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UNIVERSIT DEGLI STUDI DEL SALENTO

Facolt di Scienze Sociali, Politiche e del Territorio


Corso di Laurea Specialistica in
Sociologia e Ricerca Sociale

IL MESTIERE DELL'IMPROVVISAZIONE
Etnografia della Jam Session

Relatore:
Chiar.mo Prof. Mariano Longo

Tesi di Laurea di
Igor LEGARI
Matricola n.10030274

ANNO ACCADEMICO 2007/ 2008

INDICE
Introduzione : Un mondo a parte
Cap. 1 Jazz e Scienze Sociali
1.1 La densit del jazz
1.2 L'analisi musicologica e i suoi limiti
1.3 Tra etnomusicologia ed antropologia
1.4 African American Studies: una prospettiva etnica?
1.5 La prospettiva sociologica
1.5.1 L'equivoco di Adorno
1.5.2 Schutz: "Making music together"
1.5.3 H.S. Becker: il mestiere dell'improvvisatore

1.6 Paul Berliner: l'improvvisazione come competenza


1.7 Ingrid Monson: i riflettori sulla sezione ritmica

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Cap.2 Il mestiere dell'improvvisazione


2.1 La magia dell'improvvisazione
2.2 Improvvisazione come competenza
2.3 Improvvisazione e linguaggio
2.4 Improvvisazione e conversazione

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Cap. 3 Etnografia della jam session


3.1 Nota metodologica
3.2 La comunit dei jazzisti

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3.2.1 Gli outsiders della musica


3.2.2 Categorie di musicisti

3.3 Cos una jam session?


3.3.1 Definizione e cenni storici
3.3.2 Aspetti organizzativi

3.4 Come funziona una jam?


3.4.1 Cosa suoniamo? Il repertorio degli standard
3.4.2 Come lo suoniamo? Head arrangements e trattamenti

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convenzionali

3.5. La jam session come modello di azione collettiva


3.5. La sezione ritmica
3.6.1 Sezione Ritmica e Front Line
3.6.2 Ruoli e convenzioni
3.6.3 Il bassista
3.6.4 Il batterista
3.6.5 Il pianista

3.7 I solisti
3.8 Relazioni di potere, valori musicali e risoluzione dei conflitti

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Conclusione

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Bibliografia

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Un mondo a parte
Man, if you have to ask what (jazz) is, you'll never know.
Louis Armstrong

Quando ho cominciato ad appassionarmi seriamente al jazz, intorno ai


quindici anni, ho dovuto affrontare l'imbarazzo di ritrovarmi fuori dalle
mode correnti dei miei coetanei.
Sentirsi incluso in un gruppo ed essere accettato come "normale"
una delle principali preoccupazioni per un adolescente e la condivisione
di interessi comuni gioca un ruolo importante in questa fase delicata
della vita. Avere gusti musicali cos diversi da quelli dei propri compagni
di scuola o amici pu creare a volte un senso di isolamento. Ma le
passioni pi forti possono aiutare a superare quella paura di apparire in
qualche modo diverso dagli altri che spesso spinge verso un pi comodo
conformismo.
Il passaggio dall'ascolto alla scelta di uno strumento e allo studio della
musica mi sembrato quasi obbligato. Non posso fornire dati statistici al
riguardo, ma credo di poter affermare con una certa sicurezza che buona
parte degli amanti del jazz hanno una qualche familiarit con la pratica
musicale e suonano uno strumento, anche solo a livello amatoriale.
Sembra piuttosto confermata la tesi che vuole il jazz una musica per
musicisti, nella duplice accezione di un genere che richiede competenze
musicali medio-alte per essere apprezzato appieno e i cui appassionati
sono spesso presi dal desiderio di passare dal ruolo passivo di ascoltatore
a quello attivo di musicista.

In seguito mi sono trasferito a Roma per intraprendere gli studi


universitari e al contempo per iscrivermi alla Scuola Popolare di Musica
del Testaccio, un'istituzione storica per il jazz nella capitale. stato a
quel punto, quando mi sono ritrovato immerso in un ambiente i cui tutti
condividevano la stessa passione e parlavano la stessa "lingua", che ho
avuto la netta sensazione di accedere ad un mondo a parte.
Gli studi sulle subculture hanno ampiamente indagato le modalit con
cui gruppi pi o meno ampi di individui tendono a "modellarsi" intorno
ad un elemento aggregante, dando vita a una "cultura nella cultura"
dotata di una propria autonomia.
Nella mia situazione di studente di antropologia che frequentava una
scuola di musica jazz, era naturale che la mia attenzione fosse attratta da
quegli aspetti dell'ambiente musicale che pi da vicino mi ricordavano le
nozioni apprese nelle aule della facolt. Riconoscevo negli atteggiamenti
e nel linguaggio dei jazzisti gli elementi tipici di una comunit in
qualche modo "esclusiva". Ovviamente ne ero affascinato e cercavo di
apprendere quanto pi possibile non solo in termini di nozioni musicali e
tecniche, ma anche in termini di comportamento, di uso appropriato del
linguaggio tecnico, di "stile". Sebbene ora la cosa mi appaia piuttosto
ridicola, all'epoca in cui mi avvicinavo timidamente al mondo del jazz,
consideravo ci come un fatto di estrema importanza, al pari delle
capacit musicali e del talento. La mia preoccupazione era quella di non
apparire troppo sprovveduto o ingenuo, fuori dalle regole del gruppo,
cos come da ragazzino mi sentivo un po' a disagio perch ascoltavo una
musica decisamente fuori moda tra i miei coetanei. Ora invece mi
ritrovavo finalmente tra persone di ogni et che condividevano la mia
stessa passione e volevo a tutti costi dimostrare di essere "uno di loro".

Ero a tutti gli effetti un newcomer che si sforzava per non essere pi
riconosciuto come tale.
Dopo circa due anni sono ritornato a Lecce, dove ho proseguito gli
studi universitari in Sociologia. Parallelamente ho continuato lo studio
del jazz e del contrabbasso in modo autonomo. Mi ritengo pertanto
fondamentalmente autodidatta nel campo della musica. A partire dal
2000 ho intrapreso una discreta attivit concertistica nel territorio
pugliese, accumulando una mole di esperienze in particolare nel contesto
delle jam session
Nell'ottobre del 2008 sono stato ammesso a frequentare il primo
International Jazz Master Program (In.Ja.M.) organizzato dalla
Fondazione Siena Jazz. Si tratta di un corso di alta specializzazione in
tecniche dell'improvvisazione, al quale partecipano in qualit di docenti
alcuni dei pi importanti artisti internazionali. Parte integrante di questo
Master sono le jam session organizzate in un club della citt nelle quali
capita spesso che gli studenti condividano lo stesso palco con alcuni
mostri sacri della storia del jazz.
Ho deciso di inserire questa breve nota biografica per ricostruire il
percorso individuale e di studio che mi ha portato a maturare l'idea per
questa tesi.
In effetti, quando arrivato il momento di scrivere la mia tesi di
specializzazione in sociologia, ho pensato che fosse una buona idea far
convergere la mia passione per il jazz e gli studi di scienze sociali.
Il primo problema, se cos si pu dire, era quello di individuare un
punto di vista, una prospettiva che mi permettesse di presentare il jazz
con lo sguardo di un sociologo. Su quella che viene considerata la
"musica del XX secolo" per eccellenza sono state prodotte letteralmente

migliaia di pubblicazioni. Ma dovendo necessariamente escludere la


prospettiva musicologica e quella storica, il campo per le mie ricerche
bibliografiche si restringeva molto.
Uno dei primi autori in cui mi sono imbattuto in questa prima fase
stato il sociologo americano Howard Saul Becker, considerato come
l'esponente pi celebre della cosiddetta "seconda generazione" della
Scuola di Chicago. Il nome di Becker viene spesso associato al settore
disciplinare della sociologia della devianza.
Il testo di riferimento al riguardo il celebre Outsiders, una raccolta di
saggi composta nel 1963 che include alcuni capitoli divenuti un
"classico" degli studi sulla devianza, come quello sui consumatori di
marijuana.
Sebbene tale lavoro sia stato troppo spesso ridotto alla formulazione
della cosiddetta labelling theory, in realt il contributo principale di
Becker stato quello di "allargare l'area presa in considerazione dallo
studio dei fenomeni devianti, includendo, oltre a chi viene definito
deviante, le attivit di altre persone" (Becker: 1991, p. 136), ovvero i
membri del gruppo a cui il cosiddetto agente deviante appartiene.
Emerge una nuova ottica che indaga i comportamenti devianti e i gruppi
che li mettono in atto come un'esperienza sociale collettiva, frutto
dell'interazione tra pi persone che "fanno ci che fanno con un occhio a
ci che gli altri hanno fatto" (ivi, p. 138)
In realt, pi che per l'innovativo approccio al tema della devianza, il
lavoro di Becker ha attirato la mia attenzione per motivi pi strettamente
legati al jazz.
In Outsiders, il sociologo di Chicago include infatti un capitolo che
un estratto del lavoro di ricerca svolto per la propria tesi di Master,
condotta sotto la guida di Everett Hughes. Il saggio (The Professional

Dance Musician and His Audience) raccoglie le esperienze fatte da


Becker in qualit di pianista professionista nei club di Chicago durante
gli anni '40, un periodo particolarmente fiorente per il jazz nella Windy
City.
Durante gli anni dell'universit, Becker svolse l'attivit di pianista
presso i numerosi locali notturni della citt e al momento di scrivere la
sua tesi era ancora convinto che quella sarebbe stata la sua professione
per il resto della vita. Avendo deciso di produrre una tesi sui gruppi
professionali, il giovane Becker pens di utilizzare le esperienze
accumulate nel suo lavoro di jazzista. Il risultato fu un brillante
resoconto della vita quotidiana e professionale dei musicisti, con
numerosi accenni alla subcultura in cui essi (compreso l'autore) erano
immersi e sulla modalit in base alle quali i musicisti etichettavano un
individuo e il suo comportamento come insider o outsider rispetto alla
loro comunit. L'approccio scelto da Becker fu quello dell'osservazione
partecipante e in questo fu favorito dal fatto di essere perfettamente
integrato nel gruppo che stava studiando, al punto che le sue curiosit o
le sue domande apparivano del tutto naturali. Nessuno dei musicisti di
cui l'autore raccolse le testimonianze si resero conto che egli si
presentava nella duplice veste di pianista e di ricercatore sociale.
Fatte le dovute proporzioni, l'esperienza di Becker mi parsa subito
affine alla mia. Anch'io avevo a disposizione una buona quantit di
esperienze dirette sull'ambiente del jazz e forse avrei potuto produrre un
lavoro dello stesso genere.
In seguito per ho pensato che potevo proporre un punto di vista
differente rispetto a quello adottato da Becker. Come ho gi detto, The
Professional Dance Musician and His Audience, essenzialmente una
ricerca su un gruppo professionale, quello dei musicisti da night club.

Poco o nulla viene detto riguardo l'atto musicale in s. Una delle cose
che mi affascinano di pi del mondo del jazz il tipo di conoscenza
necessario a creare una musica che si fonda sull'improvvisazione e
sull'interazione tra un gruppo di individui. In questo il jazz diverso da
tutti gli altri generi della musica contemporanea. vero che
l'improvvisazione non sempre sinonimo di jazz e che una certa forma
di interazione sempre necessaria se si vuole fare musica insieme ad
altre persone. Ma in nessun'altra cultura musicale la fusione di questi due
elementi ha assunto una rilevanza paragonabile a quella del jazz.
Esiste un'istituzione nel mondo del jazz in cui quest'azione combinata
di improvvisazione individuale, conoscenze condivise e interazione
collettiva diventa particolarmente evidente: la jam session. Ragionando
sulle caratteristiche di questo tipo particolare di performance, nella quale
un gruppo di musicisti si riunisce in modo estemporaneo e crea musica
insieme, mi sembrato di poter individuare numerosi elementi che
potevano rientrare in uno studio di tipo sociologico. In particolare ho
pensato che mi sarebbe piaciuto rendere conto di quel senso di
appartenenza a una comunit, delle dinamiche interpersonali tra
musicisti e non musicisti e del particolare utilizzo di un repertorio
condiviso di brani standard con i quali mettere alla prova la propria
competenza nel mestiere dell'improvvisazione.
Le impressioni che avevo ricevuto nelle numerose jam alle quali
avevo partecipato nel corso degli anni in qualit di spettatore o musicista
mi apparivano ora sotto una luce diversa. Stavo maturando l'idea di poter
presentare questo tipo di fenomeno a chi non ne conoscesse il
"funzionamento", cercando di rivelare i meccanismi nascosti che
agiscono dietro l'apparenza di un gruppo di persone che semplicemente
si riunisce per suonare insieme.

Di conseguenza, la mia indagine bibliografica andava ora affinandosi.


In questo modo mi sono imbattuto nei lavori fondamentali di due
ricercatori americani, Ingrid Monson e Paul Berliner, che hanno
ampiamente affrontato il tema in questione.
Parallelamente allo studio della letteratura sul caso, ho poi iniziato ad
abbozzare una struttura generale al mio lavoro. Quali elementi dovevo
includere? Con quale strumento metodologico avrei dovuto affrontare
l'oggetto in questione?
Se vero che le informazioni necessarie per la ricerca le avevo
raccolte (potremmo dire inconsciamente) nel corso di dieci anni di
esperienze come contrabbassista semi-professionista di jazz, ho ritenuto
opportuno presentarle sotto forma di un'etnografia della jam session,
come risultato di un lungo lavoro di osservazione-partecipante.
Questa tesi in conclusione il risultato della fusione di due passioni,
quella per le scienze sociali e quella per il jazz, alla quale ho tentato di
dare una forma unitaria e coerente. Come spesso accade, quando si
giunge alla conclusione di un lavoro di ricerca come questo ci si rende
conto di tutto quello che rimasto fuori, di tutti quegli aspetti che
varrebbe la pena approfondire.
Ad ogni modo, scartando a priori la pretesa della completezza, spero
quanto meno di essere riuscito a trasmettere lo stupore che il pensiero
jazz messo in atto durante una performance collettiva ha sempre
suscitato in me.

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1. Jazz e Scienze Sociali


Talking about music is like dancing about architecture.
Thelonious Monk (pianista e compositore)

1.1 La densit del jazz


In questo capitolo vorrei offrire una breve rassegna dei molteplici
approcci al cui interno le scienze sociali si sono interessate al jazz come
fenomeno sociale e culturale. Mi focalizzer sul contributo di discipline
quali l'etnomusicologia e l'antropologia culturale, il filone degli African
American Studies e la sociologia della musica.
Le origini nella cosiddetta Diaspora Africana1 (o Black Diaspora) e il
meticciato culturale afroamericano, i mutamenti nella consapevolezza
degli artisti e dei fruitori di tale forma d'arte, le istanze di auto
affermazione e di liberazione, le influenze con le altre forme d'arte e con
gli atteggiamenti e i comportamenti di intere generazioni, hanno fatto del
jazz una fonte densa di significati sociali, tanto da aver spinto alcuni
autori a identificarlo come fenomeno artistico simbolo della modernit e
del XX secolo.

Con il termine Diaspora Africana si intende la dislocazione, forzata o volontaria, degli


abitanti dell'Africa Sub-Sahariana in altri continenti. In questo contesto ci riferiamo
essenzialmente alle massicce migrazioni causate dal commercio coloniale degli schiavi di
origine africana operato dalle principali potenze europee attraverso l'Atlantico lungo la
direttiva Est-Ovest. A partire dal XV sec. e fino al XIX, tali migrazioni hanno sradicato un
enorme numero di individui dalle loro collocazioni originarie alle colonie del Nuovo Mondo,
dove hanno costituito la principale forza lavoro coatta nelle piantagioni del Nord America e
del Sud America (in particolare del Brasile), gettando le basi per la creazione della civilt
afroamericana.

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Per rendere conto della complessit del fenomeno jazz, intendo


utilizzare una particolare accezione del concetto di densit. Non mi
riferisco in questo ambito all'uso che ne ha fatto Durkheim per
rappresentare la crescente differenziazione del lavoro sociale, ma
piuttosto ad una densit dei significati e delle connessioni con ambiti
diversi del reale. Come molti altri fenomeni artistici rilevanti, il jazz si
presta ad una lettura a pi livelli e da diversi punti d'osservazione che ne
sottolineano un solo aspetto, spesso a scapito di altri: genere o cultura
musicale, fenomeno artistico globale, fenomeno sociale e antropologico,
processo di produzione artistica caratterizzato da un modello interattivo
di performance. Risulta evidente come non si possa rendere conto di tale
densit partendo da un unico approccio. Per fenomeni di tale
complessit, necessario affidarsi al contributo di molteplici studi,
integrandone gli sforzi in una prospettiva interdisciplinare. Laddove le
scienze sociali devono cedere il passo a discipline pi consone all'analisi
del fenomeno musicale in s, il contributo della sociologia e
dell'antropologia si rivelano tuttavia indispensabili se si intende indagare
sui fenomeni di ordine relazionale legati al jazz, i quali rappresentano
l'oggetto d'indagine di questa ricerca. Resta ancora da chiarire se sia
realmente possibile pervenire ad un approccio globale, che renda conto
della complessit del fenomeno senza trascurarne alcun aspetto.
L'ostacolo principale in genere quello di conciliare gli approcci di tipo
tecnico-musicologico con quelli pi vicini alle metodologie della ricerca
sociale. Ripercorrendo la storia della ricerca, dobbiamo ammettere che
tale tentativo di avvicinamento rimasto molto spesso frustrato. Il jazz
da sempre materia sfuggente e multiforme, caratterizzata da una certa
insofferenza nei confronti delle categorie rigide e dei sistemi teorici.

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Nonostante la sua storia ormai secolare, il jazz rimane l'arte del


contingente, dell'istante, dell'ineffabile.

1.2 L'analisi musicologica e i suoi limiti


Sebbene ci esuli dall'ambito proprio delle scienze sociali, ho ritenuto
interessante trattare brevemente il rapporto tra la musicologia classica
occidentale e il jazz, convinto che i limiti di tale filone di studi siano
rappresentativi della peculiarit del fenomeno jazz.
Il jazz stato e continua ad essere largamente e profondamente
analizzato dalla musicologia classica. Un approccio di questo tipo non
pu che privilegiare il prodotto finale della pratica musicale, l'evento
sonoro in s.
Gi a questo livello, il jazz non ha mancato di manifestare la propria
complessit, ricchezza e profondit. Una teoria piuttosto abusata nella
letteratura vuole descrivere questa musica come risultato diretto della
fusione di due tradizioni: quella bianca di matrice europea e quella nera
di derivazione africana. In quest'ottica, risultano facilmente identificabili
gli elementi che il jazz avrebbe ereditato da questo "matrimonio misto".
Semplificando, si suole dire che dal genitore bianco deriverebbe
l'impianto armonico mentre da quello nero discenderebbe l'impulso
ritmico. Sebbene sia piuttosto evidente che le strutture armoniche su cui
si fonda il jazz siano debitrici della teoria tonale europea, mentre il ritmo
esuli da quella tradizione per rimandare ad una matrice africana, i
ricercatori pi attenti si sono ben guardati da ridurre il jazz a questa
semplice sommatoria di elementi. Il rischio di cadere in degli stereotipi

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ben evidenziato dal musicologo

Stefano Zenni: l'attribuzione del

dominio ritmico all'Africa e di quello armonico all'Europa [...] implica


una visione sottilmente razzista della musica. Agli africani, corporei e
"istintivi" riconosciuta l'abilit nell'espressione pi fisica e immediata,
originaria e liberatoria: il ritmo. L'armonia invece un prodotto di quelle
capacit teoriche, riflessive, gerarchiche e sintattiche tipicamente
europee. (Zenni: 2008, p. 70)
Al di l dei giudizi di merito, la ricerca musicologica ha dovuto inoltre
affrontare numerosi problemi di tipo metodologico nell'approccio al jazz.
Se la musicologia classica europea si formata sull'analisi della
composizione, il primo ostacolo da superare stato quello di rendere
conto della complessit che sottende l'improvvisazione musicale nel
jazz. Sebbene la trascrizione musicale possa essere utile per analizzare
da un punto di vista tecnico le capacit dell'esecutore o le strutture
formali della composizione, la gran parte del processo di interazione che
rende possibile l'improvvisazione nel jazz rimane comunque fuori da tale
tipo di analisi.
Il jazz sfuggente, non si conforma alle regole della musica colta
europea, poich fondato su un'inedita fusione tra la figura dell'esecutore
e

quella

del

compositore

nell'immediatezza

dell'atto

musicale,

dell'esecuzione, della performance. Non un caso che si parli spesso


dell'improvvisazione in termini di composizione istantanea.
Le tecniche della trascrizione musicale che sono alla base della ricerca
musicologica, si sono poi rivelate del tutto impotenti anche nel rendere
conto della grande ricchezza timbrica del jazz. Laddove infatti
l'esecutore classico viene addestrato ad ottenere un suono puro e

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"conforme" dal proprio strumento, nel jazz e nelle musiche


afroamericane in generale la ricerca continua di una "voce" individuale
rappresenta lo sforzo primario nello sviluppo artistico di ogni musicista.
La tecnologia di registrazione acustica e poi elettrica, che hanno avuto le
proprie pionieristiche applicazioni proprio nel jazz, hanno reso solo in
parte giustizia di questa complessit e ricchezza.

1.3 Tra etnomusicologia ed antropologia


Una prospettiva pi consona all'analisi della forma jazz senz'altro
quella proposta dall'etnomusicologia. Sorta nel tardo '800 (in Germania
viene indicata come vergleichende Musikwissenschaft, musicologia
comparata) ad opera di alcuni pionieristici cultori come Bla Bartk e
Constantin Brailoiu, la nuova disciplina caratterizzata dall'impiego
delle tecnologie di registrazione sonora, di tecniche di trascrizione che
riflettono lo sforzo di offrire un'analisi fedele dell'atto musicale e
soprattutto da una grande attenzione al contesto sociale e culturale in cui
si inseriscono le culture musicali di tradizione orale. Proprio negli Stati
Uniti, dove molti musicologi tedeschi troveranno rifugio durante il
Nazismo, l'etnomusicologia trover uno dei suoi terreni ideali di
applicazione e il jazz nelle sue forme pi primitive e originarie
rappresenter un campo di studi indagato a fondo dagli etnomusicologi.
Per citare solo uno dei numerosi casi di incontro tra etnomusicologia e
jazz possiamo ricordare le celebri interviste al pianista e compositore
Jelly Roll Morton, massimo esponente dello stile ragtime, condotte da
Alan Lomax intorno al 1938.

