirittura antinomico, di
chiamare in vita le latenze insite nel testo ma tuttora inadempiute, di «sorpassare» il
testo originale nell’esatto spirito del testo stesso. Ci sono fattori che autorizzano il
«traduttore» ad agire come un legatario e, nel senso più forte, come l’esecutore
testamentario dell’eredità e della «volontà» dell’antico poeta. fuoco apollineo, le estasi
primordiali e le purezze dell’ispirazione divina ardevano liberamente nel mondo
greco, soprattutto nel periodo arcaico sono quelle messe in luce dopo il passaggio dal
greco al tedesco. Hölderlin deve tradurre Sofocle «contro lui stesso», contro ciò che in
Sofocle ha smorzato la fiamma primordiale della minaccia visionaria e dell’intuizione
profetica con una sobrietà profondamente radicata, culturalmente difensiva. la
traduzione di Hölderlin porta in primo piano il sostrato e la fonte, «orientali», che
risultano soffocati nell’arte greca del V secolo, e corregge quei «difetti», quei casi di
autocensura, benché subconsci, che oggi ci sono manifesti nella perfezione stessa del
testo sofocleo. Concezione mitica della storia secondo Hölderlin è alla base della
famosa dicotomia nietzschiana tra dionisiaco e apollineo. La teoria della traduzione di
Hölderlin è una «teoria tragica» che riflette esattamente il suo modello di tragedia, e
che quest’ultima, a sua volta, è fondata sulla stessa dialettica dell’incontro, dello
scontro creativo che si autodistrugge. L’Antigone di Sofocle deve portare un duplice
peso: è la fonte del paradigma finale della tragedia per Hölderlin ed è anche la sua
prova decisiva. Antigone, dunque, è altrettanto fondamentale per la poetica e la
metafisica simbolica di Hölderlin quanto per la logica delle relazioni umane e per
l’estetica di Hegel. Il concetto di tragedia è quello di un «avvenimento divino» ovvero
di una manifestazione esistenziale dell’imminenza e della prossimità del divino alle
vicende dei mortali, in momenti significativi e in circostanze privilegiate. Hölderlin
scrive che Dio e l’uomo si incontrano per contrarium, in opposizione. In questo
scontro, il divino assume il carattere o la forma dell’«organico», cioè del principio della
vita nei suoi lineamenti naturali e civili, nel suo «essere limitato». Nell’uomo, invece,
agisce una forza vitale illimitata, informe, subconscia e potenzialmente onnidistruttiva,
definita da Hölderlin «aorgica». È evidente il parallelo con l’antinomia tra il fuoco
apollineo e la «sobrietà giunonica» (fredda e antieroica), nella teoria della traduzione.
Il livello divino è inevitabilmente superiore. Ma dalla coazione a scavalcare l’abisso,
letteralmente il salto mortale nella coscienza umana, nasce, o meglio «scaturisce»,
l’azione tragica. La «polemica» tra Dio e l’uomo, il processo della collisione
trascendentale provocano la morte o, detto in termini più rigorosi, l’autodistruzione
del protagonista. L’«organico» acquista ora un valore universale per l’individuo e
l’«aorgico», che si scatena nello spirito del singolo, è sottoposto alla comprensione
razionale e all’integrazione nella natura e nella società. La «polemica» tra l’uomo e Dio,
il tentativo, intrinsecamente agonistico, di superare la distanza tra «organico» e
«aorgico», possono prodursi fertilmente solo nei momenti di una trasformazione
storicosociale, più o meno catastrofica. Hölderlin dimostra che è la struttura stessa
del dialogo drammatico, nell’Edipo di Sofocle, a rappresentare lo scontro tra le forze
antitetiche del mortale e del divino, dell’«aorgico» e dell’«organico», di ciò che è senza
limiti e di ciò che è governato da leggi. L’Antigone di Sofocle, anche più drasticamente
dell’Edipo, è considerata dal poeta tedesco un’opera appartenente e rappresentativa
di un periodo di «rovesciamento e rivoluzione nazionali». In tutta la discussione tra
Emone e Creonte viene prefigurato l’instaurarsi delle istituzioni repubblicane. La
Rivoluzione francese ha portato a piena espressione alcuni elementi repubblicani,
«insurrezionali». Proprio all’interno di tale prospettiva storicistica e rivoluzionaria.
dobbiamo interpretare lo scontro tra Creonte ed Antigone. Creonte incarna ciò che è
allo stesso tempo di bell’aspetto e formalistico, riflette la «sobrietà giunonica». Il suo
spazio d’azione è quello universalizzante e armonioso dell’«organico. l’Antigone
presenti analogie con la visione hegeliana del conflitto tra lo stato e l’individuo, tra il
forzato legalismo e l’umanesimo istintivo. All’inizio, Hegel e Hölderlin avevano
percorso la stessa strada. Ma le differenze sono nette. Benché si esprima a favore di
un vero equilibrio dialettico, l’interpretazione 32 vivi o nelle strette vicinanze: polis e
necropolis sono contigue. Come ha notato Hegel, c’è un movimento di fusione e di
ripugnanza nei confronti della terra, un connubio ed un ripudio dei legami tra carne e
polvere, che sono espliciti nel nome stesso di Adamo nell’immagine occidentale del
corpo mortale. Il sudario, la bara, la cripta mortuaria proteggono l’uomo da una
dissoluzione accidentale nella terra. Allo stesso tempo, comunque, la tomba, l’ossario,
il cimitero assicurano il ritorno della carne alla terra buia, l’assorbimento dell’individuo
nel ciclo organico della disgregazione e della fertilità. Nell’antichità classica vigeva la
credenza specifica secondo cui il cadavere insepolto non può avere accesso nel regno
dei morti. Nella sensibilità ebraica, come in quella greco-romana, suscita un orrore
marcato l’idea di cadaveri esposti agli appetiti di avvoltoi e di cani. Nella visione
giudaico-ellenica sembra che l’essere umano sia particolarmente, quasi oscenamente,
vulnerabile all’animalità, come se lo spirito, uscendo dal corpo nell’ora della morte,
attirasse su di sé le sollecitazioni delle bestie che arrivano a reclamare, a rivendicare la
loro parte nell’uomo. Le nostre testimonianze sono, quindi, limitate e insieme
contraddittorie. Ciò che sembra fuori discussione è il fascino esercitato da questo
motivo su Sofocle. L’inumazione e la trasfigurazione di Edipo risalgono, anche nel
trattamento ragionato e supremamente controllato di Sofocle, ad antiche vestigia
totemiche. Il dibattito sui riti funebri nell’Aiace è allo stesso tempo più astratto e più
generale che nell’Antigone. Colpisce la coincidenza delle date di composizione
dell’Aiace e dell’Antigone. È stato suggerito che il trattamento sofocleo delle relazioni
tra la polis dei vivi e le pretese dei morti, specie nell’Antigone, rifletta l’atmosfera e lo
stile della politica ateniese, come sono espressi nella famosa orazione funebre di
Pericle, pronunciata nell’inverno 431-430 a.C Aiace ed Antigone costituirebbero una
difesa mirata della libertà dei riti di sepoltura familiare in un momento in cui lo stato,
sotto la pressione della guerra e delle discordie interne, si sforzava di controllare, anzi
di irreggimentare, le forme di devozione privata. Il mito precipita e purifica gli
elementi agitati, opachi della situazione immediata. Vi impone la distanza e la dignità
dell’insolubile. Ma per riuscirci deve interiorizzare l’occasione contingente. Sono i
tentativi coscienti e volontari di raggiungere la «atemporalità», come li troviamo
nell’arte neoclassica o nella sublimità epica dell’Ottocento, che provocano un rapido
«invecchiamento». I testi e le opere d’arte universali preservano al loro interno un
campanilismo vivificante. Perché un centinaio di «Antigoni» dopo Sofocle? È difficile
focalizzare un problema così banale, eppure così centrale. Ad un primo livello, esso
concerne il carattere singolarmente ripetitivo del pensiero e dello stile occidentale
nella sua totalità. Ci sono altre culture che non mostrano nessuna forza di ripetizione
paragonabile, né fanno in modo analogo ricorso all’auctoritas di un classico
precedente. Ancora più sorprendente è l’atto che il riflesso della ricapitolazione sia
riuscito a sopravvivere alle spinte radicali del nichilismo, dell’epurazione e
dell’innovazione apocalittica che hanno avuto una parte così decisiva nelle crisi dei
moderni. Sia in forma generale che in forma più specifica, questa domanda sembra
stare alla base degli aspetti fondamentali della teoria marxista della storia e della
cultura. È esplicita nella psicoanalisi freudiana, nella teoria junghiana degli archetipi,
nell’antropologia strutturale di Lévi-Strauss. Che sia morto con Atene il nerbo
dell’invenzione simbolica, della metafora vincolante? Nell’Introduzione alla critica
dell’economia politica, Marx cerca di raffinare il modello ingenuo e sociologicamente
rozzo delle relazioni tra la «sovrastruttura» estetico- ideologica di una cultura e la sua
base economica e sociale. Secondo Marx, non è possibile formulare un’equazione
semplicistica e univoca di tali relazioni che sono molto più sottili sia in rapporto al
carattere del clima ideologico o artistico di una determinata comunità, sia agli stadi
temporali dell’evoluzione sociale. Marx condivideva la certezza che le conquiste
dell’antica Grecia non potessero venir superate. Neppure Shakespeare, così amato da
Marx, era stato superiore al genio duraturo, all’universalità esemplare di Omero, di
Eschilo o di Sofocle. Il genio dell’arte e della letteratura greca è quello dell’«infanzia
dell’uomo». La percezione immediata, la verità naturale, la grandezza fiduciosa della
scultura, dell’architettura, della poesia lirica, dell’epica e del teatro greco sono quelle
di un bambino ispirato, di un giovane «visionario eletto» in un’aurora radiosa. Il
fascino incessante che il miracolo greco esercita su di noi, la forza irresistibile che ci
attira verso l’antichità hanno in sé una nostalgia illuminata. Ma sappiamo anche di
non potere riconquistare l’innocenza eroica della sensibilità, la sua fiducia nelle
energie ordinate e rappresentative dell’arte. Marx deve aver capito che il concetto di
«infanzia dell’umanità» è indifendibile, che l’antica Grecia è stata un prodotto tardo
dell’evoluzione storica, quanto tutte le altre civiltà di cui abbiamo traccia. Ma l’autorità
dell’Iliade, dell’Orestea, dell’Antigone sullo spirito moderno era irrefutabile. Questo
paradosso esigeva una spiegazione, per quanto la stessa spiegazione fosse un «mito
analitico». Il mondo greco è la fonte del processo della filosofia occidentale e
dell’indagine sociale. Perciò Freud basa alla base dell’infanzia il complesso di Edipo,
chiaro modello greco e mito. tutto l’approccio di Jung si ricollega direttamente all’arte
e alla poesia, che Freud aveva trattato in modo prudente, per non dire
condiscendente, come testimonia lo studio su «Il poeta e la fantasia». Jung sa che il
fenomeno dell’incantesimo, del fascino e delle trasformazioni formali operate
attraverso i secoli dalla grande arte e dalla grande letteratura sono fondamentali per
ogni teoria della psiche individuale e della cultura. Secondo Jung, chiedersi perché una
«Antigone» si sia radicata per millenni, in modo inestirpabile e attraverso riproduzioni
incessanti, nella nostra 35 sensibilità privata e pubblica costituisce non solo un
legittimo, ma anche un fondamentale oggetto di ricerca. Il modello junghiano della
genesi della coscienza è storicistico. I livelli arcaici della psiche sono dentro di noi
«come l’antico letto di un fiume in cui l’acqua continua a scorrere». «Niente è perduto
per sempre» – postula Jung. Nel tentativo di operare un’integrazione di alcuni aspetti
del suo io originariamente amorfo e indifferenziato, la psiche umana genera
configurazioni e personaggi mitici che si comportano essenzialmente come uno
speculum mentis, uno specchio dinamico in cui le esperienze più intime della
coscienza si riflettono e assumono una forma riconoscibile. Jung definisce il
personaggio mitico sia come psicologema, sia come «struttura psichica archetipa
dell’estrema antichità corrispondente ai livelli di coscienza che hanno a malapena
lasciato la sfera animale». Tale personaggio non è solo o principalmente individuale. È
un’incarnazione collettiva. Karl Kerényi usa il termine «transpersonale». Così, una
figura mitica sarebbe «una personificazione collettiva» che garantisce forme
sopportabili, gioiose, chiarificatrici alle fantasie collettive arcaiche e alle fasi di
elaborazione della psiche. Sotto la pressione della civiltà, nel corso dell’evoluzione
dell’intelligenza individuale verso tipi di rappresentazione più analitici e «razionali», la
figura collettiva si disgrega a poco a poco. Scende al livello profano dell’arte laica e
intenzionale. Tuttavia, quest’arte può esercitare un fascino duraturo, può sopravvivere
e anzi incoraggiare repliche e rifacimenti nei secoli solo se conserva e rende tangibili i
suoi legami con quei modelli arcaici, fondamentali ed istintivi (gli «archetipi»), che
hanno dato origine alla coscienza umana e continuano a vivere nel folklore e nei riti.
