STORIA E TECNICA DEL MELODRAMMA Melodramma nasce a Firenze nel 1600 con
Euridice di Peri (autore) e Rinuccini (compositore) e le caratteristiche principali sono
quelle di essere nata in un’ambiente di corte, quindi legato ad un evento straordinario come un matrimonio, per cui caratterizzato da uno spettacolo sontuoso e con pubblicazioni della stampa (memoria). Per Euridice l’evento alla base dell’opera è il matrimonio tra Maria, regina di Francia e Enrico IV. A Venezia nel 1637 nasce il Teatro d’Impresa, la forma più diffusa del melodramma. Il modello veneziano è caratterizzato da un evento commerciale, ripetibili con rischi finanziari alla cui base vi è un evento effimero, ciò cambia le regole dello schema produttivo. Se l’opera non va bene deve essere sempre rimpiazzata, “Il Barbiere di Siviglia” opera di Rossini, nasce come opera tappa buco. Secondo Ottarelli (in un testo del 1652) vi sono tre categorie di opere in musica: Commedie fatte nei palazzi dei principi Euridice di Rinuccini Opere per i cittadini aristocratici e intellettuali Orfeo di Monteverdi Mercenarie e drammatiche rappresentazioni musicali Venezia Teatro delle origini (1600-1637) Il melodramma delle origini ha numerose caratteristiche: Le fonti sono attendibili, per via dell’utilizzo promiscuo della stampa la ricerca delle fonti primarie è fattibile Non vi è un luogo preciso dove svolgere le opere e nessun luogo “adatto” alla rappresentazione, ci si arrangia e il compositore si arrangia ed entra a compromessi con le scelte. Esempio: Teatro Farnese di Parma che con la sua pianta a U non permette la perfetta concertazione per via della scarsa qualità acustico, creando inoltre una problematica spaziale per l’orchestra L’orchestra è caratterizzata da un organico piccolo, dove vi è il continuo dominio del Basso Continuo creato a sostegno della parola tramite l’uso della Chiorma e del Chitarrone. I soggetti alla base delle opere sono soggetti mitologici dovuti alla strana origine del melodramma, soggetto adeguato ad un genere “antirealistico”, Orfeo non è solo mito ma cantore, egli infatti canta alle fere per entrare all’Inferno. Finale monolitico diviso in bene o male, spesso lieto fine ma non rigoroso. L’Orfeo di Monteverdi presenta una doppia versione: con un lieto fine, che non segue l’andamento della storia, e quello con il finale tragico. Ciò è pervenuto anche fine a Rossini, L’Otello di Rossini ha due versioni. Verosimiglianza, il cantante deve Recitare Cantando avvicinandosi sempre di più verso la parola, seguendo la Spettacolarità, il quale va verso l’innovazione scientifica e l’uso delle macchine sceniche No alla Versificazione Complessa, che facilita l’uso del Recitare Cantato Euripide (Firenze, Peri – Rinuccini, 1600) Audio 1-2 Playlist Alla base dell’opera vi è lo sposalizio di Maria, Regina di Francia e Navarra ed Enrico IV. L’introduzione all’opera è un’excusatio no pentita dove Rinuccini giustifica (la prima) opera in tre parti: la prima fa partire l’opera dalla derivazione classica greca della tragedia, dove l’opera veniva cantata; la seconda e la terza scusano il ribaltamento del finale, da una parte vi è il troppo ardore tragico non adatto al matrimonio e dall’altra segue le orme di Sofocle, che modifica il finale di Aiace. Non vi è volutamente nell’opera uno stato emotivo troppo forte. Opera si apre con un breve brano di introduzione musicale. Il prologo inizia con le parole del “La Tragedia” (figlio della parola) personaggio che rappresenta l’origine di tutto. Il rapporto parola e musica è a favore della parola, delineato dal canto sillabico (declamato, dove ogni sillaba corrisponde una nota) ciò rende più chiaro all’ascoltatore il testo, il canto si avvicina al parlato ed è perfettamente strofico. La musica fa da cornice tra le strofe e non prende troppa attenzione. Opera segue il predominio della parola. Orfeo (Mantova, Monteverdi – Striggio, 1607) Audio 3-4-5 Playlist Destinato alla corte intellettuale. L’opera non rivede il mito di Orfeo. Vi è un’esasperazione dell’ambiente tragico. Opera si apre con la “Toccata dell’Orfeo”. Nel prologo, in questo caso, parla la “Musica” come personaggio, dove delinea in parola che l’opera toccherà sentimenti “ora lieti, or mesti”, escludendo quindi l’obbligo del lieto fine. A differenza dell’Euridice vi è un uso maggiore del vocalizzo (totalmente assente in Euridice) inseriti a fine verso e quando la parola si capisce meno, il vocalizzo depotenzia la parola, lasciando nel prologo e quindi nell’opera il 1 dominio alla musica, protagonista del discorso. Monteverdi segue la strada della musica delineando un sostanziale cambiamento che determinerà il predominio della musica. L'Orfeo modifica gli equilibri fin da subito nel dramma. Vi è presente un momento solistico “Possente spirto”, questo è il momento topico ovvero quando Orfeo scende negli Inferi e deve convincere Caronte a farlo passare. Fin da subito Orfeo usa parole di affetto verso Euridice. Dal punto di vista formale il testo è tripartito da due sestine ( sei endecasillabi con schema ABABCC) e una settima, musicalmente ci aspetteremo che Monteverdi seguisse le sillabe invece articola il modello musicale in traversi in traversi. Il pezzo di componimento si può dividere in tre parti: 1)Da “Possente spirto a “presume”: l'inizio è un recitativo che progressivamente raggiunge la via melodica, musicalmente inizia e poi si struttura con due violini che rispondono in eco. 2)Da “non viv’io” a “seco”: vi è una progressiva esasperazione nel vocalizzo, dove il numero di note esplode all'inizio della terza strofa, si presenta il canto acrobatico dove la musica domina sulla parola. I vocalizzi estremi sono dovuti dal testo e dalla richiesta impossibile che Orfeo chiede a Caronte, l'uso del vocalizzo ha un effetto quasi ipnotico e l'uso del canto acrobatico è ciò che dimostra la extra terrenità, permettendo di dimostrare a Caronte che Orfeo è sì un uomo ma con capacità sovraumane. 3)Da “Orfeo” a “s’impetra“: il primo pezzo è un’esaltazione di ciò detto in precedenza, vi è però, continuando ad ascoltare l'opera, un ritorno al canto sillabico dovuto a un ritorno ad essere umano di Orfeo, evitando così di essere tracotante con Caronte. In termini retorici vi è un percorso strutturato che passa dal canto sillabico al vocalizzo e ritorno al canto sillabico, dove nel complesso la scelta tra musica e parola è dettata dal contesto. L'effetto eco generale ha una spiegazione simbolica derivata al reparto sacro. Monteverdi cambia orchestrazione in ogni strofa, ciò delinea un pensiero drammaturgico che permette l'uso della totale orchestra quasi per dimostrare a Caronte che Orfeo possa utilizzare qualsiasi strumento. L’Orfeo presenta due finali: il finale tragico (Audio 8) del 1607 non ha lo spartito e si rappresenta con la pantomima; il finale buono (Audio 6-7), dove Apollo consola Orfeo, è stato presentato per i Gonzaga nel 1609, l'unico con lo spartito. Il finale dionisiaco è della prima rappresentazione mentre quello apollineo è per i destinatari e per l'uso dello spazio, più ristretto, per la rappresentazione. Teatro Impresariale (1637- prima metà del ‘700) Vi è il testo di Benedetto Marcello del 1720 Il teatro alla moda, o sia metodo sicuro e facile per ben comporre ed eseguire l’Opere italiane in musica all’uso moderno dove nel capitolo dedicato agli impresari l’autore allude al risparmio estremo dei nuovi organizzatori su scenografie, orchestre e librettisti per investire un’importante parte del budget sui cantanti, ovviamente la qualità acrobatica del cantante era un’importante punto a favore. L’uso del teatro era stagionale, si assisteva alla prima e alle repliche. Il pubblico non era molto interessato alla storia, sentiva solo le arie più acrobatiche dei cantanti. Vi era l’uso dei ruoli fissi, con i cantanti che erano abituati al loro ruolo come la prima donna sempre in lacrime e l’eroe che non conosce la paura. Il teatro impresariale è un teatro basato sulle regole del marketplace, è un’epoca dove teatri sono punti di ritrovo e sullo sfondo vi sono la convivialità e l’ambiente mondano. A livello strutturale il teatro aveva una illuminazione costante a cui seguivano l'ottica dei ruoli fissi e la predilezione per l'aria. Con l’attenzione alle voci acute e la polifonia che necessitava l’utilizzo delle voci acute, non permesse alle donne per un’errata lettura della Prima Lettera ai Corinzi nascono i primi castrati. Ciò è dovuto all'incontro tra Girolamo Rosini e Papa Clemente VIII anche se antecedente le prime scelte furono le voci bianche poi successivamente (nel ‘500) i cantanti spagnoli cosiddetti spagnoletti, ovvero dei falsettisti. Il castrato favorisce l'uso dei vocalizzi nei testi, per via del fatto che per evirazione i castrati hanno una glottide molto piccola hanno bisogno di meno aria per cantare, e porta in parte alla degenerazione del melodramma in un totale asservimento alla mercé del cantante. I più importanti furono Senesino (Francesco Bernardi) e Farinelli (Carlo Broschi), entrambi fecero parecchio furore a Londra con Händel e il secondo si mosse alla corte di Filippo V di Spagna e dovette con Carlo III ritirarsi dalle scene a Bologna, non potendo nella citta natia (Napoli) per via della dominazione spagnola, incontra alla fine Mozart nel 1770. In questo teatro il librettista e compositore sono figure secondarie che devono seguire un iter burocratico che li portano ad essere oggetto del cantante. La logica del tempo era basata sulla spettacolarità. Prima Riforma del Melodramma – Apostolo Zeno (1668-1750) Audio 9-10-11 Playlist 2 La composizione più sfruttata in ambito religioso è la messa. Il genere si cristallizzò in due tipologie: la messa in stile moderno o napoletano e quella in stile antico o “alla Palestrina”. Il primo vedeva la successione di arie, duetti e interventi corali in forma chiusa, secondo lo schema della cantata sacra. La seconda è dominata da una densa polifonia a cappella, vi era il contrappunto rigoroso e ricorso alla policoralità che avvicinava la messa alla dimensione spazializzante della tradizione veneziana. Anche la tradizione luterana dà vita alle messe cantate, il vertice della produzione è costituito dalla essa in Si Minore di Bach che ha una sua organicità basata sulla centralità dell’elemento corale. Alla fine del ‘700 la produzione sacra vive una progressiva decadenza. La teatralizzazione del repertorio sacro avviata da Bach e dallo Stabat Mater di Pergolesi del ’35 rischiava di compromettere i confini distintivi dei rispettivi generi. Con Jommelli e Galuppi abbiamo ancora la ripresa della messa in stile napoletano. Haydn si dedicò a scrivere messe, i quattordici lavori testimoniano un frequente sfruttamento di risorse tratte dal teatro musicale: la drammatizzazione della scrittura che conquista il corpus sinfonico compare anche in questa produzione culminato nella scelta di porre un’aria. Mozart fu molto attivo nel genere soprattutto negli anni di Salisburgo, le messe sono quindici, solo una nacque nel periodo viennese: la Messa in Do minore, incompiuta e vittima del decreto imperiale che limitava in Chiesa l’esecuzione di musica sacra con ampio organico, qui sono evidenti gli studi contrappuntistici e la riscoperta di Bach, il tutto colpisce per la sua densità polifonica mai esplorata nella produzione precedente. Il Qui tollis unisce le antiche scritture della passacaglia (composizione in forma di variazioni costruita su un basso ostinato) e dell’ostinato a una potenza espressiva che ricorda la riflessione di Bach sull’aldilà. Mozart è più celebre per il Requiem, incompiuto e scritto negli ultimi mesi del ’91, questa è una pura meditazione sulla morte basata su numerose prospettive come: il terrore del Dies Irae, la consolazione dell’Hostias, la disperazione del Confutatis maledictis, l’incertezza del Domine Jesus e la spinta verso l’alto del Lacyimosa. Intermezzi buffi (prima metà del ‘700) Audio 16-17 Playlist Nato dagli scarti comici del melodramma serio. La prima opera è “La serva padrona” di Pergolesi, nata a Napoli nel 1733, ma importante è l’esecuzione a Parigi nella metà del secolo, questa diede l’inizio alla Querelle des buffons. Il nome deriva dal fatto che questi erano le pause tra atto e atto dell’opera seria. Dopo l’esecuzione dell’opera del “La serva padrona” si scaturisce il dibattito tra genere serio e genere buffo, il secondo in principio era un intermezzo (da qui intermezzo buffo) tra un atto all’altro in un’opera del genere serio a cui segue per fortuna del genere la strada solista dell’opera buffa. La figura di Pergolesi viene “miticizzata” nel periodo romantico per via della morte prematura. L’intermezzo buffo non è un genere di estrazione popolare, infatti ha un’origine altolocata, anche se segue il suo legame con il dialetto napoletano (dall’intermezzo buffo nasce contemporaneamente l’opera buffa napoletana, chiamata commedeja pe’ mmuseca), Alla base dell’intermezzo buffo vi sono i personaggi reali, caratterizzati dalla vivacità e da uno stile di conversazione molto semplice, a livello interpretativo sono semplici poiché trattano della quotidianità che caratterizzava la spontaneità . Un aspetto importante è anche la gestualità implicita nella musica, dovuta alla stimolazione di un'idea di movimento, ciò è meno evidente nel genere serio per via della staticità delle aree, questo innesta del movimento all'interno delle arie statiche dell'opera. Infatti, le arie sono integrate all’azione, vi è così un intreccio tra l'artificiosità dell'aria statica e il continuo dell'azione. Un esempio è “La serva padrona” in quanto vi sono movimenti in zig zag che seguono il movimento della parola, la musica si muove con la parola e ciò delinea la gestualità nella musica. Questa opera è emblematica per definire le caratteristiche del genere. Nelle arie si incontra una delle differenze con il melodramma serio: il momento contemplativo di Zeno e Metastasio è statico, mentre in Pergolesi questo è parte dell’azione drammatica. Da sottolineare è l’importanza della gestualità che si rispecchia e si rispecchierà nella musica fino a Rossini. La commedeja pe’ mmuseca nasce a inizio Settecento in ambito colto. La prima realizzazione è Cilla di Francesco Tullio con le musiche di Michelangelo Faggioli, questa è una commedia in prosa con innesti di arie e recitatici. Realismo è evidente, anche con l’uso del dialetto, a cui non viene menola malinconia di fondo tipica dell’espressività partenopea. Questo tipo di opere fu però decisiva per la maturazione dei primi concertati, ovvero pezzi d’assieme collocati a fine atto al culmine delle tensioni drammatiche. Si palesa il realismo surreale che introduce un paradosso destino a caratterizzare gran parte della produzione buffa successiva: “possibilità di ricreare la vita in forme del tutto astratte eppure capaci di straordinaria aderenza alla realtà intesa come rapporto di sfuggenti e volubili forze interiori”. In Francia, dopo il 1750, Rousseau interviene con “Letre sur le musique francaise” che da inizio alla diatriba tra Jean- Philippe Rameau e Jean Jaques Rousseau, il secondo teorizza la superiorità italiana rispetto la musica francese per via della caratterizzazione della melodia presente nella musica italiana, più interpretabile, a cui si derivano tre caratteristiche fondamentali: la dolcezza della lingua italiana; arditezza delle modulazioni, che sono più piacevoli e 5 sensibili, l'armonia fa sostegno alla voce; precisione delle misure, dalla metrica data dal ritmo della lingua molto musicale. Rousseau arriva a ciò tramite due esperimenti: il primo esperimento è l'esecuzione di un pezzo italiano a un francese e viceversa aggiungendo nella conclusione che la musica francese è troppo complessa mentre quella italiana è molto melodica quindi più ripetibile; il secondo esperimento invece è la prova d'ascolto di un armeno, cioè non influenzato, di un brano francese di in italiano, Rousseau arriva alla conclusione che l'armeno ovvero l'ascoltatore non influenzato dimostra più appagamento con la musica italiana. Rousseau inoltre denota che in Francia vi sia un abuso della polifonia, carattere molto artificioso. Bisogna porre attenzione ai concertati, dove si presentano più voci che congiungono in un senso comune, queste non sono molto usate nell’opera seria, si trovano di più nelle opere buffe. Nelle parti statiche, formalmente statiche, vi è con i concertati una maggior azione, questi infatti vengono definiti concertati d'azione, creando una sorta di paradosso ovvero quel “realismo surreale” che caratterizza la produzione buffa successiva. Nonostante il caos dovuto alle voci che confluiscono si presenta sempre una scena chiara , sappiamo cosa accade e l'azione risulta perfettamente comprensibile, un esempio lo si può ritrovare nel “Lo frate ‘nnammurato” dove vi è un contrasto, una faccenda di corna, e un problema fisico tutto contemporaneamente. Anche se non si capiscono le parole, ovvero il messaggio verbale avviene in modo incompleto capiamo cosa avviene, si avanza nell’azione anche se fondamentalmente è un'aria, un posto di chiusura, dove le parole non si capiscono ma c'è chiarezza a livello musicale. Tutto ciò si diffonde in tutta Europa per via della quotidianità che trasmette, si diffonde maggiormente nella seconda metà del ‘700 e piano piano si affermerà con sempre di più elemento artistico. Contemporaneamente a Gluck* avanza il genere dell'opera buffa che a Parigi continua e passa attraverso a Niccolò Piccinni che rappresenta a Roma “La buona figliola” nel 1760 a cui dà dei tocchi particolari all'opera buffa, gettando le fondamenta del dramma giocoso napoletano, trasformandola soprattutto in Francia, successivamente, in quella che diventerà la commèdie larmoyante ovvero commedia lacrimosa. Ciò è evidenziato dal personaggio di Cecchina che piange continuamente e lamenta la sua infelicità in ogni occasione. Le innovazioni che si impongono sono: lineamenti tragici in personaggi comici, vi è nel personaggio di Cecchina una caratterizzazione tragicomica, dove ella ha tratti ingenui e infantili; procedimenti sonatistici, la scrittura musica si arricchisce di procedimenti derivati dallo sviluppo sonatistico che rielaborano il materiale rendendolo più squisito, ciò è molto distante da Gluck; nuovo tipo di aria A-B-A’-B’ ovvero l'aria doppio col da capo, evitando così la composizione tripartitica A-B-A’; continua trapasso di stati emotivi con concertato, vi è una situazione di realismo surreale che qui prende una fisionomia particolare con una ricerca precisa. Il finale del primo atto ci presenta una Cecchina con un tono melodrammatico, quello che accade è una situazione di equivoci tra l'invidiosa Sandrina e i due uomini innamorati di Cecchina ovvero il Marchese e Menegotto. Il discorso finirà con l'esclusione di Cecchina da parte dei due spasimanti, vi è la continuità di molteplici stati emotivi, cosa molto difficile da attuare nell’opera seria, vi è passaggio tra un'emozione all'altra e una giusta posizione che riflette il personaggio. Il percorso dei due: Gluck e Piccinni si incontra a Parigi nel ’78. Successivamente con Passariello, Cimarosa e Mozart si creerà una polifonia emotiva per cui un personaggio ha un solo stato emotivo ma che può entrare in sintonia con molteplici personaggi. Ricezione dell’opera italiana all’Estero Situazione Inglese Audio 18-19-20-21-22-23-24- 25-26-27-28-29 Playlist In Regno Unito vi è una netta diffusione dell'opera italiana serie, importata dal tedesco Händel, contemporaneo di Bach e con un ampio vissuto in Italia caratterizzato da un eccelso studio sulle opere di Alessandro Scarlatti. Quando nel 1710 si trasferisce a Londra, il Regno Unito aveva bisogno di una musica celebrativa dello Stato inglese. Händel scrive una musica perfettamente rappresentativa strumentale, l'opera diventa rapidamente la riflessione della monarchia inglese e Händel con il suo “Rinaldo” del 1711 lo dimostra anche con il contributo del castrato Nicolini. L'opera è caratterizzata dall’uso della suddivisione in arie e recitativi, con arie virtuose cantate dai castrati. Ma vi si apportano varie innovazioni nell’opera: una maggiore ricerca orchestrale, qui ha un ruolo di primo piano dove anche qui i fiati ricevono un ruolo di prima importanza; vi sono cori e ballabili, inseriti molto spesso per seguire l'intento celebrativo, con la sintesi del modello francese che qui non ha importanza quasi assoluta; spazializzazione sonora, dove vi è in alcuni casi la divisione dell’orchestra in due andando a creare una distanza extradiegetica dell’orchestra, vi si crea il bisogno di colpire lo spettatore con effetti; architettura sintetica dell'aria, dove viene ripresa la vecchia aria col da capo A-B-A’ ma ci sono casi nuovi e l'uso dell' arioso, soprattutto ad inizio atto, un tipo di aria più fluida in divenire che si mescola con la recitativo, alcune volte scivola nel recitativo, non vi è presente però una totale asserzione al virtuosismo come in Italia. Händel scrive con una facilità e semplicità impressionante che lo 6 caratterizzano, tutto è molto semplice quasi elementare eppure conferisce un’espressività incredibile, semplice ed espressivo. Il successo delle opere di Händel spinse alcuni intellettuali a promuovere una reazione al dominio handeliano. Così in contrapposizione all'opera italiana e di Händel nasce con meno diffusione la Begger’s Opera, presentata a Londra nel 1728, caratterizzata prevalentemente dal recitato con l’inserto di 69 melodie popolari, la musica era diegetica e sicuramente secondaria. Situazione Tedesca – Austriaca Audio 30-31-32-33-34-35-36-37-38-39-40-41-42 Playlist Hasse promosse la diffusione dell’opera italiana con 57 melodrammi basati sui teti di Metastasio. Ciò spinse l’Opera di Amburgo alla reazione e alla nascita del genere che poi si delineò nel Singspiel, ovvero la “recita cantata”. questo genere è simile alla Begger’s Opera, per via dei suoi recitativi recitati, con i due capolavori mozartiani: il ratto dal serraglio e il flauto magico il Singspiel assurge a modello di opera nazionale tedesca per antonomasia grazie al contributo futuro di Mozart con il Flauto Magico. *A Vienna si era già sviluppata la prima riforma del melodramma, infatti sia Zeno che Metastasio sono poeti cesarei ovvero librettisti di corte che avanzavano anche relazione estetiche. Qui avviene la seconda riforma (1760-1770) con due italiani : Giacomo Durazzo e Ranieri De Calzabigi, i quali insieme a Cristopher Williband Gluck, inserito nell’ambiente austriaco grazie alle composizioni su libretti italiani e come ideatore degli agili operà-comiques, formalizzano la seconda riforma del melodramma, specialmente in due opere: “Orfeo ed Euridice” del 1762 e “Alceste” del 1767 entrambi musicati da Gluck con testo di Cantabigi. Nella prefazione di Alceste si palesa il programma della seconda riforma che consiste in: continuità dell'azione, con una massima linearità del dramma dove la musica deve servire la poesia, tornando all'idea dell'Euridice di Peri, senza interrompere l'azione evitando così il alternanza aria- recitativo, il tutto regala ampiezza alle scene dove vengono arredate voci e interventi lineari, continui ma con una progressiva fluidità; bella semplicità, ovvero evitare l'abuso che si declama nel melodramma italiano, no virtuosismi e no artificialità tipica del melodramma italiano, quello che vuole fare Gluck è ripulire l'eccesso, vi è ancora un identità di genere non ben definita, solo nella versione francese la versione di Orfeo è uomo; ricerca dell'orchestrazione, strutturata poco dagli italiani, vi e nell'area tedesca una ricerca sull’orchestra dove questa è commisurata alla passione motiva, vi è però anche una ricerca di aspetti scenografici nell’orchestra che diventa atmosfera dove si sviluppa una scenografia sonora; linguaggio del cuore, bisogna stimolare sentimenti violenti nello spettatore in modo che si sviluppa il linguaggio del cuore, esasperazione dei sentimenti. Questo aspetto è sia un punto forte sia un punto debole della riforma di Gluck, poiché nel tentativo di esprimere le passioni in maniera vigorosa spesso definisce profili statuari e contrapposizioni manichee. Una prova è data dalla prima scena del secondo atto ovvero il momento dove Orfeo deve convincere le furie farlo passare (stesso momento di Monteverdi). Qui vi è una concatenazione di eventi diversi, la prima cosa che si vede la danza delle furie che recupera un po’ il senso tedesco dello Sturm und Drang, segue il coro interrompe poi la danza delle furie poi ancora il coro a cui segue infine l'attacco di Orfeo, che presenta una netta composizione timbrica dove le furie avevano più un aspetto macabro, dionisiaco invece Orfeo è accompagnato con l'arpa e ha un aspetto più apollineo, con un coro che passa da essere rabbioso ad essere addolcito, alla fine il coro fa passare Orfeo e il tutto si chiude ancora con la danza delle furie. Tra gli elementi vi è una grande coerenza. vi sono dinamici contrasti tra forte e piano nelle furie invece gli interventi di Orfeo sono molto solari. Si presenta di più la caratteristica della repentinità presente nello Sturm und Drang tanto che Gluck per la versione francese attua una maggiore gradualità tra le emozioni, qui è presente l’addolcimento repentino delle furie che passa da un no netto ad un addolcirsi quasi immediato. Gluck resosi conto della poca sfumatura psicologica ed emotiva la amplifica nell’ultime opere scritte a Parigi Iphigénie en Aulide del ’74 e nelle due versioni francesi delle opere sopracitate: Alceste e Orfeo ed Euridice, queste però risentono del gusto francese per via di un incremento della componente danzata e per una maggiore attenzione naturalistica. La vera eredità della ricostruzione gluckiana fu raccolta da altri due italiani attivi in Europa: Antonio Sacchini che seguì il modello del compiacimento del gusto della borghesia parigina con un’efficace mediazione tra razionalismo e culto dell’antichità; Antonio Salieri dove con la sua Les Danaides del ’84 presentò una chiara intenzione di prolungare i principi drammaturgici fissati da Gluck e Calzabigi. Diverso fu il caso di Jommelli e Treatta, entrambi formati al Conservatorio di Napoli. Il primo lavorò principalmente su libretti di Metastasio cercando di accentuare la componente spettacolare della drammaturgia, il suo contributo si risolve con la dinamizzazione del pezzo chiuso, prendendo in prestito una risorsa dell’intermezzo buffo. Il secondo risentì dell’influenza francese proponendosi interprete dell’unione tra la spontaneità della tragèdie lyrique e la cantabilità del teatro italiano. Napoli caput mundi: il dramma giocoso 7 seguono le settime diminuite (accordi dell’Infermo di Rameau) e i contrasti piano-forte che non danno stabilità, che finiscono con le scale che danno un senso di instabilità. Mozart dà un peso potente agli aspetti sovrannaturali. La seconda parte invece è un allegro di sonata che non anticipa temi che verranno successivamente ripresi dopo, ma delinea i caratteri più terreni e più vicini a Don Giovanni, espressi con il tremolo dei violini il senso di movimento quasi irrequieto che richiama la instabilità e il suo essere sempre in fuga, sempre in movimento, è fermo solo nella scena del cimitero. Vi è un contrasto di registi durante lo sviluppo di un terzo tema che prevede un forte e un leggero dei violini, carattere del tema ambiguo, come espressione del dialogo, collegamento tra il Commendatore e il Don Giovanni. Quello che si delinea è una vicenda imprevedibile. Prima parte richiama al Commendatore mentre la seconda è un richiamo a Don Giovanni (ciò è una visione dell’opera però troppo in là rispetto alla musica). Mila: Mozart fa numerose sinfonie in tre tempi, queste di stile teatrale sono col taglio tripartitico di Ouverture. Solo dopo Il ratto del serraglio essa comincia a essere costruita col materiale tematico dell’opera stessa. Anche l’ouverture del Don Giovanni rispecchia, gluckianamente, il contenuto dell’opera; e anche l’ouverture del Don Giovanni evade dal consueto taglio della sinfonia all’italiana, di un Allegro, un Adagio e un Allegro. L’ouverture del Don Giovanni è in due movimenti, un Andante e un Molto allegro, in re minore il primo, in re maggiore il secondo. Abert non vede nei due tempi: Andante e Molto allegro il legame convenzionale di una “introduzione lenta” a un tempo Allegro. L’Andante non è subordinato Egli vede questa ouverture come «un pezzo di musica autonomo» ma non già nel senso che se ne vada per conto suo senza relazione con l’opera che segue; bensì «con lo scopo d’introdurre l’ascoltatore nella sfera di sentimenti del dramma, non però nel corso dell’azione stessa». L’ouverture insomma è un ritratto e una sintesi dell’opera. Abert ammonisce a voler vedere nel Molto Allegro un ritratto di Don Giovanni e nell’Andante l’immagine del Commendatore. Andante in re minore è gravato su angoscia della morte, mentre Molto Allegro in re maggiore si configura come il corso lieto della vita. Due grandi accordi iniziali sono scanditi da tutta l’orchestra. Abert richiama l’attenzione sulla formidabile energia nascosta nelle due pause di tre quarti che seguono ogni accordo. Come se nel vuoto l’orecchio facesse risuonare le note. Segue a ciò un piano sussurro con un tempo lungo seguito da uno corto che col ritmo lento di trocheo sembra imporre il movimento di un passo. Si conduce all’undicesima battura il lamento, una piccola frase sincopata dei violini di sole quattro battute. Questo gemito, nota il Jouve, «è quello che più tardi risponderà immediatamente, nell’anima di Don Giovanni, all’appello della Statua». Nessuno di questi motivi, nota l’Abert, è svolto largamente: le immagini del terrore e del lutto trascorrono una dopo l’altra, ma non slegate, poiché a ogni colpo succede tosto il suo contraccolpo. Dopo i due potenti accordi d’introduzione «il mondo dell’al di là comincia piano a elevare la sua voce». Abert accosta all’Ouverture il clima gluckiano della Alceste. Per l’Abert «la voce dell’al di là sembra parlare sempre più spaventosa, e ogni volta segue l’eco tremebonda dall’anima della creatura angosciata». Finisce così una prima parte dell’Introduzione, dove la sincope ritmica è stata l’elemento determinante per generare la sensazione di angoscia paurosa, di minaccia e d’attesa di qualcosa di terribile. Due battute discendenti di transizione ed ecco che la minaccia, per così dire, si avvera, la temuta e fatale apparizione si manifesta in tutta la sua terribilità: sono le celeberrime scale ascendenti e discendenti dei violini primi e dei flauti. Queste scale «che si gonfiano e bruscamente s’afflosciano», che salgono per semitoni o toni interi sulle armonie cangianti dei fiati, sono, per il Jouve, «scale della disperazione: esse formeranno l’armatura del Commendatore nella sua missione punitiva e annunciano lo inferno vicino». Queste scale, dice l’Abert, «fanno sentire quasi fisicamente all’ascoltatore tutti i brividi dell’Eterno». Quattro battute, due forte e due piano, sono concesse all’ascoltatore per lasciarsi risuonare dentro di sé, come dice l’Abert, «la terribile esperienza». Tutte quattro fondate sul solito solenne trocheo dei bassi e, all’acuto, sul motivo di lunghi bicordi dei legni, a due a due. In mezzo, un tremolo drammatico di violini e viole, il solito rullo dei timpani e un accento dei corni assai in evidenza. Quindi, ecco scattare il Molto allegro in re maggiore, con una subitanea schiarita. Jouve scrive che Don Giovanni qui peccatore senza peccato è partito per la corsa. Movimento è un allegro di sonata, nella consueta forma A-B-A’. Il primo tema in re maggiore è dove Abert raccomanda di non cedere ai romantici che vogliono vedere Don Giovanni qui, anche se le interpretazioni romantiche hanno senso dimostrando come una strisciante salita romantica rappresenti la sensualità demoniaca, subito dopo una dissonanza col re diesis che delinea l’arroganza di Don Giovanni, segue infine una fanfara conclusiva con due battute di ritmo anapestico (due sillabe previ) con una sonorità da Serenata che rappresenterebbe la natura cavalleresca dell’eroe. Tema viene ripetuto e alla fine della fanfara cavalleresca, la frase si apre si ingrossa con la partecipazione degli archi. Appare il secondo tema in la maggiore, tema trascorre leggero e volubile con una specie di aerea scioltezza ritmica dove rispondo frammenti pastorali di oboi e clarinetti, per alcuni, richiamo all’avventura con Zerlina. Il terzo tema inizia con il martellamento pesante di archi e legni una frase discendente. Si crea contrasto tra la frase discendente e il motivetto beffardo dei violi, si scorge qui il botta e risposta della Statua e di Don Giovanni. Anche l’Abert, che ce lo vuol proibire, perché scorge nei due membri di frase piuttosto la manifestazione di due aspetti distinti d’una medesima 10 forza, cioè la ribollente e vigorosa energia vitale. Segue una ingiunzione del gesto sonoro discendente a note che si staccano pesantemente. Subentra un gioco di imitazioni a canone del gesto discendente prima tra archi e legni poi tra oboi e flauti, come se formassero una tela di ragno, Violini avviano la conclusione con ostinazione ritmica e prolungata. Si ripete sei volte quel botta e risposta finche i violini scendono alla ripresa. Atto primo: Scena prima: Scena si apre di notte con il giardino (siamo a Siviglia) da un lato c’è il palazzo del Commendatore dove ai piedi si situano delle panche di pietra. In scena sono presenti: Leporello, poi Don Anna e Don Giovanni, indi il Commendatore. [N.1 – Introduzione, Molto Allegro con Archi, 2 Flauti, 2 Oboi, 2 Fagotti e 2 Corni in Fa. Andante in fa maggiore, 4/4 e 4/4 alla breve] si presenta Leporello, il servitore di Don Giovanni, egli introduce sé stesso mettendo in rilievo il suo status di sottoposto, faticando notte e giorno mentre il padrone se la spassa con le donzelle. “Oh che caro gentiluomo!” è ironico, l’aria è rapida, egli fa il palo mentre Don Giovanni se la spassa con Don Anna. “Ma mi par che venga gente… / non mi voglio far sentir.” poi si nasconde. Tutto è rapido non ci accorgiamo che questa è un’aria tripartitica. Interessante è l’aria che racconta tanto di Leporello, in musica si presenta con una fisionomia un po’ marziale, quasi gestuale segnate con le triad (scalette ascendenti) che vanno verso l’alto, si presenta come il soldatino / burattino di Don Giovanni, costretto a vivere delle avventure che non vorrebbe vivere. Vi sono piccoli segnali del suo atteggiamento di scherno, presenti nella frase “Oh che caro gentiluomo!” dove l’aria perde i tratti marziali e diventa un po’ più melodica che rende il verso del suo padrone, come un’imitazione per scherno. Nel corso dell’aria si sente la parola “No” non indica nel testo, sottolineato nella musica di Mozart per dimostrare una sorta di rifiuto che Leporello ha nei confronti di Don Giovanni, denotato dall’atteggiamento rivoluzionario di Leporello nella classe meno abbietta. Mila denota il malfunzionamento di quest’ultimo passaggio, Mozart non insiste sulle tensioni della società contemporanea, non è presente il moto rivoluzionario nel Le Nozze di Figaro figuriamoci in un’opera meno “politicizzata” inoltre, segue