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STORIA E TECNICA DEL MELODRAMMA Melodramma nasce a Firenze nel 1600 con

Euridice di Peri (autore) e Rinuccini (compositore) e le caratteristiche principali sono


quelle di essere nata in un’ambiente di corte, quindi legato ad un evento straordinario
come un matrimonio, per cui caratterizzato da uno spettacolo sontuoso e con
pubblicazioni della stampa (memoria). Per Euridice l’evento alla base dell’opera è il
matrimonio tra Maria, regina di Francia e Enrico IV. A Venezia nel 1637 nasce il Teatro
d’Impresa, la forma più diffusa del melodramma. Il modello veneziano è caratterizzato
da un evento commerciale, ripetibili con rischi finanziari alla cui base vi è un evento
effimero, ciò cambia le regole dello schema produttivo. Se l’opera non va bene deve
essere sempre rimpiazzata, “Il Barbiere di Siviglia” opera di Rossini, nasce come opera
tappa buco. Secondo Ottarelli (in un testo del 1652) vi sono tre categorie di opere in
musica:  Commedie fatte nei palazzi dei principi  Euridice di Rinuccini  Opere per i
cittadini aristocratici e intellettuali  Orfeo di Monteverdi  Mercenarie e drammatiche
rappresentazioni musicali  Venezia Teatro delle origini (1600-1637) Il melodramma
delle origini ha numerose caratteristiche:  Le fonti sono attendibili, per via
dell’utilizzo promiscuo della stampa la ricerca delle fonti primarie è fattibile  Non vi è
un luogo preciso dove svolgere le opere e nessun luogo “adatto” alla
rappresentazione, ci si arrangia e il compositore si arrangia ed entra a compromessi
con le scelte. Esempio: Teatro Farnese di Parma che con la sua pianta a U non
permette la perfetta concertazione per via della scarsa qualità acustico, creando
inoltre una problematica spaziale per l’orchestra  L’orchestra è caratterizzata da un
organico piccolo, dove vi è il continuo dominio del Basso Continuo creato a sostegno
della parola tramite l’uso della Chiorma e del Chitarrone.  I soggetti alla base delle
opere sono soggetti mitologici dovuti alla strana origine del melodramma, soggetto
adeguato ad un genere “antirealistico”, Orfeo non è solo mito ma cantore, egli infatti
canta alle fere per entrare all’Inferno.  Finale monolitico diviso in bene o male,
spesso lieto fine ma non rigoroso. L’Orfeo di Monteverdi presenta una doppia
versione: con un lieto fine, che non segue l’andamento della storia, e quello con il
finale tragico. Ciò è pervenuto anche fine a Rossini, L’Otello di Rossini ha due versioni.
 Verosimiglianza, il cantante deve Recitare Cantando avvicinandosi sempre di più
verso la parola, seguendo la Spettacolarità, il quale va verso l’innovazione scientifica e
l’uso delle macchine sceniche  No alla Versificazione Complessa, che facilita l’uso del
Recitare Cantato Euripide (Firenze, Peri – Rinuccini, 1600) Audio 1-2 Playlist Alla base
dell’opera vi è lo sposalizio di Maria, Regina di Francia e Navarra ed Enrico IV.
L’introduzione all’opera è un’excusatio no pentita dove Rinuccini giustifica (la prima)
opera in tre parti: la prima fa partire l’opera dalla derivazione classica greca della
tragedia, dove l’opera veniva cantata; la seconda e la terza scusano il ribaltamento del
finale, da una parte vi è il troppo ardore tragico non adatto al matrimonio e dall’altra
segue le orme di Sofocle, che modifica il finale di Aiace. Non vi è volutamente
nell’opera uno stato emotivo troppo forte. Opera si apre con un breve brano di
introduzione musicale. Il prologo inizia con le parole del “La Tragedia” (figlio della
parola) personaggio che rappresenta l’origine di tutto. Il rapporto parola e musica è a
favore della parola, delineato dal canto sillabico (declamato, dove ogni sillaba
corrisponde una nota) ciò rende più chiaro all’ascoltatore il testo, il canto si avvicina al
parlato ed è perfettamente strofico. La musica fa da cornice tra le strofe e non prende
troppa attenzione. Opera segue il predominio della parola. Orfeo (Mantova,
Monteverdi – Striggio, 1607) Audio 3-4-5 Playlist Destinato alla corte intellettuale.
L’opera non rivede il mito di Orfeo. Vi è un’esasperazione dell’ambiente tragico. Opera
si apre con la “Toccata dell’Orfeo”. Nel prologo, in questo caso, parla la “Musica” come
personaggio, dove delinea in parola che l’opera toccherà sentimenti “ora lieti, or
mesti”, escludendo quindi l’obbligo del lieto fine. A differenza dell’Euridice vi è un uso
maggiore del vocalizzo (totalmente assente in Euridice) inseriti a fine verso e quando
la parola si capisce meno, il vocalizzo depotenzia la parola, lasciando nel prologo e
quindi nell’opera il 1 dominio alla musica, protagonista del discorso. Monteverdi
segue la strada della musica delineando un sostanziale cambiamento che
determinerà il predominio della musica. L'Orfeo modifica gli equilibri fin da subito nel
dramma. Vi è presente un momento solistico “Possente spirto”, questo è il momento
topico ovvero quando Orfeo scende negli Inferi e deve convincere Caronte a farlo
passare. Fin da subito Orfeo usa parole di affetto verso Euridice. Dal punto di vista
formale il testo è tripartito da due sestine ( sei endecasillabi con schema ABABCC) e
una settima, musicalmente ci aspetteremo che Monteverdi seguisse le sillabe invece
articola il modello musicale in traversi in traversi. Il pezzo di componimento si può
dividere in tre parti: 1)Da “Possente spirto a “presume”: l'inizio è un recitativo che
progressivamente raggiunge la via melodica, musicalmente inizia e poi si struttura con
due violini che rispondono in eco. 2)Da “non viv’io” a “seco”: vi è una progressiva
esasperazione nel vocalizzo, dove il numero di note esplode all'inizio della terza
strofa, si presenta il canto acrobatico dove la musica domina sulla parola. I vocalizzi
estremi sono dovuti dal testo e dalla richiesta impossibile che Orfeo chiede a Caronte,
l'uso del vocalizzo ha un effetto quasi ipnotico e l'uso del canto acrobatico è ciò che
dimostra la extra terrenità, permettendo di dimostrare a Caronte che Orfeo è sì un
uomo ma con capacità sovraumane. 3)Da “Orfeo” a “s’impetra“: il primo pezzo è
un’esaltazione di ciò detto in precedenza, vi è però, continuando ad ascoltare l'opera,
un ritorno al canto sillabico dovuto a un ritorno ad essere umano di Orfeo, evitando
così di essere tracotante con Caronte. In termini retorici vi è un percorso strutturato
che passa dal canto sillabico al vocalizzo e ritorno al canto sillabico, dove nel
complesso la scelta tra musica e parola è dettata dal contesto. L'effetto eco generale
ha una spiegazione simbolica derivata al reparto sacro. Monteverdi cambia
orchestrazione in ogni strofa, ciò delinea un pensiero drammaturgico che permette
l'uso della totale orchestra quasi per dimostrare a Caronte che Orfeo possa utilizzare
qualsiasi strumento. L’Orfeo presenta due finali: il finale tragico (Audio 8) del 1607 non
ha lo spartito e si rappresenta con la pantomima; il finale buono (Audio 6-7), dove
Apollo consola Orfeo, è stato presentato per i Gonzaga nel 1609, l'unico con lo
spartito. Il finale dionisiaco è della prima rappresentazione mentre quello apollineo è
per i destinatari e per l'uso dello spazio, più ristretto, per la rappresentazione. Teatro
Impresariale (1637- prima metà del ‘700) Vi è il testo di Benedetto Marcello del 1720 Il
teatro alla moda, o sia metodo sicuro e facile per ben comporre ed eseguire l’Opere
italiane in musica all’uso moderno dove nel capitolo dedicato agli impresari l’autore
allude al risparmio estremo dei nuovi organizzatori su scenografie, orchestre e
librettisti per investire un’importante parte del budget sui cantanti, ovviamente la
qualità acrobatica del cantante era un’importante punto a favore. L’uso del teatro era
stagionale, si assisteva alla prima e alle repliche. Il pubblico non era molto interessato
alla storia, sentiva solo le arie più acrobatiche dei cantanti. Vi era l’uso dei ruoli fissi,
con i cantanti che erano abituati al loro ruolo come la prima donna sempre in lacrime
e l’eroe che non conosce la paura. Il teatro impresariale è un teatro basato sulle
regole del marketplace, è un’epoca dove teatri sono punti di ritrovo e sullo sfondo vi
sono la convivialità e l’ambiente mondano. A livello strutturale il teatro aveva una
illuminazione costante a cui seguivano l'ottica dei ruoli fissi e la predilezione per l'aria.
Con l’attenzione alle voci acute e la polifonia che necessitava l’utilizzo delle voci acute,
non permesse alle donne per un’errata lettura della Prima Lettera ai Corinzi nascono i
primi castrati. Ciò è dovuto all'incontro tra Girolamo Rosini e Papa Clemente VIII anche
se antecedente le prime scelte furono le voci bianche poi successivamente (nel ‘500) i
cantanti spagnoli cosiddetti spagnoletti, ovvero dei falsettisti. Il castrato favorisce l'uso
dei vocalizzi nei testi, per via del fatto che per evirazione i castrati hanno una glottide
molto piccola hanno bisogno di meno aria per cantare, e porta in parte alla
degenerazione del melodramma in un totale asservimento alla mercé del cantante. I
più importanti furono Senesino (Francesco Bernardi) e Farinelli (Carlo Broschi),
entrambi fecero parecchio furore a Londra con Händel e il secondo si mosse alla corte
di Filippo V di Spagna e dovette con Carlo III ritirarsi dalle scene a Bologna, non
potendo nella citta natia (Napoli) per via della dominazione spagnola, incontra alla
fine Mozart nel 1770. In questo teatro il librettista e compositore sono figure
secondarie che devono seguire un iter burocratico che li portano ad essere oggetto
del cantante. La logica del tempo era basata sulla spettacolarità. Prima Riforma del
Melodramma – Apostolo Zeno (1668-1750) Audio 9-10-11 Playlist 2 La composizione
più sfruttata in ambito religioso è la messa. Il genere si cristallizzò in due tipologie: la
messa in stile moderno o napoletano e quella in stile antico o “alla Palestrina”. Il primo
vedeva la successione di arie, duetti e interventi corali in forma chiusa, secondo lo
schema della cantata sacra. La seconda è dominata da una densa polifonia a cappella,
vi era il contrappunto rigoroso e ricorso alla policoralità che avvicinava la messa alla
dimensione spazializzante della tradizione veneziana. Anche la tradizione luterana dà
vita alle messe cantate, il vertice della produzione è costituito dalla essa in Si Minore
di Bach che ha una sua organicità basata sulla centralità dell’elemento corale. Alla fine
del ‘700 la produzione sacra vive una progressiva decadenza. La teatralizzazione del
repertorio sacro avviata da Bach e dallo Stabat Mater di Pergolesi del ’35 rischiava di
compromettere i confini distintivi dei rispettivi generi. Con Jommelli e Galuppi
abbiamo ancora la ripresa della messa in stile napoletano. Haydn si dedicò a scrivere
messe, i quattordici lavori testimoniano un frequente sfruttamento di risorse tratte
dal teatro musicale: la drammatizzazione della scrittura che conquista il corpus
sinfonico compare anche in questa produzione culminato nella scelta di porre un’aria.
Mozart fu molto attivo nel genere soprattutto negli anni di Salisburgo, le messe sono
quindici, solo una nacque nel periodo viennese: la Messa in Do minore, incompiuta e
vittima del decreto imperiale che limitava in Chiesa l’esecuzione di musica sacra con
ampio organico, qui sono evidenti gli studi contrappuntistici e la riscoperta di Bach, il
tutto colpisce per la sua densità polifonica mai esplorata nella produzione
precedente. Il Qui tollis unisce le antiche scritture della passacaglia (composizione in
forma di variazioni costruita su un basso ostinato) e dell’ostinato a una potenza
espressiva che ricorda la riflessione di Bach sull’aldilà. Mozart è più celebre per il
Requiem, incompiuto e scritto negli ultimi mesi del ’91, questa è una pura meditazione
sulla morte basata su numerose prospettive come: il terrore del Dies Irae, la
consolazione dell’Hostias, la disperazione del Confutatis maledictis, l’incertezza del
Domine Jesus e la spinta verso l’alto del Lacyimosa. Intermezzi buffi (prima metà del
‘700) Audio 16-17 Playlist Nato dagli scarti comici del melodramma serio. La prima
opera è “La serva padrona” di Pergolesi, nata a Napoli nel 1733, ma importante è
l’esecuzione a Parigi nella metà del secolo, questa diede l’inizio alla Querelle des
buffons. Il nome deriva dal fatto che questi erano le pause tra atto e atto dell’opera
seria. Dopo l’esecuzione dell’opera del “La serva padrona” si scaturisce il dibattito tra
genere serio e genere buffo, il secondo in principio era un intermezzo (da qui
intermezzo buffo) tra un atto all’altro in un’opera del genere serio a cui segue per
fortuna del genere la strada solista dell’opera buffa. La figura di Pergolesi viene
“miticizzata” nel periodo romantico per via della morte prematura. L’intermezzo buffo
non è un genere di estrazione popolare, infatti ha un’origine altolocata, anche se
segue il suo legame con il dialetto napoletano (dall’intermezzo buffo nasce
contemporaneamente l’opera buffa napoletana, chiamata commedeja pe’ mmuseca),
Alla base dell’intermezzo buffo vi sono i personaggi reali, caratterizzati dalla vivacità e
da uno stile di conversazione molto semplice, a livello interpretativo sono semplici
poiché trattano della quotidianità che caratterizzava la spontaneità . Un aspetto
importante è anche la gestualità implicita nella musica, dovuta alla stimolazione di
un'idea di movimento, ciò è meno evidente nel genere serio per via della staticità delle
aree, questo innesta del movimento all'interno delle arie statiche dell'opera. Infatti, le
arie sono integrate all’azione, vi è così un intreccio tra l'artificiosità dell'aria statica e il
continuo dell'azione. Un esempio è “La serva padrona” in quanto vi sono movimenti in
zig zag che seguono il movimento della parola, la musica si muove con la parola e ciò
delinea la gestualità nella musica. Questa opera è emblematica per definire le
caratteristiche del genere. Nelle arie si incontra una delle differenze con il
melodramma serio: il momento contemplativo di Zeno e Metastasio è statico, mentre
in Pergolesi questo è parte dell’azione drammatica. Da sottolineare è l’importanza
della gestualità che si rispecchia e si rispecchierà nella musica fino a Rossini. La
commedeja pe’ mmuseca nasce a inizio Settecento in ambito colto. La prima
realizzazione è Cilla di Francesco Tullio con le musiche di Michelangelo Faggioli,
questa è una commedia in prosa con innesti di arie e recitatici. Realismo è evidente,
anche con l’uso del dialetto, a cui non viene menola malinconia di fondo tipica
dell’espressività partenopea. Questo tipo di opere fu però decisiva per la maturazione
dei primi concertati, ovvero pezzi d’assieme collocati a fine atto al culmine delle
tensioni drammatiche. Si palesa il realismo surreale che introduce un paradosso
destino a caratterizzare gran parte della produzione buffa successiva: “possibilità di
ricreare la vita in forme del tutto astratte eppure capaci di straordinaria aderenza alla
realtà intesa come rapporto di sfuggenti e volubili forze interiori”. In Francia, dopo il
1750, Rousseau interviene con “Letre sur le musique francaise” che da inizio alla
diatriba tra Jean- Philippe Rameau e Jean Jaques Rousseau, il secondo teorizza la
superiorità italiana rispetto la musica francese per via della caratterizzazione della
melodia presente nella musica italiana, più interpretabile, a cui si derivano tre
caratteristiche fondamentali: la dolcezza della lingua italiana; arditezza delle
modulazioni, che sono più piacevoli e 5 sensibili, l'armonia fa sostegno alla voce;
precisione delle misure, dalla metrica data dal ritmo della lingua molto musicale.
Rousseau arriva a ciò tramite due esperimenti: il primo esperimento è l'esecuzione di
un pezzo italiano a un francese e viceversa aggiungendo nella conclusione che la
musica francese è troppo complessa mentre quella italiana è molto melodica quindi
più ripetibile; il secondo esperimento invece è la prova d'ascolto di un armeno, cioè
non influenzato, di un brano francese di in italiano, Rousseau arriva alla conclusione
che l'armeno ovvero l'ascoltatore non influenzato dimostra più appagamento con la
musica italiana. Rousseau inoltre denota che in Francia vi sia un abuso della polifonia,
carattere molto artificioso. Bisogna porre attenzione ai concertati, dove si presentano
più voci che congiungono in un senso comune, queste non sono molto usate
nell’opera seria, si trovano di più nelle opere buffe. Nelle parti statiche, formalmente
statiche, vi è con i concertati una maggior azione, questi infatti vengono definiti
concertati d'azione, creando una sorta di paradosso ovvero quel “realismo surreale”
che caratterizza la produzione buffa successiva. Nonostante il caos dovuto alle voci
che confluiscono si presenta sempre una scena chiara , sappiamo cosa accade e
l'azione risulta perfettamente comprensibile, un esempio lo si può ritrovare nel “Lo
frate ‘nnammurato” dove vi è un contrasto, una faccenda di corna, e un problema
fisico tutto contemporaneamente. Anche se non si capiscono le parole, ovvero il
messaggio verbale avviene in modo incompleto capiamo cosa avviene, si avanza
nell’azione anche se fondamentalmente è un'aria, un posto di chiusura, dove le parole
non si capiscono ma c'è chiarezza a livello musicale. Tutto ciò si diffonde in tutta
Europa per via della quotidianità che trasmette, si diffonde maggiormente nella
seconda metà del ‘700 e piano piano si affermerà con sempre di più elemento
artistico. Contemporaneamente a Gluck* avanza il genere dell'opera buffa che a Parigi
continua e passa attraverso a Niccolò Piccinni che rappresenta a Roma “La buona
figliola” nel 1760 a cui dà dei tocchi particolari all'opera buffa, gettando le fondamenta
del dramma giocoso napoletano, trasformandola soprattutto in Francia,
successivamente, in quella che diventerà la commèdie larmoyante ovvero commedia
lacrimosa. Ciò è evidenziato dal personaggio di Cecchina che piange continuamente e
lamenta la sua infelicità in ogni occasione. Le innovazioni che si impongono sono:
lineamenti tragici in personaggi comici, vi è nel personaggio di Cecchina una
caratterizzazione tragicomica, dove ella ha tratti ingenui e infantili; procedimenti
sonatistici, la scrittura musica si arricchisce di procedimenti derivati dallo sviluppo
sonatistico che rielaborano il materiale rendendolo più squisito, ciò è molto distante
da Gluck; nuovo tipo di aria A-B-A’-B’ ovvero l'aria doppio col da capo, evitando così la
composizione tripartitica A-B-A’; continua trapasso di stati emotivi con concertato, vi è
una situazione di realismo surreale che qui prende una fisionomia particolare con una
ricerca precisa. Il finale del primo atto ci presenta una Cecchina con un tono
melodrammatico, quello che accade è una situazione di equivoci tra l'invidiosa
Sandrina e i due uomini innamorati di Cecchina ovvero il Marchese e Menegotto. Il
discorso finirà con l'esclusione di Cecchina da parte dei due spasimanti, vi è la
continuità di molteplici stati emotivi, cosa molto difficile da attuare nell’opera seria, vi
è passaggio tra un'emozione all'altra e una giusta posizione che riflette il personaggio.
Il percorso dei due: Gluck e Piccinni si incontra a Parigi nel ’78. Successivamente con
Passariello, Cimarosa e Mozart si creerà una polifonia emotiva per cui un personaggio
ha un solo stato emotivo ma che può entrare in sintonia con molteplici personaggi.
Ricezione dell’opera italiana all’Estero Situazione Inglese Audio 18-19-20-21-22-23-24-
25-26-27-28-29 Playlist In Regno Unito vi è una netta diffusione dell'opera italiana
serie, importata dal tedesco Händel, contemporaneo di Bach e con un ampio vissuto
in Italia caratterizzato da un eccelso studio sulle opere di Alessandro Scarlatti. Quando
nel 1710 si trasferisce a Londra, il Regno Unito aveva bisogno di una musica
celebrativa dello Stato inglese. Händel scrive una musica perfettamente
rappresentativa strumentale, l'opera diventa rapidamente la riflessione della
monarchia inglese e Händel con il suo “Rinaldo” del 1711 lo dimostra anche con il
contributo del castrato Nicolini. L'opera è caratterizzata dall’uso della suddivisione in
arie e recitativi, con arie virtuose cantate dai castrati. Ma vi si apportano varie
innovazioni nell’opera: una maggiore ricerca orchestrale, qui ha un ruolo di primo
piano dove anche qui i fiati ricevono un ruolo di prima importanza; vi sono cori e
ballabili, inseriti molto spesso per seguire l'intento celebrativo, con la sintesi del
modello francese che qui non ha importanza quasi assoluta; spazializzazione sonora,
dove vi è in alcuni casi la divisione dell’orchestra in due andando a creare una distanza
extradiegetica dell’orchestra, vi si crea il bisogno di colpire lo spettatore con effetti;
architettura sintetica dell'aria, dove viene ripresa la vecchia aria col da capo A-B-A’ ma
ci sono casi nuovi e l'uso dell' arioso, soprattutto ad inizio atto, un tipo di aria più
fluida in divenire che si mescola con la recitativo, alcune volte scivola nel recitativo,
non vi è presente però una totale asserzione al virtuosismo come in Italia. Händel
scrive con una facilità e semplicità impressionante che lo 6 caratterizzano, tutto è
molto semplice quasi elementare eppure conferisce un’espressività incredibile,
semplice ed espressivo. Il successo delle opere di Händel spinse alcuni intellettuali a
promuovere una reazione al dominio handeliano. Così in contrapposizione all'opera
italiana e di Händel nasce con meno diffusione la Begger’s Opera, presentata a Londra
nel 1728, caratterizzata prevalentemente dal recitato con l’inserto di 69 melodie
popolari, la musica era diegetica e sicuramente secondaria. Situazione Tedesca –
Austriaca Audio 30-31-32-33-34-35-36-37-38-39-40-41-42 Playlist Hasse promosse la
diffusione dell’opera italiana con 57 melodrammi basati sui teti di Metastasio. Ciò
spinse l’Opera di Amburgo alla reazione e alla nascita del genere che poi si delineò nel
Singspiel, ovvero la “recita cantata”. questo genere è simile alla Begger’s Opera, per via
dei suoi recitativi recitati, con i due capolavori mozartiani: il ratto dal serraglio e il
flauto magico il Singspiel assurge a modello di opera nazionale tedesca per
antonomasia grazie al contributo futuro di Mozart con il Flauto Magico. *A Vienna si
era già sviluppata la prima riforma del melodramma, infatti sia Zeno che Metastasio
sono poeti cesarei ovvero librettisti di corte che avanzavano anche relazione
estetiche. Qui avviene la seconda riforma (1760-1770) con due italiani : Giacomo
Durazzo e Ranieri De Calzabigi, i quali insieme a Cristopher Williband Gluck, inserito
nell’ambiente austriaco grazie alle composizioni su libretti italiani e come ideatore
degli agili operà-comiques, formalizzano la seconda riforma del melodramma,
specialmente in due opere: “Orfeo ed Euridice” del 1762 e “Alceste” del 1767 entrambi
musicati da Gluck con testo di Cantabigi. Nella prefazione di Alceste si palesa il
programma della seconda riforma che consiste in: continuità dell'azione, con una
massima linearità del dramma dove la musica deve servire la poesia, tornando all'idea
dell'Euridice di Peri, senza interrompere l'azione evitando così il alternanza aria-
recitativo, il tutto regala ampiezza alle scene dove vengono arredate voci e interventi
lineari, continui ma con una progressiva fluidità; bella semplicità, ovvero evitare
l'abuso che si declama nel melodramma italiano, no virtuosismi e no artificialità tipica
del melodramma italiano, quello che vuole fare Gluck è ripulire l'eccesso, vi è ancora
un identità di genere non ben definita, solo nella versione francese la versione di
Orfeo è uomo; ricerca dell'orchestrazione, strutturata poco dagli italiani, vi e nell'area
tedesca una ricerca sull’orchestra dove questa è commisurata alla passione motiva, vi
è però anche una ricerca di aspetti scenografici nell’orchestra che diventa atmosfera
dove si sviluppa una scenografia sonora; linguaggio del cuore, bisogna stimolare
sentimenti violenti nello spettatore in modo che si sviluppa il linguaggio del cuore,
esasperazione dei sentimenti. Questo aspetto è sia un punto forte sia un punto
debole della riforma di Gluck, poiché nel tentativo di esprimere le passioni in maniera
vigorosa spesso definisce profili statuari e contrapposizioni manichee. Una prova è
data dalla prima scena del secondo atto ovvero il momento dove Orfeo deve
convincere le furie farlo passare (stesso momento di Monteverdi). Qui vi è una
concatenazione di eventi diversi, la prima cosa che si vede la danza delle furie che
recupera un po’ il senso tedesco dello Sturm und Drang, segue il coro interrompe poi
la danza delle furie poi ancora il coro a cui segue infine l'attacco di Orfeo, che
presenta una netta composizione timbrica dove le furie avevano più un aspetto
macabro, dionisiaco invece Orfeo è accompagnato con l'arpa e ha un aspetto più
apollineo, con un coro che passa da essere rabbioso ad essere addolcito, alla fine il
coro fa passare Orfeo e il tutto si chiude ancora con la danza delle furie. Tra gli
elementi vi è una grande coerenza. vi sono dinamici contrasti tra forte e piano nelle
furie invece gli interventi di Orfeo sono molto solari. Si presenta di più la caratteristica
della repentinità presente nello Sturm und Drang tanto che Gluck per la versione
francese attua una maggiore gradualità tra le emozioni, qui è presente l’addolcimento
repentino delle furie che passa da un no netto ad un addolcirsi quasi immediato.
Gluck resosi conto della poca sfumatura psicologica ed emotiva la amplifica nell’ultime
opere scritte a Parigi Iphigénie en Aulide del ’74 e nelle due versioni francesi delle
opere sopracitate: Alceste e Orfeo ed Euridice, queste però risentono del gusto
francese per via di un incremento della componente danzata e per una maggiore
attenzione naturalistica. La vera eredità della ricostruzione gluckiana fu raccolta da
altri due italiani attivi in Europa: Antonio Sacchini che seguì il modello del
compiacimento del gusto della borghesia parigina con un’efficace mediazione tra
razionalismo e culto dell’antichità; Antonio Salieri dove con la sua Les Danaides del ’84
presentò una chiara intenzione di prolungare i principi drammaturgici fissati da Gluck
e Calzabigi. Diverso fu il caso di Jommelli e Treatta, entrambi formati al Conservatorio
di Napoli. Il primo lavorò principalmente su libretti di Metastasio cercando di
accentuare la componente spettacolare della drammaturgia, il suo contributo si
risolve con la dinamizzazione del pezzo chiuso, prendendo in prestito una risorsa
dell’intermezzo buffo. Il secondo risentì dell’influenza francese proponendosi
interprete dell’unione tra la spontaneità della tragèdie lyrique e la cantabilità del
teatro italiano. Napoli caput mundi: il dramma giocoso 7 seguono le settime diminuite
(accordi dell’Infermo di Rameau) e i contrasti piano-forte che non danno stabilità, che
finiscono con le scale che danno un senso di instabilità. Mozart dà un peso potente
agli aspetti sovrannaturali. La seconda parte invece è un allegro di sonata che non
anticipa temi che verranno successivamente ripresi dopo, ma delinea i caratteri più
terreni e più vicini a Don Giovanni, espressi con il tremolo dei violini il senso di
movimento quasi irrequieto che richiama la instabilità e il suo essere sempre in fuga,
sempre in movimento, è fermo solo nella scena del cimitero. Vi è un contrasto di
registi durante lo sviluppo di un terzo tema che prevede un forte e un leggero dei
violini, carattere del tema ambiguo, come espressione del dialogo, collegamento tra il
Commendatore e il Don Giovanni. Quello che si delinea è una vicenda imprevedibile.
Prima parte richiama al Commendatore mentre la seconda è un richiamo a Don
Giovanni (ciò è una visione dell’opera però troppo in là rispetto alla musica). Mila:
Mozart fa numerose sinfonie in tre tempi, queste di stile teatrale sono col taglio
tripartitico di Ouverture. Solo dopo Il ratto del serraglio essa comincia a essere
costruita col materiale tematico dell’opera stessa. Anche l’ouverture del Don Giovanni
rispecchia, gluckianamente, il contenuto dell’opera; e anche l’ouverture del Don
Giovanni evade dal consueto taglio della sinfonia all’italiana, di un Allegro, un Adagio e
un Allegro. L’ouverture del Don Giovanni è in due movimenti, un Andante e un Molto
allegro, in re minore il primo, in re maggiore il secondo. Abert non vede nei due tempi:
Andante e Molto allegro il legame convenzionale di una “introduzione lenta” a un
tempo Allegro. L’Andante non è subordinato Egli vede questa ouverture come «un
pezzo di musica autonomo» ma non già nel senso che se ne vada per conto suo senza
relazione con l’opera che segue; bensì «con lo scopo d’introdurre l’ascoltatore nella
sfera di sentimenti del dramma, non però nel corso dell’azione stessa». L’ouverture
insomma è un ritratto e una sintesi dell’opera. Abert ammonisce a voler vedere nel
Molto Allegro un ritratto di Don Giovanni e nell’Andante l’immagine del
Commendatore. Andante in re minore è gravato su angoscia della morte, mentre
Molto Allegro in re maggiore si configura come il corso lieto della vita. Due grandi
accordi iniziali sono scanditi da tutta l’orchestra. Abert richiama l’attenzione sulla
formidabile energia nascosta nelle due pause di tre quarti che seguono ogni accordo.
Come se nel vuoto l’orecchio facesse risuonare le note. Segue a ciò un piano sussurro
con un tempo lungo seguito da uno corto che col ritmo lento di trocheo sembra
imporre il movimento di un passo. Si conduce all’undicesima battura il lamento, una
piccola frase sincopata dei violini di sole quattro battute. Questo gemito, nota il Jouve,
«è quello che più tardi risponderà immediatamente, nell’anima di Don Giovanni,
all’appello della Statua». Nessuno di questi motivi, nota l’Abert, è svolto largamente: le
immagini del terrore e del lutto trascorrono una dopo l’altra, ma non slegate, poiché a
ogni colpo succede tosto il suo contraccolpo. Dopo i due potenti accordi
d’introduzione «il mondo dell’al di là comincia piano a elevare la sua voce». Abert
accosta all’Ouverture il clima gluckiano della Alceste. Per l’Abert «la voce dell’al di là
sembra parlare sempre più spaventosa, e ogni volta segue l’eco tremebonda
dall’anima della creatura angosciata». Finisce così una prima parte dell’Introduzione,
dove la sincope ritmica è stata l’elemento determinante per generare la sensazione di
angoscia paurosa, di minaccia e d’attesa di qualcosa di terribile. Due battute
discendenti di transizione ed ecco che la minaccia, per così dire, si avvera, la temuta e
fatale apparizione si manifesta in tutta la sua terribilità: sono le celeberrime scale
ascendenti e discendenti dei violini primi e dei flauti. Queste scale «che si gonfiano e
bruscamente s’afflosciano», che salgono per semitoni o toni interi sulle armonie
cangianti dei fiati, sono, per il Jouve, «scale della disperazione: esse formeranno
l’armatura del Commendatore nella sua missione punitiva e annunciano lo inferno
vicino». Queste scale, dice l’Abert, «fanno sentire quasi fisicamente all’ascoltatore tutti
i brividi dell’Eterno». Quattro battute, due forte e due piano, sono concesse
all’ascoltatore per lasciarsi risuonare dentro di sé, come dice l’Abert, «la terribile
esperienza». Tutte quattro fondate sul solito solenne trocheo dei bassi e, all’acuto, sul
motivo di lunghi bicordi dei legni, a due a due. In mezzo, un tremolo drammatico di
violini e viole, il solito rullo dei timpani e un accento dei corni assai in evidenza.
Quindi, ecco scattare il Molto allegro in re maggiore, con una subitanea schiarita.
Jouve scrive che Don Giovanni qui peccatore senza peccato è partito per la corsa.
Movimento è un allegro di sonata, nella consueta forma A-B-A’. Il primo tema in re
maggiore è dove Abert raccomanda di non cedere ai romantici che vogliono vedere
Don Giovanni qui, anche se le interpretazioni romantiche hanno senso dimostrando
come una strisciante salita romantica rappresenti la sensualità demoniaca, subito
dopo una dissonanza col re diesis che delinea l’arroganza di Don Giovanni, segue
infine una fanfara conclusiva con due battute di ritmo anapestico (due sillabe previ)
con una sonorità da Serenata che rappresenterebbe la natura cavalleresca dell’eroe.
Tema viene ripetuto e alla fine della fanfara cavalleresca, la frase si apre si ingrossa
con la partecipazione degli archi. Appare il secondo tema in la maggiore, tema
trascorre leggero e volubile con una specie di aerea scioltezza ritmica dove rispondo
frammenti pastorali di oboi e clarinetti, per alcuni, richiamo all’avventura con Zerlina.
Il terzo tema inizia con il martellamento pesante di archi e legni una frase
discendente. Si crea contrasto tra la frase discendente e il motivetto beffardo dei violi,
si scorge qui il botta e risposta della Statua e di Don Giovanni. Anche l’Abert, che ce lo
vuol proibire, perché scorge nei due membri di frase piuttosto la manifestazione di
due aspetti distinti d’una medesima 10 forza, cioè la ribollente e vigorosa energia
vitale. Segue una ingiunzione del gesto sonoro discendente a note che si staccano
pesantemente. Subentra un gioco di imitazioni a canone del gesto discendente prima
tra archi e legni poi tra oboi e flauti, come se formassero una tela di ragno, Violini
avviano la conclusione con ostinazione ritmica e prolungata. Si ripete sei volte quel
botta e risposta finche i violini scendono alla ripresa. Atto primo: Scena prima: Scena
si apre di notte con il giardino (siamo a Siviglia) da un lato c’è il palazzo del
Commendatore dove ai piedi si situano delle panche di pietra. In scena sono presenti:
Leporello, poi Don Anna e Don Giovanni, indi il Commendatore. [N.1 – Introduzione,
Molto Allegro con Archi, 2 Flauti, 2 Oboi, 2 Fagotti e 2 Corni in Fa. Andante in fa
maggiore, 4/4 e 4/4 alla breve] si presenta Leporello, il servitore di Don Giovanni, egli
introduce sé stesso mettendo in rilievo il suo status di sottoposto, faticando notte e
giorno mentre il padrone se la spassa con le donzelle. “Oh che caro gentiluomo!” è
ironico, l’aria è rapida, egli fa il palo mentre Don Giovanni se la spassa con Don Anna.