Ipotesi junghiana secondo cui una grande opera artistica, letteraria o musicale derivi
la sua irresistibile «ripetibilità», la sua capacità di suscitare uno choc sempre nuovo,
anche se del tutto atteso. Modello e ipotesi junghiana di facile adattabilità
all’Antigone. Lévi-Strauss sostiene che i miti chiave della nostra cultura corrispondono
a certi confronti sociali primordiali e all’evoluzione delle «configurazioni» mentali e
delle istituzioni materiali, nelle quali questi confronti hanno potuto essere
«immaginati», contenuti e, sino ad un certo punto, risolti. Nella «mito-logica» di Lévi-
Strauss, il principio della costrizione si situa forse a un livello più profondo. I sistemi
essenzialmente polarizzati, essenzialmente dualistici o binari, in cui i prodotti
dell’immaginazione e la grammatica dell’uomo sembrano organizzarsi e raccontare il
loro sentimento del mondo potrebbero riflettere la struttura assiale, simmetrica del
cervello e del corpo. Antigone e Creonte rappresentano «le due parti della realtà
totale del mondo». Sono costituiti rispettivamente dai «due emisferi dell’essere e del
non essere». La funzione di Antigone, cosa rara nelle normali condizioni di reticenza e
di rappresentazione obliqua dei Greci, è di articolare e di evocare senza riserve il
mondo dei morti. Questa evocazione la avvicina al dionisiaco, con la sua tendenza
estatica all’autodistruzione. Di solito si controbatte che anche l’immaginazione
occidentale, dopo Cristo, ha generato dei personaggi e delle trame archetipiche che
possiedono la forza di autoriproduzione della mitologia antica. Se ne citano quattro:
Faust, Amleto, Don Giovanni, Don Chisciotte. Senza dubbio, la loro origine e la loro
fortuna successiva sono molto diverse. Amleto e Don Chisciotte sembrano presentarsi
come opere specifiche di un autore e di un particolare progetto. I vari «Amleti» e «Don
Chisciotti» sono diventati simboli familiari di alcuni tipi di linguaggio e di
comportamento nella società occidentale a partire dal Seicento. Nel caso di Faust e di
Don Giovanni, la dinamica del mito è più vicina all’elemento «primario» e assomiglia di
più al modello greco. Sono le voci di Edipo e di Elettra, di Antigone e delle Eumenidi
che si sentono incessantemente nel teatro e nella poesia del Novecento. Ci si chiede
ancora una volta: perché? Le analisi di Heidegger sono quelle più radicali e più in
sintonia con il problema della inaugurale. L’ontologia di Heidegger è, nella sua
essenza, una teoria degli inizi. Egli attribuisce allo spirito e alla lingua greca, nella fase
presocratica, una vicinanza specifica, unica con la «presenza e la verità dell’Essere». La
disposizione socratico-platonica verso la metafisica, dice Heidegger rifacendosi a
Nietzsche, operò un divorzio tra la percezione sensoriale e l’autenticità ideale e
astratta. La visione aristotelica del linguaggio era funzionale e pragmatica. Questi
sviluppi filosofici segnano la caduta irreparabile dello spirito occidentale dalla grazia
divina e dall’immediatezza della parola. Non abbiamo mai più «detto l’Essere» come
Parmenide nella sua identificazione di unicità e di esistenza, o come Eraclito quando
vedeva il mondo «mietuto, raccolto dal fulmine». Ma nei grandi poeti rimane una
parte della presenza aurorale del dire immediato. Sono loro che possono subire e poi
comunicare la rivelazione distruttiva dell’Essere nudo, della verità nel suo «non-
celarsi». La lingua greca è l’unica che continua a contenere i bagliori residui della sua
fonte ontologica. È il greco, l’antico greco che ha determinato nella sua essenza il
destino dell’uomo occidentale. È, ad un livello più o meno cosciente, dalla grammatica
greca e dal lessico dell’espressione filosofica e lirica greca che noi occidentali
continuiamo ad attingere i punti di riferimento dell’identità sociale e personale. Da qui
nasce l’autorità dei motivi e del discorso teatrale, poetico e speculativo greco, in cui
questi motivi sono enunciati o incarnati, sulla nostra arte, sulla nostra letteratura e sul
nostro pensiero. Ogni ricorso ad un tema mitico greco, anche nella forma di una
variante o di un’antinomia, rappresenta, nei termini heideggeriani, un letterale ritorno
alle origini: alla Lichtung (alla «radura luminosa») in cui l’Essere si è reso manifesto. Le
tecniche della narrazione, dell’invocazione lirica, dell’encomio epico e
dell’insegnamento gnomico, che troviamo in Omero e 36 nei primi rapsodi,
potrebbero costituire un epilogo della lunga storia dell’immaginazione eroica. Eppure,
se considerate alla luce della sensibilità occidentale post-latina, la lingua e la
letteratura greca sono primarie. La scrittura aveva dato all’ispirazione poetica e al
pensiero astratto un nuovo contratto con il tempo. L’atto del discorso si sottraeva
all’effimero e al collettivo. La lingua e la letteratura greca, ad un livello che non è solo il
risultato di una nostra illusione ottica, si sentono e si dichiarano primarie.
Sicuramente nel VI secolo a.C. e all’inizio del V, rappresentano una novità e una
rivelazione per se stesse. Parte di questa novità e di questa epifania diventa nostra
ogni volta che entriamo in contatto con loro attraverso la sostanza mitica e la forma
retorica. Relazione molto forte tra mito e grammatica. Credo che la lingua greca abbia
sviluppato la prodigalità e lo spirito dialettico della sua sintassi e la convinzione che il
linguaggio sia la funzione distintiva dell’uomo, in interazione generica con il processo
di evoluzione e di «fissazione» dei miti, con la loro espressione verbale cosciente.
Linguaggio e mito si sviluppano reciprocamente. Le aggiunte al corpus primario dei
miti (greci), primario in quanto autentica i mezzi semantici ed i riflessi della nostra
condizione culturale, sono così rare quanto le aggiunte sostanziali alla struttura della
nostra sintassi indoeuropea. Nessuna leggenda posteriore ai Greci, neppure quella di
Faust, trae beneficio da una logica genetica di questo ordine, cioè da una parentela
così stretta con i modi del discorso con cui è narrata e trasmessa. Confrontata con i
«miti nella lingua» dei Greci, anche la più ricorrente e la più anonima delle nostre
leggende è relativamente contingente e superficiale per quanto riguarda la linguistica.
Shakespeare «penetra nella lingua» da grande artista innovatore. Ma le sue trame non
scaturiscono dall’interiorità della lingua, non ci rammentano la nascita della lingua e
del suo contesto di coscienza, come lo fanno invece il grido di Pan, l’enigma proposto
dalla Sfinge a Edipo o le parole di Narciso rivolte allo stagno dove si specchia. Solo
nella musica, dove la «trama» e la «forma» sono una cosa sola, la civiltà occidentale
postclassica ha creato opere di una necessità e di una universalità mitiche. Wagner è
talvolta «eschileo» più di qualsiasi altro artista nella tradizione personalizzata,
riflessiva dell’invenzione che ha seguito il Rinascimento. In molti luoghi e in molte
occasioni nella tradizione occidentale ci siamo trovati coinvolti nel conflitto tra la
giustizia e la legge, tra l’aura dei morti e le pretese dei vivi; in molti luoghi e occasioni
abbiamo visto i sogni dei giovani cozzare contro il «realismo» degli uomini più anziani:
ebbene, ogni volta abbiamo dovuto attingere alle parole, alle immagini, alle forze di
argomentazione, alle sineddochi, ai tropi, alle metafore della grammatica di Antigone
e di Creonte. Paragrafo 2: I drammi lirici di Garnier sono ossessionati dal senso e dallo
spettacolo di una società in dissoluzione. Il tema di Antigone era a portata di mano.
Era stato in voga durante tutto il Rinascimento. La versione di Sofocle era disponibile
in italiano, nella traduzione di Luigi Alamanni, fin dal 1533. Garnier conosceva di certo
l’adattamento di Sofocle in francese scritto dal poeta Jean-Antoine de Baïf nel 1573.
Per i poeti, i grammatici ed i mitografi rinascimentali, l’Antigone di Sofocle era
inseparabile dalle altre due tragedie della «trilogia», l’Edipo Re e l’Edipo a Colono. Lo
storicismo di Garnier e dei suoi contemporanei è sincronico. La costanza della
sofferenza umana e dei misfatti, che producono inevitabilmente questa sofferenza,
accorcia la durata storica. Argo devastata che Giocasta piange è la Francia. I luoghi
topici del suo dolore sono universali concreti. La tragedia umanistica, di argomento
classico o biblico, è un’analogia confermata che unifica il tempo attraverso
l’immutabilità dell’exemplum e del significato morale. Per Garnier questo significato è
naturalmente cristiano. Il sottotitolo della tragedia di Garnier è ou la piété. È una
parola virgiliana per eccellenza. La pietas include sia la venerazione che la
compassione. Il pensiero e la retorica del Cinquecento accennano spesso alla quasi
perfetta interscambiabilità tra piété e pitié, tra devozione e compassione. Alla
sensibilità rinascimentale le analogie con Antigone non sembravano forzate. Il motivo
sofocleo della verginità, della sepoltura di notte, dell’amore votato al sacrificio, il senso
sofocleo di azione, intesa come compassione, di eroismo come angoscia liberamente
condivisa, tutto ciò è l’esatta annunciazione o la prefigurazione delle verità cristiane.
L’espressione fonde due autorità: la legge di Dio e quella della monarchia legittima.
«Dio» è presentato qui al singolare giudaicocristiano. Solo il re da lui designato può
trasformare i suoi comandamenti in legge. Per l’eroina di Garnier, Creonte
rappresenta le imposizioni fondamentalmente anarchiche, perché arbitrarie, perché
sospette dal punto di vista dinastico, del governo dispotico-militare tipico della guerra
civile. La giustificazione di Antigone è anche laica o, più esattamente, «umanistica».
Rifiutare di seppellire i morti è negare la loro e la nostra umanità. un’evoluzione
predestinata dei significati che conduce all’universalità attraverso la sepoltura e la
resurrezione di Cristo. Strumento di questa evoluzione è la donna. Visone di numerosi
morti sta alla base del sarcasmo di Creonte nell’Antigone di Anouilh (1944). Nella terra
di nessuno i corpi insepolti vengono presto ridotti a una indiscriminata bouillie
(«poltiglia»). Non si può distinguere tra Étéocle e Polynice, tra il potenziale traditore o
disertore e il Milite Ignoto onorato dalla fiamma perpetua. Per Romain Rolland, come
per il Tiresia di Sofocle, ma su di una scala molto più grande, la nudità dei morti tra i
fili spinati significava un oltraggio non solo all’umanità, ma all’ordine cosmico. Garnier
guarda al mondo antico per accentuare e per confermare lo statuto universale dei
fatti contemporanei. 37 «plebe» che agisce all’unisono oppure in gruppi e in singole
voci. Tra le soluzioni recenti, quella di Anouilh è la più famosa. Il commento
dell’azione, i dialoghi cruciali con Antigone, le premonizioni, le dichiarazioni di finalità
che Sofocle assegna al coro di vecchi sono ripartiti da Anouilh tra il Prologue, che si
può considerare come il corifeo, le Guardie ed il Choeur stesso, il cui tono è quello di
un testimone triste, vagamente untuoso. Ciò che è andato perduto in tutte queste
variazioni è il nucleo lirico ed il ritmo della tragedia sofoclea. Bertolt Brecht era troppo
bravo come poeta per non accorgersene. Si rendeva conto, inoltre, che la sociologia e
la poetica di un coro offrivano gli strumenti ideali per un uso didattico dei miti classici.
Attraverso il suo carattere collettivo e, in senso largo, «populistico», il coro poteva
offrire al pubblico moderno, molto probabilmente ignorante, un accesso diretto a un
imbroglio altrimenti lontano, «elitario». D’altra parte, la lontananza stessa del coro e il
suo autodistanziarsi dai terrori regali messi in scena davanti a lui potevano servire a
creare proprio quegli effetti di alienazione, di imparzialità critica cui aspirava Brecht. Il
teatrante tedesco nota che una «leggenda popolare di grande realismo» stava
emergendo. La concezione che Brecht aveva del coro era fondamentale: vedeva che
nel testo sofocleo-hölderliniano i canti corali erano talvolta così enigmatici e così
liricamente oscuri da sfidare una comprensione immediata, ma una volta
durchstudiert (studiate in profondità) le stesse odi rivelavano una bellezza sempre
maggiore. Lo studio in profondità, tanto importante per il teatro brechtiano quanto la
rappresentazione stessa, trasforma le parti corali in un esercizio di virtuosismo
rigoroso. Ma Brecht non si limitò a far rivivere sulla scena il testo
sofocleohölderliniano nella cornice di un dramma della resistenza antifascista.
Aggiunse alcuni passi corali scritti di proprio pugno. Essi sono cruciali per la sua
interpretazione e la sua «modellatura» di Antigone. La tragedia finisce con una fuga
corale a quattro voci. I vecchi seguono Creonte negli abissi, la mano coercitiva del
potere stabile è stata tagliata. Brecht ha sostituito il coro «centrale» dell’Antigone e lo
ha fatto con una finezza lirica che gareggia con il modello. Il commento al secondo
stasimo, che Brecht fornisce con le sue note di lavoro è lapidario: «L’uomo,
mostruosamente grande quando sottomette la natura, diventa un grande mostro
quando sottomette gli uomini, suoi simili». Sembra aver costituito per Heidegger il
talismano intrinseco, la prova che l’«Essere», in così larga misura scomparso dalla vita
e dal pensiero occidentale, era radiosamente immanente in certi atti di parola, e
quindi recuperabile. In Heidegger le allusioni esplicite all’ode sono frequenti, quelle
implicite onnipresenti. Heidegger cerca di spiegare l’affermazione parmenidea che
pensiero ed essere sono uno. Cerca di definire l’immagine dell’uomo che questa
equazione implica. A questo scopo, si volge alla «poesia pensante», essa stessa
supremamente rappresentativa del «pensiero nell’essere», nel secondo stasimo
dell’Antigone. Heidegger ritorna all’inizio dell’ode per verificare quali significati
debbano essere attribuiti alle conquiste folgoranti del mare, della terra e delle pecie
animali operate dall’uomo. Attraversare le onde d’inverno, aprire la terra con il
vomere tagliente, catturare con le reti gli uccelli dell’aria significa realizzare il
movimento centrale di partenza violenta nell’uomo. Vagabondo fuori dalla dimora
dell’io, l’uomo sradica, costringe e distorce le cadenze delicate, i giusti «recinti» della
vita organica. Heidegger rifiuta ogni interpretazione che veda nello stasimo un’analisi
storicistica o critica del progresso. Sofocle sapeva che l’enormità dell’uomo, la sua
corsa al potere e all’alienazione si devono collocare proprio alle origini. «L’origine è
quanto ci sia di più strano e di più potente.» La «stranezza» e il potere da essa
generato precedono l’uomo. Heidegger intraprende una terza lettura dell’ode.
