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TEMPI MODERNI
Candidato: Gabriele Compare
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TEMPI MODERNI
Una volta qualcuno disse: “Il jazz è la musica che i jazzisti suonano
nell’epoca in cui vivono”; si parla tanto di jazz, ma spesso ci si sofferma ad
analizzare il limitato “periodo d’oro”, quello molto florido, più o meno
compreso dal 1920 alla fine degli anni sessanta. Se ragioniamo in termini
didattici formativi, è di tutta evidenza il contributo portato dai grandi artisti
che hanno segnato il percorso evolutivo del jazz, in termini della creazione
del linguaggio e dei canoni estetici di riferimento per tutte le generazioni di
musicisti successive. A partire dal famigerato 1917, anno della
pubblicazione del primo disco di jazz della Original Dixieland Jass Band di
Nick La Rocca, il percorso evolutivo di questa musica è stato caratterizzato
da traiettorie spesso inaspettate e sorprendenti, frutto dell’estro creativo dei
vari artisti che hanno fatto la storia di questo genere musicale.
Da quando si parla di jazz, si parla di dove stia andando, ma, come dice
Nate Chinen nel suo recente saggio “La musica del cambiamento”, “non vi
è alcun modo per pronosticare il futuro del jazz, i suoi avanzamenti sono
molteplici, su svariati fonti”.
Sono inoltre da tenere in considerazione alcuni aspetti fondamentali che
inevitabilmente si riflettono sul jazzista di oggi, professionista o studente
amatore che sia: penso all’eccesso di informazioni conseguente al progresso
tecnologico degli ultimi decenni, e alla nascita di scuole di formazione ad
indirizzo jazzistico, che ormai proliferano in ogni angolo del mondo, non
solo occidentale.
Il progresso della tecnica rende possibile l’accesso a materiale di ogni tipo,
files audio, video di concerti o seminari didattici, lezioni on line, ed
aumenta la possibilità di elevare il tasso tecnico dello strumentista.
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Dall’altra parte, la mercificazione della musica, ormai diventata un prodotto
come ogni altro, la velocità con cui si consuma, l’abbassamento degli
standard di riproduzione, ora dominati dagli mp3 distribuiti da piattaforme
digitali, e in generale, il venire meno di una domanda di utenti in cerca di
novità e coraggio, hanno reso ancor più difficile la dimensione del musicista
professionista.
Sul versante della didattica, si è affermata, soprattutto negli Stati Uniti, la
tendenza ad omologare un po’ tutto: tutti suonano benissimo, ma spesso in
modo simile.
Un altro aspetto da considerare nella nostra epoca è il venir meno della
componente sociale del musicista “nero”, che oggi nella maggior parte dei
casi è un intellettuale dedito a comporre musica raffinata e spesso
complessa.
Non mancano però casi di sinergie tra jazz, hip hop, musica elettronica, che
diventano un sorta di riferimento per i giovani ascoltatori di colore.
Gary Giddins, un critico del jazz, aveva individuato quattro tappe del ciclo
evolutivo di una forma d’arte: quella “natale”, seguita da quella “sovrana”,
da quella “recessiva”, ed infine da quella “classica”, in cui i giovani
musicisti rischiano di essere appesantiti dal passato.
Oggi forse è più adeguato pensare ad un percorso non rettilineo; pensare al
jazz come un qualcosa di diverso da una categoria stabile, più simile a una
narrazione non lineare che affonda e rispetta la tradizione, che va studiata e
metabolizzata in profondità, per arrivare a qualcosa di contaminato. Infatti,
nel jazz di oggi avanguardia e contaminazione sono entrati nel mainstream,
ottenendo un risultato ibrido e qualitativamente spesso di grande valore.
Non credo comunque che esistano rotture con il passato, ma solo un
progressivo allontanamento di certe regole e di certi schemi, con un
percorso però non traumatico.
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Franco d’Andrea invece sostiene che “ fin dall’era dello swing il jazz è stato
capace di rapportarsi alla realtà, anche perché non è mai stato legato a
culture locali specifiche ed è sintesi, non contaminazione: quindi possiede
un linguaggio, quello creato dai pionieri, che via via si è potuto
perfezionare e adattare alle epoche”.