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Il jazz rimane essenzialmente una musica di tradizione orale, fondata


cio sulla trasmissione di pratiche sedimentate nel corso dei decenni da
generazioni di artisti e su una particolare attenzione alla materia sonora
in s, piuttosto che sulla scrittura e sulla composizione. Per dirla con le
parole dell'etnomusicologo Gianfranco Salvatore, l'elemento chiave nel
jazz propriamente l'atto musicale inteso come un insieme correlato di
gesti e saperi in azione, espressivit e sensorialit, partecipazione
psichica, emotiva e fisica, codici cerimoniali e rituali, livelli complessi e
interrelati di significazione. Nella musica afroamericana, dove non vige
una netta differenza tra testo ed esecuzione, n una netta separazione tra
musicista e pubblico, dove la dimensione strettamente musicale e quella
contestuale-ambientale tendono ad interagire, il concetto di atto musicale
aiuta a restituire il linguaggio ai suoi referenti culturali e antropologici,
enfatizzando la dimensione umana integrale dell'agire e del fare.
(Salvatore: 2005, p.22)
Gi da questa breve citazione possibile individuare il netto
slittamento di prospettiva operato dall'etnomusicologia nei confronti del
jazz cos come di altre musiche di tradizione orale. Dispiegando i propri
strumenti analitici in un territorio di confine rimasto inesplorato, a
cavallo tra discipline socio-antropologiche e ricerca musicologica,
l'etnomusicologia ha cos potuto offrire un contributo fondamentale e
sostanzialmente inedito all'analisi del fenomeno jazz.
Le metodologie della ricerca antropologiche sono corse in aiuto
dell'analisi musicale per cercare di approfondire l'analisi del fenomeno.
Ma anche in questo modo, qualcosa di molto importante resta fuori
dall'inquadratura. Come rendere conto di tutto ci che si situa "prima"
della performance musicale, come rendere conto dello straordinario

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lavoro di interazione che sottende all'improvvisazione? Stiamo parlando


in questo caso di una forma ben precisa di improvvisazione, quella in cui
uno o pi solisti intraprendono un proprio discorso musicale
improvvisato sostenuti da altri musicisti che fungono da accompagnatori.
Vedremo in seguito come tale modello non sia l'unico in questa musica,
sebbene venga spesso identificato con il jazz tout court. Il jazz una
musica che si fonda sull'oralit, sulla performancec contingente e
irripetibile, sull'interazione e sul dialogo.
Il lento e doloroso affrancamento degli afroamericani dai pregiudizi e
dalle discriminazioni razziali e il loro ingresso nella cultura accademica
americana porteranno in seguito alla nascita di un nuovo filone di studi
nelle scienze sociali che cercher di offrire una nuova prospettiva anche
nello studio della grande cultura musicale dei neri d'America.

1.4 African American Studies: una prospettiva etnica?


Con la dicitura African-American Studies si indica un ambito di studi
sorto negli Stati Uniti a ridosso delle proteste per i diritti civili intorno al
1968. Proprio in quell'anno viene creato il primo "Department of Black
Studies" dall'universit statale di San Francisco che ne affida la direzione
al sociologo Nathan Hare. Quando parliamo di African American Studies
non intendiamo in realt una disciplina a se stante, quanto piuttosto un
corpus interdisciplinare che comprende tra le altre la sociologia,
l'antropologia culturale, la storia, gli studi religiosi e la critica letteraria.
Questa fusione di approcci poi giunta ad una formalizzazione nei

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dipartimenti universitari, fino alla creazione di percorsi di studi dedicati.


La prospettiva comune caratterizzata da un netto afrocentrismo in cui
molti autori hanno facilmente individuato una forma di reazione e di
resistenza all'eurocentrismo accademico americano che tendeva a non
riconoscere o ignorare del tutto il contributo della cultura afroamericana
alla formazione della societ americana in generale. D'altra parte, la
prospettiva esclusivista di questo genere di approcci ne ha costituito, a
detta di molti, il limite principale. Negli African American Studies, il
jazz stato rappresentato come forma d'arte "regina" della cultura
afroamericana e l'analisi delle sue componenti sociali e culturali stata
inserita nel pi ampio discorso sulla Black Diaspora e sul contributo
delle culture afroamericane alla societ del XX secolo. In questo caso
interessante notare come il jazz, da arte etnicamente connotata, si sia
svincolata dalle sue origini per divenire un linguaggio globale che ha
investito anche altri contesti della produzione artistica, dalla pittura al
cinema alla letteratura.
Il sociologo britannico Paul Gilroy, uno dei principali esponenti
contemporanei di questo approccio, ci offre un inquadramento della
musica come elemento centrale e addirittura fondante della cultura
afroamericana:
La forza e il rilievo della musica all'interno dell'Atlantico Nero sono
cresciute in proporzione inversa rispetto al limitato potere espressivo del
linguaggio. importante ricordare che l'accesso degli schiavi alla cultura
scritta veniva spesso negato, pena la morte, e che solo poche opportunit
di riscatto culturale venivano offerte quali surrogato delle altre forme di
autonomia individuale negate dalla vita nelle piantagioni e nelle
baracche.

La

musica

diventa

vitale

nel

momento

in

cui

l'indeterminatezza (la polifonia) linguistica e semantica emerge dalle

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continue battaglie tra i padroni, le padrone e gli schiavi. Tale conflitto,


decisamente moderno, fu il prodotto di circostanze nelle quali il
linguaggio perse una parte della propria referenzialit e del suo rapporto
privilegiato con i concetti. (Gilroy: 2003, p. 154)
E pi avanti, sugli interrogativi sorti a seguito di quel processo di
diffusione che ha portato i generi della musica afroamericana fuori dai
confini etnici delle proprie origini, fino a diventare linguaggio musicale
globale e condiviso:
Quali particolari problemi analitici si presentano se uno stile, un
genere o una performance specifica di musica vengono identificati come
espressione della pura essenza del gruppo che li ha prodotti? Quali
contraddizioni emergono nella trasmissione e nell'adattamento di questa
espressione culturale a opera di altre popolazioni della diaspora, e come
potranno essere risolte? [...] Una volta che la musica venga percepita
come fenomeno mondiale, quale valore viene assegnato alle sue origini,
specie se vanno a contrapporsi a successive mutazioni prodotte durante
le sue contingenti deviazioni e le sue traiettorie frammentate? (Gilroy:
2003, p. 156)
Gli esponenti della corrente degli African American Studies non sono
certo i primi ad occuparsi della materia jazz. La sociologia della musica
si era gi prodotta in alcune analisi del jazz le quali, va detto
preliminarmente, hanno spesso peccato di superficialit e incompiutezza,
come nel caso di Thomas W. Adorno. Approcci pi compiuti ed
equilibrati saranno invece quelli di sociologi che pi direttamente hanno
avuto modo di venire a contatto con il contesto sociale del jazz come nel
caso di Alfred Schutz, fino ad arrivare alle illuminanti indagini di

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Howard S. Becker, nel cui caso assistiamo ad un fortunato incontro tra


analisi sociale e biografia dell'autore.

1.5 La prospettiva sociologica


Gli approcci pi prettamente sociologici hanno, per forza di cose,
escluso la componente musicologica. In questo caso, l'oggetto della
ricerca si spostato piuttosto sull'analisi del jazz come fenomeno sociale
e culturale.
Possiamo individuare due direttive negli studi: il contributo del jazz
come forma d'arte nel XX secolo e il jazz come fenomeno sociale.
Nel primo caso, siamo nel campo della sociologia della musica,
disciplina inaugurata da Weber in Economia e Societ. Diversi i temi
sottoposti ad analisi in questo contesto: la funzione dell'elemento
"musica" nella societ, l'impatto della riproducibilit meccanica sulla
fruizione della musica, la classificazione dei generi musicali e le
differenze nei "comportamenti musicali" ad essi connessi, la ricezione
della musica presso l'opinione pubblica e i diversi ruoli giocati dagli
attori (compositori, esecutori, pubblico, critica, industria discografica).
Nel caso specifico del jazz, il limite principale di questo genere di analisi
(e in particolare di quella di Adorno) stata la decisione di abbandonarsi
a giudizi di merito sul valore musicale di questo genere.
Nel secondo caso, il focus del ricercatore si indirizzato verso la
comunit dei musicisti di jazz (spesso con un accento rilevante sul tema
della devianza, con una particolare predilezione per le analisi sul
consumo di droghe); oppure, pi raramente, sul pubblico del jazz e

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sull'impatto sulla cultura popolare e sull'immaginario del XX secolo. Il


jazz dunque come arte americana per eccellenza, espressione della
modernit e del cambiamento.

1.5.1 L'equivoco di Adorno


Il maggiore esponente della Teoria Critica si occupa di jazz gi a
partire dal 1933 con il suo Abschied vom Jazz e ritorna pi volte
sull'argomento fino agli anni '60 del secolo scorso. Appare fin da subito
una sorta di militante ostilit del pensatore tedesco nei confronti di
questa musica e del contesto sociale in cui essa si inscrive. Le ragioni di
questo attacco frontale sono state pi volte indagate dai ricercatori nel
corso degli anni, oscillando tra l'imbarazzo dovuto al rispetto per una
figura cos importante per la storia della sociologia e la strenua difesa di
una cultura musicale la cui ricchezza e profondit Adorno sembra aver
completamente misconosciuto. Del resto le posizioni del pensatore si
inscrivono pienamente nel suo programma di critica della societ dei
consumi. Quello fra Adorno e il jazz a mio avviso un incontro
mancato. L'autore decide di soffermarsi esclusivamente sulle varianti pi
commerciali e standardizzate di tale forma di espressione, ignorando del
tutto la carica di ribellione alla mercificazione e di radicale contestazione
della societ americana di cui il jazz si far portavoce gi a partire dalla
met degli anni '40 con la "rivoluzione" del be bop2; fino alla diretta
saldatura tra movimenti per i diritti civili e musica afroamericana che si

Stile fondamentale del jazz moderno, il be bop nasce nei primi anni 40 ad opera di alcuni
giovani musicisti per lo pi afroamericani e soprattutto fuori dal contesto stabile delle big
band. I nuovi musicisti della scena newyorkese (Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Art Tatum,
Charlie Christian, Thelonious Monk ed altri), si riuniscono do

21

celebrer negli anni '60, con le nuove tendenze culturali della new thing
e del free jazz.

1.5.2 Schutz: "Making music together"


Una prospettiva particolarmente interessante ai fini della mia ricerca
quella offerta da Alfred Schutz nel saggio "Making Music Together"
(1964).
In una breve ma brillante trattazione, il sociologo austriaco indaga il
tipo di relazioni sociali che sottostanno al processo di creazione
musicale.
Nelle parole dell'autore, lo studio della particolare situazione
comunicativa implicata nel processo musicale, potrebbe gettare una
nuova luce sugli aspetti non concettuali coinvolti in ogni modello di
comunicazione (Schutz: 1964, p.162)
La notazione musicale, evidenza Schutz, rappresenta un sistema solo
approssimativo di comunicazione delle idee musicali tra il compositore e
gli esecutori della sua opera. Esiste una lunga storia di esegesi delle
partiture che permette di rappresentare opere musicali composte anche
secoli addietro. Ciononostante, la corretta interpretazione dell'idea
originaria del compositore non mai garantita.
Successivamente, ovvero nell'atto pratico dell'esecuzione musicale,
interviene un complesso vocabolario e una conseguente sintassi di
espressioni gestuali, non linguistiche, attraverso le quali i musicisti
comunicano e si relazionano. Si potrebbe parlare di "regole del gioco"
condivise da musicisti e pubblico che assiste all'esecuzione.

22

Nel contesto di una performance musicale, si instaura tra i partecipanti


una relazione di "mutuo accordo" (mutual tuning-in relationship) in cui
l'esperienza dell'Io e dell'Altro diventano consapevolezza del "Noi".
Quello che unisce compositore, esecutore e ascoltatore la condivisione
di una medesima frazione del tempo che coincide con la durata della
perfomance. Dal momento che ogni performance intesa come un atto di
comunicazione basata su una serie di eventi [...], nel nostro caso un
flusso di suoni udibili, possiamo affermare che la relazione sociale tra
esecutore ed ascoltatore fondata sull'esperienza condivisa di vivere
simultaneamente in diverse dimensioni temporali (Schutz: 1964, p. 175;
trad. mia). Nell'atto dell'esecuzione, contemporanea e immanente, si
dissolverebbe dunque la distanza (temporale, geografica, culturale) tra
l'idea del compositore tradotta in notazione e gli esecutori di quella idea,
ma anche la distanza di ruolo tra musicisti e ascoltatori.
"Fare musica insieme" diviene quindi una reciproca condivisione del
flusso di esperienze tra individui che "abitano" un medesimo segmento
di tempo e partecipano ad un evento collettivo che li coinvolge su pi
livelli e con diversi ruoli.
In un passaggio, Schutz sostiene che dal suo punto di vista non esiste
una reale differenza tra un quartetto d'archi e un quartetto jazz impegnato
in una jam session, poich in entrambe le situazioni abbiamo una
prevalenza dell'aspetto relazionale su quello prescrittivo dell'esecuzione
di

una

partitura.

Dobbiamo

per

notare

che

l'elemento

dell'improvvisazione presuppone un livello di interazione ancora pi


profondo e radicale rispetto a quello di un contesto "classico", come
vedremo nel corso della ricerca. Al di l di questa necessaria
precisazione, l'impianto generale della tesi sostenuta da Schutz
estremamente calzante all'approccio che ho scelto e rappresenta un

23

contributo essenziale all'identificazione delle "regole del gioco" sottese


alla pratica dell'improvvisazione.

1.5.3 H.S. Becker: il mestiere dell'improvvisatore


Mentre terminava i suoi studi presso l'Universit di Chicago sotto la
guida del suo mentore Everett C. Hughes, Howard Becker lavor come
pianista jazz professionista nei locali della citt. Fu proprio questo
contatto diretto con la cultura dei jazzisti e con questo peculiare ambito
professionale a spingere Becker ad intraprendere un pluridecennale ed
estensivo studio su questo oggetto che sfoci, tra l'altro, nella
pubblicazione del celebre volume Outsiders, nel quale l'autore giunge
anche ad una riconsiderazione teorica di alcuni concetti chiave della
sociologia della devianza.
L'appassionata dimostrazione della densit di significati rilevabili
nell'analisi del mestiere dell'improvvisatore hanno rappresentato uno dei
principali stimoli alla scelta dell'oggetto della mia ricerca. Nel corso
della trattazione avr occasione di rendere conto del contributo di Becker
ad una nuova prospettiva nell'indagine sociologica sulla cultura jazz.
In anni pi recenti abbiamo assistito al fiorire di una nuova corrente di
studi nel campo del jazz che ha il merito di unire la precisione analitica
dell'etnomusicologia

con

l'attenzione

al

contesto

mutuata

dall'antropologia culturale e dalla sociologia della cultura. I due autori


che maggiormente hanno influenzato la mia ricerca sono entrambi
americani: si tratta degli etnomusicologi ed antropologi Paul Berliner ed
Ingrid Monson.

24

1.6 Paul Berliner: l'improvvisazione come competenza


Pubblicato nel 1994, Thinking in Jazz. The Infinite Art of
Improvisation dell'etnomusicologo Paul Berliner senza dubbio uno dei
pi completi studi sulle pratiche dell'improvvisazione. Al di l della
irrinunciabile analisi musicologica e tecnica, emerge qui l'immagine
dell'improvvisazione come competenza, come lingua corrente che
necessita quindi di un vero e proprio percorso di apprendistato e di una
pratica continua per arrivare a quella spontaneit e a quella fluency che
rappresentano i criteri per valutare un buon jazzista. Attraverso l'uso
delle tecniche dell'osservazione partecipante e con il sostegno di
numerose interviste agli "attori", Berliner ci descrive il percorso di
iniziazione all'improvvisazione, dimostrando che improvvisare non
significa banalmente rifiutare le regole ma semmai esplicitarle ancora di
pi attraverso un processo continuo di negazione e negoziazione delle
stesse. L'analisi dei clich, dello slang e della terminologia tecnica, delle
convenzioni, delle prassi consolidate e dei taciti accordi necessari a
produrre improvvisazione risultano fondamentali ai fini di una ricerca
che intende presentare l'improvvisazione musicale come modello di
interazione e di trasmissione culturale.

1.7 Ingrid Monson: i riflettori sulla sezione ritmica.


Ingrid Monson, nel suo Saying Something. Jazz Improvisation and
Interaction (1996), focalizza lanalisi sulla componente meno in vista e
pi trascurata di una formazione jazz: la rhythm section (o sezione

25

ritmica, tradizionalmente costituita da batteria, contrabbasso, pianoforte


e/o chitarra). Avvalendosi di un gran numero di interviste ad alcuni dei
pi rappresentativi musicisti americani degli ultimi anni,

Monson

sviluppa soprattutto il concetto di "interattivit" come strumento di


interpretazione dei processi improvvisativi. Nella mia ricerca, prender
sovente inspirazione dal lavoro di Monson per rendere conto innanzitutto
del "mestiere" di musicista jazz professionista, le cui caratteristiche
appaiono amplificate nei ruoli secondari della performance: quelli
appunto della rhythm section.
In questo capitolo ho cercato di offrire una panoramica di alcuni dei
principali approcci alla materia del jazz. Si trattato di una rassegna
piuttosto sommaria che ha privilegiato gli studi che maggiormente hanno
influenzato la costruzione di questo lavoro.
Nel capitolo successivo tenter invece di entrare direttamente nel vivo
del

discorso,

affrontando

la

complessa

sfuggente

materia

dell'improvvisazione.
Trattandosi di un argomento piuttosto complesso, ho scelto di seguire
un approccio pi pratico, evitando di addentrarmi troppo in profondit
nelle varie interpretazioni filosofiche connesse al concetto di
improvvisazione e privilegiando invece quelle prospettive analitiche che
io stesso ho poi utilizzato come strumenti di sistematizzazione del
materiale empirico e del corpus di esperienze accumulate nel corso della
ricerca.

26

2. Il mestiere dell'improvvisazone
I used to think, how could jazz musicians pick notes out of thin air? I had no idea
of the knowledge it took. It was like magic to me at the time.
Calvin Hill (contrabbassista) (da Berliner: 1994, p. 1)

2.1 La magia dell'improvvisazione


Proviamo ad immaginare un ascoltatore comune, non ancora "iniziato"
al mondo del jazz, che si trova ad assistere per la prima volta ad una jam
session. Per questo ipotetico ascoltatore potrebbe risultare molto difficile
accettare che la performance musicale a cui sta assistendo basata
sostanzialmente sull'improvvisazione estemporanea. Soprattutto nel caso
in cui questo ascoltatore abbia la fortuna di ascoltare un set con musicisti
navigati e abili, sarebbe portato a credere che quella coesione, quel
trasporto, quell'energico e istintivo sincronismo tra i musicisti che sta
osservando/ascoltando siano piuttosto il frutto di una meticolosa
composizione delle singole parti e di lunghe ed estenuanti sessioni di
prove. Molti ascoltatori stentano a credere che l'unico riferimento
comune di cui dispongono i musicisti si riduca spesso ad una semplice
successione di accordi, ad un breve motivo melodico e a poche altre
indicazioni. Che nulla di quello che sta accadendo sia stato preventivato
e che i "fatti musicali" stiano avvenendo in tempo reale. Questo neofita
potrebbe rimanere ancora pi sbalordito nell'apprendere che i musicisti
sul palco si incontrano in quel momento per la prima volta e che magari
si presenteranno solo al termine dell'esecuzione, scambiandosi

27

complimenti e segni di apprezzamento reciproco. Eppure proprio


quello che spesso accade in una situazione come quella della jam
session, nella quale un collettivo di musicisti si riunisce in modo del
tutto casuale sul palco per creare insieme una performance improvvisata.
Come vedremo in seguito, la jam non l'unica modalit di
organizzazione dell'evento sonoro. Nel jazz contemporaneo spesso il
concerto proprio il risultato di una meticolosa preparazione collettiva.
Se il nostro ascoltatore andr ad assistere ad un festival o ad un
concerto in teatro, probabilmente trover sul palco una formazione ben
collaudata, i cui membri stanno portando avanti un progetto discografico
di cui il concerto rappresenta solo la presentazione live. Ci sar forse un
leader che ha firmato le composizioni originali e addirittura potrebbe
succedere che alcuni dei musicisti suonino con uno spartito davanti,
segno inequivocabile che quella musica stata prima di quel momento
pensata e messa sul pentagramma da un compositore. Ma anche in
questo caso, l'ascoltatore deve sapere che non tutto gi stato previsto e
che la presenza di un materiale composto pi organico e strutturato non
garantisce che il risultato finale sia identico a quello del disco. Perch
anche in quel caso ci sar l'intervento dell'improvvisazione a scombinare
almeno un po' le carte in tavola, e allora qualunque cosa potrebbe
succedere. Altrimenti non sarebbe jazz.
Appunto, non jazz se non c' improvvisazione. Ma poi davvero
cos? Possiamo davvero affermare che tutto il jazz improvvisazione e
che tutte le improvvisazioni musicali sono jazz?
A questo proposito credo sia necessario tentare di definire meglio il
concetto di improvvisazione. Questo significa entrare in un campo
minato, dal quale difficilmente si pu uscire affidandosi soltanto all'aiuto
di un dizionario. Se provassimo a combinare diverse definizioni, ne

28

ricaveremmo che l'improvvisazione, in termini generali, la capacit di


agire di fronte ad una situazione inattesa o imprevista, senza cio che sia
possibile in alcun modo prepararsi in anticipo. Entrando nello specifico
del contesto musicale, improvvisare significherebbe dunque creare
musica dal nulla, senza ricorrere a partiture, appunti o materiale
memorizzato. Creare qualcosa partendo da niente, in definitiva. Anche il
nostro ascoltatore inesperto rimarr insoddisfatto da questa definizione.
Innanzitutto potrebbe notare che durante quella prima jam session a cui
ha assistito, qualcuno leggeva sugli spartiti e che nel magma
dell'improvvisazione gli parso di riconoscere una melodia comune, un
tema ricorrente che tutti i musicisti sul palco sembravano conoscere alla
perfezione. A questo ascoltatore verr da pensare che forse qualcuno dei
musicisti stesse "barando" e che non tutto fosse creato dal nulla. Se poi,
incuriosito dallo spettacolo a cui ha assistito, l'ascoltatore volesse crearsi
una sua discografia essenziale per introdursi al mondo del jazz, si
accorgerebbe ben presto che i grandi improvvisatori hanno sempre un
qualcosa che li distingue da tutti gli altri. Un modo di fraseggiare, un
approccio particolare al ritmo e alla melodia ma soprattutto un timbro
unico, inconfondibile. In effetti, proprio questa ricerca dell'unicit, del
suono individuale, uno degli elementi chiave del jazz. Se ad esempio
questo ascoltatore si procurasse uno qualsiasi degli album registrati dal
Miles Davis Quintet nella seconda met degli anni '50, scoprirebbe che
quel particolare suono della tromba di Miles, con la leggendaria sordina
Harmon innestata, una specie di Stele di Rosetta per decifrare il jazz
contemporaneo. Un monumento eterno all'unicit del suono come mezzo
di affermazione dell'individualit del musicista. Con quel particolare
timbro, Miles Davis ha voluto porre la sua firma inconfondibile e il
nostro ascoltatore alle prime armi da quel momento in poi sar in grado