Formula adesso il suo metodo ermeneutico: «La vera interpretazione deve mostrare
ciò che non si trova nelle parole e che, non di meno, è detto». I disastri dell’uomo,
preannunciati nell’ode e dimostrati nella tragedia sofoclea, sono il risultato di uno
scontro inevitabile, ontologico. La «violenza contro il potere soverchiante dell’Essere»,
attraverso la quale l’uomo afferma la propria essenza, deve distruggere. L’uomo è
«scagliato nel dolore», ma questa proiezione deriva direttamente dall’ingresso
dell’uomo nella storicità, nelle realtà esistenziali dell’«esser-qua». Paragrafo 6: Il
fascino di «Antigone», la pressione che il mito ha esercitato sulla poetica e sulla
politica sono inseparabili dalla presenza di Creonte. Antigone stessa, infatti, è assente
da gran parte della tragedia sofoclea. Dopo la sua uscita nella notte, il dramma è di
Creonte. I commentatori, riflettendo sull’architettura doppia o «ad arco spezzato»
della drammaturgia di Sofocle, hanno più volte suggerito che «Antigone e Creonte»
sarebbe il titolo più appropriato. Il ruolo di Creonte è stato dibattuto con la stessa
intensità di quello dell’eroina. L’origine di Creonte, le sue funzioni formali e strutturali
nel ciclo tebano sono totalmente oscure. Creonte sarebbe un guerriero che si è
impadronito del potere nella città di Cadmo, uno straniero in cerca di legittimità.
Creonte compare spesso nelle tragedie greche pervenute a noi intere o frammentarie.
Non è possibile conciliare in ogni punto le diverse versioni del suo personaggio. Il
Creonte dell’Edipo Re di Sofocle, dove ha un ruolo di assoluta innocenza e di nobiltà,
non è affatto lo stesso dell’Edipo a Colono e dell’Antigone. Nelle Fenicie, tragedia che
costituisce, con il poema epico di Stazio, la fonte principale dei «Creonti» a partire dal
tardo Medio Evo, il personaggio diventa complesso quasi sino alla contraddizione
interna. Qui Creonte è, come ci potremmo aspettare, lo zio materno di Eteocle. È
anche il consigliere e lo stratega del principe che sta per essere ucciso. È lui che
suggerisce, per difendere la città in pericolo, lo stratagemma dei sette campioni alle
sette porte. Eteocle è colto da precise premonizioni di morte. Se perirà, sarà 40
Creonte a prendere le redini del potere. Sarà Creonte a dover salvaguardare Giocasta,
sua sorella regale, ed assicurare il matrimonio tra Emone e Antigone. È Eteocle che
ordina a Creonte di negare la sepoltura a Polinice. Se quest’ultimo cadrà in battaglia,
che non trovi sepolcro in terra tebana. «E anche se fosse un amico, chiunque lo
sotterri sia condannato a morte». Creonte ha convocato Tiresia per sapere da lui
quale sia il modo migliore per salvare la città. Il profeta entra con Meneceo, secondo
figlio di Creonte. È lui che bisogna sacrificare se Tebe vuole resistere all’attacco degli
Argivi. Emone è fidanzato con Antigone; non ha, dunque, il distacco verginale richiesto
ad una vittima sacrificale. È Meneceo, «il giovane stallone», che deve morire. «Scegli
tra due destini: salvare tuo figlio o la città». La reazione di Creonte è quella
dell’umanità e della paternità oltraggiata. «Nessuno venga a glorificarmi uccidendo i
miei figli.» Il verso euripideo ripudia concisamente, ma radicalmente, la descrizione
che Sofocle dà del carattere di Creonte nella sua Antigone. Creonte si spinge oltre: si
dichiara pronto a morire al posto del figlio. Egli è per prima cosa un padre, solo dopo
un eroico uomo di stato. Il melodramma di Euripide si fa via via più agitato. Eteocle e
Polinice, impazziti, si uccidono l’un l’altro. Il vecchio Edipo esce vacillando dal passato
letterale, dalla discrezione piena di incubi del suo ritiro forzato. Le sue maledizioni
hanno prodotto effetti indicibili. Con Antigone intona un lamento. Creonte entra e li
interrompe bruscamente. Egli è ora il signore dello stato colpito. Eteocle gli ha
trasmesso la legittimità del potere. Polinice dev’essere lasciato insepolto fuori dai
confini del territorio tebano. Antigone deve sposare Emone per assicurare così la
continuità dinastica. Edipo deve andarsene. Tiresia ha detto chiaramente che Tebe
non troverà mai la prosperità finché ospiterà questo «straniero» contaminato. I
protagonisti si trovano ai limiti della sopportazione mentale e nervosa. Creonte, nel
cui nome stesso sentiamo la radice di «potere», si appresta a negoziare. Il divieto di
seppellire Polinice non è suo, ma di Eteocle. È semplicemente un atto di pietà e di
buon senso rispettare una tale. Conosciamo ben poco dell’Antigone di Astidamante.
Nella sua versione il dramma si svolge così: Antigone ha sepolto Polinice. Creonte
ordina a Emone di ucciderla. Emone nasconde la fidanzata tra i pastori avverte poi il
padre che i suoi ordini sono stati eseguiti. Ma, molti anni dopo, Meone, il figlio che
Antigone ha dato in segreto ad Emone, ritorna a Tebe per partecipare agli agoni
festivi. Creonte riconosce il Giovane ordina l’esecuzione di Emone e di Antigone.
Eracle, alle cui avventure e culto è stata associata la figura di Creonte nelle sue origini
oscure, interviene e opera la riconciliazione. In Stazio, Creonte spinge Eteocle al duello
fratricida con Polinice perché lui stesso è impazzito per il suicidio sacrificale del figlio.
In Racine, come abbiamo visto, Creonte diventa il corteggiatore della nipote in lutto. È
per servire la causa del suo umanitarismo esplicito, addirittura del suo
«repubblicanesimo» stoico, che Alfieri fa di Creonte il prototipo del tiranno, seguendo
Machiavelli. C’è, senza dubbio, un Creonte post- hegeliano. Già il celebre allestimento
Tieck- Mendelssohn dell’Antigone presenta Creonte come un nobile difensore della
legge, tragicamente vincolato. Era iniziata una lunga riabilitazione o più precisamente
un’indagine più serrata. Il conflitto centrale nella tragedia sofoclea è stato spesso
percepito come una lotta tra usi e codici di sentimenti arcaici e familiari da una parte,
e la nuova razionalità pubblica dell’epoca periclea, dall’altra. Al «trascendentalismo
radicato nella morte» di Antigone si oppone l’«illuminismo» secolare di Creonte. La
tesi diametralmente opposta è sostenuta con pari convinzione. È Creonte il
conservatore, il custode consapevole di quelle norme, anticamente sanzionate, della
vita civile che si riflettono, come si è visto, nella proibizione di seppellire i traditori in
terra natale che abbiamo trovato nelle Leggi di Platone e nel costume attico. La
provocazione di Antigone non deriva da una tradizione antica. È, invece, il fragile
preannuncio di ideali umanistici, di un’etica privata categorica di matrice socratica,
protocristiana e, infine, kantiana. Uno dei commenti più autorevoli, quello di Karl
Reinhardt, vede in Creonte il vero e proprio simbolo della limitazione intellettuale ed
emotiva. È un uomo circoscritto fino alla cecità nei confini della sua mediocrità.
Creonte, di «natura grezza, di mente mediocre e di comprensione limitata» non è né
un grande retore della nuova corrente razionalista né uno statista di polso, ma un
politico sedotto dal volgare potere. Eppure, nel suo commento al dramma, un
commento ossessionato dall’attinenza di Antigone alle circostanze proprie del
Novecento, Gerhard Nebel definisce Creonte begeistert, «posseduto dallo spirito».
Creonte è un uomo nelle mani del demonico. L’atteggiamento di Antigone verso la
sfortunata Ismene corrisponde esattamente al comportamento di Creonte nei
confronti di Antigone e di Emone. L’intimità polemica tra Creonte e Antigone emerge
da uno scontro di «libertà esistenziali» quasi perfettamente bilanciate. Nessuno dei
due può cedere senza falsare la sua natura essenziale. Sia Creonte che Antigone sono
auto-nomisti, esseri umani che hanno preso la legge sotto la propria tutela. Le loro
rispettive definizioni della giustizia sono, in quel caso particolare, inconciliabili. Ma,
nella loro ossessione legalistica, sono quasi il riflesso l’uno dell’altra. L’equilibrio non si
fonda, come avrebbe voluto Hegel, su entità di pari forza in conflitto, su una
«indecidibilità» definitiva. «Il conflitto tra Creonte e Antigone non oppone solo città a
famiglia, ma anche uomo a donna. Creonte identifica la sua autorità politica con la sua
identità sessuale.» Paragrafo 7: Il personaggio ambiguo di Creonte ha attratto
l’immaginazione politica sia all’interno che al di fuori 41 della letteratura ufficiale. Il
1948, per esempio, ha conosciuto non solo il violento rifiuto di Brecht della difesa
hegeliana di Creonte, ma anche una critica e un rovesciamento di valori molto più
drastici. Nel suo manifesto Antigone vierge-mère de l’ordre, l’ottantenne Charles
Maurras rovesciava completamente l’abituale visione dello scontro tra Creonte e
Antigone. Le interpretazioni invalse dell’Antigone di Sofocle sono «un fraintendimento
completo»: «Creonte ha contro di sé gli dèi della religione, le leggi fondamentali della
Polis, i sentimenti della Polis vivente. Ecco il vero e proprio spirito della tragedia.
Questa è la lezione che ne deriva: Sofocle non ha voluto mostrarci l’impeto dell’amore
fraterno e neppure, tramite il personaggio di Emone, fidanzato di Antigone, quello
dell’amore puro e semplice. Ciò che cerca anche di mostrare è la punizione del tiranno
che ha tentato di liberarsi dalle leggi divine e umane. Così sarà Creonte, non Antigone,
a distruggere la città. L’editto di Creonte contro Polinice è «anticostituzionale». Tale
usurpazione distingue il despota dal vero re. È, sostiene Maurras, «un’illegalità
mostruosa». Creonte, afferma Bernard-Henri Lévy, non è il portavoce di una fredda
raison d’état. “motivo di stato” È lui, invece, che invoca incessantemente il patronato
delle divinità. Questo principe di Tebe è anche e soprattutto «un sacerdote». Ne
consegue che l’opposizione di Antigone al re-sacerdote è una sfida all’ordine cosmico.