Sintesi o contaminazione? Di certo, le lezioni della tradizione sopravvivono
e si adattano.
Dal mio punto di vista, oggi non ha senso incagliarsi nella dialettica del
“questo è jazz-questo non è jazz”, ma esiste solo la Musica, la passione di
chi la suona, la sensibilità di chi la ascolta, che può incontrare o meno la
proposta dell’Artista. Come è privo di significato trincerarsi dietro a barriere
difensive della tradizione come unica e sola verità da conservare e tutelare.
Ribadisco: la tradizione è una ricchezza infinita da cui apprendere ed
ispirarsi; il “nuovo” non è in alcun modo sinonimo di qualità: ma l’apertura
al nuovo è fondamentale per poter scoprire nuove realtà e potersi ancora
emozionare all’ascolto della musica.
“Tempi Moderni” è una Tesi Compositiva e rappresenta un’occasione per
proporre alcuni pezzi composti da me, dove spero riescano a coesistere in
modo equilibrato elementi della tradizione jazzistica e aspetti legati al mio
percorso musicale personale, di cui parlerò più avanti, nella sezione
“Ascolti ed Influenze”.
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COMPOSIZIONE E IMPROVVISAZIONE
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Andrea Lombardini, nella sua Tesi in Filosofia sull’improvvisazione, cita
Steve Lacy, che, alla richiesta di descrivere le differenze tra composizione e
improvvisazione in quindici secondi, rispose:
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3. Il rapporto con la tradizione è forte, ma sui generis, dato che
l’originalità, e la capacità di innovare sono aspetti fondamentali di
un artista jazz.
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<<Ecco come suono: parto da un certo punto e vado più in là possibile,
nella speranza di non perdermi per strada. Dico speranza, perché quello
che soprattutto mi interessa è scoprire le strade che non avrei mai
sospettato esistessero>>
Così rispondeva John Coltrane nel 1961 ad un giornalista che gli chiedeva
di spiegare se vi fosse un metodo dietro le sue formidabili improvvisazioni
(tratto “Dall’arte all’esperienza” di John Dewey, Ed. Mimesis, pag. 69).
D’altronde, nel secolo di vita del jazz, l’improvvisazione ha una sua storia,
e il jazz degli anni ’30 e quello degli anni ’60 presentano delle differenze
rilevanti proprio in relazione all’importanza del fattore improvvisativo, e, da
un certo punto, del fattore compositivo, che qui chiamo di natura
strutturale, per differenziarlo dalla improvvisazione.
Nel primo periodo d’oro, il jazz era vissuto soprattutto sull’onda del
successo di figure carismatiche, come quella di Louis Armostrong, e fu
soffocato dalla Grande Depressione del 1929. Nell’era dello swing, diciamo
tra il ’35 e il ’45, le Big Band dominavano la scena, facendo ballare i
giovani, indipendentemente dal colore della pelle. Si tratta di un periodo in
cui il jazz, oltre ad essere associato alle atmosfere losche e illegali dei locali
notturni, dove era possibile bere alcool aggirando le norme del
Proibizionismo, non era ancora maturo da un punto di vista stilistico. La
disastrosa situazione economica spingeva inoltre la maggior parte dei
musicisti ad accettare qualsiasi ingaggio pur di lavorare, e quindi a dedicarsi
all’unico tipo di musica che poteva interessare il pubblico, cioè una musica
leggera, allegra o sdolcinata, in grado di tirare su il morale della gente, non
certo una musica di ricerca. Bisognerà aspettare la metà degli anni ’40, e
quindi l’avvento del be-bop per cominciare a trovare quel tipo di
consapevolezza artistica così esplicita nelle parole di Coltrane.
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Nella successiva parte “La proposta musicale” dettaglierò al meglio il
rapporto tra composizione e improvvisazione nei pezzi che costituiscono la
parte sostanziale di questa Tesi.