l’atteggiamento simbiotico dei due personaggi: Leporello e Don Giovanni, che si dichiarano come complementari, possono esistere solo in funzione dell’altro. Il motivo di quei “No” è quella che denota Mila dell’impotenza, ovvero l’idea che Leporello vorrebbe essere come Don Giovanni ma non può essere come lui, perché gli mancano gli strumenti, quei “No” sono frustrazione verso il suo non essere come il padrone. L’aria scivola via rapidamente con le caratteristiche del basso buffo (Leporello è un basso). Leporello canta poco in canti declamati e ribattuti rapidi. Leporello ripete sul finire dell’aria “non mi voglio far sentir” la nota Fa per trentadue volte. Sono note che si ripetono ed è il carattere dei personaggi buffi. In pochissime battute l’opera da buffa diventa seria, con il ritmo più rapido, ed entrano i due personaggi che ci fanno entrare nella tragedia. Entriamo con la tranche de vie nella conclusione dell’azione che si svolgeva fuori scena (non vediamo la scena), mentre Leporello si presentava. Donna Anna tira per il braccio Don Giovanni e cerca di nascondersi, questi escono dalla casa del Commendatore. Donna Anna è una signora nobile, figlia del Commendatore, Don Giovanni è un nobile che si è introdotto nella casa del Commendatore raggiungendo la camera di Donna Anna dove accade l’azione che ci portiamo dietro tutta l’opera. Non sappiamo cosa sia accaduto realmente quando Don Giovanni sia entrato nella casa, Donna Anna è una donna fidanzata con Don Ottavio, lei non ha riconosciuto nel buio della notte che l’amante infiltrato in casa non è Don Ottavio ma Don Giovanni, ciò è plausibile successivamente. Vi sono due opzioni: il travestimento minuzioso di Don Giovanni in Don Ottavio, complice anche la notte o il buio era perfetto; (interpretazione di Mila) Don Anna si era accorta che nel letto non c’era Don Ottavio ma Don Giovanni e alla fine per il senso di colpa ha tirato su il finimondo, Mila definisce ciò con alcuni segmenti musicali che si possono interpretare in questa maniera. Quando però questa situazione potrebbe essere chiarita Donna Anna entra in casa (successivamente) delineando un atteggiamento ambiguo successivo, con anche lo stazionamento di Don Giovanni lì. Attacca Donna Anna con “Non sperar, se non m’uccidi, / ch’io ti lasci fuggir mai.” irata, giustamente, nei confronti di Don Giovanni che si cela a Donna Anna. La scena è a tre: Donna Anna e Don Giovanni in primo piano e in disparte Leporello. Donna Anna chiede aiuto, Don Giovanni la minaccia e partono “invocazioni” ambo le parti. Comincia il terzetto dove cantano insieme in un momento di concertato, uno fugge (Don Giovanni) l’altro perseguita (Donna Anna) e Leporello “Sta’ a veder che il libertino / mi farà precipitar” alla fine del terzetto hanno tutti la desinenza comune in -itar, infatti Don Giovanni e Leporello pronunciano la parola “precipitar” mentre Donna Anna dice “perseguitar”. Questo è subito un terzetto d’azione, un concertato d’azione dove non c’è staticità, vi è sovrapposizione di voci che cantano senza sentire. Mozart crea subito la stratificazione di caratteri differenti, qui delineata da Leporello con note ripetute in canto sillabico e con un registro più terreno, mentre i due litigano con un registro serio e un canto più melodico, come se opere serie e opera buffa si sovrapponessero nello stesso terzetto e tutto è unito con la musica. Entra il Commendatore, in musica si delinea con i tremoli che recupera quel tono di marcia funebre ripreso nella introduzione che recupera quel tema soprannaturale e mortale. Il Commendatore ha una sonorità timbrica, anche se ancora in vita, molto dichiaratamente mortifera, la presenza degli ottoni gli dona questo modo più mortale di cantare. Egli si scaglia contro 11 Don Giovanni e Donna Anna, sentendo il padre, lascia Don Giovanni ed entra in casa. Questa è un’azione che non ha un motivo, perché scompare nel momento utile per spiegare. Il Commendatore attacca con “Battiti Meco” rivolto a Don Giovanni che risponde con “Va’: non mi degno / di pugnar teco.” non volendo combattere contro un “vecchietto”, qui il Commendatore si irrita maggiormente ma c’è sempre il commento di Leporello, in disparte. Prima che Don Giovanni dica “Misero! Attendi, / se vuoi morir” vi è una lunghissima pausa di una battuta, che regala un momento di silenzio e suspance gigantesco che mette in evidenza un evento che è decisivo per il proseguo. I due combattono, in sottofondo segue una pantomima con Don Giovanni che ferisce mortalmente il Commendatore, qui è espressione musicale la settima diminuita che porta il contrassegno della morte del Commendatore. Il tempo diventa Andante, strano in questo caso perché non è un tempo adatto per una morte, non c’è un culmine drammatico che Mozart rifiuta con un tempo più lento che rilassa. La orchestra fa degli arpeggi (che avranno una ripresa in modo celebre in Beethoven con la Sonata al chiaro di Luna – Sonata per pianoforte n.14) molto sgranati e distesi in cui si incastra il canto del terzetto tra Commendatore, Don Giovanni e Leporello che rivela una difficoltà nella gestione per la mancanza della voce femminile. Mozart deve gestire un terzetto tra due voci basse (Commendatore e Leporello) e un baritono (Don Giovanni). Il Commendatore ferito si sente morire, Don Giovanni vede che è ferito mortalmente, Leporello indica il misfatto e l’eccesso, in sé lo sviluppo testuale è simile in tutti e tre i casi con le due frasi simili cantate da Don Giovanni e il Commendatore “già dal seno palpitante veggo (Don Giovanni) / sento (Commendatore) l’anima partir” con Leporello che conclude il suo pezzo in “dir”. Quando Don Giovanni dice “Ah! già cadde il sciagurato” lo dice con la stessa melodia che Donna Anna ha utilizzato in corrispondenza della battuta “Come furia disperata” del terzetto precedente, come una sorta di proseguo tra il Commendatore e Donna Anna. Leporello in un momento di riflessione della morte consolatoria perde i suoi tratti buffi rendendo tutto con un canto serio. Il Commendatore muore e si chiude la prima scena. Mila: Don Giovanni ha un’introduzione eccezionale, siamo di fronte fin da subito in un punto culminante più simile alla fine di una vicenda che al suo inizio. L’introduzione del Don Giovanni consta di quattro episodi: 1) assolo di Leporello, che passeggia davanti la casa di Donna Anna, ravvolto nel suo ferrajuolo, facendo la guardia in attesa del padrone (batt. 1-70); 2) sortita di Donna Anna e Don Giovanni, quella «tenendo forte» questo pel braccio (batt. 71- 134); 3) sortita del Commendatore, sentendo il quale Donna Anna rientra in casa; sfida e duello tra Don Giovanni e il Commendatore; 4) morte del Commendatore. Inizio tragico e allucinante, incredibile per un’opera comica, con questa scena di duello notturno in strada e morte di un personaggio. Merito spetta a Giovanni Bertati. La medesima situazione è proposta all’inizio dell’opera di Gazzaniga, con le stesse circostanze e su per giù la stessa partizione di episodi. La prima sezione dell’introduzione è dunque un a solo di Leporello (basso comico), che si lagna del proprio destino di servitore, costretto a fare la sentinella in strada al freddo, mentre il padrone se la spassa con la bella su nel palazzo. Il pezzo è una breve forma ternaria, A - B - A, preceduta da un preludietto orchestrale, raccolto dalla voce. Quindi, in sostanza: Preludio orchestrale. Preludio vocale sullo stesso tema. A - B - A. Ritmo è cadenzato, quasi di marcia: si pensi che Leporello va su e giù per la scena, infreddolito. Gli intervalli larghi (di quarta, di quinta e di terza), il brusco stacco di una pausa tra una nota e l’altra, sottolineano il malumore del personaggio. Una lunga pausa separa questa protasi rude, a larghi intervalli, di carattere scontroso, dal primo distico «Voglio fare il gentiluomo, e non voglio più servir», che costituisce la sezione A della forma tripartita. Succede qui un’idea melodica più fluida. La melodia è raddoppiata dai corni e dai violini primi, con alcuni trilli e svolazzi. Nei quali molti commentatori s’accordano per vedere una specie di parafrasi strumentale dell’ideale cavalleresco che Leporello vagheggia per sé nella figura del suo padrone. La chiusa della frase riconduce i grandi intervalli scontrosi, quasi come se Leporello si dimenasse e scuotesse il capo facendo le bizze per proclamare: «No, no, non voglio più servir». La ripetizione dei «no» sulle note dell’accordo perfetto di fa maggiore porta al culmine le smanie bizzose del personaggio. Un’elegante figura dei violini fa da cesura strumentale tra il settore A e il settore B. Piccola variante melodica del precedente, sulle parole ironiche: «Oh che caro gentiluomo! Vuol star dentro con la bella, E io far la sentinella!». Quest’ultima parola è ripetuta tre volte (le ripetizioni sottolineano l’aspetto ottuso del carattere di Leporello). Dopo una pausa con punto coronato ha luogo la ripresa della sezione A, dove nelle parole “Non voglio più servir” la comicità buffonesca di un particolare strumentale: la voce di Leporello è scesa al registro più grave. Il trapasso all’episodio seguente operato da una transizione sulle parole «Ma mi par che venga gente, Non mi voglio far sentir», che Leporello canta sopra un’unica nota (la tonica, fa), ripetuta 31 volte, salvo riprendere i soliti arpeggiamenti vocali sull’accordo perfetto di fa maggiore, per la ripetizione ostinata dei suoi «no, no, no, no». Leporello è dunque il primo personaggio dell’opera con cui facciamo conoscenza; secondo una tattica, frequente nel melodramma, di mandare avanti per primo qualche personaggio minore. Gli otto interpreti hanno tutti una qualità, sono importanti per la storia e quindi necessitano di grandi interpreti. Leporello non si può certo relegare fra gli ultimi, soprattutto per ampiezza della parte, quantità ed estensione di interventi. Lungo tutta l’opera Leporello dipana il filo rosso della comicità, ciò permette a Dent di 12 Giovanni concede all’avversario. Tutto questo breve episodio del duello presenta un contenuto melodico modestissimo: le brevi frasi di cinque note si aggirano per lo più tra i gradi fondamentali dell’armonia di re minore, mettendola bene in risalto, e senza permettersi svolazzi melodici. Sul primo verso, «Potessi almeno», Leporello introduce un disegno di tre note dell’accordo perfetto maggiore, che verrà subito raccolto da Don Giovanni, in minore. La melodia di Don Giovanni è severa, ferma, implacabile, quella di Leporello ha l’aria di contorcersi tutta, come il personaggio che vorrebbe andarsene. Otto battute d’orchestra dura il breve e disuguale duello: sono rapide scale ascendenti dei violini primi e dei violoncelli coi contrabbassi, seguite da balzi di ottava, mentre tutti gli altri strumenti, a fiato e a corda, tengono lunghe e fredde armonie. Forse il modello di questo «stile concitato» è da ricondurre a Gluck, secondo atto di Orfeo ed Euridice, e anche al balletto Don Juan. Commendatore cade, «mortalmente ferito», sopra un accordo di settima diminuita, tenuto da tutta l’orchestra, e prolungato con un punto coronato, accordo uguale a quello su cui egli risorgerà, come statua, nel finale. Su questa singolare, e probabilmente voluta coincidenza si fonda Luigi Dallapiccola per avanzare una sottile teoria sull’architettura dell’opera, la quale sarebbe interamente compresa tra i pilastri dei due accordi di settima diminuita, e si configura praticamente come la contrapposizione, il duello prolungato, dei due princìpi nemici: il Commendatore e Don Giovanni. l’Abert aveva già rilevato quanto fosse «non solo ben studiato dal punto di vista della tecnica drammatica, ma di convincente simbolismo, che al principio e alla fine dell’opera Don Giovanni si trovi contrapposto al Commendatore». Anche il Commendatore, rileva il Singer «funziona nell’opera come la mera risposta negativa all’esigenza di libertà di Don Giovanni. Significa tutto ciò che nella società limita la libertà sessuale». Ma l’Abert non accetta che nel Commendatore e in Don Giovanni siano da vedere il principio del Bene e del Male, il positivo e il negativo. «Nel Finale secondo non si combatte una lotta tra il Bene e il Male, ma tra due alte realtà, delle quali la più debole alla fine soggiace. Per Dallapiccola, invece, non solo si tratta del Bene e del Male, ma non c’è alcun dubbio che, Don Giovanni rappresentando il Male, il Commendatore sia il protagonista positivo dell’opera, com’egli cerca di dimostrare appunto con l’architettura generale del dramma, tutto compreso fra i due incontri mortali di Don Giovanni e il Commendatore. Per l’ultima sezione dell’introduzione, tutto cambia: il tono, che diventa fa minore, e il tempo, «Andante». Resta immutato soltanto l’organico con i tre bassi, Don Giovanni, Leporello e il Commendatore. Mozart ci immerge di colpo nella pace eterna. «Poche battute sono bastate a Mozart per schiuderci la porta sull’al di là.» Davvero questa breve pagina si può definire una meditazione sulla morte, giusto ricollegarla ai pensieri gravi che avevano abitato la mente del compositore nei mesi precedenti questo lavoro, per la morte, prevista, del padre. La morte come «chiave della nostra vera beatitudine», tale il senso dell’Andante conclusivo dell’introduzione nel Don Giovanni: forse non esiste altro caso così palese ed evidente di illustrazione verbale d’un pezzo di musica da parte dell’autore. Contemplazione della morte e quasi tentativo di scrutarne il mistero, questa lenta e augusta pagina musicale. Don Giovanni guarda quasi ipnotizzato l’avversario caduto: «Affannosa e agonizzante Già dal seno palpitante Veggo l’anima partir». E il Commendatore «sente» l’anima partir. Mai forse s’è dato un caso, in qualsiasi arte, dove il mistero fisico, meccanico, della morte, la separazione dell’anima dal corpo, venisse scrutato così da vicino. In quest’ultima sezione dell’introduzione le tre voci maschili si ravvolgono in un insieme densamente polifonico, ma, a differenza di quanto accadeva nelle due sezioni precedenti, non troviamo più due voci agganciate insieme in un gioco stretto di imitazione a canone, perché infatti, ormai, non v’è più litigio tra due dei partecipanti, e ognuno canta per conto suo. Solo nella contemplazione dell’anima che s’invola palpitante, si accostano un poco le linee melodiche di Don Giovanni e del Commendatore. Tre discorsi melodici, dunque, fittamente intrecciati, e di questi uno ci riserva una sorpresa. La frase circolare e tortuosa di Don Giovanni («Ah! già cade il sciagurato, Affannoso e agonizzante») non è nient’altro che la frase circolare di Donna Anna («Come furia disperata Ti saprò perseguitar»). Il Jouve assicura che questa analogia «ci fa toccare qualche mistero nelle situazioni affettive»: sarebbe forse una conferma del legame profondo che il fuggevole incontro ha stabilito tra le anime di Don Giovanni e Donna Anna. La pagina si chiude, dopo che il Commendatore è spirato, con quattro battute orchestrali nelle quali una calma scala cromatica discendente si palesa. «La fredda mano della morte – scrive l’Abert – si posa su tutti i presenti e ne paralizza i movimenti. Mai nella storia dell’opera essa ha più trovato un’espressione così concisa e nello stesso tempo impressionante.» C’è un palpitante movimento di terzine degli archi che sottende tutto l’ultimo episodio dell’introduzione che isolata ha una assomiglianza straordinaria con Chiaro di luna di Beethoven. Scena seconda: rimangono Don Giovanni e Leporello che in Recitativo secco, accompagnato dal clavicembalo. Leporello recupera il registro comico appena perso. Leporello qua dà la lettura di ciò che è successo nella camera da letto: “Due imprese leggiadre: / sforzar la figlia, ed ammazzar il padre”. Il termine “sforzar” indica può indicare lo stupro e/o l’inganno del travestimento. Il Commendatore ha voluto morire secondo Don Giovanni. I due se ne vanno e finisce la scena seconda. Mila: L’indicazione di «Scena seconda», usata in chiare lettere dal libretto, è quasi cinica. Che cosa è mutato dalla scena precedente? Nulla, salvo che uno dei tre personaggi impegnati in essa è morto. Ma è ancora presente lì in scena, 15 come cadavere. Tanto basta a Da Ponte per dar luogo a una nuova scena, applicando con molto formalismo la regola teatrale che una scena si riconosce dalle voci in essa impegnate: se qualcuna vien meno o si aggiunge, muta la scena. Don Giovanni, dunque, ritrova il suo servo nascosto nell’ombra, e tra i due si svolge, «sotto voce sempre», un rapido dialogo furtivo, che schiude uno spiraglio sul rapporto tra questi due esseri complementari, come abbiamo detto l’uno dell’altro, quasi che Leporello fosse un sottoprodotto escremenziale del suo padrone. Il dialogo è spiritoso e brillante. Il Jouve trova in questo dialogo, secco e lampeggiante», qualcosa di diabolico, una specie di tragicità burlesca. È un recitativo secco, accompagnato dal solo clavicembalo, senz’orchestra, e pertanto assolutamente convenzionale nel contorno melodico stereotipato. Tuttavia, ha ragione il Jouve di rilevare la «volubilità» dell’emissione vocale, così frettolosa e sprezzante. Scena terza: Entrano con risolutezza Don Ottavio e dietro Donna Anna e Servi che portano diversi lumi. Don Ottavio è tenore. Questa è la scena basta sul duetto basato sui promessi sposi. Si apre con un recitativo, qui accompagnato, dove Donna Anna inizia a cantare, sappiamo che ella è rientrata per chiamare Don Ottavio, che entra con la spada tratta. Donna Anna vede il cadavere del padre e [N.2 – Recitativo Drammatico, Allegro assai con Archi, 2 Flauti, 2 Oboi, 2 Fagotti e 2 Corni in Fa] dice: “Ma qual mai s'offre, o dèi / spettacolo funesto agli occhi miei! /Il padre!... padre mio!... mio caro padre!” continua con imprecazioni verso l’assassinio del padre fin quando non sviene per la sofferenza. Il tempo cambia rapidamente da un Allegro assai iniziale si passa ad un Maestoso appena Don Ottavio dice “Ah! soccorrete, amici il mio tesoro” passa poi ad Andante dopo che partono due servi e Don Ottavio continua con “Ah! Non tardate”. Donna Anna rinviene e pensa sempre al padre che viene fatto spostare. Il recitativo è molto drammatico, molto gluckiano, pieno di tremoli e melodia per esprimere i sentimenti forti che esprime Donna Anna. Dopo che Don Ottavio dice “Anima mia, consòlati, fa’ core!” inizia il duetto e si cambia tempo con un Allegro. Qui le parole di Donna Anna sembrano voler scacciare Don Ottavio con “Fuggi, crudele, fuggi!” ciò (secondo Mila) si stia rivolgendo a Don Giovanni e non a Don Ottavio come se pensasse di aver davanti a sé il suo molestatore, ciò è un ulteriore prova del fatto che ella era cosciente di essere in camere con Don Giovanni. All’attacco del duetto c’è la capacità di Mozart di mettere insieme stati emotivi diversi con “Fuggi, crudele, fuggi!” che assume un’emozione violenta ma con inserti, durante “il padre mio dov’è?”, dolci, si passa dalla violenza alla dolce. L’intento consolatorio di Don Ottavio viene corrisposto con la musica che diventa più solida e vigorosa, quasi marziale, tenta di essere più virile, ma sorge un problema sul personaggio di Don Ottavio che prova a presentarsi come un personaggio virile, forte, con i muscoli però non riesce nel suo intento, egli è tutto tranne il maschio protettivo e rassicurante, maschio effemminato che verrà esaltato nelle sue arie. La musica rispecchia la non possibilità di virilità di Don Ottavio. Nel duetto, oltre alla prima frase pronunciata da Donna Anna, si delinea che Donna Anna vuole morire per via del padre appena morto e Don Ottavio preoccupato le ricorda che non è sola con “ti parla il caro amante / che vive sol per te”, ella però pensa ancora al padre e si domanda dove si trovi e Don Ottavio a ciò risponde che “hai sposo e padre in me.” Qui finisce il duetto e continua il Recitativo drammatico, questa scelta di porre il recitativo come culmine del segmento situato in uno schema chiuso è strana e Mozart (solitamente avviene che prima c’è il recitativo poi il pezzo chiuso che può essere aria, duetto, o altro) sceglie di inserire un recitativo durante il duetto tra Donna Anna e Don Ottavio. Questa scelta è la modifica di una struttura consolidata e solida, ciò è dovuto all’importanza che si colgono nelle parole, che però smorza l’enfasi. Il giuramento successivo non è tanto credibile dal punto di vista di Don Ottavio che non è il tipo di uomo ideale per scatenare un’ira di vendetta verso un qualcuno. Il momento antienfatico caratterizza il personaggio di Don Ottavio e ne denota la mancanza di virilità. Donna Anna vuol vendicare la morte del padre e fa giurare a Don Ottavio di vendicare il suocero, cambia il tempo che passa da Allegro (tempo del duetto) a Maestoso durante il “Lo giuro! Lo giuro!” pronunciato da Don Ottavio e da Maestoso a Adagio subito alla fine appena sempre Don Ottavio attacca con “Lo giuro agli occhi tuoi, / lo giuro al nostro amor.” Insieme riprendono il duetto, che cambia il tempo in Allegro, con il giuramento che cita: “Che giuramento, o dèi! / Che barbaro momento! / Tra cento affetti e cento / vammi ondeggiando il cor.” Giurano di vendicarsi della morte del Commendatore ai danni di una persona non certa (Donna Anna in teoria non sa che è Don Giovanni l’assassino del padre). Mila: Poche battute di recitativo secco, poi «attacca subito Istromentato» il N. 2, che è una delle più complesse scene drammatiche dell’opera. l’Abert si richiama all’esempio di Gluck, per la straordinaria duttilità drammatica con cui vi si alternano recitativi obbligati vere e proprie idee melodiche. Basterebbe questa scena per distruggere l’argomento a cui si appella sempre Edward Dent per negare ogni possibilità di interpretazione romantica dell’opera, con applicazione di soprasensi più o meno demoniaci e metafisici. Il Don Giovanni – egli ribatte con ostinazione – è un’opera comica, non un’opera seria. Basta paragonarlo con l’Idomeneo per rendersene conto. In questa scena il raffronto con l’Idomeneo regge benissimo. Questo stile spezzato, dove il recitativo accompagnato si mescola strettamente alle forme vocali dell’aria o del duetto, è esattamente quel tanto di eredità gluckiana raccolta da Mozart 16 nell’Idomeneo. Donna Anna e Don Ottavio instaurano uno stile che è nettamente ed esclusivamente di opera seria. Non di opera seria napoletana, certamente, ma di opera seria che ha già conosciuto il rinnovamento gluckiano. N. 2 comprende: a) un lungo recitativo accompagnato, nel quale riconosciamo due sezioni; la prima, Allegro assai, è quasi esclusivo appannaggio di Donna Anna, la quale scopre il cadavere in strada, vi riconosce il padre, si dispera e alla fine sviene. Don Ottavio, in questa prima parte, apre la bocca un momento per pronunciare la parola esitante: «Signore…», inspiegabile e ridicola se rivolta al morto, talché i cantanti molto spesso pronunciano «Signora», facendo sì, giustamente, ch’egli si rivolga a Donna Anna, forse per pregarla di moderare la sua disperazione. Svenuta lei, è naturale che venga avanti lui, nella parte di recitativo fornita dalle indicazioni di Maestoso e Andante. Don Ottavio manda i servi a cercare rimedi per la donna svenuta, e qui si esprime naturalmente con autorità; poi rivolge ansiosamente le proprie attenzioni a Donna Anna, che si limita a sussurrare una volta «Ahi!» e un’altra volta: «Padre mio». b) Allegro, cioè il vero e proprio duetto, anch’esso, però, drammaticamente spezzato da due ritorni di recitativo, entrambi in occasione del giuramento che Ottavio presta a Donna Anna, di vendicare il sangue di suo padre. Il primo ritorno di fiamma del recitativo è chiaramente segnato nello spartito, con le indicazioni: Recitativo - Maestoso - Adagio in tempo. Dopo di che il duetto in forma chiusa riprende con l’indicazione Tempo primo. Quando ben presto, ripetendosi simmetricamente l’episodio precedente, ritorna il giuramento, praticamente esso è ancora un recitativo, e interrompe per un momento il decorso melodico del duetto, ma non ne rompe più il movimento di Allegro. In un certo senso il recitativo del secondo giuramento è quasi riassorbito entro la forma chiusa del duetto, come una parentesi interna, non più come una rottura. In pieno stile d’opera seria si svolge il recitativo obbligato di Donna Anna alla scoperta, prima, del cadavere, e poi all’identificazione in esso di suo padre, qui c’è poco della tonalità in do maggiore iniziale. «Il padre! padre mio!». Qui gli accordi dell’orchestra che «fanno irruzione» nella voce sono schietti accordi di do maggiore, e sono gli unici di tutto il pezzo. Recitativo di Donna Anna è spezzato e frammentario, come il discorso d’una persona sconvolta da improvviso dolore. Il recitativo di Donna Anna rientra principalmente nella categoria espressiva del lamento ed è – come scrive lo Hocquard – «una delle vette del linguaggio d’azione nella storia dell’opera». Poi ella sviene, e subentra il recitativo di Don Ottavio, che, dopo le prime parole di comando rivolte ai servi, rientra invece piuttosto nella categoria dell’affanno, dell’agitazione, svolto com’è per corte frasi febbrili con il passaggio dal Maestoso (imposizione ai servi) all’Andante. La saldatura tra il recitativo e il duetto vero e proprio è straordinariamente sottile. Notiamo di passata quanto sia strano il movimento psicologico che il libretto attribuisce a Donna Anna in questo inizio del duetto. Appena rinvenuta, ella vorrebbe allontanare colui che la consola: “Fuggi, crudele, fuggi! Lascia che mora anch’io Ora ch’è morto, oddio! Chi a me la vita diè.” Potrebb’essere un moto di disperazione per cui ella rifiuta i conforti di Don Ottavio. Ma Don Ottavio s’accorge ch’ella non lo riconosce, e lo scambia per l’uccisore del padre: “Senti, cor mio, deh! senti, Guardami un solo istante: Ti parla il caro amante Che vive sol per te.” Solo allora Donna Anna lo ravvisa “Tu sei… Perdon, mio bene…” È ben strana questa confusione di Donna Anna, e non sembra casuale il parallelismo: dapprima Donna Anna scambia Don Giovanni per il Conte Ottavio, e ora scambia Ottavio per l’uccisore di suo padre, cioè per Don Giovanni. Hoffmann die che ella abbia in qualche modo subito il fascino erotico di Don Giovanni. Hocquard non lascia che Donna Anna sia innamorata anche in minima parte di Don Giovanni, ma non spiega questa parte. Alla fine dei primi accenti di Donna Anna, quasi in stile di recitativo, ha inizio in orchestra una complessa struttura. Sopra questa macchina musicale già così ricca, e perfettamente autosufficiente, deve ancora inserirsi la voce del tenore. Lo fa in maniera laboriosa, e non è da stupire che certe sue esclamazioni spezzate e affannose («Senti, cor mio, deh senti») siano pur esse in stile di recitativo. Sarà Donna Anna, quando rinviene dal suo smarrimento e riconosce Don Ottavio, quella che finalmente sblocca il duetto dalla sua iniziale parsimonia melodica e lo conduce verso rive più fiorite di canto espressivo. Da questo punto in vanti il destino musicale del duetto non fa che sostanziarsi di nuove idee melodiche. Le frasi di consolazione di Ottavio, prima spezzate, affannose, e così laboriosamente amalgamate nel discorso dell’orchestra, «si condensano sempre più – come scrive l’Abert – in una calda cantilena». L’episodio, così bello, viene ripetuto integralmente nella successione delle tre fasi: «berceuse de douleur» – effusione cromatica discendente di Don Ottavio – sua conclusione nobile. quest’ultima leggermente variata, in quanto le parole «hai sposo e padre» vengono replicate, per raccogliere nella voce del tenore il singhiozzo, cioè l’intervallo di settima discendente, proposto da oboi e fagotti. Qui si rompe la continuità formale del duetto. Una scala per moto contrario dell’orchestra riporta il recitativo. Donna Anna invita il fidanzato a giurare di vendicare il sangue di suo padre. Scrive il Jouve che questa frase «sembra uscire dalla bocca allargata della antica maschera tragica». Sempre in stile di recitativo, per tre battute Maestoso, e per altre tre Adagio in tempo, Don Ottavio giura ma sembra manifestare qualche perplessità, qualche reticenza, se non proprio una riserva mentale. Secondo l’Abert, il giuramento di Ottavio bada di più agli «occhi tuoi», al «nostro amor», che alla missione sanguinosa della vendetta. «Un uomo di decisa volontà, Mozart l’avrebbe certo fatto giurare in toni più energici.» 17 sottolinea la parola “lista” che avvicina Leporello al padrone. Questo è un altro caso di aria dialogante, Leporello parla con Donna Elvira, collegando l’aria con un messaggio verso altri personaggi. Mila: Donna Elvira si sposta da Burgos a Siviglia in cerca di colui che l’ha abbandonata, Don Giovanni. Non sappiamo se i due sono sposati e poi Don Giovanni sia fuggito o Don Giovanni se ne sia andato il giorno delle nozze. Nel sestetto del secondo atto, essa proclama alto e forte di Don Giovanni: «È mio marito!». La lista dei personaggi preposta al libretto la definisce, diplomaticamente, «dama di Burgos abbandonata da Don Giovanni». Dama sembra indicare una persona che non sia più una giovinetta, come Donna Anna. Il personaggio fu inventato da Molière, all’inizio era una monaca fuggita per l’amore di Don Giovanni. Donna Elvira è un altro aspetto della femminilità rispetto a Donna Anna. Se questa è l’incarnazione della vendetta, Donna Elvira, qualunque cosa possa dire nei momenti di esasperazione, è invece la donna- tenerezza. Donna Anna chiede vendetta: è una fiera personificazione dell’onore spagnolo. Donna Elvira chiede amore. Entra in scena tempestando e fulminando mille atroci minacce contro il «barbaro» che l’ha tradita. Eppure, sentiamo subito (e di questi doppi, o secondi sensi, la musica è interprete privilegiata) che se Don Giovanni le riaprisse le braccia, lei ci cadrebbe dentro e sarebbe la sua felicità. Donna Anna è una personificazione tragica in certo senso astratta. Essa non si mescola mai con altri personaggi. Se mai, è l’anti Don Giovanni: almeno, la sua antitesi terrena, poiché quella celeste è il Commendatore (che del resto è suo padre). Donna Anna è isolata, e anche uno scrittore che ne difende a spada tratta l’innocenza, come lo Hocquard, la grati fica di paragoni con la Vittoria di Samotracia, di epiteti come «terribile Amazzone», e riconosce che ella non è come Donna Elvira, una donna che vive dell’amore e per l’amore. Donna Anna è tagliente e dura, «una figura di prua». Tutto il contrario la povera Elvira. Elvira è eminentemente umana. Perciò: Donna Anna è isolata, sola, una astratta personificazione tragica, e non viene mai coinvolta nella rete degli altri personaggi. Donna Elvira è un essere sociale, ed è sempre coinvolta nel giro degli altri personaggi Donna Anna non scende mai dal piedestallo del suo alto stile tragico, e Donna Elvira, invece, figura così patetica e commovente, viene coinvolta più volte nella buffoneria triviale di Leporello. Per Della Corte Elvira «primeggia» nell’opera, perché «è la più energica fra le donne rotanti nella sfera di Don Giovanni». E per Goldbeck, «il solo personaggio valido come antagonista di Don Giovanni» (oltre, per natura, al Commendatore) «è Elvira». Per il Goldbeck, Donna Anna sarebbe «convenzionale» come il suo fidanzato Ottavio. Alcune opere vedono l’aria di Elvira come terzetto. Ma è un’aria di sortita, di presentazione di un nuovo personaggio. L’aria si potrebbe denominare “aria plurima” per rilevarne l’anomalia (presenza di altre due voci oltre a quella solistica del personaggio che canta l’aria), e sottolineare l’ansia dialogica che pervade il teatro di Mozart. Mozart comincia ad attuare quel suo ideale personale di teatro in musica, che evade dalle consuete categorie italiane della opera seria e dell’opera comica, e non accetta se non in modesta misura le proposte riformatrici di Gluck. Un teatro che deve conservare il primato musicale dell’opera napoletana, e nello stesso tempo deve realizzare, entro di esso, il massimo di interscambio drammatico tra i personaggi. Aria, dunque, quella di Donna Elvira; non un’aria tripartita con da capo, bensì un’aria semplice, con immediata ripetizione. Non: A - B - A, bensì: A - A’, dove la ripresa, o per meglio dire, la ripetizione (poiché in mezzo non c’è stato alcun diversivo) è abbastanza vistosamente ampli ficata in una coda virtuosistica. Le due sezioni stanno tra loro in un rapporto sonatistico, poiché, essendo questa aria formata di due temi ben distinti, nella prima esposizione i due temi appaiono rispettivamente alla tonica (mi bemolle) e alla dominante (si bemolle); nella ripetizione sono unificati nel tono fondamentale, come avverrebbe nella «ripresa» di una sonata. Il primo tema, nel tono solenne di mi bemolle maggiore, ci presenta Donna Elvira come una furia tragica, in preda ai più feroci propositi di vendetta cruenta. L’agitazione del personaggio è sottolineata dai bruschi contrasti dinamici di «piano» e «forte», contrapposti di continuo, dagli urti e contraccolpi del ritmo, dalla frequente ampiezza degli intervalli percorsi dalla voce, segno caratteristico dello stile tragico di opera seria. Secondo una giusta visione del Breydert, il canto di Donna Elvira presenta una salda stabilità tonale: tonica e dominante, di lì non si scappa sempre il Breydert nota giustamente che c’è una specie di «eccesso d’energia» di furore tragico di Donna Elvira, qualcosa di sproporzionato. Per la prima volta nell’opera, in questo pezzo entrano i clarinetti. Il clarinetto: lo strumento prediletto di Mozart, lo strumento della tenerezza e della malinconia, ben confacente all’anima gentile e dolce di questa povera donnina abbandonata e indifesa. La rigidezza di questo primo tema dell’aria di Donna Elvira esprime orgoglio e corruccio. Lo smontamento della collera di Donna Elvira avviene col secondo tema. Dal solenne tono di mi bemolle passiamo in quello, più dimesso e discorsivo, di si bemolle, la dominante. Fusette vivaci e gaie, questi riflessi urgenti d’un desiderio lontano disegnano, della profondità dell’orchestra, come un secondo volto del personaggio, opposto a quello che noi vediamo.» Si potrebbe dire, con orribile termine giornalistico, che nel secondo tema Donna Elvira viene «ridimensionata». In questo secondo tema, mentre il canto di Elvira moltiplica i suoi balzi tragici di ottava. Don Giovanni e Leporello, nascosti, cominciano a inserire i loro commenti libertini. «Udisti? qualche bella dal vago abbandonata», sussurra a Leporello Don Giovanni, lontano le mille miglia dall’immaginare che il vago» 20 infedele è per l’appunto lui. E quando la disperazione di Elvira raggiunge l’apice, Don Giovanni se ne esce in ipocrite esclamazioni di commiserazione: «Poverina! poverina!». «Cerchiam di consolare il suo tormento», egli si propone, cantando quasi in stile di recitativo, su una nota più volte ripetuta. Ma l’orchestra sottopone un commento illuminante. I violini fanno sentire quello che l’Abert chiama una «dolce melodia cullante», fatta d’una semplice oscillazione su due note, ma incredibilmente efficace nell’allusione a un sottinteso erotico». È un motivo di compassione e di consolazione; ma compassione intesa alla maniera trivialmente sensuale di Don Giovanni. Sono, come dice l’Abert, «le vecchie demoniache arti di seduzione» del