Indiscutibilmente, l’errore di Antigone è metafisico. Fa di lei non solo una fuorilegge,
ma un essere hors l’ordre du monde («fuori dall’ordine del mondo»). La conclusione di
Bernard-Henri Lévy è chiara: Antigone è «un’opera scritta interamente dal punto di
vista di Creonte, se non, addirittura, in sua gloria». Friedrich Becker dice che Antigone
è prode, «ma non è ribelle. È, infatti, l’antitesi vera e propria di un rivoluzionario». Le
«leggi non scritte» menzionate da Antigone sono inscritte nei cuori degli uomini e nei
costumi dell’umanità civilizzata. Il dottor Becker nega che il dilemma di fondo sia tra la
coscienza individuale, radicata nella tradizione religiosa, e la volontà del potere
arbitrario. L’autentico «eroe» o protagonista del dramma è Polinice. Polinice, da
morto, ha diritto a una presenza trascendente e a una commemorazione tra i vivi. È
proprio questo diritto che Antigone difende e si assume. Se lo stato è una realtà, la
morte lo è allo stesso grado. È la posizione di Creonte nei confronti del peso
esistenziale della morte a essere scopertamente inadeguata e a provocare la
catastrofe di lui e della πόλις. I principi di Creonte, dice Bultmann, non sono né
«stupidi né sbagliati». Egli non è un ipocrita reso pazzo dal potere. Ma la sua fede è «la
pura immanenza», «un puro credo nella condizione terrena». Creonte riconosce
pienamente il dominio della morte, ma lotta per includerlo nei limiti normativi del
corpo politico. O’Brien dice: «È stata la libera decisione di Antigone, ed essa soltanto, a
far precipitare la tragedia. La responsabilità di Creonte è molto più distaccata, fondata
sul fatto di aver messo questo potere tragico nelle mani di una testarda figlia di
Edipo.» Il «distacco» di Creonte è, presumibilmente, quello dello «stato» che, a sua
volta, si arroga certi privilegi di anonimato, anche quando il potere reale risiede nella
volontà e nella persona del principe. Antigone «sfida e provoca continuamente»
Creonte. Ma il «distacco» obbligatorio di Creonte rende impossibile e, senza dubbio,
indesiderabile, una reazione immediata o precipitosamente flessibile. «Senza
Antigone, potremmo ottenere un mondo più calmo, più realistico. I Creonti
rispetterebbero le reciproche sfere di influenza se l’instabilità dell’idealismo cessasse
di presentare, all’interno dei rispettivi campi di influenza, una minaccia alla legge e
all’ordine.» O’Brien ha smentito la sua visione di Creonte come di un essere «più che
individuale» e istituzionalizzato, il cui comportamento è insieme giustificato e
impedito da costrizioni che superano quelle della moralità comune. Nella versione di
Anouilh, dove l’abilità teatrale e la sottigliezza argomentativa superano di molto quello
che è un trattamento fondamentalmente volgare e riduttivo del tema di Antigone,
Créon vince. Su tale punto non ci sono dubbi. Al culmine del grande dibattito, egli
rivela ad Antigone che non c’è modo di distinguere i resti di Étéocle da quelli di
Polynice. Entrambi i cadaveri sono stati calpestati in un’oscena poltiglia dagli zoccoli
della cavalleria argiva durante la carica. Dopo aver assimilato questo fatto, Antigone
colloca la sua risoluzione nel passato: «Sarebbe stato meglio per lei essere morta,
persino per una causa così assurda». Abbattuta, la ragazza dice che tornerà ormai
nella sua stanza nel palazzo. È esattamente la soluzione pretesa da Créon. Nessun
comandamento divino, nessun assoluto etico ordina diversamente. La dialettica
insidiosamente ritmata di Créon ha minato i fondamenti esistenziali dell’azione di
Antigone. Le indicazioni sceniche sono chiare: Antigone «si muove come una
sonnambula». Ma è stata costretta da questa scossa ad abbandonare i sogni puerili di
eroismo e di lotta politica. La seconda ribellione di Antigone scaturisce da una
torsione psicologica più o meno alla moda e contingente. Antigone è nauseata
dall’insistere paternalistico e protettivo di Créon sulla felicità, sulla routine terrena che
la attendono nella vita coniugale. Antigone indietreggia istericamente di fronte alla
felicità domestica. Sceglie di morire nella presente condizione di verginità, non
macchiata dai compromessi viscidi della vita borghese. Niente di tutto ciò indebolisce
in alcun modo le accuse di Créon contro Polynice, il «teppista», e contro la ribellione
«assurda» di Antigone. Il secondo punto è il seguente: in Sofocle e in quasi tutta la
tradizione Creonte è lasciato in una spaventosa solitudine. Alla fine, intorno a lui non
c’è più niente se non la devastazione della sua famiglia. È abbandonato alla solitudine
delle bestie. Non in Anouilh. Il tocco finale è famoso: entra in scena un giovane
paggio. Ricorda a Créon che il consiglio supremo deve riunirsi alle cinque. Créon
stuzzica gentilmente il ragazzo. È una 42 per uccelli e cani. In seguito, ai versi 286-287,
Creonte sviluppa la prima accusa. Polinice si era proposto di incendiare e distruggere i
templi degli dèi e le leggi divine. Mazon è chiaro: il discorso di Creonte non è solo
retorica ispirata, ma manifesta «une convinction sincère». Altri esegeti vedono nel
modo in cui Creonte formula le pretese intenzioni di Polinice nient’altro che una
semplice furbizia tattica e un tentativo mendace, segretamente imbarazzato, di far
aderire il coro e i cittadini a una causa dispotica. Non si può archiviare la violenta
requisitoria di Creonte come mera retorica o falsità. Prese in sé, le sue parole sono
vere. Ma Creonte perverte fatalmente la loro applicazione etica e pragmatica.
Comportandosi contro Polinice come Polinice, secondo le stesse conclusioni di
Creonte, si sarebbe comportato contro i suoi familiari e la città, Creonte mette in moto
l’automatismo fatale dell’odio e dell’autodistruzione. È molto istruttivo che un’opera
come l’Antigone di Sofocle sembri opporsi alle pretese ludiche della decostruzione.
L’assioma alla moda della «testualità pura» è ingenuo di fronte a un insieme
composto di maschere, musica, coreografia e di un’elocuzione complessamente
stilizzata. Il testo linguistico di una tragedia greca non è un oggetto isolato. È solo uno
dei mezzi pertinenti delle forme con cui la tragedia rappresenta le informazioni e le
emozioni. Ma un secondo motivo per rifiutare le possibilità decostruttive è inerente
alla stessa pratica drammatica greca. Il registro di Creonte, sempre e soprattutto in
questo punto, è epico. Nella fraseologia di Creonte sono presenti precise analogie con
Omero. Le intenzioni criminali attribuite a Polinice vengono enunciate in tono quasi
formulare e con la violenza arcaica appropriata al male epico (forse «primitivo»).
Questo è evidente soprattutto nell’espressione «cibarsi, bere il sangue dei congiunti».
È possibile che questa nota sinistra riecheggi non tanto l’epica omerica quanto
l’universo linguistico del ciclo epico tebano, andato perduto. Ma, senza dubbio, lo stile
di Creonte ai versi 198-206 e il sistema di riconoscimenti e di reazioni articolate da
questo stile risalgono all’Iliade e all’influenza diretta dell’Iliade su drammi come i Sette
contro Tebe di Eschilo. Il registro di Creonte e il suo contesto sono esattamente quelli
della guerra. Non ci è facile valutare il ruolo della guerra nello sviluppo della civiltà
greca. L’Ellade ha attinto buona parte del suo sentimento di identità dall’Iliade. I
trattenimenti medievali e rinascimentali della «materia Tebana» collocano la sorte di
Antigone direttamente nel quadro della guerra e della politica bellica. Così fanno
Hasenclever e Brecht nelle rispettive «Antigoni». Guerra e occupazione nemica
definiscono il contesto in Anouilh. Il primo canto corale, o parodo (versi 100-154), è
sempre stato ammirato per il virtuosismo delle sue sezioni anapestiche, per il fulgore
selvaggio degli scontri polemici tra luce e tenebre, colore e ombra, da esso evocati.
Mentre la voce di Antigone emerge dolorosa dalla notte, intima e desolata, il coro
sorge e va incontro all’alba in un’estasi sonora. Ma il canto corale non maschera per
niente le realtà della guerra. Zeus e il sole hanno salvato la polis dall’assalto selvaggio,
dalla distruzione e dalla schiavitù. Nell’ultima antistrofe, il coro attribuisce alla vittoria
personificata un’«immensità di splendore» commisurata a quella di Zeus e del sole
stesso. Eppure, spinti da un impulso improvviso («decostruttivo»), i vecchi di Tebe
sembrano indietreggiare di fronte a questa iperbole: «Le guerre di ieri adesso sono
finite; dimentichiamoci tutto». Ma in questo preciso momento entra in scena Creonte.
Creonte entra in scena con i venti di guerra alle spalle. È alla carneficina del giorno e
della notte prima che deve la sua sovranità sulla città liberata. Gli aggressori argivi
sembrano essere ancora all’orizzonte. L’orazione di Creonte, con la sua
magniloquenza metallica e la sua automagnificazione, con l’impressionante
alternanza di sentenziosità statica e di imposizione perentoria, ha dietro di sé e vibra
ancora del tumulto e della cessazione improvvisa, misteriosa, del combattimento
corpo a corpo. Sia Sofocle che Shakespeare mostrano una grammatica irrigidita,
monumentalizzata, e un’intonazione che si modula sulla brutalità stentorea, sotto la
pressione del combattimento fisico e della sua fine improvvisa. Il resoconto fornito da
Creonte sulle intenzioni di Polinice corrisponde esattamente a ciò che un capo deve
immaginare e proclamare senza riserve ai propri seguaci prima di lanciarsi in una
battaglia all’ultimo sangue. Il Polinice di Creonte è quel che Creonte dichiara che è.
Paragrafo 4: Le convenzioni che regolano l’incontro con il soprannaturale e la sua
descrizione ci portano al cuore di una cultura e della sua poetica. È difficile
immaginare l’arte di Eschilo, Sofocle ed Euripide, come la conosciamo, priva del
ricorso, al tempo stesso spettacolare e obliquo, manifesto e implicito, a voci oracolari,
a «fantasmi», per esempio quello di Dario nei Persiani, a sostituzioni miracolose ad
apparizioni ed epifanie divine caratterizzate da gradi diversi di immediatezza. La
possibilità del soprannaturale è incisa nei miti, in quelli erosi o nei miti elementi che
corrispondono, a una profondità forse irraggiungibile per l’analisi formale, agli incontri
della sensibilità e della sensazione con le categorie dell’esperienza, con le costruzioni
fenomenologiche «esterne» o tangenziali all’ordine empirico. Come sottolineava
Hölderlin, Sofocle, che vede l’uomo mortale vivere in una prossimità luminosa ma
pericolosa con forze superiori, più divine di lui stesso, opera vicino alla «linea
d’ombra» che separa l’empirico dal trascendente. Incertezze testuali sono, anche nel
caso di trascrizioni e traduzioni differenti, meramente sintomatiche della complessità
voluta e necessaria dell’episodio drammatico e del suo racconto. Gli uccelli giocano un
ruolo complesso nell’Antigone. Nella prima antistrofe del primo stasimo, la capacità
dell’uomo di catturare con reti gli 45 uccelli «liberi», «beati» è riportata come un segno
del suo straordinario dominio sull’ordine naturale. Alcuni studiosi attribuiscono una
tonalità distintamente femminile agli epiteti riferiti da Sofocle agli uccelli in questo
grande passo. Se è vero, l’associazione con Antigone è latente. Gli uccelli rapaci,
invece, e i divoratori di carogne che stanno per posarsi sui resti di Polinice vengono
menzionati ai versi 29-30 con una ferocia che andrà crescendo nel corso della
tragedia. Alla fine dell’Antigone, che culmina con il racconto e la profezia di Tiresia, gli
uccelli hanno una parte dominante. Troppo tardi, Creonte «volerà via» per cercar di
arrestare la catena delle sue azioni sanguinarie. Abbiamo visto che la custodia dei
morti insepolti a opera del «pettirosso e dello scricciolo» è radicata nel profondo del
folklore europeo. La similitudine di Sofocle, molto elaborata ma, forse, tradizionale,
associa il «nido svuotato» a un «letto rimasto orfano». In termini umani, λέχος è il
letto. Non si tratta di un contrasto convenzionale né di un raddoppiamento formale. È
l’inferenza schiacciante della sterilità e della solitudine. La profanazione di Polinice
provoca l’imminente rovina di Antigone. Anche per lei, il «nido/letto» nuziale e
materno sarà vuoto e la sua progenie annientata. Sia la tempesta che il grido da
uccello si pongono al di fuori della ragione civica. Ma sono precisamente i confini della
ragione civica, della logica immanente, a disegnare la mappa di Creonte del mondo
ammissibile e intelligibile. È la trasgressione di questi precisi confini in direzione
dell’irrazionalità trascendente, da una parte, e dell’animalità o dell’«organicità»
primitive, dall’altra che Creonte si sforza di fermare. coro è sensibile, per via dei suoi
anni e della sua pietà, alle manifestazioni fenomeniche del divino, eppure è
timorosamente consapevole che tali manifestazioni, troppo prontamente sollecitate,
sono pericolose per i fragili contorni della città quanto le irruzioni dell’autonomia
atavica o anarchica. Nella tragedia greca, in quella latina e nel dramma neoclassico, la
convenzione del racconto, del «messaggio» esteso, corrisponde a un’estetica
dell’astinenza. Rimuovere lo spettacolo e la fisicità violenta dà al «mondo dietro alle
quinte» una prossimità e un’urgenza di intensità paradossale. Sensazione di una
pressione esercitata da «ciò che sta fuori» sulla parola dei mortali potrebbe ben
rappresentare il punto estremo del pensiero e della poesia («su ciò di cui non si può
parlare non si può tacere»). Heidegger, che nota questa pressione sui testi di Sofocle,
di Hölderlin e, talvolta, di Rilke, vi scorge una presenza residuale, gli ultimi fuochi
dell’Essere stesso, del nucleo ontologico che precede il linguaggio e da cui il
linguaggio, in passi caratterizzati da rischi e pericoli supremi, attinge la sua legittimità
divina, le sue capacità di significare molto di più di ciò che può essere detto. Paragrafo
5: A un solo testo letterario, credo, è stato concesso di esprimere tutte le costanti
principali del conflitto presente nella condizione umana. Queste costanti sono cinque:
l’opposizione uomo-donna; vecchiaia-giovinezza; società-individuo; vivi-morti; uomini-
divinità. I conflitti che derivano da questi cinque ordini di opposizione non sono
negoziabili. Uomini e donne, vecchi e giovani, individuo e comunità o stato, vivi e
morti, mortali e immortali si definiscono nel processo conflittuale della definizione
reciproca. La definizione della propria persona e il riconoscimento polemico
dell’«altro» (l’autre) al di là dei confini minacciati dell’io, sono due azioni indissolubili.
Le polarità del maschile e del femminile, della vecchiaia e della giovinezza,
dell’autonomia privata e della collettività sociale, dell’esistenza e della mortalità,
dell’umano e del divino si possono cristallizzare solo in termini di opposizione. la
parola «scontro», naturalmente, è un termine monistico e, di conseguenza,
inadeguato. Altrettanto decisive sono quelle categorie di percezione reciproca, di
corpo a corpo con l’«altro», che si possono definire come erotiche, filiali, sociali, rituali
e metafisiche. Uomini e donne, vecchi e giovani, individuo e communitas, vivi e
defunti, mortali e divinità si incontrano e si mescolano nelle contiguità dell’amore,
della parentela, della comunità, della comunione di gruppo, del ricordo sollecito e del
culto. Nella loro essenza, le costanti del conflitto e quelle dell’intimità positiva sono le
stesse. Quando uomo e donna si incontrano, la loro vicinanza è anche opposizione.