29

di distinguerla senza alcuna fatica tra centinaia di altri suoni. Cosa


c'entra dunque tutto ci con l'improvvisazione? Com' possibile
affermare, alla luce di questi elementi, che l'improvvisazione sia una
creazione dal nulla, che non ci sia qualcosa dietro? Si tratta forse di
quella misteriosa conoscenza "segreta", quel sapere iniziatico di cui parla
il bassista Calvin Hill nella citazione che ho riportato all'inizio di questo
capitolo?
Volendo dare una risposta al primo quesito che ci siamo posti, vale a
dire se il jazz sempre improvvisato, dovremmo propendere nettamente
per il no. Anche da un punto di vista storico, bisogna notare che
l'improvvisazione non ha sempre avuto quel ruolo centrale che occupa
nel jazz contemporaneo. Nelle formazioni dei primi anni '20 capeggiate
da King Oliver a St. Louis, ad esempio, lo spazio lasciato
all'improvvisazione ben poco. (Carles, Clergeat, Comolli: 2008, voce
"Improvvisazione", p. 613). Possiamo poi ricordare che il ragtime, lo
stile pianistico che spesso viene indicato come capostipite del jazz in
realt interamente composto, sebbene possano emergere alcuni elementi
di variazione estemporanea. Nello stile di New Orleans cominciano ad
apparire alcune forme di variazione della melodia, spesso fraintese per
vere e proprie improvvisazioni collettive. soltanto con Louis
Armstrong e le sue formazioni della seconda met degli anni '20, gli Hot
Five e gli Hot Seven, che l'improvvisazione individuale emerge come
tratto distintivo del jazz. Mentre il jazz compie la sua migrazione da
New Orleans e dal Sud verso le grandi citt, soprattutto Kansas City,
Chicago e successivamente New York City, il ruolo dell'improvvisazione
cresce progressivamente. A cavallo degli anni '30 il "solo" diventa il
momento culminante in cui l'individualit del musicista emerge dal
collettivo e le capacit di ogni singolo improvvisatore diventano materia

30

di confronto, di studio, addirittura di venerazione nel caso dei grandi


personaggi della storia del jazz. Ma l'equazione tra jazz e
improvvisazione non sar mai risolta in maniera univoca e per tutta la
storia di questa musica si osciller tra episodi di totale assenza di
improvvisazione ad altri di improvvisazione totale. Ponendosi ad uno dei
due poli opposti di questa relazione, possiamo citare da un lato alcuni
capolavori composti da Duke Ellington per la sua orchestra come
Reminiscing in Tempo e On a Turquoise Cloud, privi di interventi
improvvisati. All'estremo opposto, potremmo citare il celebre disco Free
Jazz (1960), in cui un rivoluzionario Ornette Coleman mette insieme un
doppio

quartetto

per

registrare

36

minuti

23

secondi

di

improvvisazione totale e collettiva. In mezzo a questi due estremi si


collocano tutte le infinite miscele tra composizione ed improvvisazione
che rappresentano il grande contributo del jazz alla musica del XX
secolo.
La seconda domanda che ci siamo posti se dobbiamo considerare
jazz tutte le forme di improvvisazione musicale. A questa domanda
ancora pi semplice dare una risposta negativa se si conosce anche solo
superficialmente la storia della musica occidentale. Si pu affermare che
possibile adoperare il concetto di improvvisazione solo in opposizione
a quello di composizione. Non avrebbe senso cio parlare di
improvvisazione nelle culture musicali di tradizione orale, laddove non
esiste un sistema organico di notazione o di organizzazione degli eventi
sonori come invece avviene nella nostra cultura occidentale o in altre
ricche tradizioni musicali come quella indiana, fortemente formalizzate.
Con l'emergere di una formalizzazione della musica nella cultura
occidentale, si viene a creare un territorio di confine in cui persistono

31

delle

tecniche

di

improvvisazione

(o

piuttosto

di

variazione

estemporanea) che si affiancano al materiale composto e preordinato.


Nella musica liturgica a cavallo tra Medioevo e Rinascimento prassi
comune quella di improvvisare un contrappunto sopra un cantus firmus,
vale a dire una linea melodica posta alla base di una condotta polifonica.
Successivamente, con la pratica del basso continuo, si sviluppa una
raffinata tecnica di accompagnamento della melodia basato su una linea
di basso sulla quale una strumento armonico (ad es. il clavicembalo)
suona degli accordi basandosi esclusivamente su alcune indicazioni
convenzionali fornite dal compositore (la cosiddetta tecnica del basso
numerato). sorprendente notare come tale tecnica abbia molte
similitudini con quella che solitamente adoperano un bassista ed un
pianista jazz contemporanei, come cercheremo di spiegare nel capitolo
dedicato al "funzionamento" del jazz. L'improvvisazione continua ad
essere presente in tutta la storia della musica colta occidentale, sebbene a
volte non rappresenti una precisa scelta artistica, quanto piuttosto una
dimostrazione di capacit armoniche e strumentali. Si narra che sia
Mozart che Beethoven (e successivamente anche Liszt) fossero degli
eccellenti improvvisatori, capaci di creare all'impronta delle complesse
cadenze per pianoforte, con le quali mandavano in visibilio i fortunati
ascoltatori di quelle creazioni estemporanee.
Poich questa ricerca non si occupa del concetto di improvvisazione in
termini

strettamente

musicologici,

ma

piuttosto

di

una

sua

interpretazione come modello di interazione, ritengo necessario


presentare in questo capitolo dei tentativi di sistemazione teorica cos
come sono stati elaborati in alcuni importanti lavori specialistici
sull'argomento.

32

2.2 Improvvisazione come competenza


Confutare il grossolano equivoco che vuole l'improvvisazione come
una creazione spontanea partendo "dal nulla", significa rendere conto del
genere di competenza che questa pratica musicale presuppone.
"L'improvvisazione determinata, in effetti, da pensatori che hanno
assorbito una vasta conoscenza musicale che include una miriade di
convenzioni che contribuiscono a formulare delle idee in modo logico,
cogente ed espressivo. (Berliner: 1994, p 492, trad. mia)"
Il

mestiere

dell'improvvisazione

richiede

dunque

un

lungo

apprendistato attraverso il quale il musicista viene a contatto con una


tradizione quasi centenaria a cui attinger per affinare il proprio
vocabolario individuale. Si tratta di un lungo viaggio iniziatico del quale
non facile intravedere la fine e che molti musicisti identificano con la
durata stessa della propria carriera. Un percorso spesso difficile, in cui ci
si confronta con le proprie capacit di apprendimento, col proprio
talento, soffrendo spesso le frustrazioni che derivano dallo sforzo di
superare i propri limiti tecnici ed espressivi o dal confronto spietato con
gli altri musicisti, in un contesto fortemente competitivo com' quello del
jazz. Un percorso che coincide dunque con la continua ricerca di una
propria voce individuale e di una distinta personalit artistica, massime
aspirazioni per qualunque musicista che non voglia fermarsi alla pura
riproposta manieristica di uno stile.
"Ci si avvale di anni di preparazione e di tutta la propria sensibilit
proprio per spingersi al di l di quello che si rivelato efficace nel corso
delle performance precedenti, per spingersi ai confini del non-gi-noto
[...] se i musicisti sono capaci di improvvisare, lo fanno perch

33

conoscono le regole e i materiali della loro disciplina, li conoscono al


punto da permettersi di variarli e trasgredirli in modo creativo." (Sparti:
2005, p. 123).
"Il jazz si apprende per prova ed errore, assimilando sul campo regole,
pratiche, tradizioni, capacit di interazione. In questo non diverso da
altre musiche di tradizione orale: l'individuo acquisisce competenza
osservando, imitando, rielaborando, ma con una maggior opportunit per
l'invenzione originale e dunque per l'innovazione, che richiede capacit
superiori di manipolazione del discorso musicale" (Zenni: 2008, p. 23)
Questo percorso di addestramento non pu essere assimilato a quello
di un musicista di formazione classica. Per uno strumentista classico che
intende intraprendere la carriera del concertista esiste in buona sostanza
un percorso predefinito che poggia sullo studio sistematico dello
strumento nel contesto del conservatorio. Una volta acquisita la
padronanza dello strumento, il musicista affiner la sua conoscenza
specializzandosi spesso in una particolare prassi esecutiva funzionale
alla resa di una porzione pi o meno definita dell'immenso repertorio
della musica occidentale colta. Magari quel musicista si specializzer in
musica barocca o affronter lo studio della musica del novecento o del
repertorio romantico. In ogni caso, la sua professionalit si andr
formando attraverso un percorso pi o meno standard, affrontando
lunghe sessioni di prove con l'orchestra, mandando a memoria o
studiando a fondo lunghe e complesse partiture, cercando di interpretare
le indicazioni del direttore d'orchestra. Anche da un punto di vista
timbrico, i suoi sforzi saranno diretti all'ottenimento di un suono "puro",
cristallino, conforme alle indicazioni del compositore. A questo punto
potremmo abbandonarci ad una discussione sul complesso rapporto che
si instaura nel contesto della musica colta tra partitura, interpretazione,

34

esecuzione. Un'analisi che richiederebbe delle competenze di tipo


musicologico e che esula dagli obiettivi di questa ricerca.
Anche nel campo del jazz si assistito negli ultimi decenni ad una
progressiva formalizzazione dei percorsi di studio. I musicisti che oggi
intraprendono una carriera professionistica provengono spesso da studi
di conservatorio ed hanno abbondantemente frequentato le tecniche e la
teoria della musica classica. Anche nel campo specifico della formazione
jazz, ormai da tempo possibile seguire un percorso di studi ben
definito, in istituzioni di notevole prestigio internazionale (pensiamo al
Berklee College of Music di Boston o alla New School di New York solo
per citarne alcune, ma l'elenco dovrebbe includere i sempre pi
prestigiosi corsi europei, spesso inseriti nei programmi dei conservatori).
Coloro che accedono a questi corsi si trovano a contatto con altri
colleghi che seguono il loro stesso percorso, con la possibilit di studiare
e suonare con grandi maestri del jazz contemporaneo. Al termine di
questo percorso formale, il musicista potr fregiarsi di titoli accademici e
affermare di essere "diplomato" o addirittura "laureato" in jazz, titoli che
a loro volta potrebbero aprirgli la carriera della docenza. Una
definizione, quella del "laureato in jazz" che avrebbe suscitato forse delle
reazioni sarcastiche da parte di quegli artisti che hanno messo a punto la
forma moderna di questa musica nei locali di New York intorno agli anni
'40 del secolo scorso. Il percorso che quei "giganti" hanno attraversato
per affermare la propria arte stato infatti radicalmente diverso.
Alcuni musicisti della "vecchia guardia" intravedono in questo genere
di istituzioni il rischio di una crescente standardizzazione e omogeneit
nello stile e nelle prassi esecutive. Nelle parole di Eddie Henderson,
trombettista americano che ha avuto l'onore di ricevere le prime lezioni
niente meno che da Louis Armstrong, i musicisti che hanno seguito

35

questo genere di corsi sono riconoscibili per una impressionante maestria


tecnica, ma non certo per l'originalit e la personalit del loro sound:
"One time somebody gave me a cassette of a very good saxophone
player. They said: who is this? (a questo punto Mr. Henderson riproduce
con suoni onomatopeici un torrenziale assolo pieno di note). I said: I
don't know [...] the sound...it's an altoist...but I know he went to Berklee
School of Music!" (registrazione privata)
Nonostante la disponibilit di questi corsi di formazione avanzata,
ancora oggi molti tra coloro che intraprendono lo studio del jazz, in
modo pi o meno professionale, coltivano un percorso individuale.
Anche in questo caso per, la situazione molto cambiata dai tempi di
Charlie Parker. L'evoluzione e la diffusione della cultura jazz hanno
portato alla creazione di tutta una serie di supporti allo studio individuale
che fino a pochi decenni fa erano del tutto assenti. Lo studente
autodidatta ha oggi a disposizione un numero enorme di manuali e
metodi che affrontano ogni ambito della pratica jazzistica, dall'approccio
allo strumento allo studio sistematico delle tecniche di improvvisazione.
Questo studente potr praticare direttamente a casa sua utilizzando delle
basi musicali preconfezionate prive della parte solistica. Si pensi ai
famosi dischi della serie Aebersold, nei quali una sezione ritmica, spesso
formata da celebri musicisti, viene registrata mentre accompagna un
solista "fantasma". Lo studente non dovr fare altro che mettere il disco
nel proprio stereo ed esercitarsi per ore come se avesse un
contrabbassista, un batterista ed un pianista sempre a disposizione nella
sua camera. Il limite principale di questo tipo di supporti dovuto al
fatto che l'accompagnamento fornito da quei musicisti, per quanto
pregevole da un punto di vista tecnico, sempre immancabilmente

36

uguale a se stesso, cos com' stato registrato quella prima volta. Viene a
mancare, cio, uno degli elementi essenziali della performance jazz, vale
a dire la costante e continua interazione tra solista e sezione ritmica.
Proviamo ad immaginare un diligente autodidatta che ha acquistato tutta
la serie di queste basi musicali e che dopo lunghe ore passate nel suo
studio a provare e a riprovare i propri assolo decide di provare a suonare
in una jam session con una "vera" rhythm section. Si ritrover a suonare
con dei musicisti che non eseguono una parte in maniera statica, ma che
rispondono colpo su colpo, in modo interattivo, alle sue improvvisazioni.
Da una parte la situazione potrebbe entusiasmarlo, poich si troverebbe
finalmente catapultato nella materia viva e pulsante del "vero" jazz. Ma
d'altra parte, ci potrebbe condurre a dei risultati disastrosi,
sottoponendo il poveretto allo scherno degli altri musicisti pi esperti,
che individuerebbero in lui il tipico solista "da aebersold", incapace di
fare interplay3.
Nella tradizione jazzistica, lo studio individuale ha comunque
rappresentato la principale forma di addestramento all'improvvisazione
creativa. Intere generazioni di musicisti hanno seguito un percorso di
formazione che comprende alcune tappe fondamentali. Paul Berliner
(1994) ha delineato questo percorso, ricorrendo allo strumento
dell'intervista. Proviamo ora a sintetizzare i risultati di tale ricerca.
Bisogna anzitutto chiarire una preliminare distinzione tra le esperienze
dei musicisti nord americani e quelle dei loro colleghi europei. Essendo
nati nel Paese che ha dato i suoi natali al jazz, molti dei musicisti
americani, in particolare coloro che provengono dalla comunit
afroamericana, hanno avuto l'esperienza di trovarsi immersi direttamente
nella tradizione viva del jazz e della Black Music in generale. I primi
3

Interplay appunto il termine utilizzato dai jazzisti per indicare la coesione e


l'intermusicalit tra i membri di un gruppo.

37

approcci alla musica, per questi artisti, avvenivano direttamente nel


contesto familiare, ascoltando i dischi dei propri genitori, o nell'ambito
della comunit religiosa locale nella quale, come spesso accade nelle
tradizioni battiste, le funzioni includono come elemento centrale
l'intervento della musica suonata dal vivo. Questo genere di esposizioni
in vivo fin dalla pi tenera et un topos ricorrente nelle biografie dei
musicisti afroamericani, al punto che alcuni di loro hanno reso omaggio
a quel tipo di contesto anche nella loro produzione artistica in et
matura. Per citarne un esempio, si pensi al celebre lavoro del
contrabbassista e compositore americano Charles Mingus, il quale
include nell'album Blues & Roots (1960) un brano come Wednesday
Night Prayer Meeting nel quale egli richiama il clima di intensa
compartecipazione sperimentato durante le celebrazioni liturgiche che
frequentava da bambino. In questo genere di funzioni, che la letteratura
ci descrive spesso come veri e propri riti di purificazione collettiva, il
messaggio divino veniva veicolato dall'intervento della musica. In tale
istituto molti ricercatori hanno facilmente individuato un retaggio
culturale di chiara matrice africana, in cui la musica diventa lo strumento
essenziale per una transizione verso un livello alterato della coscienza,
nel quale l'individualit sfuma i suoi contorni nella collettivit e si cerca
di instaurare una comunicazione diretta con la sfera del divino, dando
vita spesso ad episodi di trance collettiva.
Oltre a questa precoce immersione nella tradizione, i musicisti
potevano inoltre contare sulla presenza costante della musica in ogni
contesto, dai jukebox ai negozi di dischi del quartiere, e soprattutto su
una grande proliferazione di locali che offrivano spettacoli di musica dal
viva. Stiamo parlando ovviamente di un contesto e di un periodo, gli
Stati Uniti degli anni '20, '30 e '40, che non a caso hanno prodotto quella

38

generazione di artisti che ha forgiato la forma del jazz moderno cos


come la conosciamo oggi. In Europa, ma anche nell'America dei nostri
giorni, la situazione radicalmente diversa. Ciononostante, alcune tappe
obbligate continuano ad essere presenti nella carriera dei jazzisti di ogni
epoca e provenienza, al punto che possibile delineare un percorso di
iniziazione e addestramento comune a tutti coloro che entrano nel mondo
del jazz da musicisti.
Lo strumento centrale il disco, il supporto sonoro su cui i musicisti
delle generazioni precedenti hanno lasciato una testimonianza della
propria arte. Lo studio sistematico delle registrazioni la prima fonte di
conoscenza a disposizione dello studente. Si tratta di un elemento
comune ad epoche e luoghi diversi. Chi scrive ha avuto modo di
raccogliere

al

riguardo

la

testimonianza

di

Bruno

Tommaso,

contrabbassista e compositore romano appartenente a quella generazione


di musicisti che hanno introdotto il jazz moderno nel nostro paese.
Tommaso, proveniente da solidi studi classici, ha incontrato come molti
altri il jazz nei dischi americani che riusciva faticosamente a procurarsi
negli anni '50 e '60. Ascoltando e riascoltando quelle registrazioni,
consumando in maniera irreversibile il vinile nel tentativo di trascrivere i
passi pi interessanti, Tommaso ha iniziato a costruire il suo vocabolario
musicale e la sua personalit timbrica sul modello dei musicisti
americani degli anni '40 e '50.
A differenza dei colleghi europei, i musicisti americani hanno la
possibilit di accedere alla comunit dei musicisti di jazz pi anziani.
Nelle jam session organizzate dai locali, attraverso conversazioni
informali o tramite lezioni private, il jazzista alle prime armi apprende i
rudimenti del mestiere. La comunit dei musicisti si configura dunque,

39

nelle parole di Berliner, come un vero e proprio sistema educativo, per


quanto informale (Berliner: 1994).
Attraverso questa continua esposizione al jazz e alla comunit degli
artisti, il giovane apprendista inizia a coltivare le proprie tecniche
strumentali e ad affinare il proprio linguaggio. Un passaggio essenziale
quello della memorizzazione dei patterns, ossia delle cellule musicali
che i solisti inseriscono nelle proprie improvvisazioni e che spesso
costituiscono i mattoni del discorso musicale. Gli studenti sono soliti
mandare a memoria centinaia di patterns, esercitandosi a suonarli in tutte
le tonalit. Alcune di queste frasi sono divenute talmente celebri nella
cultura jazz da divenire dei motivi tradizionali, spesso indicati col
termine licks. Alcuni di questi licks sono direttamente collegabili alla
figura di un particolare musicista, tanto da rappresentarne, al pari
dell'aspetto timbrico, una sorta di firma di autenticit. Queste frasi si
sono cristallizate nel linguaggio jazzistico e sono sopravvissute al
trascorrere delle generazioni. Conoscere un gran numero di licks e di
patterns non certo condizione sufficiente per definire un buon
improvvisatore, ma la capacit di citare qua e l nel proprio discorso
musicale le frasi storiche di grandi musicisti del passato una sorta di
dimostrazione di competenza e di abilit. La citazione uno degli
elementi chiave dell'improvvisazione e l'uso dei licks rientra in una sorta
di gioco tra improvvisatori nel quale, mentre si dimostrano i propri skills
e le proprie capacit tecniche e mnemoniche, si rende omaggio alla
grande tradizione del jazz.
La citazione di un lick non assume una valenza artistica autonoma. Al
di l della forma "devozionale" della citazione, quasi una dichiarazione
di appartenenza alla comunit storica dei jazzisti, si pu intravederne
anche un aspetto ludico. Un improvvisatore espone un tema X,

40

dopodich improvvisa su quella particolare griglia armonica e all'interno


del suo solo inserisce una frase celebre o un lick tipico di un particolare
autore. Oppure, espone il tema X e durante l'improvvisazione cita un
tema Y differente. La componente ludica consiste nel richiamare
l'attenzione degli altri musicisti o di quei membri del pubblico
abbastanza "dentro" alla cultura jazz da riconoscere la citazione. Una
prassi che richiama alla mente le teorie sull'esclusivismo di questa
musica, spesso accusata di chiusura autoreferenziale come vedremo nel
capitolo dedicato alla comunit jazz. Soltanto certe persone possono
cogliere appieno determinati "trucchi" (come appunto le citazioni),
probabilmente solo gli altri musicisti jazz. Ragion per cui il jazz sarebbe
una "musica per musicisti".
In altri casi, licks e patterns costituiscono delle ancore mnemoniche
alle quali l'improvvisatore pu sempre ricorrere nei momenti di "vuoto di
idee". Qualcosa di simile all'uso che si fa delle cosiddette "frasi fatte" o
espressioni convenzionali all'interno di una conversazione.
Uno dei compiti pi importanti per un musicista jazz consiste poi nel
memorizzare il maggior numero di brani e accrescere cos il proprio
repertorio. Come vedremo in seguito, buona parte del repertorio
tradizionale su cui i jazzisti basano le loro improvvisazioni costituito
dai cosiddetti standards, brani provenienti dai musical o canzoni celebri
negli anni '40 e '50 di cui vengono memorizzate melodia e progressione
armonica. Conoscere un elevato numero di standards ed essere in grado
di saperli suonare ad ogni velocit e in ogni tonalit il prerequisito
fondamentale per accedere alle jam sessions.

41

2.3 Improvvisazione e linguaggio


La metafora pi utilizzata, sia dai musicisti che dagli studiosi, per
descrivere le modalit con cui si apprende e si sviluppa la competenza
dell'improvvisazione quella del linguaggio.
Il parallellismo tra linguaggio ed improvvisazione pu essere
instaurato

su

improvvisazione,

pi

livelli:

apprendimento

costruzione dell'evento

delle

sonoro,

tecniche

di

interazione

tra

musicisti nella performance.