cavaliere libertino: ma mascherate di ipocrita commiserazione. Dopo questo inserto delle voci maschili l’aria riprende da capo. Donna Elvira , si abbandona a un esteso e virtuosistico vocalizzo, concessione all’ambizione virtuosistica della cantante, ma anche un modo per ribadire la maschera di furore tragico che la povera Donna Elvira si pone. Segue un recitativo a tre, lungo, ma spiritoso, conduce alla prossima «aria del catalogo» di Leporello. Anche dal punto di vista musicale, tale recitativo non è interamente convenzionale né stereotipato. Don Giovanni riconosce Donna Elvira e se la svigna, scaricando sullo sprovveduto Leporello l’incarico di darle le spiegazioni del caso, Leporello biascica alcune frasi senza senso all’indignata dama, prima di organizzare la sua grossolana consolazione («Non siete voi, Non foste e non sarete Né la prima né l’ultima») e, dopo avere sciorinato il libro-catalogo delle conquiste di Don Giovanni, che con abile lancio si srotolerà in una interminabile pergamena, attaccare la famosa aria. Nel mito di Don Giovanni l’invenzione d’una lista numerica delle sue conquiste fu introdotta verso la metà del Seicento in un Convitato di pietra. Questo lazzo da commedia dell’arte (che si accompagnava al gesto di srotolare abilmente verso il pubblico la pergamena del catalogo) ebbe conseguenze incalcolabili nel determinare l’interpretazione romantica del personaggio di Don Giovanni. Leporello è affascinato dai numeri. «L’aritmetica è la sua religione.» La sua ossessione numerica instaura quello che Camus chiamò «l’etica della quantità, laddove il santo tende verso la qualità». Ne è condizionata, come per un contagio, la furia amorosa di Don Giovanni, che in realtà non può innamorarsi di nessuna donna e ripetere l’atto sessuale, perché non ha tempo. Fu facile per i romantici interpretare quest’ossessione numerica come sete dell’assoluto. La famosa «aria del catalogo» delle conquiste di Don Giovanni già esiste anch’essa, come la scena precedente, con Donna Elvira, nel libretto del Bertati per l’opera di Gazzaniga, ma in forma assai più rozza. Da Ponte attribuisce a Don Giovanni una fame indiscriminata, che appetisce donne «d’ogni grado, d’ogni forma, d’ogni età». Diversa la versione di Bertati che nega le vecchie. Questa materializzazione numerica, computistica, delle conquiste di Don Giovanni, allargate a un favoloso eclettismo è uno dei più forti argomenti per la tesi romantica che vede in Don Giovanni un disperato ricercatore dell’assoluto, alla caccia d’una perfezione ideale, sicché praticamente la sua concupiscenza si spoglia d’ogni facoltà di discernimento, perché in realtà egli cerca nelle donne qualche cosa che non potrà mai trovare: l’ideale, l’infinito. Analogamente alla celebre aria di Figaro nelle Nozze, «Non più andrai, Farfallone amoroso», l’aria di Leporello è un classico esempio di aria dialogante, ossia di un’aria che non resta circoscritta al personaggio che la canta, ma altri ne coinvolge nella propria portata. È un’aria di Leporello, certo, e molto ci dice su costui: sulla sua sostanziale ammirazione per i misfatti erotici del padrone, ch’egli funge talvolta di biasimare moralisticamente, ma che in realtà vorrebbe sapere emulare, talché nell’elenco e nella descrizione delle conquiste di Don Giovanni, Leporello finisce quasi per soddisfare una certa sua libidine per procura. Ma, come dice l’Abert, il «significato drammatico» dell’aria è quello d’un «ritratto del carattere di Don Giovanni», che pur essendosela svignata, è presente per tutta la durata della aria. Inoltre, c’è una terza persona, la povera Donna Elvira, crudelmente oltraggiata dalla goffa consolazione di Leporello, che di fatto viene a coinvolgerla in mezzo allo stuolo delle donne sedotte da Don Giovanni. Ma la pasta dei due personaggi è ben diversa, troppa essendo in Leporello la servile e ammirativa invidia per le fortune amatorie del padrone, invidia che postula una vana velleità di emulazione. Praticamente, insomma, Leporello, più che stigmatizzare le colpe sessuali e gli eccessi erotici della classe signorile, li invidia e si riscalda di riflesso alla loro enumerazione descrittiva. L’aria del catalogo è un tipico esempio di aria bipartita (A - B), e più esattamente, di aria doppia, Gluck prevedeva la forma bipartita, meno statica. La bipartizione dell’aria (anziché tripartizione con da capo) deriva tuttavia dal suo contenuto. La prima aria enumera le conquiste di Don Giovanni. La seconda le descrive. La prima aria, perciò, tutta fondata sui numeri, incalza con una specie di vertigine ossessiva (la condanna di Don Giovanni a una caccia senza posa). È un velocissimo Allegro in 4/4, tutto proteso in avanti, quasi sferzato, staffilato dalla punteggiatura strumentale, tirato via a ritmo di scioglilingua: rivive in esso quella inarrestabile spinta vitale che è l’essenza stessa del personaggio di Don Giovanni, e che abbiamo già trovata nel Molto allegro dell’ouverture. La seconda aria non è più enumerazione, bensì descrizione delle conquiste di Don Giovanni (bionde, brune, giovani, vecchie, ricche, povere, cameriere, cittadine, marchesane, baronesse). Descrizione e, si vorrebbe dire, degustazione. Leporello le vede, mentre le descrive, e ci si sdilinquisce. L’evidenza descrittiva della musica è talmente parlante, la riuscita così totale e assoluta, che sembra rendere superfluo qualsiasi commento. Leporello, che tanto spesso si atteggia a coscienza morale di Don Giovanni, funziona qui come «la memoria» del padrone, secondo la giusta osservazione del Jouve. Questo 21 Allegro è la prima sezione di una grande aria bipartita, o doppia, e a sua volta si configura anch’esso come un’aria doppia. Più esattamente, e specialmente stando alla distribuzione delle parole, vi si individuano cinque sezioni, secondo lo schema: A - B - C - B’ - C’. La prima sezione, A, presenta chiara funzione introduttiva. È la protasi, burlescamente pomposa, del discorso di Leporello, ch’egli pronuncia sciorinando il rotolo del catalogo. Il canto, rigorosamente sillabico, è poco più di un declamato veloce, in stile di basso comico. In orchestra, i violini primi e i bassi si rilanciano a turno le note fondamentali dell’accordo perfetto di re maggiore, disposte in leggeri arpeggi ascendenti e staccate da brevi pause. C’è una specie d’impazienza nel movimento orchestrale: tutto si slancia in avanti, tutto corre su piedi leggeri, come lo slancio vitale di Don Giovanni, mentre il discorso vocale di Leporello affretta una certa solennità oratoria. L’enumerazione vera e propria, che si snoda vocalmente come una filastrocca. in orchestra un’idea nuova: una scala discendente di flauti, fagotti e violini primi, conclusa da un’allegra figura scampanante per terze, di oboi e corni, che ha un fare un poco campagnolo, popolaresco: perciò la chiameremo idea folcloristica, senza pretendere con questo a una caratterizzazione rigorosa e scientifica del piccolo motivo. Solo alla fine di essa, quando sono esauriti i paesi stranieri e si giunge finalmente alla Spagna, la linea vocale, e il discorso orchestrale che l’accompagna, ora prevalentemente all’unisono, perdono la loro fretta calcolatoria e si allargano in compiaciuta ampiezza di melodia, sebbene sempre sillabica. Due punti coronati incorniciano l’espressione «ma in Ispagna» caratterizzata da una dislocazione del ritmo. Comincia ora l’episodio C. Le parole son nuove, e la melodia vocale anche: una progressione rigida e sillabica, poco più che un incalzante declamato armonico, fino al momento in cui sfocia con toni di fanfara su uno sfogo grandioso alle parole: «d’ogni forma, d’ogni età!». Per tutta la sezione A non v’era stata alcuna modulazione tonale: non ci si era mai mossi dal tono di re maggiore. Tanto più e fficace risulta perciò qui il ribaltamento sulla dominante in la maggiore. Dunque, tutto par nuovo, in questa sezione C, almeno se si bada al canto. Ricomincia l’enumerazione («In Italia seicentoquaranta…»), cioè la sezione che chiameremo B’, poiché la linea del canto è lievemente variata. Ma il maggiore mutamento lo troviamo in orchestra. I violini perà si danno alla rèplica e si sfidano. Ora è la volta di ripetere il terzo membro di frase, C’, cioè la descrizione degli stati sociali delle donne sedotte da Don Giovanni. la voce ora s’impadronisce delle grandi scale diatoniche proposte poc’anzi dall’orchestra, e corre su e giù per tre volte sillabando: «v’han tra queste contadine, cameriere, cittadine…». Sono come raffiche vocali che salgono e scendono, agganciandosi, la terza volta, sulla sottodominante, re, ripetuta cinque volte in un trillo cromatico di stringente valore perorativo. Invano aspetteremmo l’allegro scampanamento dei corni che avevamo battezzato «figura folcloristica». Ora invece, dopo il già ricordato «climax» perorativo sulla sottodominante (re), otto battute enfaticamente pompose concludono con fare grandioso sulla nuova tonica (la maggiore). Più semplice appare al confronto la struttura formale della seconda aria di Leporello, l’Andante con moto in tre quarti, nuovamente e interamente in re maggiore. Si tratta d’un ritmo di minuetto grazioso, molto cantabile. Tutti si rendono conto del carattere trionfale che la musica prende sulle parole «è la grande maestosa», con quel prolungato acuto vocale sulla tonica. La ripetizione insistente e leziosa della parola «la piccina» è l’immagine sonora dello sdilinquimento di Leporello, al quale evidentemente piacciono le piccoline. All’arida velocità della enumerazione succede qui la lentezza della degustazione. «Non più i luoghi e i numeri dell’avventura – scrive il Jouve – ma la sua sostanza. Ci avviluppa una spessa materia afettiva.». Poi il minuetto riprende da capo, sulle parole «delle vecchie fa conquista», carezzoso e un po’ antiquato. Sarà un caso, ma sulle parole «pel piacer di porle in lista», e più verso quest’ultima parola, che, come abbiam detto, svela il segreto intimo di Don Giovanni, sostituendo una specie di ossessione dell’assoluto in luogo del semplice e diretto piacere sensuale, si produce l’unico evento musicale importante nel tranquillo decorso di questa seconda aria: bruscamente si modula da re maggiore a si bemolle, quasi come un’acciaccatura, una improvvisa e dolorosa inflessione tonale. Il ritmo cerimonioso di minuetto, arricchito da figurazioni in semicrome dei secondi violini e dai trilli di flauti, fagotti e violini primi, ritorna, col tono di re maggiore, alle parole «non si picca se sia ricca». È come se l’immagine della «giovin principiante» avesse portato una specie di sbandamento seduttivo nella immaginazione concupiscente di Leporello. Ora riprende il tono pacato e invitante di quel compito seduttore che è Don Giovanni. Ma la volgarità di Leporello, la sua bassa ghiottoneria sensuale, si sovrappone ancora una volta alla galanteria elegante di Don Giovanni, nella chiusa, col vocalizzo sincopato che sventola mollemente, alla fine delle parole «voi sapete quel che fa». Scena sesta: Lasciata Donna Elvira da sola, si ritrova con un recitativo secco a dover commentare ciò che le ha presentato Leporello pochi secondi prima. Anche se ci sono le condizioni di inserire qui un’aria Mozart non la inserisce poiché ha preferito che Donna Elvira si presentasse con un’aria tutta sua. Donna Elvira commenta con il fatto che ella si vuole vendicare: “Ah, vendicar vogl'io / l'ingannato mio cor: pria ch'ei mi fugga... / si ricorra... si vada... Io sento in petto / sol vendetta parlar, rabbia e dispetto.” 22 Zerlina. Ella risponde con l’esatta ripetizione della stessa melodia. Alle volte seguono delle variazioni a “ma può burlarmi ancor”. Don Giovanni riprende con la melodia e la maniera in cui risponde Zerlina è meno decisa e tremolante che simboleggia il suo cedimento verso Don Giovanni. Il recitativo nel finale riprende la melodia, Don Giovanni apre la melodia e Zerlina la completa (prima era l’opposto), vi è tra i due la complementarità. Con “Andiam, andiam” le voci si uniscono. La scrittura diventa più popolare, tempo di 6/8 con i giochi di terza che rendono sempre il duetto più pastorale, popolare e ciò ha varie interpretazioni. Mila dice che Don Giovanni non ha più bisogno di conquistare Zerlina, quindi si lascia andare sul naturale, può abbassare il registro oramai ha conquistato Zerlina, ma ciò è un regredire di Don Giovanni che si spiega con il fatto che egli non ha nessun interesse per lei. Nel finale del duetto si sente la derivazione aristocratica di Don Giovanni passando dal canto alla danza, che testimonia il passaggio dallo scambio verbale a quello gestuale, fisico alludendo quindi al passaggio dalle parole ai fatti. Mila: Un recitativo a due conduce al N. 7. È uno dei pezzi più celebri dell’opera, e pertanto di tutta la musica, e s fida l’analisi con la sua semplicità. È il duetto della seduzione di Zerlina, praticamente l’unico caso in cui vediamo Don Giovanni in azione nella sua qualità di seduttore. Esso mette in atto due situazioni psicologiche: l’incalzante invito di Don Giovanni, e il turbamento che invade Zerlina. Argomento del duetto è il progressivo sopravvento che l’iniziativa dell’uomo raggiunge sulla resistenza, sempre più debole, della contadinella. Dumesnil: «Mai la musica ha meglio espresso l’amore, o piuttosto l’istinto di amare, la forza che spinge, irresistibilmente, due esseri all’amplesso. Eppure, mai musica è stata meno volgare, meno materiale che quella dove Mozart ha saputo esprimere tutti i desideri, tutti i richiami della voluttà». Praticamente, con questo è detto tutto: l’originalità del duetto sta nell’innocenza con cui è vista la caduta di Zerlina. La semplice struttura del duetto, che pare all’Abert «un capolavoro di psicologia drammatica». Il Dent ne elogia il «fine senso di caratterizzazione nelle diverse maniere di ripartire la melodia tra due voci, nelle piccole variazioni melodiche, che producono un’immensa differenza nel significato poetico delle frasi» Il duetto è bipartito: prima l’Andante in 2/4, poi, dopo un punto coronato, un movimento in 6/8, che a rigore, nel manoscritto, non reca indicazione di un nuovo movimento, ma deve essere per forza un Allegro. L’Andante è la seduzione vera e propria, l’irresoluzione di Zerlina, la lotta tra il dovere e il piacere; scrive l’Abert che qui «Don Giovanni assume un tono cavalleresco, come se si trovasse di fronte a una sua pari». L’Allegro è la decisione e l’accordo: Zerlina ha capitolato, come scrive lo Hocquard, «si lascia andare alla vertigine momentanea dei sensi». La prima parte, Andante, si presenta a sua volta come una minuscola forma tripartita, con una prima sezione in la maggiore, una seconda in mi maggiore («Vieni, mio bel diletto!»), e la ripresa, in la maggiore. L’invito di Don Giovanni è una breve melodia carezzevole, sopra un accompagnamento bilanciato degli archi: una melodia racchiusa in breve ambito, per gradi congiunti. La frase di Don Giovanni è melodicamente completa, ha un senso musicale compiuto e Zerlina è incantata. Al termine di ogni semifrase, appena sorretta, come s’è detto, da un leggero accompagnamento bilanciato degli archi, i fiati introducono una brevissima congiunzione. Tale congiunzione conduce mollemente all’inizio della successiva semifrase vocale. È come un dolcissimo coretto di persuasori, per non dire di ruffiani. L’Abert la chiama «un cullante, profondo respiro». Zerlina, dunque, ripete come incantata la frase di Don Giovanni, ma mentre costui la terminava con rapida decisione, puntando diritto sulla tonica nelle parole «partiam, ben mio, di qui», Zerlina, che vorrebbe e non vorrebbe, ed è indecisa e combattuta, tanto quanto Don Giovanni ha bene in mente il suo scopo, prolunga la chiusa in un lieve e turbato vocalizzo a due note per sillaba, ripetendo le parole «ma può burlarmi ancor!». Ecco una, e non l’ultima, di quelle «piccole variazioni melodiche» ammirate dal Dent, che non obbediscono solo a motivi di decorazione musicale, ma «producono un’immensa differenza nel significato poetico delle frasi». Brevissima sezione centrale si svolge in mi maggiore. Col passaggio alla dominante è come se Don Giovanni avesse portato d’un grado più su la stringente urgenza del suo assedio. La melodia non è più così calma e cullante, per gradi contigui, ma si allarga nell’ambito di un’ottava, scandendo lo spazio tonale intermedio come una fanfara. Zerlina, a parte, combatte da sola la sua battaglia perduta in partenza: sempre sull’amplificazione vocalizzante di due note per sillaba, ri flette «mi fa pietà Masetto!» e confessa ripetutamente: «Presto non son più forte!». «Zerlina – scrive l’Abert – qui svolazza con la sua inquieta melodia come un uccello preso nella rete.» Una dolcissima caduta di archi e fiati riporta sulla ripresa, di nuovo in la maggiore. Essa non è del tutto identica all’esposizione, bensì avviene per entrate ravvicinate: si ammira qui un’altra di quelle piccole modificazioni significanti rilevate dal Dent. Nell’esposizione Don Giovanni terminava tutta una frase melodica, Zerlina lo stava a sentire, e poi ripeteva la medesima frase, come affascinata. Adesso invece, ripetendo la procedura già iniziata nella sezione B, Zerlina completa ogni mezza frase di Don Giovanni: come scrive l’Abert «gli prende le frasi immediatamente dalla bocca». Per quattro semifrasi, la voce di Don Giovanni è raddoppiata dal flauto e quella di Zerlina dal fagotto; ma alla quinta semifrase tutti i legni ( flauti e fagotti, e anche oboi) si uniscono per aumentare il peso della implorazione di Don Giovanni: «partiam, ben mio, di qui». Le due voci cominciano a sovrapporsi per brevi tratti, l’accompagnamento orchestrale, fin qui lievissimo, fa sentire 25 maggiormente il suo peso. L’Abert scrive di questo 6/8 che qui Don Giovanni, ormai sicuro della vittoria, scende nella sfera campagnola di Zerlina, che qui prenderebbe il sopravvento, mentre l’Andante, con la sua tenerezza signorile, «stava tutto sotto il segno di Don Giovanni». In realtà, lo sfogo quasi meccanico prodotto dalla irruzione del 6/8 è un «topos» mozartiano inconfondibile. L’irruzione del 6/8, col suo movimento circolare cullante, alla fine d’un tormentato duetto d’amore, è la vittoria sulle difficoltà e gli ostacoli che intralciano all’uomo il cammino verso la felicità, è la rottura degli argini eretti dalla civiltà menzognera e l’inizio della corsa irresistibile verso il piacere. la felicità, si esprime regolarmente con l’esplosione d’un roteante ritmo di 6/8. È nel vero il Dumesnil, quando scrive, come abbiamo visto, che «innocenza è qui sinonimo d’obbedienza a quella legge della natura, più forte a volte che tutte le morali». Del resto, anche l’Abert ci va inavvedutamente vicino, quando, difendendo la seconda parte del duetto da accuse che talvolta gli si muovono, di scarso fuoco e mancanza di passione, osserva che per Don Giovanni questa nuova conquista non è niente di speciale, «solo un gioco piccante», e quanto a Zerlina, «essa ha semplicemente seguito il suo impulso». L’Abert accompagna l’analisi di questo duetto a tutta una interpretazione del personaggio di Zerlina (che naturalmente avrà poi modo di delinearsi ulteriormente). L’interpretazione dell’Abert è essenzialmente una difesa del carattere di Zerlina, che non sarebbe quella personcina civettuola, già corrotta nell’intimo, come han l’aria di credere molte delle cantanti che la rappresentano. Zerlina non ha più nulla della bellezza campagnola del tempo di Rousseau, che nelle opere popolari veniva contrapposta all’aridità delle cittadine. Ma ancor meno è una caricatura da opera buffa nello stile della Maturina di Bertati, bensì semplicemente una contadina schietta, di vivace temperamento, di grazia naturale e anzitutto di sana, forte impulsività. Questa determina tutto il suo modo di pensare e di agire, che pertanto non comporta la superiore regola morale di colpa e innocenza. Mozart, nella sua musica, l’ha spogliato di ogni peso terrestre e gli ha così conferito artistica legittimità. Ritornando per un momento sul piano strettamente drammaturgico e musicale, l’Abert ha un’illuminante intuizione storica, nei riguardi del melodramma italiano convenzionale, quando esclama: «Quanto più efficace questa scena tutta in forma di duetto, che se invece Don Giovanni avesse prima dichiarato a Zerlina il suo amore in un’aria, e poi lei avesse risposto con un’altra aria, e solo allora un duetto avesse finalmente conchiuso la scena!». Scena decima: Compare in scena Donna Elvira che ferma la coppia durante l’arrivo al casino. Donna Elvira insegue Don Giovanni da Burgos, Donna Elvira interrompe il bel momento dei due: “Fermati, scellerato! Il ciel mi fece / udir le tue perfidie. Io sono a tempo / di salvar questa misera innocente / dal tuo barbaro artiglio.” Don Giovanni chiarisce a Donna Elvira il suo intento di divertirsi con Zerlina. Donna Elvira irata, segue la spaesata Zerlina e risponde un astuto Don Giovanni che dice che Donna Elvira è innamorata di lui e lui per pietà deve fingere di ricambiare poiché egli è un uomo di cuore. [N. 8 – Aria Allegro solo con Archi] Questa è l’aria moralistica che Donna Elvira dedica a Zerlina su come comportarsi contro questi “traditori”, è un’aria pedagogica. L’aria è breve, è strana perché sembra stare un passo un dietro rispetto alle altre. Questa è un’aria di collera molto statica, dai tratti barocchi quasi recuperata nei tratti da Händel tra cui: la scrittura per soli archi, non usa qui Mozart una maggior orchestrazione, mentre il barocco prediligeva gli archi; aria esprime il carattere unico, da inizio alla fine, unico affetto che segue la teoria degli effetti; ci sono tanti vocalizzi, non usati per acrobazia espressiva allineati nell’utilizzo barocco per esprimere rabbia; presenza dell’ostinato, ritmo uguale e identico dall’inizio alla fine, tipico della danze barocche. Dà l’idea di essere estrema, tutto è esagerato, violento e quasi urlato. La spiegazione è dovuta alla funzione drammaturgica dell’aria e ciò è dovuto al fatto che Mozart vuole far apparire Donna Elvira come una scocciatrice, ella ha troppo ragione, delineata come colei che è sempre stufa. Mozart fa una scelta di campo, noi non dobbiamo identificarci in Donna Elvira, piena di rabbia, di stanchezza e tutto ma dobbiamo filtrare Donna Elvira attraverso gli occhi di Don Giovanni e quindi immedesimarci in lui cogliendo in Donna Elvira il suo essere asfissiante apparento troppo e scocciante. Mozart punta a far entrare quindi lo spettatore nella psicologia di Don Giovanni, ovvero del carnefice piuttosto che nelle vittime. Donna Elvira è musicalmente è diverso dal testo, che ha un atteggiamento pedagogico, non condiviso con la scelta di Mozart che segue la rabbia e il senso di vendetta. Esce e porta con se Zerlina. Mila: Elvira piomba come un falco sulla coppia che si avvia al casino di Don Giovanni, e ammonisce Zerlina, volendo «salvar questa misera innocente» dal «barbaro artiglio» di Don Giovanni. Questi improvvisa qualche scusa imbarazzata. Il breve recitativo lascia tosto il posto al N. 8. È una brevissima aria tripartita, dove la sezione centrale è una derivazione dell’idea principale; in mi minore, questa sezione B modula rapidamente a si minore, la maggiore, permettendo così il ritorno sulla tonalità fondamentale di re maggiore, per la ripresa. Questa termina con due vocalizzi sulla parola «fallace». Tutta l’aria ha qualcosa di rigido e di spigoloso: il duro ritmo puntato non viene mai lasciato un istante, nemmeno nella sezione centrale. È una favola che il manoscritto rechi, di pugno di Mozart, l’indicazione: «nello stile di Haendel». Tuttavia, è altrettanto vero che questa breve aria presenta qualcosa di curiosamente archeologico senza i fiati, questa è implementata. L’Abert penetra a fondo le ragioni del carattere arcaico di quest’aria. Esse stanno principalmente nella sua monoliticità espressiva. Proprio l’Abert ha spiegato come Mozart sia il maestro 26 degli «affetti spezzati», cioè del più cangiante svariare dei sentimenti nel corso d’un solo pezzo, secondo la mobile vicenda degli affetti umani. In quest’aria, invece, siamo ritornati alla univocità espressiva dei tempi di Bach e di Haendel. Donna Elvira è furibonda dal principio alla fine: non c’è mai un varco, mai uno spiraglio perché si affacci un altro sentimento. qui è ancora tutta caricata di furore e di collera, e si presenta in modo ingrato, con quest’aria spinosa, tutta ispida, a punte aggressive. La persistenza costante del ritmo puntato è il contrassegno della univocità espressiva. «Il tutto – scrive l’Abert – va intensificandosi sempre più e alla fine si scarica nella selvaggia coloratura.» Anche le osservazioni del Breydert vanno tenute presenti. I grandi salti del canto di Elvira dànno «l’impressione di un eccesso di energia». Appunto perché procede per ampi intervalli, e non per gradi contigui, si potrebbe quasi dire che Donna Elvira non canta melodie, ma successioni di accordi spezzati. La tragedia di Donna Elvira è appunto quella di aver ragione, cosa che non serve a nulla contro ragioni di altro ordine, e che non le impedisce di figurare come una terribile scocciatrice. Vari scrittori ne indagano la complessa personalità. Secondo l’Abert, ogni intento pedagogico esula da Elvira, anche se ha l’aria di volere aprire gli occhi a Zerlina e salvarla dal pericolo. In realtà di Zerlina non gliene importa niente, e se gliene importa è solo perché ci vede una rivale. La sola cosa che le importa è riconquistare Don Giovanni. L’odio che esplode nelle sue esclamazioni è soltanto un rivestimento caduco dell’amore persistente, e si scioglierebbe al minimo calore di tenerezza. La sua collera vendicatrice, scrive lo Hocquard, «è più dovuta all’amore che al dispetto, e al desiderio violento di riconquista. Se ella allontana Zerlina, è meno per proteggere l’inesperta contadina che per conservare il proprio bene». «Durezza compassata ed eccesso freddo» rileva anche il Jouve in questa breve aria, «priva di sfumature». Più che esserne afferrati, se ne ammira la violenza verbale. Tutti rilevano l’evidente volontà mozartiana di stabilire un contrasto, il più netto possibile, con la tenerezza amorosa del duetto precedente. Di qui lo stile arcaico e barocco di quell’«ostinato» ritmico che non demorde neanche per una battuta. Il suono aspro degli archi soli accentua la durezza rimbalzante del ritmo puntato. È come se gli strumenti a fiato venissero esclusi quasi per un sospetto di eccesso d’umanità e di vocazione melodica. all’umore aggressivo della povera Elvira, che coi suoi urli e i suoi sacrosanti rimbrotti riesce a rendersi insopportabile come una predicatrice dell’Esercito della Salvezza. Scena undicesima: Don Anna e Don Ottavio con Don Giovanni il tutto è un recitativo secco (i primi avevano giurato vendetta ma non sapevano a chi). Don Giovanni esordisce con: “Mi par ch'oggi il demonio si diverta / d'opporsi a' miei piacevoli progressi: / vanno mal tutti quanti.” Mila qui fa una riflessione di come sia la figura di Don Giovanni come un seduttore in “pre- pensionamento” poiché egli non seduce nessuna donna in questa opera. Entra Don Ottavio e Don Anna e ciò che Don Giovanni non vorrebbe. Donna Anna e Don Giovanni si conoscevano già, il secondo è sospettoso e un po’ impaurito. Donna Anna dice a Don Giovanni: “Amico. A tempo / vi ritroviam: avete core, avete / anima generosa?” Don Giovanni è sospettoso e risponde: “(Sta' a vedere / che il diavolo le ha detto qualche cosa.) / Che domanda! Perché?” Donna Anna ha bisogno dell’amicizia di Don Giovanni che prontamente risponde “con molto fuoco” di “comandarlo”. Mila: Il meccanismo teatrale dell’opera si mette in moto lentamente e, come abbiamo detto, con una certa fatica. Le vicende fino qui un po’ disperse si coagulano sotto l’azione motrice di Donna Elvira, che sopraggiunge ripetutamente a smascherare Don Giovanni. In questo recitativo lo vediamo dapprima solo, meditare malinconicamente sulla sfortuna che da un po’ di tempo gli manda a monte le sue imprese. È questo uno dei passi dov’è più chiaramente enunciata una circostanza da tener presente: Don Giovanni, quale lo vediamo nell’opera, è un seduttore sfortunato. Gli vanno tutte male: prima con Donna Anna, poi con Zerlina. La sua disinvoltura e la sua sicurezza mascherano appena la verità ch’egli è ormai sulle soglie della vecchiaia. E c’è in questo suo declino una vena di patetico, che forse è la più consistente, anzi l’unica nota di sostanza psicologica di cui il personaggio sia dotato. Don Giovanni non è tanto una creatura umana, così e così caratterizzata, come sono tutti gli altri personaggi, quanto piuttosto una specie di luogo geometrico, un centro a cui convergono dalla circonferenza tutti i fili e i raggi dell’azione. Mentre Don Giovanni medita sui suoi contrattempi, sopraggiungono Don Ottavio e Donn’Anna, che chiedono il suo aiuto. Don Giovanni, che già temeva d’esser stato scoperto, respira, e cavallerescamente offre i suoi servigi, il suo braccio, la spada, il sangue, i beni a quella ch’egli chiama sempre, con significativo tratto di eleganza libertina, «bella» o «bellissima» Donn’Anna. Il recitativo serve a collocarci Don Giovanni nell’ambiente dei suoi pari. Vediamo qui che è conosciuto e stimato da Don Ottavio e Donna Anna. È uno dei loro. È un dialogo di «gente bene» ch’essi conducono nel recitativo, dialogo che viene rotto da un’ennesima irruzione della tremenda Donna Elvira. Scena dodicesima: Vi sono in scena tutti i Don ovvero Donna Anna, Don Ottavio, Don Giovanni e Donna Elvira. Entra in scena Donna Elvira che da del “mostro” a Don Giovanni. [N.9 – Quartetto Andante con Archi, 1 Flauto, 2 Clarinetti in Si bem, 2 Fagotti e 2 Corni in Si bem] attacca Donna Elvira, questo è un concertato d’azione, ciò accade in maniera rapida. Donna Elvira dice a Donna Anna di non fidarsi di Don Giovanni perché ha già tradito lei e vuole anche tradire te. I due (Anna e Ottavio) non si aspettavano questa accusa nei confronti di Don Giovanni per via del suo 27 Don Giovanni: “compie il misfatto suo col dargli morte”. Mozart pone il recitativo prima dell’Aria, seguendo la forma classica, il recitativo non sbriga solo i fatti ma è portante di drammaticità acuta, Donna Anna sta elaborando i traumi come una sorta di autoterapia, ritorna il rimorso. Il flusso dei pensieri è molto libero e il recitativo avendo uno schema più libero può seguire maggiormente il passaggio di emozioni e il flusso verbale di Donna Anna, ciò è la spiegazione del cambiamento del tempo in continuazione che deve stare dietro alle parole, lo stesso vale per l’armonia che valorizza sempre di più. Il recitativo si carica di melodia, come se si costruisse durante il racconto. In questo caso il recitativo viene accompagnato da tutta l’Orchestra. Qui siamo all’Aria di Donna Anna [Aria con Archi, 2 Oboi, 2 Fagotti, 2 Corni in Do.] Il recitativo ha caricato la tensione. Un’aria parlata, verso Don Ottavio, dove Donna Anna chiede vendetta. Donna Anna dice: “se l'ira in te langue / d'un giusto furor” capendo che Don Ottavio non prova lo stesso furore che lei prova. Capisce che forse non è la persona giusta per vendicarsi. Mila dice che Donna Anna esprime in un senso unitario la vendetta della morte del padre. Vi sono dei tremoli con degli scatti (verso alto) che ricordo lo scatto di nervi, ma non vi è solo questa caratteristica. Quando Donna Anna dice: “il padre mi tolse” il tremolo scompare, il nervoso scompare e il tema diventa più cantabile quasi tenera, si attenua con il ricordo al padre. Nella seconda parte da “Rammenta” a “furor” scompare tutto e vi è il componimento affannoso di chi ricorda un trauma, nella parte finale ripresa precedentemente, lei usa i toni più commuoventi ripresi in “il padre mi tolse”. La forma è molto tradizionale A-B-A’. Si ripete la seconda sezione: “ Rammenta la piaga / del misero seno, / rimira di sangue” come una sorta di B’ ma è giusto un attimo dove si sente il ritmo ansimante, come una reminiscenza. Nel finale abbiamo una chiave di lettura di questo personaggio un po’ ambiguo che smorza da un fortissimo si passa ad un piano, si sgonfia. Ciò ha un significato contradditorio ha livello di emozioni, qui non si chiude con una grinta totale. Lei prova un sentimento contradditorio verso Don Giovanni, c’è l’aggressività ma il finale smorzata deciso da Mozart si palesa l’ambiguità di Donna Anna. Mila da un senso a ciò con un senso di colpa per aver ceduto quella notte a Don Giovanni, consapevole o no, che provoca il senso di vergogna o inadeguatezza in ambito sociale e relazionale. Da qui Donna Anna ha un comportamento sempre contradditorio verso Don Giovanni. Ella alla fine lascia la scena. Nella versione del Don Giovanni di Praga Don Ottavio lascia la scena insieme a Donna Anna. In quella definitiva, viennese, solo Donna Anna lascia la scena e si aggiunge l’aria di Don Ottavio. Mila: Allontanatosi Don Giovanni, Anna dà un grido: «Don Ottavio, son morta!». E abbiamo qui un grandioso recitativo obbligato, cioè accompagnato dalla piena orchestra. Questo è la chiave di volta della vicenda drammatica: in esso Anna racconta finalmente che cosa accadde in quella terribile notte quand’ella fu aggredita in casa da uno sconosciuto. Il recitativo è un capolavoro del genere, e consente a Donna Anna un’evidenza plastica, quasi morbosa, nella rievocazione della tentata violenza di cui fu vittima. a ciò, i mezzi musicali di cui Mozart si serve sono principalmente due: l’incessante gioco delle modulazioni, e l’alternanza di due movimenti: Allegro assai e Andante. Donna Anna richiama l’attenzione di Don Ottavio, che le risponde, ed essa gli rivela: «Quegli è il carnefice del padre mio!». L’ha riconosciuto dalla voce. Quindi si ha il primo mutamento di tempo: Andante, con passaggio al tono scuro di mi bemolle minore per mezzo d’un accordo di settima di dominante. Una discesa sincopata degli archi introduce il racconto. che si sprigiona dalle lunghe armonie tenute degli archi, fanno di questo Andante uno dei più grandi recitativi nella storia del teatro musicale. Il gioco delle modulazioni, come quello dei mutamenti di tempo, si fa serrato. Il racconto di Anna passa da mi bemolle minore a si minore. Il racconto di Donna Anna riprende in sol maggiore, e questa volta «stringendo il tempo», fino a tornare nel I Tempo, cioè Allegro. L’orchestra pone qui interiezioni di tre note «staccate» ascendenti, note «cattive», scrive il Jouve, che segnano la battaglia, l’affanno oscuro della lotta. Le parole: «che a forza Di svincolarmi, torcermi e piegarmi» sono separate da tante pause nelle quali par di sentire il respiro affannoso della lotta. I toni viaggiano da sol minore («Non viene alcun») a mi minore («m’aerra»), a la minore («Alfin il duol») per passare in fa maggiore all’esclamazione, veramente infelice e quasi comica, di Don Ottavio: «Ohimè! respiro!». Abbiamo così raggiunto la tonalità nella quale scatta immediatamente, rombando nei bassi come il tuono, l’aria della vendetta. È un’aria tutta compatta e prorompente nella regolare forma tripartita. In un certo senso potrebbe sembrare convenzionale, dopo la libertà di forme del quartetto, regolata soltanto dal moto drammatico dei sentimenti. Il meccanismo espressivo è rettilineo