Vecchi e giovani cercano gli uni negli altri il dolore del ricordo e l’equivalente
consolazione del futuro. L’individualismo anarchico cerca di interagire con gli obblighi
imposti dalla legge e dalla coesione collettiva all’interno del corpo politico. I morti
risiedono nei vivi di cui, a loro volta, attendono la visita. Il duello tra uomini e divinità è
il più aggressivamente amoroso che si conosca. Nella fisica dell’essere umano, la
fissione è anche fusione. Proprio nei versi 441-581 dell’Antigone di Sofocle viene
realizzata ognuna delle cinque categorie fondamentali dei conflitti che definiscono
l’uomo e attraverso i quali l’uomo definisce se stesso, e tutte e cinque sono all’opera in
un solo atto di confronto. Non conosco nessun altro momento dell’immaginazione
sacra o profana che realizzi questa totalità. Creonte e Antigone si scontrano come
uomo e come donna. Creonte è un uomo maturo, anzi, quasi vecchio; Antigone
rappresenta la verginità della giovinezza. La loro disputa fatale è imperniata sulla
natura della coesistenza tra visione privata e necessità pubblica, tra ego e comunità.
Su Creonte pesano gli imperativi dell’immanenza, di chi vive nella πόλις; in Antigone
tali imperativi si incontrano con la non meno esigente folla notturna dei morti. Nel
dialogo tra Antigone e Creonte non viene pronunciata sillaba, non viene fatto gesto
che non sia portatore della prossimità molteplice, forse della doppiezza degli dèi. In
altre grandi opere letterarie e discussioni filosofiche compare uno o più 46 di questi
«binomi fondamentali». Uomo e donna si fronteggiano in tutta l’immensità
dell’esigenza inammissibile e, di conseguenza, distruttiva nella Bérénice di Racine, nel
Tristan und Isolde di Wagner. Non esiste una rappresentazione delle inconciliabili
intimità di amore e odio tra vecchi e giovani più profonda del Re Lear. Il Don Carlos di
Schiller, Il nemico del popolo di Ibsen, Santa Giovanna di Shaw sono importantissime
riflessioni sulle lotte tra la coscienza e la comunità, tra la luce interiore dell’individuo e
le necessità dell’ordine pragmatico. Giacobbe lotta contro l’Angelo; nei romanzi di
Dostoevskij personaggi come Stavrogin, Kirillov, Ivan Karamazov si battono in duello
con Dio, avvinghiati al loro avversario in un odio amorevole. Credo, però, che solo lo
scontro tra Creonte e Antigone, come viene narrato e rappresentato nella tragedia
sofoclea, renda ugualmente manifesta ognuna di queste polarità fondamentali. E
sono rese manifeste con un’economia perfetta e una logica naturale. La dialettica dei
sessi, delle generazioni, della coscienza privata e del bene pubblico, della vita e della
morte, del mortale e del divino si dispiega senza forzature a partire dall’interno della
situazione drammatica. Così la struttura del conflitto è nello stesso tempo universale
e particolare. È inerente al contesto eppure lo trascende del tutto. Le componenti
radicali dell’umanità discutibile dell’uomo, discutibile in quanto va sempre provata e
delineata daccapo nel confrontarsi con l’autre, si concentrano in un unico scontro
specifico. Questa concentrazione libera energie immense. La matura virilità civica di
Creonte, la sua fede in un ordine terreno e teocratico razionale definiscono metà della
realtà possibile; l’altra metà è determinata dalla femminilità e dalla giovinezza di
Antigone, dal suo «organicismo» e dalla sua difesa dell’intimità, dalle sue intuizioni del
trascendente e della vicinanza con la morte. L’incontro di Antigone e Creonte non solo
rimane inesauribile in sé, cioè nella sua formulazione sofoclea, ma continua a
produrre nuove varianti anche ai nostri giorni. Il germe di tutto il dramma sta
nell’incontro tra un uomo e una donna. Uomo e donna sono allo stesso tempo
inalienabilmente diversi. Lo spettro della diversità, come sappiamo, forma un
continuum tra i più sottili. In ogni essere umano sono presenti elementi di mascolinità
e di femminilità. Ma la maggior parte degli uomini e delle donne cristallizza la propria
essenziale virilità o femminilità in qualche punto di questo continuum. Questa
riunione della personalità divisa, questa composizione dell’identità, creano una
breccia attraverso la quale le forze dell’amore e dell’odio si congiungono. La fonte
originaria del drammatico sta nel paradosso del conflitto e dell’incomprensione
polemica, nel linguaggio stesso. Le radici del dialogo, senza il quale non può esistere
dramma, stanno nella scoperta che gli esseri umani, pur usando lo «stesso
linguaggio», possono significare cose completamente diverse, anzi inconciliabili.
Questo paradosso del «facsimile» divisorio è presente in ogni discorso e in ogni atto di
parola. Ma è negli scambi verbali tra uomini e donne che le antinomie interne a un
racconto esteriore e le incomprensioni reciproche interne a un’apparente chiarezza
acquistano un’importanza eccezionale. Quando i loro usi si incontrano, il dialogo
diventa dialettico e l’espressione è dramma. Il dato più intensamente drammatico
della nostra esperienza è l’incontro di un uomo e di una donna. Può succedere nello
scenario più banale. Basta la normalissima luce del giorno. Non c’è bisogno di
costumi: quando affrontano i pericoli del dialogo, l’uomo e la donna rimangono nudi
uno di fronte all’altra. Foreste in movimento, tempeste, apparizioni spettrali, tumulto
di folle e battaglie sono ben poca cosa, dal punto di vista della tensione e della forza
compressa se confrontati a un uomo e a una donna che stanno in piedi immobili in
una stanza. Agamennone e Clitemnestra, Tito e Berenice, Tristano e Isotta, Ysé e Mésa
di Claudel ci mostrano a cosa tende il confronto tra uomini. Questi incontri, poiché
mostrano l’unità dell’amore e dell’odio, del bisogno di unione tra uomo e donna e
della necessità di distruzione reciproca inerente a tale bisogno, sono l’essenza del
dramma. Incarnano il sentimento manicheo di un’esistenza umana da cui
scaturiscono il dialogo e il dramma. Il vitalismo pluralistico di Shakespeare, la sua
forte inclinazione per il tragicomico, lo portano a inserire gli scontri tra uomo e donna
nella trama ricca e ibrida della vita circostante. Questa prospettiva shakespeariana
potrebbe essere fedele alla stessa vita organica. Essa costituirà le fondamenta del
romanzo, ma non appartiene, in ultima analisi, alla tragedia assoluta o al sentimento
tragico della natura conflittuale della parola umana. È possibile che nella personalità
di Shakespeare la parte maschile e quella femminile abbiano raggiunto un tale
equilibrio, un livello di influenza reciproca così armonioso, da permettergli di unificare
il linguaggio, di percepire il linguaggio come un’unità. Tale unificazione non è
concepibile tra l’universo verbale di Creonte e quello di Antigone. Sfortunatamente
sappiamo pochissimo della posizione della donna nella sensibilità greca arcaica e
classica. L’unico mito primario e fecondo aggiunto dall’uomo occidentale all’inventario
di base degli atteggiamenti e delle identificazioni espresse dalla mitologia greca è
appunto quello di Don Giovanni. Con la Clitemnestra di Eschilo, con le tre «Elettre» a
noi pervenute, con l’Ismene, l’Antigone, la Deianira di Sofocle, con l’Ecuba,
l’Andromaca, l’Elena, la Fedra, la Medea, l’Alcesti, l’Agave di Euripide la tragedia greca
presenta, in parole e azione, una costellazione di donne incomparabili per autenticità
e varietà. Nessuna letteratura penetra con maggior audacia e sensibilità nella
condizione della donna. Può darsi che la tragedia greca sia stato il luogo privilegiato
dai personaggi femminili per dispiegare liberamente la loro umanità. Non si può
dubitare della ricchezza e dell’autorità della rappresentazione del maschile e del
femminile nello scontro centrale dell’Antigone. Creonte difende la virilità oltraggiata.
Se prevarrà Antigone – «se queste azioni 47 che vi presiede», designazione enigmatica
che può evocare sia gli affanni notturni di Antigone, sia il saluto all’aurora nella
parodo iniziale, o entrambi. Il coro, adesso, supplica il dio di venire a Tebe, la sua città,
il luogo della sua nascita. La danza del coro avrebbe simulato i passi tremendi di quel
ritorno. Se l’epifania di Dioniso può portare la purificazione, può portare anche la
rovina. Questa dualità, come Hölderlin ci ha insegnato, è incipiente nel semplice
incontro di un dio e di un mortale, nell’unisono implosivo di polarità eternamente
distinte. Le immagini di fuoco presenti nello stasimo lo esprimono con chiarezza. Il
dio, come un incendio, valica le vette dei monti e attraversa i mari. I sacrifici a lui
dedicati sono costituiti da offerte bruciate. Le feste e le processioni rituali che,
letteralmente, «lo accompagnano danzando nella città» sono illuminate da torce. Così,
l’intera cosmologia del quinto stasimo è quella del fuoco eracliteo. Più si cerca di
vivere con la parodo e i cinque stasimi ispirati dell’Antigone, più si cerca di «viverli», e
più diventa difficile scartare l’idea che Sofocle ci stia educando a sentire e capire un
terrore specifico. I suoi drammi, la poesia del suo pensiero, per quanto li conosciamo,
sono pervasi da un senso di fragilità delle istituzioni umane. Tre sono le origini della
minaccia. L’animalità dell’uomo e gli atavismi creativi e distruttivi del regno organico e
animale all’interno dell’individuo evoluto minacciano di riportare il tessuto
dell’esistenza umana alla solitudine e al denudamento arcaici. Minacciano di
sovvertire e decostruire l’edificio della società e della civiltà governata da leggi.
All’estremo opposto dello spettro dei pericoli stanno le visitazioni del divino. Gli dèi
hanno giocato ruoli diversi, talvolta ambivalenti, nella fondazione e nella costruzione
di città. L’implicita nella virtus, nella tendenza dell’uomo all’azione, nella
consapevolezza che l’eccellenza nasca dall’azione è una fonte di pericolo. La fantasia
di Sofocle, la sua visione della posizione dell’uomo nel contesto della realtà
significativa erano ossessionate, per quanto possiamo giudicare, dai presentimenti di
una fragilità radicale. La bestialità e la trasfigurazione, le minacce antitetiche eppure
concomitanti del mostruoso e del divino (fusione di contrari incarnata nella Sfinge)
proiettandole loro ombre affamate sulle istituzioni umane e sul terreno, conquistato
con difficoltà, della ragione. Si incomincia a capire che non è la speranza hegeliana di
una sintesi evolutiva tra i valori della coscienza e quelli dello stato in una πόλις
purificata, educata dalla catastrofe di Antigone e di Creonte, a esprimere nel modo
migliore il senso sofocleo della tragedia. Il problema fondamentale non è di sapere se
Tebe può ospitare al tempo stesso Creonte e Antigone o se Tebe sarebbe una città
giusta e salda se ospitasse solo uno dei due. Oltre a Kierkegaard, molti hanno
osservato che l’Antigone è pervasa di morte. Difficilmente i vivi pronunciano parole
importanti o compiono azioni di rilievo senza subire l’influenza dei morti. La cornice
letterale dell’Antigone è un campo di battaglia coperto di uomini trucidati. La causa
immediata del dramma è il cadavere di Polinice. Edipo, morto, e il terrore provocato
dalla sua scomparsa adombrano gli eventi della tragedia fin dall’inizio. Le successive
complicazioni e gli arricchimenti della consapevolezza nei personaggi, come in noi
stessi, sono tali da attirare i morti sempre più vicino alla sfera dei vivi. Già dalle prime
parole di Antigone, i morti si animano sia nel loro territorio di tenebre, sia alle
frontiere incerte della vita. Eteocle viene descritto mentre riceve dai morti il
benvenuto che gli è dovuto. La decisione di Antigone di giacere nella morte a fianco
del fratello il punto di partenza di una serie di movimenti retorici e simbolici
strettamente legati tra di loro, che cancellano gradatamente la distanza tra vivi e
morti. Antigone nel resto della tragedia, per darne una definizione concisa, è di
restituire al lessico della morte la dignità omerica e socratica di cui il vitalismo politico
di Creonte lo aveva spogliato. La seconda metà dell’Antigone di Sofocle è costituita da
una serie di variazioni sul tema della morte caratterizzate da una complessità e
intensità pari a quelle di qualsiasi altro testo nella letteratura religiosa, barocca o
romantica. Esaminerò più a fondo il canto di morte di Antigone, il κoινόν è caricato di
un senso fatale. In origineομμός, e la visione apocalittica di Tiresia. Ma vale la pena
ricordare brevemente il modo in cui Sofocle drammatizza la marcia inarrestabile dei
morti sulla società in dissoluzione dei vivi. Le barriere tra mondo dei vivi e mondo dei
morti, barriere la cui fragilità e inadeguatezza nel proteggere la città secolare sono,
come si è visto, motivo ricorrente e fondamentale in Sofocle, vengono ora spezzate.