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ASCOLTI ED INFLUENZE
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Pat Metheny da me sorpreso a studiare per strada (Ravenna-2003)
Lentamente ho avuto modo di scoprire il jazz più vicino alla mia sensibilità,
quello delle composizioni di Shorter (con Miles, da solo e con i Weather
Report), che ritengo l’origine di tutto lo sviluppo successivo, ma anche di
Henderson (pezzi come Inner Urge, Punjab, Serenity), di Bill Evans (in
particolare Time Remembered, Very Early, la nuova dimensione del trio
Jazz), di Monk, autore di una originalità unica.
Sento anche molto vicino il suono della Ecm (Metheny ne faceva parte), in
particolare di Kenny Wheeler, compositore straordinario.
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Nel 2008 ho trascorso due settimane a New York. Ricordo di essere
andato ad ascoltare diversi concerti, che hanno rappresentato il primo
contatto con alcune tendenze tuttora attuali della musica jazz.
Andai al Village Vanguard ad ascoltare la Fellowship Band di Brian Blade,
nel cui organico era presente il chitarrista Kurt Rosenwinkel. Il lavoro di
questo musicista, e di altri che hanno collaborato con lui, come il
sassofonista Mark Turner, il pianista Brad Mehldau, hanno influenzato
molto i miei ascolti successivi.
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Kurt Rosenwinkel mi ascolta…(Seminari Tuscia Jazz-2012)
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composto con i due chitarristi Adam Rogers e David Gilmore, dal bassista
Fima Ephron e dal batterista Ben Perowsky, nel 1998 pubblica il disco Free
to Dream, in compagnia di un folto gruppo di musicisti, con una sezione di
fiati composta da Mccaslin (sax tenore) Alex Sipiagin (tromba) Clark
Gayton (Trombone), Jamie Baum (Flauto), Doug Yates (Clarinetto Basso),
e dalla ritmica con Adam Rogers (chitarra), Edward Simon (Piano) Scott
Colley (Contrabbasso) e Jeff Hirshfield (Batteria). Questo disco mi ha
colpito per la complessa tessitura armonica dei pezzi, su cui si innestano
melodie molto forti, e spesso su tempi irregolari. È una conferma che la
musica jazz non è solo limitata a brani caratterizzati da esposizione del
tema, improvvisazione sul giro armonico, e ripresa tema nel finale. Nulla di
totalmente nuovo, come ho già detto nella premessa, ma, secondo me, una
ottima prova di come il linguaggio della tradizione possa essere inserito in
contesti compositivi moderni per progressioni armoniche, mai o quasi mai
funzionali, per scansione ritmica e metrica, e dove anche momenti free
possono trovare un ideale momento per la loro piena valorizzazione,
soprattutto nella riproposizione live del materiale.
Anche il successivo South (2001) conferma le doti compositive di Binney,
in questo caso sviluppate con un organico più ridotto, e con la presenza al
piano di Uri Caine, e alla batteria di Brian Blade o di Jim Black.
Altri ascolti più recenti sono quelli relativi ai dischi del sassofonista Ben
Wendel (Simple Song del 2009, e Frame del 2012, in particolare), che si
inseriscono nel solco tracciato da Binney: musica moderna, che però rispetta
il linguaggio della tradizione.
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infine cito l’album di Donny Mccaslin Casting for Gravity (2012), dove il
jazz elettrico la fa da padrone.
Indubbiamente importante è anche il lavoro svolto dal sassofonista Steve
Coleman, anche se condivido l’opinione di Stefano Zenni espressa nella sua
Storia del Jazz: <<…una musica dagli esiti forse meno convincenti
dell’intero apparato teorico e filosofico che la sostiene…un pensiero
scaturito dall’attività del collettivo M-Base…che prende vita da cicli ritmici
sovrapposti ispirati alla verticalità della musica africana>>.
Per quanto riguarda la musica che mi ha influenzato, vorrei anche citare
alcuni musicisti dell’ultima generazione del panorama italiano che, secondo
me, stanno portando avanti un percorso interessante e creativo: solo per
citarne alcuni, penso al pianista Simone Graziano, che con il suo gruppo
Frontal (a cui ha collaborato anche Binney), sta offrendo una musica
melodica inserita in complesse strutture ritmiche e armoniche, al chitarrista
romano Francesco Diodati, ai sassofonisti Daniele Tittarelli e Dan
Kinzelman, al chitarrista Enrico Bracco, ai contrabbassisti Matteo Bortone e
Francesco Ponticelli, al batterista Enrico Morello.