ed elementare: Donna Anna chiede ferocemente vendetta; ad alimentare in se stessa, e soprattutto in Ottavio, la fiamma dello sdegno vendicatore rievoca l’immagine sanguinosa del padre assassinato. Solito schema A - B - A. L’aria, ha scritto il Jouve, «trasforma in violenza l’affanno veemente del precedente racconto». In essa «l’erotismo ferito di Donna Anna avanza, simile a qualche vittoria antica». Non è da respingere senz’altro il sospetto che nell’insistenza accanita, implacabile con cui essa chiede il castigo di Don Giovanni, ci sia un certo nascosto e inconfessato bisogno di castigare se stessa; di vendicare un affronto anche più intimo, che l’attentato di Don Giovanni avrebbe portato alla sua virtuosa onorabilità. Ch’ella divampi ancora di vergogna per avere forse ceduto, forse gradito l’amplesso del seduttore. Ma anche senza queste complicazioni, il dolore per la morte del padre e la sua fierezza di nobildonna andalusa sono motivi sufficienti per l’impeto aggressivo 30 dell’aria, per la sua durezza vendicativa. Secondo il Dent, Anna non è un personaggio simpatico: è «dura fino alla scortesia». Certo, non è una natura amorosa come Donna Elvira. quest’aria è addirittura pervasa da una «frenesia demoniaca – come scrive lo Hocquard – tanto più forte in quanto non ha portata amorosa ed è in questo senso inespressiva. È la passione allo stato puro, la passione per la passione, l’esaltazione ossessiva, la volontà assoluta del trionfo». Dritta come un fil di spada, Donna Anna è l’incarnazione della vendetta. Anche lo Hocquard, che la difende, la descrive «tagliente e dura: una figura di prua», e la gratifica dell’appellativo di «terribile amazzone». Grande antagonista di Don Giovanni non è Donna Anna, ma il Commendatore. Donna Anna è soltanto il braccio secolare, il carabiniere, il Commissario di Pubblica Sicurezza incaricato di rintracciarlo e arrestarlo, per condurlo al Giudice. E il Giudice è il Commendatore. Aria inizia con un agitato tremolo di violini e viole, sotto cui violoncelli e bassi fanno tosto intendere una rapida terzina ascendente di biscrome, quasi un brontolio lontano di tuono. Le frustate di terzine ascendenti di biscrome sono le stesse che avevamo notato nella prima aria di Leporello, «Notte e giorno faticar»: sono un gesto di energia, comica e buffonesca in Leporello, tremendamente seria in Donna Anna. Tra questo gioco di echi minacciosi s’inserisce la voce con una frase a grandi intervalli di stile tragico, ripetuta tre volte, ogni volta un grado più su. Il cambiamento lo esige il quarto verso della sestina: «che il padre mi tolse». Al ricordo del padre la fierezza rettilinea di Anna si spezza e dà luogo a uno di quei tratti di tenerezza che in lei non sono frequenti. La volontà di vendetta s’impenna più fiera. nel loro gioco di echi a canone è coinvolta la voce, i cui ampi e scattanti intervalli sono doppiati dai violini primi, anche la voce si sospende sopra un lungo acuto alla dominante, prima di ripiombare con decisione sulla tonica. Ha qui inizio la sezione centrale dell’aria, sulla seconda sestina: tutta affanno, in tono minore, sopra l’accompagnamento agitato degli archi, mentre fagotti e oboi inseriscono delicati incisi melodici. È un lamento, un lamento visionario in cui Anna evoca l’immagine sanguinosa del padre per scuotere lo sdegno di Don Ottavio. Fine che non è tale, perché subito s’inserisce un’embrionale ripresa della sezione centrale: appena due battute e mezza, ove il carattere affannoso e dolente è ancora accentuato dalla continua alternanza di «piano» e «forte» a ogni quarto di battuta. Tutto seguito da una «coda» tumultuosa dove pare che la voce si lanci ripetutamente all’assalto di quella dominante acuta che è il tetto dell’aria. Scena quattordicesima: Don Ottavio è da solo per la prima volta e vi è un recitativo secco. Si è capito che Don Giovanni è l’assassino e Don Ottavio cerca sempre in modo galante di “scoprir il vero” anche se la verità si è ritrovata. Don Ottavio sente con il dovere di sposo e amico di dover “disingannarla” e vendicare la morte del padre di Donna Anna. [N.11- Aria Andantino sostenuto con Archi, 1 Flauto, 2 Oboi, 2 Fagotti e 2 Corni in Sol] Inizia la prima aria di Don Ottavio, l’orchestra qui accompagna e basta. Le frasi sono iper-romantici, molto smielato. Don Ottavio è una sorta di seguace molto amoroso di Donna Anna, non ha uno spirito critico tutto suo e ciò che piace a Donna Anna piace a lui. Il registro è acuto, egli è un tenore, ha quasi un registro femminile. Ha una vocalità che ricorda la modalità settecentesca pre-mozartiana che ricorda il canto femminile. Sicuramente è una voce effemminata. Mila esagera dicendo che la scelta della voce simile all’età pre- mozartiana è dovuta alla scelta drammatica, e non al ritorno un po’ retrò dell’opera, delineando una linea sessista di “passività femminile”. Atteggiamento di Don Ottavio è l’inetto all’azione, non ha spontaneità, si fa trainare. Più che essere innamorato di Donna Anna sembra essere innamorato della sua figura di innamorato. Questa aria è lunga, l’azione si ferma completamente. Nell’accompagnamento si legge e si palesa la stasi anche nella forma dell’aria con A-B-A’. La sezione A, che va da “Dalla sua pace” a “morte mi dà” è caratterizzata dal canto spiegato, è un’aria poco moderna, guarda il passato. Tutto si blocca. L’Orchestra segue degli accordi fermi. La sezione B che segue ha un descrittivismo quasi madrigalistico, musica cerca di descrivere quelle immagini, con “ira” che ha un tremolo, con il pianto che ha una discesa cromatica, usata dal Rinascimento, seguendo esempi molto prebarocchi. Don Ottavio esce di scena. Mila: Sullo slancio di un’aria così compatta e impetuosa come quella di Donna Anna, parrebbe che i due personaggi debbano uscire di scena d’impeto. Invece Don Ottavio indugia ancora, per esprimere i suoi dubbi circa quanto Donna Anna ha raccontato. Gli pare incredibile che «di sì nero delitto» abbia potuto macchiarsi «un Cavaliero». Vuole fare le sue indagini, «discoprire il vero», per disingannare, oppure vendicare, secondo i casi, Donna Anna. Questa parte non c’era a Praga, egli partiva insieme a Donna Anna. Ovunque la si voglia collocare, quest’aria dà il tracollo al personaggio di Don Ottavio. Quest’aria che stampa il suo carattere d’uomo inetto all’azione, quale poi il personaggio si confermerà anche in seguito, con la seconda aria, «Il mio tesoro intanto». Il contrasto con quell’autentico uomo d’azione che è Don Giovanni finisce per apparire quasi derisorio. Don Ottavio, scrive l’Abert, è «un uomo che sta a guardare e discorre, ma non agisce». Tuttavia, c’è chi respinge questa interpretazione, in particolare lo Hocquard. Egli difende Ottavio a spada tratta dall’accusa di «nullità d’azione». Ottavio «non diventa che ciò che era già: il fidanzato della sua amante. Ama, e questo è il suo unico talento». Per l’Abert quest’aria, pur essendo drammaticamente un disastro, è «uno dei più bei canti d’amore di Mozart», di gusto italiano senza falso sentimentalismo. Don Ottavio per Hocquard è un personaggio dell’azione interiore. «Per noi – scrive lo Hocquard – su una cosa non c’è ombra di 31 dubbio, ed è che Mozart sta dalla parte di Ottavio.» Non solo, ma lo scrittore va oltre: «è probabile che Mozart vi ha messo molto di se stesso e delle sue esperienze amorose, delle sue sconfitte, della sua timidezza». Interpretazione dell’eroina Anna, che nutre, sotto odio ufficiale, un segreto amore per Don Giovanni allora la figura di Don Ottavio è da inetto. L’aria in questione (come del resto anche l’altra del secondo atto) è una bellissima aria di stile antico. Gounod: «Un altro fascino della musica di Mozart è la stretta parentela che lega tra loro i diversi membri del periodo musicale». Gli fa eco il Dumesnil: «Mai egli insiste, mai egli sottolinea. La ripetizione degli stessi effetti, gli svolgimenti inutili, egli li ignora». L’aria in questione, che pare tanto lunga in teatro, e può determinare perfino un moto d’impazienza nello spettatore è in realtà assai breve, una mini-aria tripartita, con sezioni minuscole, d’un canto tutto di grazia. Breve, dunque, ma chiaramente tripartita quest’aria. La prima sezione, in sol maggiore, esaurisce la prima strofa di sei quinari. La seconda, in sol minore, dove la melodia è più inquieta, e sembra quasi svolazzare timidamente agitata, in qua e in là, ricopre la seconda strofa, poi, su un punto coronato dell’orchestra alla dominante (re), la voce, con un vocalizzo di struggente dolcezza, risale alla ripresa. Scena quindicesima: In scena c’è Leporello, dopo entra Don Giovanni. È un recitativo secco. Ci stiamo avvicinando alla conclusione del Primo Atto con la festa in casa di Don Giovanni. Leporello fa dei commenti pseudo-moralistici. Leporello era rimasto solo con i contadini mentre stavano andando alla casa di Don Giovanni. Il commento moralista di Leporello avviene quando egli è in una situazione sgradevole, come in questo caso dove in questo caso egli si ritrova la gelosia di Masetto. Leporello dice a Don Giovanni cosa ha fatto con i contadini e racconta che sul bello della festa è arrivata Zerlina accompagnata da Donna Elvira. Leporello quando arriva gridando Donna Elvira sta zitto e quando gli sembrava che ella si fosse sfogata ha tratto fuori Donna Elvira ed ha chiuso a chiave la porta, Don Giovanni elogia Leporello e prolunga la festa fino a che non viene notte. Il racconto avviene sempre con comicità. I due si completano. Entrano a casa. [N.12- Aria Presto con Archi, 2 Flauti, 2 Oboi, 2 Clarinetti in Si bem] Qui inizia l’aria di Don Giovanni. Egli è il protagonista e non ha avuto ancora un’aria. Egli sfugge sempre. Unico momento in cui lo abbiamo visto era con Zerlina ma egli stava fingendo. Non abbiamo mai visto da solo Don Giovanni. Questa è l’unica aria veritiera di Don Giovanni. Aria dialogica dove parla anche con Leporello. Ritorna la “lista”. Don Giovanni mette in parola il suo amore per le ragazze, con la richiesta a Leporello di ricercarne altre in piazza. Con un inno quasi dionisiaco al ballo e all’amore. Ciò si conclude con “Ah! la mia lista / domani mattina / d’una decina / devi aumentar”. Musicalmente abbiamo un riscontro frenetico con la mancanza di una melodia da memorizzare, è molto rapida e frenetica. Dà l’impressione che la vera personalità di Don Giovanni debba sempre essere celata. Mozart dà a Don Giovanni un’aurea di volatilità, egli non è fisso. Don Giovanni sfugge e ha una vocazione compulsiva verso l’infinito. L’aria dura poco ma è molto espressiva. Anche se non vediamo mai Don Giovanni, egli è il centro dell’opera, tutte le azioni degli altri personaggi sono dovute grazie o a colpa di Don Giovanni. Mila confronta con Le Nozze di Figaro dove il gruppo sociale è organizzato di una reta di conoscenze reciproche, invece nel Don Giovanni tutti sono collegati dall’eroe misteriosamente sfuggente, una volta che Don Giovanni cessa di esserci il gruppo di personaggi si sfalda e tutti vanno in direzioni diverse, Don Giovanni è il fulcro dell’opera che sfugge e che non vediamo bene. Importante ancora è la “lista” ovvero il risultato concreto di quella ricerca spasmodica verso l’infinito che lo rassicura e riassume quella tensione irraggiungibile. Nei fatti questa è un’aria che invita a festeggiare e a godere, ma nello stesso tempo ciò produce un senso di frustrazione verso la corsa verso l’infinito, esprimendo due cose contradditorie delineando quindi un personaggio, anche qui, ambiguo. Nella musica ci sono dei forte-piano delineanti dei contrasti interni di Don Giovanni. I due escono di scena. Mila: Ritornano in scena i personaggi dell’altro mondo, o meglio dell’altro emisfero: gli umili e le canaglie, mentre Donna Anna e Don Ottavio, e Donna Elvira, sono la gente «bene». Ritroviamo Don Giovanni e Leporello in uno dei loro colloqui confidenziali: un dialogo malizioso. Don Giovanni non smentisce il proprio essere nemmeno attraverso il recitativo. Esso presenta una forte energia ritmica: è quasi sempre fatto di dattili e anapesti. Ciò gli conferisce un tono di disinvoltura sprezzante e futile, dove si manifesta la natura del padrone, di signore, di Don Giovanni. nel Don Giovanni v’è spesso invece graduale raggiungimento della tonica attraverso la seconda superiore. Qui, nel recitativo a dialogo tra Don Giovanni e Leporello, le battute vengono rimbalzate dall’uno all’altro come una palla. Leporello fa la parodia della quasi- melodia-di-fanfara del recitativo di Don Giovanni. Se si elimina l’aria di Ottavio, questa fronteggiava direttamente quella di Donna Anna. Sono due infatuazioni opposte, ma ugualmente univoche. Don Giovanni pregusta l’ebbrezza della festa imminente. La musica non descrive né illustra questa eccitazione, ma è l’eccitazione stessa. Sembra davvero l’equivalente sonoro del gioco di bollicine in un calice. Uno «scatenato fenomeno naturale», la definisce l’Abert, «una tempesta del sensuale impulso di vita». Principale elemento dell’aria è il ritmo. La melodia è quasi inesistente. Ma il ritmo ne estrae sempre nuove figure e formulazioni, con la persistenza vertiginosa d’un movimento di trottola. È un moto perpetuo, dove si stabilisce, secondo il Breydert, «un contrasto singolare tra la stagnazione armonica e il metro puramente esterno, contrasto ottenuto sia col ritmo, sia coi 32 piuttosto scaltra. un’aria doppia, come quella del catalogo, di Leporello. Due arie, si potrebbe dire, la prima delle quali tripartita, A - B - A. La prima aria si svolge, potremmo dire, come una carezza: l’immagine ritorna presso quasi tutti i commentatori. L’Abert si fa garante che nella dolcezza della cantilena non s’insinua nessun patos inopportuno né falso sentimentalismo. Però, tantino di lezioso la nostra cara Zerlina se lo porta sempre con sé, ed è quello che la rende tanto gradita agli uomini, e a Mozart in particolare. Giustissimo dire «cantilena» invece di melodia: c’è una specie di insistenza tutta avviluppata, come dice il Jouve, nella «carezza degli archi e dei legni». Il «violoncello obbligato», cioè il primo violoncello isolato in funzione solistica «circonda ogni idea della parte vocale con le sue figurazioni lusinghevoli». La melodia vocale cantilenante ha un andamento discendente, è come tirata giù regolarmente dalla forza di gravità. Allora la voce reagisce con quel periodico saltino fino alla tonica superiore che è come il movimento vivace e rapido di un uccellino. La sezione centrale, alla dominante (do maggiore), introduce nell’orchestra l’elemento dei trilli ripetuti dei violini, che ornano la melodia vocale, e prolifereranno ancor più nella breve «coda». Solita ronda mozartiana di abbandono al piacere, il regresso verso la felice età dell’oro, la riconquista del paradiso perduto. L’inno alla pace ritrovata dopo le baruffe, alla concordia dell’amore corrisposto. Di norma, queste ronde della felicità in 6/8 sono duetti, come quello che già abbiamo visto di Don Giovanni e Zerlina, come quello di Susanna e Figaro nel finale delle Nozze. Questo costituisce una curiosa eccezione. In realtà si tratta d’una specie di duetto camuffato, perché Masetto fa ancora un poco il broncio, e Zerlina ha fatto tutto lei, ha accettato le immaginarie botte di Masetto le ha prese umilmente in santa pace, e ora basta, ora ritiene di avere pagato il suo conto e reclama la sua parte di felicità: «Pace, pace, o vita mia…».Alla fine dell’ultima strofa, ogni volta che ritornano le parole «vogliam passar», sull’ultima sillaba la voce si abbandona a vocalizzi. Si noti ancora un particolare finissimo di struttura. Alla lettura del testo poetico – tre quartine di ottonari – parrebbe ovvio che le prime due quartine debbano servire per la prima aria tripartita: A la prima strofa; B la seconda strofa; la ripresa di A utilizza ancora e ripete la prima strofa. La terza strofa resta quindi destinata alla seconda aria, l’Allegro in 6/8. Ma per questa seconda aria, l’irresistibile rincorsa al piacere, il canto della pace ritrovata e della recuperata età dell’oro, è chiaro che a Mozart servivano solo gli ultimi tre versi della quartina prepara una nicchia con una piccola «coda» in calce alla precedente aria tripartita, una «coda» tutta trapunta di trilli frullanti dei violini. In parole povere, avendo a disposizione per le due arie dodici versi ripartiti in tre quartine, Mozart, anteponendo le esigenze della verità drammatica a quelle di un’oziosa simmetria, ne spende nove, cioè due strofe più un verso, per la prima aria tripartita, e costruisce la seconda aria, in 6/8, sopra tre versi soli, cioè su una quartina decapitata. Un breve recitativo di Masetto e Zerlina segue l’aria di quest’ultimo personaggio. Masetto è sul punto d’essere abbindolato dalle moine di Zerlina, e quasi se ne rammarica, nell’atto di arrendersi: «Siamo pure i deboli di testa!». Ma i suoi sospetti sono subito riaccesi dall’inquietudine che Zerlina dimostra sentendo la voce di Don Giovanni fuori scena, che si avvicina per dare inizio alla festa. Zerlina, spaventata, vuol nascondersi, e Masetto ne deduce ch’ella abbia commesso qualche imprudenza con Don Giovanni. Perciò si propone di nascondersi lui stesso, in qualche nicchia del giardino, per spiare il contegno del cavaliere e di Zerlina. Ha inizio così il colossale finale primo dell’opera, considerato da quasi tutti gli studiosi come la massima, o per lo meno la più complessa realizzazione drammatica di Mozart. Mix di alternanza di scene e pezzi musicali. Il finale comincia con un duetto di Masetto e Zerlina, allegro assai in Do maggiore 4/4 e poiché i due erano impegnati nella scena precedente, il numero di scena non cambia. Cambierà tra poco, con l’arrivo di Don Giovanni, sebbene nella musica non si avverta nessuna interruzione. Tutto il finale si presenta quindi come una grandiosa macchina teatrale, ricca di coraggiosi effetti anche scenici. Curiosamente l’Abert afferma che questo finale non può paragonarsi, cioè poeticamente, col finale primo delle Nozze di Figaro. Secondo lui esso non cresce dall’interno e non sviluppa l’azione in modo coerente, ma piuttosto inanella meccanicamente, e sia pure con abile intensificazione, scene diverse. Non gli sembra «un finale organicamente costruito». Eppure, una sua linea inesorabile questo finale ce l’ha. Si conclude qui, partendo dal semplice duo Masetto-Zerlina, quella struttura «a valanga» che il Dent ha indicato nel primo atto dell’opera: cioè, la caccia a Don Giovanni che si è a poco a poco organizzata dopo il suo smascheramento. In questo finale tutti gli cadono addosso: la valanga crolla con gran fracasso sul seduttore. Col finale Mozart si butta a capofitto in quel tipo di musica che solum è sua: quella musica drammatica modellata sul corso dell’azione, ch’egli intuiva confusamente nella sua giovinezza e che non trovava in modo pienamente soddisfacente nella contemporanea opera italiana, soprattutto nell’opera seria. Siamo dunque ora di fronte a un seguito di scene che si concatenano rapidissime, con un minimo di simmetrie formali, dando l’illusione di un discorso musicale continuamente rinnovato, secondo le esigenze dell’azione. In realtà non manca mai un’impalcatura di piccole strutture. Si comincia col rapidissimo Allegro assai, in do maggiore, 4/4, di Zerlina e Masetto. Ravvisiamo qui almeno tre elementi musicali distinti, ravvicinati e congiuntamente operanti. Uno è la sillabazione veloce di Masetto che cerca un nascondiglio per spiare gli atti di Don Giovanni con Zerlina non c’è praticamente melodia, ma solo ritmo affannoso e l’affermazione armonica del tono di do maggiore la frenesia di movimento si placa: sulle parole «c’è una nicchia» Masetto accenna una melodia rotonda. 35 Tocca poi a Zerlina riprendere la recitazione affannata. Si omette la melodia «rotonda» di Masetto e si passa subito a un attivo sfruttamento della oscura frase ascendente, palleggiata quasi a canone dai bassi ai violini (insieme con la voce) e ai legni. Subentra qui, in sol maggiore, la sezione B della minuscola e assai libera forma ternaria che questo pezzo costituisce. Suo soggetto è l’ostinazione di Masetto. Quell’ostinazione cocciuta e contadinesca che abbiamo già ben conosciuto nella sua aria «Ho capito, signor sì». Questa volta l’ostinazione di Masetto è racchiusa nella ripetizione scampanante d’un intervallo discendente di terza, Zerlina lo ripete anche lei, quasi per constatare, prendere atto della cocciutaggine di Masetto. Vi è il gioco dell’intervallo ostinato di terza: una volta Masetto, una volta Zerlina, un’altra volta Masetto, un’altra volta Zerlina, e infine ancora una volta Masetto, la cui testardaggine è giusto che abbia l’ultima parola; poi si ritorna a un liberissimo «da capo», in do maggiore, della frase di concitazione e di affanno. Liberissimo, perché qui le due voci, invece di dire l’intera frase musicale a turno, si intersecano di continuo in piccolissimi frammenti sbocconcellati e sottovoce. Scena diciassettesima: Vi sono Zerlina, Don Giovanni, Servitori, Contadini e Contadine. La fanfara del piacere introduce la scena e Don Giovanni sveglia i contadini e i servi ripetono, tutti devono andare nella stanza del ballo. Tutti tranne Zerlina e Don Giovanni escono. Mila: Senza che la musica subisca alcuna interruzione si apre una nuova scena, perché arriva un nuovo personaggio, Don Giovanni con servi. Masetto si nasconde precipitosamente nella sua nicchia. Don Giovanni non fa che cadenzare rumorosamente in do maggiore, rimbalzando la dominante a tonica in una specie di fanfara dell’allegria. Tutta l’orchestra rimbomba di timpani e trombe, come in una serenata: frullano i trilli dei violini, squillano i fiati in gran numero. Nessun contenuto melodico, ma solo ritmico e armonico. Gli strumenti sbattono continuamente il solito ritmo anapestico di invito festivo a stare allegri. È il panorama un po’ squallido dell’allegria dei gaudenti: basta tanto poco a stordirli e metterli di buon umore. Scena diciottesima: Vi sono Zerlina, Don Giovanni e Masetto nascosto. Il tempo cambia, siamo in andante, cambiano gli strumenti che diventano Archi, 2 Flauti, 2 Clarinetti in Do, 2 Fagotti, 2 Corni in Fa. Don Giovanni riprende il suo corteggiamento con la ragazza. La musica cambia e diventa un duetto garbato e attraente, qui Don Giovanni però deve concludere. La musica si è trasformata, Zerlina vuole lasciare la stanza ma viene trattenuta da Don Giovanni che ancora una volta incalza il suo voler concludere. Don Giovanni vuole andare nel loco dove è nascosto Masetto. Qui Zerlina dice:” (Ah, s'ei vede il sposo mio, / so ben io quel che può far.)”, qui però vi sono due versioni del libretto dove quel “s’ei” che significa che Masetto prevarrebbe su Don Giovanni passa alcune volte ad essere “S’il vede” che significa prettamente l’opposto. Se nel testo Zerlina rifiuta l’avance di Don Giovanni nella musica vi è un canto estremamente dolce, non ci sono contrasti tra i due, tanto che cantano la stessa melodia, una musica garbata, che segue il duetto del casino, anche se lì Zerlina era come incantata da Don Giovanni. Si presenta ancora il tema dell’ambiguità dove il testo rifiuta le avance di Don Giovanni mentre la musica lascia spazio. Ella rifiuta Don Giovanni lì per via del fatto che Manetto è nascosto. Don Giovanni apre la nicchia dove era nascosto Manetto (da due personaggi a tre), lo vede, e dice, messo alle strette: “La bella tua Zerlina / non può, la poverina, / più star senza di te.” ovvero una scusa inventata che viene riferita però dalla musica che qui compie cinque battute con due note ripetute sempre in un accompagnamento banale. Il tutto è dovuto al fatto che Don Giovanni sta dicendo la prima cosa che ha in mente. Vi segue poi il terzetto dove tutti vanno al ballo. Ciò avviene con un cambio di tempo che diventa Allegretto con Archi, 2 clarinetti in Do e 2 corni in Fa. Mila: Anche qui non v’è interruzione musicale: sull’ultima nota dei servi, in lontananza, si apre il nuovo episodio, un Andante, in fa maggiore. La nuova tonalità, e il ritmo dispari (3/4, mentre la scena precedente era in 4/4) cambiano interamente il panorama. Allontanati gli importuni (Masetto è nascosto), Don Giovanni e Zerlina restano soli. Comincia la seduzione. Su un tranquillo pedale dei violini secondi e viole fiorisce una melodia incantevole dei violi-ni primi: la melodia, quasi interamente assente nelle due scene precedenti, è naturale protagonista della scena di seduzione. Prima prevalentemente in orchestra, e le voci la parafrasano ma poi la melodia passa nelle voci con l’implorazione di Zerlina: «Ah lasciatemi andar via», sul ricostituito pedale degli archi. Qui la povera Zerlina ci fa veramente pena. Vorrebbe davvero sottrarsi alla fascinazione malefica del seduttore e d’altra parte è come consapevole della propria debolezza, sa benissimo che cadrà, se qualcuno non la salva. Don Giovanni le fa eco, e ripete la sua stessa frase melodica con la medesima forma semicircolare, la medesima dolcissima cadenza semitonale alla fine. La tenerezza è uguale, ma in bocca a Don Giovanni ha tutt’altro senso: Zerlina implora, e anche Don Giovanni, a modo suo, implora. Il dolcissimo episodio si anima in un intreccio fitto delle due voci: mai un duettino amoroso ha impiegato, e nello stesso tempo dissimulato, tanta sapienza di contrappunto come queste otto battute. Con una modulazione in re minore, una figura di quattro note, insistentemente ripetuta nei bassi, porta alla scoperta di Masetto celato nella nicchia. La figura dei bassi è quasi l’immagine fisica, ma in suoni, di Masetto minacciosamente appiattato. Don Giovanni perde per un attimo le staffe, ma subito si riprende e sa stare al gioco con disinvoltura. La 36 figura strisciante dei bassi dura tanto quanto dura il suo disappunto, prova evidente che quella figura è Masetto: la minaccia di Masetto. Come Don Giovanni riprende il controllo della situazione, la melodia di Don Giovanni si spiega di nuovo sicura, sfrontata e baldanzosa come una fanfara: «La bella tua Zerlina Non può, la poverina, Più star senza di te». Masetto le fa eco, ironico, l’orchestra tace un attimo e da lontano si ode la contradanza che l’orchestrina comincia a suonare all’interno del villino, primo anticipo del grandioso intreccio stereofonico di tre orchestre dislocate, in cui si svilupperà questo finale. Don Giovanni trascina via i due contadini, dentro il fatale villino dov’egli spera di poter tendere a Zerlina l’agguato decisivo. Scena diciannovesima: Sta calando la notte. Vi sono in strada Donna Anna, Don Ottavio e Donna Elvira, questi sono in maschera a cui seguono su una finestra Don Giovanni e Leporello. Entrano i mascherati, loro vanno alla festa senza invito ma sono eleganti, si trovano lì per cercare prove conto Don Giovanni. Musicalmente vi è un tema notturno che si contrappone alla luminosità delle fanfare del piacere. La musica è in Re minore. Mila definisce che qui vi è il camminar in punta di piedi come un camminar nascosto di un ladro. Donna Anna è il soprano più acuto. Don Giovanni e Leporello aprono la finestra, appena si apre si sente in Minuetto con Archi, senza violoncello, 2 Oboi e 2 Corni in Fa. Questa è una danza diegetica, sentita dai personaggi, Si crea scenograficamente la contrapposizione tra i suoni e i personaggi del piacere (Leporello e Don Giovanni) e il terzetto delle maschere. Mila mette in relazione il terzetto delle maschere come costumati che vanno per la prima volta in un luogo di perdizione. Leporello e Don Giovanni vedono le maschere in strada e Don Giovanni manda Leporello ad invitare le persone alla festa. Il terzetto dice che sono dal volto e dalla voce egli (Don Giovanni) è il traditor. Leporello mentre chiude la finestra e quindi interrompe che gli invitati esterni sentano il Minuetto che elle sono già pronte per lista. Il motivo si calma, passa ad un adagio più semplice ma con più strumenti. I tre fanno un breve terzetto: “Protegga (Vendichi) il giusto cielo” che suona e risulta come un richiamo al sovrannaturale, infatti, Mozart usa una musica religiosa che richiamerà al Requiem. Il sovrannaturale è l’unica cosa che può garantire la giustizia a loro e far espiare le colpe a Don Giovanni. Scena ventesima: Siamo in una sala illuminata per una grande festa da ballo. Vi sono Don Giovanni, Leporello, Zerlina, Masetto, i Servi, i suonatori, i contadini/e. Tempo diventa allegro con Don Giovanni che fa sedere le ragazze e Leporello i ragazzi dopo aver finito un ballo. Ritorna la velocità e la frenesia. Don Giovanni e Zerlina insieme a Leporello hanno capito che Masetto è un bomba ad orologeria. Mila : Spariscono Don Giovanni, Masetto e Zerlina, inghiottiti dalla porticina del casino di campagna senza interruzione musicale tre scivolate di quattro note discendenti dei violini stabiliscono il tono di re minore: il tono del Commendatore, il tono dell’ouverture, il tono tragico di Don Giovanni. Appaiono sulla scena tre maschere, in abiti di seta nera. La partitura d’orchestra non reca la prescrizione scenica indicata invece sullo spartito: «Si va facendo notte». Siamo al crepuscolo avanzato, quando le cose cambiano aspetto, e i fantasmi prendono corpo. I tre avanzano come in punta di piedi, e in punta di piedi è la musica, col carattere puntiglioso e cauto sia del canto. È questo un «topos», un luogo classico della musica mozartiana, anche puramente strumentale: Sinfonie, Quartetti e Concerti presentano frequentissimi casi di «musica in punta di piedi». È uno stato d’animo di inquietudine tragica, di cautela peritosa, di sospetto e di allarme, tipico di chi muove verso un pericolo ignoto. Come scrive l’Abert, «sotto le maschere sta in agguato la febbrile inquietudine prima dell’azione decisiva». Per il Jouve, questo terzetto funereo, in maschera e seta nera, è la «materializzazione dell’angoscia». Il lavoro dell’orchestra, in semicrome, è «ostinato e temibile. Donna Elvira guida, come quella che più di tutti è certa dell’identità e delle colpe di Don Giovanni, e replica la sua frase melodica, con minime variazioni. Donna Anna, invece, va per conto suo, insistendo su un ampio balzo di ottava e modulando poi momentaneamente dal tragico re minore all’inquieto sol minore. Stranamente, è lei, questa volta, a temere, ad avere femminilmente paura, a tremare «pel caro sposo» e per se stessa. La decisione, in questo frangente, è tutta della femminile Donna Elvira; la cavalleresca e fiera Donna Anna ha paura, è piena d’affanno e irresoluta. Le tre frasi inquiete di Elvira, Ottavio e Anna esauriscono la prima delle tre parti musicali di cui è costituita questa scena. La seconda ha inizio con l’apertura d’una finestra del villino. Ne esce un raggio di luce un brandello di musica. Fuori il freddo e il buio della notte, l’inquietudine, l’affanno. Dentro, luce, musica, il tepore confortevole della festa. Lo spiraglio della luce interna sciabola la notte, così come il minuetto ne occupa gradevolmente il silenzio pieno d’incertezza. Mila descrive la scena così “si pensi alle pesanti portiere nel cui mistero amano serrarsi anche i più volgari nightclubs, e al fascio di luce rossa che se ne sprigiona in modo suggestivo quando qualcuno le socchiude: il timore di Anna, Elvira e Ottavio è lo stesso disagio della persona costumata e dabbene che per la prima volta s’attenti a metter piede in uno di quei locali di supposta perdizione”. Si sente il minuetto già partito e Leporello che indica a Don Giovanni le tre maschere, egli le invita alla festa. Il terzetto mascherato adotta tal quale la melodia cerimoniosa del minuetto per sussurrare: «Al volto ed alla voce Si scopre il traditor». Poi l’invito di Leporello, che debutta con un volgare: «Zi, zi!», come se chiamasse un cane, ma poi assume anche lui un piglio aulico per porgere l’invito, dopo che Don Ottavio, eterno indeciso, si è fatto sollecitare dalle donne e finalmente ha risposto. Sempre in tono cavalleresco 37 violini e bassi. C’è da osservare un particolare, rilevato da Edward Dent: la parte degli oboi, nell’orchestra grande, non solo è armonicamente bivalente, ossia emette armonie che valgono tanto per il minuetto dell’orchestra grande quanto per la contraddanza dell’orchestrina. Con tratto di singolare realismo, che sottolinea la geniale intuizione di «teatro totale» di cui dànno prova Mozart e Da Ponte in questo elaborato finale, ognuna delle due orchestrine sul palcoscenico, prima di dare inizio alla sua danza accorda gli strumenti con quinte vuote dei violini. Tutto ciò mentre procede imperturbabile l’esecuzione del minuetto. In breve, si viene ad avere un esteso episodio di poliritmia: dapprima due orchestre procedono contemporaneamente l’una in tempo di 3/4 e l’altra di 2/4; poi a queste, che continuano, se ne aggiunge una terza, in tempo di 3/8. Questa sovrapposizione di ritmi crea ancora adesso notevoli difficoltà esecutive. Ognuna delle tre danze ha un suo carattere: nobile e contegnoso il minuetto, popolare e gioviale la contraddanza di Don Giovanni e Zerlina, e rusticamente saltata, quasi un ballo di caproni, la «Teitsch» in cui Leporello trascina Masetto, riluttante e sospettoso. Il risultato espressivo deriva proprio dalla loro sovrapposizione. il fatto stesso della difficoltà d’esecuzione (e anche di ascolto) porta a un punto intollerabile la tensione drammatica che era stata introdotta dal terzetto delle maschere, con la cauta e inquieta scansione di «Bisogna aver coraggio, O cari amici miei». Nel lento passo del minuetto, nella sua difficile convivenza con le altre due danze, che solo qua e là riescono a svettare momentaneamente, si elabora un clima di attesa angosciosa, come nell’imminenza di un fattaccio che deve succedere: l’accumulo degli strati musicali forma quasi una specie di pila psicologica, dove l’affanno viene sempre più compresso. Donna Elvira, con la curiosità della donna gelosa, non ha occhi che per la nuova conquista di Don Giovanni, e l’addita a Donna Anna: «Quella è la contadina». Donna Anna è la più sgomenta di trovarsi in quel luogo dove tutto le fa orrore: la presenza del suo attentatore e assassino di suo padre, e forse anche, per i suoi gusti di aristocratica, il carattere equivoco e plebeo di quel festino. «Io moro» essa sussurra a Ottavio, che le ordina: «Simulate!». Intanto Leporello cerca di tirar via Masetto. Di questo arabesco Don Giovanni si serve ancora per trascinare nella danza Zerlina, con un elegante slancio di galanteria: «Il tuo compagno sono». Masetto recalcitra e si divincola da Leporello mentre la terza orchestrina, finito di armeggiare per l’accordatura, attacca la danza rustica. Donna Anna smania con un sospiro melodico più lungo e disperato («Resister non poss’io»), e subito Ottavio ed Elvira, a due voci, le fanno cuore («Fingete, per pietà»), appoggiandosi sul basso eseguito da Masetto. La poliritmia si estende per un momento anche alle voci, e mentre l’orchestra principale continua l’implacabile 3/4 del minuetto, Don Giovanni fuori scena incalza in 2/4 Zerlina che caccia un urlo terribile. Masetto, sentendo ciò, si libera con uno strattone da Leporello, esclamando: «Lasciami! Ah no! Zerlina!». La tensione accumulata giunge qui al parossismo. Vi è la contraddizione tra l’apparenza festosa dei ritmi della danza e la minaccia