«Cadavere abbraccia cadavere» (κoινόν è caricato di un senso fatale. In origineεῖται δὲ
νεκoινόν è caricato di un senso fatale. In origineρὸς περὶ νεκoινόν è caricato di un
senso fatale. In origineρῶι). Il verso (1240) porta a fatale compimento l’ordine
sarcastico di Creonte ad Antigone. In modo sentenzioso, il coro, composto di vecchi
che rimangono tuttavia radicati alla vita, gli rifiuta tale consolazione. Gli atti e i discorsi
della volontà umana portano a un funesto destino. Questo rimprovero crea una
simmetria spaventosa: a Creonte, che ha negato la sepoltura a Polinice, viene ora
rifiutato l’accesso alla casa dei morti. L’ostracismo che ha pronunciato contro Polinice
è diventato suo. Questo equilibrio della fatalità rappresenta la quintessenza del
pensiero sofocleo, ma risale anche a intuizioni più antiche sull’armonia tragica. Il
quinto grande asse riguarda l’incontro tra uomini e divinità. La tragedia greca veniva
rappresentata intorno a un altare. La dimensione religiosa è esplicita nella
rappresentazione stessa dell’opera e implicita nella mitologia che ne è, salvo
pochissime eccezioni, la materia. E anche in quei rari casi in cui il soggetto è tratto
dalla storia recente e profana la storicità diventa mitica e si ricorre alla logica del
soprannaturale. Da quanto possiamo giudicare, la tetralogia tragico-satirica incarna e
realizza una modulazione profondamente feconda tra le convenzioni dei riti enfatici,
mimetici e forse terapeutici (catartici) e il contesto dei dibattiti e delle critiche politico-
metafisiche. Lo stesso modo tragico passa dalla collettività alla solitudine assoluta dei
50 dubbi e delle invenzioni poetiche. Nella tragedia sofoclea il «dio nascosto» è un
agente centrale. Compare presto nell’Antigone: ai versi 278-279 il corifeo chiede se gli
enigmi, che sembrano contrassegnare la prima «sepoltura» di Polinice, non siano stati
«voluti dagli dèi» o «compiuti dagli dèi». Creonte vede il suo rapporto con Zeus come
una relazione di utilità reciproca, di invocazioni e omaggi elargiti nell’attesa di una
ricompensa adeguata. Una religiosità di ordine civico e l’integrazione del culto nella
politica generale del decoro sono un elemento positivo nella visione sofoclea di ciò
che è giusto. Non è necessario adottare l’interpretazione hölderliniana di Antigone
come Antitheos per rendersi conto che i riferimenti al divino contenuti nella sua
apologia sono scarsissimi. In breve, nella maggior parte dell’Antigone di Sofocle i
personaggi tragici tengono gli dèi a distanza di sicurezza. Sono le odi corali, come ho
cercato di dimostrare, che sollecitano e, al tempo stesso, rendono probabile la venuta
del dio. Questa venuta tra gli uomini si fa sempre più tangibile via via che, nel
dramma, i protagonisti perdono il controllo delle loro azioni. Le inadeguatezze
dell’immanenza, vuoi del monismo morale di Antigone vuoi della «chiesa
istituzionale», selettiva e ufficiosa, di Creonte, sono rivelate in modo terribile nel
quarto stasimo. Qui, credo, si trova il cardine fatale della tragedia. Ma ciascuno dei
grandi elementi che determinano lo scontro, come vengono espressi e come
scaturiscono dalla discussione tra Creonte e Antigone – il conflitto tra uomo e donna,
vecchi e giovani, società e individuo, vivi e morti, dèi e mortali – è, a conti fatti, non
negoziabile e sempre ricorrente. È questo carattere atemporale del conflitto
necessario e insolubile, come viene messo in atto dalla tragedia greca, che ci invita ad
assimilare la condizione terrena dell’uomo alla condizione tragica. Paragrafo 6: Il
progresso di Antigone verso la morte costituisce quasi una tragedia nella tragedia.
Abbiamo il lamento (κoινόν è caricato di un senso fatale. In origineομμός) di Antigone,
il contrappunto delle risposte corali, l’intervento brutale di Creonte dopo la sua
entrata in scena, l’orazione finale o rhesis di Antigone ai versi 891-928 e la sua breve
invocazione quando esce. La varietà degli strumenti metrici, i molteplici virtuosismi
della retorica che caratterizzano tutta l’Antigone raggiungono l’apice della loro densità
e sviluppo intorno al rito della morte di Antigone. È plausibile supporre che il dramma
tragico greco si sia evoluto dai dialoghi protodrammatici tra un coro e una voce a solo.
Sofocle è maestro di solitudini. Quando Ismene si tira indietro, cadono le premesse di
verità che sostengono una relazione intima. Antigone ritorna alla grammatica
solipsistica di Edipo, alla sintassi dell’ego. Per Antigone, la vita stessa si è identificata
con un impegno totale nei confronti dei doveri e delle fatalità della parentela. Ma la
tragedia ci indirizza a un senso di straniamento così drastico in Antigone che i riflessi
di isolamento della donna colpiscono non solo tutte le altre presenze umane. Il
lamento e l’addio di Antigone si possono capire nel modo migliore se visti come un
tentativo disperato di ritornare a quello che è per lei la sola verità dell’essere. Il
tentativo comporterà pathos e sofismi, ma anche una supplica quanto mai pura. Se
Antigone non avrà completo successo, è precisamente perché l’impeto delle sue
dissociazioni, del suo continuo sottrarsi alla struttura compromissoria della vita
erotica, sociale e civile, alla fine l’hanno resa in qualche modo estranea persino alle
iniziali certezze e alla fermezza del suo ego. Il modo in cui muore la consegnerà a un
limbo mostruoso: nella cavità tenebrosa Antigone non apparterrà né ai vivi né ai
morti. Antigone ha perso il contatto rassicurante con le cause del suo agire. Il suo
discorso finale, in una spirale rivolta contro se stessa, comporta la violenta verità della
contraddizione. Al tempo stesso, appartiene al topos dell’ultima esitazione prima del
sacrificio voluto e accettato. Creonte è in scena durante il monologo di Antigone. Ma
le parole della donna non sono dirette né a lui né al coro. Antigone si rivolge a coloro
che non possono o non vogliono ascoltarla. Antigone chiama direttamente e per
nome Polinice. Antigone è completamente all’oscuro del sostegno ribelle di Emone. Il
coro ha messo in dubbio non solo la giustezza legale ed etica del suo atto, ma anche il
suo significato. La tragedia assoluta è una forma così eccezionalmente rara proprio
perché nega il dibattito, il movimento pendolare verso la speranza che sembrano
insiti nella sensibilità umana. Ogni parola merita attenzione. Antigone è δύστηνος –
«condannata dalla sorte», «avversata dalle stelle» nel senso shakespeariano di chi è
predestinato alla sfortuna. È «abbandonata da dio». Ma Sofocle articola il discorso in
modo da costringere Antigone a chiedersi, e a chiederci, se non sia stata la sua
«autonomia» a scegliere di agire senza gli dèi o, almeno, senza gli Olimpi. Antigone
non nutre certezze consolatrici nella natura di Ade. Antigone enuncia, impone il
paradosso della sua rovina: la sua pietà ha mietuto sia il nome sia i frutti dell’empietà.
La sua stessa azione ha generato un’ingiustizia odiosa. Ma avendo rivolto questa lama
a doppio taglio contro se stessa, Antigone la rivolge adesso contro i suoi nemici
crudeli. Se essi hanno peccato intesa qui come intenzionale, come criminalmente
premeditata, è loro, possano allora non patire «male più grande» di quello procurato
ora a lei. Paragrafo 7: Quando si fa riferimento a oggetti e pratiche concrete, quando
si allude a fatti storici e istituzioni reali, l’esistenza di tali costrizioni si impone con
evidenza, e esse meritano di venir segnalate. Ma rappresentano solo gli elementi più
primitivi del contesto. Un grande poeta è un innovatore sia della lingua che della
sensibilità. Può conferire alle parole usate connotazioni, valori tonali, addirittura
significati estranei e spesso critici rispetto al loro uso comune nella sua società. Il
personaggio di una tragedia può presentare categorie percettive e forme espressive
51 completamente fuori della norma. Il teatro è stato molto spesso il terreno di prova
dei potenziali, perduti o futuri, dell’espressione e del comportamento umano. Ma la
lettura di un testo classico può anche suscitare una difficoltà diametralmente
opposta. L’opera o il passo si impongono a noi con la pretesa di un’apparente
immediatezza. Sotto la pressione della «pertinenza», si annulla la complessa mappa
delle distanze tra lettore e testo classico, da cui dipende l’interpretazione
responsabile. L’atticismo ciceroniano, il platonismo del Rinascimento, il
Neoclassicismo dell’ancien régime, la «Sparta» della Rivoluzione francese, l’ellenismo
vittoriano sono esempi caratteristici di identificazione voluta. La psicoanalisi, dopo
Freud e Jung, si è letteralmente nutrita di miti greci facendo dell’arcaico la materia
prima e la sostanza delle continuità della psiche umana. Siamo, come proclamano la
psicoanalisi e l’antropologia strutturale, les enfants d’OEdipe. Così la drammaturgia
moderna della consapevolezza e delle identificazioni simboliche ci invita a riconoscere
in Edipo e Narciso, in Prometeo e Odisse.. Sempre più spesso possiamo riconoscere
nei movimenti modernisti occidentali una fame di «origini», di ritorno alle fonti
arcaiche, essenzialmente greche. Questa volontà di ritorno alle origini, di fusione tra
passato e presente, è viva nelle rappresentazioni della politica tragica della nostra
epoca. Che tali sensazioni di sovrapposizione, anzi di identità, tra passato e presente
garantiscano la continua vitalità di un classico, è evidente. Che un testo receda dalla
letteratura all’epigrafia e alla mera documentazione storica, quando non è più vissuto
come qualcosa di attuale, è ugualmente certo. Creonte non ha commesso un crimine
particolare e limitato, per quanto feroce. Egli ha invertito, in un modo che non si
sarebbe creduto possibile per un uomo mortale, la cosmologia della vita e della
morte. Ha convertito la vita in morte vivente e la morte in sopravvivenza organica
sconsacrata. Antigone deve «vivere da morta» sottoterra; Polinice deve essere un
«morto vivente» sulla terra. La ruota dell’essere ha compiuto oscenamente un giro
intero. La percezione greca in generale, e quella di Sofocle in particolare associavano
intimamente la luce con la vita. Essere vivi significa vedere il sole ed essere visti da lui;
i giorni dei morti sono bui. Creonte ha commesso l’ultima violenza contro questa
equazione. Viva, Antigone è gettata nelle tenebre; morto, Polinice viene lasciato
imputridire e puzzare alla luce del sole. Tiresia ci suggerisce la natura duplice e
sottilmente equivalente dell’oltraggio. Se il sole, infatti, è sacro, lo stesso vale per
l’oscurità dell’Ade. Creonte ha contaminato sia la luce che le tenebre, sia il giorno che
la notte. Nessun poeta o pensatore, credo, è riuscito a esprimere in modo più sublime
e completo il «crimine contro la vita». Paragrafo 8: Riferito a qualsiasi testo più esteso
di una breve lirica, il concetto di comprensione totale è una finzione. Le nostre menti
non sono predisposte in modo da afferrare con uno sguardo saldo e completo un
oggetto linguistico dalle dimensioni e dalla complessità dell’Antigone di Sofocle. Le
angolature con cui i lettori si possono avvicinare a un’opera, i criteri di selezione o di
valore che i lettori applicano alle molteplici componenti di un testo per cercare di
pervenire a un modello operativo di unità, differiscono tra loro quanto le sensibilità
linguistiche, le eredità culturali e interessi pragmatici dei diversi individui. Le note di
lavoro di Stanislavskij e quelle di altri registi mostrano che i mezzi che assicurano a un
particolare allestimento il suo stile unitario e la sua coerenza rappresentativa sono il
risultato di adattamenti complessi e fluttuanti tra l’ideale intimo del regista e le risorse
teatrali di fatto a lui accessibili. Il metodo è quello del compromesso e della scelta tra
opzioni pratiche. Anche la produzione più ricca, la produzione intenzionalmente più
fedele al testo eliminerà alcuni aspetti per evidenziarne altri. Il senso che l’attore ha
del dramma è, a sua volta, un collage affascinante. Incentrata sulla sua parte e sul
contesto immediato della sua memorizzazione e dei suoi movimenti scenici, l’Antigone
dell’attore è un riassunto soggettivo e frammentario di un testo più grande, in parte
nascosto. La tragedia di Creonte non è mai quella di Antigone; nessuno dei due avrà la
stessa percezione e lo stesso ricordo del ritmo o delle proporzioni che potremmo
trovare nella tragedia vista dal Messaggero. Il testo teatrale è soggetto a questa
molteplicità di decostruzioni più di ogni altro genere letterario. il filologo che studia il
testo non vuole escludere niente, né introdurre priorità arbitrarie. Vorrebbe vedere e
presentare l’Antigone di Sofocle «così com’è». Il carattere organico di un grande
poema o di una grande opera teatrale è sicuramente visto in chiave metaforica. Non
possiamo definire in modo rigoroso, e ancora meno quantificare, l’analogia che
sentiamo tra questi testi e le forme che prende la vita. Non ci può essere
un’enumerazione di ciò che costituisce l’insieme vitale dell’Antigone di Sofocle. Ma
nella loro imparzialità verso il dettaglio, nel loro necessario ridurre la sostanza alla sua
incarnazione materiale, la filologia e la ricerca testuale sono enumerative. Questo non
significa che il critico letterario o il «lettore lento» abbiano un accesso privilegiato a
una visione unificatrice. Nella critica non esiste nessuna garanzia di lucidità. Le
ripetute composizioni e decomposizioni, delucidazioni e oscuramenti, frammentazioni
e unificazioni imposte a un testo scritto dall’atto della lettura sono di una molteplicità
così delicata che non possiamo trovarne una descrizione normativa o verificabile. Il
contesto pragmatico, sia materiale che culturale, appartiene alla dinamica della
lettura quanto la psicologia del singolo lettore. Il contesto come la psiche sono, a loro
volta, in movimento costante e interattivo. Tuttavia, persino nella più scrupolosa delle
letture lente, la visione che emerge dall’insieme del testo è «angolare» e selettiva. Se
supera i limiti di un componimento lirico o di un brevissimo racconto in prosa
nessuna opera letteraria resiste, intatta e salda, nell’attenzione e nella memoria. I
particolari dapprima privilegiati finiscono 52

Letteratura Teatrale Comparata,


Appunti di Letteratura
Università di Torino
Letteratura

LETTERATURA TEATRALE
COMPARATA
Steiner delinea nella prima parte del
“Le Antigoni” alla fortuna di
Antigone come essenza dalla
Filosofia del tragico
nata, come dice Peter Szondi, come
il canto di una nottola di Minerva
(immagine hegeliana) che canta
quando muore
il giorno, così la filosofia del tragico
fa con la tragedia, iniziato secondo
Steiner da Hölderlin che traduce
l’Antigone
di Sofocle. La seconda parte delinea
la fortuna di Antigone in Europa tra
il ‘500 e il ‘700/’800 del mito di
Antigone.