“Ma mi par che venga gente… / non mi voglio far sentir.” poi si nasconde. Tutto è
rapido non ci accorgiamo che questa è un’aria tripartitica. Interessante è l’aria che
racconta tanto di Leporello, in musica si presenta con una fisionomia un po’ marziale,
quasi gestuale segnate con le triad (scalette ascendenti) che vanno verso l’alto, si
presenta come il soldatino / burattino di Don Giovanni, costretto a vivere delle
avventure che non vorrebbe vivere. Vi sono piccoli segnali del suo atteggiamento di
scherno, presenti nella frase “Oh che caro gentiluomo!” dove l’aria perde i tratti
marziali e diventa un po’ più melodica che rende il verso del suo padrone, come
un’imitazione per scherno. Nel corso dell’aria si sente la parola “No” non indica nel
testo, sottolineato nella musica di Mozart per dimostrare una sorta di rifiuto che
Leporello ha nei confronti di Don Giovanni, denotato dall’atteggiamento rivoluzionario
di Leporello nella classe meno abbietta. Mila denota il malfunzionamento di
quest’ultimo passaggio, Mozart non insiste sulle tensioni della società
contemporanea, non è presente il moto rivoluzionario nel Le Nozze di Figaro
figuriamoci in un’opera meno “politicizzata” inoltre, segue l’atteggiamento simbiotico
dei due personaggi: Leporello e Don Giovanni, che si dichiarano come complementari,
possono esistere solo in funzione dell’altro. Il motivo di quei “No” è quella che denota
Mila dell’impotenza, ovvero l’idea che Leporello vorrebbe essere come Don Giovanni
ma non può essere come lui, perché gli mancano gli strumenti, quei “No” sono
frustrazione verso il suo non essere come il padrone. L’aria scivola via rapidamente
con le caratteristiche del basso buffo (Leporello è un basso). Leporello canta poco in
canti declamati e ribattuti rapidi. Leporello ripete sul finire dell’aria “non mi voglio far
sentir” la nota Fa per trentadue volte. Sono note che si ripetono ed è il carattere dei
personaggi buffi. In pochissime battute l’opera da buffa diventa seria, con il ritmo più
rapido, ed entrano i due personaggi che ci fanno entrare nella tragedia. Entriamo con
la tranche de vie nella conclusione dell’azione che si svolgeva fuori scena (non
vediamo la scena), mentre Leporello si presentava. Donna Anna tira per il braccio Don
Giovanni e cerca di nascondersi, questi escono dalla casa del Commendatore. Donna
Anna è una signora nobile, figlia del Commendatore, Don Giovanni è un nobile che si
è introdotto nella casa del Commendatore raggiungendo la camera di Donna Anna
dove accade l’azione che ci portiamo dietro tutta l’opera. Non sappiamo cosa sia
accaduto realmente quando Don Giovanni sia entrato nella casa, Donna Anna è una
donna fidanzata con Don Ottavio, lei non ha riconosciuto nel buio della notte che
l’amante infiltrato in casa non è Don Ottavio ma Don Giovanni, ciò è plausibile
successivamente. Vi sono due opzioni: il travestimento minuzioso di Don Giovanni in
Don Ottavio, complice anche la notte o il buio era perfetto; (interpretazione di Mila)
Don Anna si era accorta che nel letto non c’era Don Ottavio ma Don Giovanni e alla
fine per il senso di colpa ha tirato su il finimondo, Mila definisce ciò con alcuni
segmenti musicali che si possono interpretare in questa maniera. Quando però
questa situazione potrebbe essere chiarita Donna Anna entra in casa
(successivamente) delineando un atteggiamento ambiguo successivo, con anche lo
stazionamento di Don Giovanni lì. Attacca Donna Anna con “Non sperar, se non
m’uccidi, / ch’io ti lasci fuggir mai.” irata, giustamente, nei confronti di Don Giovanni
che si cela a Donna Anna. La scena è a tre: Donna Anna e Don Giovanni in primo
piano e in disparte Leporello. Donna Anna chiede aiuto, Don Giovanni la minaccia e
partono “invocazioni” ambo le parti. Comincia il terzetto dove cantano insieme in un
momento di concertato, uno fugge (Don Giovanni) l’altro perseguita (Donna Anna) e
Leporello “Sta’ a veder che il libertino / mi farà precipitar” alla fine del terzetto hanno
tutti la desinenza comune in -itar, infatti Don Giovanni e Leporello pronunciano la
parola “precipitar” mentre Donna Anna dice “perseguitar”. Questo è subito un terzetto
d’azione, un concertato d’azione dove non c’è staticità, vi è sovrapposizione di voci che
cantano senza sentire. Mozart crea subito la stratificazione di caratteri differenti, qui
delineata da Leporello con note ripetute in canto sillabico e con un registro più
terreno, mentre i due litigano con un registro serio e un canto più melodico, come se
opere serie e opera buffa si sovrapponessero nello stesso terzetto e tutto è unito con
la musica. Entra il Commendatore, in musica si delinea con i tremoli che recupera quel
tono di marcia funebre ripreso nella introduzione che recupera quel tema
soprannaturale e mortale. Il Commendatore ha una sonorità timbrica, anche se
ancora in vita, molto dichiaratamente mortifera, la presenza degli ottoni gli dona
questo modo più mortale di cantare. Egli si scaglia contro 11 Don Giovanni e Donna
Anna, sentendo il padre, lascia Don Giovanni ed entra in casa. Questa è un’azione che
non ha un motivo, perché scompare nel momento utile per spiegare. Il
Commendatore attacca con “Battiti Meco” rivolto a Don Giovanni che risponde con
“Va’: non mi degno / di pugnar teco.” non volendo combattere contro un “vecchietto”,
qui il Commendatore si irrita maggiormente ma c’è sempre il commento di Leporello,
in disparte. Prima che Don Giovanni dica “Misero! Attendi, / se vuoi morir” vi è una
lunghissima pausa di una battuta, che regala un momento di silenzio e suspance
gigantesco che mette in evidenza un evento che è decisivo per il proseguo. I due
combattono, in sottofondo segue una pantomima con Don Giovanni che ferisce
mortalmente il Commendatore, qui è espressione musicale la settima diminuita che
porta il contrassegno della morte del Commendatore. Il tempo diventa Andante,
strano in questo caso perché non è un tempo adatto per una morte, non c’è un
culmine drammatico che Mozart rifiuta con un tempo più lento che rilassa. La
orchestra fa degli arpeggi (che avranno una ripresa in modo celebre in Beethoven con
la Sonata al chiaro di Luna – Sonata per pianoforte n.14) molto sgranati e distesi in cui
si incastra il canto del terzetto tra Commendatore, Don Giovanni e Leporello che rivela
una difficoltà nella gestione per la mancanza della voce femminile. Mozart deve
gestire un terzetto tra due voci basse (Commendatore e Leporello) e un baritono (Don
Giovanni). Il Commendatore ferito si sente morire, Don Giovanni vede che è ferito
mortalmente, Leporello indica il misfatto e l’eccesso, in sé lo sviluppo testuale è simile
in tutti e tre i casi con le due frasi simili cantate da Don Giovanni e il Commendatore
“già dal seno palpitante veggo (Don Giovanni) / sento (Commendatore) l’anima partir”
con Leporello che conclude il suo pezzo in “dir”. Quando Don Giovanni dice “Ah! già
cadde il sciagurato” lo dice con la stessa melodia che Donna Anna ha utilizzato in
corrispondenza della battuta “Come furia disperata” del terzetto precedente, come
una sorta di proseguo tra il Commendatore e Donna Anna. Leporello in un momento
di riflessione della morte consolatoria perde i suoi tratti buffi rendendo tutto con un
canto serio. Il Commendatore muore e si chiude la prima scena. Mila: Don Giovanni
ha un’introduzione eccezionale, siamo di fronte fin da subito in un punto culminante
più simile alla fine di una vicenda che al suo inizio. L’introduzione del Don Giovanni
consta di quattro episodi: 1) assolo di Leporello, che passeggia davanti la casa di
Donna Anna, ravvolto nel suo ferrajuolo, facendo la guardia in attesa del padrone
(batt. 1-70); 2) sortita di Donna Anna e Don Giovanni, quella «tenendo forte» questo
pel braccio (batt. 71- 134); 3) sortita del Commendatore, sentendo il quale Donna
Anna rientra in casa; sfida e duello tra Don Giovanni e il Commendatore; 4) morte del
Commendatore. Inizio tragico e allucinante, incredibile per un’opera comica, con
questa scena di duello notturno in strada e morte di un personaggio. Merito spetta a
Giovanni Bertati. La medesima situazione è proposta all’inizio dell’opera di Gazzaniga,
con le stesse circostanze e su per giù la stessa partizione di episodi. La prima sezione
dell’introduzione è dunque un a solo di Leporello (basso comico), che si lagna del
proprio destino di servitore, costretto a fare la sentinella in strada al freddo, mentre il
padrone se la spassa con la bella su nel palazzo. Il pezzo è una breve forma ternaria, A
- B - A, preceduta da un preludietto orchestrale, raccolto dalla voce. Quindi, in
sostanza: Preludio orchestrale. Preludio vocale sullo stesso tema. A - B - A. Ritmo è
cadenzato, quasi di marcia: si pensi che Leporello va su e giù per la scena,
infreddolito. Gli intervalli larghi (di quarta, di quinta e di terza), il brusco stacco di una
pausa tra una nota e l’altra, sottolineano il malumore del personaggio. Una lunga
pausa separa questa protasi rude, a larghi intervalli, di carattere scontroso, dal primo
distico «Voglio fare il gentiluomo, e non voglio più servir», che costituisce la sezione A
della forma tripartita. Succede qui un’idea melodica più fluida. La melodia è
raddoppiata dai corni e dai violini primi, con alcuni trilli e svolazzi. Nei quali molti
commentatori s’accordano per vedere una specie di parafrasi strumentale dell’ideale
cavalleresco che Leporello vagheggia per sé nella figura del suo padrone. La chiusa
della frase riconduce i grandi intervalli scontrosi, quasi come se Leporello si
dimenasse e scuotesse il capo facendo le bizze per proclamare: «No, no, non voglio
più servir». La ripetizione dei «no» sulle note dell’accordo perfetto di fa maggiore
porta al culmine le smanie bizzose del personaggio. Un’elegante figura dei violini fa da
cesura strumentale tra il settore A e il settore B. Piccola variante melodica del
precedente, sulle parole ironiche: «Oh che caro gentiluomo! Vuol star dentro con la
bella, E io far la sentinella!». Quest’ultima parola è ripetuta tre volte (le ripetizioni
sottolineano l’aspetto ottuso del carattere di Leporello). Dopo una pausa con punto
coronato ha luogo la ripresa della sezione A, dove nelle parole “Non voglio più servir”
la comicità buffonesca di un particolare strumentale: la voce di Leporello è scesa al
registro più grave. Il trapasso all’episodio seguente operato da una transizione sulle
parole «Ma mi par che venga gente, Non mi voglio far sentir», che Leporello canta
sopra un’unica nota (la tonica, fa), ripetuta 31 volte, salvo riprendere i soliti
arpeggiamenti vocali sull’accordo perfetto di fa maggiore, per la ripetizione ostinata
dei suoi «no, no, no, no». Leporello è dunque il primo personaggio dell’opera con cui
facciamo conoscenza; secondo una tattica, frequente nel melodramma, di mandare
avanti per primo qualche personaggio minore. Gli otto interpreti hanno tutti una
qualità, sono importanti per la storia e quindi necessitano di grandi interpreti.
Leporello non si può certo relegare fra gli ultimi, soprattutto per ampiezza della parte,
quantità ed estensione di interventi. Lungo tutta l’opera Leporello dipana il filo rosso
della comicità, ciò permette a Dent di 12 Giovanni concede all’avversario. Tutto questo
breve episodio del duello presenta un contenuto melodico modestissimo: le brevi
frasi di cinque note si aggirano per lo più tra i gradi fondamentali dell’armonia di re
minore, mettendola bene in risalto, e senza permettersi svolazzi melodici. Sul primo
verso, «Potessi almeno», Leporello introduce un disegno di tre note dell’accordo
perfetto maggiore, che verrà subito raccolto da Don Giovanni, in minore. La melodia
di Don Giovanni è severa, ferma, implacabile, quella di Leporello ha l’aria di
contorcersi tutta, come il personaggio che vorrebbe andarsene. Otto battute
d’orchestra dura il breve e disuguale duello: sono rapide scale ascendenti dei violini
primi e dei violoncelli coi contrabbassi, seguite da balzi di ottava, mentre tutti gli altri
strumenti, a fiato e a corda, tengono lunghe e fredde armonie. Forse il modello di
questo «stile concitato» è da ricondurre a Gluck, secondo atto di Orfeo ed Euridice, e
anche al balletto Don Juan. Commendatore cade, «mortalmente ferito», sopra un
accordo di settima diminuita, tenuto da tutta l’orchestra, e prolungato con un punto
coronato, accordo uguale a quello su cui egli risorgerà, come statua, nel finale. Su
questa singolare, e probabilmente voluta coincidenza si fonda Luigi Dallapiccola per
avanzare una sottile teoria sull’architettura dell’opera, la quale sarebbe interamente
compresa tra i pilastri dei due accordi di settima diminuita, e si configura
praticamente come la contrapposizione, il duello prolungato, dei due princìpi nemici: il
Commendatore e Don Giovanni. l’Abert aveva già rilevato quanto fosse «non solo ben
studiato dal punto di vista della tecnica drammatica, ma di convincente simbolismo,
che al principio e alla fine dell’opera Don Giovanni si trovi contrapposto al
Commendatore». Anche il Commendatore, rileva il Singer «funziona nell’opera come
la mera risposta negativa all’esigenza di libertà di Don Giovanni. Significa tutto ciò che
nella società limita la libertà sessuale». Ma l’Abert non accetta che nel Commendatore
e in Don Giovanni siano da vedere il principio del Bene e del Male, il positivo e il
negativo. «Nel Finale secondo non si combatte una lotta tra il Bene e il Male, ma tra
due alte realtà, delle quali la più debole alla fine soggiace. Per Dallapiccola, invece,
non solo si tratta del Bene e del Male, ma non c’è alcun dubbio che, Don Giovanni
rappresentando il Male, il Commendatore sia il protagonista positivo dell’opera,
com’egli cerca di dimostrare appunto con l’architettura generale del dramma, tutto
compreso fra i due incontri mortali di Don Giovanni e il Commendatore. Per l’ultima
sezione dell’introduzione, tutto cambia: il tono, che diventa fa minore, e il tempo,
«Andante». Resta immutato soltanto l’organico con i tre bassi, Don Giovanni, Leporello
e il Commendatore. Mozart ci immerge di colpo nella pace eterna. «Poche battute
sono bastate a Mozart per schiuderci la porta sull’al di là.» Davvero questa breve
pagina si può definire una meditazione sulla morte, giusto ricollegarla ai pensieri gravi
che avevano abitato la mente del compositore nei mesi precedenti questo lavoro, per
la morte, prevista, del padre. La morte come «chiave della nostra vera beatitudine»,
tale il senso dell’Andante conclusivo dell’introduzione nel Don Giovanni: forse non
esiste altro caso così palese ed evidente di illustrazione verbale d’un pezzo di musica
da parte dell’autore. Contemplazione della morte e quasi tentativo di scrutarne il
mistero, questa lenta e augusta pagina musicale. Don Giovanni guarda quasi
ipnotizzato l’avversario caduto: «Affannosa e agonizzante Già dal seno palpitante
Veggo l’anima partir». E il Commendatore «sente» l’anima partir. Mai forse s’è dato un
caso, in qualsiasi arte, dove il mistero fisico, meccanico, della morte, la separazione
dell’anima dal corpo, venisse scrutato così da vicino. In quest’ultima sezione
dell’introduzione le tre voci maschili si ravvolgono in un insieme densamente
polifonico, ma, a differenza di quanto accadeva nelle due sezioni precedenti, non
troviamo più due voci agganciate insieme in un gioco stretto di imitazione a canone,
perché infatti, ormai, non v’è più litigio tra due dei partecipanti, e ognuno canta per
conto suo. Solo nella contemplazione dell’anima che s’invola palpitante, si accostano
un poco le linee melodiche di Don Giovanni e del Commendatore. Tre discorsi
melodici, dunque, fittamente intrecciati, e di questi uno ci riserva una sorpresa. La
frase circolare e tortuosa di Don Giovanni («Ah! già cade il sciagurato, Affannoso e
agonizzante») non è nient’altro che la frase circolare di Donna Anna («Come furia
disperata Ti saprò perseguitar»). Il Jouve assicura che questa analogia «ci fa toccare
qualche mistero nelle situazioni affettive»: sarebbe forse una conferma del legame
profondo che il fuggevole incontro ha stabilito tra le anime di Don Giovanni e Donna
Anna. La pagina si chiude, dopo che il Commendatore è spirato, con quattro battute
orchestrali nelle quali una calma scala cromatica discendente si palesa. «La fredda
mano della morte – scrive l’Abert – si posa su tutti i presenti e ne paralizza i
movimenti. Mai nella storia dell’opera essa ha più trovato un’espressione così concisa
e nello stesso tempo impressionante.» C’è un palpitante movimento di terzine degli
archi che sottende tutto l’ultimo episodio dell’introduzione che isolata ha una
assomiglianza straordinaria con Chiaro di luna di Beethoven. Scena seconda:
rimangono Don Giovanni e Leporello che in Recitativo secco, accompagnato dal
clavicembalo. Leporello recupera il registro comico appena perso. Leporello qua dà la
lettura di ciò che è successo nella camera da letto: “Due imprese leggiadre: / sforzar la
figlia, ed ammazzar il padre”. Il termine “sforzar” indica può indicare lo stupro e/o
l’inganno del travestimento. Il Commendatore ha voluto morire secondo Don
Giovanni. I due se ne vanno e finisce la scena seconda. Mila: L’indicazione di «Scena
seconda», usata in chiare lettere dal libretto, è quasi cinica. Che cosa è mutato dalla
scena precedente? Nulla, salvo che uno dei tre personaggi impegnati in essa è morto.
Ma è ancora presente lì in scena, 15 come cadavere. Tanto basta a Da Ponte per dar
luogo a una nuova scena, applicando con molto formalismo la regola teatrale che una
scena si riconosce dalle voci in essa impegnate: se qualcuna vien meno o si aggiunge,
muta la scena. Don Giovanni, dunque, ritrova il suo servo nascosto nell’ombra, e tra i
due si svolge, «sotto voce sempre», un rapido dialogo furtivo, che schiude uno
spiraglio sul rapporto tra questi due esseri complementari, come abbiamo detto l’uno
dell’altro, quasi che Leporello fosse un sottoprodotto escremenziale del suo padrone.
Il dialogo è spiritoso e brillante. Il Jouve trova in questo dialogo, secco e
lampeggiante», qualcosa di diabolico, una specie di tragicità burlesca. È un recitativo
secco, accompagnato dal solo clavicembalo, senz’orchestra, e pertanto assolutamente
convenzionale nel contorno melodico stereotipato. Tuttavia, ha ragione il Jouve di
rilevare la «volubilità» dell’emissione vocale, così frettolosa e sprezzante. Scena terza:
Entrano con risolutezza Don Ottavio e dietro Donna Anna e Servi che portano diversi
lumi. Don Ottavio è tenore. Questa è la scena basta sul duetto basato sui promessi
sposi. Si apre con un recitativo, qui accompagnato, dove Donna Anna inizia a cantare,
sappiamo che ella è rientrata per chiamare Don Ottavio, che entra con la spada tratta.
Donna Anna vede il cadavere del padre e [N.2 – Recitativo Drammatico, Allegro assai
con Archi, 2 Flauti, 2 Oboi, 2 Fagotti e 2 Corni in Fa] dice: “Ma qual mai s'offre, o dèi /
spettacolo funesto agli occhi miei! /Il padre!... padre mio!... mio caro padre!” continua
con imprecazioni verso l’assassinio del padre fin quando non sviene per la sofferenza.
Il tempo cambia rapidamente da un Allegro assai iniziale si passa ad un Maestoso
appena Don Ottavio dice “Ah! soccorrete, amici il mio tesoro” passa poi ad Andante
dopo che partono due servi e Don Ottavio continua con “Ah! Non tardate”. Donna
Anna rinviene e pensa sempre al padre che viene fatto spostare. Il recitativo è molto
drammatico, molto gluckiano, pieno di tremoli e melodia per esprimere i sentimenti
forti che esprime Donna Anna. Dopo che Don Ottavio dice “Anima mia, consòlati, fa’
core!” inizia il duetto e si cambia tempo con un Allegro. Qui le parole di Donna Anna
sembrano voler scacciare Don Ottavio con “Fuggi, crudele, fuggi!” ciò (secondo Mila) si
stia rivolgendo a Don Giovanni e non a Don Ottavio come se pensasse di aver davanti
a sé il suo molestatore, ciò è un ulteriore prova del fatto che ella era cosciente di
essere in camere con Don Giovanni. All’attacco del duetto c’è la capacità di Mozart di
mettere insieme stati emotivi diversi con “Fuggi, crudele, fuggi!” che assume
un’emozione violenta ma con inserti, durante “il padre mio dov’è?”, dolci, si passa dalla
violenza alla dolce. L’intento consolatorio di Don Ottavio viene corrisposto con la
musica che diventa più solida e vigorosa, quasi marziale, tenta di essere più virile, ma
sorge un problema sul personaggio di Don Ottavio che prova a presentarsi come un
personaggio virile, forte, con i muscoli però non riesce nel suo intento, egli è tutto
tranne il maschio protettivo e rassicurante, maschio effemminato che verrà esaltato
nelle sue arie. La musica rispecchia la non possibilità di virilità di Don Ottavio. Nel
duetto, oltre alla prima frase pronunciata da Donna Anna, si delinea che Donna Anna
vuole morire per via del padre appena morto e Don Ottavio preoccupato le ricorda
che non è sola con “ti parla il caro amante / che vive sol per te”, ella però pensa ancora
al padre e si domanda dove si trovi e Don Ottavio a ciò risponde che “hai sposo e
padre in me.” Qui finisce il duetto e continua il Recitativo drammatico, questa scelta di
porre il recitativo come culmine del segmento situato in uno schema chiuso è strana e
Mozart (solitamente avviene che prima c’è il recitativo poi il pezzo chiuso che può
essere aria, duetto, o altro) sceglie di inserire un recitativo durante il duetto tra Donna
Anna e Don Ottavio. Questa scelta è la modifica di una struttura consolidata e solida,
ciò è dovuto all’importanza che si colgono nelle parole, che però smorza l’enfasi. Il
giuramento successivo non è tanto credibile dal punto di vista di Don Ottavio che non
è il tipo di uomo ideale per scatenare un’ira di vendetta verso un qualcuno. Il
momento antienfatico caratterizza il personaggio di Don Ottavio e ne denota la
mancanza di virilità. Donna Anna vuol vendicare la morte del padre e fa giurare a Don
Ottavio di vendicare il suocero, cambia il tempo che passa da Allegro (tempo del
duetto) a Maestoso durante il “Lo giuro! Lo giuro!” pronunciato da Don Ottavio e da
Maestoso a Adagio subito alla fine appena sempre Don Ottavio attacca con “Lo giuro
agli occhi tuoi, / lo giuro al nostro amor.” Insieme riprendono il duetto, che cambia il
tempo in Allegro, con il giuramento che cita: “Che giuramento, o dèi! / Che barbaro
momento! / Tra cento affetti e cento / vammi ondeggiando il cor.” Giurano di
vendicarsi della morte del Commendatore ai danni di una persona non certa (Donna
Anna in teoria non sa che è Don Giovanni l’assassino del padre). Mila: Poche battute di
recitativo secco, poi «attacca subito Istromentato» il N. 2, che è una delle più
complesse scene drammatiche dell’opera. l’Abert si richiama all’esempio di Gluck, per
la straordinaria duttilità drammatica con cui vi si alternano recitativi obbligati vere e
proprie idee melodiche. Basterebbe questa scena per distruggere l’argomento a cui si
appella sempre Edward Dent per negare ogni possibilità di interpretazione romantica
dell’opera, con applicazione di soprasensi più o meno demoniaci e metafisici. Il Don
Giovanni – egli ribatte con ostinazione – è un’opera comica, non un’opera seria. Basta
paragonarlo con l’Idomeneo per rendersene conto. In questa scena il raffronto con
l’Idomeneo regge benissimo. Questo stile spezzato, dove il recitativo accompagnato si
mescola strettamente alle forme vocali dell’aria o del duetto, è esattamente quel tanto
di eredità gluckiana raccolta da Mozart 16 nell’Idomeneo. Donna Anna e Don Ottavio
instaurano uno stile che è nettamente ed esclusivamente di opera seria. Non di opera
seria napoletana, certamente, ma di opera seria che ha già conosciuto il
rinnovamento gluckiano. N. 2 comprende: a) un lungo recitativo accompagnato, nel
quale riconosciamo due sezioni; la prima, Allegro assai, è quasi esclusivo appannaggio
di Donna Anna, la quale scopre il cadavere in strada, vi riconosce il padre, si dispera e
alla fine sviene. Don Ottavio, in questa prima parte, apre la bocca un momento per
pronunciare la parola esitante: «Signore…», inspiegabile e ridicola se rivolta al morto,
talché i cantanti molto spesso pronunciano «Signora», facendo sì, giustamente, ch’egli
si rivolga a Donna Anna, forse per pregarla di moderare la sua disperazione. Svenuta
lei, è naturale che venga avanti lui, nella parte di recitativo fornita dalle indicazioni di
Maestoso e Andante. Don Ottavio manda i servi a cercare rimedi per la donna
svenuta, e qui si esprime naturalmente con autorità; poi rivolge ansiosamente le
proprie attenzioni a Donna Anna, che si limita a sussurrare una volta «Ahi!» e un’altra
volta: «Padre mio». b) Allegro, cioè il vero e proprio duetto, anch’esso, però,
drammaticamente spezzato da due ritorni di recitativo, entrambi in occasione del
giuramento che Ottavio presta a Donna Anna, di vendicare il sangue di suo padre. Il
primo ritorno di fiamma del recitativo è chiaramente segnato nello spartito, con le
indicazioni: Recitativo - Maestoso - Adagio in tempo. Dopo di che il duetto in forma
chiusa riprende con l’indicazione Tempo primo. Quando ben presto, ripetendosi
simmetricamente l’episodio precedente, ritorna il giuramento, praticamente esso è
ancora un recitativo, e interrompe per un momento il decorso melodico del duetto,
ma non ne rompe più il movimento di Allegro. In un certo senso il recitativo del
secondo giuramento è quasi riassorbito entro la forma chiusa del duetto, come una
parentesi interna, non più come una rottura. In pieno stile d’opera seria si svolge il
recitativo obbligato di Donna Anna alla scoperta, prima, del cadavere, e poi
all’identificazione in esso di suo padre, qui c’è poco della tonalità in do maggiore
iniziale. «Il padre! padre mio!». Qui gli accordi dell’orchestra che «fanno irruzione»
nella voce sono schietti accordi di do maggiore, e sono gli unici di tutto il pezzo.
Recitativo di Donna Anna è spezzato e frammentario, come il discorso d’una persona
sconvolta da improvviso dolore. Il recitativo di Donna Anna rientra principalmente
nella categoria espressiva del lamento ed è – come scrive lo Hocquard – «una delle
vette del linguaggio d’azione nella storia dell’opera». Poi ella sviene, e subentra il
recitativo di Don Ottavio, che, dopo le prime parole di comando rivolte ai servi, rientra
invece piuttosto nella categoria dell’affanno, dell’agitazione, svolto com’è per corte
frasi febbrili con il passaggio dal Maestoso (imposizione ai servi) all’Andante. La
saldatura tra il recitativo e il duetto vero e proprio è straordinariamente sottile.
Notiamo di passata quanto sia strano il movimento psicologico che il libretto
attribuisce a Donna Anna in questo inizio del duetto. Appena rinvenuta, ella vorrebbe
allontanare colui che la consola: “Fuggi, crudele, fuggi! Lascia che mora anch’io Ora
ch’è morto, oddio! Chi a me la vita diè.” Potrebb’essere un moto di disperazione per
cui ella rifiuta i conforti di Don Ottavio. Ma Don Ottavio s’accorge ch’ella non lo
riconosce, e lo scambia per l’uccisore del padre: “Senti, cor mio, deh! senti, Guardami
un solo istante: Ti parla il caro amante Che vive sol per te.” Solo allora Donna Anna lo
ravvisa “Tu sei… Perdon, mio bene…” È ben strana questa confusione di Donna Anna,
e non sembra casuale il parallelismo: dapprima Donna Anna scambia Don Giovanni
per il Conte Ottavio, e ora scambia Ottavio per l’uccisore di suo padre, cioè per Don
Giovanni. Hoffmann die che ella abbia in qualche modo subito il fascino erotico di
Don Giovanni. Hocquard non lascia che Donna Anna sia innamorata anche in minima
parte di Don Giovanni, ma non spiega questa parte. Alla fine dei primi accenti di
Donna Anna, quasi in stile di recitativo, ha inizio in orchestra una complessa struttura.
Sopra questa macchina musicale già così ricca, e perfettamente autosufficiente, deve
ancora inserirsi la voce del tenore. Lo fa in maniera laboriosa, e non è da stupire che
certe sue esclamazioni spezzate e affannose («Senti, cor mio, deh senti») siano pur
esse in stile di recitativo. Sarà Donna Anna, quando rinviene dal suo smarrimento e
riconosce Don Ottavio, quella che finalmente sblocca il duetto dalla sua iniziale
parsimonia melodica e lo conduce verso rive più fiorite di canto espressivo. Da questo
punto in vanti il destino musicale del duetto non fa che sostanziarsi di nuove idee
melodiche. Le frasi di consolazione di Ottavio, prima spezzate, affannose, e così
laboriosamente amalgamate nel discorso dell’orchestra, «si condensano sempre più –
come scrive l’Abert – in una calda cantilena». L’episodio, così bello, viene ripetuto
integralmente nella successione delle tre fasi: «berceuse de douleur» – effusione
cromatica discendente di Don Ottavio – sua conclusione nobile. quest’ultima
leggermente variata, in quanto le parole «hai sposo e padre» vengono replicate, per
raccogliere nella voce del tenore il singhiozzo, cioè l’intervallo di settima discendente,
proposto da oboi e fagotti. Qui si rompe la continuità formale del duetto. Una scala
per moto contrario dell’orchestra riporta il recitativo. Donna Anna invita il fidanzato a
giurare di vendicare il sangue di suo padre. Scrive il Jouve che questa frase «sembra
uscire dalla bocca allargata della antica maschera tragica». Sempre in stile di
recitativo, per tre battute Maestoso, e per altre tre Adagio in tempo, Don Ottavio giura
ma sembra manifestare qualche perplessità, qualche reticenza, se non proprio una
riserva mentale. Secondo l’Abert, il giuramento di Ottavio bada di più agli «occhi tuoi»,
al «nostro amor», che alla missione sanguinosa della vendetta. «Un uomo di decisa
volontà, Mozart l’avrebbe certo fatto giurare in toni più energici.» 17 sottolinea la
parola “lista” che avvicina Leporello al padrone. Questo è un altro caso di aria
dialogante, Leporello parla con Donna Elvira, collegando l’aria con un messaggio verso
altri personaggi. Mila: Donna Elvira si sposta da Burgos a Siviglia in cerca di colui che
l’ha abbandonata, Don Giovanni. Non sappiamo se i due sono sposati e poi Don
Giovanni sia fuggito o Don Giovanni se ne sia andato il giorno delle nozze. Nel sestetto
del secondo atto, essa proclama alto e forte di Don Giovanni: «È mio marito!». La lista
dei personaggi preposta al libretto la definisce, diplomaticamente, «dama di Burgos
abbandonata da Don Giovanni». Dama sembra indicare una persona che non sia più
una giovinetta, come Donna Anna. Il personaggio fu inventato da Molière, all’inizio era
una monaca fuggita per l’amore di Don Giovanni. Donna Elvira è un altro aspetto della
femminilità rispetto a Donna Anna. Se questa è l’incarnazione della vendetta, Donna
Elvira, qualunque cosa possa dire nei momenti di esasperazione, è invece la donna-
tenerezza. Donna Anna chiede vendetta: è una fiera personificazione dell’onore
spagnolo. Donna Elvira chiede amore. Entra in scena tempestando e fulminando mille
atroci minacce contro il «barbaro» che l’ha tradita. Eppure, sentiamo subito (e di
questi doppi, o secondi sensi, la musica è interprete privilegiata) che se Don Giovanni
le riaprisse le braccia, lei ci cadrebbe dentro e sarebbe la sua felicità. Donna Anna è
una personificazione tragica in certo senso astratta. Essa non si mescola mai con altri
personaggi. Se mai, è l’anti Don Giovanni: almeno, la sua antitesi terrena, poiché
quella celeste è il Commendatore (che del resto è suo padre). Donna Anna è isolata, e
anche uno scrittore che ne difende a spada tratta l’innocenza, come lo Hocquard, la
grati fica di paragoni con la Vittoria di Samotracia, di epiteti come «terribile
Amazzone», e riconosce che ella non è come Donna Elvira, una donna che vive
dell’amore e per l’amore. Donna Anna è tagliente e dura, «una figura di prua». Tutto il
contrario la povera Elvira. Elvira è eminentemente umana. Perciò: Donna Anna è
isolata, sola, una astratta personificazione tragica, e non viene mai coinvolta nella rete
degli altri personaggi. Donna Elvira è un essere sociale, ed è sempre coinvolta nel giro
degli altri personaggi Donna Anna non scende mai dal piedestallo del suo alto stile
tragico, e Donna Elvira, invece, figura così patetica e commovente, viene coinvolta più
volte nella buffoneria triviale di Leporello. Per Della Corte Elvira «primeggia»
nell’opera, perché «è la più energica fra le donne rotanti nella sfera di Don Giovanni».
E per Goldbeck, «il solo personaggio valido come antagonista di Don Giovanni» (oltre,
per natura, al Commendatore) «è Elvira». Per il Goldbeck, Donna Anna sarebbe
«convenzionale» come il suo fidanzato Ottavio. Alcune opere vedono l’aria di Elvira
come terzetto. Ma è un’aria di sortita, di presentazione di un nuovo personaggio.
L’aria si potrebbe denominare “aria plurima” per rilevarne l’anomalia (presenza di
altre due voci oltre a quella solistica del personaggio che canta l’aria), e sottolineare
l’ansia dialogica che pervade il teatro di Mozart. Mozart comincia ad attuare quel suo
ideale personale di teatro in musica, che evade dalle consuete categorie italiane della
opera seria e dell’opera comica, e non accetta se non in modesta misura le proposte
riformatrici di Gluck. Un teatro che deve conservare il primato musicale dell’opera
napoletana, e nello stesso tempo deve realizzare, entro di esso, il massimo di
interscambio drammatico tra i personaggi. Aria, dunque, quella di Donna Elvira; non
un’aria tripartita con da capo, bensì un’aria semplice, con immediata ripetizione. Non:
A - B - A, bensì: A - A’, dove la ripresa, o per meglio dire, la ripetizione (poiché in mezzo
non c’è stato alcun diversivo) è abbastanza vistosamente ampli ficata in una coda
virtuosistica. Le due sezioni stanno tra loro in un rapporto sonatistico, poiché,
essendo questa aria formata di due temi ben distinti, nella prima esposizione i due
temi appaiono rispettivamente alla tonica (mi bemolle) e alla dominante (si bemolle);
nella ripetizione sono unificati nel tono fondamentale, come avverrebbe nella
«ripresa» di una sonata. Il primo tema, nel tono solenne di mi bemolle maggiore, ci
presenta Donna Elvira come una furia tragica, in preda ai più feroci propositi di
vendetta cruenta. L’agitazione del personaggio è sottolineata dai bruschi contrasti
dinamici di «piano» e «forte», contrapposti di continuo, dagli urti e contraccolpi del
ritmo, dalla frequente ampiezza degli intervalli percorsi dalla voce, segno
caratteristico dello stile tragico di opera seria. Secondo una giusta visione del
Breydert, il canto di Donna Elvira presenta una salda stabilità tonale: tonica e
dominante, di lì non si scappa sempre il Breydert nota giustamente che c’è una specie
di «eccesso d’energia» di furore tragico di Donna Elvira, qualcosa di sproporzionato.
Per la prima volta nell’opera, in questo pezzo entrano i clarinetti. Il clarinetto: lo
strumento prediletto di Mozart, lo strumento della tenerezza e della malinconia, ben
confacente all’anima gentile e dolce di questa povera donnina abbandonata e
indifesa. La rigidezza di questo primo tema dell’aria di Donna Elvira esprime orgoglio e
corruccio. Lo smontamento della collera di Donna Elvira avviene col secondo tema.
Dal solenne tono di mi bemolle passiamo in quello, più dimesso e discorsivo, di si
bemolle, la dominante. Fusette vivaci e gaie, questi riflessi urgenti d’un desiderio
lontano disegnano, della profondità dell’orchestra, come un secondo volto del
personaggio, opposto a quello che noi vediamo.» Si potrebbe dire, con orribile
termine giornalistico, che nel secondo tema Donna Elvira viene «ridimensionata». In
questo secondo tema, mentre il canto di Elvira moltiplica i suoi balzi tragici di ottava.
Don Giovanni e Leporello, nascosti, cominciano a inserire i loro commenti libertini.
«Udisti? qualche bella dal vago abbandonata», sussurra a Leporello Don Giovanni,
lontano le mille miglia dall’immaginare che il vago» 20 infedele è per l’appunto lui. E
quando la disperazione di Elvira raggiunge l’apice, Don Giovanni se ne esce in ipocrite
esclamazioni di commiserazione: «Poverina! poverina!». «Cerchiam di consolare il suo
tormento», egli si propone, cantando quasi in stile di recitativo, su una nota più volte
ripetuta. Ma l’orchestra sottopone un commento illuminante. I violini fanno sentire
quello che l’Abert chiama una «dolce melodia cullante», fatta d’una semplice
oscillazione su due note, ma incredibilmente efficace nell’allusione a un sottinteso
erotico». È un motivo di compassione e di consolazione; ma compassione intesa alla
maniera trivialmente sensuale di Don Giovanni. Sono, come dice l’Abert, «le vecchie
demoniache arti di seduzione» del cavaliere libertino: ma mascherate di ipocrita
commiserazione. Dopo questo inserto delle voci maschili l’aria riprende da capo.
Donna Elvira , si abbandona a un esteso e virtuosistico vocalizzo, concessione
all’ambizione virtuosistica della cantante, ma anche un modo per ribadire la maschera
di furore tragico che la povera Donna Elvira si pone. Segue un recitativo a tre, lungo,
ma spiritoso, conduce alla prossima «aria del catalogo» di Leporello. Anche dal punto
di vista musicale, tale recitativo non è interamente convenzionale né stereotipato.