tragica. Par d’essere nell’imminenza di un temporale, quando l’atmosfera si carica d’elettricità. Leporello quasi annusa l’aria dicendo, nel suo ritmo di 3/8: «Qui nasce una ruina!», ed esce preoccupato per andare dietro la scena a vedere che succede. Int anto, dietro la scena, Zerlina chiede soccorso: «Gente, aiuto!». Nelle tre orchestre si spezzano i ritmi di danza, la poliritmia sparisce e nella grande orchestra, compatta, risuona come uno schianto l’accordo di settima di dominante del nuovo tono mi bemolle maggiore. Siamo alla terza sezione. La mobilità incessante delle modulazioni è il carattere saliente di questo breve pezzo dove lo scompiglio giunge al massimo e produce il vero e proprio climax del finale. Le grida di Zerlina, che invoca soccorso dietro la scena, si spostano di qua e di là, e dietro alla sua voce il gruppo degli altri personaggi ondeggia a sua volta sulla scena. Le orchestrine se ne vanno. La mobilità delle modulazioni è il principale mezzo d’espressione drammatica di questo Allegro assai, che vede l’orchestra e le voci impegnate in avventanti scalette, ascendenti e discendenti, come raffiche, per dipingere la agitazione dei personaggi in scena; mentre il doppio grido esterno di Zerlina («Scellerato!») poggia su agitati sincopati degli archi. Passiamo alla quarta sezione. Don Giovanni rientra in scena, trascinando per un braccio Leporello, che accusa di avere offeso Zerlina, e finge di non riuscire a sguainare la spada per dargli punizione. Sopra una scattante figura orchestrale, ascendente all’unisono, tre volte ripetuta, il canto di Don Giovanni discende maestoso, in note puntate, con stile d’opera seria. Ma è venato d’un sottile umorismo caricaturale, che denuncia la menzogna. Non viene mai rilevato il realismo quasi patetico, e per una volta pieno di compassione, delle tre implorazioni di Leporello: «Ah cosa fate!». Don Giovanni finge, ma Leporello no. Non è che si siano messi d’accordo prima per recitare la commedia. Don Giovanni, trovandosi a mal partito, ha abbrancato il malcapitato servitore come la prima àncora di salvezza che gli capitasse sottomano. E Leporello non sa affatto fino a qual punto il suo dannato padrone abbia intenzione di spingere la finzione: quello è capacissimo di mozzargli un orecchio con la spada, per dare maggior credito al suo stratagemma, ciò si evince nella ripetizione dei tre «Ah cosa fate!». Dall’incomoda situazione lo salva Don Ottavio, che con la pistola spianata fa arretrare Don Giovanni e cavandosi la maschera smaschera a sua volta la finzione di Don Giovanni. Il meccanismo del contrappunto a tre voci serve egregiamente a sottolineare la simmetria delle azioni successive: dopo Don Ottavio, Donna Elvira, e in fine Donna Anna si tolgono a loro volta la maschera, e a ognuna tocca un’entrata della frase discendente introdotta da Don Ottavio. Poi le tre voci si uniscono tosto in accordi ritmati sul secondo verso: «di nasconder l’empietà». Da questo 40 momento, Don Giovanni è alle corde. Inizia la fase del suo maggiore sbigottimento. Uno per uno riconosce gli avversari smascherati: «Donna Elvira?», «Don Ottavio?», ricevendone in cambio degli ironici: «Sì malvagio!» e «Sì, signore!». Solo di Donna Anna par che Don Giovanni non osi nemmeno pronunziare il nome, e balbetta una scusa: «Ah credete!». Al che Donna Anna gli scaglia in faccia un «Traditore!», tosto ripreso da Zerlina, Elvira, Ottavio e Masetto. Durante lo smascheramento di Don Giovanni e i successivi insulti che lo colpiscono come schia ffi, violoncelli e bassi echeggino la precedente frase della paura di Leporello («Ah cosa fate!»). Ancora una volta servo e padrone sono uguali. Uguali nella paura. Uno è il doppio dell’altro: il positivo e il negativo d’una stessa immagine, il dritto e il rovescio. Tocca ora a Zerlina, la più recente vittima di Don Giovanni, di mettere in marcia quello che il Jouve chiama il coro dell’accusa. La sua vocina aguzza sembra spiccare un balzo quando attacca, cristallina e pungente: «Tutto tutto già si sa». Le fa eco Masetto. Quando si ribadisce “Tutto” i violini convergono spremendo la parola, per estrarre il senso inserendo tra l’uno e l’altro «Tutto!» tre puntigliose quartine di biscrome. Siamo alla chiusa, alla fine del finale. Tutta l’orchestra è schierata, comprese trombe e timpani. Questo finale è un concertato tradizionale d’opera buffa, che nella sua velocissima scansione vede le voci dei vendicatori compatte come un muro che si avanzi contro Don Giovanni. È la «valanga» dei suoi cacciatori che ormai pienamente formata gli piomba addosso inesorabile. Insieme alla voce di Don Giovanni sta quella di Leporello: ancora una volta padrone e servitore sono uniti nella mala sorte. Quello che Don Giovanni dice in prima persona Leporello lo dice in terza persona. Le intimazioni dei vendicatori («Trema, trema, o scellerato», «Odi il tuon della vendetta») dànno luogo a scalette vertiginose e a una minacciosa progressione rampante, quasi onomatopeica, sulle parole: «che ti fischia intorno intorno». Il rintocco dei timpani materializza ogni tanto l’idea del tuono, il moto impazzito delle linee vocali e strumentali quello della tempesta. Ancora più vertiginose, ma in pretto stile d’opera buffa, le scale ascendenti dei due colpevoli, su: «È confusa la mia testa, Non so più quel ch’io mi faccia». Un’idea musicale nuova appare quand’egli comincia, con intervalli baldanzosamente ascendenti nell’accordo perfetto di do maggiore: «Ma non manca in me coraggio, Non mi perdo né confondo». Per un momento la voce di Leporello si stacca dalla sua e le risponde in una rapida e uniforme sillabazione: «Ma non manca in lui coraggio, Non si perde né confonde». Leporello non è capace di seguire il padrone nei baldanzosi intervalli ascendenti della sua riscossa, e gli fa eco quasi parlando, come se lo guardasse stupito e ammirato dall’esterno. Infine, sul «più stretto», una «coda» rumorosa associa tutte le voci e l’orchestra nelle ripetute cadenze di do maggiore. In questa chiusa Mozart si sia piegato, o piuttosto abbia consentito gioiosamente alle consuetudini tradizionali dell’opera buffa. Qui si tratta solo d’una minaccia di castigo terrestre, a cui egli riesce a sottrarsi, non si sa bene come. Dent dice chiaro e tondo che si tratta di «un lungo pezzo nella consueta maniera dei finali», un «finale d’opera buffa assolutamente convenzionale». Atto secondo : Scena prima: Siamo in strada a lato della casa di Donna Elvira e vi sono Don Giovanni e Leporello. Nel secondo atto si sente di più la sfera comica, il librettista prende il sopravvento sul compositore. Da Ponte vuole riprendere il discorso umoristico ciò porta a un certo scontro verso quei Don Giovanni precedentemente messi in musica, vi si aggiungono anche numerose scene rispetto alla tradizione. Per Mila queste scene sono solo un pretesto per una buona musica che però appesantisce il dramma smorzando nell’azione. Ci sono però delle scelte drammaturgiche che rendono utili le scene: si delineano con maggior profondità; il personaggio di Donna Elvira che appare con tratti diversi del primo atto, si delinea la simbiosi tra Don Giovanni e Leporello, realizzata in Sellers con due gemelli afroamericani, si delinea inoltre l' impotenza di Don Ottavio. Questa scena serve a smorzare il culmine emotivo del finale del primo atto. Serve staticità per creare picchi che in questo atto hanno la stessa posizione dell’atto precedente, il sestetto è posto a metà dell'atto come lo era il quartetto del primo atto e lo stesso vale per i due finali d’atto. [ N.15 – Duetto Allegro assai con Archi, 2 Oboi, 2 Corni in Sol] In scena abbiamo Don Giovanni e Leporello. La musica d'azione riprende con il declamato e il ribattuto e con alcuni scioglilingua l'idea dell'opera buffa caratterizzata anche in questo caso con una gestualità estrema. Leporello è seccato per il comportamento di Don Giovanni che nel finale del primo atto lo ha quasi ucciso o meglio lo ha minacciato di ucciderlo. Da Ponte è bravo a rispettare l'unità aristotelica della durata della storia, tutto dura un giorno. Siamo sul viale della casa di Donna Elvira con Don Giovanni che punta la cameriera di Donna Elvira che diventa in questo caso la nuova Zerlina. Leporello vuole licenziarsi da Don Giovanni, il duettino è debole anche per i contenuti, vi è musica di azione tutto è rapido e Leporello ripete numerose volte “sì” quasi a voler scacciare il Don, in questo caso anche Leporello appare un po' sfuggente. Segue il recitativo secco dove Don Giovanni e Leporello fanno pace e dove il primo dà dei soldi al secondo. Leporello propone Don Giovanni di lasciar perdere le donne ma Don Giovanni risponde con “sai ch’elle per me / sono necessarie più del pan che mangio, / più dell'aria che spiro!”. Poi successivamente Don Giovanni riprende con la sua massima: “è tutto amore / chi ha una sola e fedele / verso altro crudele […] le donne, poi che calcolar non sanno / il mio buon natural 41 chiamano inganno” delineando così per Don Giovanni il suo credo terreno e Leporello non deve mettere in discussione ciò che dice Don Giovanni perché questo è inutile. I due si scambiano i vestiti per permettere a Don Giovanni di corteggiare la cameriera di Donna Elvira e inoltre per far si che quando il terzetto delle maschere riconosco i vestiti di Don Giovanni tutto sia riconducibile a Leporello. Mila: La distribuzione delle scene del second’atto è un po’ diversa da un libretto all’altro, e così le indicazioni sceniche. Sia ben chiaro che tutto il grandioso finale del primo atto, col festino nella villa di Don Giovanni, è invenzione di Da Ponte e Mozart. In Bertati e Gazzaniga, dal finale del primo atto si passava direttamente al Cimitero. Da Ponte deve partire dal Atto secondo in ex novo. Dice l’Einstein: «Sbrigò tale compito ricorrendo a una serie di volgarità, di indugi e differimenti: la seconda seduzione di Elvira, col cambio di costume sotto il balcone, la punizione di Masetto, lo smascheramento di Leporello». Da Ponte ricorse a uno dei più vecchi trucchi della commedia dell’arte: il travestimento. Ciò alimenta l’identità segreta e vergognosa di padrone e servitore, di Don Giovanni e Leporello, dei quali l’uno è soltanto il «doppio» spregevole, o, come dice il Jouve, il «sottoprodotto escremenziale» dell’altro. Il secondo atto sembra quasi ricalcare, sulle prime, le vie del primo. Là c’era un recitativo tra Don Giovanni e Leporello, qui c’è un duetto, tenue e derisorio. Qui di nuovo vediamo questi tre personaggi (Donna Elvira, Don Giovanni e Leporello) impegnati in una situazione analoga al primo atto, che conduce anch’essa a un supremo, vilissimo oltraggio ai sentimenti di Elvira. Leporello è sempre, lungo tutta l’opera, l’intermediario tra Don Giovanni e Donna Elvira: qui viene spinto dal suo padrone a sostituirlo, con una funzione vicaria che porta Leporello a corteggiare, quasi possedere la povera Elvira, sotto le mentite spoglie del suo padrone. Ma restiamo per ora al duetto iniziale, che apre un ulteriore spiraglio sui rapporti di solidarietà canagliesca che legano servo e padrone. È un duetto buffonesco, dove un personaggio ripete continuamente le frasi musicali dell’altro, a scopo di sberleffo e di reciproca canzonatura. Leporello si lagna dell’abuso con cui il padrone gli ha rovesciato addosso la colpa dell’attentato a Zerlina, minacciandogli per questo l’estremo castigo, e Don Giovanni allegramente gli spiega che «fu per burlar». Le frasi hanno scarso contenuto melodico: tutta la scena si svolge sotto il segno della leggerezza spensierata. Dice il Dent: «Comprendiamo subito che padrone e servitore hanno già tante volte eseguito il piccolo duetto, che ormai non è più che una farsa». Lo stile musicale è di opera buffa, e segna una distensione rispetto all’intensità drammatica del finale precedente. Come un nuovo inizio. Nel Don Giovanni abbiamo nel primo atto una trama, che è l’individuazione e lo smascheramento di Don Giovanni, con quell’accumulazione «a valanga» dei suoi cacciatori, che culmina nel finale primo. L’azione del secondo atto sarà, non più la caccia a Don Giovanni, ma il castigo di Don Giovanni, castigo celeste, perché le sue colpe vanno ora ben oltre la sua notoria incontinenza sessuale, bensì si colorano di sacrilegio, di scherno e di satanica malignità. Non è più il libertinaggio volgare la colpa di Don Giovanni, non più un crimine della carne, bensì il libertinaggio ideologico, ossia un crimine dello spirito. Al duetto buffo e ridanciano di Don Giovanni e Leporello segue un recitativo secco, ravvivato da alcune battute di Da Ponte assai spiritose circa l’insaziabilità di Don Giovanni in fatto di donne. Mozart sa sottolineare con le cadenze del recitativo «l’incisività quasi insolente» delle battute. Don Giovanni manifesta e mette in atto il suo progetto di scambiare gli abiti con Leporello, allo scopo di corteggiare la cameriera di Donna Elvira. Scena seconda: Donna Elvira si affaccia balcone, siamo di notte [N.16 – Terzetto Andatino con Archi, 2 Flauti, 2 Clarinetti in La, 2 Fagotti, 2 Corni in La] Donna Elvira esprime il suo dolore subito per colpa di Don Giovanni definendolo un empio traditore ma finisce il suo discorso con “è colpa aver pietà” ciò aggiunge uno spettro di colore a Donna Elvira che piano piano sostituisce la rabbia alla pietà e lei sente questo cambiamento. Questa è la differenza con Donna Anna. Donna Anna esprime come unico sentimento verso Don Giovanni una rabbia aggressiva al contrario Donna Elvira si vendica quasi per amore, ciò la rende un personaggio più cedevole e nel terzetto si denota. Ella prova pietà per un personaggio che non merita pietà. Leporello e Don Giovanni riconoscono la voce di Donna Elvira e qui come nel primo atto guardano da lontano Elvira. Don Giovanni tira fuori il suo sadismo, invece di andarsene si fa beffa di Donna Elvira e si mette dietro Leporello dicendo: “Elvira, idolo mio!” Don Giovanni si burla di Donna Elvira. Egli vuole far finta di chiedere perdono e Donna Elvira sentendolo sobbalza. Leporello dà della pazza a Donna Elvira se cascherà nella trappola di Don Giovanni che dice successivamente: “Discendi, o gioia bella! / Vedrai che tu sei quella / chi adora l'alma mia; / pentito io sono già.”. Leporello capisce che è tutta una burla e Don Giovanni si fa credere da Donna Elvira. I tre insieme decidono di dar sfogo al loro pensiero, vi lascia però un risentimento Donna Elvira dicendo: “proteggete voi / la mia credulità”. Vi è in questa situazione drammatica un risalto ad una scelta formale che deriva dalla forma Sonata, si può leggere questo frammento in: A-A’-B-A’’. la Sezione A che va da “Ah, taci, ingiusto core” fino a “Tu fermati un po’ là” viene divisa in due temi: il primo sono le quattro battute di Donna Elvira, il secondo le quattro battute dette da Leporello e poi Don Giovanni. Nel primo tema vi è la dimostrazione della conversione del sentimento che Donna Elvira ha nei confronti di Don Giovanni, scompare l’isteria precedente e vi compare un tema più morbido e dolce con abbellimenti e decorativi, non vi è rapidità come le arie precedenti. Donna 42 meno duraturo (infatti per le note lunghe le corde vanno pizzicate ripetutamente). Quanto alla struttura della canzonetta, è la semplicità stessa: una strofetta di due membri di frase, ripetuta integralmente. Il primo membro di frase modula verso la dominante (la), il secondo membro di frase si orienta per un momento verso la sfera oscura della sottodominante (sol). Il ritmo di 6/8 non può ingannare nessuno: non è il 6/8 circolare e avvolgente dei duetti di felicità, della mozartiana corsa al piacere, del regresso irresistibile all’innocenza del paradiso terrestre e dell’età dell’oro. Questo 6/8 intonato da Don Giovanni sul suono secco di un mandolino ne è, se mai, la caricatura. Invito al piacere e alla felicità. Scena quarta: Don Giovanni, Masetto e Contadini armati in scena, siamo subito dopo la canzonetta e arriva un recitativo secco con Don Giovanni sotto la finestra della cameriera di Elvira, arriva Masetto con i contadini per cercare Don Giovanni, per via dell’accaduto durante la festa. Entrano in scena e Don Giovanni li sente, Masetto è pronto con la pistola perché sente muovere Don Giovanni il quale a sua volta è vestito come Leporello. Don Giovanni è abile a spacciarsi per il servo e si unisce all’esercito di Masetto per vendicarsi del padrone despota. [ N.18 – Aria Andante con moto con Archi, 2 Flauti, 2 Oboi, 2 Fagotti e 2 Corni in Fa] Parte l'aria di Don Giovanni, la terza, anche se si cerca di cogliere la personalità di Don Giovanni egli qui ri-fugge poiché si spaccia per qualcun altro inoltre la pensa in tutt'altro modo. Don Giovanni sembra subito comandare dando ordini all’esercito contadino di Masetto inoltre dà un perfetto identikit di se stesso anche se questo in realtà nello stato delle cose è Leporello vestito. Dice a Masetto di rimanere in disparte. L'aria ha un carattere dialogico, non c'è isolamento nell’aria. Molto spesso i personaggi si aprono con altri personaggi, lo stile dell’aria è uno stile buffo, domina quindi il declamato la gestualità e lo scioglilingua inoltre vi sono segni che la musica sia una segnaletica di Don Giovanni. Lo caratterizza il tono marziale con il jambo: una nota breve seguita da una lunga. Don Giovanni assume un atteggiamento di comando. Il senso di movimento è molto accentuato, questo però non è interiore ma prettamente esteriore poiché coordina il movimento concreto. Nel finale si rivolge a Masetto dicendo “noi far dobbiam il resto; e già vedrai cos'è”. la musica ci dà l' allusione che Masetto sarà picchiato da parte di Don Giovanni. Mila: Don Giovanni sul viale del tramonto. Nonostante i modi disinvolti e la sicurezza di sé, nonostante il frequente empito melodico di quella quarta ascendente in cui si gonfia il suo gallismo, in realtà, non gliene va bene una. Donna Anna lo respinge e perseguita, e ora, così come Zerlina gli era stata strappata di mano dall’intervento consociato degli altri personaggi, anche la cameriera invisibile di Donna Elvira gli sfugge, per l’arrivo di Masetto alla testa d’un branco di contadini, che cercano Don Giovanni «per trucidarlo». Vedendoli numerosi e armati di fucili e bastoni, Don Giovanni gioca d’astuzia, e approfittando del proprio travestimento con gli abiti di Leporello cerca di gettare gli altri contadini sulla pista del proprio servitore, travestito da cavaliere, mettendolo quindi ancora una volta nei guai; presso di sé vuol trattenere il solo Masetto, per somministrargli poi una buona lezione. Si noti come in tutta l’opera è quasi un leit-motiv la tecnica di Don Giovanni di fare il vuoto intorno a sé: egli è sempre occupato ad allontanare qualcuno, ora Masetto per restare solo con Zerlina, ora Donna Elvira per restar solo con la sua cameriera, ora i contadini per restar solo con Masetto. Va da sé che nel corso di questo recitativo si assiste al rovescio del lazzo buffonesco cui avevamo già assistito nel precedente recitativo di Leporello con Donna Elvira: cioè la contra ffazione della voce, vecchio gioco tipico da commedia dell’arte. Là era Leporello che gonfiava la voce per scimmiottare Don Giovanni; qui Don Giovanni cerca di parlare in modo volgare come Leporello. Sono effetti di bassa lega, ma di comicità sicura, nei quali si fa valere il maggiore o minore istrionismo dei singoli attori. Don Giovanni si serve di un’aria, che viene talvolta definita come aria «dei comandi militari», e che è anch’essa, come quella del catalogo di Leporello, un bell’esempio di aria d’azione. L’aria è in forma tripartita, con una «coda», e la forma è quasi determinata dal contenuto delle parole e dell’azione: «Metà di voi qua vadano, gli altri vadan là…». Prima sezione dell’aria, in fa maggiore, seconda sezione, in do maggiore, ripresa della prima sezione, in fa maggiore, sono interamente dedicate agli ordini impartiti ai contadini, per allontanarli in due squadre; la «coda», piena di maligna sollecitudine e attenzione, è riservata a Masetto: «Tu sol verrai con me». Lo stile vocale è tipico di opera buffa, cioè v’è scarsissima melodia, poco più che note ribattute e intervalli dell’accordo perfetto mentre il principale lavoro tematico è riservato all’orchestra. Il tono dell’aria è marziale; l’accento del finto Leporello nell’impartire i comandi ai contadini non è quello d’un servo imbelle, bensì d’un cavaliere che ha esperienza di guerra e di comando, di disciplina militare. Nella quasi totale rinuncia alla melodia vocale, è chiaro che gli intenti di espressione caratterizzatrice sono affidati ad altri elementi musicali: il ritmo, molto sollecitato dai settenari sdruccioli e tronchi del testo, e il timbro. La sillabica declamazione di Don Giovanni scandisce dei giambi, ora più ora meno stretti (ora di semicroma e croma; ora di croma e semiminima), che sembrano quasi l’imitazione vocale di un ritmo di tamburo: ta-tà, ta- tà, ta-tà, ta-tà; ta-tà, ta-tà ta-tà. La sezione centrale dell’aria, in do maggiore, si scioglie dalla rigidità militaresca della prima parte, e trova atteggiamenti più mossi nella descrizione del finto Don Giovanni, che i contadini devono rintracciare e picchiare. La sezione centrale dell’aria parte su una doppia 45 scaletta dei fagotti, ascendente per terze, «staccato», in do maggiore. L’animazione che se ne comunica anche alla voce può far pensare per un momento all’effervescenza dell’aria «dello champagne», anche per analogia di situazioni verbali. La sezione centrale è abbastanza estesa e compie un’incursione tonale nella regione di sol maggiore. Il tono di do maggiore ritorna con le due ultime ripetizioni di «e spada al fianco egli ha». Più, ben inteso, la «coda», quella riservata a Masetto, dove la comicità maliziosa deriva dall’analogia col consueto formulario erotico delle arti seduttive di Don Giovanni. Quando ora Don Giovanni, travestito da Leporello, dice a Masetto: «noi far dobbiamoil resto, E già vedrai cos’è», con numerose ripetizioni di questo «cos’è», egli sembra quasi far eco a Leporello quando nell’aria del catalogo cantava alla sventurata Donna Elvira, ammiccando: «Voi sapete quel che fa».Il comico nasce naturalmente dal fatto che il sottinteso questa volta non è di natura erotica: il piacere che Don Giovanni già pregusta è quello di scaricare un fracco di legnate sulla schiena di Masetto. Scena quinta: Masetto con il recitativo successivo all’aria viene picchiato, la parte è molto comica poiché Masetto dà la pistola e il moschetto a Don Giovanni da qui vi è il totale disinteressamento successivo di Masetto. Mila: La vendetta di Don Giovanni avviene nel corso del recitativo seguente, durante il quale egli disarma l’ingenuo Masetto col pretesto di esaminare le sue armi, e poi lo batte duramente col rovescio della spada, lasciandolo sulla strada pesto e tramortito. Scena sesta: Masetto grida ed entra in scena Zerlina vedendo Masetto dolorante. Masetto dice a Zerlina che Leporello lo ha picchiato anche se qui Masetto dice “ho qualche diavol che assomiglia a lui” . Qui Zerlina si offre di curare Masetto, i due fanno un patto ovvero se Zerlina cura Masetto egli cesserà di essere geloso. [N.19 – Aria Grazioso con Archi, 2 Flauti, 2 Clarinetti in Do, 2 Fagotti, 2 Corni in Do] Arriva la secondaria di Zerlina chiamata altresì aria dello Speziale, Zerlina cura Masetto usando il rimedio dell' amore, infatti la malizia Zerlina è accentuata sempre più fino ad arrivare a far toccare a Masetto il cuore, altresì il seno, i due indubbiamente trovano una cura carnale e quindi la pace. L'aria non aggiunge molto di quello che si sapeva su Zerlina ovvero quell’essere una creatura naturale e maliziosa, la scrittura è quasi elementare “carino […]buonino” segue così anche la composizione, vi è un uso del 3/8 un elemento basilare e con la tonalità in Do maggiore. L'area è divisibile in tre sezioni :A-A’-B. la prima parte è fino “non lo sa far” e suona come una specie di cantilena, la seconda parte va da : “è un certo balsamo” fino a “dove mi sta?” proprio nel punto interrogativo Mozart colloca due note con corona. La terza parte è la fine dove si illude con la musica al battito cardiaco ma c'è un pretesto. L'aria si conclude con una lunga coda, un postludio che prende una fetta molto importante ciò è una sintesi di quello che abbiamo sentito nella sezione A e nella sezione B, il postludio sarà usato nell’opera seria. La scelta di ciò è l'immagine di Zerlina che prende quasi per mano Masetto. Mila: Arriva Zerlina con la lanterna poiché attirata dai lamenti di Masetto. La maldestra invenzione teatrale di Da Ponte si fa duramente sentire in questa fase dello spettacolo, con tutti questi artificiosi andirivieni di personaggi, ognuno dei quali va via a turno perché un altro possa entrare a cantare l’aria che gli spetta. In un dialogo recitativo Masetto racconta a Zerlina la sua disavventura e fa un buffonesco bilancio dei colpi ricevuti e dei dolori che lo affliggono. Zerlina lo consola amorosamente, pur rimproverandogli la sua gelosia, che l’ha portato in questi pasticci, e nell’aria che segue gli promette una sua cura segreta. Per questo l’aria in questione viene talvolta indicata come l’«aria dello speziale». È un’aria bipartita, dove la prima parte, di due frasi, viene interamente ripetuta, e contiene la promessa del «bel rimedio» che Zerlina tiene in serbo per Masetto. La seconda parte, più mossa, è tutta occupata dall’imitazione del battere del cuore, vecchio gioco tradizionale dell’opera comica italiana, con origini illustri nella Serva padrona. Ma, osserva l’Abert, Mozart sembra più interessato al doppio senso voluttuoso. L’aria è semplicissima, non si smuove praticamente mai dal tono di do maggiore, e ci mostra la solita Zerlina che già conosciamo: leziosetta, piena di moine musicali, eppure a modo suo primitiva, figlia della natura. I due aspetti contraddittori dell’essere di Zerlina sembrano quasi simboleggiati nelle due parti dell’aria: la prima è ditono popolaresco; la seconda parte è una derivazione colta di tradizionali luoghi comuni operistici. Certi spartiti recano la generica indicazione di Andante; altri quella più illuminante di Grazioso. Straordinaria finezza. La prima parte è «una calda promessa d’amore», come dice l’Abert, ma statica; la seconda parte costituisce già un piccolo anticipo, ed è pertanto più mossa e vivace. Scena settima: Siamo nell'atrio oscuro in casa di Donna Anna , si palesano Leporello e Donna Elvira e successivamente Don Ottavio e Donna Anna con i servi che hanno i lumi . Entrano con un recitato secco Leporello Donna Elvira dove addirittura Donna Elvira chiama “adorato sposo” Don Giovanni, ovvero Leporello vestito da lui, quest'ultimo deve liberarsi di Donna Elvira. [N.20 – Sestetto Andante con Archi, 2 Flauti, 2 Oboi, 2 Clarinetti in Si bem , 2 Corni in Si bem] Inizia così il sestetto che ricorda il finale d’atto per via di reminiscenze con il precedente con anche utilizzo dell'ingresso matrioska e il concertato. Mila lo considera inutile il sestetto, ovvero il concertato d'azione poiché produce un'azione molto scarsa cioè lo smascheramento di Leporello, però in questa scena vi è il fatto di azione interiore, ovvero la totale emozionalità con un mix ideale tra buffo e serio. La prima sezione vede Donna Elvira e Leporello che entrano in questa casa e tutti e due hanno la puzza sotto il naso, forse donne Elvira ha capito la farsa, 46 sospetta. Leporello con un abile gioco comico vuole uscire ma sbaglia porta si trova ancora in scena. questo contrasto tra buffo e serio viene anche inteso musicalmente con Leporello che riprende l'opera buffa guizzante e Elvira che canta su un'opera prettamente più seria. Entrano Donna Anna e Don Ottavio vestiti a lutto conservi che portano le fiaccole, si aggiungono qui in orchestra due trombe in Re e timpani in Re La. Si apre la seconda sezione con Ottavio che ha toni patetici per trovare il modo di calmare Donna Anna che dice chiaramente che ad ella non basta la vendetta ma esige la morte di Don Giovanni, la musica evidenzia tra i due il distacco, Mozart apre con una modulazione tra i due che da do maggiore passa a re maggiore, vi è molta distanza tra le due note, c'è uno scarto armonico e materiale che denota distanza, il tono diventa quasi solenne quando canta Donna Anna tanto che Mila ricorderà il flauto magico con la sua idea di ritualità solenne. I due cantano insieme su accompagnamento uguale ma vi è una netta differenza poiché Don Ottavio canta in Re maggiore e Donna Anna in Re minore, un'idea che ci dà proprio la caratteristica del senso opposto. Donna Elvira e Leporello si esprimono a parte. Tutti e due vogliono andarsene. la sezione terza è importante e parte con Donna Elvira e Leporello, questa parte è caratterizzata da un motivo affannoso e calante, appare così il sentimento di entrambi personaggi e si esprime perfettamente le emozioni che provano i due. Questa si sentirà spesso poi che fa collante nel sestetto. Mila (mette separate le scene, scena 7 è Leporello con Donna Elvira, mentre la 8 è con l’ingresso di Don Ottavio e Donna Anna, segue poi la 9 con Masetto e Zerlina): La distribuzione delle scene è a questo punto assai irregolare da un’edizione all’altra, seguiamo quella che durante il sestetto si articola con le due nuove scene (ottava e nona) nel corso del sestetto. Il quale sestetto, poi, si articola in due unità musicali ben distinte: l’Andante e l’Allegro molto. Può essere la scena stessa della morte del Commendatore, l’importante è che sia buio si inoltrano a tastoni Leporello («sempre fingendo Don Giovanni») e Donna Elvira. Il primo cerca ogni pretesto per piantare in asso la seconda, e con la scusa di certe luci che s’avvicinano, s’allontana. È perciò Donna Elvira che dà inizio al celebre sestetto cantando spaurita: «Sola sola, in buio loco». Il sestetto vuole riprendere le fila del discorso, dopo tre arie solistiche di fila. Da Ponte, secondo Dent ha unificato due atti, inizialmente l’opera doveva avere tre atti, in uno solo. La grandezza che comunemente si riconosce a questo sestetto consiste nella magistrale mescolanza di diverse espressioni e per fino diversi stili musicali, data l’eterogeneità dei personaggi. È un sestetto che raduna tutti i personaggi dell’opera meno Don Giovanni e il suo deuteragonista, che è il Commendatore. Don Giovanni è rappresentato da Leporello, attore che interpreta lo spirito buffo. Dice Abert «la sua caratteristica mescolanza di tragico e comico celebra qui uno dei suoi più splendidi trionfo. L’eccelso e il ridicolo, il sentimento più profondo e il più triviale, vanno continuamente affiancati». Siamo chiusi entro la ragnatela delle faticose invenzioni di Da Ponte per tirare in lungo l’azione oltre la linearità del libretto del Bertati. l’Abert afferma che la musica del sestetto si solleva sopra il tono teatrale e raggiunge la più pura altezza dell’arte. Donna Elvira dà inizio da sola al sestetto, con un canto smarrito e patetico, fittamente sostenuto e abbracciato dall’integrazione strumentale. Arriva Leporello a tentoni, invano in cerca della porta buona per svignarsela, e lo stile muta interamente. Siamo nell’opera buffa: Leporello quasi non canta, recita, ripetendo ritmicamente la stessa nota, mentre in orchestra fioriscono e formicolano piccoli trilli, controcanti, gruppetti ritmici di biscrome. (Scena 8 per Mila) Con una modulazione enarmonica di grande effetto si passa bruscamente in re maggiore e, mentre Leporello «sbaglia l’uscita», ecco che «Don Ottavio e Donna Anna entrano vestiti a lutto». Le trombe in re e i timpani sorreggono una maestosa melodia processionale: qualcosa di augusto e di sacrale. Nobile è il canto di consolazione che Don Ottavio rivolge a Donna Anna siamo così ricondotti alla consolazione che Don Ottavio da nei confronti di Donna Anna. il sestetto non ha ancora ingranato come pezzo d’insieme: quattro personaggi hanno cantato a turno, Elvira e Leporello senza neppure dialogare tra loro, Ottavio e Anna dando luogo a due battute di dialogo lunghissime e praticamente autonome. Solo dopo che Anna ha ultimato la sua frase il discorso comincia a stringersi. È di nuovo Donna Elvira che, «senz’esser vista», sospira: «Ah dov’è lo sposo mio?», e la sua voce è introdotta e accolta da un disegno dei violini ch’è una delle grandi idee musicali e drammatiche di questo sestetto. Frase cromatica che discende all’infinito per lente acciaccature giambiche, simile, scrive il Jouve, a una vite perpetua. Questo ritmo monotono e penetrante si rigenera continuamente da se stesso. È un esempio straordinario di ispirazione musicale drammatica. Scena ottava: Entrano Masetto e Zerlina e completano così il sestetto e ulteriormente l'orchestra cambia e diventa completa. Zerlina e Masetto si rivolgono a Leporello fermato nell’intento di uscire. Donna Anna e Don Ottavio vedono i personaggi, così evidenziano Don Giovanni per loro. Donna Elvira cerca di difenderlo chiamandolo addirittura “marito”, ciò ci fa pensare che i due siano sposati e Don Giovanni l'abbia lasciata lì durante lo sposalizio, tutti insieme cantano e Don Ottavio fa l'atto di uccidere Leporello, il quale chiede perdono in ginocchio, si palesa di essere nient'altro che Leporello travestito. C’è qui un’anticipazione del concertato di stupore tipico ottocentesco quasi rossiniano con Zerlina, Don Ottavio e Masetto che dicono “stupida resto / che mai sarà “. Si verifica la sensazione di 47 dà poca credibilità alle parole di Don Ottavio. Il finale torna a quei toni ludici e giocosi, ritorno dei clarinetti, simboli della tenerezza, dimostra l’intenzione poetica di Don Ottavio. Mila: Questo breve recitativo, insieme all’aria che segue, ripropone il problema del personaggio di Ottavio, di cui abbiamo già fatto cenno a proposito della sua precedente aria «Dalla sua pace». In questo recitativo Ottavio tocca il fondo della melensaggine e dell’inettitudine. Sgattaiolato via Leporello, tra gli strilli di Elvira, Zerlina e Masetto, Don Ottavio, finalmente persuaso che Don Giovanni sia davvero «l’empio uccisore del padre di Donna Anna», prende la sua decisione. Non propriamente quella che ci si potrebbe aspettare da un cavalleresco gentiluomo spagnolo: «un ricorso vo’ far a chi si deve». Insomma, il prode Don Ottavio si reca al più vicino commissariato di Polizia per denunciare alla polizia colui che gli ha aggredito al buio la fidanzata facendosi passare per lui, e ne ha ucciso il padre. Il carattere di Ottavio, accettabile lungo il primo atto, dove si mostra nobile e devoto a Donna Anna, si affloscia nel secondo atto, e a questo punto si sgretola fino a toccare il ridicolo. Secondo l’Abert «c’è senza dubbio una consapevole ironia del creatore in questa figura collocata tra personaggi come Donna Elvira e Don Giovanni». Per lo Hocquard «non c’è ombra di dubbio sul fatto che Mozart sta dalla parte di Don Ottavio». Anzi, «è probabile che Mozart ha messo in questa parte molto di se stesso, e delle proprie esperienze amorose, dei propri scacchi, della propria timidezza». Il che significherebbe portare molto oltre il concetto abertiano dell’ironia romantica di Mozart, cioè della compartecipazione ai difetti dei suoi personaggi. Ma in verità proprio l’Abert, dopo aver rilevato il ridicolo della figura di Don Ottavio in questa situazione, ammette tuttavia che «Mozart non si sente giudice delle sue creature. Lascia questo personaggio agire unicamente attraverso se stesso e il proprio rapporto con l’ambiente. Gli attribuisce anzi le più nobili e calde cantilene dell’opera. Basta paragonarle con quelle di Don Giovanni in situazioni analoghe per comprendere la differenza dei due nella vibrazione amorosa. Né Ottavio diventa mai sentimentale nel senso deteriore e femmineo della parola». Il più «cattivo» critico del Conte Ottavio è il Breydert. «Pochi ascoltatori sfuggono a un senso d’imbarazzo quando il rispettabile gentiluomo entra in scena e canta le sue arie. Se c’è in quest’opera un personaggio in disparte, estraneo a quel che gli succede intorno, è proprio lui.» Gounod: «Don Ottavio è incapace di provare anche solo un briciolo del dinamismo demoniaco che solleva l’opera intera fino al momento in cui l’eroe perisce». Il carattere eminentemente lirico di aria da concerto, non inserita nell’azione per nessuno di quegli stratagemmi che Mozart tanto bene conosce per fare divenire un’aria dialogante, capace di coinvolgere nell’azione altri personaggi oltre quello che canta. Invece qui il solipsismo dell’aria è completo. Ottavio, deciso a compiere questo grande passo di andare in questura a denunciare Don Giovanni, prega gli altri personaggi di andare intanto a consolare il suo tesoro. Quest’aria fu soppressa nell’esecuzione viennese dell’opera, e sostituita da quella del primo atto, perché il tenore viennese trovava quest’aria troppo difficile e vocalmente impegnativa e non si sentiva di affrontarne i vocalizzi e le lunghe tenute di fiato. In secondo luogo, riconosciamo pure apertamente che, a parità di sconvenienza drammatica, l’aria aggiunta nel primo atto è musicalmente alquanto più bella di questa: uno, avevamo detto, dei più bei canti d’amore di Mozart. La presente aria dice già con la sua indicazione di tempo il proprio carattere zuccheroso e manierato. Lo stesso Hocquard, difensore appassionato del personaggio di Don Ottavio, ammette che la sua «tenerezza comporta una certa passività quasi femminea». Contropartita di Don Giovanni, se dobbiamo ammettere una specie d’inconfessata attrazione di Donna Anna verso il suo seduttore, Don Ottavio è «il ritratto dell’impotenza», in antitesi con la qualità d’uomo d’azione di Don Giovanni. «Se opponiamo francamente il virtuoso Ottavio al demoniaco Don Giovanni, tutto il nostro interesse, tutta la nostra passione sono in favore di Don Giovanni», e per contro «dobbiamo riconoscere la noia che l’aria di Don Ottavio ci dispensa. La convenzione s’è installata nel capolavoro». L’aria ci illude dapprima con l’apparenza di un’aria tripartita con da capo della prima parte, A - B - A, e invece ci accorgiamo ben presto che si tratta di un’aria doppia, dove il «da capo» è totale: cioè non viene ripresa solo la prima parte dell’aria, bensì anche la seconda, insomma, l’aria tutta intiera viene ripetuta, naturalmente la seconda volta con variazioni. La prima parte dell’aria è praticamente costituita di due frasi, la prima piana, affettuosa e calma, la seconda più mossa, vivace, articolata in aggressivi intervalli ascendenti, e poi fissata su un lungo fa di tre battute, conchiuso da un rapido vocalizzo: tutto ciò avvia già il canto solistico verso un certo stile di tenore eroico, che non si confà molto alla graziosa «silhouette» di cavalier servente, di «usignolo in seta nera» che il personaggio è venuto delineando. Ma proprio in questo senso evolve la seconda parte dell’aria, modulando attivamente, dall’originario si bemolle al relativo sol minore («Ditele che i suoi torti»), poi a fa maggiore («a vendicar io vado»), poi per un attimo a do maggiore, quindi ancora in fa maggiore fino alla fine dell’episodio, quando un lunghissimo vocalizzo di bravura solleva alta la voce per farla ricadere con arte sulla ripresa, in si bemolle. La ripresa si presenta dapprima regolare, e poi, quando inopinatamente continua estendendosi sulla seconda parte (quella eroica), essa rimane in si bemolle maggiore, modulando poi per un tratto alla dominante («che sol di stragi e morti») e ritornando infine stabilmente alla tonica (si bemolle) alla fine del secondo vocalizzo sulla parola «tornar». Quest’aria, generalmente screditata, ha trovato un inaspettato difensore in Luigi Dallapiccola, che la definisce «una delle arie più ricche di avventure 50 musicali, più libere metricamente, a cominciare da quell’incredibile periodare basato su sette battute, al suo inizio». (Mila mette N.23 in questa scena) Scena undicesima: Donna Elvira sola [N.23 – Recitativo e Aria Allegro assai con Archi soli] Donna Elvira ha avuto molte pagine solistiche, sicuramente ella è più indulgente nei confronti di Don Giovanni. Si denota qui un ulteriore cambiamento dei suoi sentimenti. Nel recitativo questo sentimento non si reprime e quindi torna a galla e viene fuori. Ella pensa a Don Giovanni, non lo guarda più da fuori come il personaggio da denigrare ma lo guarda da dentro. Ella sente una sorte di premonizione su Don Giovanni. Ella vede una voragine di oscurità, si delinea il sovrannaturale. Nella complessità interiore si palesa lo spavento, ella prova compassione per Don Giovanni.