La terza parte è
l’interpretazione/lettura di Antigone
di Sofocle.
Alfieri sceglie Antigone perché
consapevole dei difetti costruttivi
della tragedia.
Brecht riprende la traduzione di
Hölderlin e porta Antigone a
Berlino che sta per essere liberata
dai nazisti. Antigone è
un modo di rappresentare la scena
in modo tribale che supera la teoria
dello straniamento, ciò è delineato
dall’amico
Neher (scenografo) che rappresenta
in scena un particolare ring, questo
sarà ripreso dal Living Theatre.
o Come la cultura occidentale ha
ripreso e interpretato i testi tragici?
La tragedia era uno dei generi
desueti durante il Medioevo. Il
significato di tragedia cambia
diventando un genere alto,
grazie anche alla Poetica di
Aristotele, passato a Sant’Agostino
dalle traduzioni arabe. La tragedia
viene considerata
come stile alto, anche se Seneca era
conosciuto, questo non venne tenuto
in conto nella scelta retorica, Dante
usa il
tragico come stile elevato, lo stile
tragico più alto è il genere della
canzone usato in senso “amoroso” e
dottrinale.
Il tragico si slega dal teatro per via
dell’individuazione nel “De
Oratore” di Cicerone del punto di
partenza nella scelta
di una lingua deprivata che fluisce
nella canzone. Il cambiamento
avviene nel XV secolo con
l’avvento dello
Umanesimo, l’epoca delle “scoperte
umane” che unita alla caduta di
Costantinopoli portano tutti i testi
greci e romani
in Occidente, si scoprono le sette
tragedie di Sofocle ma non vi è una
ripresa tragica nelle lingue
moderne, chi scrive
tragedia lo fa in greco o latino, il
primo che scrive una tragedia in
lingua moderna è Gian Giorgio
Trissino, che nel
1524 scrive “Sofonisba” la prima
tragedia in volgare, egli cerca di
inserire un argomento greco
nell’ambito della
tragedia greca classica. La tragedia
moderna non ha ideologia tragica di
fondo, nella tragedia greca il motivo
è da
identificarsi nella nascita seguita
dalle feste dionisiache e dalla
ideologia politica, tipica ateniese,
della democrazia. I
letterati italiani, francesi, spagnoli,
inglesi e tedeschi iniziano a scrivere
tragedie con una grande differenza
tra il 1548
e il 1550 dove è nata una polemica
per le interpretazioni della Poetica
di Aristotele. Nel ’48 Francesco
Robertello
commenta liberamente l’opera,
invece solo due anni dopo
Bartolomeo Lombardi e Vincenzo
Maggi pubblicano un
altro commento interpretando
l’opera sull’idea della
Controriforma. La Poetica ha
salvato la tragedia in una Europa
cattolica dall’accusa di essere un
genere eretico, per via della
derivazione che la tragedia segue il
fato e il destino
(Tyche). Se nel genere della
tragedia si fosse continuato a
seguire il tema del fato in Europa il
genere nel 1500-1800
non avrebbe avuto fortuna, ma nella
Poetica l’atùchema (la colpa
destinata dal fato) non è presente.
Invece nell’Etica
Nicomachea Aristotele delinea tre
tipi di colpe: adìkema, la colpa per
un gesto compiuto volontariamente;
atùchema,
ovvero la colpa destinata dal fato e
hamartia, la colpa per un errore di
calcolo o per ignoranza (perché non
si è capito
appieno). Nella Poetica questo
discorso è diverso, Aristotele
descrive la tragedia come il luogo
dove si confrontano du
termini di terrore: la Mochtheria,
ovvero la crudeltà abituale e il suo
opposto ovvero l’Hamartia /
Amàrtema. L’eroe
deve essere di “media bontà”, non
deve essere perfetto (andrebbe
contro Dio) e non deve essere
crudele (meriterebbe
il finale tragico). Eroe deve
commettere solo errori di
valutazione e ignoranza. Nel 1550
in Italia si rincorre a
collegare l’Amàrtema con le
distinzioni cavillari (giuridiche e
gesuite) decidendo che il solo agire
innocente è quello
per ignoranza, il resto è agire
colpevole.
La catarsi tragica è stata un
“granchio” rinascimentale dal ‘500
al ‘700, periodo ossessionato dalle
passioni. Quando
Aristotele scrive della catarsi la
discussione si aprì nelle modalità di
purificazione delle passioni, causa
dell'infelicità e
insoddisfazione dell'uomo. Nel ’48
Robertello nel commento intende la
catarsi come rimedio omeopatico,
cioè come
se alla continua rappresentazione di
compassione e terrore l'uomo si
adegui alla visione e al
riconoscimento. Lombardi
e Maggi due anni dopo dicono che,
con una linea cattolica, le passioni a
cui bisogna curarsi sono odio,
invidia ed
avarizia. In Edipo ad esempio
l'errore è da riconoscere quando egli
uccide le guardie del padre poiché
si lascia
prendere dall’ira (secondo i coniugi
Dacier).
In Francia la tragedia classica trova
luogo nella civiltà di corte, nella
ideologia dell'onore che cozza con
l'amore, in
Corneille e il suo Cid, l'eroe viene
offeso dal padre della sua amata ed
egli deve per forza, poiché offeso
nell’onore,
sfidare a duello il padre che muore,
qui vi è il conflitto tra onore e
amore.
Nel ‘700 il privilegio è legato al
senso comune, ciò non facilita la
tragedia, il testo del 1713 “Menope”
di Scipione
Maffei e messo in scena da Luigi
Riccoboni, è basato su l'amore
filiale, basata sull’ideologia di
giustizia poetica, dov'è
la tragedia può finire bene, ovvero
contro la Poetica di Aristotele,
privilegiata dalla maggior parte dei
letterati italiani,
1
il cambiamento sostanziale però
avviene con Alfieri che pone
l'attenzione sull’ingiustizia e non
permette
l’accontentarsi del male che diventa
bene.
La filosofia del tragico ha altre basi
che non è dovuta alla Poetica di
Aristotele, ma si basano su un
fraintendimento
avuto su una lettura di Aristotele nel
passaggio sulla catarsi scoperto nel
1820, infatti le passioni vanno lette
come
emozioni e ciò va delineato
successivamente alla visione della
tragedia.
Mito di Antigone
Antigone è la figlia di Edipo e
Giocasta. Prima di porre attenzione
ad Antigone, poniamo attenzione al
mito di Edipo:
Un oracolo predice, secondo
Sofocle, che il figlio, che nascerà da
Giocasta, ucciderà il padre. Si
decide allora di
sbarazzarsi del neonato che
potrebbe creare dei problemi e lo si
abbandona dopo avergli trapassato
le caviglie con una
cinghia (Edipo = Piede gonfio)
viene salvato da un pastore che lo
porta a Corinto. Qui Edipo viene
allevato alla Corte
del Re. Divenuto adulto decide di
recarsi a Tebe per sconfiggere la
Sfinge a cui gli abitanti della città
dovevano
sacrificare, ogni anno, sette fanciulli
e sette fanciulle. Nessun guerriero
era riuscito a sconfiggerla fino ad
allora e
liberare Tebe da tale flagello. Nel
suo viaggio, quasi alle porte di
Tebe, Edipo incontra Laio (il
padre), il cui araldo
Poliplate gli uccide il cavallo che
non era stato lesto a ritrarsi dalla
strada al passaggio del re. Edipo,
infuriato, uccide
il padrone e il domestico, arriva a
Tebe, in lutto, dove è già arrivata la
notizia. Si reca nel palazzo dove
dimora la
Sfinge. Risolve l’enigma posto a
coloro che la sfidano. La Sfinge si
suicida. Divenuto eroe nazionale
sposa la regina
Giocasta, sua madre vedova a causa
sua, da questa ha quattro figli:
Eteocle, Polinice, Antigone e
Ismene. Edipo
scopre l'incesto con la madre si cava
gli occhi e parte ramingo fino ad
arrivare in un bosco sacro dove
viene prelevato
dagli dei e lo restaurano di tutti i
mali. A Tebe la ricerca di Edipo
continua, i figli decidono di
governare un anno a
testa fin quando che Eteocle non
vuole abbandonare il trono così
Polinice ritorna dall’esilio per
permettere un altro
insediamento, i due fratelli si
uccidono uno per mano dell'altro, il
trono passa a Creonte, fratello di
Giocasta, che
decide di non far seppellire il corpo
di Polinice per tradimento della
patria.
Antigone di Sofocle (442 a.C.)
L'opera inizia un'ora prima
dell'alba, ciò è utile per delineare il
personaggio di Antigone associato
più a divinità come
Ade. Per Alfieri Antigone è un
animale notturno e cupo, derivante
anche dal suo neoclassicismo cupo.
Creonte invece
sempre per Alfieri è la figura
negativa che opera alla luce.
Pag.21 : Fin da subito si denota l'uso
in “Sangue del mio sangue” del
duale greco, usato molto di più nelle
commedie.
Nella versione greca Antigone non
pronuncia mai il nome di Creonte,
nella prima battuta lo chiama
Strategos (nel
testo Creonte). Antigone non vuole
nominare il nome di Creonte,
poiché non lo riconosce al potere,
poiché egli prima
fu comandante poi tiranno.
Spesso nella tragedia vi è una
situazione di parresia (dove chi dice
la verità rischia la vita) ciò viene
delineato dalle
figure di Antigone e della guardia
ma Creonte non capisce i suoi errori
se non un momento prima di
morire.
Pag.21 : Ismene non sa nulla e
Antigone risponde di sapere e che
prevedeva quello che sta per
delineare.
Antigone e Ismene, le due sorelle
sono contrapposte, divise tra la
donna forte (Antigone ) e la donna
debole che
ubbidisce (Ismene). Antigone
etimologicamente sta per “generata
contro”. Ismene non sa prendere
decisioni, questa
contrapposizione continua in tutte le
tragedie, tranne in Alfieri dove
Ismene non è rappresentata.
Pag.21 : Antigone dice a Ismene che
Creonte ha deciso di non seppellire
Policine seppellendo però l'altro
fratello
Eteocle.
Il non seppellimento del cadavere
non permette al corpo di andare
nell'Ade, il fattore da aggiungere è
anche la puzza
del cadavere che non permette il
pianto di qualcuno creando
ribrezzo.
Pag.21-22 : Antigone dice a Ismene
di dimostrare di essere figlia di
nuovi genitori. il fraseggio tra le due
donne, qui
diventa veloce passa da battuta a
battuta e Ismene non decide,
chiedendosi che vantaggio può
avere sei compirà o non
compirà il volere di Antigone.
Antigone vuole seppellire il corpo
di Policine, lo propone a Ismene,
Antigone dice “se
tu ti opponi, non sarò io a tradirlo!”.
Ismene porta tutto sul piano della
pena pensando al padre alla madre
che si
impicca e alla morte dei due fratelli.
Ismene si dimostra alla mercé degli
uomini e di chi governa e non ha
coraggio di
affrontare il potere maschile tanto
da dire “siamo donne, ricordalo,
non possiamo batterci con gli
uomini”.
Ismene ha introiettato il sistema
educativo che la richiederà inferiore
ai maschi alla legge di chi governa e
degli
uomini.
Pag.22-23 : Antigone non cercherà
più Ismene e non gradirà più l'aiuto
della sorella, Antigone commenta
con “giacerò
accanto a colui che mi amava “
pensando al fratello e “colpa è santa
“ per fare quello che è giusto,
Antigone è sola,
non ha il supporto della sorella, vive
nel buio ed è propensa ad andare da
Ade, Ismene non ha la forza di
sfidare la
città, le due sorelle sono totalmente
distaccate, Antigone si in colpa
disboulia (follia, dissennatezza )
Ismene continua
2
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chiudere in una grotta Antigone con


un poco di acqua e un po' di cibo,
per la prima volta Creonte pensa al
confronto
con gli dei infatti dice “la farò
portare in un luogo dove non vi
sono tracce di uomini e la farò
seppellire viva in una
grotta. Avrai il cibo necessario
evitare il sacrilegio e a preservare la
città dalla contaminazione. Là
preghiera Ade -il
solo Dio che adora - e forse
scamperà alla morte, oppure
finalmente capirà che è vana
impresa vedere i morti” .