L’aspetto che più caratterizza questi musicisti, indipendentemente dalla
nazionalità, è forse quello di proporsi come musicisti contemporanei che
fanno improvvisazione e ricerca. Ed essere musicista contemporaneo vuol
dire essere costantemente attivo, aperto ad instaurare rapporti collaborativi
guardandosi sempre intorno. Nella nostra modernità, o post modernità, il
musicista contemporaneo ha il coraggio di fare qualcosa di inutile sapendo
cogliere l’essenza della diversità.
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LA PROPOSTA MUSICALE
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I pezzi proposti sono:
• L’inganno
• Il profumo della pioggia
• Luhmann
• Respiri nell’acqua
• Il colore del tuo sorriso
L’inganno
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maggiori con basso slash e accordi di minore settima con
quinta eccedente;
2. Anche la B è breve, di sole due battute su un tempo in 7/4,
ma apre, dopo la tensione ritmica creata nella A;
3. La C è il cuore del pezzo. È in 7/4, parte con un arpeggio su
Re Maggiore 7; nell’arpeggio alla terza maggiore (Fa#)
segue la quarta (Sol). Il basso è sul levare del tre e sul levare
del cinque. Dopo l’arpeggio, il pezzo si sviluppa
ritmicamente in modo da far perdere di vista il beat, grazie a
una sincope, e a note in parte in battere e in parte in levare;
4. Si ripetono le A e le B finali.
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La mia speranza è che l’ascolto emotivo non faccia percepire la
complessità strutturale di questo pezzo, evidente ad un ascolto più
tecnico e analitico.
Luhmann
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melodia è piuttosto storta, con sincopi e accenti sui movimenti
deboli, ma, spero, melodica e cantabile.
La B si compone di sette battute su un tempo in 6/4, e in parte
risolve e in parte conferma, anche se in misura inferiore, la tensione
della A.
La parte improvvisata presenta un giro armonico diverso, su un
tempo in 4/4. Potrebbe essere riassunta cosi: una sezione A di
quindici battute, cha parte con gli accordi della parte tematica, e poi
presenta una progressione caratterizzata da accordi da natura lidia e
di natura frigia, per esempio Bmaj7#11 cui segue A#-7 frigio (siamo
in questo caso in tonalità di F# maggiore); segue la B dell’armonia
del tema, e si chiude con un’altra A. In sostanza, AABA.
Respiri nell’acqua
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con voicings che danno una sonorità sospesa, con slash chords
oppure senza la terza.
Le A sono di 10 battute; la B, che cerca di aumentare la tensione del
brano, è di 14 battute. Come per gli altri pezzi, la forma è guidata
dall’orecchio, senza considerare la quadratura complessiva della
struttura.
Le improvvisazioni si sviluppano sostanzialmente sull’armonia della
parte tematica, facendo attenzione ad un crescendo dinamico.
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CONCLUSIONI
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BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
• Nate Chinen, La Musica del cambiamento, traduzione italiana di
Seba Pezzanti, Il Saggiatore, 2019
• Arrigo Arrigoni, Jazz foto di Gruppo, Il Saggiatore, 2010
• Berliner, Thinking of jazz, Università di Chicago
• Alfredo Da Paz, Sociologia e Critica delle Arti, Clueb, 1980
• Ted Gioia, L’arte imperfetta – il jazz e la cultura contemporanea,
traduzione italiana di Fabio Paracchini, Excelsior,2007
• Stefano Zenni, Storia del jazz, Nuovi Equilibri, 2012
• Nelson Goodman, I linguaggi dell’arte, traduzione italiana di
Franco Brioschi, Il Saggiatore 2017
• John Dewey, Dall’arte all’esperienza nell’estetica contemporanea,
Mimesis, 2015
• Andrea Lombardini, Il mito della spontaneità, tesi di laurea in
Lettere e Filosofia, Padova, 20
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