[Aria dichiarata prima, Allegretto con Archi (Violoncelli e Bassi separati), 1 Flauto, 1 Clarinetto in Si bem, 1 Fagotto, 2 Corni in Si bem] Tutto inizia con: “Mi tradì, quell'alma ingrata: / infelice, oddio! mi fa. / Ma, tradita e abbandonata, / provo ancor per lui pietà”. Donna Elvira prova pietà per Don Giovanni dopo che è stata lasciata e presa in giro molteplice volte. Si vuole enfatizzare il tutto con l’Orchestra al completo. Il peso maggiore lo ha il recitativo dal punto di vista emotivo con l’accompagnamento che lo conferma. Il passaggio è dalla donna nevrotica alla “crocerossina” che deve salvare Don Giovanni. Ritorna la Donna Elvira nevrotica poi dopo “il baratro mortal” nel recitativo si passa dal maggiore al minore, con l’intervallo diminuito che viene fuori. Mozart in “Che contrasto di effetti” si inventa negli archi la rappresentazione del lamento straziante con l’appoggiatura che “sanguina” che è forte rappresentativamente. L’aria è ancora un po’ più tradizionale, è un’aria rondò (con la forma A-B-A’-C-A’-D-A’ e così via) L’aria è molto unitaria, con una tinta con poche sfumature, l’idea iniziale è basata sull’intervallo che è lo stesso dell’idea straziante del recitativo. L’aria è scorrevole, resta un senso di agitazione generale con le legature a due a due. Dominano le tonalità maggiori, con la rappresentazione del sentimento diverso meno irrequieto. Si perde il carattere spigoloso del primo atto. C’è solo un momento in tonalità minore dell’aria, in “il mio tormento, /di vendetta il cor favella;” il tono è minore, in un contrasto interno dove si palesano nel recitativo e aria sia la vecchia che la nuova Elvira. Mila: La musica di Mozart non nasceva in astratto a tavolino, ma sempre in vista dell’esecuzione. Vi è un taglio netto di scene qui: Il duetto di Leporello e Zerlina che pone il servo legato ad una sedia, sulla quale poi fugge poiché lasciato solo. Altrimenti stanno le cose per il seguente recitativo e aria di Donna Elvira, verso il quale l’Abert si mostra troppo severo trattando anch’esso di «tappabuchi». Fu scritto per il grande soprano Caterina Cavalieri che interpretava la parte nella esecuzione di Vienna, per far posto a questa aggiunta fu soppressa l’aria di Don Ottavio. Quest’aria di Elvira non può intervenire che qui, nel secondo atto, dopo il sestetto e le arie di Leporello e di Ottavio, prima che la grande scena del cimitero rimetta definitivamente in carreggiata la narrazione drammatica. Afferma l’Abert che l’aria di Donna Elvira resta «per aria». Bisogna riconoscere che l’aria aggiunge un connotato al personaggio di Donna Elvira. tra l’altro prepara abilmente e rende comprensibile l’ultimo suo intervento nel dramma, quando farà irruzione in casa di Don Giovanni, che banchetta allegramente, per scongiurarlo a cangiar vita. Questo personaggio di Elvira, patetico e oscuro e presentata qui con un momento di crisi definitiva come fu detto giustamente dallo Hocquard, di «conversione». Elvira è a un punto decisivo: sta rendendosi conto che non riavrà mai più Don Giovanni. Il suo amore si tramuta in carità. D’ora innanzi non lotterà più per riconquistarlo, ma continuerà a lottare, sempre zelante come prima, per salvarlo. Certo è che d’ora innanzi la figura di Donna Elvira si spoglia di quell’amore possessivo che era sua spiacevole prerogativa, e si colora d’una luce vagamente donchisciottesca e angelica, da crocerossina. «L’accesso alla serenità attraverso la rinuncia al demoniaco è l’argomento fondamentale di questo recitativo e di quest’aria»: così scrive lo Hocquard, mettendo in luce come «la calma che si diffonde nell’aria dopo l’ardore esaltato del recitativo non si deve a un indebolimento dell’ispirazione, ma corrisponde a un orientamento nuovo, ed essenziale, conferito all’anima». Seguiamo ancora la buona analisi che lo Hocquard fornisce del personaggio di Elvira in questa scena. «Per la prima volta Elvira prende coscienza, non già del male che Don Giovanni le ha fatto, ma dell’abisso di perdizione in cui egli sta precipitando. Ella cessa di prendersi come centro d’interesse (secondo l’angolo proprio alla passione), e si concentra su lui: la sua intuizione amorosa, esacerbata dal dolore, le fa presentire il destino imminente, la dannazione ineluttabile di Don Giovanni.» È facile quindi capire quanto quest’aria sia drammaticamente opportuna per preannunciare il prossimo finale con la dannazione del protagonista. Donna Elvira viene dunque a essere gratificata di quel grande segno di distinzione che è, in un’opera comica, un recitativo obbligato. Sono soltanto gli archi a pronunciare la figura base, continuamente ricorrente nel recitativo, fondata su un trillo che si sposta, di altezza, con continue alternative di «piano» e «forte». La forma di «Mi tradì quell’alma ingrata» è quella di una aria-rondò, con tre riprese dell’idea principale, ogni volta che ritornano le parole iniziali dell’aria stessa, in questo caso si osserva un eccezionale partito preso di unità: gli intermezzi che hanno luogo sulle parole «Ma tradita, abbandonata», «Quando sento il mio tormento», e ancora «Ma tradita, abbandonata», sono evidenti derivazioni dall’idea principale. Questa idea principale si caratterizza per una melodia piuttosto agitata, che sale e che scende per gruppi di crome, per lo più a due a due, per lo più a due note per sillaba. L’Abert afferma: 51 «L’incessante movimento di crome le fornisce la caratteristica principale: è un continuo fluttuare dell’agitazione, senza vera e propria meta né contrasti». La concezione strettamente unitaria è ribadita nell’integrazione orchestrale: la curva melodica proposta subito dalla voce viene tosto assunta dal clarinetto, dal fagotto, poi dal flauto viene coinvolta in una specie di macinino contrappuntistico, che certamente non ha nulla di arcaico né di severo, ma non per questo è meno fittamente intessuto. Scena dodicesima: Cimitero circondato da un muro, diversi monumenti equestri, fra cui quello del Commendatore, siamo al Chiaro di Luna. Don Giovanni e la statua del Commendatore poi Leporello. Don Giovanni entra scavalcando il muro e ride. Tutto inizia con un recitativo secco. Questo è l’unico momento dell’opera dove vediamo Don Giovanni fermo, non è in fuga, non ricerca un’oggetto del desiderio. Unico momento di staticità di Don Giovanni. Si incomincia a conoscere solo qui. Egli appena scavalca il muro ride, la risata è il simbolo che si ripete in questa scena, ciò alimenta il fascino che è delineato dal suo comportamento. Tema della risata è inappropriato nel clima in cui è sottratto, il cimitero, ciò delinea l’atteggiamento disprezzante nei confronti del sovrannaturale. Don Giovanni reagisce a tutto con la risata, con il coraggio che arriva ai limiti del sacrilegio. Atteggiamento razionalista di Don Giovanni che evincono un personaggio libertino e illuminista. Si mescola terreno e ultraterreno. Don Giovanni è andato a caccia di ragazze ma non ha concluso niente. È incuriosito della relazione ingannevole tra Donna Elvira e Leporello. Esce Leporello e i due si rincontrano. Leporello racconta ciò che è successo. I due si scambiano gli abiti, così ora Don Giovanni è Don Giovanni e Leporello è Leporello. Don Giovanni racconta un’impresa, che noi non vediamo, a Leporello. Il racconto è la conquista, sempre fallimentare, di una delle belle di Leporello, che poiché scopre l’inganno fa fuggire Don Giovanni che si rintana al Cimitero. Don Giovanni ride ancora una volta. Si passa qui ad un recitativo drammatico in adagio con 2 Oboi, 2 Clarinetti in Si Bem, 2 Fagotti, 3 Tromboni (Alto, Tenore, Basso), Contrabbassi dove interviene il Commendatore “Di rider finirai pria dell’aurora” vi è la ripresa del sovrannaturale, mentre Don Giovanni ride, la statua si mette a parlare. L’organico è molto ampio. Il Commendatore lancia il suo monito a Don Giovanni, il contrasto è molto evidente. Un momento di forte contrasto drammatico. Il riferimento qui è proprio Gluck, con le voci oracolari che si ripetono in Gluck con Orfeo ed Euridice e Alceste con Riprende il recitativo secco. C’è un qualcosa che sa proprio di aldilà. L’aria è in Re minore ma ci sono accordi dissonanti, cromatici che portano ad una armonia sovrannaturale che non è umana, non c’è convenzionalità. Ciò accade due volte dove interviene il Commendatore: “Ribaldo audace! / Lascia a’ morti la pace”. L’atteggiamento di Don Giovanni è coraggioso rispetto a Leporello che delinea qui un aspetto di distacco con Don Giovanni che ha come atteggiamento nel libretto “con indifferenza e sprezzo”. Don Giovanni vede la statua del Commendatore e Leporello legge l’iscrizione sulla tomba del Commendatore: “Dell'empio che mi trasse al passo estremo / qui attendo la vendetta”. Leporello trema e ha paura. Don Giovanni dice a Leporello di invitare il Commendatore a cena. Leporello dimostra il suo essere superstizioso. Non vuole farlo ma è obbligato dal padrone. [N.24 – Duetto Allegro con Archi, 2 Flauti, 2 Fagotti, 2 Corni in Mi] Parte il duetto tra Leporello con Don Giovanni con un piccolo intervento del Commendatore, Leporello si rivolge alla statua ma è tutto un tremolio per la paura. Mentre Don Giovanni si spassa per via della paura di Leporello, che tra pause per la paura e i tremolii, invita per conto di Don Giovanni il commendatore a casa. Commendatore china la testa. Don Giovanni fa il verso di Leporello e alla fine è lui ad invitare la statua a cena. Il Commendatore risponde. I due cantano insieme dove Leporello vuole scappare, mentre Don Giovanni vuole andare a preparare la cena. È un duetto dove si assiste alla musica d’azione, dove cambia l’emotività dei personaggi. La musica è in contrasto con un intervallo di settima. La musica rappresenta perfettamente la figura di Leporello che trema, gestualità di opera buffa. Quando Leporello dice: “Signor, il padron mio... / badate ben, non io... / vorria con voi cenar...” Mila cita Berlioz che vede questo come una rappresentazione descrittiva di Leporello “che se la fa sotto” con tremoli musicali, con lo sfilacciamento che aumenterebbe il desiderio di urinare e poi la modulazione con la settima diminuita con l’atto pratico. Scrittura finale che sa di festa. Ci sono degli svolazzi dei violini con i tre tromboni che danno possenza. Mila: Con la scena del cimitero l’opera ricupera il suo protagonista, ed è come se ritrovasse la spina dorsale. Don Giovanni salta dal muro, ridendo, tutto allegro per il ricordo di qualche recente avventura, che presto apprenderemo dal suo dialogo con Leporello. Il riso gagliardo e sfrontato di Don Giovanni è quasi un motivo ricorrente di questo recitativo, meraviglioso per giustezza di accenti, rapida ed essenziale valorizzazione delle parole, prontezza di botte e risposte dialoganti. poiché questa sfrenata allegria di Don Giovanni si svolge entro un cimitero, ecco stabilito il motivo drammatico di questa scena: l’oltraggio, l’offesa fatta alla maestà della morte. L’argomento del dramma si solleva verso la solennità della fine: le colpe di Don Giovanni non si limitano più ad attentati erotici. Al gaudente subentra il libertino, in senso settecentesco: lo spirito forte, il libero pensatore. Non più soltanto «il dissoluto punito», ma «l’ateo fulminato». Le colpe di Don Giovanni non sono più contro la carne, ma contro lo spirito. Non servirà a nulla, allora, la 52 per dimostrare che il Commendatore è il vero e unico antagonista di Don Giovanni, e vero personaggio positivo dell’opera. Infatti, in una specie di struttura simmetrica semicircolare egli ci mostra che all’introduzione, per tre bassi con intervento di un soprano, corrisponde il finale, per tre bassi (Don Giovanni, Leporello, Commendatore) con intervento di un soprano (Donna Elvira, mentre nell’introduzione si trattava di Donna Anna); e all’Andante con tre bassi della morte del Commendatore corrisponde la scena del cimitero, per i medesimi tre bassi. Solo che in mezzo si pone l’aria di Donna Anna, «Non mi dir, bell’idol mio», a guastare la simmetria. Anche Kierkegaard disprezza l’aria di Donna Anna. Toscanini la ometteva. Effettivamente c’è un abisso, come osserva lo Hocquard, tra quest’aria e le prime espressioni di Donna Anna nell’opera, il concitato, quasi febbrile duetto «Fuggi, crudele, fuggi», e la grandiosa aria «Or sai chi l’onore». Là tutto era passione e demonismo. E lo Hocquard va oltre, a ffermando deliberatamente che «lungi dall’essere un tappabuchi per occupare il tempo prima del cambiamento di scena, l’aria di Donna Anna è una magnifica riuscita drammatica». Qualcosa si è spezzato nel personaggio, che ora si mostra quasi chiamato da una vocazione religiosa. «Donna Anna rinuncia alla vendetta, e con la sua rinuncia permette alla Morte di mettersi in marcia e di venire, soltanto allora, a prendere Don Giovanni con la sua mano di fuoco. Per un gioco di compensazioni cosmiche, la libertà ritrovata di Anna permette alla fatalità di mettere in moto i suoi fatali meccanismi». È un fatto che quest’aria costituisce un trapasso necessario dalla Donna Anna che abbiamo conosciuta, tutta fiera e fremente, quasi l’incarnazione della vendetta, a quella che nell’ultima scena dell’opera allontanerà da sé il povero Don Ottavio, desideroso di convolare prontamente a nozze, chiedendogli un anno di dilazione, nel quale essa possa consumare il lutto per la morte del padre. questa aria viene talvolta designata come «aria dell’oratorio», forse perché nella dolcezza della prima parte e nel rapimento estatico dei vocalizzi della seconda fa balenare l’immagine di una beatitudine celeste, o per lo meno d’un riposo ultraterreno a chi, come Anna, ha tanto tribolato su questa terra. C’è un’evidente analogia di funzione drammatica nelle ultime arie dei due personaggi femminili. Entrambe, Donna Elvira e Donna Anna, recedono dalle loro caratteristiche terrene. Donna Elvira si spoglia del suo amore possessivo per Don Giovanni, e a esso subentra in lei uno slancio di carità, per la sorte dell’uomo amato, ch’ella vorrebbe salvare dalla rovina a cui va incontro. In Donna Anna si spegne l’odio per Don Giovanni, si spegne la passione di vendetta in cui il suo personaggio sembrava compendiato per gran parte dell’opera. Scottata da quel contatto impuro, maturata dalla sventura, Donna Anna non è più la stessa persona che era al principio del dramma. Ecco perché, forse, non potrà più sposare Don Ottavio, e chiederà, alla fine dell’opera, un anno di rinvio. Forse, la donna uscita da questa amara tempesta non se la sente più di unire la sua vita a un gentile e amabile vagheggino. Si noti un particolare strumentale che dice molto: in quest’aria di Anna accade per la prima volta che si associno a questo personaggio i clarinetti, gli strumenti della tenerezza introspettiva, della malinconia profonda e appassionata, che in passato parevano prerogative dell’amorosa Elvira, mentre sconvenivano a Donna Anna, incarnazione della vendetta, esplicita e rettilinea come un fil di spada. La presenza dei clarinetti ci dice che nella amazzone è maturata la donna, che il personaggio di Donna Anna ha acquistato spessore psicologico. La forma dell’aria è assai semplice, una specie di libero rondò, che funge un po’ da corrispettivo di quello dell’aria di Ottavio, «Il mio tesoro intanto» e di quello dell’aria di Elvira, «Mi tradì quell’alma ingrata». C’è in esso qualcosa di bucolico e quasi pastorale, ma forse il suo autentico signi ficato si precisa attraverso una reminiscenza, ancora una volta una reminiscenza gluckiana, il carattere di questo tema ci riporta alla celebre melodia di flauto con cui si esprime la pace degli Spiriti Beati nell’Orfeo ed Euridice. L’aria-rondò è una forma eminentemente circolare, che si ravvolge su se stessa e in sé si conchiude. Non è un’aria che «va» in qualche direzione, come l’aria in due sezioni, eminentemente drammatica. Col periodico ritorno dell’idea principale l’aria- rondò sembra ribadire un punto d’arrivo e tirare le somme. In breve, queste ultime arie sono da intendere come «conclusioni su Ottavio», «conclusioni su Donna Elvira», «conclusioni su Donna Anna»: segnano il punto terminale a cui codesti personaggi sono stati condotti attraverso la marcia del dramma. D’ora innanzi il campo della scena ha da restare aperto solo per l’affrontamento dei due veri antagonisti, Don Giovanni e il Commendatore. Non c’è più posto per gli esseri umani, ma solo per i princìpi: la Vita e la Morte, la libertà e l’autorità, la Terra e l’Al di là. Scena quattordicesima: Don Ottavio solo, un recitativo secco. Don Ottavio esce di scena e segue Donna Anna. Scena quindicesima: Sala illuminata della casa di Don Giovanni, in scena ci sono Don Giovanni, Leporello e i Suonatori [N.26 – Finale Allegro vivace con Archi, 2 Flauti, 2 Oboi, 2 Clarinetti in La, 2 Fagotti, 2 Corni in Re, 2 Trombe in Re, Timpani in Re La] Siamo in casa di Don Giovanni, siamo alla cena “la mensa è preparata”. Massimo emblema del finale della musica d’azione, tutto segue il dramma come un guanto. Don Giovanni è da solo a mangiare e Leporello serve. I suonatori sono diegetici. Mila si fa in questo caso domande e si da delle risposte. Bisogna improntare il tutto come un banchetto funebre. Appena Leporello porta i piatti in tavola i suonatori suonano creando musica diegetica. Il tempo cambia in Allegretto con Violoncelli, 2 Oboi, 2 Clarinetti in La, 2 Fagotti, 2 Corni in Re. Si sente un prolungamento della fanfara del piacere. Questa è la pagina delle citazioni dove Mozart scrive brani di altri, delinea realismo, passano in primis Cosa rara di Martin Soler. Leporello serve i piatti in tavola e Don Giovanni 55 mangia e beve. I tempi cambiano e cambiano gli strumenti si aggiungono. Don Giovanni si accorge che Leporello gli sta rubando una qualcosina di mangiare. La scena è molto comica. Seguono le altre citazioni Evvivano i litiganti di Sarti dopo “Piatto! / Servo” e poi dopo l’insieme “fingerò di non capir” segue l’autocitazione dalle Nozze di Figaro con la melodia del Farfallone Amoroso, questa ovviamente è un’anticipazione a ciò che accade a Don Giovanni. Mila: Le ultime arie che abbiamo ascoltato, di Don Ottavio, e soprattutto di Donna Elvira e di Donna Anna, hanno per così dire avuto il compito di smobilitare questi personaggi, togliendo loro la carica di passioni umane che li caratterizzava: Donna Elvira si è spogliata del suo amore possessivo per Don Giovanni, ed è solo più pervasa da una fiamma di carità; Donna Anna sente che la vendetta non serve a nulla. Praticamente le ultime arie hanno avuto il compito di sgombrare il terreno dai personaggi umani per lasciare libero il campo allo scontro finale dei due veri antagonisti: Don Giovanni e la Statua del Commendatore, che chiaramente si rivelano in quest’occasione per qualcosa di più che semplici creature umane. La Statua del Commendatore significa la giustizia celeste, mossa a intervenire dall’eccesso delle colpe di Don Giovanni. Dallapiccola: «Il Commendatore è, a mio modo di vedere, il protagonista dell’opera… perché rappresenta lo spirito, la coscienza… e perché stabilisce l’architettura di tutta l’opera… Apparendo nell’introduzione e nel finale fissa i punti sui quali potrà essere rizzato quel grande arco che è la costruzione del Don Giovanni… Se Don Giovanni non è la figura più pronunciata dell’opera, ciò si deve al fatto che egli soggiace alla volontà del Commendatore, cioè di colui che – come scrisse Kierkegaard – è coscienza: Don Giovanni è condannato nell’istante stesso in cui uccide il Commendatore. Da questo momento non una delle sue imprese amorose è portata a lieto fine. E Don Giovanni ci appare come la preda attorno a cui sempre più si stringe il cerchio degli inseguitori. Si tratta di un’opera morale più di ogni altra; di un’opera in cui ciò che il titolo originale promette, Il dissoluto punito, ossia il Don Giovanni, viene mantenuto già molto prima del castigo finale dell’eroe. E per noi non è di facile renderci conto del perché Beethoven non abbia mai perdonato a Mozart di aver messo sulla scena una fi gura così immorale.» L’interpretazione più ovvia che vede la Statua come giustizia celeste per le colpe di Don Giovanni non è accettata da Abert, Schurig e Hocquard, per loro si tratta dello scontro di due princìpi opposti, nei quali par di dover ravvisare, in sostanza, la Vita (Don Giovanni) e la Morte (il Commendatore). Mila espone la sua nel Cap.4. Il frivolo libertino si solleva su se stesso, perde i suoi connotati viziosi per diventare un’immagine, positiva, di coraggio cavalleresco. Per l’Abert, «Don Giovanni si solleva a piena grandezza tragica. Anche nel crollo egli trascende la misura umana». Certo, l’Abert è attento a limitare qualsiasi interpretazione ideologica del personaggio: «Qui spunta quel Don Giovanni che troppo spesso si dimentica per il semplice seduttore: l’eroe dello sfrenato impulso vitale dei sensi, che preferisce l’annientamento piuttosto che la rinuncia volontaria anche alla più piccola parte della sua forza». Dunque, «eroe dello sfrenato impulso vitale dei sensi», e basta. Tutto il teatro musicale dell’Ottocento, da Rossini a Verdi, da Wagner a Mussorgski, si è nutrito del finale di Don Giovanni. Di Don Giovanni già s’è detto come non sia un carattere ma un’astrazione. Del Commendatore giustamente è stato detto che al principio dell’opera è «me no che un uomo, precisamente solo una funzione, solo un nobiluomo, uno sprovveduto e coraggioso difensore». Ricordiamo ancora una volta che il finale è, per così dire, doppio: c’è il finale drammatico con la scena del banchetto, l’apparizione della Statua e la fine di Don Giovanni, e c’è la chiusa, quando scomparsi Don Giovanni e il Commendatore, i personaggi superstiti appaiono sul proscenio a cantare una convenzionale «morale della storia». I due tipi di concertato in uso nel melodramma settecentesco: il concertato d’azione, quel tipo di finale che Da Ponte soleva definire «dramma nel dramma», nel corso del quale accadono importanti eventi, e i personaggi vengono per così dire sbattuti uno contro l’altro, in un dialogo fitto ed essenziale per lo sviluppo dell’azione; e il vecchio concertato statico, che ha luogo quando i fatti sono già avvenuti, e ha solo la funzione convenzionale di un «per finire». Qui ci sono tutti e due, affiancati. Il finale comincia con Don Giovanni e Leporello in scena. La prima metà del finale, comprendendovi anche la pur drammatica e commovente irruzione di Donna Elvira, è lieta: il banchetto. La seconda parte è tragica e terribile: il Convitato di pietra. Un problema di regia lungamente discusso è se Don Giovanni debba sedere a tavola solo, oppure in mezzo a due belle figliole – figuranti mute – che banchettano con lui. Don Giovanni è solo a tavola, e Leporello lo serve. La musica è brillante, cavalleresca, con toni rimbalzanti di fanfara, ai quali si associa il canto di Don Giovanni. La melodia si insedia con sicurezza e autorità nel tono di re maggiore. La sicurezza, e quasi volgarità, di Don Giovanni è la sicurezza che viene dalla ricchezza: «Giacché spendo i miei denari, Io mi voglio divertir». Vero è che volgari non sono tutti i divertimenti di Don Giovanni. Vi è un’orchestrina del tipo di quelle usate nel Settecento per la musica lieve delle serenate «Voi suonate, amici cari!» intima Don Giovanni, e l’orchestrina in scena intona, col timbro un po’ flebile e un po’ comico dei legni, un’aria in 6/8 dell’opera Cosa rara dello spagnolo Martin y Soler, proprio quello per cui Da Ponte dovette scrivere un libretto contemporaneamente a quello del Don Giovanni. Uniformandosi in parte alla melodia dell’orchestrina Don Giovanni esalta con le parole il proprio piacere, quasi per goderlo di più: «Ah che piatto saporito!». È nella natura di Don Giovanni di essere sempre 56 tutto in quello che fa: age quod agis. Ma per una componente di crudeltà quasi sadica che c’è nel carattere di Don Giovanni, il suo piacere della tavola è tanto più aguzzato dalla privazione altrui. L’esagerazione con cui esalta il piatto saporito è tutta volta ad aumentare il desiderio di Leporello, che lo guarda esterrefatto: «Ah che barbaro appetito! Che bocconi da gigante!», aggirandosi come un cane in attesa degli ossi. Vi è un gioco comico sui bocconi. Don Giovanni, che ha finito una portata, ordina: «Piatto!», e Leporello, premuroso, risponde: «Servo!». L’orchestrina intona un nuovo motivo, in fa maggiore, in 3/4, e subito Leporello riconosce: «Evvivano I litiganti!». «Versa il vino» ordina ora Don Giovanni, e Leporello eseguisce. Don Giovanni degusta, e sposando la melodia dell’orchestrina commenta: «Eccellente marzimino!». Leporello cambia il piatto a Don Giovanni, e di nascosto si caccia in bocca un pezzo di fagiano. Intanto l’orchestrina ha fnito il pezzo dei Due litiganti e, cambiati i corni in si bemolle, in questo tono attacca la celebre aria di Figaro: «Non più andrai, farfallone amoroso», Don Giovanni non si accorge che si tratta di un segno che gli viene dall’al di là; che i musici stanno scrivendo sulla parete, con mano invisibile. Sull’aria delle Nozze di Figaro si svolge l’ultima pantomima buffa di quello che il Jouve chiama «l’erotismo della bocca». Leporello ha addentato un pezzo di fagiano, e Don Giovanni che se n’è accorto, senza guardarlo lo chiama. Leporello, con la bocca piena, biascica e Don Giovanni gli ordina: «Parla schietto, mascalzone!». Quello inventa lì per lì che una flussione non gli lascia le parole proferir Don Giovanni gli ordina di fischiare, e lui: «Non so far». Ma come sempre questi contrasti tra padrone e servitore si concludono nella bonarietà. Don Giovanni è sadico, ama tormentare Leporello, ma sempre in fondo lo perdona. Leporello confessa, adottando tale quale la celebre melodia di Figaro: «Sì eccellente sì eccellente è il vostro cuoco, Che lo volli anch’io provar». E Don Giovanni ripete: «Sì eccellente è il cuoco mio, Che lo volle anch’ei provar». Ripetendo le parole e la melodia, praticamente accetta la scusa di Leporello. Scena sedicesima: Entra affannosa Donna Elvira, tutto cambia è diventa Allegro assai Archi, 2 Flauti, 2 Oboi, 2 Clarinetti in Si bem, 2 Fagotti, 2 Corni in Si bem. Ella vuole provare l’amore di Don Giovanni, prova pietà, Don Giovanni ride e sprezza a Donna Elvira, che si inginocchia e Don Giovanni si inginocchia e si rialzano. Si crea un piccolo terzetto tra Donna Elvira, Don Giovanni e Leporello. Donna Elvira dice a Don Giovanni: “Che vita cangi”, qui Donna Elvira è molto isolata, c’è un disegno melodico molto garbato e frivolo che non ha nessuna presa su Don Giovanni. Don Giovanni solennemente la caccia, con “Lascia ch'io mangi. / E, se ti piace, / mangia con me.” Insieme cantano e Donna Elvira canta: “Réstati, barbaro, / nel lezzo immondo: / esempio orribile / d'iniquità” e Don Giovanni risponde: “Vivan le femmine! / Viva il buon vino! / Sostegno e gloria / d'umanità!” che ricorda quel “Viva la libertà!” della fine del primo atto. Questa è una non-aria di Donna Elvira che entra impostata per un’aria ma la fluidità del finale non permette la staticità ariosa. La musica diventa torbida, l’armonia è torbida, cromatica con la settima diminuita che porta soprannaturalità. Donna Elvira esce di scena e rientra per emettere un grido orribile. Don Giovanni e Leporello si domanda la natura del grido e il padrone manda a vedere Leporello che rientra con un grido ancora più forte e riaccade la stessa cosa di Elvira con la discesa cromatica, la settima diminuita e la sincope. Il tempo è Molto allegro con lo stesso organico con Corni in Fa, la musica va nella direzione del soprannaturale, sappiamo che c’è il Commendatore ma si crea una suspence, un ritardo dove si lascia a Leporello un ultimo intervento buffo dove trema nel parlare “l’uom… di … sasso” bussano la porta e ricapita la stessa cosa che era successa al Cimitero dove Leporello sotto ordine di Don Giovanni, non riesce ad aprire la porte e quindi la apre Don Giovanni, Leporello si nasconde. Il momento buffo ritarda il momento culminante, che sarà caratterizzato dall’intensità. Mila: A questo punto irrompe in scena Donna Elvira, sempre smaniosa, passionaria e fanatica. Una svolta, come scrive l’Abert, ma una svolta repentina, che ci coglie di sorpresa. Donna Elvira ha sviluppato la sua vocazione missionaria, da Esercito della salvezza. Non vuol più riconquistare Don Giovanni, ma salvarlo. Abert osserva sulle «frasi concise, che spesso suonano come meri gridi». L’orchestra, rileva il Jouve, «è stabilita su una figura agitata e ossessiva, oscillazione sull’intervallo di un semitono». Il canto è sillabico, spezzato, nelle brevissime botte e risposte: solo Donna Elvira si concede due melismi sulle parole «pietade» e «cangi», «dov’ella concentra col più grande e ffetto tutto il proprio sentimento come in un punto focale». Si rileva il «tono ispirato» di Donna Elvira, che la rende purtroppo insopportabile, e fa notare come «questi sarcasmi, queste ingiurie passano sopra una linea ispida che i violini disegnano, simile a una catena di montagne». L’affettazione galante e schernevole di Don Giovanni è odiosamente crudele. Donna Elvira s’inginocchia per supplicarlo, e subito s’inginocchia pure lui, da compito cavaliere: «Se non sorgete, non resto in piè». Lo stesso Leporello è mosso a pietà, e sulla solita figura orchestrale di trillo lento commenta: «Se non si muove Pel suo dolore, Di sasso ha il core, O il cor non ha!». Ma già Don Giovanni ha posto fine alle finte schermaglie e ha intonato un canto pesante e volgare, «Lascia ch’io mangi, E se ti piace Mangia con me», che su quest’ultime parole si apre in una specie di prosopopea enfatica e trionfale. Potremmo chiamarlo l’inno del materialismo sensuale di Don Giovanni. Infatti, verrà tosto ripetuto sulle parole emblematiche: «Viva le femmine, Viva il buon vino, Sostegno e gloria D’umanità!». L’orrore di Donna Elvira e la compassione di 57 Don Giovanni: «il Commendatore sparisce e si apre una voragine». S’odono le voci del coro maschile, fuori scena, di gluckiana solennità: «Vieni, c’è un mal peggior». Secondo il Jouve, «il coro è il Commendatore allo stato cosmico». Soltanto ora Don Giovanni è veramente sconfitto e sbigottito. Non c’è più il cavaliere coraggioso, ma l’uomo addossato alla morte ineluttabile. Scale discendenti dei violini, accordi sincopati dell’orchestra stabiliscono la michelangiolesca catastrofe sonora del crollo finale: la terra si apre per inghiottire il peccatore. Leporello guarda allibito il suo padrone, ridotto in quello stato, e si completa qui il processo di separazione tra Don Giovanni e il suo doppio, che si è operato a poco a poco nel corso della scena. Leporello è rimasto fedele e solidale col suo padrone, finché questi era sicuro di sé e pareva signore della propria sorte. Ma Leporello non può seguire fino in fondo il modello di cui egli è la proiezione escremenziale. Non può seguirlo nella sventura e nella fine. Ora lo guarda da lontano: «Che ceo disperato! Che gesti d’un dannato!». Scena diciottesima: in scena ci sono tutti tranne Don Giovanni. Il tempo è Allegro assai con Archi, 2 Flauti, 2 Oboi, 2 Fagotti, 2 Corni in Sol. Finale che porta una sorta di finale felice. Rispondono ad una necessità, con il merito che deve essere eseguito per tre ragioni: bellezza musicale; serve per rassicurare il pubblico per via del fatto che la situazione del Don Giovanni è eccezionale e quindi rendeva la identificazione in Don Giovanni fallibile; rendere il dramma giocoso e quindi rientrare nel dramma giocoso. Il finale serve per mettere in evidenza il fatto che Don Giovanni è il collante della situazione tra tutti con la visione concentrica che vede al fulcro Don Giovanni, senza di lui tutti si allontanano, tranne Zerlina e Masetto che percorrono la stessa strada. C’è una prima fase interrogativa dove domandano a Leporello dove sia Don Giovanni, Leporello ha un ruolo importante, è il testimone di ciò che è accaduto. Leporello ha toni seri, alcune volte da oracolo e racconta: “Tra fumo e fuoco... / badate un poco.../ l'uomo di sasso... / fermate il passo.../ Giusto là sotto / diede il gran botto, / giusto là il diavolo / se 'l trangugiò.” Si capisce il sovrannaturale. C’è la prima divergenza, Don Ottavio canticchia la sua melodia lirica, chiedendole una mano, Donna Anna risponde con: “Lascia, o caro, un anno ancora / allo sfogo del mio cor” con una pausa di riflessione di un anno che porterà alla rottura dei due. Per la prima volta i due si allineano musicalmente, quando si separano, infatti cantano insieme: “Al desio di chi t'adora / ceder deve un fido amor.” Donna Elvira si ritira. Masetto e Zerlina vanno a casa. Leporello andrà all’osteria a trovare un padrone migliore. Tutti insieme cantano: “Questo è il fin di chi fa mal: / e de' perfidi la morte / alla vita è sempre ugual!” con il tempo che diventa Presto con Archi (senza Violoncelli), 2 Flauti, 2 Oboi, 2 Clarinetti in La, 2 Fagotti, 2 Corni in Re, 2 Trombe in Re, Timpani in Re La. Ha dei tratti di musica sacra. Utilità del secondo finale è il ritorno al dramma buffo. Mila parte da una domanda: “Perché ci deve essere la punizione così dura per Don Giovanni?”