Don Giovanni riconosce Donna Elvira e se la svigna, scaricando sullo sprovveduto
Leporello l’incarico di darle le spiegazioni del caso, Leporello biascica alcune frasi
senza senso all’indignata dama, prima di organizzare la sua grossolana consolazione
(«Non siete voi, Non foste e non sarete Né la prima né l’ultima») e, dopo avere
sciorinato il libro-catalogo delle conquiste di Don Giovanni, che con abile lancio si
srotolerà in una interminabile pergamena, attaccare la famosa aria. Nel mito di Don
Giovanni l’invenzione d’una lista numerica delle sue conquiste fu introdotta verso la
metà del Seicento in un Convitato di pietra. Questo lazzo da commedia dell’arte (che si
accompagnava al gesto di srotolare abilmente verso il pubblico la pergamena del
catalogo) ebbe conseguenze incalcolabili nel determinare l’interpretazione romantica
del personaggio di Don Giovanni. Leporello è affascinato dai numeri. «L’aritmetica è la
sua religione.» La sua ossessione numerica instaura quello che Camus chiamò «l’etica
della quantità, laddove il santo tende verso la qualità». Ne è condizionata, come per
un contagio, la furia amorosa di Don Giovanni, che in realtà non può innamorarsi di
nessuna donna e ripetere l’atto sessuale, perché non ha tempo. Fu facile per i
romantici interpretare quest’ossessione numerica come sete dell’assoluto. La famosa
«aria del catalogo» delle conquiste di Don Giovanni già esiste anch’essa, come la scena
precedente, con Donna Elvira, nel libretto del Bertati per l’opera di Gazzaniga, ma in
forma assai più rozza. Da Ponte attribuisce a Don Giovanni una fame indiscriminata,
che appetisce donne «d’ogni grado, d’ogni forma, d’ogni età». Diversa la versione di
Bertati che nega le vecchie. Questa materializzazione numerica, computistica, delle
conquiste di Don Giovanni, allargate a un favoloso eclettismo è uno dei più forti
argomenti per la tesi romantica che vede in Don Giovanni un disperato ricercatore
dell’assoluto, alla caccia d’una perfezione ideale, sicché praticamente la sua
concupiscenza si spoglia d’ogni facoltà di discernimento, perché in realtà egli cerca
nelle donne qualche cosa che non potrà mai trovare: l’ideale, l’infinito. Analogamente
alla celebre aria di Figaro nelle Nozze, «Non più andrai, Farfallone amoroso», l’aria di
Leporello è un classico esempio di aria dialogante, ossia di un’aria che non resta
circoscritta al personaggio che la canta, ma altri ne coinvolge nella propria portata. È
un’aria di Leporello, certo, e molto ci dice su costui: sulla sua sostanziale ammirazione
per i misfatti erotici del padrone, ch’egli funge talvolta di biasimare moralisticamente,
ma che in realtà vorrebbe sapere emulare, talché nell’elenco e nella descrizione delle
conquiste di Don Giovanni, Leporello finisce quasi per soddisfare una certa sua
libidine per procura. Ma, come dice l’Abert, il «significato drammatico» dell’aria è
quello d’un «ritratto del carattere di Don Giovanni», che pur essendosela svignata, è
presente per tutta la durata della aria. Inoltre, c’è una terza persona, la povera Donna
Elvira, crudelmente oltraggiata dalla goffa consolazione di Leporello, che di fatto viene
a coinvolgerla in mezzo allo stuolo delle donne sedotte da Don Giovanni. Ma la pasta
dei due personaggi è ben diversa, troppa essendo in Leporello la servile e ammirativa
invidia per le fortune amatorie del padrone, invidia che postula una vana velleità di
emulazione. Praticamente, insomma, Leporello, più che stigmatizzare le colpe sessuali
e gli eccessi erotici della classe signorile, li invidia e si riscalda di riflesso alla loro
enumerazione descrittiva. L’aria del catalogo è un tipico esempio di aria bipartita (A -
B), e più esattamente, di aria doppia, Gluck prevedeva la forma bipartita, meno
statica. La bipartizione dell’aria (anziché tripartizione con da capo) deriva tuttavia dal
suo contenuto. La prima aria enumera le conquiste di Don Giovanni. La seconda le
descrive. La prima aria, perciò, tutta fondata sui numeri, incalza con una specie di
vertigine ossessiva (la condanna di Don Giovanni a una caccia senza posa). È un
velocissimo Allegro in 4/4, tutto proteso in avanti, quasi sferzato, staffilato dalla
punteggiatura strumentale, tirato via a ritmo di scioglilingua: rivive in esso quella
inarrestabile spinta vitale che è l’essenza stessa del personaggio di Don Giovanni, e
che abbiamo già trovata nel Molto allegro dell’ouverture. La seconda aria non è più
enumerazione, bensì descrizione delle conquiste di Don Giovanni (bionde, brune,
giovani, vecchie, ricche, povere, cameriere, cittadine, marchesane, baronesse).
Descrizione e, si vorrebbe dire, degustazione. Leporello le vede, mentre le descrive, e
ci si sdilinquisce. L’evidenza descrittiva della musica è talmente parlante, la riuscita
così totale e assoluta, che sembra rendere superfluo qualsiasi commento. Leporello,
che tanto spesso si atteggia a coscienza morale di Don Giovanni, funziona qui come
«la memoria» del padrone, secondo la giusta osservazione del Jouve. Questo 21
Allegro è la prima sezione di una grande aria bipartita, o doppia, e a sua volta si
configura anch’esso come un’aria doppia. Più esattamente, e specialmente stando alla
distribuzione delle parole, vi si individuano cinque sezioni, secondo lo schema: A - B -
C - B’ - C’. La prima sezione, A, presenta chiara funzione introduttiva. È la protasi,
burlescamente pomposa, del discorso di Leporello, ch’egli pronuncia sciorinando il
rotolo del catalogo. Il canto, rigorosamente sillabico, è poco più di un declamato
veloce, in stile di basso comico. In orchestra, i violini primi e i bassi si rilanciano a
turno le note fondamentali dell’accordo perfetto di re maggiore, disposte in leggeri
arpeggi ascendenti e staccate da brevi pause. C’è una specie d’impazienza nel
movimento orchestrale: tutto si slancia in avanti, tutto corre su piedi leggeri, come lo
slancio vitale di Don Giovanni, mentre il discorso vocale di Leporello affretta una certa
solennità oratoria. L’enumerazione vera e propria, che si snoda vocalmente come una
filastrocca. in orchestra un’idea nuova: una scala discendente di flauti, fagotti e violini
primi, conclusa da un’allegra figura scampanante per terze, di oboi e corni, che ha un
fare un poco campagnolo, popolaresco: perciò la chiameremo idea folcloristica, senza
pretendere con questo a una caratterizzazione rigorosa e scientifica del piccolo
motivo. Solo alla fine di essa, quando sono esauriti i paesi stranieri e si giunge
finalmente alla Spagna, la linea vocale, e il discorso orchestrale che l’accompagna, ora
prevalentemente all’unisono, perdono la loro fretta calcolatoria e si allargano in
compiaciuta ampiezza di melodia, sebbene sempre sillabica. Due punti coronati
incorniciano l’espressione «ma in Ispagna» caratterizzata da una dislocazione del
ritmo. Comincia ora l’episodio C. Le parole son nuove, e la melodia vocale anche: una
progressione rigida e sillabica, poco più che un incalzante declamato armonico, fino al
momento in cui sfocia con toni di fanfara su uno sfogo grandioso alle parole: «d’ogni
forma, d’ogni età!». Per tutta la sezione A non v’era stata alcuna modulazione tonale:
non ci si era mai mossi dal tono di re maggiore. Tanto più e fficace risulta perciò qui il
ribaltamento sulla dominante in la maggiore. Dunque, tutto par nuovo, in questa
sezione C, almeno se si bada al canto. Ricomincia l’enumerazione («In Italia
seicentoquaranta…»), cioè la sezione che chiameremo B’, poiché la linea del canto è
lievemente variata. Ma il maggiore mutamento lo troviamo in orchestra. I violini perà
si danno alla rèplica e si sfidano. Ora è la volta di ripetere il terzo membro di frase, C’,
cioè la descrizione degli stati sociali delle donne sedotte da Don Giovanni. la voce ora
s’impadronisce delle grandi scale diatoniche proposte poc’anzi dall’orchestra, e corre
su e giù per tre volte sillabando: «v’han tra queste contadine, cameriere, cittadine…».
Sono come raffiche vocali che salgono e scendono, agganciandosi, la terza volta, sulla
sottodominante, re, ripetuta cinque volte in un trillo cromatico di stringente valore
perorativo. Invano aspetteremmo l’allegro scampanamento dei corni che avevamo
battezzato «figura folcloristica». Ora invece, dopo il già ricordato «climax» perorativo
sulla sottodominante (re), otto battute enfaticamente pompose concludono con fare
grandioso sulla nuova tonica (la maggiore). Più semplice appare al confronto la
struttura formale della seconda aria di Leporello, l’Andante con moto in tre quarti,
nuovamente e interamente in re maggiore. Si tratta d’un ritmo di minuetto grazioso,
molto cantabile. Tutti si rendono conto del carattere trionfale che la musica prende
sulle parole «è la grande maestosa», con quel prolungato acuto vocale sulla tonica. La
ripetizione insistente e leziosa della parola «la piccina» è l’immagine sonora dello
sdilinquimento di Leporello, al quale evidentemente piacciono le piccoline. All’arida
velocità della enumerazione succede qui la lentezza della degustazione. «Non più i
luoghi e i numeri dell’avventura – scrive il Jouve – ma la sua sostanza. Ci avviluppa una
spessa materia afettiva.». Poi il minuetto riprende da capo, sulle parole «delle vecchie
fa conquista», carezzoso e un po’ antiquato. Sarà un caso, ma sulle parole «pel piacer
di porle in lista», e più verso quest’ultima parola, che, come abbiam detto, svela il
segreto intimo di Don Giovanni, sostituendo una specie di ossessione dell’assoluto in
luogo del semplice e diretto piacere sensuale, si produce l’unico evento musicale
importante nel tranquillo decorso di questa seconda aria: bruscamente si modula da
re maggiore a si bemolle, quasi come un’acciaccatura, una improvvisa e dolorosa
inflessione tonale. Il ritmo cerimonioso di minuetto, arricchito da figurazioni in
semicrome dei secondi violini e dai trilli di flauti, fagotti e violini primi, ritorna, col tono
di re maggiore, alle parole «non si picca se sia ricca». È come se l’immagine della
«giovin principiante» avesse portato una specie di sbandamento seduttivo nella
immaginazione concupiscente di Leporello. Ora riprende il tono pacato e invitante di
quel compito seduttore che è Don Giovanni. Ma la volgarità di Leporello, la sua bassa
ghiottoneria sensuale, si sovrappone ancora una volta alla galanteria elegante di Don
Giovanni, nella chiusa, col vocalizzo sincopato che sventola mollemente, alla fine delle
parole «voi sapete quel che fa». Scena sesta: Lasciata Donna Elvira da sola, si ritrova
con un recitativo secco a dover commentare ciò che le ha presentato Leporello pochi
secondi prima. Anche se ci sono le condizioni di inserire qui un’aria Mozart non la
inserisce poiché ha preferito che Donna Elvira si presentasse con un’aria tutta sua.
Donna Elvira commenta con il fatto che ella si vuole vendicare: “Ah, vendicar vogl'io /
l'ingannato mio cor: pria ch'ei mi fugga... / si ricorra... si vada... Io sento in petto / sol
vendetta parlar, rabbia e dispetto.” 22 Zerlina. Ella risponde con l’esatta ripetizione
della stessa melodia. Alle volte seguono delle variazioni a “ma può burlarmi ancor”.
Don Giovanni riprende con la melodia e la maniera in cui risponde Zerlina è meno
decisa e tremolante che simboleggia il suo cedimento verso Don Giovanni. Il recitativo
nel finale riprende la melodia, Don Giovanni apre la melodia e Zerlina la completa
(prima era l’opposto), vi è tra i due la complementarità. Con “Andiam, andiam” le voci
si uniscono. La scrittura diventa più popolare, tempo di 6/8 con i giochi di terza che
rendono sempre il duetto più pastorale, popolare e ciò ha varie interpretazioni. Mila
dice che Don Giovanni non ha più bisogno di conquistare Zerlina, quindi si lascia
andare sul naturale, può abbassare il registro oramai ha conquistato Zerlina, ma ciò è
un regredire di Don Giovanni che si spiega con il fatto che egli non ha nessun
interesse per lei. Nel finale del duetto si sente la derivazione aristocratica di Don
Giovanni passando dal canto alla danza, che testimonia il passaggio dallo scambio
verbale a quello gestuale, fisico alludendo quindi al passaggio dalle parole ai fatti.
Mila: Un recitativo a due conduce al N. 7. È uno dei pezzi più celebri dell’opera, e
pertanto di tutta la musica, e s fida l’analisi con la sua semplicità. È il duetto della
seduzione di Zerlina, praticamente l’unico caso in cui vediamo Don Giovanni in azione
nella sua qualità di seduttore. Esso mette in atto due situazioni psicologiche:
l’incalzante invito di Don Giovanni, e il turbamento che invade Zerlina. Argomento del
duetto è il progressivo sopravvento che l’iniziativa dell’uomo raggiunge sulla
resistenza, sempre più debole, della contadinella. Dumesnil: «Mai la musica ha meglio
espresso l’amore, o piuttosto l’istinto di amare, la forza che spinge, irresistibilmente,
due esseri all’amplesso. Eppure, mai musica è stata meno volgare, meno materiale
che quella dove Mozart ha saputo esprimere tutti i desideri, tutti i richiami della
voluttà». Praticamente, con questo è detto tutto: l’originalità del duetto sta
nell’innocenza con cui è vista la caduta di Zerlina. La semplice struttura del duetto, che
pare all’Abert «un capolavoro di psicologia drammatica». Il Dent ne elogia il «fine
senso di caratterizzazione nelle diverse maniere di ripartire la melodia tra due voci,
nelle piccole variazioni melodiche, che producono un’immensa differenza nel
significato poetico delle frasi» Il duetto è bipartito: prima l’Andante in 2/4, poi, dopo
un punto coronato, un movimento in 6/8, che a rigore, nel manoscritto, non reca
indicazione di un nuovo movimento, ma deve essere per forza un Allegro. L’Andante è
la seduzione vera e propria, l’irresoluzione di Zerlina, la lotta tra il dovere e il piacere;
scrive l’Abert che qui «Don Giovanni assume un tono cavalleresco, come se si trovasse
di fronte a una sua pari». L’Allegro è la decisione e l’accordo: Zerlina ha capitolato,
come scrive lo Hocquard, «si lascia andare alla vertigine momentanea dei sensi». La
prima parte, Andante, si presenta a sua volta come una minuscola forma tripartita,
con una prima sezione in la maggiore, una seconda in mi maggiore («Vieni, mio bel
diletto!»), e la ripresa, in la maggiore. L’invito di Don Giovanni è una breve melodia
carezzevole, sopra un accompagnamento bilanciato degli archi: una melodia
racchiusa in breve ambito, per gradi congiunti. La frase di Don Giovanni è
melodicamente completa, ha un senso musicale compiuto e Zerlina è incantata. Al
termine di ogni semifrase, appena sorretta, come s’è detto, da un leggero
accompagnamento bilanciato degli archi, i fiati introducono una brevissima
congiunzione. Tale congiunzione conduce mollemente all’inizio della successiva
semifrase vocale. È come un dolcissimo coretto di persuasori, per non dire di ruffiani.
L’Abert la chiama «un cullante, profondo respiro». Zerlina, dunque, ripete come
incantata la frase di Don Giovanni, ma mentre costui la terminava con rapida
decisione, puntando diritto sulla tonica nelle parole «partiam, ben mio, di qui»,
Zerlina, che vorrebbe e non vorrebbe, ed è indecisa e combattuta, tanto quanto Don
Giovanni ha bene in mente il suo scopo, prolunga la chiusa in un lieve e turbato
vocalizzo a due note per sillaba, ripetendo le parole «ma può burlarmi ancor!». Ecco
una, e non l’ultima, di quelle «piccole variazioni melodiche» ammirate dal Dent, che
non obbediscono solo a motivi di decorazione musicale, ma «producono un’immensa
differenza nel significato poetico delle frasi». Brevissima sezione centrale si svolge in
mi maggiore. Col passaggio alla dominante è come se Don Giovanni avesse portato
d’un grado più su la stringente urgenza del suo assedio. La melodia non è più così
calma e cullante, per gradi contigui, ma si allarga nell’ambito di un’ottava, scandendo
lo spazio tonale intermedio come una fanfara. Zerlina, a parte, combatte da sola la
sua battaglia perduta in partenza: sempre sull’amplificazione vocalizzante di due note
per sillaba, ri flette «mi fa pietà Masetto!» e confessa ripetutamente: «Presto non son
più forte!». «Zerlina – scrive l’Abert – qui svolazza con la sua inquieta melodia come un
uccello preso nella rete.» Una dolcissima caduta di archi e fiati riporta sulla ripresa, di
nuovo in la maggiore. Essa non è del tutto identica all’esposizione, bensì avviene per
entrate ravvicinate: si ammira qui un’altra di quelle piccole modificazioni significanti
rilevate dal Dent. Nell’esposizione Don Giovanni terminava tutta una frase melodica,
Zerlina lo stava a sentire, e poi ripeteva la medesima frase, come affascinata. Adesso
invece, ripetendo la procedura già iniziata nella sezione B, Zerlina completa ogni
mezza frase di Don Giovanni: come scrive l’Abert «gli prende le frasi immediatamente
dalla bocca». Per quattro semifrasi, la voce di Don Giovanni è raddoppiata dal flauto e
quella di Zerlina dal fagotto; ma alla quinta semifrase tutti i legni ( flauti e fagotti, e
anche oboi) si uniscono per aumentare il peso della implorazione di Don Giovanni:
«partiam, ben mio, di qui». Le due voci cominciano a sovrapporsi per brevi tratti,
l’accompagnamento orchestrale, fin qui lievissimo, fa sentire 25 maggiormente il suo
peso. L’Abert scrive di questo 6/8 che qui Don Giovanni, ormai sicuro della vittoria,
scende nella sfera campagnola di Zerlina, che qui prenderebbe il sopravvento, mentre
l’Andante, con la sua tenerezza signorile, «stava tutto sotto il segno di Don Giovanni».
In realtà, lo sfogo quasi meccanico prodotto dalla irruzione del 6/8 è un «topos»
mozartiano inconfondibile. L’irruzione del 6/8, col suo movimento circolare cullante,
alla fine d’un tormentato duetto d’amore, è la vittoria sulle difficoltà e gli ostacoli che
intralciano all’uomo il cammino verso la felicità, è la rottura degli argini eretti dalla
civiltà menzognera e l’inizio della corsa irresistibile verso il piacere. la felicità, si
esprime regolarmente con l’esplosione d’un roteante ritmo di 6/8. È nel vero il
Dumesnil, quando scrive, come abbiamo visto, che «innocenza è qui sinonimo
d’obbedienza a quella legge della natura, più forte a volte che tutte le morali». Del
resto, anche l’Abert ci va inavvedutamente vicino, quando, difendendo la seconda
parte del duetto da accuse che talvolta gli si muovono, di scarso fuoco e mancanza di
passione, osserva che per Don Giovanni questa nuova conquista non è niente di
speciale, «solo un gioco piccante», e quanto a Zerlina, «essa ha semplicemente seguito
il suo impulso». L’Abert accompagna l’analisi di questo duetto a tutta una
interpretazione del personaggio di Zerlina (che naturalmente avrà poi modo di
delinearsi ulteriormente). L’interpretazione dell’Abert è essenzialmente una difesa del
carattere di Zerlina, che non sarebbe quella personcina civettuola, già corrotta
nell’intimo, come han l’aria di credere molte delle cantanti che la rappresentano.
Zerlina non ha più nulla della bellezza campagnola del tempo di Rousseau, che nelle
opere popolari veniva contrapposta all’aridità delle cittadine. Ma ancor meno è una
caricatura da opera buffa nello stile della Maturina di Bertati, bensì semplicemente
una contadina schietta, di vivace temperamento, di grazia naturale e anzitutto di sana,
forte impulsività. Questa determina tutto il suo modo di pensare e di agire, che
pertanto non comporta la superiore regola morale di colpa e innocenza. Mozart, nella
sua musica, l’ha spogliato di ogni peso terrestre e gli ha così conferito artistica
legittimità. Ritornando per un momento sul piano strettamente drammaturgico e
musicale, l’Abert ha un’illuminante intuizione storica, nei riguardi del melodramma
italiano convenzionale, quando esclama: «Quanto più efficace questa scena tutta in
forma di duetto, che se invece Don Giovanni avesse prima dichiarato a Zerlina il suo
amore in un’aria, e poi lei avesse risposto con un’altra aria, e solo allora un duetto
avesse finalmente conchiuso la scena!». Scena decima: Compare in scena Donna
Elvira che ferma la coppia durante l’arrivo al casino. Donna Elvira insegue Don
Giovanni da Burgos, Donna Elvira interrompe il bel momento dei due: “Fermati,
scellerato! Il ciel mi fece / udir le tue perfidie. Io sono a tempo / di salvar questa
misera innocente / dal tuo barbaro artiglio.” Don Giovanni chiarisce a Donna Elvira il
suo intento di divertirsi con Zerlina. Donna Elvira irata, segue la spaesata Zerlina e
risponde un astuto Don Giovanni che dice che Donna Elvira è innamorata di lui e lui
per pietà deve fingere di ricambiare poiché egli è un uomo di cuore. [N. 8 – Aria
Allegro solo con Archi] Questa è l’aria moralistica che Donna Elvira dedica a Zerlina su
come comportarsi contro questi “traditori”, è un’aria pedagogica. L’aria è breve, è
strana perché sembra stare un passo un dietro rispetto alle altre. Questa è un’aria di
collera molto statica, dai tratti barocchi quasi recuperata nei tratti da Händel tra cui: la
scrittura per soli archi, non usa qui Mozart una maggior orchestrazione, mentre il
barocco prediligeva gli archi; aria esprime il carattere unico, da inizio alla fine, unico
affetto che segue la teoria degli effetti; ci sono tanti vocalizzi, non usati per acrobazia
espressiva allineati nell’utilizzo barocco per esprimere rabbia; presenza dell’ostinato,
ritmo uguale e identico dall’inizio alla fine, tipico della danze barocche. Dà l’idea di
essere estrema, tutto è esagerato, violento e quasi urlato. La spiegazione è dovuta alla
funzione drammaturgica dell’aria e ciò è dovuto al fatto che Mozart vuole far apparire
Donna Elvira come una scocciatrice, ella ha troppo ragione, delineata come colei che è
sempre stufa. Mozart fa una scelta di campo, noi non dobbiamo identificarci in Donna
Elvira, piena di rabbia, di stanchezza e tutto ma dobbiamo filtrare Donna Elvira
attraverso gli occhi di Don Giovanni e quindi immedesimarci in lui cogliendo in Donna
Elvira il suo essere asfissiante apparento troppo e scocciante. Mozart punta a far
entrare quindi lo spettatore nella psicologia di Don Giovanni, ovvero del carnefice
piuttosto che nelle vittime. Donna Elvira è musicalmente è diverso dal testo, che ha un
atteggiamento pedagogico, non condiviso con la scelta di Mozart che segue la rabbia e
il senso di vendetta. Esce e porta con se Zerlina. Mila: Elvira piomba come un falco
sulla coppia che si avvia al casino di Don Giovanni, e ammonisce Zerlina, volendo
«salvar questa misera innocente» dal «barbaro artiglio» di Don Giovanni. Questi
improvvisa qualche scusa imbarazzata. Il breve recitativo lascia tosto il posto al N. 8. È
una brevissima aria tripartita, dove la sezione centrale è una derivazione dell’idea
principale; in mi minore, questa sezione B modula rapidamente a si minore, la
maggiore, permettendo così il ritorno sulla tonalità fondamentale di re maggiore, per
la ripresa. Questa termina con due vocalizzi sulla parola «fallace». Tutta l’aria ha
qualcosa di rigido e di spigoloso: il duro ritmo puntato non viene mai lasciato un
istante, nemmeno nella sezione centrale. È una favola che il manoscritto rechi, di
pugno di Mozart, l’indicazione: «nello stile di Haendel». Tuttavia, è altrettanto vero che
questa breve aria presenta qualcosa di curiosamente archeologico senza i fiati, questa
è implementata. L’Abert penetra a fondo le ragioni del carattere arcaico di quest’aria.
Esse stanno principalmente nella sua monoliticità espressiva. Proprio l’Abert ha
spiegato come Mozart sia il maestro 26 degli «affetti spezzati», cioè del più cangiante
svariare dei sentimenti nel corso d’un solo pezzo, secondo la mobile vicenda degli
affetti umani. In quest’aria, invece, siamo ritornati alla univocità espressiva dei tempi
di Bach e di Haendel. Donna Elvira è furibonda dal principio alla fine: non c’è mai un
varco, mai uno spiraglio perché si affacci un altro sentimento. qui è ancora tutta
caricata di furore e di collera, e si presenta in modo ingrato, con quest’aria spinosa,
tutta ispida, a punte aggressive. La persistenza costante del ritmo puntato è il
contrassegno della univocità espressiva. «Il tutto – scrive l’Abert – va intensificandosi
sempre più e alla fine si scarica nella selvaggia coloratura.» Anche le osservazioni del
Breydert vanno tenute presenti. I grandi salti del canto di Elvira dànno «l’impressione
di un eccesso di energia». Appunto perché procede per ampi intervalli, e non per gradi
contigui, si potrebbe quasi dire che Donna Elvira non canta melodie, ma successioni di
accordi spezzati. La tragedia di Donna Elvira è appunto quella di aver ragione, cosa
che non serve a nulla contro ragioni di altro ordine, e che non le impedisce di figurare
come una terribile scocciatrice. Vari scrittori ne indagano la complessa personalità.
Secondo l’Abert, ogni intento pedagogico esula da Elvira, anche se ha l’aria di volere
aprire gli occhi a Zerlina e salvarla dal pericolo. In realtà di Zerlina non gliene importa
niente, e se gliene importa è solo perché ci vede una rivale. La sola cosa che le
importa è riconquistare Don Giovanni. L’odio che esplode nelle sue esclamazioni è
soltanto un rivestimento caduco dell’amore persistente, e si scioglierebbe al minimo
calore di tenerezza. La sua collera vendicatrice, scrive lo Hocquard, «è più dovuta
all’amore che al dispetto, e al desiderio violento di riconquista. Se ella allontana
Zerlina, è meno per proteggere l’inesperta contadina che per conservare il proprio
bene». «Durezza compassata ed eccesso freddo» rileva anche il Jouve in questa breve
aria, «priva di sfumature». Più che esserne afferrati, se ne ammira la violenza verbale.
Tutti rilevano l’evidente volontà mozartiana di stabilire un contrasto, il più netto
possibile, con la tenerezza amorosa del duetto precedente. Di qui lo stile arcaico e
barocco di quell’«ostinato» ritmico che non demorde neanche per una battuta. Il
suono aspro degli archi soli accentua la durezza rimbalzante del ritmo puntato. È
come se gli strumenti a fiato venissero esclusi quasi per un sospetto di eccesso
d’umanità e di vocazione melodica. all’umore aggressivo della povera Elvira, che coi
suoi urli e i suoi sacrosanti rimbrotti riesce a rendersi insopportabile come una
predicatrice dell’Esercito della Salvezza. Scena undicesima: Don Anna e Don Ottavio
con Don Giovanni il tutto è un recitativo secco (i primi avevano giurato vendetta ma
non sapevano a chi). Don Giovanni esordisce con: “Mi par ch'oggi il demonio si
diverta / d'opporsi a' miei piacevoli progressi: / vanno mal tutti quanti.” Mila qui fa una
riflessione di come sia la figura di Don Giovanni come un seduttore in “pre-
pensionamento” poiché egli non seduce nessuna donna in questa opera. Entra Don
Ottavio e Don Anna e ciò che Don Giovanni non vorrebbe. Donna Anna e Don
Giovanni si conoscevano già, il secondo è sospettoso e un po’ impaurito. Donna Anna
dice a Don Giovanni: “Amico. A tempo / vi ritroviam: avete core, avete / anima
generosa?” Don Giovanni è sospettoso e risponde: “(Sta' a vedere / che il diavolo le ha
detto qualche cosa.) / Che domanda! Perché?” Donna Anna ha bisogno dell’amicizia di
Don Giovanni che prontamente risponde “con molto fuoco” di “comandarlo”. Mila: Il
meccanismo teatrale dell’opera si mette in moto lentamente e, come abbiamo detto,
con una certa fatica. Le vicende fino qui un po’ disperse si coagulano sotto l’azione
motrice di Donna Elvira, che sopraggiunge ripetutamente a smascherare Don
Giovanni. In questo recitativo lo vediamo dapprima solo, meditare malinconicamente
sulla sfortuna che da un po’ di tempo gli manda a monte le sue imprese. È questo uno
dei passi dov’è più chiaramente enunciata una circostanza da tener presente: Don
Giovanni, quale lo vediamo nell’opera, è un seduttore sfortunato. Gli vanno tutte
male: prima con Donna Anna, poi con Zerlina. La sua disinvoltura e la sua sicurezza
mascherano appena la verità ch’egli è ormai sulle soglie della vecchiaia. E c’è in questo
suo declino una vena di patetico, che forse è la più consistente, anzi l’unica nota di
sostanza psicologica di cui il personaggio sia dotato. Don Giovanni non è tanto una
creatura umana, così e così caratterizzata, come sono tutti gli altri personaggi, quanto
piuttosto una specie di luogo geometrico, un centro a cui convergono dalla
circonferenza tutti i fili e i raggi dell’azione. Mentre Don Giovanni medita sui suoi
contrattempi, sopraggiungono Don Ottavio e Donn’Anna, che chiedono il suo aiuto.
Don Giovanni, che già temeva d’esser stato scoperto, respira, e cavallerescamente
offre i suoi servigi, il suo braccio, la spada, il sangue, i beni a quella ch’egli chiama
sempre, con significativo tratto di eleganza libertina, «bella» o «bellissima» Donn’Anna.
Il recitativo serve a collocarci Don Giovanni nell’ambiente dei suoi pari. Vediamo qui
che è conosciuto e stimato da Don Ottavio e Donna Anna. È uno dei loro. È un dialogo
di «gente bene» ch’essi conducono nel recitativo, dialogo che viene rotto da
un’ennesima irruzione della tremenda Donna Elvira. Scena dodicesima: Vi sono in
scena tutti i Don ovvero Donna Anna, Don Ottavio, Don Giovanni e Donna Elvira. Entra
in scena Donna Elvira che da del “mostro” a Don Giovanni. [N.9 – Quartetto Andante
con Archi, 1 Flauto, 2 Clarinetti in Si bem, 2 Fagotti e 2 Corni in Si bem] attacca Donna
Elvira, questo è un concertato d’azione, ciò accade in maniera rapida. Donna Elvira
dice a Donna Anna di non fidarsi di Don Giovanni perché ha già tradito lei e vuole
anche tradire te. I due (Anna e Ottavio) non si aspettavano questa accusa nei confronti
di Don Giovanni per via del suo 27 Don Giovanni: “compie il misfatto suo col dargli
morte”. Mozart pone il recitativo prima dell’Aria, seguendo la forma classica, il
recitativo non sbriga solo i fatti ma è portante di drammaticità acuta, Donna Anna sta
elaborando i traumi come una sorta di autoterapia, ritorna il rimorso. Il flusso dei
pensieri è molto libero e il recitativo avendo uno schema più libero può seguire
maggiormente il passaggio di emozioni e il flusso verbale di Donna Anna, ciò è la
spiegazione del cambiamento del tempo in continuazione che deve stare dietro alle
parole, lo stesso vale per l’armonia che valorizza sempre di più. Il recitativo si carica di
melodia, come se si costruisse durante il racconto. In questo caso il recitativo viene
accompagnato da tutta l’Orchestra. Qui siamo all’Aria di Donna Anna [Aria con Archi, 2
Oboi, 2 Fagotti, 2 Corni in Do.] Il recitativo ha caricato la tensione. Un’aria parlata,
verso Don Ottavio, dove Donna Anna chiede vendetta. Donna Anna dice: “se l'ira in te
langue / d'un giusto furor” capendo che Don Ottavio non prova lo stesso furore che lei
prova. Capisce che forse non è la persona giusta per vendicarsi. Mila dice che Donna
Anna esprime in un senso unitario la vendetta della morte del padre. Vi sono dei
tremoli con degli scatti (verso alto) che ricordo lo scatto di nervi, ma non vi è solo
questa caratteristica. Quando Donna Anna dice: “il padre mi tolse” il tremolo
scompare, il nervoso scompare e il tema diventa più cantabile quasi tenera, si attenua
con il ricordo al padre. Nella seconda parte da “Rammenta” a “furor” scompare tutto e
vi è il componimento affannoso di chi ricorda un trauma, nella parte finale ripresa
precedentemente, lei usa i toni più commuoventi ripresi in “il padre mi tolse”. La
forma è molto tradizionale A-B-A’. Si ripete la seconda sezione: “ Rammenta la piaga /
del misero seno, / rimira di sangue” come una sorta di B’ ma è giusto un attimo dove
si sente il ritmo ansimante, come una reminiscenza. Nel finale abbiamo una chiave di
lettura di questo personaggio un po’ ambiguo che smorza da un fortissimo si passa ad
un piano, si sgonfia. Ciò ha un significato contradditorio ha livello di emozioni, qui non
si chiude con una grinta totale. Lei prova un sentimento contradditorio verso Don
Giovanni, c’è l’aggressività ma il finale smorzata deciso da Mozart si palesa l’ambiguità
di Donna Anna. Mila da un senso a ciò con un senso di colpa per aver ceduto quella
notte a Don Giovanni, consapevole o no, che provoca il senso di vergogna o
inadeguatezza in ambito sociale e relazionale. Da qui Donna Anna ha un
comportamento sempre contradditorio verso Don Giovanni. Ella alla fine lascia la
scena. Nella versione del Don Giovanni di Praga Don Ottavio lascia la scena insieme a
Donna Anna. In quella definitiva, viennese, solo Donna Anna lascia la scena e si
aggiunge l’aria di Don Ottavio. Mila: Allontanatosi Don Giovanni, Anna dà un grido:
«Don Ottavio, son morta!». E abbiamo qui un grandioso recitativo obbligato, cioè
accompagnato dalla piena orchestra. Questo è la chiave di volta della vicenda
drammatica: in esso Anna racconta finalmente che cosa accadde in quella terribile
notte quand’ella fu aggredita in casa da uno sconosciuto. Il recitativo è un capolavoro
del genere, e consente a Donna Anna un’evidenza plastica, quasi morbosa, nella
rievocazione della tentata violenza di cui fu vittima. a ciò, i mezzi musicali di cui Mozart
si serve sono principalmente due: l’incessante gioco delle modulazioni, e l’alternanza
di due movimenti: Allegro assai e Andante. Donna Anna richiama l’attenzione di Don
Ottavio, che le risponde, ed essa gli rivela: «Quegli è il carnefice del padre mio!». L’ha
riconosciuto dalla voce. Quindi si ha il primo mutamento di tempo: Andante, con
passaggio al tono scuro di mi bemolle minore per mezzo d’un accordo di settima di
dominante. Una discesa sincopata degli archi introduce il racconto. che si sprigiona
dalle lunghe armonie tenute degli archi, fanno di questo Andante uno dei più grandi
recitativi nella storia del teatro musicale. Il gioco delle modulazioni, come quello dei
mutamenti di tempo, si fa serrato. Il racconto di Anna passa da mi bemolle minore a si
minore. Il racconto di Donna Anna riprende in sol maggiore, e questa volta
«stringendo il tempo», fino a tornare nel I Tempo, cioè Allegro. L’orchestra pone qui
interiezioni di tre note «staccate» ascendenti, note «cattive», scrive il Jouve, che
segnano la battaglia, l’affanno oscuro della lotta. Le parole: «che a forza Di
svincolarmi, torcermi e piegarmi» sono separate da tante pause nelle quali par di
sentire il respiro affannoso della lotta. I toni viaggiano da sol minore («Non viene
alcun») a mi minore («m’a􀉽erra»), a la minore («Alfin il duol») per passare in fa
maggiore all’esclamazione, veramente infelice e quasi comica, di Don Ottavio: «Ohimè!