Come abbiamo gi visto, l'improvvisazione condivide con il
linguaggio parlato gli elementi della sintassi (armonia, uso delle scale),
della fraseologia e delle forme colloquiali (l'uso dei licks e dei patterns)
e soprattutto della pronuncia, ovvero del timbro.
Cos come per apprendere una lingua straniera necessario
immergersi completamente nel contesto in cui essa viene utilizzata, ad
esempio trascorrendo un periodo nel Paese in cui si parla quella lingua o
frequentando dei madrelingua, allo stesso modo lo studente cercher
ogni occasione per venire a contatto con la lingua del jazz. Ascoltando
ed analizzando i dischi e sfruttando ogni occasione per suonare con
musicisti pi esperti, lo studente di jazz cerca di arricchire il proprio
vocabolario e la propria pronuncia.
Le conoscenze di tipo teorico che vengono richieste per diventare dei
buoni improvvisatori sono tutto sommato limitate. Ne prova il fatto che
alcuni grandi jazzisti anche del passato recente non vantassero una
conoscenza approfondita della teoria musicale o dell'armonia.
La trasmissione delle conoscenze avviene sostanzialmente per
trasmissione orale, diretta o mediata che sia. Come abbiamo gi detto,
una delle pratiche pi frequenti tra gli studenti di jazz consiste nella

42

trascrizione degli assolo registrati sui dischi pi importanti. Alcuni


musicisti possono vantare collezioni impressionanti di trascrizioni e
hanno acquisito una tale dimestichezza con questa tecnica da riuscire a
trascrivere intere frasi in tempo reale, senza aver bisogno di fermare il
disco o di risuonarlo a velocit ridotta.
Molti docenti tuttavia, suggeriscono ai propri allievi di memorizzare
gli assolo dei loro musicisti preferiti e imparare a riprodurli sul proprio
strumento. Non a caso, gli studenti di jazz hanno l'abitudine di sfidarsi
cantando o fischiettando interi assolo di grandi musicisti del passato. In
questo modo si ritiene che l'allievo impari a controllare gli elementi
essenziali dell'evento sonoro improvvisato: la pronuncia, il timbro, il
senso della proporzione tra vuoto e pieno, tra suono e silenzio. Ma non
sufficiente aver letto Flaubert o Balzac e saperne citare interi passi per
poter dire di conoscere il francese. Il passaggio successivo consiste
necessariamente nel mettere alla prova la conoscenza acquisita, e nel
nostro caso ci consiste nell'esibirsi suonando dal vivo con altri
musicisti.
Secondo Berliner, i momenti in cui il musicista si ritrova ad
improvvisare in maniera "naturale" e fluente, segnano il passaggio ad
una maggior padronanza del nuovo linguaggio. Allo stesso modo, lo
studente di una lingua straniera si rende conto di averne interiorizzato la
sintassi e la grammatica quando si ritrova ad usare la nuova lingua in
maniera "naturale", ad esempio nell'immaginazione, nel sogno o anche
nel contesto di una conversazione informale e rilassata.
Parlando dell'improvvisazione, i jazzisti amano fare riferimento alla
capacit di "raccontare una storia". Secondo questa definizione, il solista
cercher di costruire il proprio intervento improvvisato in base ad una
struttura di tipo narrativo. Nelle culture di tradizione orale sono presenti

43

delle tecniche di storytelling improvvisato, basate su dei canovacci che


ruotano intorno a temi ricorrenti o archetipici. Questo genere di
narrazioni vengono costruite utilizzando formule pi o meno standard
che si ricompongono in base alle esigenze del racconto e che hanno la
duplice funzione di attirare l'attenzione dell'ascoltatore e di fornire un
sostegno mnemonico al narratore. Anche nell'improvvisazione jazz, il
solista esperto far attenzione a dare un senso di coerenza al proprio
intervento. Una delle qualit pi apprezzate tra i musicisti esperti e
maturi proprio quella di essere degli ottimi storytellers. Un ruolo
fondamentale lo gioca l'incipit, l'inizio dell'assolo. Molti jazzisti
consigliano ai loro allievi di non iniziare il proprio intervento in modo
irruente, scaricando sul pubblico una raffica di note. fondamentale,
viene detto, impostare l'atmosfera generale su cui si costruir
l'improvvisazione. Le prime note di un assolo diventano cos la formula
d'ingresso nella narrazione e al contempo una sorta di presentazione del
solista, che richiama l'attenzione degli ascoltatori sulla sua persona e
sulla "storia" musicale che si sta accingendo a narrare. Tutto ci rientra
nell'aspetto rituale della pratica improvvisativa. consuetudine, ad
esempio, che un solista inizi il suo assolo citando l'ultima frase suonata
dal musicista che ha improvvisato prima di lui. In questo modo, oltre a
rendere omaggio al collega che lo ha preceduto, il musicista cerca in
qualche modo di non interrompere il flusso narrativo creato dal solista
precedente. come se si volesse mantenere una ideale continuit tra un
solo e l'altro, come se i solisti non fossero altro che dei narratori che si
alternano nel racconto di una lunga storia. Anche nel corso
dell'improvvisazione, il solista cercher spesso di introdurre elementi
stereotipati e altre formule convenzionali. "Come un poeta orale o un
cantore gregoriano, il jazzista basa la sua invenzione su un bagaglio di

44

formule" (Zenni: 2008, p. 56). L'abilit consiste nell'inserire questi


elementi formulari con maestria e coerenza, di modo che non appaiano
"incollati" in modo posticcio, ma che contribuiscano piuttosto alla
fluidit del discorso. Una tecnica frequente consiste nell'utilizzare una
semplice frase ripetendola in diversi registri dello strumento e con
diversi tipi di pronuncia. Tutti questi espedienti fanno parte del bagaglio
di esperienze che un musicista accumula nel corso della sua carriera.

2.4 Improvvisazione e conversazione


La definizione dell'improvvisazione come competenza linguistica ci
porta direttamente all'utilizzo di tale capacit all'interno di un contesto
interattivo com' quello della performance e al paragone tra
improvvisazione e conversazione.
La trattazione pi approfondita del tema senz'altro quella offerta da
Ingrid Monson nel suo Saying Something. Jazz Improvisation and
Interaction.
Come nel caso delle capacit di storytelling, anche il riferimento
all'ambito della conversazione ricavato direttamente dalle categorie di
interpretazione utilizzate dagli stessi jazzisti. Sia Berliner che Monson
hanno rilevato, nelle loro interviste ai musicisti, un ricorso frequente a
questo tipo di metafore. Si tratta quindi di una prospettiva di tipo
"emico", termine ricavato dalla fonetica che l'antropologia ha preso in
prestito per indicare quell'approccio in cui si fa riferimento alle categorie
di interpretazione interne alla cultura di riferimento, in contrapposizione
all'approccio di tipo "etico" che si basa invece sulle categorie del

45

ricercatore occidentale. Questo tipo di approccio diventato centrale


nella disciplina dell'antropologia della musica (Giannattasio: 1998) e in
generale in quei lavori che hanno affrontato le tematiche di tipo musicale
da un punto di vista interdisciplinare.
Nel caso del jazz, l'utilizzo di categorie ricavate direttamente dagli
"informatori" (in questo caso i musicisti) da parte di autori come
Monson, non presuppone un rifiuto degli strumenti analitici della ricerca
musicologica "classica". La presenza nella prassi culturale del jazz
dell'elemento

interattivo

collaborativo

che

rende

possibile

l'improvvisazione e che esula dall'elemento prettamente musicologico,


ha reso necessario l'utilizzo delle interpretazioni "alternative" usate dagli
stessi jazzisti.
La sociolinguistica ci descrive la conversazione come un set in cui due
o pi partecipanti costruiscono un discorso alternandosi liberamente.
Quando arriva il suo turno, il partecipante alla conversazione
contribuisce al discorso generale, esponendo il proprio punto di vista o
aggiungendo nuovi elementi e dettagli alla narrazione. All'inizio di una
conversazione, nessuno dei partecipanti sa esattamente dove si andr a
parare, come si evolver il discorso. Si pu partire da un argomento e
arrivare ad un altro anche molto distante, muovendosi attraverso
numerosi salti logici creati dall'interazione tra i partecipanti. Questo
genere di organizzazione del discorso collettivo oggetto della
cosiddetta analisi conversazionale (Sparti: 2005). Autori come Harvey
Sacks ed Emanuel Schegloff hanno analizzato le procedure di
organizzazione sequenziale della conversazione, ovvero le regole che
disciplinano la presa dei turni.
Monson rileva come questo tipo di situazione venga spesso
paragonata al set di una performance jazz. In generale, il contesto

46

prevede un elemento pi o meno statico, rappresentato dalla sezione


ritmica che fornisce il sostegno, e un elemento dinamico, cio
l'improvvisatore che si cimenta nel solo. In realt, sebbene il ruolo della
ritmica sia essenzialmente quello di portare il tempo, il "gioco"
dell'improvvisazione consiste in buona parte nel continuo dialogo tra il
solista e i musicisti che lo accompagnano. Ognuno dei componenti della
sezione ritmica deve essere in grado di cogliere i cambiamenti che
avvengono nel corso dell'assolo ed essere pronto ad adeguare il suo
modo di suonare alla nuova situazione. Cos come in una conversazione
se uno dei partecipanti si distrae e perde il "filo del discorso" non pi in
grado di intervenire, allo stesso modo durante la performance un
musicista deve essere in grado di rispondere in modo immediato alle
sollecitazioni o ai cambi di direzione suggeriti dagli altri colleghi.
L'accusa pi grave che si possa rivolgere ad un musicista che lavora in
una sezione ritmica, ad esempio un batterista o un bassista, di "non
ascoltare abbastanza", cio di non essere capace di seguire il flusso degli
eventi musicali. Poich tali eventi sono per lo pi imprevedibili, risulta
chiaro che la logica interattiva e l'attenzione continua di ognuno dei
partecipanti sono imprescindibili per la riuscita dell'esecuzione.
Ponendosi in un'ottica di tipo post-strutturalista, Monson ricorre alla
classica distinzione saussuriana tra langue e parole. Il linguaggio del
jazz, inteso come quel sistema estetico di cui abbiamo parlato in
precedenza, distinto da quello di qualunque altro genere, rappresenta
dunque la langue. Mentre il suo aspetto prettamente performativo,
interattivo e collettivo, rientrerebbe nel campo della parole.
A differenza della conversazione, il processo dell'improvvisazione non
si fonda esclusivamente sull'alternarsi di turni di intervento. Se vero
che i singoli solisti si avvicendano nell'esposizione di uno o pi chorus

47

di assolo (vedi par. 3.4) il lavoro principale di interazione e


collaborazione avviene in modo simultaneo e non mediato. I musicisti
suonano contemporaneamente e la situazione si modifica e si evolve
sulla base degli stimoli che possono arrivare, in teoria, da ognuno dei
membri. In realt, pi spesso il solista a prendere le redini delle
performance e a dare l'impulso per le eventuali variazioni.
Rendere conto di questo tipo di interattivit senza ricorrere a degli
esempi sonori pressoch impossibile. Possiamo comunque provare a
descrivere una situazione "tipo", immaginando un tipico set da jam
session.
Il gruppo decide di eseguire un tema, una melodia che ha una
connotazione malinconica, ad esempio un blues. Conoscendo in anticipo
il tipo di brano, i musicisti della sezione ritmica si adegueranno
immediatamente al tipo di contesto, cercando di rendere in modo
espressivo il feeling del brano. Tuttavia, una volta esposto il tema, il
primo solista decide di operare una drastico slittamento di significato.
Ipotizziamo un sassofonista che, dopo aver esposto il triste tema
iniziale di questo ipotetico blues, attacchi con un assolo particolarmente
energico e spiazzante, quasi gioioso. Come abbiamo gi detto, il solista
a decidere l'andamento del brano ed quindi pienamente legittimato ad
operare questo tipo di "slittamenti". Tuttavia, se i membri della sezione
ritmica non fossero abbastanza svegli da cogliere quel tipo di
sollecitazione, e continuassero a suggerire un'atmosfera cupa e triste, il
risultato complessivo potrebbe apparire grottesco e "dissonante". In
realt, dei musicisti esperti dovrebbero essere in grado di adeguarsi
immediatamente ad ogni cambiamento, anche quello pi spiazzante. Una
logica di questo tipo, oltre a rendere manifesta l'unit e la coesione del
gruppo, costituisce una tecnica di tipo narrativo piuttosto efficace. Un

48

cambio repentino di registro non pu non richiamare l'attenzione


dell'ascoltatore. Anzi, qualora questi movimenti continui non si
verificassero,

gli

ascoltatori

pi

appassionati

presenti

in

sala

formulerebbero sicuramente una critica nei confronti dei musicisti:


quella di aver suonato in modo "piatto". Ritorna qui la logica
dell'improvvisazione come l'attitudine di "essere pronti a tutto" e di
accogliere ogni cambiamento come sfida e come stimolo creativo ed
umano.
Nel corso di questo capitolo ho sostenuto pi volte la tesi che
individua nell'improvvisazione uno degli elementi chiave per interpretare
il fenomeno del jazz, evitando per di collocare tale elemento in una
posizione di assoluta preminenza rispetto ad altri altrettanto cruciali
come il trattamento della materia sonora e del timbro, la peculiarit
compositiva, il repertorio.
Quello che cercher di offrire nel prossimo capitolo sar un resoconto
delle mie esperienze dirette come musicista nelle varie jam alle quali ho
partecipato nel corso degli ultimi dieci anni, presentato con i criteri
dell'indagine etnografica.
Come si conviene ad un report etnografico, il primo passo sar quello
di presentare gli attori, i protagonisti della ricerca. Ovvero i jazzisti e la
loro comunit.

49

3. Etnografia della Jam Session


I'll play it first and tell you what it is later.
Miles Davis

3.1 Nota metodologica


Nel breve capitolo introduttivo a questa ricerca ho ripercorso le tappe
biografiche che mi hanno condotto alla scelta di questo oggetto e che
hanno condizionato anche l'approccio metodologico da me utilizzato.
Il percorso da me seguito per realizzare questo studio sull'interazione
nel contesto della jam session parte dunque dieci anni fa, sebbene in
maniera direi inconsapevole.
Procedendo di pari passo negli studi musicali e in quelli di scienze
sociali, ho infatti maturato progressivamente una sensibilit a
determinati aspetti della pratica musicale improvvisata e soprattutto ho
accresciuto la consapevolezza di poterli presentare in forma di
etnografia. Potrei dire che per circa dieci anni sono stato un osservatore
partecipante nella comunit dei jazzisti e in particolare nella "cerimonia"
della jam, senza tuttavia esserne pienamente consapevole. A partire dalla
primavera del 2008, quando cio ho deciso di trasformare queste
esperienze nella mia tesi di laurea, ho operato una sorta di sistemazione
a posteriori delle informazioni e delle esperienze precedentemente
accumulate. Al contempo, ho cominciato a partecipare alle jam, in
particolare a quelle organizzate nell'ambito dell'International Jazz Master
di Siena (vedi capitolo introduttivo: Un mondo a parte), frequentate da

50

studenti e docenti italiani e americani, con una nuova consapevolezza e


con un'attenzione maggiore a quel tipo di dettagli e di situazioni che
potevano interessare la mia piccola ricerca.
Inizialmente ho pensato che questa duplice veste di musicista e
studente di sociologia rappresentasse la situazione ideale per uno studio
etnografico in questo contesto. Tale convinzione era rafforzata dalla
lettura dei lavori di Becker o Cameron, che avevano utilizzato il
medesimo approccio partecipante. Proprio Cameron affermava che
"un'analisi dettagliata e approfondita dei jazzisti richiede che (il
ricercatore) sia al contempo scienziato sociale e musicista di jazz: una
certa competenza musicale necessaria per guadagnare credibilit e
stabilire un rapporto; un certo background di studi sociali necessario
per astrarre e generalizzare accuratamente i comportamenti osservati."
(Cameron: 1954, p. 177. trad. mia)
Tuttavia, quando ci si avvicina ad una cultura per cercare di
comprenderla o interpretarla (dipende dall'approccio), necessario
talvolta mantenere un certo distacco, sviluppare cio la capacit di
"tirarsi fuori" dal contesto per cercare di offrire una visione d'insieme,
come se si effettuasse una ripresa dall'alto della situazione. Ma cosa
succede quando ci si ritrova ad essere parte integrante della cultura che si
vuole raccontare? Ho tentato nella mia breve trattazione di rendere conto
dell'ambiguit di questa situazione, nella quale si al tempo stesso
dentro e fuori e della difficolt che ho riscontrato nel distinguere tra una
visione etica o emica dei fenomeni osservati. In un certo senso ho
sperimentato la paradossale condizione di ritrovarmi a fare l'etnografo di
me stesso, ovvero a descrivere i miei stessi comportamenti, interiorizzati
nel corso degli anni e divenuti oramai spontanei e immediati, come se li
osservassi dall'esterno.

51

A parte questi dubbi di tipo metodologico e in un certo senso


deontologico, devo ammettere che poter osservare i comportamenti
(anche i miei) dall'interno ha offerto degli indiscutibili vantaggi che
sicuramente saranno mancati ad altri autori che invece hanno indagato
dei contesti simili da una posizione del tutto esterna, se non estranea.
Un altro problema che ho dovuto affrontare stato quello di rendere
conto della prassi musicale dovendo presentare poi i risultati di questa
ricerca ad un pubblico di non specialisti. Per mia scelta personale ho
deciso dunque di non avvalermi di registrazioni audio n tantomeno di
trascrizioni musicali per cercare di descrivere i modelli di interazione
che si creano all'interno della jam. Si potrebbe pensare che il tentativo di
descrivere questo tipo di dinamiche di interazione senza l'ausilio di
esempi sonori o di trascrizioni degli eventi musicali sia un'impresa
piuttosto ardua. Sebbene tali supporti costituirebbero innegabilmente un
ausilio prezioso per la descrizione, ci esulerebbe dalle prerogative di
un'indagine di tipo sociologico com' questa. Ho tentato perci di usare
un approccio descrittivo che fosse il pi possibile chiaro anche a chi non
esperto di musica. In alcuni casi ho ritenuto opportuno ricreare delle
situazioni

"ideali"

di

performance

per

descriverne

l'effettivo

funzionamento in termini di competenze. Sono ricorso inoltre alla


tecnica di ricostruire dei dialoghi o delle espressioni idiomatiche
"tipiche", senza ricorrere se non in alcuni casi a citazioni dirette o a
trascrizioni di colloqui informali.
Nella descrizione dei contesti di interazione mi sono pertanto avvalso
dell'approccio usato dagli stessi musicisti quando vogliono spiegare il
loro modo di fare musica ad altri colleghi o ad "esterni" interessati. L'uso
di queste forme orali e non formalizzate di trasmissione dei concetti
musicali

il

ricorso

costante

metafore

similitudini

52

("l'improvvisazione come una conversazione", ad esempio) sono tratti


caratteristici della cultura jazz, come evidenziato anche dalla stessa
Monson.
"I commenti dei musicisti professionisti suggeriscono che le teorie
musicali sviluppate per l'esplicazione delle partiture non sono
completamente appropriate per la delucidazione del processo musicale
improvvisato. Con questo non si vuole dire che gli strumenti analitici
occidentali siano completamente inappropriati, ma solo che dobbiamo
essere consapevoli dei loro limiti. Sto suggerendo che una teorizzazione
significativa dell'improvvisazione jazz al livello dell'ensemble deve
prendere come punto di partenza il contesto interattivo e collaborativo
dell'invenzione musicale. Questo contesto non ha paralleli nella pratica
musicale dei compositori classici occidentali, e non deve sorprendere che
i musicisti di jazz scelgano di parlare del "fare musica" in termini
completamente differenti." (Monson: 1996, p. 74)
In questo senso, la duplice natura di analista "esterno" del contesto e
di membro effettivo del gruppo osservato si ricompone e acquista senso
proprio con l'utilizzo della terminologia emica e del linguaggio tecnico e
simbolico interno alla cultura jazz.
Il processo a posteriori di organizzazione e sistemazione delle
esperienze non mi ha permesso, se non in alcuni casi, di indicare in
maniera precisa contesti o informatori cos com' prassi in un'etnografia.
Nel mio caso si trattato piuttosto di ricreare situazioni gi vissute, di
sommare esperienze e competenze acquisite, di ricostruire un linguaggio
del quale mi servo quotidianamente nella mia attivit di musicista e di
trasformare tutto ci in una descrizione quanto pi possibile omogenea
del contesto d'indagine.

53

La mia speranza quella di essere riuscito quantomeno a suggerire la


ricchezza e la complessit del tipo di "pensiero" che informa la cultura
jazz in generale e che si manifesta in particolare nel modello di
performance della jam session.

3.2 La comunit dei jazzisti


3.2.1 Gli outsiders della musica
In questo paragrafo vorrei evidenziare come, considerate le dovute
proporzioni, le comunit che si formano intorno al jazz mantengano
degli elementi peculiari molto simili e i loro membri si ritrovino spesso
ad affrontare situazioni analoghe ai loro colleghi di altre parti del mondo.
Col il termine "comunit jazz", non intendo esclusivamente l'insieme
dei musicisti professionisti che condividono la stessa "scena", ovvero la
stessa citt (o la stessa area geografica).
Uso il termine comunit per indicare un gruppo pi ampio che
include, oltre ai suddetti professionisti, anche i musicisti dilettanti, i
gestori di locali, gli organizzatori di festival e rassegne, i membri di
associazioni

culturali,

responsabili

di

etichette

discografiche

specialistiche, i giornalisti culturali, i liutai, i riparatori e i proprietari di


negozi di strumenti musicali, gli ascoltatori e infine le famiglie dei
musicisti di professione.
Questa prospettiva in parte debitrice della teoria dei "mondi
dell'arte", cos com' stata formulata da H.S. Becker. Nelle parole
dell'autore, "qualsiasi lavoro artistico, come ogni attivit umana, richiede

54

l'azione congiunta di un certo numero, spesso considerevole, di persone.


Attraverso questa cooperazione nasce e continua a esistere l'opera d'arte
che alla fine vediamo o ascoltiamo. Ogni opera mostra i segni di questa
cooperazione, le cui forme possono essere passeggere, ma spesso
diventano pi o meno di routine, dando vita a modelli di attivit
collettiva che possiamo chiamare mondi dell'arte" (Becker:2004, p. 17)
La mia attenzione si focalizzer soprattutto sul nucleo centrale della
comunit, occupato ovviamente dai musicisti. Si tratta di un gruppo dal
carattere elitario e con alcuni elementi che definirei quasi "esoterici".
Come scrive Becker, "i musicisti trovano che l'unica musica che meriti
di essere suonata quella che chiamano jazz. [...] Il musicista si
considera come un artista che possiede un misterioso dono artistico che
lo separa da tutte le altre persone. [...] Questo dono qualcosa che non si
pu acquisire con l'educazione" (Becker: 1991, p. 73).
Becker fa notare come questo atteggiamento abbia portato i jazzisti a
stabilire un confine, un argine discriminatorio che li separa (e difende)
da tutti color che non hanno a che fare col jazz, sia musicisti che
ascoltatori. Il termine usato per indicare chiunque si trovi al di l di
questo argine square (che potremmo tradurre come "inquadrato")
Uno square rappresenta "l'opposto di tutto ci che o dovrebbe
essere, il musicista [di jazz]" (ivi).
Questo eccesso di snobismo potrebbe suonare piuttosto paradossale se
lo inseriamo nel contesto specifico del musicista jazz di professione, cos
com' stato osservato da Becker. Negli USA degli anni '50, se
escludiamo i grandi nomi conosciuti anche a livello internazionale, molti
jazzisti dovevano confrontarsi con una vita di difficolt economiche e
frustrazione artistica e personale.