. Lo paragona al Falstaff dove nessuno sognerebbe il peccato così duro per il secondo. Per Mila non è la punizione rivolta verso il donnaiolo ma la punizione è verso il libero pensatore con i riferimenti alle lettere di Mozart di disprezzo verso alcuni illuministi, Voltaire tra alcuni. Mozart ha intenzione di criticare il libero pensatore ma ne fa un’altra, viene punito ma Don Giovanni ha un enorme fascino sullo spettatore, c’è il personaggio seducente con cui abbiamo solidarizzato. Mila: Dopo il finale drammatico, la chiusa, l’epilogo convenzionale. Il concertato all’antica, nel vecchio stile dell’opera comica italiana, quando, avvenuti ormai ed esauriti i fatti, i personaggi vengono tutti insieme alla ribalta, magari tenendosi per mano, a cantare la morale della favola. Personaggi, qui, singolarmente svuotati e ridotti davvero al rango di burattini, dopo che le ultime arie li hanno prosciugati dei loro contenuti, e dopo che la scomparsa di Don Giovanni ha soppresso quel punto di riferimento per il quale soltanto essi vivevano. A Vienna non venne eseguita. La moralità sempliciotta e corriva del lieto fine si addice a quello che si autodefinisce «dramma giocoso», e che è di fatto concepito entro lo stile e gli schemi dell’opera comica. È composta di tre parti musicali, delle quali la prima e l’ultima hanno funzione prevalentemente collettiva, d’insieme, mentre quella centrale, in tempo lento, dà luogo alle diverse definizioni dei destini individuali. Nella prima assistiamo a una specie di rivincita di Leporello. Per quanto vile, pauroso e zotico, Leporello ha ora pur sempre una superiorità rispetto agli altri superstiti del dramma. Lui ha visto; lui è stato testimone della catastrofe. È uno che, sia pur di straforo e nascosto sotto la tavola, ha assistito al Mistero. Leporello può perfino prendersi il lusso di parlare con una certa solennità, quasi di oracolo. Nella seconda parte entrano in orchestra i clarinetti, che mancavano nel pezzo precedente, e Don Ottavio attacca una delle sue arcadiche melodie per chiedere a Donna Anna il sospirato adempimento del loro sogno coniugale. Don Ottavio non si smentisce: sempre sospiroso, sempre zuccheroso, canta esattamente come ha sempre cantato, per lui è come se nulla fosse accaduto, come se la tragedia di Don Giovanni e del Commendatore non avesse lasciato su lui la minima traccia, e infatti egli non ne ha capito niente. La sua arcadica mollezza contagia perfino Donna Anna, che gli risponde sulla stessa melodia, e le due voci per un poco si alternano, in una specie di molle canone galante, inebriandosi alla fine in un gorgheggio sull’originale parola «amor». Ma la risposta di Donna Anna è negativa, o per lo meno chiede una dilazione. Vuole un anno di tempo per smaltire il lutto. Poi è la volta di Donna Elvira d’annunciare, su una melodia in mi minore: «Io men vado in un ritiro A finir la vita mia». Sostanzialmente sulla stessa melodia Masetto e Zerlina 60 comunicano che se ne vanno a casa, «a cenare in compagnia». Leporello invece introduce un’altra melodia, robusta e popolana, per dire che se ne andrà all’osteria «a trovar padron miglior». Quindi i tre personaggi popolani inveiscono contro Don Giovanni, da bravi superstiziosi come sono: «Resti dunque Quel birbon Con Proserpina e Pluton!» Lettura del Don Giovanni-Massimo Mila (I capitoli sull’opera sono nei parti di riferimento) Cap. 1 “I Don Giovanni”: Don Giovanni è una figura, insieme a Ulisse, Faust e Amleto, che è uscita dalla letteratura ed è entrata nella vita. Ciò avvicina questi personaggi alla dimensione del mito. Ortega y Gasset scrive che Don Giovanni è un tema proposto all’immaginazione e alla riflessione e può diventare il simbolo di un fermento tragico che si trova in tutti gli uomini. L’anno di nascita è attorno varie ipotesi, la più accreditata è quella de El burlador de Sevilla del 1630 di Tirso de Molina, in questa versione primordiale Don Giovanni è un erotomane, un maniaco ossessionato dal desiderio delle donne. La sua colpa è la lussuria e di inganno con cui corteggia le donne, da qui burlador. Don Giovanni è un personaggio capace di vita autonoma, sussiste fuori dalle opere letterarie che lo hanno generato. Secondo Jean Rousset “Tirso ha messo in opera un sistema di forze le cui combinazioni possibili sono numerosissime, variando le relazioni interne del dispositivo originale, formato su due elementi fissi, l’Incostanza e il Morto e uno variabile, il gruppo delle Donne sedotte. In uno scenario di commedia dell’arte della seconda metà del Seicento vediamo spuntare il titolo L’ateista fulminato che rimarrà sottotitolo nella tragicommedia francese del Rosimond (1669) e anche nel Festin de pierre del Dorimond, qui appare per la prima volta il duello finale di Don Giovanni contro la Statua del Commendatore, inoltre si palesa l’aspetto dell’ateismo, empietà del Don Giovanni, si aggiunge quindi il peccato dello spirito, o meglio contro lo spirito. Il Settecento produrrà Casanova come attenuazione del tipo più comune e convenzionale di Don Giovanni e anche il Don Giovanni intellettuale nella figura di Helvétius. Accentuazione del sacrilegio porta in primo piano la figura del Commendatore, assassinato e poi invitato a cena (invito alla statua). Da qui l’altro titolo il convitato di pietra che compare in un altro scenario secentesco della commedia dell’arte, in Francia diventa Le festin de pierre. In realtà Don Giovanni e il Commendatore sono: protagonista e deuteragonista (secondo attore del dramma greco). I due sono i poli opposti tra i quali si svolge l’azione. Prima ancora di Tirso, il carattere sacrilego era stato avanzato in un lavoro teatrale rappresentato a Ingolstadt nel 1615. In questo testo il protagonista si limita a pigliare a calci e invitare a cena il teschio. Si comprende però che nella figura di Don Giovanni un secondo personaggio più sottile che cominci bene presto a infilarsi accanto a quella primitiva dell’incontinente seduttore. L’opera di Mozart e Da Ponte tratta uno dei due: si pone un compendio di tutti i soprasensi di cui il Settecento l’aveva caricato sottolineando il sacrilegio. Nel caso di Mozart il personaggio da negativo cambia segno e ci appare come un eroe. Il mito di Don Giovanni quasi esaurito viene recuperato da Mozart che lo porta all’avvenire. Don Giovanni senza Mozart non esisterebbe. Goldoni nel filo di tramandi ha il merito di aver reinserito Donna Anna, tolta da Moliere che a sua volta inventò Donna Elvira. Donna Anna è la congiunzione tra i due poli. Mozart è il momento di fortuna per Don Giovanni che trasmette il personaggio ai romantici. La prima fondamentale interpretazione romantica è da Hoffmann che immagina uno sdoppiamento del personaggio di Donna Anna durante l’opera. Hoffmann attribuisce segrete dimensioni, che vanno dal terribile regno del pianto infernale al lontano sconosciuto regno delle anime. Don Giovanni diventa il simbolo della solitudine dell’uomo e dell’ansia di bucare questa solitudine in comunicazione con l’altro di sé. Don Giovanni non è soltanto un volgare libertino, la natura lo aveva dotato di tutto ciò che innalza l’uomo. Ora è conseguenza triste del peccato originale. L’amore fu la trappola di cui il Demonio si servì per catturare la più nobile delle creature, Don Giovanni. Da trasgressore sacrilego si trasforma quasi in un uomo degno di compassione, che abbia patito ingiustizia, che sia stato privato d’un bene dovutogli; da eroe dell’incontinenza, per eccesso, e quindi positivo, in un certo senso fisico e biologico, se non morale, Don Giovanni diviene un melanconico eroe della privazione, romanticamente proteso alla caccia d’un irraggiungibile bene ideale. Sorge così da Don Giovanni il ribelle. La protesta di Don Giovanni si avvicina alla leopardiana protesta contro la natura, accusata di porre malignamente nell’anima dell’uomo brame che non si possono saziare, aneliti destinati a ricadere impotenti. La fortuna ottocentesca di Don Giovanni, e dell’opera di Mozart diventa il simbolo stesso della condizione umana secondo il concetto romantico, crocifissa sulla contraddizione insopprimibile tra la sua natura finita e l’infinito delle sue aspirazioni. Questo Don Giovanni finisce per stravolgersi, in mano di Hoffmann, in un eroe religioso. Il rovesciamento dialettico della figura di Don Giovanni ha luogo quando il Romanticismo lo mette in contatto con la nozione di infinito. Ciò nobilita la sua insaziabile sete sessuale. Nel Seicento a nessuno era mai venuto in mente che Don Giovanni corresse dietro a tante donne perché tutte lo lasciavano insoddisfatto nella sua ansiosa ricerca dell’ideale. Don Giovanni seduce una donna dopo l’altra così come si dice che una ciliegia tira l’altra. 61 Nessuno s’è mai sognato di fare una scorpacciata di ciliege perché ognuna lo delude, ed egli cerca sempre nella prossima la Ciliegia ideale. Per Søren Kierkegaard, Don Giovanni non è né un basso peccatore per incontinenza né un sottile dottore della trasgressione sacrilega. La sua natura essenzialmente erotica e sensuale viene isolata e proiettata fino a farne un valore assoluto. Don Giovanni non che riceva in sé qualche nota estranea ma al contrario restringendosi rigorosamente in se stessa acquista una specie di paradossale purezza: è la pura carne. L’interpretazione del Kierkegaard si riferisce in modo stretto e preciso alla musica di Mozart. Ma c’era in Kierkegaard un’intuizione profonda dell’identità tra la natura della musica e il flusso vitale. Il Don Giovanni è, per Kierkegaard, non soltanto la migliore di tutte le opere, bensì è «qualitativamente diversa da tutte le altre». Don Giovanni è l’unica opera che prenda ad argomento, ed esaurisca compiutamente, ciò che è l’«oggetto assoluto della musica», ossia l’immediato nella sua fugacità, e in particolare l’immediato sensuale che, escluso dallo spirito, la lingua non può esprimere. La musica è il demoniaco» e Don Giovanni è l’espressione, o meglio l’incarnazione del demoniaco sensuale così come Faust è il simbolo del demoniaco spirituale. La «faustizzazione» di Don Giovanni diventa, con l’Ottocento, un capitolo obbligato. Lo scrittore romantico tedesco Christian Grabbe unì i due personaggi in un unico dramma, Don Giovanni e Faust, e due «cugini» li definirà G. B. Shaw. Victor Hugo scrisse nella Prefazione del Cromwell: «Don Giovanni e Faust, questi due drammi si completano l’un l’altro. Ciò che colpisce quando si accostano questi due drammi gemelli è che Don Giovanni è il materialista, Faust lo spiritualista. L’uno ha gustato tutti i piaceri, l’altro tutte le scienze. Entrambi hanno attaccato l’albero del bene e del male: l’uno ha saccheggiato i frutti, l’altro ne ha scavato le radici. Il primo si danna per godere; l’altro per conoscere. Uno è un gran signore, l’altro un filosofo. Don Giovanni è il corpo, Faust lo spirito». Contro gli eccessi di faustizzazione ammonisce il musicologo Jean Massin, ricollocando i due simboli nelle loro posizioni che Don Giovanni è il fratello nemico, l’esatto opposto di Faust. Un altro scrittore osserva che Don Giovanni è in certo senso l’inverso di Tristano, per il quale l’amore era una sola donna, mentre per Don Giovanni il desiderio non può nemmeno fissarsi. Don Giovanni è rimasto una figura sbiadita e imperfetta finché l’umanità ci si era presa a rappresentarlo per mezzo della parola e del pensiero. La sua essenza è movimento e s’identifica col fatto della seduzione moltiplicata. Anche Faust è seduttore, ma la sua seduzione è statica e cerebrale. Questa forza sempre rinnovata di Don Giovanni, la sua elasticità, la sua perenne disposizione al movimento della conquista, coincide con l’essenza stessa della musica secondo Kierkegaard. Molto meno adatto alle possibilità della musica sembrerebbe il secondo stadio della figura di Don Giovanni, così potentemente sviluppata da Molière: quello del libero pensatore, per non dire dell’empio sacrilego quale la leggenda lo presenta. Non si può mettere in dubbio che Mozart si sia accostato al tema col consueto intento di edificazione: mostrare la triste fine a cui va incontro il dissoluto. Il titolo esatto è appunto: Il Dissoluto punito ossia il Don Giovanni. Quanto al terzo stadio dell’immagine di Don Giovanni, quello romantico, fondato sul presupposto della insoddisfazione di Don Giovanni e di un suo anelito instancabile all’infinito, alla attuazione della propria natura celeste, sembra difficile coglierne il segno nell’opera, se non nella misura saltuaria di certe fulminee introspezioni di cui la musica di Mozart è capace, sotto la leggerezza delle apparenze settecentesche. Pierre-Jean Jouve ne è il più coraggioso e sottile assertore. Cap. 2 “L’incrocio di opera seria e opera comica”: Il Don Giovanni corona definitivamente quel procedimento che si svolge lungo tutto il Settecento conducendo l’opera comica a raggiungere, se non perfino a soppiantare l’opera seria nell’importanza del suo rango sociale. I difetti del melodramma divennero oggetto d’una fiorente letteratura, vuoi di natura trattatistica e di carattere serioso, per la proposta di rimedi alla corruzione del genere. Delle go ffaggini del melodramma rideva tutta la società settecentesca. Dame, cavalieri, e anche il popolino, si facevano beffe dell’opera seria, con la ridicolaggine dei suoi «canori elefanti», ma continuavano ad affollarne con entusiasmo gli spettacoli. Il peso crescente che le critiche del melodramma venivano assumendo presso l’opinione pubblica più qualificata, in particolare gli intellettuali, accumulò lentamente le condizioni perché una riforma del melodramma venisse tentata a Vienna da Christoph Gluck, con la collaborazione del librettista italiano Ranieri de’Calzabigi. Nel corso d’un secolo «l’opera seria divenne esponente di un genere morente». per contro «l’opera buffa acquistò il potere di diventare l’opera senza aggettivi, passibile d’ogni contenuto, e con ciò di sotterrare la vecchia opera seria per sempre». Pergolesi, Piccinni, Galuppi, Paisiello, Cimarosa e Mozart sono le tappe successive di questo itinerario incrociato. Invece La buona figliola di Piccinni, Il barbiere di Siviglia di Paisiello, per non parlare del Matrimonio segreto di Cimarosa misero in ombra le pompose opere serie dei loro autori. Mozart è il punto d’arrivo di questa trasformazione, e anche di lui possiamo dire che se non avesse scritto il Mitridate, il Lucio Silla, l’Idomeneo e La clemenza di Tito, la sua grandezza teatrale, e anche la sua fama, non ne avrebbe sofferto. Nelle Nozze di Figaro viene a compimento la trasformazione dell’opera comica in commedia musicale, con il concertato d’azione, nel Don Giovanni l’osmosi di opera comica e opera seria diventa completa, in quanto si estende anche ai contenuti. Se la via dell’opera comica nel Settecento veniva a incrociare quella dell’opera seria, al contrario essa marciava parallela alla maturazione d’una personale concezione del teatro in Mozart. Il segreto di Mozart era che proprio quella trama di coscienza individuale, 62 cantanti erano al fulcro della contrattazione, prima bisognava decidere loro poi successivamente i compositori e librettisti. Molte furono le star femminili del’ 800 come la spagnola Isabella Colbran, moglie di Rossini che sicuro influenzò la scrittura; Giuditta Pasta che passò in auge nelle parti tragiche di Bellini e Donizetti; Maria Malibran celebre per l’estensione vocale. Vi fu una progressiva decadenza dei castrati, in favore di contralti e dei nuovi ruoli maschili. Si affermarono in questo periodo numerosi tenori in ruoli protagonistici come Giovanni Battista Rubini che incarnò molti personaggi belliniani; Manuel Garcià che ispiro Rossini per la parte del Conte d’Almaviva per il suo Barbiere di Siviglia. Anche il ruolo dei bassi venne modificato, evolvendosi verso il registro acuto, alla definizione dell’odierno baritono acquisendo anche una centralità spesso inedita nell’azione, Figaro è baritono. Editoria musicale ebbe un ruolo decisivo per la diffusione dell’opera in Italia con Giovanni Ricordi promotore di iniziative per la pubblicazione di riduzione per canto e pianoforte soddisfacendo sia il pubblico impegnato sia quello amatoriale. Il librettista prima lavorava in solitudine e stava poi al compositore adattare il tutto in musica, il librettista infatti viene chiamato nel ‘700 “poeta”. Solo con Rossini si modifica ciò con la collaborazione tra compositore e librettista con Gaetano Rossi, Felice Romani o Salvatore Cammarano che attendevano approvazione dei lori musicisti con però alcuni rari ribaltamenti di gerarchie come nel caso di Verdi e Francesco Maria Piave. I generi si definiscono in tre categorie: seria, come Tancredi, il Pirata, Lucrezia Borgia, Semiramide; comica come L’Italiana in Algeri, Il Barbiere di Siviglia, Il turco in Italia, La Cenerentola, L’Elisir d’amore; semiseria come Torvaldo e Dorliska, La Gazza ladra, La sonnambula e Londa di Chamouix. Non vi sono però dei confini precisi, il genere semiserio si trova in un’area grigia difficile da circoscrivere. Tra fine ‘700 e inizio ‘800 le drammaturgie buffe e serie smisero di essere alternative, per avere un lavoro semiserio bisogna avere un argomento di carattere serio con i personaggi impostati secondo il carattere dell’opera buffa, delineando quindi una perfetta aria grigia tra i due generi predominanti. L’opera buffa riprese i temi settecenteschi raggiungendo in alcuni casi esiti farseschi da teatro dell’assurdo come Rossini dove si trova comunque un esotismo convenzionale come L’Italiana in Algeri e alcune volte invece si trovano inflessioni sentimentali esplorate da Rossini La Cenerentola e codificate da Donizetti L’Elisir d’amore. L’opera serie invece acquisì progressivamente il finale tragico, destinato a costante negli anni Trenta del’800, con Bellini si ha una consacrazione alla conclusione tragica. Di pari passo all’appropriazione del couleur locale, delineato da Hugo, si passa alla esigenza di caratterizzare i luoghi e la realtà, si passa prima alle scenografie per andare poi alla musica, dove La traviata del ’53 di Verdi ci fornisce una pittura d’ambiente davvero realistica. I soggetti dell’800 continuano ad essere quelli del Settecento ma molti di questi cominciano a colorarsi con un romanticismo pop che adatta alle esigenze del grande pubblico i principali autori dello scenario europeo come per esempio le influenze di Shakespeare per il Falstaff. L’opera moderna divenne così possibile dall’unione del grottesco con il sublime, in netta opposizione per Hugo all’uniforme semplicità dell’epoca antica. Fu Verdi a rendere davvero possibile il passaggio a partire da figure non necessariamente belle, secondo i principi estetici tradizionali ma memorabili per i contrasti interiori come nella figura di Rigoletto. La morfologia dell’opera italiana del primo Ottocento è caratterizzata da un forte grado di codificazione, i livelli sono tre: articolazione generale, due o tre atti generalmente che catalizzano la tensione drammatica nel finale centrale; articolazione degli atti, struttura a numeri chiusi dove ognuno risponde a precide logiche sintattiche, ciò può consistere in pezzi solistici, duetti, terzetti, cori e concertati. Il primo è sempre introdotto da un brano strumentale detta sinfonia; articolazione dei numeri, i singoli pezzi sono in genere caratterizzati da un’alternanza tra momenti cinetici e statici: i primi esprimono un movimento nell’azione o nell’interiorità dei personaggi, i secondi fissano e contemplano lo stato emotivo arrestando il tempo, si delinea quindi la solita forma articolata in recitativo, tempo d’attacco, cantabile, tempo di mezzo e cabaletta. Questo si arricchisce di ulteriori articolazioni nei concertati e in chiusura di atto, nel finale centrale di solito non manca il pezzo nel quale culmina la staticità di tutta l’opera, il cosiddetto largo concertato che produce un improvviso arresto dell’energia cinetica in una pagina che immobilizza i personaggi in una scrittura fissa, ciò ha il compito di esprimere lo stupore per un evento inaspettato. Le sezioni statiche sono spesso in lyric form vale a dire una forma che organizza coppie di versi in questo modo: A-A’-B- A’’ nei cantabili e A-A’-B-C nelle cabalette. Numerose però sono le forme difettive, senza cabaletta o cantabile oppure le manipolazioni dei tempi . A partire dalla metà del’ 800 il lavoro sulla forma smette di avere una semplice dimensione ludica. Le opere mature di Verdi dimostrano l’utilità delle modifiche morfologiche. Di Rossini (1792-1868) ci sono letture contrastanti come Hoffmann che lo disprezza e come Kieseweter che ne riconosce il valore di un artista globale. Si parla di Codice Rossini per parlare dello standard drammaturgico che lo caratterizzò. La fama arriva fin da giovane dove già a diciotto anni gli vengono commissionate dalla Scala e La Fenice alcune opere. A vent’uno grazie alla doppia esperienza veneziana con L’Italiana ad Algeri e Tancredi si può già definire compositore affermato, la piazza più difficile, Napoli, lo volle per sette intere stagioni. Così via una serie di numerose opere tra cui il Barbiere di Siviglia, La Cenerentola, Gazza ladra e Semiramide. Il successo di Rossini fu terapeutico per la crisi vissuta dall’opera italiana nel primo decennio dell’Ottocento, morto Cimarosa e Pasiello in 65 stasi nessun autore sembrava in grado di trovare nuove soluzioni. I punti di riferimento di Rossini sono il canto acrobatico settecentesco, il teatro di Mozart e la drammaturgia di Paisiello. Rossini riprese la ricerca tutta italiana sulla vocalità e sulle colorature dando una nuova fisionomia al vocalizzo. Se per Mozart il fissaggio della psicologia dei personaggi nel loro flusso vitale è predominante, in Rossini diviene uno strumento della gestualità e della parola intesa come entità sonora. Paisiello viene recuperato con l’alternanza tra orchestra e canto alla guida del materiale musicale, la ricerca di uno stile vocale vicino a quello della conversazione e infine alla concezione ludica del dramma, inteso come gioco della finzione. Numerose sono le caratteristiche condivise da genere buffo e serio nella produzione di Rossini: la morfologia basata sull’architettura della “solita forma”, una vivacità ritmica che spesso conquista l’attenzione dell’ascoltatore ancor prima del tessuto armonico-melodico, alternanza di momenti cinetici e statici dei concertati conclusivi, l’orchestrazione brillante che tende a culminare nel caratteristico crescendo. Ciò crea un’intercambiabilità dei materiali. Rossini gioca con i generi già da L’Italiana ad Algeri. L’opera buffa è mossa da una gestualità che si fa musica, con obiettivo quello di creare un flusso energetico in continua crescita tensiva. La predilezione per la componente sonora della parola è resa dall’ossessivo utilizzo delle ripetizioni, di materiale verbale e insieme musicale che interrompe il flusso vitale. I personaggi diventano marionette folli e lo spettatore è portato a prendere le distanze da ciò che succede in scena reagendo con la risata, la difesa per eccellenza. Il genere serio ricorre molto meno alle ripetizioni e ai processi meccanici, privilegiando la ricerca vocale al fine di creare precise identità melodiche. È l’estensione dei concertati a distinguere maggiormente la produzione seria da quella buffa. L’opera risente delle tante caratteristiche imprescindibili per il pubblico francese del tempo: il coro come personaggio agente e figura onnipresente, una cera audacia armonica, sfrondature evidenti nella coloratura melodica, orchestrazione ricercata e ballabili di un certo rilievo. Intorno al 1830 l’opera italiana attraversò una svolta decisiva. La conclusione della parabola rossiniana coincise con gli esordi di Bellini e Donizetti, l’epoca determina l’apogeo del genere serio con la stabile affermazione dei finali tragici. I soggetti iniziarono a essere solidamente romantici o al massimo neoclassici ma prettamente romantici nei contenuti. Si ha il predominio della passione individualizzata con l’amore rappresentato nella sua componente irresistibile che divenne il fulcro della maggior parte delle opere. Ciò produsse un superamento della finzione. Nei lavori di Bellini e Donizetti si ha l’impressione che venga meno il diaframma tra personaggi e pubblico, favorendo un processo di identificazione inesplorato dalle generazioni precedenti. I principali cambiamenti toccano il sistema vocale, l’astrazione dei registri rossiniani diventa inadeguata ad esprimere la maggior complessità psicologica. Viene superato il ruolo del contralto maschile a favore del tenore, costruendo quel triangolo formato da soprano-tenore- baritono. Si definisce anche una maggior colorazione al soprano che diventa leggero, lirico o drammatico e si favorisce l’apparizione stabile del baritono nel ruolo del personaggio cattivo utile per l’epilogo tragico. Tra i compositori che hanno lasciato un segno vi sono: Pacini, Mercadante, Vaccai, Donizetti e Bellini. Vincenzo Bellini (1801-1835) completa la formazione al Conservatorio di Napoli, il successo arrivò nel 1827 con Il pirata ciò portò alla collaborazione stabile con il librettista Felice Romani, che si prolungò per i successivi La straniera, Zaira, I Capuleti e Montecchi, La Sonnambula, Norma e Beatrice di Tenda. Bellini fu tra i primi a dedicare attenzioni alla valorizzazione dei lavori già completati evitando frenetiche corse per proporre nuove partiture. Fortuna di Bellini è dovuta alla straordinaria maestria nel disegnare melodie memorabili. Quattro sono i principali procedimenti adottati da Bellini: irregolarità fraseologica al principio classico della simmetria tra le varie frasi che compongono una melodia, Bellini sostituisce un sistema misto che alterna elementi proporzionali ad articolazioni imprevedibili, la frase irregolare ospita il culmine dell’arco melodico; armonia ritardante la costruzione delle melodie in Bellini è collegata alla concatenazione armonica dell’accompagnamento, la soluzione è la definizione di un percorso che ritarda le risoluzioni, favorendo la maggior dilatazione della melodia. Dissonanze tra canto e basso molto spesso sui tempi forti della battuta, Bellini imposta forti dissonanze tra la melodia e le note del basso, urti vengono risolti dal canto producendo appoggiature o piccole fioriture che portano alla risoluzione della dissonanza; alleggerimento della coloratura il vocalizzo tende a essere sfrondato da Bellini che predilige in genere melodie lineari e meno frastagliate. Se compare una intensità tende a rifiutare sia la funzione energetica delle colorature rossiniane sia la dimensione decorativa della tradizione settecentesca. L’atteggiamento scientifico nell’ideazione della melodia è anche figlio di una ricerca particolarmente raffinata sul testo ciò possibile con una collaborazione stretta tra compositore e librettista. Sul piano morfologico le opere di Bellini non rinunciano certo all’architettura della solita forma ma tende a polarizzare l’attenzione sul cantabile che si catalizza di emozioni estreme. Vi è una predilezione per i tempi lenti che anche nei finali limita l’accelerazione solo alle poche battute della stretta consegnando alle melodie cantabili il compito di risolvere le tensioni del dramma. Donizetti (1797-1848) inizia con lavori minori, dal debutto a Roma del Zaraida di Granata al successo a Milano che riprese Parigi e Londra alla volta di Milano con L’elisir d’amore del ’32 e Lucrezia Borgia del ’33, a Napoli invece 66 esordì nel ’35 Lucia di Lammermoor per trasferirsi poi a Parigi e scrivere opere per il gusto parigino e infine l’incarico a Vienna. Scrive un quartetto di opere rimasto stabilmente nei cartelloni teatrali Lucia di Lammermoor, La Favorita, L’elisir d’amore e Don Pasquale. Donizetti ebbe il merito di assimilare e parlare tante lingue musicali diverse. La prima fase della sua produzione fino a Anna Bolena è marcata dall’influenza di Rossini dove le opere fanno uso della solita forma cercando la via dell’originalità più nell’invenzione della melodia che nella rielaborazione dell’architettura preesistente. Padroneggiò anche la lingua del coetaneo Bellini acquisendone la predilezione per i cantabili e i concertati di fine atto con doppio climax. Egli assimila anche i generi francesi come l’opera comique e il grand opera, in esempio L’elisir d’amore che recupera tratti dell’opera comique con pezzi che riprendono la forma francese a ritornelli. Vi sono tratti stilistici originali in Donizetti come la ricerca di una maggior compassione nell’opera buffa, ciò si palesa nella ricezione dello schiaffo che Norina tira a Don Pasquale per esempio cosa che in Rossini sarebbe finita con una grande risata qui finisce con la commiserazione di Don Pasquale. Un altro aspetto distintivo di Donizetti è la predilezione per l’isolamento tragico dei protagonisti che di solito raggiunge il culmine proprio alla fine dell’opera, evidente in Anna Bolena ed estremizzata in Lucia di Lammermoor che si conclude con il doppio isolamento degli innamorati che muoiono separati. Vi è il topos della scena di follia tipica ottocentesca ripetuta anche in Lucia di Lammermoor che interrompe la festa nuziale con le mani insanguinate (ha ucciso il marito nel sonno), nel suo sguardo ella brucia la folla e Donizetti rende attraverso un modernissimo declamato parlante. Giuseppe Verdi (1813-1901) si affermò fin da giovane a livello internazionale, egli fu un uomo del Risorgimento Italiano, le storia di popoli oppressi del Nabucco, nei Lombardi alla prima crociata o nell’Attila furono immediatamente interpretate come rappresentazioni simboliche di un’Italia in cerca di sé. Verdi fu la voce del pensiero patriottico. Era il suo teatro a fare gli italiani, rendendo l’unità culturale la prima causa dell’unità politica. Verdi si identifica più come uomo di teatro che musicista. Egli utilizza tutti gli strumenti a disposizione per ottenere il massimo effetto teatrale. Il processo compositivo di Verdi partiva da un’idea drammatica centrale la quale plasmasse l’opera, il motore di un’invenzione capace di generare un sistema in cui tout se tient lasciando allo spettatore una sensazione organica. Impressione di compattezza generale non esclude affatto il ricorso alla nozione di contrastro che è quasi sempre il primum movens della drammaturgia verdiana, le opposizioni si ricompongono all’interno di un sistema di forze che è generato dall’idea fondamentale. A ciò si collega il concetto di tinta spesso citato dallo stesso Verdi per definire la prima fase della creazione: il colore generale da assegnare alla partitura lavorando sulla strumentazione. Massima attenzione è il risultato teatrale maturò anche grazie a una intensa frequentazione dei lavori in prosa ammirati proprio per la capacità di raggiungere in maniera diretta l’emotività del pubblico. Ciò è focalizzata nella parola “parola scenica” intesa come espressione capace di scolpire e rendere netta una determinata situazione. La recitazione in prosa stimolò a Verdi la ricerca sul declamato utile ad esprimere la psicologia di personaggi complessi. Verdi usa un declamato cantabile molto lavorato su intervalli e cadenze con la finalità di raggiungere un livello espressivo inesplorato. L’esplorazione approfondita del declamato ebbe una conseguenza anche sulla morfologia dell’opera verdiana, in particolare la capacità plastica di seguire la dinamica emotiva dei personaggi senza la necessità dell’aria chiusa. Segue quindi un maggior interesse per le forme aperte che iniziarono a liberarsi dalle articolazioni standardizzate di inizio Ottocento. Verdi cerca nuove strategie: in Rigoletto (’51) lavora sulle forme aperte ma ne Il Trovatore (’53) lavora sulle strutture chiuse. Verdi piega la morfologia alle ragioni del dramma, trovando un’inedita convivenza tra forme aperte e chiuse nell’Otello e nel Falstaff. Principio drammaturgico guidò anche l’introduzione sistematica del brutto e del deforme nell’opera italiana. L’ideale estetico professato da Hugo trovo solo in Verdi l’interprete convinto. Ricerca del caratteristico divenne priorità