respiro!». Abbiamo così raggiunto la tonalità nella quale scatta immediatamente,
rombando nei bassi come il tuono, l’aria della vendetta. È un’aria tutta compatta e
prorompente nella regolare forma tripartita. In un certo senso potrebbe sembrare
convenzionale, dopo la libertà di forme del quartetto, regolata soltanto dal moto
drammatico dei sentimenti. Il meccanismo espressivo è rettilineo ed elementare:
Donna Anna chiede ferocemente vendetta; ad alimentare in se stessa, e soprattutto in
Ottavio, la fiamma dello sdegno vendicatore rievoca l’immagine sanguinosa del padre
assassinato. Solito schema A - B - A. L’aria, ha scritto il Jouve, «trasforma in violenza
l’affanno veemente del precedente racconto». In essa «l’erotismo ferito di Donna Anna
avanza, simile a qualche vittoria antica». Non è da respingere senz’altro il sospetto che
nell’insistenza accanita, implacabile con cui essa chiede il castigo di Don Giovanni, ci
sia un certo nascosto e inconfessato bisogno di castigare se stessa; di vendicare un
affronto anche più intimo, che l’attentato di Don Giovanni avrebbe portato alla sua
virtuosa onorabilità. Ch’ella divampi ancora di vergogna per avere forse ceduto, forse
gradito l’amplesso del seduttore. Ma anche senza queste complicazioni, il dolore per
la morte del padre e la sua fierezza di nobildonna andalusa sono motivi sufficienti per
l’impeto aggressivo 30 dell’aria, per la sua durezza vendicativa. Secondo il Dent, Anna
non è un personaggio simpatico: è «dura fino alla scortesia». Certo, non è una natura
amorosa come Donna Elvira. quest’aria è addirittura pervasa da una «frenesia
demoniaca – come scrive lo Hocquard – tanto più forte in quanto non ha portata
amorosa ed è in questo senso inespressiva. È la passione allo stato puro, la passione
per la passione, l’esaltazione ossessiva, la volontà assoluta del trionfo». Dritta come
un fil di spada, Donna Anna è l’incarnazione della vendetta. Anche lo Hocquard, che la
difende, la descrive «tagliente e dura: una figura di prua», e la gratifica dell’appellativo
di «terribile amazzone». Grande antagonista di Don Giovanni non è Donna Anna, ma il
Commendatore. Donna Anna è soltanto il braccio secolare, il carabiniere, il
Commissario di Pubblica Sicurezza incaricato di rintracciarlo e arrestarlo, per condurlo
al Giudice. E il Giudice è il Commendatore. Aria inizia con un agitato tremolo di violini
e viole, sotto cui violoncelli e bassi fanno tosto intendere una rapida terzina
ascendente di biscrome, quasi un brontolio lontano di tuono. Le frustate di terzine
ascendenti di biscrome sono le stesse che avevamo notato nella prima aria di
Leporello, «Notte e giorno faticar»: sono un gesto di energia, comica e buffonesca in
Leporello, tremendamente seria in Donna Anna. Tra questo gioco di echi minacciosi
s’inserisce la voce con una frase a grandi intervalli di stile tragico, ripetuta tre volte,
ogni volta un grado più su. Il cambiamento lo esige il quarto verso della sestina: «che il
padre mi tolse». Al ricordo del padre la fierezza rettilinea di Anna si spezza e dà luogo
a uno di quei tratti di tenerezza che in lei non sono frequenti. La volontà di vendetta
s’impenna più fiera. nel loro gioco di echi a canone è coinvolta la voce, i cui ampi e
scattanti intervalli sono doppiati dai violini primi, anche la voce si sospende sopra un
lungo acuto alla dominante, prima di ripiombare con decisione sulla tonica. Ha qui
inizio la sezione centrale dell’aria, sulla seconda sestina: tutta affanno, in tono minore,
sopra l’accompagnamento agitato degli archi, mentre fagotti e oboi inseriscono
delicati incisi melodici. È un lamento, un lamento visionario in cui Anna evoca
l’immagine sanguinosa del padre per scuotere lo sdegno di Don Ottavio. Fine che non
è tale, perché subito s’inserisce un’embrionale ripresa della sezione centrale: appena
due battute e mezza, ove il carattere affannoso e dolente è ancora accentuato dalla
continua alternanza di «piano» e «forte» a ogni quarto di battuta. Tutto seguito da una
«coda» tumultuosa dove pare che la voce si lanci ripetutamente all’assalto di quella
dominante acuta che è il tetto dell’aria. Scena quattordicesima: Don Ottavio è da solo
per la prima volta e vi è un recitativo secco. Si è capito che Don Giovanni è l’assassino
e Don Ottavio cerca sempre in modo galante di “scoprir il vero” anche se la verità si è
ritrovata. Don Ottavio sente con il dovere di sposo e amico di dover “disingannarla” e
vendicare la morte del padre di Donna Anna. [N.11- Aria Andantino sostenuto con
Archi, 1 Flauto, 2 Oboi, 2 Fagotti e 2 Corni in Sol] Inizia la prima aria di Don Ottavio,
l’orchestra qui accompagna e basta. Le frasi sono iper-romantici, molto smielato. Don
Ottavio è una sorta di seguace molto amoroso di Donna Anna, non ha uno spirito
critico tutto suo e ciò che piace a Donna Anna piace a lui. Il registro è acuto, egli è un
tenore, ha quasi un registro femminile. Ha una vocalità che ricorda la modalità
settecentesca pre-mozartiana che ricorda il canto femminile. Sicuramente è una voce
effemminata. Mila esagera dicendo che la scelta della voce simile all’età pre-
mozartiana è dovuta alla scelta drammatica, e non al ritorno un po’ retrò dell’opera,
delineando una linea sessista di “passività femminile”. Atteggiamento di Don Ottavio è
l’inetto all’azione, non ha spontaneità, si fa trainare. Più che essere innamorato di
Donna Anna sembra essere innamorato della sua figura di innamorato. Questa aria è
lunga, l’azione si ferma completamente. Nell’accompagnamento si legge e si palesa la
stasi anche nella forma dell’aria con A-B-A’. La sezione A, che va da “Dalla sua pace” a
“morte mi dà” è caratterizzata dal canto spiegato, è un’aria poco moderna, guarda il
passato. Tutto si blocca. L’Orchestra segue degli accordi fermi. La sezione B che segue
ha un descrittivismo quasi madrigalistico, musica cerca di descrivere quelle immagini,
con “ira” che ha un tremolo, con il pianto che ha una discesa cromatica, usata dal
Rinascimento, seguendo esempi molto prebarocchi. Don Ottavio esce di scena. Mila:
Sullo slancio di un’aria così compatta e impetuosa come quella di Donna Anna,
parrebbe che i due personaggi debbano uscire di scena d’impeto. Invece Don Ottavio
indugia ancora, per esprimere i suoi dubbi circa quanto Donna Anna ha raccontato.
Gli pare incredibile che «di sì nero delitto» abbia potuto macchiarsi «un Cavaliero».
Vuole fare le sue indagini, «discoprire il vero», per disingannare, oppure vendicare,
secondo i casi, Donna Anna. Questa parte non c’era a Praga, egli partiva insieme a
Donna Anna. Ovunque la si voglia collocare, quest’aria dà il tracollo al personaggio di
Don Ottavio. Quest’aria che stampa il suo carattere d’uomo inetto all’azione, quale poi
il personaggio si confermerà anche in seguito, con la seconda aria, «Il mio tesoro
intanto». Il contrasto con quell’autentico uomo d’azione che è Don Giovanni finisce
per apparire quasi derisorio. Don Ottavio, scrive l’Abert, è «un uomo che sta a
guardare e discorre, ma non agisce». Tuttavia, c’è chi respinge questa interpretazione,
in particolare lo Hocquard. Egli difende Ottavio a spada tratta dall’accusa di «nullità
d’azione». Ottavio «non diventa che ciò che era già: il fidanzato della sua amante. Ama,
e questo è il suo unico talento». Per l’Abert quest’aria, pur essendo drammaticamente
un disastro, è «uno dei più bei canti d’amore di Mozart», di gusto italiano senza falso
sentimentalismo. Don Ottavio per Hocquard è un personaggio dell’azione interiore.
«Per noi – scrive lo Hocquard – su una cosa non c’è ombra di 31 dubbio, ed è che
Mozart sta dalla parte di Ottavio.» Non solo, ma lo scrittore va oltre: «è probabile che
Mozart vi ha messo molto di se stesso e delle sue esperienze amorose, delle sue
sconfitte, della sua timidezza». Interpretazione dell’eroina Anna, che nutre, sotto odio
ufficiale, un segreto amore per Don Giovanni allora la figura di Don Ottavio è da
inetto. L’aria in questione (come del resto anche l’altra del secondo atto) è una
bellissima aria di stile antico. Gounod: «Un altro fascino della musica di Mozart è la
stretta parentela che lega tra loro i diversi membri del periodo musicale». Gli fa eco il
Dumesnil: «Mai egli insiste, mai egli sottolinea. La ripetizione degli stessi effetti, gli
svolgimenti inutili, egli li ignora». L’aria in questione, che pare tanto lunga in teatro, e
può determinare perfino un moto d’impazienza nello spettatore è in realtà assai
breve, una mini-aria tripartita, con sezioni minuscole, d’un canto tutto di grazia. Breve,
dunque, ma chiaramente tripartita quest’aria. La prima sezione, in sol maggiore,
esaurisce la prima strofa di sei quinari. La seconda, in sol minore, dove la melodia è
più inquieta, e sembra quasi svolazzare timidamente agitata, in qua e in là, ricopre la
seconda strofa, poi, su un punto coronato dell’orchestra alla dominante (re), la voce,
con un vocalizzo di struggente dolcezza, risale alla ripresa. Scena quindicesima: In
scena c’è Leporello, dopo entra Don Giovanni. È un recitativo secco. Ci stiamo
avvicinando alla conclusione del Primo Atto con la festa in casa di Don Giovanni.
Leporello fa dei commenti pseudo-moralistici. Leporello era rimasto solo con i
contadini mentre stavano andando alla casa di Don Giovanni. Il commento moralista
di Leporello avviene quando egli è in una situazione sgradevole, come in questo caso
dove in questo caso egli si ritrova la gelosia di Masetto. Leporello dice a Don Giovanni
cosa ha fatto con i contadini e racconta che sul bello della festa è arrivata Zerlina
accompagnata da Donna Elvira. Leporello quando arriva gridando Donna Elvira sta
zitto e quando gli sembrava che ella si fosse sfogata ha tratto fuori Donna Elvira ed ha
chiuso a chiave la porta, Don Giovanni elogia Leporello e prolunga la festa fino a che
non viene notte. Il racconto avviene sempre con comicità. I due si completano.
Entrano a casa. [N.12- Aria Presto con Archi, 2 Flauti, 2 Oboi, 2 Clarinetti in Si bem] Qui
inizia l’aria di Don Giovanni. Egli è il protagonista e non ha avuto ancora un’aria. Egli
sfugge sempre. Unico momento in cui lo abbiamo visto era con Zerlina ma egli stava
fingendo. Non abbiamo mai visto da solo Don Giovanni. Questa è l’unica aria veritiera
di Don Giovanni. Aria dialogica dove parla anche con Leporello. Ritorna la “lista”. Don
Giovanni mette in parola il suo amore per le ragazze, con la richiesta a Leporello di
ricercarne altre in piazza. Con un inno quasi dionisiaco al ballo e all’amore. Ciò si
conclude con “Ah! la mia lista / domani mattina / d’una decina / devi aumentar”.
Musicalmente abbiamo un riscontro frenetico con la mancanza di una melodia da
memorizzare, è molto rapida e frenetica. Dà l’impressione che la vera personalità di
Don Giovanni debba sempre essere celata. Mozart dà a Don Giovanni un’aurea di
volatilità, egli non è fisso. Don Giovanni sfugge e ha una vocazione compulsiva verso
l’infinito. L’aria dura poco ma è molto espressiva. Anche se non vediamo mai Don
Giovanni, egli è il centro dell’opera, tutte le azioni degli altri personaggi sono dovute
grazie o a colpa di Don Giovanni. Mila confronta con Le Nozze di Figaro dove il gruppo
sociale è organizzato di una reta di conoscenze reciproche, invece nel Don Giovanni
tutti sono collegati dall’eroe misteriosamente sfuggente, una volta che Don Giovanni
cessa di esserci il gruppo di personaggi si sfalda e tutti vanno in direzioni diverse, Don
Giovanni è il fulcro dell’opera che sfugge e che non vediamo bene. Importante ancora
è la “lista” ovvero il risultato concreto di quella ricerca spasmodica verso l’infinito che
lo rassicura e riassume quella tensione irraggiungibile. Nei fatti questa è un’aria che
invita a festeggiare e a godere, ma nello stesso tempo ciò produce un senso di
frustrazione verso la corsa verso l’infinito, esprimendo due cose contradditorie
delineando quindi un personaggio, anche qui, ambiguo. Nella musica ci sono dei
forte-piano delineanti dei contrasti interni di Don Giovanni. I due escono di scena.
Mila: Ritornano in scena i personaggi dell’altro mondo, o meglio dell’altro emisfero: gli
umili e le canaglie, mentre Donna Anna e Don Ottavio, e Donna Elvira, sono la gente
«bene». Ritroviamo Don Giovanni e Leporello in uno dei loro colloqui confidenziali: un
dialogo malizioso. Don Giovanni non smentisce il proprio essere nemmeno attraverso
il recitativo. Esso presenta una forte energia ritmica: è quasi sempre fatto di dattili e
anapesti. Ciò gli conferisce un tono di disinvoltura sprezzante e futile, dove si
manifesta la natura del padrone, di signore, di Don Giovanni. nel Don Giovanni v’è
spesso invece graduale raggiungimento della tonica attraverso la seconda superiore.
Qui, nel recitativo a dialogo tra Don Giovanni e Leporello, le battute vengono
rimbalzate dall’uno all’altro come una palla. Leporello fa la parodia della quasi-
melodia-di-fanfara del recitativo di Don Giovanni. Se si elimina l’aria di Ottavio, questa
fronteggiava direttamente quella di Donna Anna. Sono due infatuazioni opposte, ma
ugualmente univoche. Don Giovanni pregusta l’ebbrezza della festa imminente. La
musica non descrive né illustra questa eccitazione, ma è l’eccitazione stessa. Sembra
davvero l’equivalente sonoro del gioco di bollicine in un calice. Uno «scatenato
fenomeno naturale», la definisce l’Abert, «una tempesta del sensuale impulso di vita».
Principale elemento dell’aria è il ritmo. La melodia è quasi inesistente. Ma il ritmo ne
estrae sempre nuove figure e formulazioni, con la persistenza vertiginosa d’un
movimento di trottola. È un moto perpetuo, dove si stabilisce, secondo il Breydert,
«un contrasto singolare tra la stagnazione armonica e il metro puramente esterno,
contrasto ottenuto sia col ritmo, sia coi 32 piuttosto scaltra. un’aria doppia, come
quella del catalogo, di Leporello. Due arie, si potrebbe dire, la prima delle quali
tripartita, A - B - A. La prima aria si svolge, potremmo dire, come una carezza:
l’immagine ritorna presso quasi tutti i commentatori. L’Abert si fa garante che nella
dolcezza della cantilena non s’insinua nessun patos inopportuno né falso
sentimentalismo. Però, tantino di lezioso la nostra cara Zerlina se lo porta sempre con
sé, ed è quello che la rende tanto gradita agli uomini, e a Mozart in particolare.
Giustissimo dire «cantilena» invece di melodia: c’è una specie di insistenza tutta
avviluppata, come dice il Jouve, nella «carezza degli archi e dei legni». Il «violoncello
obbligato», cioè il primo violoncello isolato in funzione solistica «circonda ogni idea
della parte vocale con le sue figurazioni lusinghevoli». La melodia vocale cantilenante
ha un andamento discendente, è come tirata giù regolarmente dalla forza di gravità.
Allora la voce reagisce con quel periodico saltino fino alla tonica superiore che è come
il movimento vivace e rapido di un uccellino. La sezione centrale, alla dominante (do
maggiore), introduce nell’orchestra l’elemento dei trilli ripetuti dei violini, che ornano
la melodia vocale, e prolifereranno ancor più nella breve «coda». Solita ronda
mozartiana di abbandono al piacere, il regresso verso la felice età dell’oro, la
riconquista del paradiso perduto. L’inno alla pace ritrovata dopo le baruffe, alla
concordia dell’amore corrisposto. Di norma, queste ronde della felicità in 6/8 sono
duetti, come quello che già abbiamo visto di Don Giovanni e Zerlina, come quello di
Susanna e Figaro nel finale delle Nozze. Questo costituisce una curiosa eccezione. In
realtà si tratta d’una specie di duetto camuffato, perché Masetto fa ancora un poco il
broncio, e Zerlina ha fatto tutto lei, ha accettato le immaginarie botte di Masetto le ha
prese umilmente in santa pace, e ora basta, ora ritiene di avere pagato il suo conto e
reclama la sua parte di felicità: «Pace, pace, o vita mia…».Alla fine dell’ultima strofa,
ogni volta che ritornano le parole «vogliam passar», sull’ultima sillaba la voce si
abbandona a vocalizzi. Si noti ancora un particolare finissimo di struttura. Alla lettura
del testo poetico – tre quartine di ottonari – parrebbe ovvio che le prime due quartine
debbano servire per la prima aria tripartita: A la prima strofa; B la seconda strofa; la
ripresa di A utilizza ancora e ripete la prima strofa. La terza strofa resta quindi
destinata alla seconda aria, l’Allegro in 6/8. Ma per questa seconda aria, l’irresistibile
rincorsa al piacere, il canto della pace ritrovata e della recuperata età dell’oro, è chiaro
che a Mozart servivano solo gli ultimi tre versi della quartina prepara una nicchia con
una piccola «coda» in calce alla precedente aria tripartita, una «coda» tutta trapunta di
trilli frullanti dei violini. In parole povere, avendo a disposizione per le due arie dodici
versi ripartiti in tre quartine, Mozart, anteponendo le esigenze della verità drammatica
a quelle di un’oziosa simmetria, ne spende nove, cioè due strofe più un verso, per la
prima aria tripartita, e costruisce la seconda aria, in 6/8, sopra tre versi soli, cioè su
una quartina decapitata. Un breve recitativo di Masetto e Zerlina segue l’aria di
quest’ultimo personaggio. Masetto è sul punto d’essere abbindolato dalle moine di
Zerlina, e quasi se ne rammarica, nell’atto di arrendersi: «Siamo pure i deboli di
testa!». Ma i suoi sospetti sono subito riaccesi dall’inquietudine che Zerlina dimostra
sentendo la voce di Don Giovanni fuori scena, che si avvicina per dare inizio alla festa.
Zerlina, spaventata, vuol nascondersi, e Masetto ne deduce ch’ella abbia commesso
qualche imprudenza con Don Giovanni. Perciò si propone di nascondersi lui stesso, in
qualche nicchia del giardino, per spiare il contegno del cavaliere e di Zerlina. Ha inizio
così il colossale finale primo dell’opera, considerato da quasi tutti gli studiosi come la
massima, o per lo meno la più complessa realizzazione drammatica di Mozart. Mix di
alternanza di scene e pezzi musicali. Il finale comincia con un duetto di Masetto e
Zerlina, allegro assai in Do maggiore 4/4 e poiché i due erano impegnati nella scena
precedente, il numero di scena non cambia. Cambierà tra poco, con l’arrivo di Don
Giovanni, sebbene nella musica non si avverta nessuna interruzione. Tutto il finale si
presenta quindi come una grandiosa macchina teatrale, ricca di coraggiosi effetti
anche scenici. Curiosamente l’Abert afferma che questo finale non può paragonarsi,
cioè poeticamente, col finale primo delle Nozze di Figaro. Secondo lui esso non cresce
dall’interno e non sviluppa l’azione in modo coerente, ma piuttosto inanella
meccanicamente, e sia pure con abile intensificazione, scene diverse. Non gli sembra
«un finale organicamente costruito». Eppure, una sua linea inesorabile questo finale
ce l’ha. Si conclude qui, partendo dal semplice duo Masetto-Zerlina, quella struttura «a
valanga» che il Dent ha indicato nel primo atto dell’opera: cioè, la caccia a Don
Giovanni che si è a poco a poco organizzata dopo il suo smascheramento. In questo
finale tutti gli cadono addosso: la valanga crolla con gran fracasso sul seduttore. Col
finale Mozart si butta a capofitto in quel tipo di musica che solum è sua: quella musica
drammatica modellata sul corso dell’azione, ch’egli intuiva confusamente nella sua
giovinezza e che non trovava in modo pienamente soddisfacente nella
contemporanea opera italiana, soprattutto nell’opera seria. Siamo dunque ora di
fronte a un seguito di scene che si concatenano rapidissime, con un minimo di
simmetrie formali, dando l’illusione di un discorso musicale continuamente rinnovato,
secondo le esigenze dell’azione. In realtà non manca mai un’impalcatura di piccole
strutture. Si comincia col rapidissimo Allegro assai, in do maggiore, 4/4, di Zerlina e
Masetto. Ravvisiamo qui almeno tre elementi musicali distinti, ravvicinati e
congiuntamente operanti. Uno è la sillabazione veloce di Masetto che cerca un
nascondiglio per spiare gli atti di Don Giovanni con Zerlina non c’è praticamente
melodia, ma solo ritmo affannoso e l’affermazione armonica del tono di do maggiore
la frenesia di movimento si placa: sulle parole «c’è una nicchia» Masetto accenna una
melodia rotonda. 35 Tocca poi a Zerlina riprendere la recitazione affannata. Si omette
la melodia «rotonda» di Masetto e si passa subito a un attivo sfruttamento della
oscura frase ascendente, palleggiata quasi a canone dai bassi ai violini (insieme con la
voce) e ai legni. Subentra qui, in sol maggiore, la sezione B della minuscola e assai
libera forma ternaria che questo pezzo costituisce. Suo soggetto è l’ostinazione di
Masetto. Quell’ostinazione cocciuta e contadinesca che abbiamo già ben conosciuto
nella sua aria «Ho capito, signor sì». Questa volta l’ostinazione di Masetto è racchiusa
nella ripetizione scampanante d’un intervallo discendente di terza, Zerlina lo ripete
anche lei, quasi per constatare, prendere atto della cocciutaggine di Masetto. Vi è il
gioco dell’intervallo ostinato di terza: una volta Masetto, una volta Zerlina, un’altra
volta Masetto, un’altra volta Zerlina, e infine ancora una volta Masetto, la cui
testardaggine è giusto che abbia l’ultima parola; poi si ritorna a un liberissimo «da
capo», in do maggiore, della frase di concitazione e di affanno. Liberissimo, perché qui
le due voci, invece di dire l’intera frase musicale a turno, si intersecano di continuo in
piccolissimi frammenti sbocconcellati e sottovoce. Scena diciassettesima: Vi sono
Zerlina, Don Giovanni, Servitori, Contadini e Contadine. La fanfara del piacere
introduce la scena e Don Giovanni sveglia i contadini e i servi ripetono, tutti devono
andare nella stanza del ballo. Tutti tranne Zerlina e Don Giovanni escono. Mila: Senza
che la musica subisca alcuna interruzione si apre una nuova scena, perché arriva un
nuovo personaggio, Don Giovanni con servi. Masetto si nasconde precipitosamente
nella sua nicchia. Don Giovanni non fa che cadenzare rumorosamente in do maggiore,
rimbalzando la dominante a tonica in una specie di fanfara dell’allegria. Tutta
l’orchestra rimbomba di timpani e trombe, come in una serenata: frullano i trilli dei
violini, squillano i fiati in gran numero. Nessun contenuto melodico, ma solo ritmico e
armonico. Gli strumenti sbattono continuamente il solito ritmo anapestico di invito
festivo a stare allegri. È il panorama un po’ squallido dell’allegria dei gaudenti: basta
tanto poco a stordirli e metterli di buon umore. Scena diciottesima: Vi sono Zerlina,
Don Giovanni e Masetto nascosto. Il tempo cambia, siamo in andante, cambiano gli
strumenti che diventano Archi, 2 Flauti, 2 Clarinetti in Do, 2 Fagotti, 2 Corni in Fa. Don
Giovanni riprende il suo corteggiamento con la ragazza. La musica cambia e diventa
un duetto garbato e attraente, qui Don Giovanni però deve concludere. La musica si è
trasformata, Zerlina vuole lasciare la stanza ma viene trattenuta da Don Giovanni che
ancora una volta incalza il suo voler concludere. Don Giovanni vuole andare nel loco
dove è nascosto Masetto. Qui Zerlina dice:” (Ah, s'ei vede il sposo mio, / so ben io quel
che può far.)”, qui però vi sono due versioni del libretto dove quel “s’ei” che significa
che Masetto prevarrebbe su Don Giovanni passa alcune volte ad essere “S’il vede” che
significa prettamente l’opposto. Se nel testo Zerlina rifiuta l’avance di Don Giovanni
nella musica vi è un canto estremamente dolce, non ci sono contrasti tra i due, tanto
che cantano la stessa melodia, una musica garbata, che segue il duetto del casino,
anche se lì Zerlina era come incantata da Don Giovanni. Si presenta ancora il tema
dell’ambiguità dove il testo rifiuta le avance di Don Giovanni mentre la musica lascia
spazio. Ella rifiuta Don Giovanni lì per via del fatto che Manetto è nascosto. Don
Giovanni apre la nicchia dove era nascosto Manetto (da due personaggi a tre), lo vede,
e dice, messo alle strette: “La bella tua Zerlina / non può, la poverina, / più star senza
di te.” ovvero una scusa inventata che viene riferita però dalla musica che qui compie
cinque battute con due note ripetute sempre in un accompagnamento banale. Il tutto
è dovuto al fatto che Don Giovanni sta dicendo la prima cosa che ha in mente. Vi
segue poi il terzetto dove tutti vanno al ballo. Ciò avviene con un cambio di tempo che
diventa Allegretto con Archi, 2 clarinetti in Do e 2 corni in Fa. Mila: Anche qui non v’è
interruzione musicale: sull’ultima nota dei servi, in lontananza, si apre il nuovo
episodio, un Andante, in fa maggiore. La nuova tonalità, e il ritmo dispari (3/4, mentre
la scena precedente era in 4/4) cambiano interamente il panorama. Allontanati gli
importuni (Masetto è nascosto), Don Giovanni e Zerlina restano soli. Comincia la
seduzione. Su un tranquillo pedale dei violini secondi e viole fiorisce una melodia
incantevole dei violi-ni primi: la melodia, quasi interamente assente nelle due scene
precedenti, è naturale protagonista della scena di seduzione. Prima prevalentemente
in orchestra, e le voci la parafrasano ma poi la melodia passa nelle voci con
l’implorazione di Zerlina: «Ah lasciatemi andar via», sul ricostituito pedale degli archi.
Qui la povera Zerlina ci fa veramente pena. Vorrebbe davvero sottrarsi alla
fascinazione malefica del seduttore e d’altra parte è come consapevole della propria
debolezza, sa benissimo che cadrà, se qualcuno non la salva. Don Giovanni le fa eco, e
ripete la sua stessa frase melodica con la medesima forma semicircolare, la
medesima dolcissima cadenza semitonale alla fine. La tenerezza è uguale, ma in
bocca a Don Giovanni ha tutt’altro senso: Zerlina implora, e anche Don Giovanni, a
modo suo, implora. Il dolcissimo episodio si anima in un intreccio fitto delle due voci:
mai un duettino amoroso ha impiegato, e nello stesso tempo dissimulato, tanta
sapienza di contrappunto come queste otto battute. Con una modulazione in re
minore, una figura di quattro note, insistentemente ripetuta nei bassi, porta alla
scoperta di Masetto celato nella nicchia. La figura dei bassi è quasi l’immagine fisica,
ma in suoni, di Masetto minacciosamente appiattato. Don Giovanni perde per un
attimo le staffe, ma subito si riprende e sa stare al gioco con disinvoltura. La 36 figura
strisciante dei bassi dura tanto quanto dura il suo disappunto, prova evidente che
quella figura è Masetto: la minaccia di Masetto. Come Don Giovanni riprende il
controllo della situazione, la melodia di Don Giovanni si spiega di nuovo sicura,
sfrontata e baldanzosa come una fanfara: «La bella tua Zerlina Non può, la poverina,
Più star senza di te». Masetto le fa eco, ironico, l’orchestra tace un attimo e da lontano
si ode la contradanza che l’orchestrina comincia a suonare all’interno del villino, primo
anticipo del grandioso intreccio stereofonico di tre orchestre dislocate, in cui si
svilupperà questo finale. Don Giovanni trascina via i due contadini, dentro il fatale
villino dov’egli spera di poter tendere a Zerlina l’agguato decisivo. Scena
diciannovesima: Sta calando la notte. Vi sono in strada Donna Anna, Don Ottavio e
Donna Elvira, questi sono in maschera a cui seguono su una finestra Don Giovanni e
Leporello. Entrano i mascherati, loro vanno alla festa senza invito ma sono eleganti, si
trovano lì per cercare prove conto Don Giovanni. Musicalmente vi è un tema notturno
che si contrappone alla luminosità delle fanfare del piacere. La musica è in Re minore.
Mila definisce che qui vi è il camminar in punta di piedi come un camminar nascosto
di un ladro. Donna Anna è il soprano più acuto. Don Giovanni e Leporello aprono la
finestra, appena si apre si sente in Minuetto con Archi, senza violoncello, 2 Oboi e 2
Corni in Fa. Questa è una danza diegetica, sentita dai personaggi, Si crea
scenograficamente la contrapposizione tra i suoni e i personaggi del piacere
(Leporello e Don Giovanni) e il terzetto delle maschere. Mila mette in relazione il
terzetto delle maschere come costumati che vanno per la prima volta in un luogo di
perdizione. Leporello e Don Giovanni vedono le maschere in strada e Don Giovanni
manda Leporello ad invitare le persone alla festa. Il terzetto dice che sono dal volto e
dalla voce egli (Don Giovanni) è il traditor. Leporello mentre chiude la finestra e quindi
interrompe che gli invitati esterni sentano il Minuetto che elle sono già pronte per
lista. Il motivo si calma, passa ad un adagio più semplice ma con più strumenti. I tre
fanno un breve terzetto: “Protegga (Vendichi) il giusto cielo” che suona e risulta come
un richiamo al sovrannaturale, infatti, Mozart usa una musica religiosa che richiamerà
al Requiem. Il sovrannaturale è l’unica cosa che può garantire la giustizia a loro e far
espiare le colpe a Don Giovanni. Scena ventesima: Siamo in una sala illuminata per
una grande festa da ballo. Vi sono Don Giovanni, Leporello, Zerlina, Masetto, i Servi, i
suonatori, i contadini/e. Tempo diventa allegro con Don Giovanni che fa sedere le
ragazze e Leporello i ragazzi dopo aver finito un ballo. Ritorna la velocità e la frenesia.
Don Giovanni e Zerlina insieme a Leporello hanno capito che Masetto è un bomba ad
orologeria. Mila : Spariscono Don Giovanni, Masetto e Zerlina, inghiottiti dalla
porticina del casino di campagna senza interruzione musicale tre scivolate di quattro
note discendenti dei violini stabiliscono il tono di re minore: il tono del
Commendatore, il tono dell’ouverture, il tono tragico di Don Giovanni. Appaiono sulla
scena tre maschere, in abiti di seta nera. La partitura d’orchestra non reca la
prescrizione scenica indicata invece sullo spartito: «Si va facendo notte». Siamo al
crepuscolo avanzato, quando le cose cambiano aspetto, e i fantasmi prendono corpo.
I tre avanzano come in punta di piedi, e in punta di piedi è la musica, col carattere
puntiglioso e cauto sia del canto. È questo un «topos», un luogo classico della musica
mozartiana, anche puramente strumentale: Sinfonie, Quartetti e Concerti presentano
frequentissimi casi di «musica in punta di piedi». È uno stato d’animo di inquietudine
tragica, di cautela peritosa, di sospetto e di allarme, tipico di chi muove verso un
pericolo ignoto. Come scrive l’Abert, «sotto le maschere sta in agguato la febbrile
inquietudine prima dell’azione decisiva». Per il Jouve, questo terzetto funereo, in
maschera e seta nera, è la «materializzazione dell’angoscia». Il lavoro dell’orchestra, in
semicrome, è «ostinato e temibile. Donna Elvira guida, come quella che più di tutti è
certa dell’identità e delle colpe di Don Giovanni, e replica la sua frase melodica, con
minime variazioni. Donna Anna, invece, va per conto suo, insistendo su un ampio
balzo di ottava e modulando poi momentaneamente dal tragico re minore all’inquieto
sol minore. Stranamente, è lei, questa volta, a temere, ad avere femminilmente paura,
a tremare «pel caro sposo» e per se stessa. La decisione, in questo frangente, è tutta
della femminile Donna Elvira; la cavalleresca e fiera Donna Anna ha paura, è piena
d’affanno e irresoluta. Le tre frasi inquiete di Elvira, Ottavio e Anna esauriscono la
prima delle tre parti musicali di cui è costituita questa scena. La seconda ha inizio con
l’apertura d’una finestra del villino. Ne esce un raggio di luce un brandello di musica.
Fuori il freddo e il buio della notte, l’inquietudine, l’affanno. Dentro, luce, musica, il
tepore confortevole della festa. Lo spiraglio della luce interna sciabola la notte, così
come il minuetto ne occupa gradevolmente il silenzio pieno d’incertezza. Mila descrive
la scena così “si pensi alle pesanti portiere nel cui mistero amano serrarsi anche i più
volgari nightclubs, e al fascio di luce rossa che se ne sprigiona in modo suggestivo
quando qualcuno le socchiude: il timore di Anna, Elvira e Ottavio è lo stesso disagio
della persona costumata e dabbene che per la prima volta s’attenti a metter piede in
uno di quei locali di supposta perdizione”. Si sente il minuetto già partito e Leporello
che indica a Don Giovanni le tre maschere, egli le invita alla festa. Il terzetto
mascherato adotta tal quale la melodia cerimoniosa del minuetto per sussurrare: «Al
volto ed alla voce Si scopre il traditor». Poi l’invito di Leporello, che debutta con un
volgare: «Zi, zi!», come se chiamasse un cane, ma poi assume anche lui un piglio aulico
per porgere l’invito, dopo che Don Ottavio, eterno indeciso, si è fatto sollecitare dalle
donne e finalmente ha risposto. Sempre in tono cavalleresco 37 violini e bassi. C’è da
osservare un particolare, rilevato da Edward Dent: la parte degli oboi, nell’orchestra
grande, non solo è armonicamente bivalente, ossia emette armonie che valgono tanto
per il minuetto dell’orchestra grande quanto per la contraddanza dell’orchestrina. Con
tratto di singolare realismo, che sottolinea la geniale intuizione di «teatro totale» di cui
dànno prova Mozart e Da Ponte in questo elaborato finale, ognuna delle due
orchestrine sul palcoscenico, prima di dare inizio alla sua danza accorda gli strumenti
con quinte vuote dei violini. Tutto ciò mentre procede imperturbabile l’esecuzione del
minuetto. In breve, si viene ad avere un esteso episodio di poliritmia: dapprima due
orchestre procedono contemporaneamente l’una in tempo di 3/4 e l’altra di 2/4; poi a
queste, che continuano, se ne aggiunge una terza, in tempo di 3/8. Questa
sovrapposizione di ritmi crea ancora adesso notevoli difficoltà esecutive. Ognuna delle
tre danze ha un suo carattere: nobile e contegnoso il minuetto, popolare e gioviale la
contraddanza di Don Giovanni e Zerlina, e rusticamente saltata, quasi un ballo di
caproni, la «Teitsch» in cui Leporello trascina Masetto, riluttante e sospettoso. Il
risultato espressivo deriva proprio dalla loro sovrapposizione. il fatto stesso della
difficoltà d’esecuzione (e anche di ascolto) porta a un punto intollerabile la tensione
drammatica che era stata introdotta dal terzetto delle maschere, con la cauta e
inquieta scansione di «Bisogna aver coraggio, O cari amici miei». Nel lento passo del
minuetto, nella sua difficile convivenza con le altre due danze, che solo qua e là
riescono a svettare momentaneamente, si elabora un clima di attesa angosciosa,
come nell’imminenza di un fattaccio che deve succedere: l’accumulo degli strati
musicali forma quasi una specie di pila psicologica, dove l’affanno viene sempre più
compresso. Donna Elvira, con la curiosità della donna gelosa, non ha occhi che per la
nuova conquista di Don Giovanni, e l’addita a Donna Anna: «Quella è la contadina».