55

Se sospendiamo per un attimo il giudizio sul valore artistico, ogni


musicista comunque un artista che ha impiegato buona parte della sua
vita per perfezionarsi in una pratica piuttosto complessa, mosso dalla
passione e dalla propria urgenza espressiva.
Queste aspirazioni dovevano confrontarsi con una realt in cui il jazz
non era ancora considerato a tutti gli effetti come una "musica d'arte". I
musicisti erano (e spesso sono ancora) costretti a suonare anche altri
generi, soprattutto musica da ballo commerciale, esibendosi in locali di
infima categoria per pochi dollari a serata. Ricordiamo che siamo in un
momento storico in cui gli strumenti di diffusione "meccanica" della
musica nei locali pubblici (es.: jukebox) non sono sempre disponibili e le
piccole orchestrine che suonano dal vivo sono ancora necessarie per far
ballare (e consumare) gli avventori. A questo si aggiungano le sedute di
registrazione per la televisione o per il cinema, le feste private, le
cerimonie e tutte le altre occasioni in cui indispensabile uno
strumentista di professione. Vedremo in seguito come tale situazione si
sia evoluta (non necessariamente in meglio) nel corso degli anni e in
contesti geografici diversi.
Ad ogni modo, la qualit artistica del jazz non coincide affatto con la
considerazione che l'opinione pubblica ha del genere e dei musicisti che
lo suonano. Senza voler cedere ad una semplice teoria causa-effetto,
possiamo per intuire come le frustrazioni che spesso i jazzisti hanno
dovuto affrontare sono un terreno di coltura fertile per atteggiamenti
"devianti" come il consumo di droga e l'alcolismo, portati fino ai limiti
estremi delle spinte auto-distruttive di cui abbondano le biografie dei
musicisti.
L'atteggiamento di chiusura e di elitarismo rilevato nella comunit
jazz ci appare in questo modo come una forma di autodifesa. "La

56

maggior parte dei jazzisti ritiene che nessuno possa capire il jazz o i
musicisti che lo suonano eccetto gli stessi jazzisti. Ci diventa chiaro
quando notiamo come i jazzisti esibiscano un atteggiamento quasi
"religioso" in determinate questioni di ordine artistico, utilizzino un
gergo esoterico e solitamente non siano n preparati n disposti a rilevare
similarit tra il loro modo di vivere e quello delle altre persone"
(Cameron: 1954, p. 177. trad.mia).
Nella mia esperienza ho rilevato spesso questo genere di
atteggiamenti, nonostante la considerazione del valore artistico del jazz
da parte dell'opinione pubblica sia cresciuta in modo esponenziale dai
tempi in cui svolgevano le loro ricerche Becker, Cameron e Stebbins.
In ogni caso, il jazzista rimane sempre un outsider fuori dal suo
ambiente. La sua professionalit spesso messa in discussione, in
particolare dagli ascoltatori comuni. La necessit di suonare in posti ed
in contesti poco edificanti o di "svendersi" alla musica commerciale, o
ancora di dividere il proprio tempo tra musica e lavoro extra musicale, di
conciliare impegni familiari e urgenze artistiche; sono tutte situazioni
che ancora oggi costituiscono delle fonti di frustrazioni per gli artisti,
fatta esclusione ovviamente per coloro che riescono a far riconoscere il
proprio lavoro a livelli pi alti e in condizioni pi appaganti e dignitose.
Come spesso accade, la manifestazione pi evidente dell'esclusivismo
della comunit proprio l'uso di un linguaggio comune, di uno slang
quasi incomprensibile agli "esterni".
I jazzisti, come altri gruppi professionali, adottano una terminologia
tecnica convenzionale per parlare della materia musicale, ma anche per
indicare gli aspetti pratici del lavoro.
Numerosi sono stati negli anni gli studi su quello che viene
comunemente chiamato jive talk, ossia il gergo del jazz. In un testo del

57

1937, H. Brook Webb fornisce un glossario piuttosto ampio che include,


oltre ai termini tecnici, anche altre espressioni idiomatiche per indicare
vari aspetti della vita professionale e personale dei musicisti. Il testo di
Webb fortemente caratterizzato da un atteggiamento discriminatorio e
vagamente razzista (consideriamo il periodo storico) e rende bene l'idea
di quale fosse la considerazione della cultura "alta" nei confronti del
mondo del jazz. Ciononostante, interessante notare come molti dei
termini indicati nell'articolo in questione pi di settant'anni fa siano di
uso corrente ancora oggi e non solo negli Stati Uniti. Ne citiamo solo
alcuni, utilizzabili ancora oggi in qualunque jam session in giro per il
mondo senza rischi di fraintendimenti:
intro: parte iniziale di un tema, spesso improvvisata e basata su un
solo accordo o su una sequenza armonica standard.
chorus: la struttura essenziale di un brano, spesso conformata a quella
delle canzoni da musical. Nel jazz classico, la griglia armonica su cui
poggia la melodia diventa poi il terreno su cui i solisti si cimentano a
turno con l'improvvisazione. Utilizzato anche come unit di misura per
gli interventi solistici, spesso decisi un attimo prima dell'esecuzione.
(Es.: Sul prossimo brano il piano si prende X chorus, poi X chorus di
tenore e X di basso...).
lick: (v. supra) frase o frammento melodico riferito ad un particolare
solista "storico" che viene inserita come citazione all'interno
dell'improvvisazione.
solo: intervento solistico (per lo pi improvvisato).
break: battuta di stop in cui la sezione ritmica smette di suonare,
lasciando solo l'improvvisatore di turno.

58

jam, jam session: ritrovo informale di musicisti che suonano insieme


senza essere retribuiti.
cats: termine generico per riferirsi ai jazzisti presenti in sala.
date (trad. in italiano con data): impegno di lavoro. Pu riferirsi ad un
concerto, una jam, una cerimonia o festa privata o una seduta di
registrazione.
gig: concerto retribuito
standard: brano classico tratto dal cosiddetto Great American
Songbook che i jazzisti in genere conoscono a memoria.
groove: tipo di accompagnamento o portamento ritmico con cui
affrontare un brano. In una jam, il solista pu dare indicazione alla
sezione ritmica sul tipo di groove con cui desidera essere accompagnato
(Es.: fatemi un groove latin su A e poi passate in walking su B).
Nel jive talk si mescolano termini provenienti dal glossario tecnico dei
musicisti di professione con espressioni idiomatiche proprie della cultura
afroamericana. Quello che vorrei sottolineare proprio la persistenza
della terminologia tecnica nel tempo e nello spazio, a conferma di quanto
ampia sia stata negli anni la diffusione della cultura jazz al di fuori del
contesto d'origine.
Altro elemento caratterizzante la comunit il ricorso ad un epos
condiviso, fatto di aneddoti e leggende riconducibili a musicisti locali o
ai grandi nomi del jazz. Ogni musicista si porta dietro il proprio bagaglio
di racconti e avventure, spesso riferibili al contesto di una gig (concerto,
serata) e avvalorati dalla presenza di uno o pi testimoni noti a tutti ai
quali eventualmente chiedere conferma (esempio di formula tipica: Una
sera suonavo al locale X. Eravamo io, Tizio e Caio e ad un certo punto
della serata/dopo il concerto...). Racconti di questo genere, spesso

59

esagerati e miticizzati come si conviene ad una narrazione epica,


occupano una buona parte di quei periodi morti tra un set musicale e
l'altro, come vedremo in seguito. In generale, si tratta di narrazioni che
sottolineano gli aspetti anticonformisti, devianti, surreali, pericolosi o
giocosi della vita del musicista di professione che lavora suonando nei
locali, in particolare del jazzista. Spesso in queste narrazioni si alternano
le esperienze personali con episodi relativi alle biografie dei grandi
jazzisti del passato, indicati col solo nome di battesimo o con un
nickname, come a voler rimarcare una familiarit diretta col
personaggio4. Raccolte da fonti diverse (biografie, note di copertine dei
dischi, tradizione orale), queste storie popolate da personaggi mitologici
del jazz fanno parte del repertorio di ogni musicista al pari degli
standard. Una evidente dimostrazione di prestigio pu essere
rappresentata dal racconto di un'avventura che coinvolga il soggetto
narrante ed un grande jazzista con cui si ha avuta l'occasione di suonare.
La condivisione di questo sorta di epica della atipicit, potremmo dire
bohemienne, rappresenta forse il tentativo di stabilire un'improbabile
continuit tra la storia o le storie legate al jazz e le vicende personali del
singolo musicista. In questo modo, suppongo, il jazzista riconferma e
rinnova la sua appartenenza alla comunit locale e a quella pi ampia, la
Big Family del jazz. Se nella vita di ogni giorno il musicista pu sentirsi
un outsider, quando suona egli entra in una dimensione conosciuta e
familiare alla quale appartiene di diritto e in cui le "stranezze" della vita
di artista diventano normalit, quotidianit condivisa. Questo aspetto
della condivisione della sregolatezza e della creativit anche
nell'affrontare la vita e le sue sfide sembra presente in tutte le comunit
4

Alcuni dei nickname pi usati: Satchmo o Pops (Louis Armstrong), Hawk (Coleman
Hawkins), Bird (Charlie Parker), Diz (Dizzie Gillespie), Miles (Miles Davis),Trane (John
Coltrane), Prez (Lester Young) ecc..

60

dei musicisti di jazz. "Sentendosi fortemente diversi, i musicisti credono


anche di non aver nessun obbligo di imitare il comportamento
convenzionale [...]. Partendo dall'idea che nessuno pu dire ad un
musicista come deve suonare, risulta logico che nessuno possa dire ad un
musicista come fare qualsiasi cosa. Per questo motivo ammirato il
comportamento che si prende gioco delle norme sociali convenzionali".
(Becker: 1991, p. 74)

3.2.2 Categorie di musicisti


Come indica Stebbins (1968), considerato membro a tutti gli effetti
del nucleo centrale un individuo che suona jazz per lavoro e che
frequenta anche le jam session e le altre forme di attivit della comunit
(ad esempio concerti di musicisti di livello nazionale o internazionale,
feste private, seminari di aggiornamento e masterclass5). Tuttavia, il fatto
che il musicista in questione tragga o meno la sua principale fonte di
sostentamento dal jazz rappresenta l'elemento meno determinante. Il
confine tra dilettantismo e professionismo in questo contesto tende
spesso ad essere sfumato.
All'epoca in cui Cameron e Becker svolgevano le loro ricerche, la
maggior parte dei jazzisti svolgeva la professione di musicista da night
club, una condizione che li accomunava anche ai loro colleghi italiani.
Molti jazzisti della cosiddetta "vecchia guardia" italiana non rinnegano
di essersi "fatti le osse" nei nights, nelle balere o nelle bande di paese a
ridosso degli anni '50 e '60. Un periodo "felice" in cui la musica suonata
5

masterclass: seminario intensivo di aggiornamento tenuto da un jazzista di comprovata


professionalit. piuttosto comune la pratica da parte di associazioni o enti culturali di
organizzare delle masterclass approfittando della presenza in zona di un musicista molto
noto.

61

dal vivo, a prescindere dalla qualit, era ancora un elemento vivo e


costante in molti elementi della vita quotidiana, dai locali da ballo
all'evento speciale come una festa locale o una cerimonia. Una
condizione, questa, che moltiplicava le occasioni per il giovane
musicista di "imparare il mestiere" direttamente sul campo.
Becker ci fornisce alcune categorie, ottenute sulla base delle diverse
modalit di impiego dei musicisti.
Si tratta di una classificazione informale del tipo di lavoro, ordinata su
una scala di prestigio e legata a fattori quali reddito, orario di lavoro,
reputazione del locale in cui si suona, ecc.:

Musicisti che suonano irregolarmente in piccoli balli, matrimoni,


ecc.

Musicisti con lavoro fisso in locali di basso livello (taverne,


nights, locali da spogliarello, ecc.)

Musicisti con lavori fissi in orchestre locali, in nights rispettabili o


in orchestre nazionali di serie B

Musicisti che suonano in orchestre di serie A e nei migliori nights


ed alberghi

Musicisti che hanno un incarico professionale fisso presso radio,


televisione, studi cinematografici o grandi teatri nazionali (Becker,
1991)

Il fattore che accomuna tutte queste categorie il fatto che si tratta di


musicisti full time che non devono dividere il loro tempo tra la musica e
un lavoro ordinario, ossia un lavoro diurno extra-musicale.
Una delle caratteristiche che ritornano di frequente nei testi degli
autori e che rimasta sostanzialmente invariata anche ai nostri giorni

62

appunto la difficolt di guadagnarsi da vivere dignitosamente affidandosi


esclusivamente al jazz.
Alcuni dei musicisti intervistati da Becker dovevano scegliere tra un
lavoro come musicista da night, in cui si suonava ogni genere di musica,
con paghe spesso ristrette e orari che poco si prestavano ad una vita
sociale normale e un lavoro extra musicale spesso poco appagante che
per lasciava la libert di suonare quello che si voleva (cio jazz).
Ora che le occasioni per suonare musica dal vivo si sono
drasticamente ristrette, le difficolt paiono ancora pi grandi, seppure il
livello medio dei musicisti sia cresciuto enormemente e con esso anche
la considerazione che l'opinione pubblica ha di un jazzista di
professione.
Nei miei colloqui informali con i musicisti, le questioni lavorative e le
difficolt economiche sono sempre state un punto piuttosto delicato da
trattare. In realt, il mio essere a tutti gli effetti considerato come
membro della comunit mi ha permesso di raccogliere numerose
testimonianze al riguardo, spesso come risultato di conversazioni
amichevoli in cui, semplicemente, si condividevano le esperienze
comuni. La maggior parte dei jazzisti che ho incontrato nel corso degli
anni non ricavano il proprio sostentamento esclusivamente dal jazz, ma
affiancano ad un'attivit musicale jazzistica anche intensa, altre attivit
sia di tipo musicale che extra-musicale.
Anche se "costretto" a svolgere un lavoro ordinario durante la
giornata, lasciando alla musica tutto il resto del tempo a sua
disposizione, un jazzista rifiuter con decisione l'etichetta di dilettante,
spesso interpretata con una connotazione fortemente negativa.

63

questo

punto,

vorrei

introdurre

una

mia

proposta

di

categorizzazione, anch'essa basata sul tipo di occupazione primaria del


musicista.
CATEGORIE DI MUSICISTI:

PURISTI: suonano solo jazz (o comunque solo il tipo di musica


che reputano degna di essere suonata, a prescindere di come venga
etichettata) e non svolgono altri lavori se non in maniera
occasionale (insegnamento in scuole di musica o seminari e
masterclass). Rappresentano l'lite del clan dei jazzisti. Questa
categoria comprende al suo interno sia musicisti di livello locale,
che hanno fatto una scelta di vita e una scelta artistica (vivere solo
di musica e suonare solo la "loro" musica) e la difendono
affrontando spesso anche numerose difficolt. Salendo di
prestigio, si arriva fino ai musicisti di livello nazionale ed
internazionale, riconosciuti come delle vere e proprie "star del
jazz", sebbene tali artisti siano quelli che pi spesso rifiutano
l'inquadramento in un'etichetta stilistica e preferiscono essere
indicati semplicemente come musicisti. I PURISTI pi fortunati
suonano in grandi festival, sono invitati in trasmissioni televisive,
e spesso sono anche ben pagati. Se svolgono attivit di
insegnamento, lo fanno ad alti livelli (es.: titolari di cattedre di
jazz in conservatorio, o ospiti occasionali per seminari di livello
internazionale), ma non di rado sono essi stessi degli autodidatti.

PROFESSIONISTI:

hanno

quasi

sempre

una

formazione

accademica o comunque elevata. Considerano il jazz come musica


d'elezione ma non disdegnano altri generi. Svolgono altri lavori,

64

sempre in ambito musicale (insegnanti in scuole private o


pubbliche e conservatori), orchestrali, turnisti. la categoria pi
numerosa.

FUORIUSCITI: ex "puristi" o "professionisti" che hanno dovuto


cercare un'occupazione fissa extra musicale per necessit, ma si
sforzano di continuare a suonare (e spesso lo fanno anche ad un
buon livello, ma sempre con la necessit di conciliarlo con i ritmi
di un'occupazione fissa) Spesso tentano e riescono a rientrare nel
giro. Molti jazzisti afroamericani degli anni passati, anche molto
noti, hanno attraversato una fase da "fuoriusciti".

STUDENTI: anche se non sono ancora dei professionisti, gli


studenti di jazz risultano membri a tutti gli effetti della comunit,
sia che frequentino il conservatorio, sia che studino in scuole
private specializzate.

DILETTANTI: Il termine dilettante assume un'accezione piuttosto


negativa nella maggior parte dei contesti da me osservati. Tuttavia,
spesso i jazzisti dilettanti sono in realt dei potenziali musicisti,
anche dotati di un buon talento, che per non hanno mai tentato la
strada del professionismo, preferendo suonare per passione mentre
svolgono altre attivit. Sono comunque considerati membri della
comunit e a volte l'impegno speso e il loro livello di preparazione
musicale sono tali da concedere loro l'accesso al nucleo centrale
dei musicisti, con i quali condividono la scena sia nelle jam
session che in lavori occasionali (ad esempio alcuni dilettanti
possono talvolta rientrare in una pick up band, ossia una sezione
ritmica riunita occasionalmente per accompagnare dei solisti di
alto livello che si trovano per caso in zona per dei concerti).

65

Gli appartenenti alle diverse categorie che ho citato godono di un


prestigio proporzionale al proprio livello. Lo status pi elevato quello
dei "puristi", a prescindere dalla loro notoriet. Chi dichiara di
guadagnarsi da vivere solo con la musica, o addirittura solo col jazz,
riscuote l'ammirazione e il rispetto incondizionato dei membri della
comunit.
Anche i professionisti sono molto rispettati, nonostante dividano i
propri sforzi tra jazz, musica pi commerciale e insegnamento. Spesso
questi musicisti hanno una famiglia da mantenere e i loro sforzi per
continuare a "vivere di musica" li rendono degni di grande stima presso i
membri della comunit.
Una posizione pi ambigua quella dei cosiddetti "fuoriusciti",
sebbene la scelta di abbandonare il professionismo sia spesso dettata da
necessit reali e contingenti. Se tale abbandono viene interpretato come
una semplice scelta "di comodo" fatta per sottrarsi alle difficolt della
vita da musicista, il "fuoriuscito" pu essere accusato di aver in qualche
modo tradito la propria musica. Non un caso che i musicisti che hanno
abbandonato "il giro" per un certo periodo incontrino spesso qualche
difficolt a rientrarci e finiscano spesso per rinunciarci del tutto,
riservandosi solo delle sporadiche apparizioni nelle jam session.
Diverso l'atteggiamento usato nei confronti degli "studenti ufficiali" di
jazz (quelli appunto iscritti a conservatori, scuole, ecc.) Uso il termine
"ufficiali" perch tradizione comune nella cultura jazz il considerarsi
uno "studente" per tutta la durata della carriera, come a voler sottolineare
lo sforzo continuo di miglioramento e di crescita. Ho notato come la jam
session diventi spesso un contesto ideale per gli studenti che vogliono
dimostrare i propri progressi, ma anche un'occasione da parte dei
musicisti pi anziani e navigati per mettere alla prova le nuove leve. La

66

considerazione nei confronti degli studenti oscilla tra il rispetto per chi
studia jazz ad alti livelli e dimostra di "prendere la cosa sul serio" e la
convinzione che "il jazz non si studia al conservatorio, ma sui dischi e
nelle jam".
"Sono stato cacciato dalla scuola, ma poi mi sono diplomato al 'Art
Blakey College', al 'Miles Davis Conservatory of Music' e alla 'Charlie
Parker University'", affermava il pianista Walter Bishop Jr, sottolineando
l'influenza dei grandi del jazz nella sua formazione "non accademica"
(Berliner: 1994, p. 36.trad.mia.).
La jam session rappresenta l'istituzione centrale per la comunit, che
in essa celebra una sorta di rituale collettivo in cui i vari membri
convergono e le differenze tendono a livellarsi e a sfumare. Nell'atto
contingente della performance, le considerazioni relative allo status di un
musicista o alla categoria a cui appartiene diventano irrilevanti. Ad
entrare in gioco sono piuttosto le dinamiche interne della jam, con le sue
regole, i suoi riti e la sua etichetta. Nei prossimi paragrafi prover a
spiegare come tale istituto sia nato e quale sia il suo effettivo
"funzionamento" e il ruolo giocato nella comunit dei jazzisti.