Creonte comprende questo culto di
Antigone verso la divinità infernale,
sotterranea. Il coro elogia Eros in
uno
stasimo, Eros è il dio dell'amore che
ha acceso il contrasto tra padre e
figlio ma l'attenzione viene spostata
subito su
Antigone che si avvia a essere
chiusa nella grotta qui inizia il
lamento di Antigone.
Pag. 43-44-45-46-47-48 : Cambia la
versificazione, vi è un lamento
dedicato alle nozze mancate con
Emone che la porta a
rimpiangere la vita, ma prontamente
vi è un cambio di prospettiva che
passa dal matrimonio alla morte. Il
corifeo dà
onore ad Antigone dicendo “Tutta
gloriosa e da tutti lodata ti
incammini verso il regno dei morti“
Antigone si sente
diventare roccia paragonandosi così
a Niope, la figlia di Tantalo, che
viene pietrificata, il coro risponde
che Niope era
divina, discesa dei giganti, invece
ella è umana, mortale quindi, vi è
qui un tono sarcastico e Antigone se
ne accorge,
ella sarà rinchiusa in una terra di
mezzo dove “non sarò con gli
uomini e neppure tra le tombe non
con i vivi e neppure
con i morti”, il corifeo dice che ha
toccato il limite estremo
dell’audacia e che la ha assalito il
trono di Dike ma tutto
ciò è l'espiazione della colpa di suo
padre, Antigone dice che il corifeo
ha toccato un tasto dolente della
memoria, qui
entra Creonte che ordina la
segregazione di Antigone, a cui
segue un proclamo di Creonte che
definisce le sue mani
come pulite, pure, poiché ad
Antigone viene solo proibito di
vedere la luce. Antigone risponde
dicendo che
raggiungerà i suoi cari ma rivendica
ciò che ha fatto, poiché quello che
ha fatto è stato fatto con ragione, il
motivo
sostanziale è da ricercare nelle
parole “Perché se muore il marito
posso averne un altro, e si perde un
figlio posso
averne un altro. Ma poiché mio
padre e mia madre sono nell’Ade
non potrò avere più un altro fratello
ecco perché ho
deciso di onorarti fratello mio “ qui
vi è il principio dell’impossibilità di
sostituzione, lei ha dovuto compiere
l'azione.
Creonte intima le guardie di far
seppellire Antigone. Il coro con il
suo stasimo riprende le storie delle
donne che hanno
voluto andare contro il potere che
sono in parte vittima del fato come
per esempio la storia di Danae.
Pag. 49-50-51-52 :Qui vi è il confronto
tra Tiresia e Creonte, il primo
affronta il secondo, Tiresia è cieco
ed è l'indovino a
cui tutti gli dei chiedono il futuro
egli si annuncia e fin da subito dice
“Sappi [riferito a Creonte] che ti
muovi sul filo
della sorte”. Qui Creonte
rabbrividisce, segue Tiresia
raccontando le storie dei segnali che
gli dei mandano per la loro
sofferenza, racconta di uccelli che si
aggrediscono e dice “la città è
malata, ed è per causa tua “ così
Tiresia
rimprovera Creonte con “tutti gli
uomini possono sbagliare,
paesaggio e fortunato è colui che
nell’errore non
persevera e cerca di rimediare al
male. Mostrarsi irremovibili e da
sciocchi“ quel sbagliare è inteso
come hamartia.
Creonte dice che tutti sono contro di
lui, vi ritorna nell'uso della metafora
il tema dell'arciere, poiché Creonte
dice
testualmente "come arcieri sul
bersaglio", vi ritorna inoltre il
richiamo del denaro in quanto
Creonte dice "mi
comprano e mi vendono". Creonte
minaccia Tiresia, il quale lo
riprende subito dopo dicendo che la
saggezza il più
grande dei beni, ma Creonte
riprende a Tiresia dicendo che la
stoltezza il più grande dei mali,
Tiresia riprende con il
fatto che è proprio di stoltezza che
soffre Creonte, Tiresia viene
accusato di corruzione ma i
risponde “di turpi
guadagni suonavi di tiranni“.
Creonte inizia così a giocare sulle
colpe, dice che Tiresia ama
l’ingiustizia ed è proprio
qui che si usa il termine adikema,
l'ingiustizia volontaria. Tiresia
minaccia di fare la predizione a
Creonte e che questa
non sono comprabile. Nella
predizione Tiresia minaccia sia la
famiglia sia il potere di Creonte, la
profezia turba
Creonte che inizia a cedere al
deinos, la sciagura. Qui Creonte
rinuncia ai suoi piani, andrà a
liberare Antigone,
Creonte seguirà le leggi degli dei
che sono diverse rispetto le norme
orali umane.
Pag. 52-53 : Il coro segue con uno
stasimo dedicato a Bacco, Dioniso,
delineando che il vino fa uscire
dalla ragione,
inoltre viene annunciata la
catastrofe.
Arriva Il Messaggero che racconta
ciò che è accaduto, l'atto finale non
viene rappresentato per via della sua
difficoltà
nella rappresentazione poiché gli
attori con maschere, calzari e
coturni non permettevano le azioni
rapide. i
messaggeri hanno una costruzione
tale basata sull’attesa.
Pag. 54 : Arriva Il Messaggero che
inizia con una lunga battuta e
delineare ciò: “Ora tutto è finito” e
ancora “puoi
accumulare, se vuoi, grandi
ricchezze in casa tua virgola e
vivere nel fasto come un re ; Ma se
non c'è gioia, tutte
queste cose valgono quanto un
ombra di fumo, e non le scambierei
con la felicità”. Il Messaggero
delinea quindi che
la felicità è l'essenziale, Creonte ha
il potere ma non è felice. Da
sottolineare è quel “ombra di fumo”
metafora rimasta
nella novellistica passata dalla
cultura araba. Si trova in una
novella che fa parte del “Novellino”
che parla dello
scambio del prodotto con l'essenza
ovvero di un mendicante con una
fetta di pane che va al mercato e
appoggia al
vento il pane sopra un arrosto, in
modo tale che la fetta si impregni
del fumo dell' arrosto, se il fumo
può trasmettere
un po' di sapore al pane in questo
caso l'ombra di un fumo e zero,
perciò Il Messaggero non
scambierebbe mai la
felicità per il potere nemmeno se è
gratuito ciò ovviamente va contro il
discorso che fa Creonte sul denaro.
il coro si
domanda quale notizia possa
portare il Messaggero ed egli
risponde con “sono morti: i vivi li
hanno uccisi.” Emone è
5
chiudere in una grotta Antigone con
un poco di acqua e un po' di cibo,
per la prima volta Creonte pensa al
confronto
con gli dei infatti dice “la farò
portare in un luogo dove non vi
sono tracce di uomini e la farò
seppellire viva in una
grotta. Avrai il cibo necessario
evitare il sacrilegio e a preservare la
città dalla contaminazione. Là
preghiera Ade -il
solo Dio che adora - e forse
scamperà alla morte, oppure
finalmente capirà che è vana
impresa vedere i morti” .
Creonte comprende questo culto di
Antigone verso la divinità infernale,
sotterranea. Il coro elogia Eros in
uno
stasimo, Eros è il dio dell'amore che
ha acceso il contrasto tra padre e
figlio ma l'attenzione viene spostata
subito su
Antigone che si avvia a essere
chiusa nella grotta qui inizia il
lamento di Antigone.
Pag. 43-44-45-46-47-48 : Cambia la
versificazione, vi è un lamento
dedicato alle nozze mancate con
Emone che la porta a
rimpiangere la vita, ma prontamente
vi è un cambio di prospettiva che
passa dal matrimonio alla morte. Il
corifeo dà
onore ad Antigone dicendo “Tutta
gloriosa e da tutti lodata ti
incammini verso il regno dei morti“
Antigone si sente
diventare roccia paragonandosi così
a Niope, la figlia di Tantalo, che
viene pietrificata, il coro risponde
che Niope era
divina, discesa dei giganti, invece
ella è umana, mortale quindi, vi è
qui un tono sarcastico e Antigone se
ne accorge,
ella sarà rinchiusa in una terra di
mezzo dove “non sarò con gli
uomini e neppure tra le tombe non
con i vivi e neppure
con i morti”, il corifeo dice che ha
toccato il limite estremo
dell’audacia e che la ha assalito il
trono di Dike ma tutto
ciò è l'espiazione della colpa di suo
padre, Antigone dice che il corifeo
ha toccato un tasto dolente della
memoria, qui
entra Creonte che ordina la
segregazione di Antigone, a cui
segue un proclamo di Creonte che
definisce le sue mani
come pulite, pure, poiché ad
Antigone viene solo proibito di
vedere la luce. Antigone risponde
dicendo che
raggiungerà i suoi cari ma rivendica
ciò che ha fatto, poiché quello che
ha fatto è stato fatto con ragione, il
motivo
sostanziale è da ricercare nelle
parole “Perché se muore il marito
posso averne un altro, e si perde un
figlio posso
averne un altro. Ma poiché mio
padre e mia madre sono nell’Ade
non potrò avere più un altro fratello
ecco perché ho
deciso di onorarti fratello mio “ qui
vi è il principio dell’impossibilità di
sostituzione, lei ha dovuto compiere
l'azione.
Creonte intima le guardie di far
seppellire Antigone. Il coro con il
suo stasimo riprende le storie delle
donne che hanno
voluto andare contro il potere che
sono in parte vittima del fato come
per esempio la storia di Danae.
Pag. 49-50-51-52 :Qui vi è il confronto
tra Tiresia e Creonte, il primo
affronta il secondo, Tiresia è cieco
ed è l'indovino a
cui tutti gli dei chiedono il futuro
egli si annuncia e fin da subito dice
“Sappi [riferito a Creonte] che ti
muovi sul filo
della sorte”. Qui Creonte
rabbrividisce, segue Tiresia
raccontando le storie dei segnali che
gli dei mandano per la loro
sofferenza, racconta di uccelli che si
aggrediscono e dice “la città è
malata, ed è per causa tua “ così
Tiresia
rimprovera Creonte con “tutti gli
uomini possono sbagliare,
paesaggio e fortunato è colui che
nell’errore non
persevera e cerca di rimediare al
male. Mostrarsi irremovibili e da
sciocchi“ quel sbagliare è inteso
come hamartia.
Creonte dice che tutti sono contro di
lui, vi ritorna nell'uso della metafora
il tema dell'arciere, poiché Creonte
dice
testualmente "come arcieri sul
bersaglio", vi ritorna inoltre il
richiamo del denaro in quanto
Creonte dice "mi
comprano e mi vendono". Creonte
minaccia Tiresia, il quale lo
riprende subito dopo dicendo che la
saggezza il più
grande dei beni, ma Creonte
riprende a Tiresia dicendo che la
stoltezza il più grande dei mali,
Tiresia riprende con il
fatto che è proprio di stoltezza che
soffre Creonte, Tiresia viene
accusato di corruzione ma i
risponde “di turpi
guadagni suonavi di tiranni“.
Creonte inizia così a giocare sulle
colpe, dice che Tiresia ama
l’ingiustizia ed è proprio
qui che si usa il termine adikema,
l'ingiustizia volontaria. Tiresia
minaccia di fare la predizione a
Creonte e che questa
non sono comprabile. Nella
predizione Tiresia minaccia sia la
famiglia sia il potere di Creonte, la
profezia turba
Creonte che inizia a cedere al
deinos, la sciagura. Qui Creonte
rinuncia ai suoi piani, andrà a
liberare Antigone,
Creonte seguirà le leggi degli dei
che sono diverse rispetto le norme
orali umane.
Pag. 52-53 : Il coro segue con uno
stasimo dedicato a Bacco, Dioniso,
delineando che il vino fa uscire
dalla ragione,
inoltre viene annunciata la
catastrofe.
Arriva Il Messaggero che racconta
ciò che è accaduto, l'atto finale non
viene rappresentato per via della sua
difficoltà
nella rappresentazione poiché gli
attori con maschere, calzari e
coturni non permettevano le azioni
rapide. i
messaggeri hanno una costruzione
tale basata sull’attesa.
Pag. 54 : Arriva Il Messaggero che
inizia con una lunga battuta e
delineare ciò: “Ora tutto è finito” e
ancora “puoi
accumulare, se vuoi, grandi
ricchezze in casa tua virgola e
vivere nel fasto come un re ; Ma se
non c'è gioia, tutte
queste cose valgono quanto un
ombra di fumo, e non le scambierei
con la felicità”. Il Messaggero
delinea quindi che
la felicità è l'essenziale, Creonte ha
il potere ma non è felice. Da
sottolineare è quel “ombra di fumo”
metafora rimasta
nella novellistica passata dalla
cultura araba. Si trova in una
novella che fa parte del “Novellino”
che parla dello
scambio del prodotto con l'essenza
ovvero di un mendicante con una
fetta di pane che va al mercato e
appoggia al
vento il pane sopra un arrosto, in
modo tale che la fetta si impregni
del fumo dell' arrosto, se il fumo
può trasmettere
un po' di sapore al pane in questo
caso l'ombra di un fumo e zero,
perciò Il Messaggero non
scambierebbe mai la
felicità per il potere nemmeno se è
gratuito ciò ovviamente va contro il
discorso che fa Creonte sul denaro.
il coro si
domanda quale notizia possa
portare il Messaggero ed egli
risponde con “sono morti: i vivi li
hanno uccisi.” Emone è
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