Donna Anna è la più sgomenta di trovarsi in quel luogo dove tutto le fa orrore: la
presenza del suo attentatore e assassino di suo padre, e forse anche, per i suoi gusti
di aristocratica, il carattere equivoco e plebeo di quel festino. «Io moro» essa sussurra
a Ottavio, che le ordina: «Simulate!». Intanto Leporello cerca di tirar via Masetto. Di
questo arabesco Don Giovanni si serve ancora per trascinare nella danza Zerlina, con
un elegante slancio di galanteria: «Il tuo compagno sono». Masetto recalcitra e si
divincola da Leporello mentre la terza orchestrina, finito di armeggiare per
l’accordatura, attacca la danza rustica. Donna Anna smania con un sospiro melodico
più lungo e disperato («Resister non poss’io»), e subito Ottavio ed Elvira, a due voci, le
fanno cuore («Fingete, per pietà»), appoggiandosi sul basso eseguito da Masetto. La
poliritmia si estende per un momento anche alle voci, e mentre l’orchestra principale
continua l’implacabile 3/4 del minuetto, Don Giovanni fuori scena incalza in 2/4 Zerlina
che caccia un urlo terribile. Masetto, sentendo ciò, si libera con uno strattone da
Leporello, esclamando: «Lasciami! Ah no! Zerlina!». La tensione accumulata giunge qui
al parossismo. Vi è la contraddizione tra l’apparenza festosa dei ritmi della danza e la
minaccia tragica. Par d’essere nell’imminenza di un temporale, quando l’atmosfera si
carica d’elettricità. Leporello quasi annusa l’aria dicendo, nel suo ritmo di 3/8: «Qui
nasce una ruina!», ed esce preoccupato per andare dietro la scena a vedere che
succede. Int anto, dietro la scena, Zerlina chiede soccorso: «Gente, aiuto!». Nelle tre
orchestre si spezzano i ritmi di danza, la poliritmia sparisce e nella grande orchestra,
compatta, risuona come uno schianto l’accordo di settima di dominante del nuovo
tono mi bemolle maggiore. Siamo alla terza sezione. La mobilità incessante delle
modulazioni è il carattere saliente di questo breve pezzo dove lo scompiglio giunge al
massimo e produce il vero e proprio climax del finale. Le grida di Zerlina, che invoca
soccorso dietro la scena, si spostano di qua e di là, e dietro alla sua voce il gruppo
degli altri personaggi ondeggia a sua volta sulla scena. Le orchestrine se ne vanno. La
mobilità delle modulazioni è il principale mezzo d’espressione drammatica di questo
Allegro assai, che vede l’orchestra e le voci impegnate in avventanti scalette,
ascendenti e discendenti, come raffiche, per dipingere la agitazione dei personaggi in
scena; mentre il doppio grido esterno di Zerlina («Scellerato!») poggia su agitati
sincopati degli archi. Passiamo alla quarta sezione. Don Giovanni rientra in scena,
trascinando per un braccio Leporello, che accusa di avere offeso Zerlina, e finge di
non riuscire a sguainare la spada per dargli punizione. Sopra una scattante figura
orchestrale, ascendente all’unisono, tre volte ripetuta, il canto di Don Giovanni
discende maestoso, in note puntate, con stile d’opera seria. Ma è venato d’un sottile
umorismo caricaturale, che denuncia la menzogna. Non viene mai rilevato il realismo
quasi patetico, e per una volta pieno di compassione, delle tre implorazioni di
Leporello: «Ah cosa fate!». Don Giovanni finge, ma Leporello no. Non è che si siano
messi d’accordo prima per recitare la commedia. Don Giovanni, trovandosi a mal
partito, ha abbrancato il malcapitato servitore come la prima àncora di salvezza che
gli capitasse sottomano. E Leporello non sa affatto fino a qual punto il suo dannato
padrone abbia intenzione di spingere la finzione: quello è capacissimo di mozzargli un
orecchio con la spada, per dare maggior credito al suo stratagemma, ciò si evince
nella ripetizione dei tre «Ah cosa fate!». Dall’incomoda situazione lo salva Don Ottavio,
che con la pistola spianata fa arretrare Don Giovanni e cavandosi la maschera
smaschera a sua volta la finzione di Don Giovanni. Il meccanismo del contrappunto a
tre voci serve egregiamente a sottolineare la simmetria delle azioni successive: dopo
Don Ottavio, Donna Elvira, e in fine Donna Anna si tolgono a loro volta la maschera, e
a ognuna tocca un’entrata della frase discendente introdotta da Don Ottavio. Poi le tre
voci si uniscono tosto in accordi ritmati sul secondo verso: «di nasconder l’empietà».
Da questo 40 momento, Don Giovanni è alle corde. Inizia la fase del suo maggiore
sbigottimento. Uno per uno riconosce gli avversari smascherati: «Donna Elvira?»,
«Don Ottavio?», ricevendone in cambio degli ironici: «Sì malvagio!» e «Sì, signore!».
Solo di Donna Anna par che Don Giovanni non osi nemmeno pronunziare il nome, e
balbetta una scusa: «Ah credete!». Al che Donna Anna gli scaglia in faccia un
«Traditore!», tosto ripreso da Zerlina, Elvira, Ottavio e Masetto. Durante lo
smascheramento di Don Giovanni e i successivi insulti che lo colpiscono come schia
ffi, violoncelli e bassi echeggino la precedente frase della paura di Leporello («Ah cosa
fate!»). Ancora una volta servo e padrone sono uguali. Uguali nella paura. Uno è il
doppio dell’altro: il positivo e il negativo d’una stessa immagine, il dritto e il rovescio.
Tocca ora a Zerlina, la più recente vittima di Don Giovanni, di mettere in marcia quello
che il Jouve chiama il coro dell’accusa. La sua vocina aguzza sembra spiccare un balzo
quando attacca, cristallina e pungente: «Tutto tutto già si sa». Le fa eco Masetto.
Quando si ribadisce “Tutto” i violini convergono spremendo la parola, per estrarre il
senso inserendo tra l’uno e l’altro «Tutto!» tre puntigliose quartine di biscrome. Siamo
alla chiusa, alla fine del finale. Tutta l’orchestra è schierata, comprese trombe e
timpani. Questo finale è un concertato tradizionale d’opera buffa, che nella sua
velocissima scansione vede le voci dei vendicatori compatte come un muro che si
avanzi contro Don Giovanni. È la «valanga» dei suoi cacciatori che ormai pienamente
formata gli piomba addosso inesorabile. Insieme alla voce di Don Giovanni sta quella
di Leporello: ancora una volta padrone e servitore sono uniti nella mala sorte. Quello
che Don Giovanni dice in prima persona Leporello lo dice in terza persona. Le
intimazioni dei vendicatori («Trema, trema, o scellerato», «Odi il tuon della vendetta»)
dànno luogo a scalette vertiginose e a una minacciosa progressione rampante, quasi
onomatopeica, sulle parole: «che ti fischia intorno intorno». Il rintocco dei timpani
materializza ogni tanto l’idea del tuono, il moto impazzito delle linee vocali e
strumentali quello della tempesta. Ancora più vertiginose, ma in pretto stile d’opera
buffa, le scale ascendenti dei due colpevoli, su: «È confusa la mia testa, Non so più
quel ch’io mi faccia». Un’idea musicale nuova appare quand’egli comincia, con
intervalli baldanzosamente ascendenti nell’accordo perfetto di do maggiore: «Ma non
manca in me coraggio, Non mi perdo né confondo». Per un momento la voce di
Leporello si stacca dalla sua e le risponde in una rapida e uniforme sillabazione: «Ma
non manca in lui coraggio, Non si perde né confonde». Leporello non è capace di
seguire il padrone nei baldanzosi intervalli ascendenti della sua riscossa, e gli fa eco
quasi parlando, come se lo guardasse stupito e ammirato dall’esterno. Infine, sul «più
stretto», una «coda» rumorosa associa tutte le voci e l’orchestra nelle ripetute cadenze
di do maggiore. In questa chiusa Mozart si sia piegato, o piuttosto abbia consentito
gioiosamente alle consuetudini tradizionali dell’opera buffa. Qui si tratta solo d’una
minaccia di castigo terrestre, a cui egli riesce a sottrarsi, non si sa bene come. Dent
dice chiaro e tondo che si tratta di «un lungo pezzo nella consueta maniera dei finali»,
un «finale d’opera buffa assolutamente convenzionale». Atto secondo : Scena prima:
Siamo in strada a lato della casa di Donna Elvira e vi sono Don Giovanni e Leporello.
Nel secondo atto si sente di più la sfera comica, il librettista prende il sopravvento sul
compositore. Da Ponte vuole riprendere il discorso umoristico ciò porta a un certo
scontro verso quei Don Giovanni precedentemente messi in musica, vi si aggiungono
anche numerose scene rispetto alla tradizione. Per Mila queste scene sono solo un
pretesto per una buona musica che però appesantisce il dramma smorzando
nell’azione. Ci sono però delle scelte drammaturgiche che rendono utili le scene: si
delineano con maggior profondità; il personaggio di Donna Elvira che appare con
tratti diversi del primo atto, si delinea la simbiosi tra Don Giovanni e Leporello,
realizzata in Sellers con due gemelli afroamericani, si delinea inoltre l' impotenza di
Don Ottavio. Questa scena serve a smorzare il culmine emotivo del finale del primo
atto. Serve staticità per creare picchi che in questo atto hanno la stessa posizione
dell’atto precedente, il sestetto è posto a metà dell'atto come lo era il quartetto del
primo atto e lo stesso vale per i due finali d’atto. [ N.15 – Duetto Allegro assai con
Archi, 2 Oboi, 2 Corni in Sol] In scena abbiamo Don Giovanni e Leporello. La musica
d'azione riprende con il declamato e il ribattuto e con alcuni scioglilingua l'idea
dell'opera buffa caratterizzata anche in questo caso con una gestualità estrema.
Leporello è seccato per il comportamento di Don Giovanni che nel finale del primo
atto lo ha quasi ucciso o meglio lo ha minacciato di ucciderlo. Da Ponte è bravo a
rispettare l'unità aristotelica della durata della storia, tutto dura un giorno. Siamo sul
viale della casa di Donna Elvira con Don Giovanni che punta la cameriera di Donna
Elvira che diventa in questo caso la nuova Zerlina. Leporello vuole licenziarsi da Don
Giovanni, il duettino è debole anche per i contenuti, vi è musica di azione tutto è
rapido e Leporello ripete numerose volte “sì” quasi a voler scacciare il Don, in questo
caso anche Leporello appare un po' sfuggente. Segue il recitativo secco dove Don
Giovanni e Leporello fanno pace e dove il primo dà dei soldi al secondo. Leporello
propone Don Giovanni di lasciar perdere le donne ma Don Giovanni risponde con “sai
ch’elle per me / sono necessarie più del pan che mangio, / più dell'aria che spiro!”. Poi
successivamente Don Giovanni riprende con la sua massima: “è tutto amore / chi ha
una sola e fedele / verso altro crudele […] le donne, poi che calcolar non sanno / il mio
buon natural 41 chiamano inganno” delineando così per Don Giovanni il suo credo
terreno e Leporello non deve mettere in discussione ciò che dice Don Giovanni perché
questo è inutile. I due si scambiano i vestiti per permettere a Don Giovanni di
corteggiare la cameriera di Donna Elvira e inoltre per far si che quando il terzetto delle
maschere riconosco i vestiti di Don Giovanni tutto sia riconducibile a Leporello. Mila:
La distribuzione delle scene del second’atto è un po’ diversa da un libretto all’altro, e
così le indicazioni sceniche. Sia ben chiaro che tutto il grandioso finale del primo atto,
col festino nella villa di Don Giovanni, è invenzione di Da Ponte e Mozart. In Bertati e
Gazzaniga, dal finale del primo atto si passava direttamente al Cimitero. Da Ponte
deve partire dal Atto secondo in ex novo. Dice l’Einstein: «Sbrigò tale compito
ricorrendo a una serie di volgarità, di indugi e differimenti: la seconda seduzione di
Elvira, col cambio di costume sotto il balcone, la punizione di Masetto, lo
smascheramento di Leporello». Da Ponte ricorse a uno dei più vecchi trucchi della
commedia dell’arte: il travestimento. Ciò alimenta l’identità segreta e vergognosa di
padrone e servitore, di Don Giovanni e Leporello, dei quali l’uno è soltanto il «doppio»
spregevole, o, come dice il Jouve, il «sottoprodotto escremenziale» dell’altro. Il
secondo atto sembra quasi ricalcare, sulle prime, le vie del primo. Là c’era un
recitativo tra Don Giovanni e Leporello, qui c’è un duetto, tenue e derisorio. Qui di
nuovo vediamo questi tre personaggi (Donna Elvira, Don Giovanni e Leporello)
impegnati in una situazione analoga al primo atto, che conduce anch’essa a un
supremo, vilissimo oltraggio ai sentimenti di Elvira. Leporello è sempre, lungo tutta
l’opera, l’intermediario tra Don Giovanni e Donna Elvira: qui viene spinto dal suo
padrone a sostituirlo, con una funzione vicaria che porta Leporello a corteggiare,
quasi possedere la povera Elvira, sotto le mentite spoglie del suo padrone. Ma
restiamo per ora al duetto iniziale, che apre un ulteriore spiraglio sui rapporti di
solidarietà canagliesca che legano servo e padrone. È un duetto buffonesco, dove un
personaggio ripete continuamente le frasi musicali dell’altro, a scopo di sberleffo e di
reciproca canzonatura. Leporello si lagna dell’abuso con cui il padrone gli ha
rovesciato addosso la colpa dell’attentato a Zerlina, minacciandogli per questo
l’estremo castigo, e Don Giovanni allegramente gli spiega che «fu per burlar». Le frasi
hanno scarso contenuto melodico: tutta la scena si svolge sotto il segno della
leggerezza spensierata. Dice il Dent: «Comprendiamo subito che padrone e servitore
hanno già tante volte eseguito il piccolo duetto, che ormai non è più che una farsa».
Lo stile musicale è di opera buffa, e segna una distensione rispetto all’intensità
drammatica del finale precedente. Come un nuovo inizio. Nel Don Giovanni abbiamo
nel primo atto una trama, che è l’individuazione e lo smascheramento di Don
Giovanni, con quell’accumulazione «a valanga» dei suoi cacciatori, che culmina nel
finale primo. L’azione del secondo atto sarà, non più la caccia a Don Giovanni, ma il
castigo di Don Giovanni, castigo celeste, perché le sue colpe vanno ora ben oltre la
sua notoria incontinenza sessuale, bensì si colorano di sacrilegio, di scherno e di
satanica malignità. Non è più il libertinaggio volgare la colpa di Don Giovanni, non più
un crimine della carne, bensì il libertinaggio ideologico, ossia un crimine dello spirito.
Al duetto buffo e ridanciano di Don Giovanni e Leporello segue un recitativo secco,
ravvivato da alcune battute di Da Ponte assai spiritose circa l’insaziabilità di Don
Giovanni in fatto di donne. Mozart sa sottolineare con le cadenze del recitativo
«l’incisività quasi insolente» delle battute. Don Giovanni manifesta e mette in atto il
suo progetto di scambiare gli abiti con Leporello, allo scopo di corteggiare la
cameriera di Donna Elvira. Scena seconda: Donna Elvira si affaccia balcone, siamo di
notte [N.16 – Terzetto Andatino con Archi, 2 Flauti, 2 Clarinetti in La, 2 Fagotti, 2 Corni
in La] Donna Elvira esprime il suo dolore subito per colpa di Don Giovanni definendolo
un empio traditore ma finisce il suo discorso con “è colpa aver pietà” ciò aggiunge uno
spettro di colore a Donna Elvira che piano piano sostituisce la rabbia alla pietà e lei
sente questo cambiamento. Questa è la differenza con Donna Anna. Donna Anna
esprime come unico sentimento verso Don Giovanni una rabbia aggressiva al
contrario Donna Elvira si vendica quasi per amore, ciò la rende un personaggio più
cedevole e nel terzetto si denota. Ella prova pietà per un personaggio che non merita
pietà. Leporello e Don Giovanni riconoscono la voce di Donna Elvira e qui come nel
primo atto guardano da lontano Elvira. Don Giovanni tira fuori il suo sadismo, invece
di andarsene si fa beffa di Donna Elvira e si mette dietro Leporello dicendo: “Elvira,
idolo mio!” Don Giovanni si burla di Donna Elvira. Egli vuole far finta di chiedere
perdono e Donna Elvira sentendolo sobbalza. Leporello dà della pazza a Donna Elvira
se cascherà nella trappola di Don Giovanni che dice successivamente: “Discendi, o
gioia bella! / Vedrai che tu sei quella / chi adora l'alma mia; / pentito io sono già.”.
Leporello capisce che è tutta una burla e Don Giovanni si fa credere da Donna Elvira. I
tre insieme decidono di dar sfogo al loro pensiero, vi lascia però un risentimento
Donna Elvira dicendo: “proteggete voi / la mia credulità”. Vi è in questa situazione
drammatica un risalto ad una scelta formale che deriva dalla forma Sonata, si può
leggere questo frammento in: A-A’-B-A’’. la Sezione A che va da “Ah, taci, ingiusto core”
fino a “Tu fermati un po’ là” viene divisa in due temi: il primo sono le quattro battute di
Donna Elvira, il secondo le quattro battute dette da Leporello e poi Don Giovanni. Nel
primo tema vi è la dimostrazione della conversione del sentimento che Donna Elvira
ha nei confronti di Don Giovanni, scompare l’isteria precedente e vi compare un tema
più morbido e dolce con abbellimenti e decorativi, non vi è rapidità come le arie
precedenti. Donna 42 meno duraturo (infatti per le note lunghe le corde vanno
pizzicate ripetutamente). Quanto alla struttura della canzonetta, è la semplicità stessa:
una strofetta di due membri di frase, ripetuta integralmente. Il primo membro di frase
modula verso la dominante (la), il secondo membro di frase si orienta per un
momento verso la sfera oscura della sottodominante (sol). Il ritmo di 6/8 non può
ingannare nessuno: non è il 6/8 circolare e avvolgente dei duetti di felicità, della
mozartiana corsa al piacere, del regresso irresistibile all’innocenza del paradiso
terrestre e dell’età dell’oro. Questo 6/8 intonato da Don Giovanni sul suono secco di
un mandolino ne è, se mai, la caricatura. Invito al piacere e alla felicità. Scena quarta:
Don Giovanni, Masetto e Contadini armati in scena, siamo subito dopo la canzonetta e
arriva un recitativo secco con Don Giovanni sotto la finestra della cameriera di Elvira,
arriva Masetto con i contadini per cercare Don Giovanni, per via dell’accaduto durante
la festa. Entrano in scena e Don Giovanni li sente, Masetto è pronto con la pistola
perché sente muovere Don Giovanni il quale a sua volta è vestito come Leporello. Don
Giovanni è abile a spacciarsi per il servo e si unisce all’esercito di Masetto per
vendicarsi del padrone despota. [ N.18 – Aria Andante con moto con Archi, 2 Flauti, 2
Oboi, 2 Fagotti e 2 Corni in Fa] Parte l'aria di Don Giovanni, la terza, anche se si cerca
di cogliere la personalità di Don Giovanni egli qui ri-fugge poiché si spaccia per
qualcun altro inoltre la pensa in tutt'altro modo. Don Giovanni sembra subito
comandare dando ordini all’esercito contadino di Masetto inoltre dà un perfetto
identikit di se stesso anche se questo in realtà nello stato delle cose è Leporello
vestito. Dice a Masetto di rimanere in disparte. L'aria ha un carattere dialogico, non c'è
isolamento nell’aria. Molto spesso i personaggi si aprono con altri personaggi, lo stile
dell’aria è uno stile buffo, domina quindi il declamato la gestualità e lo scioglilingua
inoltre vi sono segni che la musica sia una segnaletica di Don Giovanni. Lo caratterizza
il tono marziale con il jambo: una nota breve seguita da una lunga. Don Giovanni
assume un atteggiamento di comando. Il senso di movimento è molto accentuato,
questo però non è interiore ma prettamente esteriore poiché coordina il movimento
concreto. Nel finale si rivolge a Masetto dicendo “noi far dobbiam il resto; e già vedrai
cos'è”. la musica ci dà l' allusione che Masetto sarà picchiato da parte di Don Giovanni.
Mila: Don Giovanni sul viale del tramonto. Nonostante i modi disinvolti e la sicurezza
di sé, nonostante il frequente empito melodico di quella quarta ascendente in cui si
gonfia il suo gallismo, in realtà, non gliene va bene una. Donna Anna lo respinge e
perseguita, e ora, così come Zerlina gli era stata strappata di mano dall’intervento
consociato degli altri personaggi, anche la cameriera invisibile di Donna Elvira gli
sfugge, per l’arrivo di Masetto alla testa d’un branco di contadini, che cercano Don
Giovanni «per trucidarlo». Vedendoli numerosi e armati di fucili e bastoni, Don
Giovanni gioca d’astuzia, e approfittando del proprio travestimento con gli abiti di
Leporello cerca di gettare gli altri contadini sulla pista del proprio servitore, travestito
da cavaliere, mettendolo quindi ancora una volta nei guai; presso di sé vuol trattenere
il solo Masetto, per somministrargli poi una buona lezione. Si noti come in tutta
l’opera è quasi un leit-motiv la tecnica di Don Giovanni di fare il vuoto intorno a sé: egli
è sempre occupato ad allontanare qualcuno, ora Masetto per restare solo con Zerlina,
ora Donna Elvira per restar solo con la sua cameriera, ora i contadini per restar solo
con Masetto. Va da sé che nel corso di questo recitativo si assiste al rovescio del lazzo
buffonesco cui avevamo già assistito nel precedente recitativo di Leporello con Donna
Elvira: cioè la contra ffazione della voce, vecchio gioco tipico da commedia dell’arte. Là
era Leporello che gonfiava la voce per scimmiottare Don Giovanni; qui Don Giovanni
cerca di parlare in modo volgare come Leporello. Sono effetti di bassa lega, ma di
comicità sicura, nei quali si fa valere il maggiore o minore istrionismo dei singoli attori.
Don Giovanni si serve di un’aria, che viene talvolta definita come aria «dei comandi
militari», e che è anch’essa, come quella del catalogo di Leporello, un bell’esempio di
aria d’azione. L’aria è in forma tripartita, con una «coda», e la forma è quasi
determinata dal contenuto delle parole e dell’azione: «Metà di voi qua vadano, gli altri
vadan là…». Prima sezione dell’aria, in fa maggiore, seconda sezione, in do maggiore,
ripresa della prima sezione, in fa maggiore, sono interamente dedicate agli ordini
impartiti ai contadini, per allontanarli in due squadre; la «coda», piena di maligna
sollecitudine e attenzione, è riservata a Masetto: «Tu sol verrai con me». Lo stile vocale
è tipico di opera buffa, cioè v’è scarsissima melodia, poco più che note ribattute e
intervalli dell’accordo perfetto mentre il principale lavoro tematico è riservato
all’orchestra. Il tono dell’aria è marziale; l’accento del finto Leporello nell’impartire i
comandi ai contadini non è quello d’un servo imbelle, bensì d’un cavaliere che ha
esperienza di guerra e di comando, di disciplina militare. Nella quasi totale rinuncia
alla melodia vocale, è chiaro che gli intenti di espressione caratterizzatrice sono
affidati ad altri elementi musicali: il ritmo, molto sollecitato dai settenari sdruccioli e
tronchi del testo, e il timbro. La sillabica declamazione di Don Giovanni scandisce dei
giambi, ora più ora meno stretti (ora di semicroma e croma; ora di croma e
semiminima), che sembrano quasi l’imitazione vocale di un ritmo di tamburo: ta-tà, ta-
tà, ta-tà, ta-tà; ta-tà, ta-tà ta-tà. La sezione centrale dell’aria, in do maggiore, si scioglie
dalla rigidità militaresca della prima parte, e trova atteggiamenti più mossi nella
descrizione del finto Don Giovanni, che i contadini devono rintracciare e picchiare. La
sezione centrale dell’aria parte su una doppia 45 scaletta dei fagotti, ascendente per
terze, «staccato», in do maggiore. L’animazione che se ne comunica anche alla voce
può far pensare per un momento all’effervescenza dell’aria «dello champagne», anche
per analogia di situazioni verbali. La sezione centrale è abbastanza estesa e compie
un’incursione tonale nella regione di sol maggiore. Il tono di do maggiore ritorna con
le due ultime ripetizioni di «e spada al fianco egli ha». Più, ben inteso, la «coda», quella
riservata a Masetto, dove la comicità maliziosa deriva dall’analogia col consueto
formulario erotico delle arti seduttive di Don Giovanni. Quando ora Don Giovanni,
travestito da Leporello, dice a Masetto: «noi far dobbiamoil resto, E già vedrai cos’è»,
con numerose ripetizioni di questo «cos’è», egli sembra quasi far eco a Leporello
quando nell’aria del catalogo cantava alla sventurata Donna Elvira, ammiccando: «Voi
sapete quel che fa».Il comico nasce naturalmente dal fatto che il sottinteso questa
volta non è di natura erotica: il piacere che Don Giovanni già pregusta è quello di
scaricare un fracco di legnate sulla schiena di Masetto. Scena quinta: Masetto con il
recitativo successivo all’aria viene picchiato, la parte è molto comica poiché Masetto
dà la pistola e il moschetto a Don Giovanni da qui vi è il totale disinteressamento
successivo di Masetto. Mila: La vendetta di Don Giovanni avviene nel corso del
recitativo seguente, durante il quale egli disarma l’ingenuo Masetto col pretesto di
esaminare le sue armi, e poi lo batte duramente col rovescio della spada, lasciandolo
sulla strada pesto e tramortito. Scena sesta: Masetto grida ed entra in scena Zerlina
vedendo Masetto dolorante. Masetto dice a Zerlina che Leporello lo ha picchiato
anche se qui Masetto dice “ho qualche diavol che assomiglia a lui” . Qui Zerlina si offre
di curare Masetto, i due fanno un patto ovvero se Zerlina cura Masetto egli cesserà di
essere geloso. [N.19 – Aria Grazioso con Archi, 2 Flauti, 2 Clarinetti in Do, 2 Fagotti, 2
Corni in Do] Arriva la secondaria di Zerlina chiamata altresì aria dello Speziale, Zerlina
cura Masetto usando il rimedio dell' amore, infatti la malizia Zerlina è accentuata
sempre più fino ad arrivare a far toccare a Masetto il cuore, altresì il seno, i due
indubbiamente trovano una cura carnale e quindi la pace. L'aria non aggiunge molto
di quello che si sapeva su Zerlina ovvero quell’essere una creatura naturale e
maliziosa, la scrittura è quasi elementare “carino […]buonino” segue così anche la
composizione, vi è un uso del 3/8 un elemento basilare e con la tonalità in Do
maggiore. L'area è divisibile in tre sezioni :A-A’-B. la prima parte è fino “non lo sa far” e
suona come una specie di cantilena, la seconda parte va da : “è un certo balsamo” fino
a “dove mi sta?” proprio nel punto interrogativo Mozart colloca due note con corona.
La terza parte è la fine dove si illude con la musica al battito cardiaco ma c'è un
pretesto. L'aria si conclude con una lunga coda, un postludio che prende una fetta
molto importante ciò è una sintesi di quello che abbiamo sentito nella sezione A e
nella sezione B, il postludio sarà usato nell’opera seria. La scelta di ciò è l'immagine di
Zerlina che prende quasi per mano Masetto. Mila: Arriva Zerlina con la lanterna
poiché attirata dai lamenti di Masetto. La maldestra invenzione teatrale di Da Ponte si
fa duramente sentire in questa fase dello spettacolo, con tutti questi artificiosi
andirivieni di personaggi, ognuno dei quali va via a turno perché un altro possa
entrare a cantare l’aria che gli spetta. In un dialogo recitativo Masetto racconta a
Zerlina la sua disavventura e fa un buffonesco bilancio dei colpi ricevuti e dei dolori
che lo affliggono. Zerlina lo consola amorosamente, pur rimproverandogli la sua
gelosia, che l’ha portato in questi pasticci, e nell’aria che segue gli promette una sua
cura segreta. Per questo l’aria in questione viene talvolta indicata come l’«aria dello
speziale». È un’aria bipartita, dove la prima parte, di due frasi, viene interamente
ripetuta, e contiene la promessa del «bel rimedio» che Zerlina tiene in serbo per
Masetto. La seconda parte, più mossa, è tutta occupata dall’imitazione del battere del
cuore, vecchio gioco tradizionale dell’opera comica italiana, con origini illustri nella
Serva padrona. Ma, osserva l’Abert, Mozart sembra più interessato al doppio senso
voluttuoso. L’aria è semplicissima, non si smuove praticamente mai dal tono di do
maggiore, e ci mostra la solita Zerlina che già conosciamo: leziosetta, piena di moine
musicali, eppure a modo suo primitiva, figlia della natura. I due aspetti contraddittori
dell’essere di Zerlina sembrano quasi simboleggiati nelle due parti dell’aria: la prima è
ditono popolaresco; la seconda parte è una derivazione colta di tradizionali luoghi
comuni operistici. Certi spartiti recano la generica indicazione di Andante; altri quella
più illuminante di Grazioso. Straordinaria finezza. La prima parte è «una calda
promessa d’amore», come dice l’Abert, ma statica; la seconda parte costituisce già un
piccolo anticipo, ed è pertanto più mossa e vivace. Scena settima: Siamo nell'atrio
oscuro in casa di Donna Anna , si palesano Leporello e Donna Elvira e
successivamente Don Ottavio e Donna Anna con i servi che hanno i lumi . Entrano con
un recitato secco Leporello Donna Elvira dove addirittura Donna Elvira chiama
“adorato sposo” Don Giovanni, ovvero Leporello vestito da lui, quest'ultimo deve
liberarsi di Donna Elvira. [N.20 – Sestetto Andante con Archi, 2 Flauti, 2 Oboi, 2
Clarinetti in Si bem , 2 Corni in Si bem] Inizia così il sestetto che ricorda il finale d’atto
per via di reminiscenze con il precedente con anche utilizzo dell'ingresso matrioska e
il concertato. Mila lo considera inutile il sestetto, ovvero il concertato d'azione poiché
produce un'azione molto scarsa cioè lo smascheramento di Leporello, però in questa
scena vi è il fatto di azione interiore, ovvero la totale emozionalità con un mix ideale
tra buffo e serio. La prima sezione vede Donna Elvira e Leporello che entrano in
questa casa e tutti e due hanno la puzza sotto il naso, forse donne Elvira ha capito la
farsa, 46 sospetta. Leporello con un abile gioco comico vuole uscire ma sbaglia porta
si trova ancora in scena. questo contrasto tra buffo e serio viene anche inteso
musicalmente con Leporello che riprende l'opera buffa guizzante e Elvira che canta su
un'opera prettamente più seria. Entrano Donna Anna e Don Ottavio vestiti a lutto
conservi che portano le fiaccole, si aggiungono qui in orchestra due trombe in Re e
timpani in Re La. Si apre la seconda sezione con Ottavio che ha toni patetici per
trovare il modo di calmare Donna Anna che dice chiaramente che ad ella non basta la
vendetta ma esige la morte di Don Giovanni, la musica evidenzia tra i due il distacco,
Mozart apre con una modulazione tra i due che da do maggiore passa a re maggiore,
vi è molta distanza tra le due note, c'è uno scarto armonico e materiale che denota
distanza, il tono diventa quasi solenne quando canta Donna Anna tanto che Mila
ricorderà il flauto magico con la sua idea di ritualità solenne. I due cantano insieme su
accompagnamento uguale ma vi è una netta differenza poiché Don Ottavio canta in
Re maggiore e Donna Anna in Re minore, un'idea che ci dà proprio la caratteristica del
senso opposto. Donna Elvira e Leporello si esprimono a parte. Tutti e due vogliono
andarsene. la sezione terza è importante e parte con Donna Elvira e Leporello, questa
parte è caratterizzata da un motivo affannoso e calante, appare così il sentimento di
entrambi personaggi e si esprime perfettamente le emozioni che provano i due.
Questa si sentirà spesso poi che fa collante nel sestetto. Mila (mette separate le scene,
scena 7 è Leporello con Donna Elvira, mentre la 8 è con l’ingresso di Don Ottavio e
Donna Anna, segue poi la 9 con Masetto e Zerlina): La distribuzione delle scene è a
questo punto assai irregolare da un’edizione all’altra, seguiamo quella che durante il
sestetto si articola con le due nuove scene (ottava e nona) nel corso del sestetto. Il
quale sestetto, poi, si articola in due unità musicali ben distinte: l’Andante e l’Allegro
molto. Può essere la scena stessa della morte del Commendatore, l’importante è che
sia buio si inoltrano a tastoni Leporello («sempre fingendo Don Giovanni») e Donna
Elvira. Il primo cerca ogni pretesto per piantare in asso la seconda, e con la scusa di
certe luci che s’avvicinano, s’allontana. È perciò Donna Elvira che dà inizio al celebre
sestetto cantando spaurita: «Sola sola, in buio loco». Il sestetto vuole riprendere le fila
del discorso, dopo tre arie solistiche di fila. Da Ponte, secondo Dent ha unificato due
atti, inizialmente l’opera doveva avere tre atti, in uno solo. La grandezza che
comunemente si riconosce a questo sestetto consiste nella magistrale mescolanza di
diverse espressioni e per fino diversi stili musicali, data l’eterogeneità dei personaggi.
È un sestetto che raduna tutti i personaggi dell’opera meno Don Giovanni e il suo
deuteragonista, che è il Commendatore. Don Giovanni è rappresentato da Leporello,
attore che interpreta lo spirito buffo. Dice Abert «la sua caratteristica mescolanza di
tragico e comico celebra qui uno dei suoi più splendidi trionfo. L’eccelso e il ridicolo, il
sentimento più profondo e il più triviale, vanno continuamente affiancati». Siamo
chiusi entro la ragnatela delle faticose invenzioni di Da Ponte per tirare in lungo
l’azione oltre la linearità del libretto del Bertati. l’Abert afferma che la musica del
sestetto si solleva sopra il tono teatrale e raggiunge la più pura altezza dell’arte.
Donna Elvira dà inizio da sola al sestetto, con un canto smarrito e patetico, fittamente
sostenuto e abbracciato dall’integrazione strumentale. Arriva Leporello a tentoni,
invano in cerca della porta buona per svignarsela, e lo stile muta interamente. Siamo
nell’opera buffa: Leporello quasi non canta, recita, ripetendo ritmicamente la stessa
nota, mentre in orchestra fioriscono e formicolano piccoli trilli, controcanti, gruppetti
ritmici di biscrome. (Scena 8 per Mila) Con una modulazione enarmonica di grande
effetto si passa bruscamente in re maggiore e, mentre Leporello «sbaglia l’uscita»,
ecco che «Don Ottavio e Donna Anna entrano vestiti a lutto». Le trombe in re e i
timpani sorreggono una maestosa melodia processionale: qualcosa di augusto e di
sacrale. Nobile è il canto di consolazione che Don Ottavio rivolge a Donna Anna siamo
così ricondotti alla consolazione che Don Ottavio da nei confronti di Donna Anna. il
sestetto non ha ancora ingranato come pezzo d’insieme: quattro personaggi hanno
cantato a turno, Elvira e Leporello senza neppure dialogare tra loro, Ottavio e Anna
dando luogo a due battute di dialogo lunghissime e praticamente autonome. Solo
dopo che Anna ha ultimato la sua frase il discorso comincia a stringersi. È di nuovo
Donna Elvira che, «senz’esser vista», sospira: «Ah dov’è lo sposo mio?», e la sua voce è
introdotta e accolta da un disegno dei violini ch’è una delle grandi idee musicali e
drammatiche di questo sestetto. Frase cromatica che discende all’infinito per lente
acciaccature giambiche, simile, scrive il Jouve, a una vite perpetua. Questo ritmo
monotono e penetrante si rigenera continuamente da se stesso. È un esempio
straordinario di ispirazione musicale drammatica. Scena ottava: Entrano Masetto e
Zerlina e completano così il sestetto e ulteriormente l'orchestra cambia e diventa
completa. Zerlina e Masetto si rivolgono a Leporello fermato nell’intento di uscire.
Donna Anna e Don Ottavio vedono i personaggi, così evidenziano Don Giovanni per
loro. Donna Elvira cerca di difenderlo chiamandolo addirittura “marito”, ciò ci fa
pensare che i due siano sposati e Don Giovanni l'abbia lasciata lì durante lo sposalizio,
tutti insieme cantano e Don Ottavio fa l'atto di uccidere Leporello, il quale chiede
perdono in ginocchio, si palesa di essere nient'altro che Leporello travestito. C’è qui
un’anticipazione del concertato di stupore tipico ottocentesco quasi rossiniano con
Zerlina, Don Ottavio e Masetto che dicono “stupida resto / che mai sarà “. Si verifica la
sensazione di 47 dà poca credibilità alle parole di Don Ottavio. Il finale torna a quei
toni ludici e giocosi, ritorno dei clarinetti, simboli della tenerezza, dimostra l’intenzione
poetica di Don Ottavio. Mila: Questo breve recitativo, insieme all’aria che segue,
ripropone il problema del personaggio di Ottavio, di cui abbiamo già fatto cenno a
proposito della sua precedente aria «Dalla sua pace». In questo recitativo Ottavio
tocca il fondo della melensaggine e dell’inettitudine. Sgattaiolato via Leporello, tra gli
strilli di Elvira, Zerlina e Masetto, Don Ottavio, finalmente persuaso che Don Giovanni
sia davvero «l’empio uccisore del padre di Donna Anna», prende la sua decisione. Non
propriamente quella che ci si potrebbe aspettare da un cavalleresco gentiluomo
spagnolo: «un ricorso vo’ far a chi si deve». Insomma, il prode Don Ottavio si reca al
più vicino commissariato di Polizia per denunciare alla polizia colui che gli ha
aggredito al buio la fidanzata facendosi passare per lui, e ne ha ucciso il padre. Il
carattere di Ottavio, accettabile lungo il primo atto, dove si mostra nobile e devoto a
Donna Anna, si affloscia nel secondo atto, e a questo punto si sgretola fino a toccare il
ridicolo. Secondo l’Abert «c’è senza dubbio una consapevole ironia del creatore in
questa figura collocata tra personaggi come Donna Elvira e Don Giovanni». Per lo
Hocquard «non c’è ombra di dubbio sul fatto che Mozart sta dalla parte di Don
Ottavio». Anzi, «è probabile che Mozart ha messo in questa parte molto di se stesso, e
delle proprie esperienze amorose, dei propri scacchi, della propria timidezza». Il che
significherebbe portare molto oltre il concetto abertiano dell’ironia romantica di
Mozart, cioè della compartecipazione ai difetti dei suoi personaggi. Ma in verità
proprio l’Abert, dopo aver rilevato il ridicolo della figura di Don Ottavio in questa
situazione, ammette tuttavia che «Mozart non si sente giudice delle sue creature.