67

3.3 Cos una jam session?


3.3.1 Definizione e cenni storici
" tardi, saranno le dodici e mezzo o l'una di notte. La scena si svolge
in qualche posto al mondo dove la gente swinga fino al mattino. Il locale
ha un palco. Alle pareti sono appese foto di jazzisti che hanno fatto la
storia. A volte affollato, a volte no. A volte fatiscente, a volte elegante.
Tu sali sul palco, stringi le mani a tutti. Annunciano un pezzo, magari
Have You Met Miss Jones?, e wow... ecco che vai! La gente comincia a
sorridere e a entrare in sintonia, gridando voci di approvazione per
quello che si sta suonando. Certi musicisti sono allegri, altri tristi. Il
barista fa portare dei drink sul palco. Benvenuto ad una jam session. Dei
tipi con il sax sbucano fuori da non si sa dove. Se la sezione ritmica
funziona puoi startene l a suonare, o solamente ad ascoltare, ubriaco di
swing, finch non sorge il sole." (Marsalis: 2009, p. 45)
Questa bella descrizione di Wynton Marsalis, attualmente uno dei
musicisti pi influenti nel mondo del jazz, rende piuttosto bene e in
modo diretto l'atmosfera di una tipica jam session.
Il mio tentativo ora sar quello di andare pi in profondit, cercando
di rendere conto delle complesse e talvolta "misteriose" dinamiche
interpersonali che si snodano sotto la semplice quanto affascinante
cornice di un gruppo di musicisti che si riunisce quasi per caso e crea
una performance musicale partendo praticamente dal nulla.
Andando alla ricerca di un'altra definizione generale ma al contempo
sufficientemente esaustiva di jam session, mi sono imbattuto in quella
offerta da Philippe Carles nella nuova edizione del Dizionario del Jazz

68

La voce, come si conviene ad un dizionario, ha il merito di essere


succinta ma al contempo di delineare chiaramente gli elementi essenziali
di una jam. Per questo motivo, ho ritenuto opportuno riportarla in questa
sede quasi per intero:
"Jam session (dall'ingl. to jam, "affollare", "ingolfare"). Espressione
di origine incerta apparsa negli anni '30 e che nel gergo dei jazzisti indica
una riunione di musicisti che non lavorano di solito insieme e che, senza
leader, senza programma definito n partiture, improvvisano partendo da
temi o strutture armoniche conosciuti da tutti. [...] Una jam costituita
generalmente da una successione di assolo (spesso sullo stesso
strumento, l'elemento competitivo favorisce le esibizioni di trombettisti o
di sassofonisti, addirittura di pianisti), inquadrati in arrangiamenti (orali,
cio head arrangements) e da riff sommari, sostenuti da backgrounds
spontanei. [...] Avendo luogo al di fuori delle ore di lavoro stabile (after
hours), una jam session - diversamente da un concerto o una seduta di
registrazione in studio - deve offrire ai musicisti, senza limiti di tempo,
la possibilit di improvvisare in tutta libert, di confrontare tecniche,
stili, idee, addirittura di rischiare o provare certe innovazioni. Inoltre, il
principio della jam session sovverte le regole del music business nella
misura in cui musicisti giovani o poco conosciuti possono suonare in
compagnia di vecchie glorie. Ma pu anche essere organizzata a fini
commerciali, in concerto, club o studio di registrazione." (Carles,
Clergeat, Comolli: 2008, voce jam session, p. 638-639)
Prover ora ad esplorare i diversi elementi presenti in questa definizione.
corretto affermare che l'origine della jam come istituto non pu essere
fissata in maniera univoca. Nel jazz come in molti altri generi di
tradizione orale, l'incontro informale di pi musicisti che si riuniscono
per suonare insieme senza vincoli economici, professionali o di tempo

69

una prassi consolidata e diffusa. Sarebbe anzi opportuno considerare le


situazioni informali come la normalit e le situazioni pi strutturate, un
concerto o una registrazione, come eccezioni. Se pensiamo al contesto di
New Orleans nei primi anni del secolo scorso, noteremo che le
cosiddette situazioni "formali" erano in realt cerimonie private che
sfociavano nella condivisione pubblica, com'era uso nella cultura creola
e afroamericana del Sud degli Stati Uniti. Mi riferisco in particolare ai
matrimoni e ai funerali, durante i quali era imprescindibile l'intervento di
una banda musicale. Quando i primi musicisti afroamericani provenienti
dal Sud degli Stati Uniti si trasferirono a Chicago seguendo la stessa
rotta di migliaia di operai di colore impiegati nelle fabbriche del Nord, le
sessioni improvvisate nei locali divennero la principale forma di
espressione del nascente jass, come veniva definito dai giornali
dell'epoca. Si suonava in locali di infima categoria, dove venivano serviti
alcolici di contrabbando e spesso si andava avanti fino all'alba. La
societ borghese della windy city era scandalizzata da questa nuova
"invasione" di musica "selvaggia" ed energia umana e non era raro che la
polizia decidesse di interrompere le feste improvvisate irrompendo con
violenza nei locali. Le formazioni stabili di jazz e la consacrazione di
questa musica a genere commerciale prima e poi a forma d'arte erano
ancora di l da venire (Polillo, 1975). Altre occasioni di riunione
informale di musicisti erano i rent parties organizzati in casa: se una
famiglia si ritrovava a fine mese senza i soldi per pagare l'affitto, era
tradizione aprire la propria casa agli ospiti, cucinare qualcosa e preparare
qualcosa da bere e soprattutto invitare dei musicisti che provvedessero
all'intrattenimento. I vicini di quartiere accorrevano in massa e alla fine
della serata (in genere all'alba, se non arrivava prima la polizia) si erano
raccolte offerte a sufficienza per pagare l'affitto e lasciare anche una

70

mancia ai musicisti. Sono queste situazioni molto informali lo scenario


in cui nasce e si sviluppa il jazz nella sua migrazione dalla "culla" di
New Orleans al Nord delle grandi citt.
Durante il periodo d'oro dello swing a New York (dagli anni '20 alla
fine degli anni '40), in cui il jazz era passato da musica del proletariato
nero a grande fenomeno commerciale per la borghesia, i musicisti
cercavano ancora di creare le occasioni per poter suonare in tutta libert,
senza i vincoli di repertorio imposti dalle big bands. Molti locali
iniziarono ad organizzare delle jam session alle quali affluivano sia i
giovani musicisti che volevano farsi conoscere in citt, sia gli orchestrali
che avevano appena finito di suonare nei grandi clubs di Harlem6 o della
52 strada e avevano voglia di "sfogare" il loro estro in mezzo alla "loro"
gente.
Sono entrate nella leggenda del jazz le jam che si tenevano ogni notte
nel celebre Minton's Playhouse, un locale ospitato al primo piano del
Hotel Cecil nel quartiere di Harlem, a New York. Tra gli anni '40 e i
primi anni '50, il Minton's ha ospitato delle jam infuocate che duravano
fino all'alba e alle quali partecipavano regolarmente alcuni dei pi grandi
nomi della storia del jazz: Ben Webster, Lester Young, Thelonious
Monk, Charlie Parker, Dizzy Gillespie e un giovanissimo Miles Davis,
solo per citarne alcuni.
Potremmo affermare che questo il luogo (New York) e il momento
(dalla fine degli anni '30 e per tutti gli anni '40) in cui la jam diventa un

Uno su tutti era il leggendario Cotton Club. Si trattava di un enorme night sito nel quartiere
nero per eccellenza di New York City con un'ambientazione piuttosto kitsch che richiamava
gli ambienti selvaggi dell'Africa Nera. Ovviamente si trattava di un locale white only al quale i
neri potevano accedere solo in veste di musicisti o di lavoratori delle cucine, e in entrambi i
casi solo dalla porta di servizio. La borghesia bianca affollava ogni sera il Cotton Club per
ballare la nuova musica, selvaggia e misteriosa. Pur essendo una dimostrazione
dell'effettivo apartheid praticato all'epoca negli USA, il Cotton Club ha avuto il merito di
lanciare alcuni grandi bandleader come Fletcher Henderson, Duke Ellington o Count Basie, i
quali hanno materialmente scritto la storia del jazz.

71

istituto chiave della cultura jazz, probabilmente l'istituzione che pi di


tutte riassume lo spirito di questa musica.
L'elemento caratterizzante la jam, oltre al fatto di essere informale
(sebbene piuttosto strutturata, come vedremo), il fatto di poggiare su
un repertorio di brani ben conosciuti da tutti i musicisti presenti e che per
questo motivo non necessitano di arrangiamenti preliminari n di prove
per essere eseguiti. Chiarir successivamente come questo repertorio
abbia portato alla formazione di un corpus ben definito di brani, i
cosiddetti standard, che rappresentano la materia comune su cui i
musicisti di ogni generazione e collocazione geografica si confrontano.
Una volta scelto il brano da suonare insieme, i vari musicisti si
alternano negli assolo, con regole e procedure ben precise. Trattandosi di
una situazione informale, la jam offre spesso maggiori opportunit
espressive rispetto ad un "concerto" ufficiale. Innanzitutto, "gli
improvvisatori sono liberi dalle costrizioni che gli ingaggi commerciali
impongono sul repertorio, la durata della performance e la libert di
prendersi dei rischi" (Berliner: 1994, p. 42, trad. mia). Non avendo
vincoli di tempo per le loro improvvisazioni, a parte quelli imposti
dall'etichetta della jam, i solisti sono liberi di esplorare la loro creativit
musicale e di introdurre innovazioni che, in alcuni casi, hanno prodotto
dei significativi balzi in avanti nell'evoluzione del jazz. opinione
comune che le jam al Minton's siano servite da incubatrici per il nascente
movimento be bop che pi di tutti ha segnato la storia del jazz moderno.
Oltre a servire da laboratori per sperimentare nuove idee, le jam
costituiscono un'opportunit unica per i giovani musicisti di "farsi
ascoltare" e quindi conoscere e soprattutto per condividere lo stesso
palco con jazzisti pi affermati. Come ho gi avuto modo di sottolineare,
la jam rappresenta un vero e proprio rituale comunitario in cui le

72

differenze di et, fama, capacit tecniche e livello artistico, si annullano


quasi del tutto e i musicisti hanno l'unica preoccupazione di suonare
insieme e condividere il momento. Per i giovani musicisti, poi, essa
rappresenta una vera e propria "aula" di jazz. Berliner ha affermato che
la jam la vera istituzione educativa della comunit. Gli studenti di jazz
accorrono alle jam con un misto di entusiasmo ed apprensione, come se
si trattasse di sostenere un esame. La maggior parte dei grandi jazzisti
del passato fa notare che l'unica occasione per mettere alla prova le
proprie capacit era quella di presentarsi ad una jam che si sapeva essere
frequentata da musicisti famosi o comunque apprezzati. Essenziale per,
la capacit di individuare il livello medio della sessione, per evitare di
fare una brutta figura davanti ai propri idoli. Se il livello troppo alto, il
giovane musicista si guarda bene dall'entrare nella jam e rimane nel
ruolo del semplice ascoltatore, altrettanto utile per imparare qualcosa di
nuovo.

3.3.2 Aspetti organizzativi


Il mio obiettivo quello di individuare gli aspetti ricorrenti in termini
di organizzazione e soprattutto di interazione tra i diversi musicisti
all'interno di una jam. Ci tuttavia non deve indurre nell'equivoco di
voler interpretare la jam come un format ben definito di performance
jazz.
Pretendere di individuare un modello "puro" di jam session da
sottoporre ad analisi uno sforzo vano, paragonabile al tentativo di
definire in maniera univoca il concetto di jazz.

73

In pratica si potrebbe dire che ovunque si trovino dei jazzisti "armati"


dei loro strumenti possibile mettere in piedi una jam in modo pressoch
istantaneo e soprattutto spontaneo. Nella storia del jazz ci sono stati
diversi tentativi di "imbrigliare" questo istituto a fini commerciali, il pi
celebre dei quali rimane senz'altro l'esperimento del Jazz at the
Philharmonic (spesso abbreviato in JATP) messo in atto dall'impresario e
produttore Norman Granz

dal 1944 fino al 1967. Si trattava

sostanzialmente di ibridi concerto/jam session che si tenevano al


Philharmonic Auditorium di Los Angeles e che riunivano numerosi
musicisti. Il livello delle esibizioni variava notevolmente a seconda dei
musicisti presenti in sala e della jam tradizionale rimaneva ben poco,
probabilmente solo la lunghezza torrenziale di certi assolo.
Il vero "habitat naturale" della jam session rimane comunque il
piccolo club.
Nel corso della mia ricerca mi sono imbattuto soprattutto in jam
organizzate appositamente da gestori di locali notturni per attirare la
clientela. I motivi per cui un gestore preferisce lasciare spazio ad una
sessione improvvisata piuttosto che ad un concerto sono piuttosto
semplici da individuare. Innanzitutto una jam costa molto meno. Inoltre,
essa implica un lavoro organizzativo pi ridotto. Per rendere possibile la
jam il gestore dovr innanzitutto premurarsi di garantire la presenza fissa
nel locale di una sezione ritmica di base. In genere si tratta di un bassista,
di un batterista e di un musicista che suoni uno strumento armonico,
solitamente il piano (specie se il locale ne ha gi uno in dotazione). I
membri della sezione ritmica di base sono di norma gli unici a ricevere
un compenso economico. Il gestore preferir stabilire un rapporto di
fiducia con questi musicisti, sottoscrivendo con essi una sorta di accordo
verbale, ma ciononostante piuttosto stringente (pena la perdita di

74

reputazione nel "giro") con il quale si garantisce la loro presenza


costante ogni settimana. A fronte di un impegno pi o meno stabile, i
musicisti accetteranno un cachet ben inferiore a quello di un concerto. In
genere si tratta del 40-50% in meno, almeno nei contesti da me
osservato. Al gestore a questo punto non resta che fissare un giorno della
settimana da dedicare alla jam e adoperarsi per diffondere la notizia
attraverso i canali classici (volantini, manifesti, trafiletti su giornali
locali, ultimamente anche portali internet) oppure tramite il classico
passaparola. Se la jam funziona, vale a dire se la voce si sparge nella
comunit e cominciano ad affluire i vari solisti, il gestore si ritrover con
uno spettacolo musicale di buon livello che pu durare fino a notte
fonda, e tutto questo per un importo ben inferiore a quello di uno
spettacolo formale. Una volta innescato il meccanismo, ovvero nel
momento in cui la jam diviene un appuntamento abituale per musicisti e
appassionati, essa tender a funzionare automaticamente: gli strumentisti
della sezione ritmica si faranno trovare ogni settimana nel locale, senza
bisogno di essere contattati ogni volta. Prima dell'inizio della serata,
mentre il personale star ancora finendo di pulire il locale o
apparecchiare i tavoli, il set con gli strumenti musicali sar gi pronto
nello spazio dedicato alla musica. I solisti, per lo pi musicisti che
suonano strumenti a fiato come trombe o sassofoni, affluiranno alla jam
insieme agli avventori abituali. Per i solisti, va precisato, non previsto
alcun compenso economico.
La jam organizzata con fini commerciali dai locali offre dei vantaggi
sia al gestore che agli stessi musicisti della sezione ritmica. Ho notato
come sempre pi spesso siano gli stessi musicisti a proporre ai locali di
organizzare una jam settimanale, illustrandone i benefici in termini di
richiamo di clienti e promozione del locale. Mi riferisco ovviamente ai

75

membri della sezione ritmica, gli unici che ne ricavano un cachet, seppur
minimo. Per evitare di farsi un'inutile concorrenza, questi musicisti in
genere si organizzano tra loro per evitare di sovrapporre due o pi jam
nella stessa serata, specie nelle piccole citt, oppure per mantenere pi o
meno costanti i cachet (soprattutto di non farli abbassare!). La creazione
di questi piccoli "cartelli" piuttosto frequente nei contesti in cui non
presente una scena jazz particolarmente ricca. Se in una citt ci sono due
o tre bassisti jazz professionisti (in grado cio di "reggere" una jam),
questi tenderanno a dividersi il lavoro (cio i locali in cui suonare) per
evitare di "mettersi i bastoni tra le ruote" a vicenda.
Il fatto che la ritmica riceva un compenso contribuisce alla solidit
dell'organizzazione della jam. Se un trombettista o un sassofonista non
hanno grandi problemi a portarsi dietro il proprio strumento per andare
alla ricerca di una jam in qualche locale della citt, piuttosto
improbabile che un contrabbassista o un batterista vadano in giro
"armati" della propria strumentazione. Essendo pagati per garantire la
propria presenza nella jam, i membri della ritmica si faranno trovare nel
locale ben prima dell'orario ufficiale di inizio della jam, come se si
trattasse di un ingaggio "normale".
Questi aspetti commerciali sembrano in qualche modo "tradire"
l'aspetto ricreativo e "rituale" della jam. Nei contesti da me frequentati in
qualit di musicista, le occasioni per proporre un evento jazz pi
strutturato come un concerto sono piuttosto rare. I gestori di locali spesso
non hanno la possibilit n la voglia di rischiare economicamente per
proporre eventi di questo tipo, soprattutto se si tratta di invitare musicisti
di alto livello che si devono spostare dalle loro localit di origine con
tutto quello che ci comporta in termini di costi e di organizzazione
logistica (trasferte dei musicisti, alloggio, compensi elevati e cos via). In

76

questi contesti dove non presente una "scena" jazzistica forte, le jam
rappresentano spesso le uniche occasioni che i musicisti hanno per
suonare in pubblico e, nel caso della sezione ritmica, di guadagnare
anche qualcosa. Tuttavia, anche in questa forma pi "commerciale",
ritengo che la jam mantenga alcuni degli aspetti chiave che la
contraddistinguono dai concerti organizzati nei teatri o nei festival. Se si
esclude il fatto che i musicisti della sezione ritmica stanno suonando
dietro compenso (e quindi stanno a tutti gli effetti "lavorando"), la jam
rimane comunque quella che Cameron definiva una "riunione creativa
transitoria di un lite" (Cameron, 1954, pag. 177, trad. mia). I solisti si
presentano alla jam a titolo gratuito, con la pura e semplice intenzione di
suonare insieme senza vincoli commerciali. Per indicare questo
atteggiamento, Cameron utilizza l'espressione idiomatica "busman's
holiday" (vacanza da autista di autobus), intendendo cio un momento
ricreativo nel quale si svolgono le stesse attivit che si fanno in genere
per lavoro.
A prescindere dal fato che la jam sia informale o organizzata da un
locale, rimangono del tutto invariate le caratteristiche pi strettamente
performative dell'evento. Se il contesto da me osservato assai differente
rispetto alle jam indagate da Cameron e Becker, le modalit di
"funzionamento" della pratica musicale rimangono invariate. La
disposizione degli strumenti, la scelta degli standard, gli arrangiamenti
informali dei brani (head arrangements), la successione dei solisti, il
trattamento riservato ai newcomers che vogliono accedere alla jam: sono
tutti comportamenti vincolati ad un'etichetta piuttosto rigida che rimane
sostanzialmente invariata.

77

3.4 Come funziona una jam?


Dopo avere delineato brevemente l'evoluzione della jam session e le
modalit di organizzazione di questo tipo di evento, prover ora ad
analizzarne l'effettivo funzionamento.
In un suo recente articolo, Becker ha descritto in modo esemplare lo
stupore che pu suscitare questo tipo di performance: "Alcuni musicisti
che magari nemmeno si conoscono tra di loro, si incontrano per suonare
insieme. Suonano per alcune ore, senza prove, con il supporto di
partiture piuttosto "rudimentali" (se ne hanno a disposizione, e spesso
non le hanno affatto) e suonano anche piuttosto bene, per la
soddisfazione del gestore che li ha assunti e del loro pubblico. La nostra
domanda la seguente: come possono fare tutto ci? Di che tipo di
competenze e capacit hanno bisogno per realizzare con successo questa
meravigliosa dimostrazione di attivit coordinata? Suggeriamo che la
soluzione a questo dilemma possa offrire un modello per problemi
similari presenti in molte altre aree dell'attivit collettiva umana."
(Becker: 2005, p. 15; trad. mia)
Prover ora a delineare lo svolgimento di una tipica jam session.
Poniamo il caso che i componenti della ritmica, tipicamente
contrabbasso, piano e batteria, si siano gi sistemati nello spazio del
locale dedicato alla performance. Nell'attesa che i primi solisti arrivino
nel locale, la ritmica potr suonare alcuni brani introduttivi utili anche
per provare l'impasto sonoro e l'acustica del locale. Quello che succeder
in seguito, ovvero il numero di solisti che si uniranno alla jam, il
repertorio che verr affrontato e il modo in cui i brani verranno eseguiti
del tutto imprevedibile. Potrebbe succedere che nel locale si presentino

78

solo pochi solisti, oppure che si crei una folla di musicisti ansiosi di
esibirsi (da cui il significato originario del verbo to jam, "affollare").
Quando i primi solisti cominceranno ad unirsi alla ritmica, si
creeranno diversi tipi di formazione. A questo punto i musicisti dovranno
organizzare in tempo reale lo svolgimento della performance. I quesiti a
cui bisogner dare una soluzione sono i seguenti: cosa suoniamo? e
soprattutto: come lo suoniamo?

3.4.1 Cosa suoniamo? Il repertorio degli standard


La scelta del repertorio rappresenta uno degli elementi di maggiore
interesse per chi intende analizzare la jam nell'ottica di una performance
interattiva e coordinata tra pi attori.
Il "materiale" musicale che costituisce la base della jam
estremamente variegato. La selezione degli elementi da suonare e il
modo in cui questo materiale viene trattato rappresentano la migliore
dimostrazione del tipo di cultura sottostante l'istituto della jam.
La scelta del brano da eseguire un atto di negoziazione che avviene
tra i membri della ritmica e i solisti che partecipano alla jam. Appartiene
all'etichetta della jam l'abitudine di lasciare la scelta ai solisti, come
forma di cortesia nei confronti di un ospite. Poniamo il caso che uno dei
solisti proponga un brano agli altri musicisti. La domanda di rito
sempre la stessa: "conoscete il brano X?"
La proposta di un brano non del tutto aleatoria: si tratta di attingere
ad un insieme di risorse disponibili. Colui che propone un brano
sceglier tra un elenco, la cui composizione talmente variegata da
meritare uno studio ad essa interamente dedicato. Il solista in questione

79

pu semplicemente rivolgersi verso i membri della ritmica e proporre


alcuni titoli di brani o pu direttamente accennarli suonandone alcune
note sul proprio strumento. Non raro, specie nelle jam frequentate da
musicisti ben navigati, che il solista inizi direttamente a suonare
un'introduzione ad un brano senza nemmeno premurarsi di indicarlo
prima alla ritmica. una situazione tutt'altro che improbabile e ci
dimostra nel modo pi evidente possibile che esiste una straordinaria
condivisione di conoscenze e di linguaggio tra i musicisti presenti in
sala.
"Ogni musicista contribuisce alla negoziazione con il proprio
personale repertorio, ma la maggior parte di loro avr in mente un nucleo
centrale di brani che ritengono siano conosciuti da tutti gli altri. Succede
spesso, tuttavia, che qualcuno non conosca ci che gli altri pensano
dovrebbe conoscere e quindi dovr avanzare altre proposte finch non si
trover qualcosa che funzioni" (Becker: 2005, p. 16; trad. mia).
Da dove attingono il proprio materiale questi musicisti? Com'
possibile che un anonimo sassofonista entri in un locale dove si sta
tenendo una jam, si posizioni davanti ad un ritmica di perfetti
sconosciuti, accenni soltanto le prime due note (letteralmente) di un
brano conosciuto come ad esempio Stella by Starlight e la ritmica
automaticamente inizi ad accompagnarlo?
Il repertorio jazz un'entit estremamente variabile e ricca. Non si
tratta di un corpus di brani fissato una volta per tutte, sebbene alcuni
elementi ne facciano parte di diritto da cos tanto tempo da essere ormai
divenuti patrimonio comune di tutti coloro che suonano jazz.