favorendo lo sfruttamento di materiali musicali poco nobili come nelle arie del Duca in Rigoletto ricche di elementi triviali che caratterizza un personaggio nobile solo sulla carta. Tra il 1839 e il 1859 Verdi scrive 24 opere, anni “di galera” caratterizzati dall’esigenza di comporre. In questi anni produce: Oberto, Conte di San Bonifacio, Un giorno di regno, Nabucco, I Lombardi alla prima crociata, Ernani, I due Foscari, Giovanna d'Arco, Alzira, Attila, I masnadieri, Jérusalem (versione parigina de I Lombardi), Il corsaro, La battaglia di Legnano, Luisa Miller, Stiffelio, Rigoletto, Il trovatore, La traviata, Les vêpres siciliennes (I vespri siciliani), Simon Boccanegra, Aroldo (rifacimento Stiffelio), Un ballo in maschera. Spiccano per il moderno dramma romantico Ernani e Macbeth, il primo, soggetto di Hugo, convinse per la sua “tinta” unitaria, fosca e sinistra nella rappresentazione di un sovversivo costretto al suicidio per rispettare il patto stretto con il rivale d’amore. Vi è in questa opera uno scarto verso il grand opéra derivato da aspetti come: un coro funzionale al dramma e meno decorativo e un interessante terzetto finale fatto di emozioni contrastanti che rifiuta la convenzione francese di chiudere l’opera con una pagina solistica. Macbeth segna un primo importante avvicinamento al tema del fantastico, delineato grazie alle due streghe e al ruolo principale che Lady Macbeth dà nel sfogare le sue inquietudini represse. A differenza della Lucia di Lammermoor di Donizetti che esprime il delirio rifugiandosi in una realtà armoniosa piena di ricordi piacevoli, Lady Macbeth butta fuori tutti i suoi rimorsi come se aprisse il Vaso di Pandora della sua psiche 67 ricerca sul piacere prese poi spesso la direzione della sensualità femminile, nelle opere francesi del secondo Ottocento sono le donne ad essere al centro della vicenda. L’aspetto della tentazione erotica precedentemente era rimasto secondario. La Francia dopo le disfatte per mano di Bismark vede nella figura maschile una perdita di potere che ritorna nella figura della femme fatales insensibili, ciò viene dimostrato con Bizet che mette in scena nel suo Carmen una gitana sinistra che usa tutto il suo charme per abbindolare gli uomini. Su tutta questa produzione aleggiò lo spirito di Wagner che influenzò numerosi compositori francesi, tutte le opere francesi tranne Carmen secondo Nietzsche avevano subito l’influenza wagneriana. L’opera dell’Ottocento: Germania In aria tedesca il teatro musicale all’inizio dell’Ottocento manifestava legami con il Singspiel basato sulla mescolanza di recitazione e canto popolare. Mozart era riuscito a emancipare il genere dall’etichetta di secondario. Fu Weber ha raccogliere l’ereditarietà del Singspiel con la pietra miliare dell’opera tedesca ovvero Franco cacciatore del ’21 su un soggetto ispirato alla leggenda popolare. Weber era il cugino della moglie di Mozart. L’apprendistato presso Volger, attivo nella corte di Mannheim, famosa per la sua grande orchestra, lo porto allo studio dell’orchestrazione che poi Weber avrebbe usato per dare una sfumatura alle sue opere. Vogler avvia Weber nella stesura di musiche di scena per fiabe esotiche come i Turandot del 1809. Weber dopo il suo capolavoro continuo a lavorare a opere esotiche segue il lavoro su un soggetto spagnolo e poi africano. L’opera Franco cacciatore suscitò attenzioni tanto da arrivare a musica popolare. Le sue arie si radicarono nella cultura collettiva tanto da esserne assimilate in maniera definitiva. Fu anche questo processo a favorire la fondazione di un’opera nazionale romantica. Weber nell’opera ricorre spesso alla dialettica beethoveniana tra forze opposte ammirata dai romantici, in particolare tra il contrasto tra luce e oscurità. Molti intellettuali trovano nell’opera una perfetta rappresentazione teatrale della sensibilità romantica. In particolare, il codice dei suoni ambientali, il respiro della natura esplorato da Schubert rimasto valido fino alle sinfonie di Mahler. Vi è una spazialità musicale data dell’eco che oltre ad essere un canale per arrivare al mondo naturale e anche un passaggio per intravedere il mondo fenomenico dell’aldilà. Weber usa ogni strumento a sua disposizione per dare l’immaginazione allo spettatore. Alcune visioni così romantiche disturbano alcuni dei primi spettatori, nel ’18 Hoffmann aveva messo i compositori dell’eccessiva fedeltà alle immagini evocate dei testi, troppo vincolanti per la fantasia dell’autore e contro la frase di Beethoven nella Pastorale “non pittura ma rappresentazione dei sentimenti”. La rivoluzione più traumatica del teatro musicale tedesco fu operata da Richard Wagner (1813-1883) nella seconda metà dell’Ottocento. I punti di riferimento furono due: l’opera romantica di Weber e il teatro spettacolare di Meyerbeer. Nel suo soggiorno in Svizzera Wagner cominciò a meditare su teoria e pratica di un melodramma innovativo . Wagner decide di dar vita all’ambizioso progetto di battezzare una nuova forma di teatro, basata sugli archetipi collettivi della mitologia germanica e sull’innovativa coincidenza tra poeta e compositore. Ciò venne poi presentato trenta anni dopo con L’Anello del Nibelungo presso il Teatro di Bayreuth del ’76. Il teatro è creato apposta per collocare le opere di Wagner. Il lavoro era stato interrotto da due opere animate da temi complementari: il tragico desiderio di morte di Tristano e Isotta del ’65 e la goliardica rievocazione del medioevo germanico con Maestri cantori di Norimberga. L’opera d’arte dell’avvenire fu teorizzata per rimediare a un errore rinvenuto da Wagner alle origini del melodramma: “di un mezzo dell’espressione (la musica) si è fatto lo scopo, ma dello scopo dell’espressione (il dramma) si è fatto il mezzo”. La musica deve tornare a essere solo uno strumento per raggiungere la vera finalità dello spettacolo musicale, ovvero il dramma. Secondo Wagner il primo genere è il canto popolare che ripreso dai nobili ha scisso primordialmente musica e testo destinata a culminare nel teatro di Rossini. I più vicini a recuperare questa scissione sono, secondo Wagner, Weber e Meyerbeer. Il primo avrebbe raggiunto con maggiore consapevolezza sul problema recuperando la musica salvo poi rassegnarsi a vedere appassire la musica. Il secondo invece avrebbe cercato una soluzione iniettando nella partitura la linfa della musica sacra, costruita al di fuori del dramma. La soluzione per il raggiungimento del dramma unitario basato sull’equilibrio perfetto di musica e testo consisteva in una sorta di amplesso tra le due componenti: la poesia doveva farsi musica, esattamente come la musica doveva farsi poesia. Il raggiungimento dell’equilibrio richiedeva un’attenta ricerca sul testo che doveva rinunciare a tutte le strutture precostruite della metrica classica. Il risultato doveva essere una sorta di prosa poetica. La combinazione tra le due componenti fu definita da Wagner come “fono risonante” inteso come sentimento interiore incarnato che acquisisce la materia sonora. Il nuovo dramma musicale doveva rappresentare il divenire dei sentimenti, rifiutando tutti gli schemi rigidi della tradizione melodrammatica. Nelle opere mature di Wagner gli atti sono costruiti da episodi che scivolano l’uno dentro l’altro. A unire ciò c’è la melodia che riflette il pensiero poetico in maniera ininterrotta, la “melodia infinita”. La mescolanza tra piani cronologici differenti è possibile con i motivi conduttori (Leitmotiv) ovvero brevi unità musicali che identificano un personaggio, un oggetto o un concetto. La melodia secondo Wagner non va disgiunta dall’armonia, se la prima corrisponde alla superficie in movimento dell’acqua, la 70 seconda è invece da associare alla profondità che si estende al di sotto. Le due sono fatte della stessa materia. Ogni successione di accordi in Wagner crea nell’ascoltatore aspettative destinate alla frustrazione. La vera risoluzione arriva davvero solo a fine opera, dopo che le divagazioni armoniche hanno alimentato una tensione estenuante. Condizione essenziale del nuovo teatro musicale per Wagner è il ricorso al mito, il modello era ovviamente la tragedia greca considerata la rappresentazione artistica di una coscienza collettiva. La scelta di Wagner è quella di psicoanalizzare il mito individuandovi la pura umanità annientatrice dello Stato. Vi è la lettura del mito inteso come inconscio distruttivo di leggi innaturali della civiltà. Ultimo passaggio del percorso rivoluzionario è teorizzato nelle opere estetiche che dovevano consistere nell’estrema ritualizzazione dello spettacolo operistico. Wagner immaginò un rito moderno, da svolgere in un tempio (Bayreuth). Tutto andava lasciato alle mani di un solo demiurgo che doveva pensare a tutto. Il sottotitolo “opera romantica” compare in tutti i lavori composti da Wagner tra il 1883 e il 1850, i soggetti sono senza dubbio molto romantici nei temi. Vi sono: Le fate del ’34 riprende una vicenda fiabesca scritta da Carlo Gozzi, L’olandese volante del ’43 ispirato a un racconto sovrannaturale di Heine, poeta romantico, Lohengrin del ’50 che racconta la storia di un amore impossibile. Un tema ricorrente nelle opere successive comincia a delinearsi in maniera netta, la redenzione dell’uomo grazie al sacrificio di una donna. Wagner era alla ricerca di una figura redentrice che fosse la quintessenza della femminilità. Musicalmente si palesa la fusione di vecchio e nuovo, con il taglio delle melodie che ha spesso una fisionomia sufficientemente scolpita per dare vita a un Leitmotive. Alcuni pezzi chiusi guardano il melodramma italiano, altri invece no. Ma allo stesso tempo Wagner dilata le proporzioni delle singole sezioni cercando nuovi orizzonti formali. L’orchestrazione comincia a esplorare terreni sconosciuti, creando una straordinaria scenografia nella quale ci sono i personaggi. Il successo del Rienzi fu dovuto principalmente al taglio generale dell’opera allineata alle consuetudini del grand-opéra francese alla Meyerbeer. L’orchestrazione tenta sesso di restituire l’impressione del remoto, ciò che colpisce è la spettacolarità sonora. Il cantiere su Tristano e Isotta fu aperto nel ’54 ci vollero undici anni per la costruzione dell’opera, l’idea iniziale era quella di lavorare sul binomio amore-morte. Le parole pronunciate da Isotta, alla fine dell’opera esprimono una ricerca che valica i confini della musica e del teatro. Tutto il Tristano esiste in funzione di questo momento, di una flessione musicale che cerca di avvicinarsi alla filosofia. L’influenza di Schopenhauer fu decisiva per la stesura dell’opera. Storia di Tristano e Isotta era perfetta con quei due personaggi che sembrano in caduta libera verso il nulla. La tensione verso il nulla è allineata al pessimismo di Schopenhauer resa alla grande dalla ricerca sull’armonia cromatica. Complementare è l’opera Maestri cantori, la prima idea è del ’45 quando Wagner legge un testo di Gervinus. Wagner era intenzionato a scrivere un’opera comica, ero ebbe bisogno di ventidue anni per portare a compimento il progetto (’67) il risultato finale non è certo disimpegnato. Nell’opera i principali Leitmotive appaiono in una fitta trama che alludono alle costruzioni polifoniche dello stile antico. L’intento di Wagner è quello di risalire alle origini della cultura tedesca evocando il linguaggio musicale della tradizione luterana. Vi sono dei riferimenti storici e riferimenti espliciti al conflitto contro la Francia. Ci vollero ventisei anni per portare a compimento l’Anello di Nibelungo, il ciclo di opere composte da Oro del Reno, La Walkiria, Sigfrido e Crepuscolo degli Dei. La prima idea compare in un saggio filosofico del ’48. Il lavoro doveva portare alla stesura di un dramma intitolato Morte di Sigfrido ma Wagner si accorse che il personaggio era troppo legato ai suoi antenati. La vicenda da dei riferimenti come la perdita di controllo sull’ordine sociale che viene vista come un sinonimo degli ideali anarchici di Bakunin. Nietzsche nell’anello la celebrazione delle amoralità pagana e precristiana riconoscendo nelle pulsioni istintive dei personaggi una perfetta rappresentazione della sensibilità dionisiaca. A ciò si ricrede quando ascolta il Crepuscolo degli Dei quando la distruzione dell’universo politeista viene associata al Leitmotiv della redenzione. Bernard Shaw ha dato l’interpretazione marxista, individuando nella tensione tra nibelunghi e giganti una metafora della società contemporanea dove i primi, alleati degli dei, sarebbero i capitalisti mentre i secondi sarebbero i lavoratori che subiscono le angherie dei ceti superiori a ciò l’anarchico Sigfrido dovrebbe essere il capo della rivoluzione finalizzata al ribaltamento dell’ordine sociale. Ciò non si adatta però molto bene con la storia, Sigfrido muore nel finale e non sancisce affatto la vittoria degli ideali rivoluzionari. Adorno ha letto nella retorica militare della Cavalcata delle Walkiria (per esempio) e nazionalistica di molte pagine come prefigurazione del nazismo. Mann insiste su una mitologia fondamentalmente apolitica basata sull’utopistico ideale di una società senza classi. Allusione velata al risveglio del mondo sotto la protezione rassicurante del messaggio cristiano si coglie nel finale del Ring e si prolunga nell’ultima opera di Wagner: il Parsifal. Qui non è più la donna a riscattare l’uomo con il sacrificio ma è un uomo al di sopra degli altri, imago Christi e attrezzato per resistere alla tentazione femminile, eroe in grado di portare la salvezza nel mondo. 71
Storia e Tecnica del Melodramma,
Appunti di Musica Università di Torino
Musica
STORIA E TECNICA DEL
MELODRAMMA Melodramma nasce a Firenze nel 1600 con Euridice di Peri (autore) e Rinuccini (compositore) e le caratteristiche principali sono quelle di essere nata in un’ambiente di corte, quindi legato ad un evento straordinario come un matrimonio, per cui caratterizzato da uno spettacolo sontuoso e con pubblicazioni della stampa (memoria). Per Euridice l’evento alla base dell’opera è il matrimonio tra Maria, regina di Francia e Enrico IV. A Venezia nel 1637 nasce il Teatro d’Impresa, la forma più diffusa del melodramma. Il modello veneziano è caratterizzato da un evento commerciale, ripetibili con rischi finanziari alla cui base vi è un evento effimero, ciò cambia le regole dello schema produttivo. Se l’opera non va bene deve essere sempre rimpiazzata, “Il Barbiere di Siviglia” opera di Rossini, nasce come opera tappa buco. Secondo Ottarelli (in un testo del 1652) vi sono tre categorie di opere in musica: Commedie fatte nei palazzi dei principi Euridice di Rinuccini Opere per i cittadini aristocratici e intellettuali Orfeo di Monteverdi Mercenarie e drammatiche rappresentazioni musicali Venezia Teatro delle origini (1600-1637) Il melodramma delle origini ha numerose caratteristiche: Le fonti sono attendibili, per via dell’utilizzo promiscuo della stampa la ricerca delle fonti primarie è fattibile Non vi è un luogo preciso dove svolgere le opere e nessun luogo “adatto” alla rappresentazione, ci si arrangia e il compositore si arrangia ed entra a compromessi con le scelte. Esempio: Teatro Farnese di Parma che con la sua pianta a U non permette la perfetta concertazione per via della scarsa qualità acustico, creando inoltre una problematica spaziale per l’orchestra L’orchestra è caratterizzata da un organico piccolo, dove vi è il continuo dominio del Basso Continuo creato a sostegno della parola tramite l’uso della Chiorma e del Chitarrone. I soggetti alla base delle opere sono soggetti mitologici dovuti alla strana origine del melodramma, soggetto adeguato ad un genere “antirealistico”, Orfeo non è solo mito ma cantore, egli infatti canta alle fere per entrare all’Inferno. Finale monolitico diviso in bene o male, spesso lieto fine ma non rigoroso. L’Orfeo di Monteverdi presenta una doppia versione: con un lieto fine, che non segue l’andamento della storia, e quello con il finale tragico. Ciò è pervenuto anche fine a Rossini, L’Otello di Rossini ha due versioni. Verosimiglianza, il cantante deve Recitare Cantando avvicinandosi sempre di più verso la parola, seguendo la Spettacolarità, il quale va verso l’innovazione scientifica e l’uso delle macchine sceniche No alla Versificazione Complessa, che facilita l’uso del Recitare Cantato Euripide (Firenze, Peri – Rinuccini, 1600) Audio 1-2 Playlist Alla base dell’opera vi è lo sposalizio di Maria, Regina di Francia e Navarra ed Enrico IV. L’introduzione all’opera è un’excusatio no pentita dove Rinuccini giustifica (la prima) opera in tre parti: la prima fa partire l’opera dalla derivazione classica greca della tragedia, dove l’opera veniva cantata; la seconda e la terza scusano il ribaltamento del finale, da una parte vi è il troppo ardore tragico non adatto al matrimonio e dall’altra segue le orme di Sofocle, che modifica il finale di Aiace. Non vi è volutamente nell’opera uno stato emotivo troppo forte. Opera si apre con un breve brano di introduzione musicale. Il prologo inizia con le parole del “La Tragedia” (figlio della parola) personaggio che rappresenta l’origine di tutto. Il rapporto parola e musica è a favore della parola, delineato dal canto sillabico (declamato, dove ogni sillaba corrisponde una nota) ciò rende più chiaro all’ascoltatore il testo, il canto si avvicina al parlato ed è perfettamente strofico. La musica fa da cornice tra le strofe e non prende troppa attenzione. Opera segue il predominio della parola. Orfeo (Mantova, Monteverdi – Striggio, 1607) Audio 3-4-5 Playlist Destinato alla corte intellettuale. L’opera non rivede il mito di Orfeo. Vi è un’esasperazione dell’ambiente tragico. Opera si apre con la “Toccata dell’Orfeo”. Nel prologo, in questo caso, parla la “Musica” come personaggio, dove delinea in parola che l’opera toccherà sentimenti “ora lieti, or mesti”, escludendo quindi l’obbligo del lieto fine. A differenza dell’Euridice vi è un uso maggiore del vocalizzo (totalmente assente in Euridice) inseriti a fine verso e quando la parola si capisce meno, il vocalizzo depotenzia la parola, lasciando nel prologo e quindi nell’opera il 1
dominio alla musica, protagonista
del discorso. Monteverdi segue la strada della musica delineando un sostanziale cambiamento che determinerà il predominio della musica. L'Orfeo modifica gli equilibri fin da subito nel dramma. Vi è presente un momento solistico “Possente spirto”, questo è il momento topico ovvero quando Orfeo scende negli Inferi e deve convincere Caronte a farlo passare. Fin da subito Orfeo usa parole di affetto verso Euridice. Dal punto di vista formale il testo è tripartito da due sestine ( sei endecasillabi con schema ABABCC) e una settima, musicalmente ci aspetteremo che Monteverdi seguisse le sillabe invece articola il modello musicale in traversi in traversi. Il pezzo di componimento si può dividere in tre parti: 1)Da “Possente spirto a “presume”: l'inizio è un recitativo che progressivamente raggiunge la via melodica, musicalmente inizia e poi si struttura con due violini che rispondono in eco. 2)Da “non viv’io” a “seco”: vi è una progressiva esasperazione nel vocalizzo, dove il numero di note esplode all'inizio della terza strofa, si presenta il canto acrobatico dove la musica domina sulla parola. I vocalizzi estremi sono dovuti dal testo e dalla richiesta impossibile che Orfeo chiede a Caronte, l'uso del vocalizzo ha un effetto quasi ipnotico e l'uso del canto acrobatico è ciò che dimostra la extra terrenità, permettendo di dimostrare a Caronte che Orfeo è sì un uomo ma con capacità sovraumane. 3)Da “Orfeo” a “s’impetra“: il primo pezzo è un’esaltazione di ciò detto in precedenza, vi è però, continuando ad ascoltare l'opera, un ritorno al canto sillabico dovuto a un ritorno ad essere umano di Orfeo, evitando così di essere tracotante con Caronte. In termini retorici vi è un percorso strutturato che passa dal canto sillabico al vocalizzo e ritorno al canto sillabico, dove nel complesso la scelta tra musica e parola è dettata dal contesto. L'effetto eco generale ha una spiegazione simbolica derivata al reparto sacro. Monteverdi cambia orchestrazione in ogni strofa, ciò delinea un pensiero drammaturgico che permette l'uso della totale orchestra quasi per dimostrare a Caronte che Orfeo possa utilizzare qualsiasi strumento. L’Orfeo presenta due finali: il finale tragico (Audio 8) del 1607 non ha lo spartito e si rappresenta con la pantomima; il finale buono (Audio 6-7), dove Apollo consola Orfeo, è stato presentato per i Gonzaga nel 1609, l'unico con lo spartito. Il finale dionisiaco è della prima rappresentazione mentre quello apollineo è per i destinatari e per l'uso dello spazio, più ristretto, per la rappresentazione. Teatro Impresariale (1637- prima metà del ‘700) Vi è il testo di Benedetto Marcello del 1720 Il teatro alla moda, o sia metodo sicuro e facile per ben comporre ed eseguire l’Opere italiane in musica all’uso moderno dove nel capitolo dedicato agli impresari l’autore allude al risparmio estremo dei nuovi organizzatori su scenografie, orchestre e librettisti per investire un’importante parte del budget sui cantanti, ovviamente la qualità acrobatica del cantante era un’importante punto a favore. L’uso del teatro era stagionale, si assisteva alla prima e alle repliche. Il pubblico non era molto interessato alla storia, sentiva solo le arie più acrobatiche dei cantanti. Vi era l’uso dei ruoli fissi, con i cantanti che erano abituati al loro ruolo come la prima donna sempre in lacrime e l’eroe che non conosce la paura. Il teatro impresariale è un teatro basato sulle regole del marketplace, è un’epoca dove teatri sono punti di ritrovo e sullo sfondo vi sono la convivialità e l’ambiente mondano. A livello strutturale il teatro aveva una illuminazione costante a cui seguivano l'ottica dei ruoli fissi e la predilezione per l'aria. Con l’attenzione alle voci acute e la polifonia che necessitava l’utilizzo delle voci acute, non permesse alle donne per un’errata lettura della Prima Lettera ai Corinzi nascono i primi castrati. Ciò è dovuto all'incontro tra Girolamo Rosini e Papa Clemente VIII anche se antecedente le prime scelte furono le voci bianche poi successivamente (nel ‘500) i cantanti spagnoli cosiddetti spagnoletti, ovvero dei falsettisti. Il castrato favorisce l'uso dei vocalizzi nei testi, per via del fatto che per evirazione i castrati hanno una glottide molto piccola hanno bisogno di meno aria per cantare, e porta in parte alla degenerazione del melodramma in un totale asservimento alla mercé del cantante. I più importanti furono Senesino (Francesco Bernardi) e Farinelli (Carlo Broschi), entrambi fecero parecchio furore a Londra con Händel e il secondo si mosse alla corte di Filippo V di Spagna e dovette con Carlo III ritirarsi dalle scene a Bologna, non potendo nella citta natia (Napoli) per via della dominazione spagnola, incontra alla fine Mozart nel 1770. In questo teatro il librettista e compositore sono figure secondarie che devono seguire un iter burocratico che li portano ad essere oggetto del cantante. La logica del tempo era basata sulla spettacolarità. Prima Riforma del Melodramma – Apostolo Zeno (1668-1750) Audio 9-10-11 Playlist 2 Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! SCARICA Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! SCARICA
La composizione più sfruttata in
ambito religioso è la messa. Il genere si cristallizzò in due tipologie: la messa in stile moderno o napoletano e quella in stile antico o “alla Palestrina”. Il primo vedeva la successione di arie, duetti e interventi corali in forma chiusa, secondo lo schema della cantata sacra. La seconda è dominata da una densa polifonia a cappella, vi era il contrappunto rigoroso e ricorso alla policoralità che avvicinava la messa alla dimensione spazializzante della tradizione veneziana. Anche la tradizione luterana dà vita alle messe cantate, il vertice della produzione è costituito dalla essa in Si Minore di Bach che ha una sua organicità basata sulla centralità dell’elemento corale. Alla fine del ‘700 la produzione sacra vive una progressiva decadenza. La teatralizzazione del repertorio sacro avviata da Bach e dallo Stabat Mater di Pergolesi del ’35 rischiava di compromettere i confini distintivi dei rispettivi generi. Con Jommelli e Galuppi abbiamo ancora la ripresa della messa in stile napoletano. Haydn si dedicò a scrivere messe, i quattordici lavori testimoniano un frequente sfruttamento di risorse tratte dal teatro musicale: la drammatizzazione della scrittura che conquista il corpus sinfonico compare anche in questa produzione culminato nella scelta di porre un’aria. Mozart fu molto attivo nel genere soprattutto negli anni di Salisburgo, le messe sono quindici, solo una nacque nel periodo viennese: la Messa in Do minore, incompiuta e vittima del decreto imperiale che limitava in Chiesa l’esecuzione di musica sacra con ampio organico, qui sono evidenti gli studi contrappuntistici e la riscoperta di Bach, il tutto colpisce per la sua densità polifonica mai esplorata nella produzione precedente. Il Qui tollis unisce le antiche scritture della passacaglia (composizione in forma di variazioni costruita su un basso ostinato) e dell’ostinato a una potenza espressiva che ricorda la riflessione di Bach sull’aldilà. Mozart è più celebre per il Requiem, incompiuto e scritto negli ultimi mesi del ’91, questa è una pura meditazione sulla morte basata su numerose prospettive come: il terrore del Dies Irae, la consolazione dell’Hostias, la disperazione del Confutatis maledictis, l’incertezza del Domine Jesus e la spinta verso l’alto del Lacyimosa. Intermezzi buffi (prima metà del ‘700) Audio 16-17 Playlist Nato dagli scarti comici del melodramma serio. La prima opera è “La serva padrona” di Pergolesi, nata a Napoli nel 1733, ma importante è l’esecuzione a Parigi nella metà del secolo, questa diede l’inizio alla Querelle des buffons. Il nome deriva dal fatto che questi erano le pause tra atto e atto dell’opera seria. Dopo l’esecuzione dell’opera del “La serva padrona” si scaturisce il dibattito tra genere serio e genere buffo, il secondo in principio era un intermezzo (da qui intermezzo buffo) tra un atto all’altro in un’opera del genere serio a cui segue per fortuna del genere la strada solista dell’opera buffa. La figura di Pergolesi viene “miticizzata” nel periodo romantico per via della morte prematura. L’intermezzo buffo non è un genere di estrazione popolare, infatti ha un’origine altolocata, anche se segue il suo legame con il dialetto napoletano (dall’intermezzo buffo nasce contemporaneamente l’opera buffa napoletana, chiamata commedeja pe’ mmuseca), Alla base dell’intermezzo buffo vi sono i personaggi reali, caratterizzati dalla vivacità e da uno stile di conversazione molto semplice, a livello interpretativo sono semplici poiché trattano della quotidianità che caratterizzava la spontaneità . Un aspetto importante è anche la gestualità implicita nella musica, dovuta alla stimolazione di un'idea di movimento, ciò è meno evidente nel genere serio per via della staticità delle aree, questo innesta del movimento all'interno delle arie statiche dell'opera. Infatti, le arie sono integrate all’azione, vi è così un intreccio tra l'artificiosità dell'aria statica e il continuo dell'azione. Un esempio è “La serva padrona” in quanto vi sono movimenti in zig zag che seguono il movimento della parola, la musica si muove con la parola e ciò delinea la gestualità nella musica. Questa opera è emblematica per definire le caratteristiche del genere. Nelle arie si incontra una delle differenze con il melodramma serio: il momento contemplativo di Zeno e Metastasio è statico, mentre in Pergolesi questo è parte dell’azione drammatica. Da sottolineare è l’importanza della gestualità che si rispecchia e si rispecchierà nella musica fino a Rossini. La commedeja pe’ mmuseca nasce a inizio Settecento in ambito colto. La prima realizzazione è Cilla di Francesco Tullio con le musiche di Michelangelo Faggioli, questa è una commedia in prosa con innesti di arie e recitatici. Realismo è evidente, anche con l’uso del dialetto, a cui non viene menola malinconia di fondo tipica dell’espressività partenopea. Questo tipo di opere fu però decisiva per la maturazione dei primi concertati, ovvero pezzi d’assieme collocati a fine atto al culmine delle tensioni drammatiche. Si palesa il realismo surreale che introduce un paradosso destino a caratterizzare gran parte della produzione buffa successiva: “possibilità di ricreare la vita in forme del tutto astratte eppure capaci di straordinaria aderenza alla realtà intesa come rapporto di sfuggenti e volubili forze interiori”. In Francia, dopo il 1750, Rousseau interviene con “Letre sur le musique francaise” che da inizio alla diatriba tra Jean- Philippe Rameau e Jean Jaques Rousseau, il secondo teorizza la superiorità italiana rispetto la musica francese per via della caratterizzazione della melodia presente nella musica italiana, più interpretabile, a cui si derivano tre caratteristiche fondamentali: la dolcezza della lingua italiana; arditezza delle modulazioni, che sono più piacevoli e 5 La composizione più sfruttata in ambito religioso è la messa. Il genere si cristallizzò in due tipologie: la messa in stile moderno o napoletano e quella in stile antico o “alla Palestrina”. Il primo vedeva la successione di arie, duetti e interventi corali in forma chiusa, secondo lo schema della cantata sacra. La seconda è dominata da una densa polifonia a cappella, vi era il contrappunto rigoroso e ricorso alla policoralità che avvicinava la messa alla dimensione spazializzante della tradizione veneziana. Anche la tradizione luterana dà vita alle messe cantate, il vertice della produzione è costituito dalla essa in Si Minore di Bach che ha una sua organicità basata sulla centralità dell’elemento corale. Alla fine del ‘700 la produzione sacra vive una progressiva decadenza. La teatralizzazione del repertorio sacro avviata da Bach e dallo Stabat Mater di Pergolesi del ’35 rischiava di compromettere i confini distintivi dei rispettivi generi. Con Jommelli e Galuppi abbiamo ancora la ripresa della messa in stile napoletano. Haydn si dedicò a scrivere messe, i quattordici lavori testimoniano un frequente sfruttamento di risorse tratte dal teatro musicale: la drammatizzazione della scrittura che conquista il corpus sinfonico compare anche in questa produzione culminato nella scelta di porre un’aria. Mozart fu molto attivo nel genere soprattutto negli anni di Salisburgo, le messe sono quindici, solo una nacque nel periodo viennese: la Messa in Do minore, incompiuta e vittima del decreto imperiale che limitava in Chiesa l’esecuzione di musica sacra con ampio organico, qui sono evidenti gli studi contrappuntistici e la riscoperta di Bach, il tutto colpisce per la sua densità polifonica mai esplorata nella produzione precedente. Il Qui tollis unisce le antiche scritture della passacaglia (composizione in forma di variazioni costruita su un basso ostinato) e dell’ostinato a una potenza espressiva che ricorda la riflessione di Bach sull’aldilà. Mozart è più celebre per il Requiem, incompiuto e scritto negli ultimi mesi del ’91, questa è una pura meditazione sulla morte basata su numerose prospettive come: il terrore del Dies Irae, la consolazione dell’Hostias, la disperazione del Confutatis maledictis, l’incertezza del Domine Jesus e la spinta verso l’alto del Lacyimosa. Intermezzi buffi (prima metà del ‘700) Audio 16-17 Playlist Nato dagli scarti comici del melodramma serio. La prima opera è “La serva padrona” di Pergolesi, nata a Napoli nel 1733, ma importante è l’esecuzione a Parigi nella metà del secolo, questa diede l’inizio alla Querelle des buffons. Il nome deriva dal fatto che questi erano le pause tra atto e atto dell’opera seria. Dopo l’esecuzione dell’opera del “La serva padrona” si scaturisce il dibattito tra genere serio e genere buffo, il secondo in principio era un intermezzo (da qui intermezzo buffo) tra un atto all’altro in un’opera del genere serio a cui segue per fortuna del genere la strada solista dell’opera buffa. La figura di Pergolesi viene “miticizzata” nel periodo romantico per via della morte prematura. L’intermezzo buffo non è un genere di estrazione popolare, infatti ha un’origine altolocata, anche se segue il suo legame con il dialetto napoletano (dall’intermezzo buffo nasce contemporaneamente l’opera buffa napoletana, chiamata commedeja pe’ mmuseca), Alla base dell’intermezzo buffo vi sono i personaggi reali, caratterizzati dalla vivacità e da uno stile di conversazione molto semplice, a livello interpretativo sono semplici poiché trattano della quotidianità che caratterizzava la spontaneità . Un aspetto importante è anche la gestualità implicita nella musica, dovuta alla stimolazione di un'idea di movimento, ciò è meno evidente nel genere serio per via della staticità delle aree, questo innesta del movimento all'interno delle arie statiche dell'opera. Infatti, le arie sono integrate all’azione, vi è così un intreccio tra l'artificiosità dell'aria statica e il continuo dell'azione. Un esempio è “La serva padrona” in quanto vi sono movimenti in zig zag che seguono il movimento della parola, la musica si muove con la parola e ciò delinea la gestualità nella musica. Questa opera è emblematica per definire le caratteristiche del genere. Nelle arie si incontra una delle differenze con il melodramma serio: il momento contemplativo di Zeno e Metastasio è statico, mentre in Pergolesi questo è parte dell’azione drammatica. Da sottolineare è l’importanza della gestualità che si rispecchia e si rispecchierà nella musica fino a Rossini. La commedeja pe’ mmuseca nasce a inizio Settecento in ambito colto. La prima realizzazione è Cilla di Francesco Tullio con le musiche di Michelangelo Faggioli, questa è una commedia in prosa con innesti di arie e recitatici. Realismo è evidente, anche con l’uso del dialetto, a cui non viene menola malinconia di fondo tipica dell’espressività partenopea. Questo tipo di opere fu però decisiva per la maturazione dei primi concertati, ovvero pezzi d’assieme collocati a fine atto al culmine delle tensioni drammatiche. Si palesa il realismo surreale che introduce un paradosso destino a caratterizzare gran parte della produzione buffa successiva: “possibilità di ricreare la vita in forme del tutto astratte eppure capaci di straordinaria aderenza alla realtà intesa come rapporto di sfuggenti e volubili forze interiori”. In Francia, dopo il 1750, Rousseau interviene con “Letre sur le musique francaise” che da inizio alla diatriba tra Jean- Philippe Rameau e Jean Jaques Rousseau, il secondo teorizza la superiorità italiana rispetto la musica francese per via della caratterizzazione della melodia presente nella musica italiana, più interpretabile, a cui si derivano tre caratteristiche fondamentali: la dolcezza della lingua italiana; arditezza delle modulazioni, che sono più piacevoli e 5 Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! SCARICA 1 / 71 INGRANDISCI Prepara al meglio i tuoi esami Registrati a Docsity per scaricare i documenti e allenarti con i Quiz REGISTRATI e ottieni 20 punti download Recensisci per primo questo documento