Lascia questo personaggio agire unicamente attraverso se stesso e il proprio rapporto
con l’ambiente. Gli attribuisce anzi le più nobili e calde cantilene dell’opera. Basta
paragonarle con quelle di Don Giovanni in situazioni analoghe per comprendere la
differenza dei due nella vibrazione amorosa. Né Ottavio diventa mai sentimentale nel
senso deteriore e femmineo della parola». Il più «cattivo» critico del Conte Ottavio è il
Breydert. «Pochi ascoltatori sfuggono a un senso d’imbarazzo quando il rispettabile
gentiluomo entra in scena e canta le sue arie. Se c’è in quest’opera un personaggio in
disparte, estraneo a quel che gli succede intorno, è proprio lui.» Gounod: «Don
Ottavio è incapace di provare anche solo un briciolo del dinamismo demoniaco che
solleva l’opera intera fino al momento in cui l’eroe perisce». Il carattere
eminentemente lirico di aria da concerto, non inserita nell’azione per nessuno di
quegli stratagemmi che Mozart tanto bene conosce per fare divenire un’aria
dialogante, capace di coinvolgere nell’azione altri personaggi oltre quello che canta.
Invece qui il solipsismo dell’aria è completo. Ottavio, deciso a compiere questo grande
passo di andare in questura a denunciare Don Giovanni, prega gli altri personaggi di
andare intanto a consolare il suo tesoro. Quest’aria fu soppressa nell’esecuzione
viennese dell’opera, e sostituita da quella del primo atto, perché il tenore viennese
trovava quest’aria troppo difficile e vocalmente impegnativa e non si sentiva di
affrontarne i vocalizzi e le lunghe tenute di fiato. In secondo luogo, riconosciamo pure
apertamente che, a parità di sconvenienza drammatica, l’aria aggiunta nel primo atto
è musicalmente alquanto più bella di questa: uno, avevamo detto, dei più bei canti
d’amore di Mozart. La presente aria dice già con la sua indicazione di tempo il proprio
carattere zuccheroso e manierato. Lo stesso Hocquard, difensore appassionato del
personaggio di Don Ottavio, ammette che la sua «tenerezza comporta una certa
passività quasi femminea». Contropartita di Don Giovanni, se dobbiamo ammettere
una specie d’inconfessata attrazione di Donna Anna verso il suo seduttore, Don
Ottavio è «il ritratto dell’impotenza», in antitesi con la qualità d’uomo d’azione di Don
Giovanni. «Se opponiamo francamente il virtuoso Ottavio al demoniaco Don Giovanni,
tutto il nostro interesse, tutta la nostra passione sono in favore di Don Giovanni», e
per contro «dobbiamo riconoscere la noia che l’aria di Don Ottavio ci dispensa. La
convenzione s’è installata nel capolavoro». L’aria ci illude dapprima con l’apparenza di
un’aria tripartita con da capo della prima parte, A - B - A, e invece ci accorgiamo ben
presto che si tratta di un’aria doppia, dove il «da capo» è totale: cioè non viene ripresa
solo la prima parte dell’aria, bensì anche la seconda, insomma, l’aria tutta intiera viene
ripetuta, naturalmente la seconda volta con variazioni. La prima parte dell’aria è
praticamente costituita di due frasi, la prima piana, affettuosa e calma, la seconda più
mossa, vivace, articolata in aggressivi intervalli ascendenti, e poi fissata su un lungo fa
di tre battute, conchiuso da un rapido vocalizzo: tutto ciò avvia già il canto solistico
verso un certo stile di tenore eroico, che non si confà molto alla graziosa «silhouette»
di cavalier servente, di «usignolo in seta nera» che il personaggio è venuto delineando.
Ma proprio in questo senso evolve la seconda parte dell’aria, modulando attivamente,
dall’originario si bemolle al relativo sol minore («Ditele che i suoi torti»), poi a fa
maggiore («a vendicar io vado»), poi per un attimo a do maggiore, quindi ancora in fa
maggiore fino alla fine dell’episodio, quando un lunghissimo vocalizzo di bravura
solleva alta la voce per farla ricadere con arte sulla ripresa, in si bemolle. La ripresa si
presenta dapprima regolare, e poi, quando inopinatamente continua estendendosi
sulla seconda parte (quella eroica), essa rimane in si bemolle maggiore, modulando
poi per un tratto alla dominante («che sol di stragi e morti») e ritornando infine
stabilmente alla tonica (si bemolle) alla fine del secondo vocalizzo sulla parola
«tornar». Quest’aria, generalmente screditata, ha trovato un inaspettato difensore in
Luigi Dallapiccola, che la definisce «una delle arie più ricche di avventure 50 musicali,
più libere metricamente, a cominciare da quell’incredibile periodare basato su sette
battute, al suo inizio». (Mila mette N.23 in questa scena) Scena undicesima: Donna
Elvira sola [N.23 – Recitativo e Aria Allegro assai con Archi soli] Donna Elvira ha avuto
molte pagine solistiche, sicuramente ella è più indulgente nei confronti di Don
Giovanni. Si denota qui un ulteriore cambiamento dei suoi sentimenti. Nel recitativo
questo sentimento non si reprime e quindi torna a galla e viene fuori. Ella pensa a
Don Giovanni, non lo guarda più da fuori come il personaggio da denigrare ma lo
guarda da dentro. Ella sente una sorte di premonizione su Don Giovanni. Ella vede
una voragine di oscurità, si delinea il sovrannaturale. Nella complessità interiore si
palesa lo spavento, ella prova compassione per Don Giovanni.[Aria dichiarata prima,
Allegretto con Archi (Violoncelli e Bassi separati), 1 Flauto, 1 Clarinetto in Si bem, 1
Fagotto, 2 Corni in Si bem] Tutto inizia con: “Mi tradì, quell'alma ingrata: / infelice,
oddio! mi fa. / Ma, tradita e abbandonata, / provo ancor per lui pietà”. Donna Elvira
prova pietà per Don Giovanni dopo che è stata lasciata e presa in giro molteplice
volte. Si vuole enfatizzare il tutto con l’Orchestra al completo. Il peso maggiore lo ha il
recitativo dal punto di vista emotivo con l’accompagnamento che lo conferma. Il
passaggio è dalla donna nevrotica alla “crocerossina” che deve salvare Don Giovanni.
Ritorna la Donna Elvira nevrotica poi dopo “il baratro mortal” nel recitativo si passa dal
maggiore al minore, con l’intervallo diminuito che viene fuori. Mozart in “Che
contrasto di effetti” si inventa negli archi la rappresentazione del lamento straziante
con l’appoggiatura che “sanguina” che è forte rappresentativamente. L’aria è ancora
un po’ più tradizionale, è un’aria rondò (con la forma A-B-A’-C-A’-D-A’ e così via) L’aria è
molto unitaria, con una tinta con poche sfumature, l’idea iniziale è basata
sull’intervallo che è lo stesso dell’idea straziante del recitativo. L’aria è scorrevole,
resta un senso di agitazione generale con le legature a due a due. Dominano le
tonalità maggiori, con la rappresentazione del sentimento diverso meno irrequieto. Si
perde il carattere spigoloso del primo atto. C’è solo un momento in tonalità minore
dell’aria, in “il mio tormento, /di vendetta il cor favella;” il tono è minore, in un
contrasto interno dove si palesano nel recitativo e aria sia la vecchia che la nuova
Elvira. Mila: La musica di Mozart non nasceva in astratto a tavolino, ma sempre in vista
dell’esecuzione. Vi è un taglio netto di scene qui: Il duetto di Leporello e Zerlina che
pone il servo legato ad una sedia, sulla quale poi fugge poiché lasciato solo. Altrimenti
stanno le cose per il seguente recitativo e aria di Donna Elvira, verso il quale l’Abert si
mostra troppo severo trattando anch’esso di «tappabuchi». Fu scritto per il grande
soprano Caterina Cavalieri che interpretava la parte nella esecuzione di Vienna, per
far posto a questa aggiunta fu soppressa l’aria di Don Ottavio. Quest’aria di Elvira non
può intervenire che qui, nel secondo atto, dopo il sestetto e le arie di Leporello e di
Ottavio, prima che la grande scena del cimitero rimetta definitivamente in carreggiata
la narrazione drammatica. Afferma l’Abert che l’aria di Donna Elvira resta «per aria».
Bisogna riconoscere che l’aria aggiunge un connotato al personaggio di Donna Elvira.
tra l’altro prepara abilmente e rende comprensibile l’ultimo suo intervento nel
dramma, quando farà irruzione in casa di Don Giovanni, che banchetta allegramente,
per scongiurarlo a cangiar vita. Questo personaggio di Elvira, patetico e oscuro e
presentata qui con un momento di crisi definitiva come fu detto giustamente dallo
Hocquard, di «conversione». Elvira è a un punto decisivo: sta rendendosi conto che
non riavrà mai più Don Giovanni. Il suo amore si tramuta in carità. D’ora innanzi non
lotterà più per riconquistarlo, ma continuerà a lottare, sempre zelante come prima,
per salvarlo. Certo è che d’ora innanzi la figura di Donna Elvira si spoglia di
quell’amore possessivo che era sua spiacevole prerogativa, e si colora d’una luce
vagamente donchisciottesca e angelica, da crocerossina. «L’accesso alla serenità
attraverso la rinuncia al demoniaco è l’argomento fondamentale di questo recitativo e
di quest’aria»: così scrive lo Hocquard, mettendo in luce come «la calma che si
diffonde nell’aria dopo l’ardore esaltato del recitativo non si deve a un indebolimento
dell’ispirazione, ma corrisponde a un orientamento nuovo, ed essenziale, conferito
all’anima». Seguiamo ancora la buona analisi che lo Hocquard fornisce del
personaggio di Elvira in questa scena. «Per la prima volta Elvira prende coscienza, non
già del male che Don Giovanni le ha fatto, ma dell’abisso di perdizione in cui egli sta
precipitando. Ella cessa di prendersi come centro d’interesse (secondo l’angolo
proprio alla passione), e si concentra su lui: la sua intuizione amorosa, esacerbata dal
dolore, le fa presentire il destino imminente, la dannazione ineluttabile di Don
Giovanni.» È facile quindi capire quanto quest’aria sia drammaticamente opportuna
per preannunciare il prossimo finale con la dannazione del protagonista. Donna Elvira
viene dunque a essere gratificata di quel grande segno di distinzione che è, in
un’opera comica, un recitativo obbligato. Sono soltanto gli archi a pronunciare la
figura base, continuamente ricorrente nel recitativo, fondata su un trillo che si sposta,
di altezza, con continue alternative di «piano» e «forte». La forma di «Mi tradì
quell’alma ingrata» è quella di una aria-rondò, con tre riprese dell’idea principale, ogni
volta che ritornano le parole iniziali dell’aria stessa, in questo caso si osserva un
eccezionale partito preso di unità: gli intermezzi che hanno luogo sulle parole «Ma
tradita, abbandonata», «Quando sento il mio tormento», e ancora «Ma tradita,
abbandonata», sono evidenti derivazioni dall’idea principale. Questa idea principale si
caratterizza per una melodia piuttosto agitata, che sale e che scende per gruppi di
crome, per lo più a due a due, per lo più a due note per sillaba. L’Abert afferma: 51
«L’incessante movimento di crome le fornisce la caratteristica principale: è un
continuo fluttuare dell’agitazione, senza vera e propria meta né contrasti». La
concezione strettamente unitaria è ribadita nell’integrazione orchestrale: la curva
melodica proposta subito dalla voce viene tosto assunta dal clarinetto, dal fagotto, poi
dal flauto viene coinvolta in una specie di macinino contrappuntistico, che certamente
non ha nulla di arcaico né di severo, ma non per questo è meno fittamente intessuto.
Scena dodicesima: Cimitero circondato da un muro, diversi monumenti equestri, fra
cui quello del Commendatore, siamo al Chiaro di Luna. Don Giovanni e la statua del
Commendatore poi Leporello. Don Giovanni entra scavalcando il muro e ride. Tutto
inizia con un recitativo secco. Questo è l’unico momento dell’opera dove vediamo Don
Giovanni fermo, non è in fuga, non ricerca un’oggetto del desiderio. Unico momento
di staticità di Don Giovanni. Si incomincia a conoscere solo qui. Egli appena scavalca il
muro ride, la risata è il simbolo che si ripete in questa scena, ciò alimenta il fascino
che è delineato dal suo comportamento. Tema della risata è inappropriato nel clima in
cui è sottratto, il cimitero, ciò delinea l’atteggiamento disprezzante nei confronti del
sovrannaturale. Don Giovanni reagisce a tutto con la risata, con il coraggio che arriva
ai limiti del sacrilegio. Atteggiamento razionalista di Don Giovanni che evincono un
personaggio libertino e illuminista. Si mescola terreno e ultraterreno. Don Giovanni è
andato a caccia di ragazze ma non ha concluso niente. È incuriosito della relazione
ingannevole tra Donna Elvira e Leporello. Esce Leporello e i due si rincontrano.
Leporello racconta ciò che è successo. I due si scambiano gli abiti, così ora Don
Giovanni è Don Giovanni e Leporello è Leporello. Don Giovanni racconta un’impresa,
che noi non vediamo, a Leporello. Il racconto è la conquista, sempre fallimentare, di
una delle belle di Leporello, che poiché scopre l’inganno fa fuggire Don Giovanni che si
rintana al Cimitero. Don Giovanni ride ancora una volta. Si passa qui ad un recitativo
drammatico in adagio con 2 Oboi, 2 Clarinetti in Si Bem, 2 Fagotti, 3 Tromboni (Alto,
Tenore, Basso), Contrabbassi dove interviene il Commendatore “Di rider finirai pria
dell’aurora” vi è la ripresa del sovrannaturale, mentre Don Giovanni ride, la statua si
mette a parlare. L’organico è molto ampio. Il Commendatore lancia il suo monito a
Don Giovanni, il contrasto è molto evidente. Un momento di forte contrasto
drammatico. Il riferimento qui è proprio Gluck, con le voci oracolari che si ripetono in
Gluck con Orfeo ed Euridice e Alceste con Riprende il recitativo secco. C’è un qualcosa
che sa proprio di aldilà. L’aria è in Re minore ma ci sono accordi dissonanti, cromatici
che portano ad una armonia sovrannaturale che non è umana, non c’è
convenzionalità. Ciò accade due volte dove interviene il Commendatore: “Ribaldo
audace! / Lascia a’ morti la pace”. L’atteggiamento di Don Giovanni è coraggioso
rispetto a Leporello che delinea qui un aspetto di distacco con Don Giovanni che ha
come atteggiamento nel libretto “con indifferenza e sprezzo”. Don Giovanni vede la
statua del Commendatore e Leporello legge l’iscrizione sulla tomba del
Commendatore: “Dell'empio che mi trasse al passo estremo / qui attendo la
vendetta”. Leporello trema e ha paura. Don Giovanni dice a Leporello di invitare il
Commendatore a cena. Leporello dimostra il suo essere superstizioso. Non vuole
farlo ma è obbligato dal padrone. [N.24 – Duetto Allegro con Archi, 2 Flauti, 2 Fagotti, 2
Corni in Mi] Parte il duetto tra Leporello con Don Giovanni con un piccolo intervento
del Commendatore, Leporello si rivolge alla statua ma è tutto un tremolio per la
paura. Mentre Don Giovanni si spassa per via della paura di Leporello, che tra pause
per la paura e i tremolii, invita per conto di Don Giovanni il commendatore a casa.
Commendatore china la testa. Don Giovanni fa il verso di Leporello e alla fine è lui ad
invitare la statua a cena. Il Commendatore risponde. I due cantano insieme dove
Leporello vuole scappare, mentre Don Giovanni vuole andare a preparare la cena. È
un duetto dove si assiste alla musica d’azione, dove cambia l’emotività dei personaggi.
La musica è in contrasto con un intervallo di settima. La musica rappresenta
perfettamente la figura di Leporello che trema, gestualità di opera buffa. Quando
Leporello dice: “Signor, il padron mio... / badate ben, non io... / vorria con voi cenar...”
Mila cita Berlioz che vede questo come una rappresentazione descrittiva di Leporello
“che se la fa sotto” con tremoli musicali, con lo sfilacciamento che aumenterebbe il
desiderio di urinare e poi la modulazione con la settima diminuita con l’atto pratico.
Scrittura finale che sa di festa. Ci sono degli svolazzi dei violini con i tre tromboni che
danno possenza. Mila: Con la scena del cimitero l’opera ricupera il suo protagonista,
ed è come se ritrovasse la spina dorsale. Don Giovanni salta dal muro, ridendo, tutto
allegro per il ricordo di qualche recente avventura, che presto apprenderemo dal suo
dialogo con Leporello. Il riso gagliardo e sfrontato di Don Giovanni è quasi un motivo
ricorrente di questo recitativo, meraviglioso per giustezza di accenti, rapida ed
essenziale valorizzazione delle parole, prontezza di botte e risposte dialoganti. poiché
questa sfrenata allegria di Don Giovanni si svolge entro un cimitero, ecco stabilito il
motivo drammatico di questa scena: l’oltraggio, l’offesa fatta alla maestà della morte.
L’argomento del dramma si solleva verso la solennità della fine: le colpe di Don
Giovanni non si limitano più ad attentati erotici. Al gaudente subentra il libertino, in
senso settecentesco: lo spirito forte, il libero pensatore. Non più soltanto «il dissoluto
punito», ma «l’ateo fulminato». Le colpe di Don Giovanni non sono più contro la carne,
ma contro lo spirito. Non servirà a nulla, allora, la 52 per dimostrare che il
Commendatore è il vero e unico antagonista di Don Giovanni, e vero personaggio
positivo dell’opera. Infatti, in una specie di struttura simmetrica semicircolare egli ci
mostra che all’introduzione, per tre bassi con intervento di un soprano, corrisponde il
finale, per tre bassi (Don Giovanni, Leporello, Commendatore) con intervento di un
soprano (Donna Elvira, mentre nell’introduzione si trattava di Donna Anna); e
all’Andante con tre bassi della morte del Commendatore corrisponde la scena del
cimitero, per i medesimi tre bassi. Solo che in mezzo si pone l’aria di Donna Anna,
«Non mi dir, bell’idol mio», a guastare la simmetria. Anche Kierkegaard disprezza l’aria
di Donna Anna. Toscanini la ometteva. Effettivamente c’è un abisso, come osserva lo
Hocquard, tra quest’aria e le prime espressioni di Donna Anna nell’opera, il concitato,
quasi febbrile duetto «Fuggi, crudele, fuggi», e la grandiosa aria «Or sai chi l’onore». Là
tutto era passione e demonismo. E lo Hocquard va oltre, a ffermando
deliberatamente che «lungi dall’essere un tappabuchi per occupare il tempo prima del
cambiamento di scena, l’aria di Donna Anna è una magnifica riuscita drammatica».
Qualcosa si è spezzato nel personaggio, che ora si mostra quasi chiamato da una
vocazione religiosa. «Donna Anna rinuncia alla vendetta, e con la sua rinuncia
permette alla Morte di mettersi in marcia e di venire, soltanto allora, a prendere Don
Giovanni con la sua mano di fuoco. Per un gioco di compensazioni cosmiche, la libertà
ritrovata di Anna permette alla fatalità di mettere in moto i suoi fatali meccanismi». È
un fatto che quest’aria costituisce un trapasso necessario dalla Donna Anna che
abbiamo conosciuta, tutta fiera e fremente, quasi l’incarnazione della vendetta, a
quella che nell’ultima scena dell’opera allontanerà da sé il povero Don Ottavio,
desideroso di convolare prontamente a nozze, chiedendogli un anno di dilazione, nel
quale essa possa consumare il lutto per la morte del padre. questa aria viene talvolta
designata come «aria dell’oratorio», forse perché nella dolcezza della prima parte e
nel rapimento estatico dei vocalizzi della seconda fa balenare l’immagine di una
beatitudine celeste, o per lo meno d’un riposo ultraterreno a chi, come Anna, ha tanto
tribolato su questa terra. C’è un’evidente analogia di funzione drammatica nelle ultime
arie dei due personaggi femminili. Entrambe, Donna Elvira e Donna Anna, recedono
dalle loro caratteristiche terrene. Donna Elvira si spoglia del suo amore possessivo per
Don Giovanni, e a esso subentra in lei uno slancio di carità, per la sorte dell’uomo
amato, ch’ella vorrebbe salvare dalla rovina a cui va incontro. In Donna Anna si
spegne l’odio per Don Giovanni, si spegne la passione di vendetta in cui il suo
personaggio sembrava compendiato per gran parte dell’opera. Scottata da quel
contatto impuro, maturata dalla sventura, Donna Anna non è più la stessa persona
che era al principio del dramma. Ecco perché, forse, non potrà più sposare Don
Ottavio, e chiederà, alla fine dell’opera, un anno di rinvio. Forse, la donna uscita da
questa amara tempesta non se la sente più di unire la sua vita a un gentile e amabile
vagheggino. Si noti un particolare strumentale che dice molto: in quest’aria di Anna
accade per la prima volta che si associno a questo personaggio i clarinetti, gli
strumenti della tenerezza introspettiva, della malinconia profonda e appassionata,
che in passato parevano prerogative dell’amorosa Elvira, mentre sconvenivano a
Donna Anna, incarnazione della vendetta, esplicita e rettilinea come un fil di spada. La
presenza dei clarinetti ci dice che nella amazzone è maturata la donna, che il
personaggio di Donna Anna ha acquistato spessore psicologico. La forma dell’aria è
assai semplice, una specie di libero rondò, che funge un po’ da corrispettivo di quello
dell’aria di Ottavio, «Il mio tesoro intanto» e di quello dell’aria di Elvira, «Mi tradì
quell’alma ingrata». C’è in esso qualcosa di bucolico e quasi pastorale, ma forse il suo
autentico signi ficato si precisa attraverso una reminiscenza, ancora una volta una
reminiscenza gluckiana, il carattere di questo tema ci riporta alla celebre melodia di
flauto con cui si esprime la pace degli Spiriti Beati nell’Orfeo ed Euridice. L’aria-rondò è
una forma eminentemente circolare, che si ravvolge su se stessa e in sé si conchiude.
Non è un’aria che «va» in qualche direzione, come l’aria in due sezioni,
eminentemente drammatica. Col periodico ritorno dell’idea principale l’aria- rondò
sembra ribadire un punto d’arrivo e tirare le somme. In breve, queste ultime arie sono
da intendere come «conclusioni su Ottavio», «conclusioni su Donna Elvira»,
«conclusioni su Donna Anna»: segnano il punto terminale a cui codesti personaggi
sono stati condotti attraverso la marcia del dramma. D’ora innanzi il campo della
scena ha da restare aperto solo per l’affrontamento dei due veri antagonisti, Don
Giovanni e il Commendatore. Non c’è più posto per gli esseri umani, ma solo per i
princìpi: la Vita e la Morte, la libertà e l’autorità, la Terra e l’Al di là. Scena
quattordicesima: Don Ottavio solo, un recitativo secco. Don Ottavio esce di scena e
segue Donna Anna. Scena quindicesima: Sala illuminata della casa di Don Giovanni, in
scena ci sono Don Giovanni, Leporello e i Suonatori [N.26 – Finale Allegro vivace con
Archi, 2 Flauti, 2 Oboi, 2 Clarinetti in La, 2 Fagotti, 2 Corni in Re, 2 Trombe in Re,
Timpani in Re La] Siamo in casa di Don Giovanni, siamo alla cena “la mensa è
preparata”. Massimo emblema del finale della musica d’azione, tutto segue il dramma
come un guanto. Don Giovanni è da solo a mangiare e Leporello serve. I suonatori
sono diegetici. Mila si fa in questo caso domande e si da delle risposte. Bisogna
improntare il tutto come un banchetto funebre. Appena Leporello porta i piatti in
tavola i suonatori suonano creando musica diegetica. Il tempo cambia in Allegretto
con Violoncelli, 2 Oboi, 2 Clarinetti in La, 2 Fagotti, 2 Corni in Re. Si sente un
prolungamento della fanfara del piacere. Questa è la pagina delle citazioni dove
Mozart scrive brani di altri, delinea realismo, passano in primis Cosa rara di Martin
Soler. Leporello serve i piatti in tavola e Don Giovanni 55 mangia e beve. I tempi
cambiano e cambiano gli strumenti si aggiungono. Don Giovanni si accorge che
Leporello gli sta rubando una qualcosina di mangiare. La scena è molto comica.
Seguono le altre citazioni Evvivano i litiganti di Sarti dopo “Piatto! / Servo” e poi dopo
l’insieme “fingerò di non capir” segue l’autocitazione dalle Nozze di Figaro con la
melodia del Farfallone Amoroso, questa ovviamente è un’anticipazione a ciò che
accade a Don Giovanni. Mila: Le ultime arie che abbiamo ascoltato, di Don Ottavio, e
soprattutto di Donna Elvira e di Donna Anna, hanno per così dire avuto il compito di
smobilitare questi personaggi, togliendo loro la carica di passioni umane che li
caratterizzava: Donna Elvira si è spogliata del suo amore possessivo per Don Giovanni,
ed è solo più pervasa da una fiamma di carità; Donna Anna sente che la vendetta non
serve a nulla. Praticamente le ultime arie hanno avuto il compito di sgombrare il
terreno dai personaggi umani per lasciare libero il campo allo scontro finale dei due
veri antagonisti: Don Giovanni e la Statua del Commendatore, che chiaramente si
rivelano in quest’occasione per qualcosa di più che semplici creature umane. La
Statua del Commendatore significa la giustizia celeste, mossa a intervenire
dall’eccesso delle colpe di Don Giovanni. Dallapiccola: «Il Commendatore è, a mio
modo di vedere, il protagonista dell’opera… perché rappresenta lo spirito, la
coscienza… e perché stabilisce l’architettura di tutta l’opera… Apparendo
nell’introduzione e nel finale fissa i punti sui quali potrà essere rizzato quel grande
arco che è la costruzione del Don Giovanni… Se Don Giovanni non è la figura più
pronunciata dell’opera, ciò si deve al fatto che egli soggiace alla volontà del
Commendatore, cioè di colui che – come scrisse Kierkegaard – è coscienza: Don
Giovanni è condannato nell’istante stesso in cui uccide il Commendatore. Da questo
momento non una delle sue imprese amorose è portata a lieto fine. E Don Giovanni ci
appare come la preda attorno a cui sempre più si stringe il cerchio degli inseguitori. Si
tratta di un’opera morale più di ogni altra; di un’opera in cui ciò che il titolo originale
promette, Il dissoluto punito, ossia il Don Giovanni, viene mantenuto già molto prima
del castigo finale dell’eroe. E per noi non è di facile renderci conto del perché
Beethoven non abbia mai perdonato a Mozart di aver messo sulla scena una fi gura
così immorale.» L’interpretazione più ovvia che vede la Statua come giustizia celeste
per le colpe di Don Giovanni non è accettata da Abert, Schurig e Hocquard, per loro si
tratta dello scontro di due princìpi opposti, nei quali par di dover ravvisare, in
sostanza, la Vita (Don Giovanni) e la Morte (il Commendatore). Mila espone la sua nel
Cap.4. Il frivolo libertino si solleva su se stesso, perde i suoi connotati viziosi per
diventare un’immagine, positiva, di coraggio cavalleresco. Per l’Abert, «Don Giovanni si
solleva a piena grandezza tragica. Anche nel crollo egli trascende la misura umana».
Certo, l’Abert è attento a limitare qualsiasi interpretazione ideologica del personaggio:
«Qui spunta quel Don Giovanni che troppo spesso si dimentica per il semplice
seduttore: l’eroe dello sfrenato impulso vitale dei sensi, che preferisce
l’annientamento piuttosto che la rinuncia volontaria anche alla più piccola parte della
sua forza». Dunque, «eroe dello sfrenato impulso vitale dei sensi», e basta. Tutto il
teatro musicale dell’Ottocento, da Rossini a Verdi, da Wagner a Mussorgski, si è
nutrito del finale di Don Giovanni. Di Don Giovanni già s’è detto come non sia un
carattere ma un’astrazione. Del Commendatore giustamente è stato detto che al
principio dell’opera è «me no che un uomo, precisamente solo una funzione, solo un
nobiluomo, uno sprovveduto e coraggioso difensore». Ricordiamo ancora una volta
che il finale è, per così dire, doppio: c’è il finale drammatico con la scena del
banchetto, l’apparizione della Statua e la fine di Don Giovanni, e c’è la chiusa, quando
scomparsi Don Giovanni e il Commendatore, i personaggi superstiti appaiono sul
proscenio a cantare una convenzionale «morale della storia». I due tipi di concertato
in uso nel melodramma settecentesco: il concertato d’azione, quel tipo di finale che
Da Ponte soleva definire «dramma nel dramma», nel corso del quale accadono
importanti eventi, e i personaggi vengono per così dire sbattuti uno contro l’altro, in
un dialogo fitto ed essenziale per lo sviluppo dell’azione; e il vecchio concertato
statico, che ha luogo quando i fatti sono già avvenuti, e ha solo la funzione
convenzionale di un «per finire». Qui ci sono tutti e due, affiancati. Il finale comincia
con Don Giovanni e Leporello in scena. La prima metà del finale, comprendendovi
anche la pur drammatica e commovente irruzione di Donna Elvira, è lieta: il
banchetto. La seconda parte è tragica e terribile: il Convitato di pietra. Un problema di
regia lungamente discusso è se Don Giovanni debba sedere a tavola solo, oppure in
mezzo a due belle figliole – figuranti mute – che banchettano con lui. Don Giovanni è
solo a tavola, e Leporello lo serve. La musica è brillante, cavalleresca, con toni
rimbalzanti di fanfara, ai quali si associa il canto di Don Giovanni. La melodia si insedia
con sicurezza e autorità nel tono di re maggiore. La sicurezza, e quasi volgarità, di Don
Giovanni è la sicurezza che viene dalla ricchezza: «Giacché spendo i miei denari, Io mi
voglio divertir». Vero è che volgari non sono tutti i divertimenti di Don Giovanni. Vi è
un’orchestrina del tipo di quelle usate nel Settecento per la musica lieve delle
serenate «Voi suonate, amici cari!» intima Don Giovanni, e l’orchestrina in scena
intona, col timbro un po’ flebile e un po’ comico dei legni, un’aria in 6/8 dell’opera
Cosa rara dello spagnolo Martin y Soler, proprio quello per cui Da Ponte dovette
scrivere un libretto contemporaneamente a quello del Don Giovanni. Uniformandosi
in parte alla melodia dell’orchestrina Don Giovanni esalta con le parole il proprio
piacere, quasi per goderlo di più: «Ah che piatto saporito!». È nella natura di Don
Giovanni di essere sempre 56 tutto in quello che fa: age quod agis. Ma per una
componente di crudeltà quasi sadica che c’è nel carattere di Don Giovanni, il suo
piacere della tavola è tanto più aguzzato dalla privazione altrui. L’esagerazione con cui
esalta il piatto saporito è tutta volta ad aumentare il desiderio di Leporello, che lo
guarda esterrefatto: «Ah che barbaro appetito! Che bocconi da gigante!», aggirandosi
come un cane in attesa degli ossi. Vi è un gioco comico sui bocconi. Don Giovanni, che
ha finito una portata, ordina: «Piatto!», e Leporello, premuroso, risponde: «Servo!».
L’orchestrina intona un nuovo motivo, in fa maggiore, in 3/4, e subito Leporello
riconosce: «Evvivano I litiganti!». «Versa il vino» ordina ora Don Giovanni, e Leporello
eseguisce. Don Giovanni degusta, e sposando la melodia dell’orchestrina commenta:
«Eccellente marzimino!». Leporello cambia il piatto a Don Giovanni, e di nascosto si
caccia in bocca un pezzo di fagiano. Intanto l’orchestrina ha fnito il pezzo dei Due
litiganti e, cambiati i corni in si bemolle, in questo tono attacca la celebre aria di
Figaro: «Non più andrai, farfallone amoroso», Don Giovanni non si accorge che si
tratta di un segno che gli viene dall’al di là; che i musici stanno scrivendo sulla parete,
con mano invisibile. Sull’aria delle Nozze di Figaro si svolge l’ultima pantomima buffa
di quello che il Jouve chiama «l’erotismo della bocca». Leporello ha addentato un
pezzo di fagiano, e Don Giovanni che se n’è accorto, senza guardarlo lo chiama.
Leporello, con la bocca piena, biascica e Don Giovanni gli ordina: «Parla schietto,
mascalzone!». Quello inventa lì per lì che una flussione non gli lascia le parole proferir
Don Giovanni gli ordina di fischiare, e lui: «Non so far». Ma come sempre questi
contrasti tra padrone e servitore si concludono nella bonarietà. Don Giovanni è
sadico, ama tormentare Leporello, ma sempre in fondo lo perdona. Leporello
confessa, adottando tale quale la celebre melodia di Figaro: «Sì eccellente sì eccellente
è il vostro cuoco, Che lo volli anch’io provar». E Don Giovanni ripete: «Sì eccellente è il
cuoco mio, Che lo volle anch’ei provar». Ripetendo le parole e la melodia,
praticamente accetta la scusa di Leporello. Scena sedicesima: Entra affannosa Donna
Elvira, tutto cambia è diventa Allegro assai Archi, 2 Flauti, 2 Oboi, 2 Clarinetti in Si bem,
2 Fagotti, 2 Corni in Si bem. Ella vuole provare l’amore di Don Giovanni, prova pietà,
Don Giovanni ride e sprezza a Donna Elvira, che si inginocchia e Don Giovanni si
inginocchia e si rialzano. Si crea un piccolo terzetto tra Donna Elvira, Don Giovanni e
Leporello. Donna Elvira dice a Don Giovanni: “Che vita cangi”, qui Donna Elvira è molto
isolata, c’è un disegno melodico molto garbato e frivolo che non ha nessuna presa su
Don Giovanni. Don Giovanni solennemente la caccia, con “Lascia ch'io mangi. / E, se ti
piace, / mangia con me.” Insieme cantano e Donna Elvira canta: “Réstati, barbaro, / nel
lezzo immondo: / esempio orribile / d'iniquità” e Don Giovanni risponde: “Vivan le
femmine! / Viva il buon vino! / Sostegno e gloria / d'umanità!” che ricorda quel “Viva la
libertà!” della fine del primo atto. Questa è una non-aria di Donna Elvira che entra
impostata per un’aria ma la fluidità del finale non permette la staticità ariosa. La
musica diventa torbida, l’armonia è torbida, cromatica con la settima diminuita che
porta soprannaturalità. Donna Elvira esce di scena e rientra per emettere un grido
orribile. Don Giovanni e Leporello si domanda la natura del grido e il padrone manda
a vedere Leporello che rientra con un grido ancora più forte e riaccade la stessa cosa
di Elvira con la discesa cromatica, la settima diminuita e la sincope. Il tempo è Molto
allegro con lo stesso organico con Corni in Fa, la musica va nella direzione del
soprannaturale, sappiamo che c’è il Commendatore ma si crea una suspence, un
ritardo dove si lascia a Leporello un ultimo intervento buffo dove trema nel parlare
“l’uom… di … sasso” bussano la porta e ricapita la stessa cosa che era successa al
Cimitero dove Leporello sotto ordine di Don Giovanni, non riesce ad aprire la porte e
quindi la apre Don Giovanni, Leporello si nasconde. Il momento buffo ritarda il
momento culminante, che sarà caratterizzato dall’intensità. Mila: A questo punto
irrompe in scena Donna Elvira, sempre smaniosa, passionaria e fanatica. Una svolta,
come scrive l’Abert, ma una svolta repentina, che ci coglie di sorpresa. Donna Elvira ha
sviluppato la sua vocazione missionaria, da Esercito della salvezza. Non vuol più
riconquistare Don Giovanni, ma salvarlo. Abert osserva sulle «frasi concise, che spesso
suonano come meri gridi». L’orchestra, rileva il Jouve, «è stabilita su una figura agitata
e ossessiva, oscillazione sull’intervallo di un semitono». Il canto è sillabico, spezzato,
nelle brevissime botte e risposte: solo Donna Elvira si concede due melismi sulle
parole «pietade» e «cangi», «dov’ella concentra col più grande e ffetto tutto il proprio
sentimento come in un punto focale». Si rileva il «tono ispirato» di Donna Elvira, che la
rende purtroppo insopportabile, e fa notare come «questi sarcasmi, queste ingiurie
passano sopra una linea ispida che i violini disegnano, simile a una catena di
montagne». L’affettazione galante e schernevole di Don Giovanni è odiosamente
crudele. Donna Elvira s’inginocchia per supplicarlo, e subito s’inginocchia pure lui, da
compito cavaliere: «Se non sorgete, non resto in piè». Lo stesso Leporello è mosso a
pietà, e sulla solita figura orchestrale di trillo lento commenta: «Se non si muove Pel
suo dolore, Di sasso ha il core, O il cor non ha!». Ma già Don Giovanni ha posto fine
alle finte schermaglie e ha intonato un canto pesante e volgare, «Lascia ch’io mangi, E
se ti piace Mangia con me», che su quest’ultime parole si apre in una specie di
prosopopea enfatica e trionfale. Potremmo chiamarlo l’inno del materialismo
sensuale di Don Giovanni. Infatti, verrà tosto ripetuto sulle parole emblematiche:
«Viva le femmine, Viva il buon vino, Sostegno e gloria D’umanità!». L’orrore di Donna
Elvira e la compassione di 57 Don Giovanni: «il Commendatore sparisce e si apre una
voragine». S’odono le voci del coro maschile, fuori scena, di gluckiana solennità:
«Vieni, c’è un mal peggior». Secondo il Jouve, «il coro è il Commendatore allo stato
cosmico». Soltanto ora Don Giovanni è veramente sconfitto e sbigottito. Non c’è più il
cavaliere coraggioso, ma l’uomo addossato alla morte ineluttabile. Scale discendenti
dei violini, accordi sincopati dell’orchestra stabiliscono la michelangiolesca catastrofe
sonora del crollo finale: la terra si apre per inghiottire il peccatore. Leporello guarda
allibito il suo padrone, ridotto in quello stato, e si completa qui il processo di
separazione tra Don Giovanni e il suo doppio, che si è operato a poco a poco nel corso
della scena. Leporello è rimasto fedele e solidale col suo padrone, finché questi era
sicuro di sé e pareva signore della propria sorte. Ma Leporello non può seguire fino in
fondo il modello di cui egli è la proiezione escremenziale. Non può seguirlo nella
sventura e nella fine. Ora lo guarda da lontano: «Che ce􀉽o disperato! Che gesti d’un
dannato!». Scena diciottesima: in scena ci sono tutti tranne Don Giovanni. Il tempo è
Allegro assai con Archi, 2 Flauti, 2 Oboi, 2 Fagotti, 2 Corni in Sol. Finale che porta una
sorta di finale felice. Rispondono ad una necessità, con il merito che deve essere
eseguito per tre ragioni: bellezza musicale; serve per rassicurare il pubblico per via del
fatto che la situazione del Don Giovanni è eccezionale e quindi rendeva la
identificazione in Don Giovanni fallibile; rendere il dramma giocoso e quindi rientrare
nel dramma giocoso. Il finale serve per mettere in evidenza il fatto che Don Giovanni è
il collante della situazione tra tutti con la visione concentrica che vede al fulcro Don
Giovanni, senza di lui tutti si allontanano, tranne Zerlina e Masetto che percorrono la
stessa strada. C’è una prima fase interrogativa dove domandano a Leporello dove sia
Don Giovanni, Leporello ha un ruolo importante, è il testimone di ciò che è accaduto.