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La componente principale di questo repertorio costituita dai


cosiddetti standard. Si tratta di un corpus di brani conosciuti dalla
maggior parte dei jazzisti che pu essere diviso in due grandi categorie.
La prima, quella pi antica e "resistente", costituita da quei brani
appartenenti al repertorio dei musical di Broadway che sono diventati
patrimonio comune nel corso degli anni '30 e '40 per via della loro
grande popolarit. Sono i cosiddetti brani del genere "Tin Pan Alley",
una denominazione di origine oscura che sta ad indicare l'insieme di
produttori e compositori americani che a partire dalla fine del XIX
secolo fino agli anni '50 del XX hanno prodotto una quantit
"industriale" di canzoni e operette di stampo commerciale entrate ormai
di diritto nell'immaginario collettivo americano (e non solo). Tra i
compositori pi celebri di questo movimento possiamo senz'altro
includere i fratelli George e Ira Gershwin, Hoagy Carmichael, Irving
Berlin, Jerome Kern, Scott Joplin e ovviamente Cole Porter. Le opere di
questi autori costituiscono quello che viene solitamente indicato come
Great American Songbook, dal quale jazzisti di tutto il mondo
continuano ancora oggi ad attingere a piene mani.
A proposito del Great American Songbook, vorrei aggiungere alcune
annotazioni: innanzitutto bisogna evidenziare che i brani di questo
genere tendono ad entrare ed uscire periodicamente dal repertorio dei
jazzisti, in relazione alle mode o alla prassi musicale pi diffusa.
Ciononostante esiste un nucleo centrale di circa 60-80 brani che
costituiscono il "minimo sindacale" richiesto ad un jazzista per potersi
cimentare in una jam senza correre il rischio di fare una brutta figura
(questo vale soprattutto nelle jam americane e in quelle europee di
livello pi alto). Inoltre, bisogna ricordare che tali brani entravano nel
repertorio jazz nel momento in cui erano di maggiore popolarit. I

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jazzisti degli anni '30 e '40 memorizzavano con facilit le melodie perch
erano costantemente riproposte dalla radio e suonate in ogni occasione.
Utilizzando le strutture armoniche come basi per le loro improvvisazioni,
i jazzisti "rimaneggiavano" questo repertorio a proprio uso e consumo.
Utilizzare una melodia popolare per creare delle improvvisazioni pu
essere visto come una "mossa di avvicinamento" ai gusti del pubblico e
soprattutto alle richieste dei gestori. La melodia iniziale rappresentava in
realt per questi musicisti un semplice pretesto, un compromesso tra
esigenze artistiche e spinte commerciali e sociali. Questo atteggiamento
sar messo in discussione con la rivoluzione del be bop, con la crescente
presa di coscienza artistica dei musicisti afroamericani e la decisione di
produrre anche delle composizioni originarie e individuali. Un passaggio
necessario per l'affrancamento del jazz dalle "gabbie" della musica
commerciale e il suo successivo sviluppo come forma d'arte autonoma e
potente.
Tuttavia molti di questi brani sono oramai rimasti nel repertorio jazz e
vengono continuamente riproposti non solo nelle jam ma anche in sala
d'incisione. Ancora oggi non sono pochi coloro che considerano un
passaggio obbligato per un artista emergente quello di introdurre almeno
uno standard nel suo disco d'esordio, come per dimostrare di aver ben
"digerito" la tradizione jazz.
La seconda categoria di brani corrisponde a quelli che vengono
indicati come jazz standards. Si tratta di brani composti da musicisti jazz
che esulano dal repertorio "Tin Pan Alley" ma che hanno raggiunto un
tale livello di popolarit da rappresentare un patrimonio comune per tutti
i jazzisti. Sono composizioni che risalgono in genere al periodo be bop
(met anni '40) e arrivano fino agli anni '60. Gli autori che hanno
prodotto il maggior numero di brani che sarebbero poi divenuti dei jazz

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standards sono spesso le personalit pi eminenti della storia del jazz


moderno: Thelonious Monk, Miles Davis, Charlie Parker, Dizzy
Gillespie, Horace Silver, John Coltrane e molti altri ancora.
Lo sforzo di apprendere il maggior numero di standard e costruire
cos un proprio personale repertorio occupa una porzione importante nel
lavoro di uno studente di jazz. Questo vale ancora di pi per un membro
della ritmica, in particolare per il bassista e per il pianista, come
vedremo in seguito.
Imparare uno standard significa essenzialmente lavorare su due fronti.
Da un lato il musicista dovr memorizzare la melodia. Potremmo dire
che questa sia la parte pi facile, ma in realt il tipo di lavoro richiesto
molto pi sottile della semplice memorizzazione di un motivetto da poter
canticchiare per strada.
Il musicista dovr "tradurre" nella lingua del suo strumento una
melodia che stata originariamente pensata per la voce (come accade
spesso nel caso degli standard Tin Pan Alley) o comunque per un set di
strumenti ben definito ( il caso dei jazz standards, per i quali in genere
fa fede la prima versione registrata dall'autore su disco).
Lo studente probabilmente apprender la melodia imitandola
direttamente dal disco, una prassi diffusa lungo tutta la storia del jazz,
dalle origini fino ai giorni nostri. Se lo studente avr a disposizione
diverse incisioni del medesimo brano, potr confrontarle e decidere
quale seguire oppure, meglio ancora, fonderle in una sorta di cocktail
personale. Per molti jazz standard, come abbiamo visto, esistono delle
versioni di riferimento. Se un musicista impara uno standard in una
versione particolare, potrebbe poi avere delle brutte sorprese al momento
di esibirsi in una jam, perch magari gli altri musicisti avranno in mente
la versione pi conosciuta.

83

Ad ogni modo, la memorizzazione della melodia rappresenta lo sforzo


minore. In realt, come abbiamo visto, molti standard assolvono alla
funzione di offrire una griglia armonica su cui poter improvvisare. In
alcuni casi la melodia funge soltanto da episodio introduttivo, mentre
l'attenzione principale si rivolge principalmente verso l'assolo di ogni
singolo musicista.
Compito dello studente sar allora quello di memorizzare e
interiorizzare la progressione armonica su cui poggia la melodia dello
standard. Si tratta in sostanza di memorizzare la sequenza di accordi che
accompagnano la melodia e la relazione armonica che intercorre tra essi,
poich sar su quella base che il solista costruir in seguito il suo assolo.
In pratica dopo che i solisti avranno esposto il tema iniziale, detto head,
la ritmica continuer a siglare gli accordi della melodia, mentre i solisti
si alterneranno improvvisando su quella "griglia" armonica come se
dovessero re-inventare la melodia per un numero imprecisato di volte.
Questa una spiegazione piuttosto sommaria e "rozza" del processo di
improvvisazione su una struttura standard, ma credo sia utile per
comprendere l'importanza della progressione armonica e della sua
memorizzazione.
Il lavoro di apprendimento degli standard ha subito una sostanziale
evoluzione negli ultimi decenni. Sin dagli esordi del jazz e fino a pochi
anni fa, gli studenti non avevano altri sistemi per imparare le melodie
degli standard e le loro progressioni armoniche se non memorizzandoli
direttamente dai dischi. Se la melodia non rappresenta quasi mai grandi
problemi, riuscire a riconoscere il suono degli accordi (il "sapore"
[flavour], direbbero i jazzisti, che utilizzano molto spesso queste
sinestesie tra udito e senso del gusto quando si parla di accordi e della
loro sonorit), non affatto semplice e richiede un lungo addestramento,

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a meno che non si dotati di un orecchio assoluto, nel qual caso


l'operazione risulta pressoch istantanea. Negli anni i jazzisti hanno
escogitato un gran numero di "trucchi" per riuscire a carpire i segreti del
jazz direttamente dalle registrazioni. Bix Beiderbecke, leggendario
trombettista degli anni '20, rallentava la velocit di esecuzione del suo
grammofono per poter trascrivere le melodie, gli accordi e soprattutto gli
assolo dei grandi musicisti che lo avevano preceduto (Berliner: 1994, p.
75; trad. mia). Una tecnica, quella di cercare in qualche modo di
rallentare la registrazione, che ancora oggi utilizzata da molti studenti,
facilitati in questo dall'enorme sviluppo delle tecnologie di riproduzione.
Altri studenti pi dotati riuscivano addirittura a trascrivere in tempo reale
le melodie o gli assolo dei loro idoli durante i concerti o le jam session.
Queste tecniche "artigianali" di analisi e studio della materia sonora
del jazz richiedevano uno sforzo e una dedizione non indifferente agli
studenti, ma assicuravano al contempo una profonda immersione nella
cultura viva e pulsante della tradizione. I musicisti che maggiormente si
sono dedicati a questo tipo di imprese sono in genere i pi competenti,
quelli che meglio hanno assorbito il linguaggio dell'improvvisazione e
sicuramente i pi "ferrati" nel repertorio tradizionale degli standard.
Una sorta di piccola rivoluzione in questo contesto stata determinata
dalla nascita e dalla successiva diffusione di raccolte, pi o meno legali,
di trascrizioni musicali degli standard pi famosi. Si tratta dei cosiddetti
fake book (libri di "falsi" o libri per il "faking", dove faking sta per
"accennare un brano"), i pi famosi dei quali sono senz'altro i vari Real
Book, introdotti a partire dai primi anni '70 del secolo appena trascorso.
L'origine di queste raccolte di partiture da imputare agli studenti del
Berklee College of Music di Boston. Gli studenti, dediti ovviamente ad

85

un continuo lavoro di trascrizione dei brani direttamente dai dischi,


cominciarono a scambiarsi tra di loro tali partiture e in breve tempo si
giunse ad una compilazione sommaria dei principali standard jazz che
una volta uscita dalle pareti del prestigioso college ha invaso il mondo.
In seguito sono state pubblicate delle edizioni "legalizzate" di queste
trascrizioni con le quali si cercato di rimediare ai numerosi e inevitabili
errori contenuti nelle prime edizioni. I jazzisti della vecchia guardia non
hanno mai accolto in maniera positiva l'uso del Real Book nelle sue varie
edizioni. L'introduzione di queste raccolte, se da una parte ha contribuito
alla diffusione degli standard nel mondo, dall'altra ha rappresentato una
sorta di invito alla "pigrizia" e alla omogeneit tra gli studenti. Molti
docenti sconsigliano vivamente l'uso dei Real Book per apprendere i
brani, suggerendo di ricorrere ancora alla vecchia pratica della
trascrizione dal disco. Inoltre, i brani del Real Book sono presentati
sempre in un'unica tonalit, mentre prassi comune per i jazzisti
impegnati in una jam session quella di proporre uno standard in tonalit
differenti da quella della versione pi conosciuta, gettando spesso nel
panico i musicisti pi giovani e meno esperti. Sebbene sia una prassi
ancora molto diffusa, specie in Europa, utilizzare un Real Book durante
una jam session considerato disdicevole, qualcosa di cui bisognerebbe
vergognarsi: nella jam si suona a memoria e in qualsiasi tonalit!
Anche il sottoscritto stato pi volte redarguito senza piet dai
musicisti pi esperti perch non conosceva uno standard in particolare o
perch non era in grado di suonarlo nella tonalit scelta dal solista. You
are a bassist, man: you got to know your changes!

("sei un bassista,

ragazzo: devi conoscere gli accordi!)

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La successione dei brani (o "scaletta") da suonare nel corso della jam


session non viene fissata preliminarmente come in genere avviene per un
concerto, ma anch'essa frutto di una continua negoziazione e di un
adattamento alle esigenze della situazione. In genere i musicisti
cercheranno di dare un senso "narrativo" alla successione dei brani,
alternando brani in tonalit diverse e con diversi groove (portamenti
ritmici) sia per rendere interessante il repertorio per il pubblico, sia per
stimolare la creativit dei solisti. Molto dipende anche dal tipo di
strumenti suonati dai solisti. Nel jazz non esistono dei veri repertori
specifici, ma indubbio che determinati brani si prestano ad un
particolare strumento ed in genere il musicista che suona quello
strumento e che partecipa alla jam chieder prima o poi di suonarlo.
Altro discorso quello dei/delle cantanti. La voce a tutti gli effetti uno
strumento come tutti gli altri e nel jazz non si fa distinzione. Se non fosse
che molto spesso i/le cantanti non si curano molto di adeguarsi al
contesto e magari propongono brani ben lontani dal repertorio degli
standard o comunque li eseguono in tonalit tutt'altro che definite, con
grande frustrazione per i membri della ritmica.

3.4.2

Come

lo

suoniamo?

Head

arrangements

trattamenti

convenzionali
Una volta che questa negoziazione ha portato alla scelta di un brano (e
sia chiaro, ci avviene solitamente nel giro di pochi secondi), la
questione diventa: come lo suoniamo?

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La forma tipica di uno standard include una melodia e una struttura


armonica che danno vita al cosiddetto "tema" (o head, per usare la
terminologia americana).
Il tema in genere organizzato in pi sezioni, con strutture tipiche
basata su cicli di battute in genere di numero pari (4, 8, 16). Le forme pi
usate rispecchiano la classica struttura di una canzone (e infatti sono
chiamate song forms). In genere la forma-canzone composta da 32
battute divise in 4 sezioni da 8 battute ognuna. La struttura viene in
genere descritta come AABA per intendere che le prime due sezioni e
l'ultima sono sostanzialmente uguali e ripropongono lo stesso materiale
melodico/armonico; mentre il B (detto anche bridge) in pratica quello
che in Italia chiamiamo "ritornello", ovvero un cambiamento della
melodia e della melodia che serve a dare movimento e variet al brano
ed in genere la parte pi orecchiabile e cantabile, quella che tutti
ricordano. L'ultima sezione A serve, come dicono i jazzisti, per "tornare
a casa", ovvero per ricominciare da capo il pezzo.
L'intera struttura di un brano detta chorus. Dopo aver suonato la
head, la melodia del tema, i musicisti ripercorrono lo stesso chorus per
un numero indefinito di volte, improvvisandoci sopra delle nuove
melodie.
L'analisi delle forme del jazz occupa una branca ben definita degli
studi su questa cultura musicale e in Italia abbiamo una ricca tradizione
su questo tema, inaugurata da Marcello Piras e continuata oggi
egregiamente dal musicologo Stefano Zenni (confrontare al proposito il
fondamentale lavoro di Zenni sul tema: "I segreti del Jazz", 2008).
L'analisi delle forme del jazz stata pi volte soggetta ad un certo
riduzionismo che voleva ricondurre le varianti possibili essenzialmente a
due: la forma-canzone, derivata dai musical e dal repertorio Tin Pan

88

Alley e il blues, come ancoraggio alla tradizione culturale afroamericana.


Considerare le forme del jazz come dei semplici canovacci su cui
dispiegare l'improvvisazione individuale rappresenta, a detta dello stesso
Zenni, "una semplificazione musicologica che tradisce il pregiudizio
eurocentrico da cui nasce e il razzismo sotterraneo, spesso non
consapevole, che lo alimenta" (Zenni: 2008, p. 175).
Non questa la sede per una rassegna delle forme tipiche del jazz. Mi
soffermer invece sul tipo di "trattamento" che in genere gli standard
ricevono nel corso di una jam.
Dopo aver selezionato il brano da suonare attraverso quella rapida
negoziazione che ho descritto, i musicisti che partecipano alla jam
dovranno decidere alcune variabili circa il modo in cui dovr essere
esposto il tema principale, il tipo di accompagnamento, l'alternarsi dei
solisti e la chiusura del brano.
Innanzitutto bisogna decidere in quale tonalit si vorr suonare il
brano. Come ho gi sottolineato, ad ogni standard vengono in genere
associate una o pi tonalit "tradizionali" nelle quali viene solitamente
suonato e che la maggior parte delle volte sono quelle indicate nei vari
Real Book. Ci non toglie che il solista che ha proposto il brano non
abbia la libert di proporre una tonalit alternativa, presupponendo che la
ritmica sia perfettamente in grado di adattare all'istante il proprio
accompagnamento. Alcuni solisti utilizzano tonalit differenti rispetto a
quelle tradizionali come una forma di dimostrazione della propria
capacit musicale. Altre volte invece il cambio di tonalit dettato da
esigenze tecniche: ci avviene in particolare quando l'esposizione del
tema viene affidata ad un/una cantante.

89

Altro fattore importante la determinazione del tipo di groove, ovvero


il modo in cui la ritmica dovr accompagnare i solisti. Esistono
numerose modalit fondamentali di accompagnamento e non avrebbe
senso cercare di classificarle tutte. In generale per, le jam mantengono
una certa omogeneit di stili che possono essere ricondotti al classico
accompagnamento swing, oppure ai vari stili di accompagnamento
derivati dalle tradizioni latino americane come il latin groove, la bossa,
la rumba e cos via. Tratter queste modalit pi o meno formalizzate di
accompagnamento quando mi occuper in particolare del lavoro della
ritmica. A volte i solisti richiedono una forma ben precisa di
accompagnamento, facendo riferimento al modo in cui un brano celebre
stato registrato in un particolare disco. Ci avviene in particolare per i
jazz standard, per i quali fanno fede le prime incisioni ad opera degli
stessi autori del tema. Per fare un esempio, il solista potrebbe rivolgersi
alla ritmica proponendo di suonare Blue Train, un celebre blues
composto da John Coltrane nel 1957. Si tratta di una struttura ben
conosciuta da tutti perch basata sulla tradizionale forma a 12 battute del
blues tradizionale e quindi si suppone che la ritmica non avr nessuna
difficolt a ricordare gli accordi dell'accompagnamento. Trattandosi di
un jazz standard molto noto, il solista potr anche richiedere che venga
suonato "come nel disco". Non si intende, a scanso di equivoci, che si
cercher di ri-eseguire "alla lettera" il brano cos com' stato registrato
nel 1957, poich ci esulerebbe del tutto da qualunque logica jazzistica.
Il solista si aspetta piuttosto che il basso e la batteria riproducano le
figurazioni ritmiche della registrazione originale: in questo modo si
creer l'atmosfera particolare per quel tipo di brano, caratterizzandolo
maggiormente rispetto ad un blues "qualsiasi".

90

Dopo aver selezionato il brano, scelta la tonalit e il tipo di groove che


dovr essere utilizzato, si dovr decidere in che modo esporre il tema
(head).
Continuando ad utilizzare l'esempio citato sopra, la ritmica potrebbe
prendere a questo punto l'iniziativa e incominciare a suonare la figura
ritmica notoriamente associata al tema di Blue Train, come forma
introduttiva al tema vero e proprio. L'uso delle introduzioni (o pi
semplicemente intro) una prassi consolidata e costituisce un buon
metodo per rendere manifesti a tutti il tipo di interpretazione che si vorr
dare al brano.
Dopo alcune battute di intro, uno dei solisti potr prendere l'iniziativa
di esporre il tema. Anche qui interviene un processo di negoziazione. I
solisti presenti nella jam decidono preliminarmente a chi toccher il
compito di esporre il tema. Esistono diverse modalit di esposizione. Se
sono presenti strumenti diversi, come ad esempio un sax e una tromba, i
due musicisti in questione probabilmente decideranno di esporre il tema
contemporaneamente, magari armonizzandolo nelle due voci per evitare
di suonare un semplice unisono. Se invece alla jam partecipano due o pi
musicisti che suonano lo stesso strumento, probabilmente essi si
alterneranno nell'esposizione dei vari temi, seguendo un criterio dettato
pi da forme di cortesia che da reali esigenze estetiche. Ipotizziamo
l'ipotesi di una jam gi avviata alla quale stanno partecipando, oltre
ovviamente alla ritmica, anche un trombettista e un sassofonista.
Poniamo il caso che, dopo un certo numero di brani, si associ anche un
altro sassofonista che fino a quel momento era rimasto seduto in sala in
qualit di ascoltatore e che ha finalmente deciso di fare il suo ingresso
nella jam. Il nuovo solista, magari sconosciuto agli altri, ha assistito alla
jam fin dall'inizio e pertanto, quando verr invitato a scegliere un brano,

91

non proporr di certo un brano che gi stato suonato. Il nuovo arrivato


propone di suonare, appunto, Blue Train, un brano eminentemente
"sassofonistico". quasi inevitabile che l'altro sassofonista, che ha
suonato nella jam fin dall'inizio, si metter a quel punto da parte,
proponendo al nuovo arrivato di esporre il tema. Il trombettista si
limiter, a quel punto, ad improvvisare una seconda voce armonizzata
per arricchire l'esposizione del tema.
Dopo aver esposto il tema iniziale, i solisti cominceranno ad alternarsi
negli assolo sulla struttura armonica del brano. La successione dei solisti
rispetta, al pari dell'esposizione del tema, una serie di semplici quanto
precise norme che attengono alla cosiddetta "etichetta" della jam.
Prover ora a delineare un modello di organizzazione dell'esecuzione,
cos come si riscontra in genere nel corso di una jam.
Dopo l'introduzione della ritmica, di lunghezza variabile, il
sassofonista appena arrivato e il trombettista espongono dunque il tema
di Blue Train, ripetendolo per due volte. L'altro sassofonista rimane in
disparte o magari ne approfitta per bere qualcosa o intrattenersi con il
pubblico.
Esposto il tema iniziale, l'etichetta vuole che sia proprio il nuovo
arrivato ad aprire le danze degli assolo. Il sassofonista a quel punto inizia
ad improvvisare su un numero non ancora preventivato di chorus, ossia
ripercorrendo la struttura armonica ed improvvisandoci sopra. La
ritmica, ovviamente, continua ad accompagnarlo senza soluzione di
continuit, siglando gli accordi della struttura e fornendo l'impulso
ritmico del brano. Ipotizziamo che questo primo solista si "prenda"
cinque chorus, sempre con il continuo sostegno della ritmica. Ad esso

92

subentrer, poniamo il caso, l'altro sassofonista che fino a quel momento


si era messo in disparte per lasciare il posto al nuovo arrivato e ora
riconquista la scena. La ritmica segner con "segnale" sonoro pi o
meno stereotipato lo scambio di consegne tra primo e secondo solista.
buona norma, per voler rispettare l'etichetta, che anche il secondo
sassofonista si "prenda" esattamente cinque chorus e cos far, dopo di
lui, anche il trombettista.
Esauriti i "soli" della front line, la parola passer alla ritmica. Il primo
solo della ritmica quasi sempre lasciato al piano. Sempre con il
continuo supporto degli altri membri della ritmica, il pianista si prender
i suoi cinque chorus di intervento solistico e la sua dose di applausi e di
apprezzamenti da parte del pubblico e degli altri musicisti.
A quel punto toccher al basso prendere l'iniziativa. Il solo del bassista
un evento "a s" nella dinamica della performance come avr modo di
spiegare successivamente. Per il momento faccio notare che in genere il
bassista non prende lo stesso numero di chorus degli altri solisti ma si
limita ad un solo "giro" di improvvisazione.
Dopo il solo del basso, attraverso uno scambio di sguardi e di cenni tra
i musicisti, si potrebbe decidere di "fare gli scambi" (trading) con il
batterista. La prassi vuole che si ripeta la stessa successione dei solisti.
Partir quindi il primo sassofonista, il quale non improvviser di nuovo
sull'intera struttura, ma solo su una sezione ben definita. Ci dipende
dalla forma del brano scelto. Nel nostro caso, trattandosi di una forma
blues tradizionale di 12 battute, si opter probabilmente per degli scambi
di quattro battute (trade four), dividendo l'intera struttura in tre parti.
Quindi il primo sassofonista improvviser sulle prime quattro battute,
lasciando le successive quattro al solo del batterista. Poi sar il turno del
secondo sassofonista, del trombettista, del pianista e quindi del basso,

93

seguendo sempre lo stesso schema: quattro battute al solista, quattro


battute al batterista. Vedi schema
Il trading uno dei numerosi eventi di una performance jazz che
rispecchiano la logica del call & response. Con questo termine si indica
la prassi diffusa di "rispondere" con delle ripetizioni alle idee espresse da
un solista o da un qualunque membro del gruppo. Un esempio tipico
quello in cui un solista esegue una frase particolarmente "perentoria" nel
corso del suo assolo e la ripete pi volte, come a volerla sottolineare con
enfasi. quasi inevitabile che il batterista risponder a questa forma di
ripetizione retorica sottolineandola ritmicamente sui componenti della
sua batteria; oppure gli altri solisti potrebbero unirsi in una sorta di coro
improvvisato che "risponde" all'enunciazione del solista allo stesso modo
in cui i partecipanti ad una funziona religiosa battista rispondono in coro
con i loro hallelujas o yeah! alle frasi perentorie del predicatore.
Si

tratta

di

una

prassi

fondamentale

nell'estetica

musicale

afroamericana, cos come sottolineato anche da Monson: "[Il call &


response] un modo fondamentalmente sociale, conversazionale e
dialogico per organizzare la performance musicale" (Monson: 1996, p.
89; trad. mia).
Una volta terminato il trading col batterista, si torner al tema iniziale,
questa volta per eseguito da tutti i membri della front line (dopo il
primo brano il sassofonista non pi un ospite ed entrato a pieno titolo
nella jam).
All'esposizione del tema finale pu seguire una coda per "uscire" dal
brano, in genere ricalcata sul modello dell'intro, quindi in questo caso
affidata alla sola ritmica.