Leporello ha toni seri, alcune volte da oracolo e racconta: “Tra fumo e fuoco... / badate
un poco.../ l'uomo di sasso... / fermate il passo.../ Giusto là sotto / diede il gran botto, /
giusto là il diavolo / se 'l trangugiò.” Si capisce il sovrannaturale. C’è la prima
divergenza, Don Ottavio canticchia la sua melodia lirica, chiedendole una mano,
Donna Anna risponde con: “Lascia, o caro, un anno ancora / allo sfogo del mio cor”
con una pausa di riflessione di un anno che porterà alla rottura dei due. Per la prima
volta i due si allineano musicalmente, quando si separano, infatti cantano insieme: “Al
desio di chi t'adora / ceder deve un fido amor.” Donna Elvira si ritira. Masetto e Zerlina
vanno a casa. Leporello andrà all’osteria a trovare un padrone migliore. Tutti insieme
cantano: “Questo è il fin di chi fa mal: / e de' perfidi la morte / alla vita è sempre
ugual!” con il tempo che diventa Presto con Archi (senza Violoncelli), 2 Flauti, 2 Oboi, 2
Clarinetti in La, 2 Fagotti, 2 Corni in Re, 2 Trombe in Re, Timpani in Re La. Ha dei tratti
di musica sacra. Utilità del secondo finale è il ritorno al dramma buffo. Mila parte da
una domanda: “Perché ci deve essere la punizione così dura per Don Giovanni?”. Lo
paragona al Falstaff dove nessuno sognerebbe il peccato così duro per il secondo. Per
Mila non è la punizione rivolta verso il donnaiolo ma la punizione è verso il libero
pensatore con i riferimenti alle lettere di Mozart di disprezzo verso alcuni illuministi,
Voltaire tra alcuni. Mozart ha intenzione di criticare il libero pensatore ma ne fa
un’altra, viene punito ma Don Giovanni ha un enorme fascino sullo spettatore, c’è il
personaggio seducente con cui abbiamo solidarizzato. Mila: Dopo il finale
drammatico, la chiusa, l’epilogo convenzionale. Il concertato all’antica, nel vecchio stile
dell’opera comica italiana, quando, avvenuti ormai ed esauriti i fatti, i personaggi
vengono tutti insieme alla ribalta, magari tenendosi per mano, a cantare la morale
della favola. Personaggi, qui, singolarmente svuotati e ridotti davvero al rango di
burattini, dopo che le ultime arie li hanno prosciugati dei loro contenuti, e dopo che la
scomparsa di Don Giovanni ha soppresso quel punto di riferimento per il quale
soltanto essi vivevano. A Vienna non venne eseguita. La moralità sempliciotta e
corriva del lieto fine si addice a quello che si autodefinisce «dramma giocoso», e che è
di fatto concepito entro lo stile e gli schemi dell’opera comica. È composta di tre parti
musicali, delle quali la prima e l’ultima hanno funzione prevalentemente collettiva,
d’insieme, mentre quella centrale, in tempo lento, dà luogo alle diverse definizioni dei
destini individuali. Nella prima assistiamo a una specie di rivincita di Leporello. Per
quanto vile, pauroso e zotico, Leporello ha ora pur sempre una superiorità rispetto
agli altri superstiti del dramma. Lui ha visto; lui è stato testimone della catastrofe. È
uno che, sia pur di straforo e nascosto sotto la tavola, ha assistito al Mistero. Leporello
può perfino prendersi il lusso di parlare con una certa solennità, quasi di oracolo.
Nella seconda parte entrano in orchestra i clarinetti, che mancavano nel pezzo
precedente, e Don Ottavio attacca una delle sue arcadiche melodie per chiedere a
Donna Anna il sospirato adempimento del loro sogno coniugale. Don Ottavio non si
smentisce: sempre sospiroso, sempre zuccheroso, canta esattamente come ha
sempre cantato, per lui è come se nulla fosse accaduto, come se la tragedia di Don
Giovanni e del Commendatore non avesse lasciato su lui la minima traccia, e infatti
egli non ne ha capito niente. La sua arcadica mollezza contagia perfino Donna Anna,
che gli risponde sulla stessa melodia, e le due voci per un poco si alternano, in una
specie di molle canone galante, inebriandosi alla fine in un gorgheggio sull’originale
parola «amor». Ma la risposta di Donna Anna è negativa, o per lo meno chiede una
dilazione. Vuole un anno di tempo per smaltire il lutto. Poi è la volta di Donna Elvira
d’annunciare, su una melodia in mi minore: «Io men vado in un ritiro A finir la vita
mia». Sostanzialmente sulla stessa melodia Masetto e Zerlina 60 comunicano che se
ne vanno a casa, «a cenare in compagnia». Leporello invece introduce un’altra
melodia, robusta e popolana, per dire che se ne andrà all’osteria «a trovar padron
miglior». Quindi i tre personaggi popolani inveiscono contro Don Giovanni, da bravi
superstiziosi come sono: «Resti dunque Quel birbon Con Proserpina e Pluton!»
Lettura del Don Giovanni-Massimo Mila (I capitoli sull’opera sono nei parti di
riferimento) Cap. 1 “I Don Giovanni”: Don Giovanni è una figura, insieme a Ulisse,
Faust e Amleto, che è uscita dalla letteratura ed è entrata nella vita. Ciò avvicina questi
personaggi alla dimensione del mito. Ortega y Gasset scrive che Don Giovanni è un
tema proposto all’immaginazione e alla riflessione e può diventare il simbolo di un
fermento tragico che si trova in tutti gli uomini. L’anno di nascita è attorno varie
ipotesi, la più accreditata è quella de El burlador de Sevilla del 1630 di Tirso de Molina,
in questa versione primordiale Don Giovanni è un erotomane, un maniaco
ossessionato dal desiderio delle donne. La sua colpa è la lussuria e di inganno con cui
corteggia le donne, da qui burlador. Don Giovanni è un personaggio capace di vita
autonoma, sussiste fuori dalle opere letterarie che lo hanno generato. Secondo Jean
Rousset “Tirso ha messo in opera un sistema di forze le cui combinazioni possibili
sono numerosissime, variando le relazioni interne del dispositivo originale, formato
su due elementi fissi, l’Incostanza e il Morto e uno variabile, il gruppo delle Donne
sedotte. In uno scenario di commedia dell’arte della seconda metà del Seicento
vediamo spuntare il titolo L’ateista fulminato che rimarrà sottotitolo nella
tragicommedia francese del Rosimond (1669) e anche nel Festin de pierre del
Dorimond, qui appare per la prima volta il duello finale di Don Giovanni contro la
Statua del Commendatore, inoltre si palesa l’aspetto dell’ateismo, empietà del Don
Giovanni, si aggiunge quindi il peccato dello spirito, o meglio contro lo spirito. Il
Settecento produrrà Casanova come attenuazione del tipo più comune e
convenzionale di Don Giovanni e anche il Don Giovanni intellettuale nella figura di
Helvétius. Accentuazione del sacrilegio porta in primo piano la figura del
Commendatore, assassinato e poi invitato a cena (invito alla statua). Da qui l’altro
titolo il convitato di pietra che compare in un altro scenario secentesco della
commedia dell’arte, in Francia diventa Le festin de pierre. In realtà Don Giovanni e il
Commendatore sono: protagonista e deuteragonista (secondo attore del dramma
greco). I due sono i poli opposti tra i quali si svolge l’azione. Prima ancora di Tirso, il
carattere sacrilego era stato avanzato in un lavoro teatrale rappresentato a Ingolstadt
nel 1615. In questo testo il protagonista si limita a pigliare a calci e invitare a cena il
teschio. Si comprende però che nella figura di Don Giovanni un secondo personaggio
più sottile che cominci bene presto a infilarsi accanto a quella primitiva
dell’incontinente seduttore. L’opera di Mozart e Da Ponte tratta uno dei due: si pone
un compendio di tutti i soprasensi di cui il Settecento l’aveva caricato sottolineando il
sacrilegio. Nel caso di Mozart il personaggio da negativo cambia segno e ci appare
come un eroe. Il mito di Don Giovanni quasi esaurito viene recuperato da Mozart che
lo porta all’avvenire. Don Giovanni senza Mozart non esisterebbe. Goldoni nel filo di
tramandi ha il merito di aver reinserito Donna Anna, tolta da Moliere che a sua volta
inventò Donna Elvira. Donna Anna è la congiunzione tra i due poli. Mozart è il
momento di fortuna per Don Giovanni che trasmette il personaggio ai romantici. La
prima fondamentale interpretazione romantica è da Hoffmann che immagina uno
sdoppiamento del personaggio di Donna Anna durante l’opera. Hoffmann attribuisce
segrete dimensioni, che vanno dal terribile regno del pianto infernale al lontano
sconosciuto regno delle anime. Don Giovanni diventa il simbolo della solitudine
dell’uomo e dell’ansia di bucare questa solitudine in comunicazione con l’altro di sé.
Don Giovanni non è soltanto un volgare libertino, la natura lo aveva dotato di tutto ciò
che innalza l’uomo. Ora è conseguenza triste del peccato originale. L’amore fu la
trappola di cui il Demonio si servì per catturare la più nobile delle creature, Don
Giovanni. Da trasgressore sacrilego si trasforma quasi in un uomo degno di
compassione, che abbia patito ingiustizia, che sia stato privato d’un bene dovutogli; da
eroe dell’incontinenza, per eccesso, e quindi positivo, in un certo senso fisico e
biologico, se non morale, Don Giovanni diviene un melanconico eroe della privazione,
romanticamente proteso alla caccia d’un irraggiungibile bene ideale. Sorge così da
Don Giovanni il ribelle. La protesta di Don Giovanni si avvicina alla leopardiana
protesta contro la natura, accusata di porre malignamente nell’anima dell’uomo
brame che non si possono saziare, aneliti destinati a ricadere impotenti. La fortuna
ottocentesca di Don Giovanni, e dell’opera di Mozart diventa il simbolo stesso della
condizione umana secondo il concetto romantico, crocifissa sulla contraddizione
insopprimibile tra la sua natura finita e l’infinito delle sue aspirazioni. Questo Don
Giovanni finisce per stravolgersi, in mano di Hoffmann, in un eroe religioso. Il
rovesciamento dialettico della figura di Don Giovanni ha luogo quando il
Romanticismo lo mette in contatto con la nozione di infinito. Ciò nobilita la sua
insaziabile sete sessuale. Nel Seicento a nessuno era mai venuto in mente che Don
Giovanni corresse dietro a tante donne perché tutte lo lasciavano insoddisfatto nella
sua ansiosa ricerca dell’ideale. Don Giovanni seduce una donna dopo l’altra così come
si dice che una ciliegia tira l’altra. 61 Nessuno s’è mai sognato di fare una scorpacciata
di ciliege perché ognuna lo delude, ed egli cerca sempre nella prossima la Ciliegia
ideale. Per Søren Kierkegaard, Don Giovanni non è né un basso peccatore per
incontinenza né un sottile dottore della trasgressione sacrilega. La sua natura
essenzialmente erotica e sensuale viene isolata e proiettata fino a farne un valore
assoluto. Don Giovanni non che riceva in sé qualche nota estranea ma al contrario
restringendosi rigorosamente in se stessa acquista una specie di paradossale purezza:
è la pura carne. L’interpretazione del Kierkegaard si riferisce in modo stretto e preciso
alla musica di Mozart. Ma c’era in Kierkegaard un’intuizione profonda dell’identità tra
la natura della musica e il flusso vitale. Il Don Giovanni è, per Kierkegaard, non
soltanto la migliore di tutte le opere, bensì è «qualitativamente diversa da tutte le
altre». Don Giovanni è l’unica opera che prenda ad argomento, ed esaurisca
compiutamente, ciò che è l’«oggetto assoluto della musica», ossia l’immediato nella
sua fugacità, e in particolare l’immediato sensuale che, escluso dallo spirito, la lingua
non può esprimere. La musica è il demoniaco» e Don Giovanni è l’espressione, o
meglio l’incarnazione del demoniaco sensuale così come Faust è il simbolo del
demoniaco spirituale. La «faustizzazione» di Don Giovanni diventa, con l’Ottocento, un
capitolo obbligato. Lo scrittore romantico tedesco Christian Grabbe unì i due
personaggi in un unico dramma, Don Giovanni e Faust, e due «cugini» li definirà G. B.
Shaw. Victor Hugo scrisse nella Prefazione del Cromwell: «Don Giovanni e Faust,
questi due drammi si completano l’un l’altro. Ciò che colpisce quando si accostano
questi due drammi gemelli è che Don Giovanni è il materialista, Faust lo spiritualista.
L’uno ha gustato tutti i piaceri, l’altro tutte le scienze. Entrambi hanno attaccato
l’albero del bene e del male: l’uno ha saccheggiato i frutti, l’altro ne ha scavato le
radici. Il primo si danna per godere; l’altro per conoscere. Uno è un gran signore,
l’altro un filosofo. Don Giovanni è il corpo, Faust lo spirito». Contro gli eccessi di
faustizzazione ammonisce il musicologo Jean Massin, ricollocando i due simboli nelle
loro posizioni che Don Giovanni è il fratello nemico, l’esatto opposto di Faust. Un altro
scrittore osserva che Don Giovanni è in certo senso l’inverso di Tristano, per il quale
l’amore era una sola donna, mentre per Don Giovanni il desiderio non può nemmeno
fissarsi. Don Giovanni è rimasto una figura sbiadita e imperfetta finché l’umanità ci si
era presa a rappresentarlo per mezzo della parola e del pensiero. La sua essenza è
movimento e s’identifica col fatto della seduzione moltiplicata. Anche Faust è
seduttore, ma la sua seduzione è statica e cerebrale. Questa forza sempre rinnovata
di Don Giovanni, la sua elasticità, la sua perenne disposizione al movimento della
conquista, coincide con l’essenza stessa della musica secondo Kierkegaard. Molto
meno adatto alle possibilità della musica sembrerebbe il secondo stadio della figura
di Don Giovanni, così potentemente sviluppata da Molière: quello del libero
pensatore, per non dire dell’empio sacrilego quale la leggenda lo presenta. Non si può
mettere in dubbio che Mozart si sia accostato al tema col consueto intento di
edificazione: mostrare la triste fine a cui va incontro il dissoluto. Il titolo esatto è
appunto: Il Dissoluto punito ossia il Don Giovanni. Quanto al terzo stadio
dell’immagine di Don Giovanni, quello romantico, fondato sul presupposto della
insoddisfazione di Don Giovanni e di un suo anelito instancabile all’infinito, alla
attuazione della propria natura celeste, sembra difficile coglierne il segno nell’opera,
se non nella misura saltuaria di certe fulminee introspezioni di cui la musica di Mozart
è capace, sotto la leggerezza delle apparenze settecentesche. Pierre-Jean Jouve ne è il
più coraggioso e sottile assertore. Cap. 2 “L’incrocio di opera seria e opera comica”: Il
Don Giovanni corona definitivamente quel procedimento che si svolge lungo tutto il
Settecento conducendo l’opera comica a raggiungere, se non perfino a soppiantare
l’opera seria nell’importanza del suo rango sociale. I difetti del melodramma
divennero oggetto d’una fiorente letteratura, vuoi di natura trattatistica e di carattere
serioso, per la proposta di rimedi alla corruzione del genere. Delle go ffaggini del
melodramma rideva tutta la società settecentesca. Dame, cavalieri, e anche il
popolino, si facevano beffe dell’opera seria, con la ridicolaggine dei suoi «canori
elefanti», ma continuavano ad affollarne con entusiasmo gli spettacoli. Il peso
crescente che le critiche del melodramma venivano assumendo presso l’opinione
pubblica più qualificata, in particolare gli intellettuali, accumulò lentamente le
condizioni perché una riforma del melodramma venisse tentata a Vienna da
Christoph Gluck, con la collaborazione del librettista italiano Ranieri de’Calzabigi. Nel
corso d’un secolo «l’opera seria divenne esponente di un genere morente». per contro
«l’opera buffa acquistò il potere di diventare l’opera senza aggettivi, passibile d’ogni
contenuto, e con ciò di sotterrare la vecchia opera seria per sempre». Pergolesi,
Piccinni, Galuppi, Paisiello, Cimarosa e Mozart sono le tappe successive di questo
itinerario incrociato. Invece La buona figliola di Piccinni, Il barbiere di Siviglia di
Paisiello, per non parlare del Matrimonio segreto di Cimarosa misero in ombra le
pompose opere serie dei loro autori. Mozart è il punto d’arrivo di questa
trasformazione, e anche di lui possiamo dire che se non avesse scritto il Mitridate, il
Lucio Silla, l’Idomeneo e La clemenza di Tito, la sua grandezza teatrale, e anche la sua
fama, non ne avrebbe sofferto. Nelle Nozze di Figaro viene a compimento la
trasformazione dell’opera comica in commedia musicale, con il concertato d’azione,
nel Don Giovanni l’osmosi di opera comica e opera seria diventa completa, in quanto
si estende anche ai contenuti. Se la via dell’opera comica nel Settecento veniva a
incrociare quella dell’opera seria, al contrario essa marciava parallela alla maturazione
d’una personale concezione del teatro in Mozart. Il segreto di Mozart era che proprio
quella trama di coscienza individuale, 62 cantanti erano al fulcro della contrattazione,
prima bisognava decidere loro poi successivamente i compositori e librettisti. Molte
furono le star femminili del’ 800 come la spagnola Isabella Colbran, moglie di Rossini
che sicuro influenzò la scrittura; Giuditta Pasta che passò in auge nelle parti tragiche
di Bellini e Donizetti; Maria Malibran celebre per l’estensione vocale. Vi fu una
progressiva decadenza dei castrati, in favore di contralti e dei nuovi ruoli maschili. Si
affermarono in questo periodo numerosi tenori in ruoli protagonistici come Giovanni
Battista Rubini che incarnò molti personaggi belliniani; Manuel Garcià che ispiro
Rossini per la parte del Conte d’Almaviva per il suo Barbiere di Siviglia. Anche il ruolo
dei bassi venne modificato, evolvendosi verso il registro acuto, alla definizione
dell’odierno baritono acquisendo anche una centralità spesso inedita nell’azione,
Figaro è baritono. Editoria musicale ebbe un ruolo decisivo per la diffusione dell’opera
in Italia con Giovanni Ricordi promotore di iniziative per la pubblicazione di riduzione
per canto e pianoforte soddisfacendo sia il pubblico impegnato sia quello amatoriale.
Il librettista prima lavorava in solitudine e stava poi al compositore adattare il tutto in
musica, il librettista infatti viene chiamato nel ‘700 “poeta”. Solo con Rossini si modifica
ciò con la collaborazione tra compositore e librettista con Gaetano Rossi, Felice
Romani o Salvatore Cammarano che attendevano approvazione dei lori musicisti con
però alcuni rari ribaltamenti di gerarchie come nel caso di Verdi e Francesco Maria
Piave. I generi si definiscono in tre categorie: seria, come Tancredi, il Pirata, Lucrezia
Borgia, Semiramide; comica come L’Italiana in Algeri, Il Barbiere di Siviglia, Il turco in
Italia, La Cenerentola, L’Elisir d’amore; semiseria come Torvaldo e Dorliska, La Gazza
ladra, La sonnambula e Londa di Chamouix. Non vi sono però dei confini precisi, il
genere semiserio si trova in un’area grigia difficile da circoscrivere. Tra fine ‘700 e
inizio ‘800 le drammaturgie buffe e serie smisero di essere alternative, per avere un
lavoro semiserio bisogna avere un argomento di carattere serio con i personaggi
impostati secondo il carattere dell’opera buffa, delineando quindi una perfetta aria
grigia tra i due generi predominanti. L’opera buffa riprese i temi settecenteschi
raggiungendo in alcuni casi esiti farseschi da teatro dell’assurdo come Rossini dove si
trova comunque un esotismo convenzionale come L’Italiana in Algeri e alcune volte
invece si trovano inflessioni sentimentali esplorate da Rossini La Cenerentola e
codificate da Donizetti L’Elisir d’amore. L’opera serie invece acquisì progressivamente
il finale tragico, destinato a costante negli anni Trenta del’800, con Bellini si ha una
consacrazione alla conclusione tragica. Di pari passo all’appropriazione del couleur
locale, delineato da Hugo, si passa alla esigenza di caratterizzare i luoghi e la realtà, si
passa prima alle scenografie per andare poi alla musica, dove La traviata del ’53 di
Verdi ci fornisce una pittura d’ambiente davvero realistica. I soggetti dell’800
continuano ad essere quelli del Settecento ma molti di questi cominciano a colorarsi
con un romanticismo pop che adatta alle esigenze del grande pubblico i principali
autori dello scenario europeo come per esempio le influenze di Shakespeare per il
Falstaff. L’opera moderna divenne così possibile dall’unione del grottesco con il
sublime, in netta opposizione per Hugo all’uniforme semplicità dell’epoca antica. Fu
Verdi a rendere davvero possibile il passaggio a partire da figure non
necessariamente belle, secondo i principi estetici tradizionali ma memorabili per i
contrasti interiori come nella figura di Rigoletto. La morfologia dell’opera italiana del
primo Ottocento è caratterizzata da un forte grado di codificazione, i livelli sono tre:
articolazione generale, due o tre atti generalmente che catalizzano la tensione
drammatica nel finale centrale; articolazione degli atti, struttura a numeri chiusi dove
ognuno risponde a precide logiche sintattiche, ciò può consistere in pezzi solistici,
duetti, terzetti, cori e concertati. Il primo è sempre introdotto da un brano
strumentale detta sinfonia; articolazione dei numeri, i singoli pezzi sono in genere
caratterizzati da un’alternanza tra momenti cinetici e statici: i primi esprimono un
movimento nell’azione o nell’interiorità dei personaggi, i secondi fissano e
contemplano lo stato emotivo arrestando il tempo, si delinea quindi la solita forma
articolata in recitativo, tempo d’attacco, cantabile, tempo di mezzo e cabaletta. Questo
si arricchisce di ulteriori articolazioni nei concertati e in chiusura di atto, nel finale
centrale di solito non manca il pezzo nel quale culmina la staticità di tutta l’opera, il
cosiddetto largo concertato che produce un improvviso arresto dell’energia cinetica in
una pagina che immobilizza i personaggi in una scrittura fissa, ciò ha il compito di
esprimere lo stupore per un evento inaspettato. Le sezioni statiche sono spesso in
lyric form vale a dire una forma che organizza coppie di versi in questo modo: A-A’-B-
A’’ nei cantabili e A-A’-B-C nelle cabalette. Numerose però sono le forme difettive,
senza cabaletta o cantabile oppure le manipolazioni dei tempi . A partire dalla metà
del’ 800 il lavoro sulla forma smette di avere una semplice dimensione ludica. Le
opere mature di Verdi dimostrano l’utilità delle modifiche morfologiche. Di Rossini
(1792-1868) ci sono letture contrastanti come Hoffmann che lo disprezza e come
Kieseweter che ne riconosce il valore di un artista globale. Si parla di Codice Rossini
per parlare dello standard drammaturgico che lo caratterizzò. La fama arriva fin da
giovane dove già a diciotto anni gli vengono commissionate dalla Scala e La Fenice
alcune opere. A vent’uno grazie alla doppia esperienza veneziana con L’Italiana ad
Algeri e Tancredi si può già definire compositore affermato, la piazza più difficile,
Napoli, lo volle per sette intere stagioni. Così via una serie di numerose opere tra cui il
Barbiere di Siviglia, La Cenerentola, Gazza ladra e Semiramide. Il successo di Rossini fu
terapeutico per la crisi vissuta dall’opera italiana nel primo decennio dell’Ottocento,
morto Cimarosa e Pasiello in 65 stasi nessun autore sembrava in grado di trovare
nuove soluzioni. I punti di riferimento di Rossini sono il canto acrobatico
settecentesco, il teatro di Mozart e la drammaturgia di Paisiello. Rossini riprese la
ricerca tutta italiana sulla vocalità e sulle colorature dando una nuova fisionomia al
vocalizzo. Se per Mozart il fissaggio della psicologia dei personaggi nel loro flusso
vitale è predominante, in Rossini diviene uno strumento della gestualità e della parola
intesa come entità sonora. Paisiello viene recuperato con l’alternanza tra orchestra e
canto alla guida del materiale musicale, la ricerca di uno stile vocale vicino a quello
della conversazione e infine alla concezione ludica del dramma, inteso come gioco
della finzione. Numerose sono le caratteristiche condivise da genere buffo e serio
nella produzione di Rossini: la morfologia basata sull’architettura della “solita forma”,
una vivacità ritmica che spesso conquista l’attenzione dell’ascoltatore ancor prima del
tessuto armonico-melodico, alternanza di momenti cinetici e statici dei concertati
conclusivi, l’orchestrazione brillante che tende a culminare nel caratteristico
crescendo. Ciò crea un’intercambiabilità dei materiali. Rossini gioca con i generi già da
L’Italiana ad Algeri. L’opera buffa è mossa da una gestualità che si fa musica, con
obiettivo quello di creare un flusso energetico in continua crescita tensiva. La
predilezione per la componente sonora della parola è resa dall’ossessivo utilizzo delle
ripetizioni, di materiale verbale e insieme musicale che interrompe il flusso vitale. I
personaggi diventano marionette folli e lo spettatore è portato a prendere le distanze
da ciò che succede in scena reagendo con la risata, la difesa per eccellenza. Il genere
serio ricorre molto meno alle ripetizioni e ai processi meccanici, privilegiando la
ricerca vocale al fine di creare precise identità melodiche. È l’estensione dei concertati
a distinguere maggiormente la produzione seria da quella buffa. L’opera risente delle
tante caratteristiche imprescindibili per il pubblico francese del tempo: il coro come
personaggio agente e figura onnipresente, una cera audacia armonica, sfrondature
evidenti nella coloratura melodica, orchestrazione ricercata e ballabili di un certo
rilievo. Intorno al 1830 l’opera italiana attraversò una svolta decisiva. La conclusione
della parabola rossiniana coincise con gli esordi di Bellini e Donizetti, l’epoca
determina l’apogeo del genere serio con la stabile affermazione dei finali tragici. I
soggetti iniziarono a essere solidamente romantici o al massimo neoclassici ma
prettamente romantici nei contenuti. Si ha il predominio della passione
individualizzata con l’amore rappresentato nella sua componente irresistibile che
divenne il fulcro della maggior parte delle opere. Ciò produsse un superamento della
finzione. Nei lavori di Bellini e Donizetti si ha l’impressione che venga meno il
diaframma tra personaggi e pubblico, favorendo un processo di identificazione
inesplorato dalle generazioni precedenti. I principali cambiamenti toccano il sistema
vocale, l’astrazione dei registri rossiniani diventa inadeguata ad esprimere la maggior
complessità psicologica. Viene superato il ruolo del contralto maschile a favore del
tenore, costruendo quel triangolo formato da soprano-tenore- baritono. Si definisce
anche una maggior colorazione al soprano che diventa leggero, lirico o drammatico e
si favorisce l’apparizione stabile del baritono nel ruolo del personaggio cattivo utile
per l’epilogo tragico. Tra i compositori che hanno lasciato un segno vi sono: Pacini,
Mercadante, Vaccai, Donizetti e Bellini. Vincenzo Bellini (1801-1835) completa la
formazione al Conservatorio di Napoli, il successo arrivò nel 1827 con Il pirata ciò
portò alla collaborazione stabile con il librettista Felice Romani, che si prolungò per i
successivi La straniera, Zaira, I Capuleti e Montecchi, La Sonnambula, Norma e
Beatrice di Tenda. Bellini fu tra i primi a dedicare attenzioni alla valorizzazione dei
lavori già completati evitando frenetiche corse per proporre nuove partiture. Fortuna
di Bellini è dovuta alla straordinaria maestria nel disegnare melodie memorabili.
Quattro sono i principali procedimenti adottati da Bellini: irregolarità fraseologica al
principio classico della simmetria tra le varie frasi che compongono una melodia,
Bellini sostituisce un sistema misto che alterna elementi proporzionali ad articolazioni
imprevedibili, la frase irregolare ospita il culmine dell’arco melodico; armonia
ritardante la costruzione delle melodie in Bellini è collegata alla concatenazione
armonica dell’accompagnamento, la soluzione è la definizione di un percorso che
ritarda le risoluzioni, favorendo la maggior dilatazione della melodia. Dissonanze tra
canto e basso molto spesso sui tempi forti della battuta, Bellini imposta forti
dissonanze tra la melodia e le note del basso, urti vengono risolti dal canto
producendo appoggiature o piccole fioriture che portano alla risoluzione della
dissonanza; alleggerimento della coloratura il vocalizzo tende a essere sfrondato da
Bellini che predilige in genere melodie lineari e meno frastagliate. Se compare una
intensità tende a rifiutare sia la funzione energetica delle colorature rossiniane sia la
dimensione decorativa della tradizione settecentesca. L’atteggiamento scientifico
nell’ideazione della melodia è anche figlio di una ricerca particolarmente raffinata sul
testo ciò possibile con una collaborazione stretta tra compositore e librettista. Sul
piano morfologico le opere di Bellini non rinunciano certo all’architettura della solita
forma ma tende a polarizzare l’attenzione sul cantabile che si catalizza di emozioni
estreme. Vi è una predilezione per i tempi lenti che anche nei finali limita
l’accelerazione solo alle poche battute della stretta consegnando alle melodie cantabili
il compito di risolvere le tensioni del dramma. Donizetti (1797-1848) inizia con lavori
minori, dal debutto a Roma del Zaraida di Granata al successo a Milano che riprese
Parigi e Londra alla volta di Milano con L’elisir d’amore del ’32 e Lucrezia Borgia del
’33, a Napoli invece 66 esordì nel ’35 Lucia di Lammermoor per trasferirsi poi a Parigi e
scrivere opere per il gusto parigino e infine l’incarico a Vienna. Scrive un quartetto di
opere rimasto stabilmente nei cartelloni teatrali Lucia di Lammermoor, La Favorita,
L’elisir d’amore e Don Pasquale. Donizetti ebbe il merito di assimilare e parlare tante
lingue musicali diverse. La prima fase della sua produzione fino a Anna Bolena è
marcata dall’influenza di Rossini dove le opere fanno uso della solita forma cercando
la via dell’originalità più nell’invenzione della melodia che nella rielaborazione
dell’architettura preesistente. Padroneggiò anche la lingua del coetaneo Bellini
acquisendone la predilezione per i cantabili e i concertati di fine atto con doppio
climax. Egli assimila anche i generi francesi come l’opera comique e il grand opera, in
esempio L’elisir d’amore che recupera tratti dell’opera comique con pezzi che
riprendono la forma francese a ritornelli. Vi sono tratti stilistici originali in Donizetti
come la ricerca di una maggior compassione nell’opera buffa, ciò si palesa nella
ricezione dello schiaffo che Norina tira a Don Pasquale per esempio cosa che in
Rossini sarebbe finita con una grande risata qui finisce con la commiserazione di Don
Pasquale. Un altro aspetto distintivo di Donizetti è la predilezione per l’isolamento
tragico dei protagonisti che di solito raggiunge il culmine proprio alla fine dell’opera,
evidente in Anna Bolena ed estremizzata in Lucia di Lammermoor che si conclude con
il doppio isolamento degli innamorati che muoiono separati. Vi è il topos della scena
di follia tipica ottocentesca ripetuta anche in Lucia di Lammermoor che interrompe la
festa nuziale con le mani insanguinate (ha ucciso il marito nel sonno), nel suo sguardo
ella brucia la folla e Donizetti rende attraverso un modernissimo declamato parlante.
Giuseppe Verdi (1813-1901) si affermò fin da giovane a livello internazionale, egli fu un
uomo del Risorgimento Italiano, le storia di popoli oppressi del Nabucco, nei
Lombardi alla prima crociata o nell’Attila furono immediatamente interpretate come
rappresentazioni simboliche di un’Italia in cerca di sé. Verdi fu la voce del pensiero
patriottico. Era il suo teatro a fare gli italiani, rendendo l’unità culturale la prima causa
dell’unità politica. Verdi si identifica più come uomo di teatro che musicista. Egli
utilizza tutti gli strumenti a disposizione per ottenere il massimo effetto teatrale. Il
processo compositivo di Verdi partiva da un’idea drammatica centrale la quale
plasmasse l’opera, il motore di un’invenzione capace di generare un sistema in cui
tout se tient lasciando allo spettatore una sensazione organica. Impressione di
compattezza generale non esclude affatto il ricorso alla nozione di contrastro che è
quasi sempre il primum movens della drammaturgia verdiana, le opposizioni si
ricompongono all’interno di un sistema di forze che è generato dall’idea
fondamentale. A ciò si collega il concetto di tinta spesso citato dallo stesso Verdi per
definire la prima fase della creazione: il colore generale da assegnare alla partitura
lavorando sulla strumentazione. Massima attenzione è il risultato teatrale maturò
anche grazie a una intensa frequentazione dei lavori in prosa ammirati proprio per la
capacità di raggiungere in maniera diretta l’emotività del pubblico. Ciò è focalizzata
nella parola “parola scenica” intesa come espressione capace di scolpire e rendere
netta una determinata situazione. La recitazione in prosa stimolò a Verdi la ricerca sul
declamato utile ad esprimere la psicologia di personaggi complessi. Verdi usa un
declamato cantabile molto lavorato su intervalli e cadenze con la finalità di
raggiungere un livello espressivo inesplorato. L’esplorazione approfondita del
declamato ebbe una conseguenza anche sulla morfologia dell’opera verdiana, in
particolare la capacità plastica di seguire la dinamica emotiva dei personaggi senza la
necessità dell’aria chiusa. Segue quindi un maggior interesse per le forme aperte che
iniziarono a liberarsi dalle articolazioni standardizzate di inizio Ottocento. Verdi cerca
nuove strategie: in Rigoletto (’51) lavora sulle forme aperte ma ne Il Trovatore (’53)
lavora sulle strutture chiuse. Verdi piega la morfologia alle ragioni del dramma,
trovando un’inedita convivenza tra forme aperte e chiuse nell’Otello e nel Falstaff.
Principio drammaturgico guidò anche l’introduzione sistematica del brutto e del
deforme nell’opera italiana. L’ideale estetico professato da Hugo trovo solo in Verdi
l’interprete convinto. Ricerca del caratteristico divenne priorità favorendo lo
sfruttamento di materiali musicali poco nobili come nelle arie del Duca in Rigoletto
ricche di elementi triviali che caratterizza un personaggio nobile solo sulla carta. Tra il
1839 e il 1859 Verdi scrive 24 opere, anni “di galera” caratterizzati dall’esigenza di
comporre. In questi anni produce: Oberto, Conte di San Bonifacio, Un giorno di regno,
Nabucco, I Lombardi alla prima crociata, Ernani, I due Foscari, Giovanna d'Arco, Alzira,
Attila, I masnadieri, Jérusalem (versione parigina de I Lombardi), Il corsaro, La battaglia
di Legnano, Luisa Miller, Stiffelio, Rigoletto, Il trovatore, La traviata, Les vêpres
siciliennes (I vespri siciliani), Simon Boccanegra, Aroldo (rifacimento Stiffelio), Un ballo
in maschera. Spiccano per il moderno dramma romantico Ernani e Macbeth, il primo,
soggetto di Hugo, convinse per la sua “tinta” unitaria, fosca e sinistra nella
rappresentazione di un sovversivo costretto al suicidio per rispettare il patto stretto
con il rivale d’amore. Vi è in questa opera uno scarto verso il grand opéra derivato da
aspetti come: un coro funzionale al dramma e meno decorativo e un interessante
terzetto finale fatto di emozioni contrastanti che rifiuta la convenzione francese di
chiudere l’opera con una pagina solistica. Macbeth segna un primo importante
avvicinamento al tema del fantastico, delineato grazie alle due streghe e al ruolo
principale che Lady Macbeth dà nel sfogare le sue inquietudini represse. A differenza
della Lucia di Lammermoor di Donizetti che esprime il delirio rifugiandosi in una
realtà armoniosa piena di ricordi piacevoli, Lady Macbeth butta fuori tutti i suoi
rimorsi come se aprisse il Vaso di Pandora della sua psiche 67 ricerca sul piacere
prese poi spesso la direzione della sensualità femminile, nelle opere francesi del
secondo Ottocento sono le donne ad essere al centro della vicenda. L’aspetto della
tentazione erotica precedentemente era rimasto secondario. La Francia dopo le
disfatte per mano di Bismark vede nella figura maschile una perdita di potere che
ritorna nella figura della femme fatales insensibili, ciò viene dimostrato con Bizet che
mette in scena nel suo Carmen una gitana sinistra che usa tutto il suo charme per
abbindolare gli uomini. Su tutta questa produzione aleggiò lo spirito di Wagner che
influenzò numerosi compositori francesi, tutte le opere francesi tranne Carmen
secondo Nietzsche avevano subito l’influenza wagneriana. L’opera dell’Ottocento:
Germania In aria tedesca il teatro musicale all’inizio dell’Ottocento manifestava legami
con il Singspiel basato sulla mescolanza di recitazione e canto popolare. Mozart era
riuscito a emancipare il genere dall’etichetta di secondario. Fu Weber ha raccogliere
l’ereditarietà del Singspiel con la pietra miliare dell’opera tedesca ovvero Franco
cacciatore del ’21 su un soggetto ispirato alla leggenda popolare. Weber era il cugino
della moglie di Mozart. L’apprendistato presso Volger, attivo nella corte di Mannheim,
famosa per la sua grande orchestra, lo porto allo studio dell’orchestrazione che poi
Weber avrebbe usato per dare una sfumatura alle sue opere. Vogler avvia Weber nella
stesura di musiche di scena per fiabe esotiche come i Turandot del 1809. Weber dopo
il suo capolavoro continuo a lavorare a opere esotiche segue il lavoro su un soggetto
spagnolo e poi africano. L’opera Franco cacciatore suscitò attenzioni tanto da arrivare
a musica popolare. Le sue arie si radicarono nella cultura collettiva tanto da esserne
assimilate in maniera definitiva. Fu anche questo processo a favorire la fondazione di
un’opera nazionale romantica. Weber nell’opera ricorre spesso alla dialettica
beethoveniana tra forze opposte ammirata dai romantici, in particolare tra il
contrasto tra luce e oscurità. Molti intellettuali trovano nell’opera una perfetta
rappresentazione teatrale della sensibilità romantica. In particolare, il codice dei suoni
ambientali, il respiro della natura esplorato da Schubert rimasto valido fino alle
sinfonie di Mahler. Vi è una spazialità musicale data dell’eco che oltre ad essere un
canale per arrivare al mondo naturale e anche un passaggio per intravedere il mondo
fenomenico dell’aldilà. Weber usa ogni strumento a sua disposizione per dare
l’immaginazione allo spettatore. Alcune visioni così romantiche disturbano alcuni dei
primi spettatori, nel ’18 Hoffmann aveva messo i compositori dell’eccessiva fedeltà
alle immagini evocate dei testi, troppo vincolanti per la fantasia dell’autore e contro la
frase di Beethoven nella Pastorale “non pittura ma rappresentazione dei sentimenti”.
La rivoluzione più traumatica del teatro musicale tedesco fu operata da Richard
Wagner (1813-1883) nella seconda metà dell’Ottocento. I punti di riferimento furono
due: l’opera romantica di Weber e il teatro spettacolare di Meyerbeer. Nel suo
soggiorno in Svizzera Wagner cominciò a meditare su teoria e pratica di un
melodramma innovativo . Wagner decide di dar vita all’ambizioso progetto di
battezzare una nuova forma di teatro, basata sugli archetipi collettivi della mitologia
germanica e sull’innovativa coincidenza tra poeta e compositore. Ciò venne poi
presentato trenta anni dopo con L’Anello del Nibelungo presso il Teatro di Bayreuth
del ’76. Il teatro è creato apposta per collocare le opere di Wagner. Il lavoro era stato
interrotto da due opere animate da temi complementari: il tragico desiderio di morte
di Tristano e Isotta del ’65 e la goliardica rievocazione del medioevo germanico con
Maestri cantori di Norimberga. L’opera d’arte dell’avvenire fu teorizzata per rimediare
a un errore rinvenuto da Wagner alle origini del melodramma: “di un mezzo
dell’espressione (la musica) si è fatto lo scopo, ma dello scopo dell’espressione (il
dramma) si è fatto il mezzo”. La musica deve tornare a essere solo uno strumento per
raggiungere la vera finalità dello spettacolo musicale, ovvero il dramma. Secondo
Wagner il primo genere è il canto popolare che ripreso dai nobili ha scisso
primordialmente musica e testo destinata a culminare nel teatro di Rossini. I più vicini
a recuperare questa scissione sono, secondo Wagner, Weber e Meyerbeer. Il primo
avrebbe raggiunto con maggiore consapevolezza sul problema recuperando la musica
salvo poi rassegnarsi a vedere appassire la musica. Il secondo invece avrebbe cercato
una soluzione iniettando nella partitura la linfa della musica sacra, costruita al di fuori
del dramma. La soluzione per il raggiungimento del dramma unitario basato
sull’equilibrio perfetto di musica e testo consisteva in una sorta di amplesso tra le due
componenti: la poesia doveva farsi musica, esattamente come la musica doveva farsi
poesia. Il raggiungimento dell’equilibrio richiedeva un’attenta ricerca sul testo che
doveva rinunciare a tutte le strutture precostruite della metrica classica. Il risultato
doveva essere una sorta di prosa poetica. La combinazione tra le due componenti fu
definita da Wagner come “fono risonante” inteso come sentimento interiore incarnato
che acquisisce la materia sonora. Il nuovo dramma musicale doveva rappresentare il
divenire dei sentimenti, rifiutando tutti gli schemi rigidi della tradizione
melodrammatica. Nelle opere mature di Wagner gli atti sono costruiti da episodi che
scivolano l’uno dentro l’altro. A unire ciò c’è la melodia che riflette il pensiero poetico
in maniera ininterrotta, la “melodia infinita”. La mescolanza tra piani cronologici
differenti è possibile con i motivi conduttori (Leitmotiv) ovvero brevi unità musicali che
identificano un personaggio, un oggetto o un concetto. La melodia secondo Wagner
non va disgiunta dall’armonia, se la prima corrisponde alla superficie in movimento
dell’acqua, la 70 seconda è invece da associare alla profondità che si estende al di
sotto. Le due sono fatte della stessa materia. Ogni successione di accordi in Wagner
crea nell’ascoltatore aspettative destinate alla frustrazione. La vera risoluzione arriva
davvero solo a fine opera, dopo che le divagazioni armoniche hanno alimentato una
tensione estenuante. Condizione essenziale del nuovo teatro musicale per Wagner è il
ricorso al mito, il modello era ovviamente la tragedia greca considerata la
rappresentazione artistica di una coscienza collettiva. La scelta di Wagner è quella di
psicoanalizzare il mito individuandovi la pura umanità annientatrice dello Stato. Vi è la
lettura del mito inteso come inconscio distruttivo di leggi innaturali della civiltà. Ultimo
passaggio del percorso rivoluzionario è teorizzato nelle opere estetiche che dovevano
consistere nell’estrema ritualizzazione dello spettacolo operistico. Wagner immaginò
un rito moderno, da svolgere in un tempio (Bayreuth). Tutto andava lasciato alle mani
di un solo demiurgo che doveva pensare a tutto. Il sottotitolo “opera romantica”
compare in tutti i lavori composti da Wagner tra il 1883 e il 1850, i soggetti sono senza
dubbio molto romantici nei temi. Vi sono: Le fate del ’34 riprende una vicenda
fiabesca scritta da Carlo Gozzi, L’olandese volante del ’43 ispirato a un racconto
sovrannaturale di Heine, poeta romantico, Lohengrin del ’50 che racconta la storia di
un amore impossibile. Un tema ricorrente nelle opere successive comincia a
delinearsi in maniera netta, la redenzione dell’uomo grazie al sacrificio di una donna.
Wagner era alla ricerca di una figura redentrice che fosse la quintessenza della
femminilità. Musicalmente si palesa la fusione di vecchio e nuovo, con il taglio delle
melodie che ha spesso una fisionomia sufficientemente scolpita per dare vita a un
Leitmotive. Alcuni pezzi chiusi guardano il melodramma italiano, altri invece no. Ma
allo stesso tempo Wagner dilata le proporzioni delle singole sezioni cercando nuovi
orizzonti formali. L’orchestrazione comincia a esplorare terreni sconosciuti, creando
una straordinaria scenografia nella quale ci sono i personaggi. Il successo del Rienzi fu
dovuto principalmente al taglio generale dell’opera allineata alle consuetudini del
grand-opéra francese alla Meyerbeer. L’orchestrazione tenta sesso di restituire
l’impressione del remoto, ciò che colpisce è la spettacolarità sonora. Il cantiere su
Tristano e Isotta fu aperto nel ’54 ci vollero undici anni per la costruzione dell’opera,
l’idea iniziale era quella di lavorare sul binomio amore-morte. Le parole pronunciate
da Isotta, alla fine dell’opera esprimono una ricerca che valica i confini della musica e
del teatro. Tutto il Tristano esiste in funzione di questo momento, di una flessione
musicale che cerca di avvicinarsi alla filosofia. L’influenza di Schopenhauer fu decisiva
per la stesura dell’opera. Storia di Tristano e Isotta era perfetta con quei due
personaggi che sembrano in caduta libera verso il nulla. La tensione verso il nulla è
allineata al pessimismo di Schopenhauer resa alla grande dalla ricerca sull’armonia
cromatica. Complementare è l’opera Maestri cantori, la prima idea è del ’45 quando
Wagner legge un testo di Gervinus. Wagner era intenzionato a scrivere un’opera
comica, ero ebbe bisogno di ventidue anni per portare a compimento il progetto (’67)
il risultato finale non è certo disimpegnato. Nell’opera i principali Leitmotive appaiono
in una fitta trama che alludono alle costruzioni polifoniche dello stile antico. L’intento
di Wagner è quello di risalire alle origini della cultura tedesca evocando il linguaggio
musicale della tradizione luterana. Vi sono dei riferimenti storici e riferimenti espliciti
al conflitto contro la Francia. Ci vollero ventisei anni per portare a compimento l’Anello
di Nibelungo, il ciclo di opere composte da Oro del Reno, La Walkiria, Sigfrido e
Crepuscolo degli Dei. La prima idea compare in un saggio filosofico del ’48. Il lavoro
doveva portare alla stesura di un dramma intitolato Morte di Sigfrido ma Wagner si
accorse che il personaggio era troppo legato ai suoi antenati. La vicenda da dei
riferimenti come la perdita di controllo sull’ordine sociale che viene vista come un
sinonimo degli ideali anarchici di Bakunin. Nietzsche nell’anello la celebrazione delle
amoralità pagana e precristiana riconoscendo nelle pulsioni istintive dei personaggi
una perfetta rappresentazione della sensibilità dionisiaca. A ciò si ricrede quando
ascolta il Crepuscolo degli Dei quando la distruzione dell’universo politeista viene
associata al Leitmotiv della redenzione. Bernard Shaw ha dato l’interpretazione
marxista, individuando nella tensione tra nibelunghi e giganti una metafora della
società contemporanea dove i primi, alleati degli dei, sarebbero i capitalisti mentre i
secondi sarebbero i lavoratori che subiscono le angherie dei ceti superiori a ciò
l’anarchico Sigfrido dovrebbe essere il capo della rivoluzione finalizzata al
ribaltamento dell’ordine sociale. Ciò non si adatta però molto bene con la storia,
Sigfrido muore nel finale e non sancisce affatto la vittoria degli ideali rivoluzionari.
Adorno ha letto nella retorica militare della Cavalcata delle Walkiria (per esempio) e
nazionalistica di molte pagine come prefigurazione del nazismo. Mann insiste su una
mitologia fondamentalmente apolitica basata sull’utopistico ideale di una società
senza classi. Allusione velata al risveglio del mondo sotto la protezione rassicurante
del messaggio cristiano si coglie nel finale del Ring e si prolunga nell’ultima opera di
Wagner: il Parsifal. Qui non è più la donna a riscattare l’uomo con il sacrificio ma è un
uomo al di sopra degli altri, imago Christi e attrezzato per resistere alla tentazione
femminile, eroe in grado di portare la salvezza nel mondo. 71

Storia e Tecnica del Melodramma,


Appunti di Musica
Università di Torino

Musica

STORIA E TECNICA DEL


MELODRAMMA
Melodramma nasce a Firenze nel
1600 con Euridice di Peri (autore) e
Rinuccini (compositore) e le
caratteristiche
principali sono quelle di essere nata
in un’ambiente di corte, quindi
legato ad un evento straordinario
come un
matrimonio, per cui caratterizzato
da uno spettacolo sontuoso e con
pubblicazioni della stampa
(memoria). Per
Euridice l’evento alla base
dell’opera è il matrimonio tra
Maria, regina di Francia e Enrico
IV.
A Venezia nel 1637 nasce il
Teatro d’Impresa, la forma più
diffusa del melodramma. Il
modello veneziano è
caratterizzato da un evento
commerciale, ripetibili con rischi
finanziari alla cui base vi è un
evento effimero, ciò
cambia le regole dello schema
produttivo. Se l’opera non va bene
deve essere sempre rimpiazzata, “Il
Barbiere di
Siviglia” opera di Rossini, nasce
come opera tappa buco.
Secondo Ottarelli (in un testo del
1652) vi sono tre categorie di opere
in musica:
 Commedie fatte nei palazzi dei
principi  Euridice di Rinuccini
 Opere per i cittadini
aristocratici e intellettuali  Orfeo di
Monteverdi
 Mercenarie e drammatiche
rappresentazioni musicali  Venezia
Teatro delle origini (1600-1637)
Il melodramma delle origini ha
numerose caratteristiche:
 Le fonti sono attendibili, per
via dell’utilizzo promiscuo della
stampa la ricerca delle fonti
primarie è fattibile
 Non vi è un luogo preciso dove
svolgere le opere e nessun luogo
“adatto”
alla rappresentazione, ci si arrangia
e il compositore si arrangia ed entra
a
compromessi con le scelte.
Esempio: Teatro Farnese di Parma
che con la
sua pianta a U non permette la
perfetta concertazione per via della
scarsa
qualità acustico, creando inoltre una
problematica spaziale per
l’orchestra
 L’orchestra è caratterizzata da
un organico piccolo, dove vi è il
continuo
dominio del Basso Continuo creato
a sostegno della parola tramite l’uso
della Chiorma e del Chitarrone.
 I soggetti alla base delle opere
sono soggetti mitologici dovuti alla
strana origine del melodramma,
soggetto
adeguato ad un genere
“antirealistico”, Orfeo non è solo
mito ma cantore, egli infatti canta
alle fere per entrare
all’Inferno.
 Finale monolitico diviso in
bene o male, spesso lieto fine ma
non rigoroso. L’Orfeo di
Monteverdi presenta
una doppia versione: con un lieto
fine, che non segue l’andamento
della storia, e quello con il finale
tragico.
Ciò è pervenuto anche fine a
Rossini, L’Otello di Rossini ha due
versioni.
 Verosimiglianza, il cantante
deve Recitare Cantando
avvicinandosi sempre di più verso
la parola, seguendo la
Spettacolarità, il quale va verso
l’innovazione scientifica e l’uso
delle macchine sceniche
 No alla Versificazione
Complessa, che facilita l’uso del
Recitare Cantato
Euripide (Firenze, Peri – Rinuccini,
1600) Audio 1-2 Playlist
Alla base dell’opera vi è lo
sposalizio di Maria, Regina di
Francia e Navarra ed Enrico IV.
L’introduzione all’opera è
un’excusatio no pentita dove
Rinuccini giustifica (la prima) opera
in tre parti: la prima fa
partire l’opera dalla derivazione
classica greca della tragedia, dove
l’opera veniva cantata; la seconda e
la terza
scusano il ribaltamento del finale,
da una parte vi è il troppo ardore
tragico non adatto al matrimonio e
dall’altra segue
le orme di Sofocle, che modifica il
finale di Aiace. Non vi è
volutamente nell’opera uno stato
emotivo troppo forte.
Opera si apre con un breve brano di
introduzione musicale. Il prologo
inizia con le parole del “La
Tragedia” (figlio
della parola) personaggio che
rappresenta l’origine di tutto. Il
rapporto parola e musica è a favore
della parola,
delineato dal canto sillabico
(declamato, dove ogni sillaba
corrisponde una nota) ciò rende più
chiaro all’ascoltatore il
testo, il canto si avvicina al parlato
ed è perfettamente strofico. La
musica fa da cornice tra le strofe e
non prende
troppa attenzione. Opera segue il
predominio della parola.
Orfeo (Mantova, Monteverdi –
Striggio, 1607) Audio 3-4-5 Playlist
Destinato alla corte intellettuale.
L’opera non rivede il mito di Orfeo.
Vi è un’esasperazione dell’ambiente
tragico.
Opera si apre con la “Toccata
dell’Orfeo”. Nel prologo, in questo
caso, parla la “Musica” come
personaggio, dove
delinea in parola che l’opera
toccherà sentimenti “ora lieti, or
mesti”, escludendo quindi l’obbligo
del lieto fine. A
differenza dell’Euridice vi è un uso
maggiore del vocalizzo (totalmente
assente in Euridice) inseriti a fine
verso e
quando la parola si capisce meno, il
vocalizzo depotenzia la parola,
lasciando nel prologo e quindi
nell’opera il
1

dominio alla musica, protagonista


del discorso. Monteverdi segue la
strada della musica delineando un
sostanziale
cambiamento che determinerà il
predominio della musica. L'Orfeo
modifica gli equilibri fin da subito
nel dramma.
Vi è presente un momento solistico
“Possente spirto”, questo è il
momento
topico ovvero quando Orfeo scende
negli Inferi e deve convincere
Caronte a
farlo passare. Fin da subito Orfeo
usa parole di affetto verso Euridice.
Dal
punto di vista formale il testo è
tripartito da due sestine ( sei
endecasillabi con
schema ABABCC) e una settima,
musicalmente ci aspetteremo che
Monteverdi
seguisse le sillabe invece articola il
modello musicale in traversi in
traversi. Il
pezzo di componimento si può
dividere in tre parti:
1)Da “Possente spirto a
“presume”: l'inizio è un recitativo
che
progressivamente raggiunge la via
melodica, musicalmente inizia e
poi si struttura con due violini che
rispondono in eco.
2)Da “non viv’io” a “seco”: vi è una
progressiva esasperazione nel
vocalizzo,
dove il numero di note esplode
all'inizio della terza strofa, si
presenta il canto
acrobatico dove la musica domina
sulla parola. I vocalizzi estremi
sono dovuti
dal testo e dalla richiesta
impossibile che Orfeo chiede a
Caronte, l'uso del
vocalizzo ha un effetto quasi
ipnotico e l'uso del canto acrobatico
è ciò che
dimostra la extra terrenità,
permettendo di dimostrare a
Caronte che Orfeo è sì
un uomo ma con capacità
sovraumane.
3)Da “Orfeo” a “s’impetra“: il
primo pezzo è un’esaltazione di ciò
detto in
precedenza, vi è però, continuando
ad ascoltare l'opera, un ritorno al
canto sillabico dovuto a un ritorno
ad essere
umano di Orfeo, evitando così di
essere tracotante con Caronte. In
termini retorici vi è un percorso
strutturato che
passa dal canto sillabico al
vocalizzo e ritorno al canto
sillabico, dove nel complesso la
scelta tra musica e parola è
dettata dal contesto.
L'effetto eco generale ha una
spiegazione simbolica derivata al
reparto sacro. Monteverdi cambia
orchestrazione in
ogni strofa, ciò delinea un pensiero
drammaturgico che permette l'uso
della totale orchestra quasi per
dimostrare a
Caronte che Orfeo possa utilizzare
qualsiasi strumento.
L’Orfeo presenta due finali: il finale
tragico (Audio 8) del 1607 non ha
lo spartito e si rappresenta con la
pantomima; il
finale buono (Audio 6-7), dove
Apollo consola Orfeo, è stato
presentato per i Gonzaga nel 1609,
l'unico con lo
spartito. Il finale dionisiaco è della
prima rappresentazione mentre
quello apollineo è per i destinatari e
per l'uso dello
spazio, più ristretto, per la
rappresentazione.
Teatro Impresariale (1637- prima
metà del ‘700)
Vi è il testo di Benedetto Marcello
del 1720 Il teatro alla moda, o sia
metodo sicuro e facile per ben
comporre ed
eseguire l’Opere italiane in musica
all’uso moderno dove nel capitolo
dedicato agli impresari l’autore
allude al
risparmio estremo dei nuovi
organizzatori su scenografie,
orchestre e librettisti per investire
un’importante parte del
budget sui cantanti, ovviamente la
qualità acrobatica del cantante era
un’importante punto a favore. L’uso
del teatro
era stagionale, si assisteva alla
prima e alle repliche. Il pubblico
non era molto interessato alla storia,
sentiva solo le
arie più acrobatiche dei cantanti. Vi
era l’uso dei ruoli fissi, con i
cantanti che erano abituati al loro
ruolo come la
prima donna sempre in lacrime e
l’eroe che non conosce la paura. Il
teatro impresariale è un teatro
basato sulle regole
del marketplace, è un’epoca dove
teatri sono punti di ritrovo e sullo
sfondo vi sono la convivialità e
l’ambiente
mondano. A livello strutturale il
teatro aveva una illuminazione
costante a cui seguivano l'ottica dei
ruoli fissi e la
predilezione per l'aria. Con
l’attenzione alle voci acute e la
polifonia che necessitava l’utilizzo
delle voci acute, non
permesse alle donne per un’errata
lettura della Prima Lettera ai
Corinzi nascono i primi castrati.
Ciò è dovuto
all'incontro tra Girolamo Rosini e
Papa Clemente VIII anche se
antecedente le prime scelte furono
le voci bianche poi
successivamente (nel ‘500) i
cantanti spagnoli cosiddetti
spagnoletti, ovvero dei falsettisti. Il
castrato favorisce l'uso
dei vocalizzi nei testi, per via del
fatto che per evirazione i castrati
hanno una glottide molto piccola
hanno bisogno di
meno aria per cantare, e porta in
parte alla degenerazione del
melodramma in un totale
asservimento alla mercé del
cantante. I più importanti furono
Senesino (Francesco Bernardi) e
Farinelli (Carlo Broschi), entrambi
fecero parecchio
furore a Londra con Händel e il
secondo si mosse alla corte di
Filippo V di Spagna e dovette con
Carlo III ritirarsi
dalle scene a Bologna, non potendo
nella citta natia (Napoli) per via
della dominazione spagnola,
incontra alla fine
Mozart nel 1770. In questo teatro il
librettista e compositore sono figure
secondarie che devono seguire un
iter
burocratico che li portano ad essere
oggetto del cantante. La logica del
tempo era basata sulla
spettacolarità.
Prima Riforma del Melodramma –
Apostolo Zeno (1668-1750)
Audio 9-10-11 Playlist
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La composizione più sfruttata in


ambito religioso è la messa. Il
genere si cristallizzò in due
tipologie: la messa in stile
moderno o napoletano e quella in
stile antico o “alla Palestrina”. Il
primo vedeva la successione di arie,
duetti e
interventi corali in forma chiusa,
secondo lo schema della cantata
sacra. La seconda è dominata da
una densa polifonia
a cappella, vi era il contrappunto
rigoroso e ricorso alla policoralità
che avvicinava la messa alla
dimensione
spazializzante della tradizione
veneziana. Anche la tradizione
luterana dà vita alle messe cantate,
il vertice della
produzione è costituito dalla essa in
Si Minore di Bach che ha una sua
organicità basata sulla centralità
dell’elemento
corale.
Alla fine del ‘700 la produzione
sacra vive una progressiva
decadenza. La teatralizzazione del
repertorio sacro avviata
da Bach e dallo Stabat Mater di
Pergolesi del ’35 rischiava di
compromettere i confini distintivi
dei rispettivi generi.
Con Jommelli e Galuppi abbiamo
ancora la ripresa della messa in stile
napoletano. Haydn si dedicò a
scrivere messe, i
quattordici lavori testimoniano un
frequente sfruttamento di risorse
tratte dal teatro musicale: la
drammatizzazione
della scrittura che conquista il
corpus sinfonico compare anche in
questa produzione culminato nella
scelta di porre
un’aria. Mozart fu molto attivo nel
genere soprattutto negli anni di
Salisburgo, le messe sono quindici,
solo una
nacque nel periodo viennese: la
Messa in Do minore, incompiuta e
vittima del decreto imperiale che
limitava in
Chiesa l’esecuzione di musica sacra
con ampio organico, qui sono
evidenti gli studi contrappuntistici e
la riscoperta di
Bach, il tutto colpisce per la sua
densità polifonica mai esplorata
nella produzione precedente. Il Qui
tollis unisce le
antiche scritture della passacaglia
(composizione in forma di
variazioni costruita su un basso
ostinato) e dell’ostinato a
una potenza espressiva che ricorda
la riflessione di Bach sull’aldilà.
Mozart è più celebre per il
Requiem, incompiuto e
scritto negli ultimi mesi del ’91,
questa è una pura meditazione sulla
morte basata su numerose
prospettive come: il
terrore del Dies Irae, la
consolazione dell’Hostias, la
disperazione del Confutatis
maledictis, l’incertezza del Domine
Jesus e la spinta verso l’alto del
Lacyimosa.
Intermezzi buffi (prima metà del
‘700)
Audio 16-17 Playlist
Nato dagli scarti comici del
melodramma serio. La prima opera
è “La serva padrona” di Pergolesi,
nata a Napoli nel
1733, ma importante è l’esecuzione
a Parigi nella metà del secolo,
questa diede l’inizio alla Querelle
des buffons. Il
nome deriva dal fatto che questi
erano le pause tra atto e atto
dell’opera seria. Dopo l’esecuzione
dell’opera del “La
serva padrona” si scaturisce il
dibattito tra genere serio e genere
buffo, il secondo in principio era un
intermezzo (da
qui intermezzo buffo) tra un atto
all’altro in un’opera del genere serio
a cui segue per fortuna del genere la
strada
solista dell’opera buffa. La
figura di Pergolesi viene
“miticizzata” nel periodo
romantico per via della morte
prematura. L’intermezzo buffo non
è un genere di estrazione popolare,
infatti ha un’origine altolocata,
anche se segue
il suo legame con il dialetto
napoletano (dall’intermezzo buffo
nasce contemporaneamente l’opera
buffa napoletana,
chiamata commedeja pe’
mmuseca), Alla base
dell’intermezzo buffo vi sono i
personaggi reali, caratterizzati dalla
vivacità e da uno stile di
conversazione molto semplice, a
livello interpretativo sono semplici
poiché trattano della
quotidianità che caratterizzava la
spontaneità . Un aspetto importante
è anche la gestualità implicita nella
musica,
dovuta alla stimolazione di un'idea
di movimento, ciò è meno evidente
nel genere serio per via della
staticità delle
aree, questo innesta del movimento
all'interno delle arie statiche
dell'opera. Infatti, le arie sono
integrate all’azione, vi
è così un intreccio tra l'artificiosità
dell'aria statica e il continuo
dell'azione. Un esempio è “La serva
padrona” in
quanto vi sono movimenti in zig
zag che seguono il movimento della
parola, la musica si muove con la
parola e ciò
delinea la gestualità nella musica.
Questa opera è emblematica per
definire le caratteristiche del genere.
Nelle arie si
incontra una delle differenze con il
melodramma serio: il momento
contemplativo di Zeno e Metastasio
è statico,
mentre in Pergolesi questo è parte
dell’azione drammatica. Da
sottolineare è l’importanza della
gestualità che si
rispecchia e si rispecchierà nella
musica fino a Rossini.
La commedeja pe’ mmuseca nasce
a inizio Settecento in ambito colto.
La prima realizzazione è Cilla di
Francesco
Tullio con le musiche di
Michelangelo Faggioli, questa è una
commedia in prosa con innesti di
arie e recitatici.
Realismo è evidente, anche con
l’uso del dialetto, a cui non viene
menola malinconia di fondo tipica
dell’espressività
partenopea. Questo tipo di opere fu
però decisiva per la maturazione dei
primi concertati, ovvero pezzi
d’assieme
collocati a fine atto al culmine delle
tensioni drammatiche. Si palesa il
realismo surreale che introduce un
paradosso
destino a caratterizzare gran parte
della produzione buffa successiva:
“possibilità di ricreare la vita in
forme del tutto
astratte eppure capaci di
straordinaria aderenza alla realtà
intesa come rapporto di sfuggenti e
volubili forze interiori”.
In Francia, dopo il 1750, Rousseau
interviene con “Letre sur le musique
francaise” che da inizio alla diatriba
tra Jean-
Philippe Rameau e Jean Jaques
Rousseau, il secondo teorizza la
superiorità italiana rispetto la
musica francese per via
della caratterizzazione della
melodia presente nella musica
italiana, più interpretabile, a
cui si derivano tre
caratteristiche fondamentali: la
dolcezza della lingua italiana;
arditezza delle modulazioni, che
sono più piacevoli e
5
La composizione più sfruttata in
ambito religioso è la messa. Il
genere si cristallizzò in due
tipologie: la messa in stile
moderno o napoletano e quella in
stile antico o “alla Palestrina”. Il
primo vedeva la successione di arie,
duetti e
interventi corali in forma chiusa,
secondo lo schema della cantata
sacra. La seconda è dominata da
una densa polifonia
a cappella, vi era il contrappunto
rigoroso e ricorso alla policoralità
che avvicinava la messa alla
dimensione
spazializzante della tradizione
veneziana. Anche la tradizione
luterana dà vita alle messe cantate,
il vertice della
produzione è costituito dalla essa in
Si Minore di Bach che ha una sua
organicità basata sulla centralità
dell’elemento
corale.
Alla fine del ‘700 la produzione
sacra vive una progressiva
decadenza. La teatralizzazione del
repertorio sacro avviata
da Bach e dallo Stabat Mater di
Pergolesi del ’35 rischiava di
compromettere i confini distintivi
dei rispettivi generi.
Con Jommelli e Galuppi abbiamo
ancora la ripresa della messa in stile
napoletano. Haydn si dedicò a
scrivere messe, i
quattordici lavori testimoniano un
frequente sfruttamento di risorse
tratte dal teatro musicale: la
drammatizzazione
della scrittura che conquista il
corpus sinfonico compare anche in
questa produzione culminato nella
scelta di porre
un’aria. Mozart fu molto attivo nel
genere soprattutto negli anni di
Salisburgo, le messe sono quindici,
solo una
nacque nel periodo viennese: la
Messa in Do minore, incompiuta e
vittima del decreto imperiale che
limitava in
Chiesa l’esecuzione di musica sacra
con ampio organico, qui sono
evidenti gli studi contrappuntistici e
la riscoperta di
Bach, il tutto colpisce per la sua
densità polifonica mai esplorata
nella produzione precedente. Il Qui
tollis unisce le
antiche scritture della passacaglia
(composizione in forma di
variazioni costruita su un basso
ostinato) e dell’ostinato a
una potenza espressiva che ricorda
la riflessione di Bach sull’aldilà.
Mozart è più celebre per il
Requiem, incompiuto e
scritto negli ultimi mesi del ’91,
questa è una pura meditazione sulla
morte basata su numerose
prospettive come: il
terrore del Dies Irae, la
consolazione dell’Hostias, la
disperazione del Confutatis
maledictis, l’incertezza del Domine
Jesus e la spinta verso l’alto del
Lacyimosa.
Intermezzi buffi (prima metà del
‘700)
Audio 16-17 Playlist
Nato dagli scarti comici del
melodramma serio. La prima opera
è “La serva padrona” di Pergolesi,
nata a Napoli nel
1733, ma importante è l’esecuzione
a Parigi nella metà del secolo,
questa diede l’inizio alla Querelle
des buffons. Il
nome deriva dal fatto che questi
erano le pause tra atto e atto
dell’opera seria. Dopo l’esecuzione
dell’opera del “La
serva padrona” si scaturisce il
dibattito tra genere serio e genere
buffo, il secondo in principio era un
intermezzo (da
qui intermezzo buffo) tra un atto
all’altro in un’opera del genere serio
a cui segue per fortuna del genere la
strada
solista dell’opera buffa. La
figura di Pergolesi viene
“miticizzata” nel periodo
romantico per via della morte
prematura. L’intermezzo buffo non
è un genere di estrazione popolare,
infatti ha un’origine altolocata,
anche se segue
il suo legame con il dialetto
napoletano (dall’intermezzo buffo
nasce contemporaneamente l’opera
buffa napoletana,
chiamata commedeja pe’
mmuseca), Alla base
dell’intermezzo buffo vi sono i
personaggi reali, caratterizzati dalla
vivacità e da uno stile di
conversazione molto semplice, a
livello interpretativo sono semplici
poiché trattano della
quotidianità che caratterizzava la
spontaneità . Un aspetto importante
è anche la gestualità implicita nella
musica,
dovuta alla stimolazione di un'idea
di movimento, ciò è meno evidente
nel genere serio per via della
staticità delle
aree, questo innesta del movimento
all'interno delle arie statiche
dell'opera. Infatti, le arie sono
integrate all’azione, vi
è così un intreccio tra l'artificiosità
dell'aria statica e il continuo
dell'azione. Un esempio è “La serva
padrona” in
quanto vi sono movimenti in zig
zag che seguono il movimento della
parola, la musica si muove con la
parola e ciò
delinea la gestualità nella musica.
Questa opera è emblematica per
definire le caratteristiche del genere.
Nelle arie si
incontra una delle differenze con il
melodramma serio: il momento
contemplativo di Zeno e Metastasio
è statico,
mentre in Pergolesi questo è parte
dell’azione drammatica. Da
sottolineare è l’importanza della
gestualità che si
rispecchia e si rispecchierà nella
musica fino a Rossini.
La commedeja pe’ mmuseca nasce
a inizio Settecento in ambito colto.
La prima realizzazione è Cilla di
Francesco
Tullio con le musiche di
Michelangelo Faggioli, questa è una
commedia in prosa con innesti di
arie e recitatici.
Realismo è evidente, anche con
l’uso del dialetto, a cui non viene
menola malinconia di fondo tipica
dell’espressività
partenopea. Questo tipo di opere fu
però decisiva per la maturazione dei
primi concertati, ovvero pezzi
d’assieme
collocati a fine atto al culmine delle
tensioni drammatiche. Si palesa il
realismo surreale che introduce un
paradosso
destino a caratterizzare gran parte
della produzione buffa successiva:
“possibilità di ricreare la vita in
forme del tutto
astratte eppure capaci di
straordinaria aderenza alla realtà
intesa come rapporto di sfuggenti e
volubili forze interiori”.
In Francia, dopo il 1750, Rousseau
interviene con “Letre sur le musique
francaise” che da inizio alla diatriba
tra Jean-
Philippe Rameau e Jean Jaques
Rousseau, il secondo teorizza la
superiorità italiana rispetto la
musica francese per via
della caratterizzazione della
melodia presente nella musica
italiana, più interpretabile, a
cui si derivano tre
caratteristiche fondamentali: la
dolcezza della lingua italiana;
arditezza delle modulazioni, che
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