94

Modello di head arrangement su una struttura blues (12 battute):


formazione: ritmica (basso, piano, batteria) + solisti (sax1, sax2, tromba)
INTRO: soltanto la ritmica (durata indefinita)
TEMA: sax1 + tromba (ripetuto due volte)
SOLI:
Sax 1
Sax 2
Tromba

5 chorus

Piano
Basso

1 chorus

TRADING (four)
Sax 1 (4 batt.) - Batteria (4 batt.)
Sax 2 (4 batt.) - Batteria (4 batt.)
Tromba (4 batt.) - Batteria (4 batt.)

TOT.: 3 chorus (36 battute)

Piano (4 batt.) - Batteria (4 batt.)


Basso (4 batt.)

TEMA FINALE (x2) = tutti


CODA

Il modello appena esposto un formato piuttosto consuetudinario per


una forma blues, ma rappresenta comunque una delle infinite varianti
possibili. In pratica, ogni esecuzione un evento a se stante, non solo per

95

l'irripetibilit degli interventi solistici ma anche per la straordinaria


variet di "arrangiamenti" istantanei che possono essere utilizzati. A
parte il riferimento ad incisioni storiche di determinati standard, i
musicisti non sono infatti tenuti a rispettare alcuna regola per
organizzare l'esecuzione del brano. Se si osserva una partitura presa a
caso da un fake book, si noter che le uniche indicazioni disponibili si
riducono alla linea melodica del brano (spesso assai semplificata) e agli
accordi che costituiscono la griglia armonica su cui essa poggia, indicati
con delle semplici sigle convenzionali (peraltro estremamente variabili
nelle varie edizioni di queste raccolte).
Non esistono, n avrebbe senso che esistessero, indicazioni circa la
formazione che deve eseguire il brano, la durata o l'alternarsi dei soli, le
figurazioni ritmiche che dovranno essere seguite dal basso o dalla
batteria (salvo alcuni casi eccezionali di temi che includono degli
obbligato per questi strumenti).
Si tratta di una semplice traccia melodico-armonica che rispecchia in
pratica il tipo di informazioni che ogni musicista "immagazzina" nella
propria memoria quando apprende un brano: questa la linea della
melodia, questi sono gli accordi, la loro successione e i loro rapporti
armonici. Una volta fissata questa relazione accordi-melodia, il musicista
sar in grado di riproporre quella combinazione in qualunque
formazione, con qualunque tipo di accompagnamento e in ogni tonalit.
Siamo ben lontani dalle partiture complesse e dettagliate della musica
classica, sebbene tali forme pi strutturate siano ormai prassi comune
anche nel jazz. Ma nella jam non si fa riferimento a nient'altro se non a
queste essenziali "ossature" melodico armoniche. Tutto il resto dipende
dall'intuizione del momento, dall'utilizzo delle "risorse" disponibili (in
termini di musicisti disponibili e di competenze) e dal ricorso a tutta una

96

serie di convenzioni (come ad esempio l'uso del trading o le


armonizzazioni istantanee della melodia).
Sebbene questa forma di arrangiamento del tema (head arrangement)
cos come l'abbiamo descritta possa apparire piuttosto complessa, va
fatto notare come essa venga realizzata in maniera pressoch istantanea e
che si definisca nelle sue varie componenti in tempo reale con
l'esecuzione del brano. Pu accadere ad esempio che dopo i soli della
front line e del piano, uno dei solisti si rivolga verso il bassista per
"interpretare" dal suo atteggiamento se ha intenzione o meno di fare un
assolo (e che magari questi faccia capire di non volerlo fare), oppure che
il batterista comunichi in qualche modo agli altri (gesti, fischi, segnali
sonori, ammiccamenti e quant'altro) di non voler fare gli scambi con i
solisti e di voler rivendicare uno spazio pi ampio per il proprio solo. Le
situazioni possibili sono molteplici e la capacit di adeguare l'esecuzione
a quello che avviene istante per istante tutta compresa nella
straordinaria interazione che questa musica consente e al contempo
richiede ai musicisti.

3.5. La jam session come modello di azione collettiva


L'analisi del funzionamento di una jam e in particolare del modo in
cui il repertorio viene "trattato" e negoziato tra i partecipanti rappresenta
uno degli aspetti pi interessanti da una prospettiva sociologica. Questo
interesse stato sottolineato da Becker e Faulkner nel loro saggio sul
repertorio jazz.

97

"Il processo della formazione del repertorio si focalizza su ci che gli


attori sanno, quello che pensano che gli altri sappiano e quello che
devono sapere per lavorare insieme. Possiamo considerarli come degli
elementi comuni a tutte le attivit, dalla caccia, raccolta ed agricoltura
fino all'artigianato, la manifattura e tutti gli altri contesti di lavoro.
L'interrogativo "conosci?..." e i processi che esso implica sono
strettamente collegati al "cosa facciamo", mentre il successivo "cosa
potremmo fare insieme" si riconduce a "cosa conosciamo e cosa
possiamo fare per eseguire un determinato compito". (Becker: 2005, p.
24; trad. mia)
Indagare il tipo di competenze necessarie per organizzare in tempo
reale una performance sulla base di un repertorio condiviso pu condurci
verso una maggiore comprensione di quel genere di attivit collettive che
implicano una concertazione "in tempo reale" tra pi attori.
"Tutti questi comportamenti e forme di attivit "concertate" sono
basati sulle decisioni prese dagli attori sociali anche in altri contesti pi
"realistici", ed implicano tutti la selezione da un pool di possibili risorse,
la mobilitazione di queste risorse, la scelta delle priorit e la creazione di
una "scaletta" e di un piano d'azione. I processi che stiamo descrivendo
sono dunque utili anche per quei sociologi che non sono "addestrati" n
interessati ai musicisti jazz e alla loro musica" (Becker: ivi)
Uno degli obiettivi che mi pongo presentando queste descrizioni
etnografiche della jam session proprio quello di rivelare i processi di
interazione, concertazione e negoziazione che soggiacciono questo
particolare modello di performance.
Un altro degli elementi che possono sollecitare l'interesse di un
ricercatore sociale rappresentato dai ruoli dei singoli musicisti
all'interno della jam ed in particolare dei componenti della ritmica, intesi

98

come un'equipe di lavoro che applica un set di conoscenze interiorizzate


da ogni singolo membro.
Nel prossimo paragrafo presenter un'analisi delle dinamiche di ruolo
che si possono riscontrare all'interno della sezione ritmica, utilizzando le
esperienze da me personalmente raccolte in circa un decennio di attivit
come bassista jazz.

3.6. La sezione ritmica


3.6.1 Sezione Ritmica e Front Line
Come ho gi accennato, i musicisti che partecipano ad una jam
vengono in genere suddivisi in due gruppi fondamentali: rhythm section
(sezione ritmica) e front line, ovvero l'insieme dei solisti che si uniscono
alla jam.
In realt questo tipo di organizzazione di base una costante del jazz
moderno e non soltanto della jam session.
La suddivisione dei musicisti in due gruppi pi o meno distinti non
riguarda esclusivamente la disposizione degli strumenti nello spazio o la
ripartizione dei ruoli ai fini dell'esecuzione musicale, cos come avviene
nelle orchestre sinfoniche. Sezione ritmica e solisti rappresentano due
gruppi ben distinti, che in parte obbediscono a regole diverse e che si
distinguono tra loro non solo al momento dell'esecuzione ma anche nelle
pause tra un set e l'altro e che spesso condividono due distinti vocabolari
tecnici. Inoltre, la distinzione tra i due gruppi interviene, come abbiamo
gi visto, anche nell'organizzazione economica della jam. Come ho gi

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fatto notare, il gestore di un locale che intende organizzare delle jam


session con lo scopo di attirare la clientela, si deve preoccupare
essenzialmente di reclutare una ritmica, di approntare uno spazio
all'interno del locale dove alloggiarla e di assicurarne la presenza nel
corso dell'intera jam.
Dal punto di vista della ritmica, la jam a fini commerciali viene
considerata un ingaggio a tutti gli effetti. Se non fosse che il repertorio
sar sostanzialmente deciso all'istante tramite una rapida consultazione
tra ritmica e solisti ospiti, piuttosto che meticolosamente preparato e
"provato" come si ritiene debba avvenire per i concerti "veri". In realt,
questo trattamento "istantaneo" del repertorio, attingendo al variabile
elenco degli standard, viene spesso applicato anche durante i concerti.
Ci avviene soprattutto quando un solista viene invitato a suonare in un
locale o in un festival, avvalendosi per l'occasione di una ritmica
composta da musicisti locali (si parla in questi casi di pick up band).
Questa prassi particolarmente frequente nel caso di musicisti stranieri o
di vecchie glorie del jazz americano che si trovano di passaggio in citt,
magari perch impegnati in tourne con la propria band. I gestori dei
locali spesso approfittano dell'occasione per ingaggiare il solista per una
serata. Trovandosi a suonare per la prima volta con musicisti sconosciuti,
il solista non potr fare altro che ricorrere a un repertorio di standard da
arrangiare velocemente prima del set. Queste situazioni estemporanee si
possono collocare a met strada tra un concerto e una jam e testimoniano
ancora una volta come tale confine sia molto meno definito di quanto si
sarebbe portati a pensare. Negli anni '70 e '80 questo tipo di situazione
era piuttosto frequente in grandi citt come Roma o Milano. Molti di
quei musicisti italiani che oggi sono conosciuti anche al di fuori dei
confini nazionali, hanno approfittato di queste occasioni per venire a

100

contatto direttamente con alcune leggende del jazz che frequentavano il


nostro Paese in quegli anni. Per molti di loro si trattato di un vero corso
accelerato di jazz impartito direttamente sul campo, in un'epoca in cui
non esistevano ancora istituzioni stabili di formazione musicale in jazz.
Nel jazz la sezione ritmica costituita tradizionalmente dal trio
contrabbasso-piano-batteria. Il ruolo del piano pu essere all'occasione
ricoperto anche da un chitarrista. Nell'epoca d'oro delle Big Band (dagli
anni '20 agli anni '40 del XX secolo), la chitarra era un membro stabile
delle sezioni ritmiche e in genere si occupava di "rinforzare" il sostegno
ritmico fornito da basso e batteria con uno stile di accompagnamento
preciso e al contempo discreto. Questa funzione di supporto ritmico si
andata perdendo nel corso degli anni: oggi la chitarra considerata per lo
pi uno strumento solistico. La ritmica oggi in genere composta da tre
soli membri e il ruolo di "strumento armonico" (ovvero il compito di
definire il tipo di accordi* su cui si sta suonando) viene affidato al piano
o alla chitarra. Quando in una jam si ritrovano entrambi gli strumenti,
essi

si

alterneranno

non

soltanto

negli

assolo

ma

anche

nell'accompagnamento degli altri solisti.


I solisti in genere apprezzano maggiormente le jam in cui possibile
trovare una buona ritmica composta da un pianoforte acustico
(ovviamente gi presente nel locale), da un contrabbasso e da una
batteria. Meno invitanti sono le situazioni in cui il pianista deve ricorrere
ad una tastiera elettronica o quelli in cui il bassista utilizza un basso
elettrico in sostituzione del pi ingombrante strumento acustico.
Potrebbe sembrare una scelta dettata soltanto da motivi estetici, come se
l'impatto scenografico di un trio acustico fosse ritenuto pi jazz rispetto
ad altri. In realt, i solisti pi esperti sanno bene che gli strumenti
acustici offrono un impasto sonoro pi congeniale all'esecuzione di un

101

repertorio di jazz classico. Innanzitutto, suonare in acustico (ovvero


senza ricorrere ad apparecchiature di amplificazione) consente di
mantenere i livelli di volume molto pi bassi e i suoni pi "morbidi",
evitando quella congestione sonora che spesso si crea nelle situazioni in
cui sono presenti molti strumenti amplificati (soprattutto chitarre).
Trattandosi spesso di piccoli locali, il rischio di questa congestione
sonora molto alto ed spesso cos evidente da costituire un vero
deterrente per i solisti che vogliono partecipare alla jam. Inoltre, la
formazione della ritmica influisce indirettamente anche sulla scelta del
repertorio. Inoltre, l'uso di strumenti elettrici come basso o chitarra
implica il "rischio" che la jam scivoli verso un repertorio pi rock o
funky o comunque in generi diversi dal jazz classico. Il trio acustico
rappresenta in buona sostanza una certa garanzia di "classicit" della
jam. Si tratta di una situazione piuttosto stereotipata, in effetti. Ho avuto
modo nel corso degli anni di partecipare a jam session assai poco
"ortodosse", nelle quali si suonava un repertorio che poco aveva a che
vedere con i classici standard anni '40 o '50. Con questo voglio
sottolineare che non sono la strumentazione acustica, n tantomeno la
scelta di un repertorio ben definito, a caratterizzare una jam session,
quanto l'estemporaneit della situazione e la capacit da parte dei
musicisti di creare degli arrangiamenti istantanei.
A prescindere se si tratta di strumenti acustici o elettrici, la
composizione della ritmica rimane sostanzialmente invariata.
Di contro, la front line estremamente variabile e ci dipende da molti
fattori. Nella situazione tipo che stiamo analizzando, quella della jam a
fini commerciali, i solisti non sono vincolati da un cachet e quindi si
presentano alla jam di propria spontanea iniziativa, spinti dalla voglia di
esibirsi o di incontrarsi con i propri colleghi e amici. Ritorna in questo

102

senso il carattere comunitario e rituale della jam come "cerimonia laica"


del clan dei jazzisti. In citt che vantano una buona "scena" jazz,
possibile trovare numerosi locali che organizzano delle jam settimanali,
a volte addirittura con delle sovrapposizioni nella stessa serata. Sta al
solista scegliere tra i diversi appuntamenti e in genere tale scelta viene
effettuata in base ad una sorta di "classifica" tra le varie jam, stilata in
base al livello medio dei musicisti che vi partecipano o all'ospitalit del
gestore (in genere si preferiscono i locali pi musician-friendly, ovvero
quelli in cui si pu suonare liberamente fino a tardi e in cui i musicisti
sono rispettati e accolti come ospiti graditi). Il criterio principale per
definire la qualit di una jam comunque dato dalla professionalit della
ritmica. Una jam sostenuta da una ritmica di professionisti validi e
stimati attirer i solisti migliori e di livello pi alto ed inoltre avr molte
pi possibilit di confermarsi come appuntamento fisso per la comunit
dei jazzisti.
La disposizione degli strumenti nel locale spesso dettata pi da
necessit pratiche che da reali esigenze acustiche. In genere, la
disposizione pi congeniale, non a caso utilizzata anche in teatro o sui
palchi dei festival all'aperto, vede il contrabbasso collocato al centro del
palco, tra il pianoforte e la batteria, in posizione leggermente arretrata
rispetto agli altri due. Questa disposizione tradizionale consente ai tre
membri della ritmica di potersi vedere a vicenda senza difficolt. Si
tratta di una questione di estrema importanza, poich come vedremo il
lavoro di interazione tra i tre strumenti continuo e serrato e soprattutto
basato su una serie di richiami e segnali sia sonori che gestuali. In
situazioni pi raccolte come quelle di un club, tale disposizione pu
variare. In ogni caso, i membri della ritmica cercheranno sempre di
trovare un angolo adatto per potersi vedere a vicenda e per poter

103

comunicare agevolmente sia durante l'esecuzione sia nello spazio tra un


brano e l'altro, utilizzato per chiedere dei consigli, per dare indicazioni o
semplicemente per scambiare una battuta o un commento sulla riuscita
del pezzo.
I solisti si collocheranno a proprio piacimento di fronte alla ritmica
(da cui il termine front line), senza particolari regole di collocazione.
Il jazz viene spesso descritto come un genere caratterizzato da uno
spiccato individualismo. La logica dell'assolo improvvisato e la ricerca
costante di un "suono" unico e personale, uniti alla constatazione che gli
artisti pi famosi sono quasi sempre dei grandi solisti (Miles Davis, John
Coltrane, Charlie Parker e cos via) hanno confermato questa
convinzione.
Le cose non stanno cos, e qualsiasi musicista di jazz potr
confermarlo: il fulcro del jazz la sezione ritmica. I suoi membri "sono
come i genitori in una famiglia: lavorano mentre i figli [i solisti] si
divertono. Ma se la sezione ritmica non funziona, non si diverte proprio
nessuno" (Marsalis: 2009, p. 39).
Alcune sezioni ritmiche sono divenute altrettanto famose delle
orchestre o dei solisti che hanno accompagnato. Basterebbe citare la
celebre All American Rhythm Section, in forze all'orchestra di Count
Basie negli anni '30. Una sorta di "nazionale americana" delle sezioni
ritmiche composta, oltre che dallo stesso Basie al piano, da Papa Jo
Jones alla batteria, Walter Page al contrabbasso e Freddie Green alla
chitarra ritmica. Questa ritmica da campioni, un'autentica macchina da
swing che ha fatto ballare un paio di generazioni di americani e
sostenuto centinaia di solisti, considerata ancora oggi un esempio di
impeccabile precisione, controllo del suono e prontezza di riflessi col
quale continuano a confrontarsi tutti gli studenti di jazz.

104

Alcuni grandi solisti sono stati innanzitutto dei geniali "costruttori" di


sezioni ritmiche. Un esempio su tutti quello di Miles Davis,
considerato il pi grande talent scout della storia del jazz. La carriera di
questo straordinario artista viene in genere suddivisa in periodi
caratterizzati dalla presenza di una particolare sezione ritmica. Tra la
met degli anni '50 e i primi anni '60, Miles mise insieme due sezioni
ritmiche composte all'epoca da musicisti giovanissimi e poco pi che
sconosciuti i quali, grazie alla collaborazione con il grande solista di St.
Louis, sono in seguito divenuti gli specialisti pi celebri e apprezzati nei
loro rispettivi ruoli. Potrei citare due formazioni in particolare: la ritmica
degli anni '50, composta da Red Garland al piano, Paul Chambers al
contrabbasso e Philly Jo Jones alla batteria e quella degli anni '60, nella
quale militavano i giovanissimi Herbie Hancock al piano, Tony Williams
alla batteria e Ron Carter al contrabbasso. Per rendere l'idea
dell'importanza rivestita nella storia del jazz da queste sezioni ritmiche,
basterebbe far notare che esse hanno determinato uno standard
inarrivabile di coesione e di interazione costante tra tutti i membri della
formazione, al punto da essere considerate le ritmiche per eccellenza del
jazz moderno, cos come la All American lo era stato per il jazz
"classico".

3.6.2 Ruoli e convenzioni.


Il compito fondamentale della sezione ritmica quello di fornire la
cornice in cui i solisti possano inserire i propri interventi individuali. La
ritmica realizza una sorta di "ambiente" sonoro o di spazio musicale in
cui il solista trova il sostegno (diremmo le "risorse primarie") e gli

105

stimoli per realizzare le proprie idee in tempo reale. Si tratta di un


processo fortemente interattivo: il fatto che all'interno della ritmica
esistano dei ruoli ben definiti e dei comportamenti musicali pi o meno
standardizzati non implica che l'accompagnamento che questi musicisti
forniranno al solista sia statico. Tutt'al pi potremmo dire che esistono
dei modelli convenzionali di creazione dell'accompagnamento, ma tali
modelli devono essere costantemente ri-discussi in relazione ai
"suggerimenti" del solista.
Nell'assolvere questo compito, i membri della ritmica apportano i
propri contributi individuali sulla base di una precisa distinzione dei
ruoli. " importante ricordare che in un contesto caratterizzato
dall'improvvisazione, ci sono sempre delle personalit musicali che
interagiscono e non semplicemente degli strumenti o delle timbriche e
dei ritmi. Non raro che i musicisti esprimano questo processo musicale
di interazione in termini di relazioni interpersonali piuttosto che
musicali, e ci ha senso in modo particolare in una forma musicale in cui
la performance e la creazione delle idee musicali non sono separati"
(Monson: 1996, p. 26; trad. mia)
Questo parallelo strumento-ruolo formalizzato ma al contempo non
esclusivo, considerando che i singoli membri della sezione ritmica, pur
assolvendo un compito ben preciso, possono in determinate occasioni
"uscire" momentaneamente dal proprio ruolo. Ci avviene ad esempio
quando il basso si ricava un proprio spazio solista, al pari di uno
strumento a fiato, oppure quando ad esso viene delegata l'esposizione del
tema fondamentale.
Queste "uscite temporanee" dal ruolo tradizionale, sebbene siano
diventate prassi comune nel jazz contemporaneo, hanno spesso l'effetto
di rimarcare ancora di pi la "particolarit" dello strumento.

106

I ruoli della sezione ritmica sono idealizzati e formalizzati al punto


che i musicisti che appartengono a tale categoria spesso si ritrovano
"cucito" addosso tale ruolo anche al di fuori del contesto musicale. "Il
ruolo strumentale di un musicista ritenuto avere degli effetti di lungo
termine anche sulla sua personalit. Lo strumento suonato pu essere
citato come giustificazione per le attitudini personali del musicista, i suoi
modi di pensare e le sue percezioni musicali: un batterista, ecco perch
la pensa cos" (ivi, p. 27)
Il termine tecnico per indicare il "lavoro" della ritmica comping, che
potremmo tradurre con "accompagnamento", sebbene la variante
anglosassone sia pi sottile e chiarificatrice. Nel termine infatti inclusa
la duplice connotazione dell'accompagnamento (accompanying) e della
creazione di un complemento (complementing) a ci che sta facendo il
solista.
Non esistono dei modelli formalizzati da seguire per assolvere a
questo compito. L'accompagnamento il risultato, ancora una volta,
dell'azione congiunta di pi fattori: la consapevolezza del ruolo di ogni
singolo strumento, il ricorso a convenzioni e tecniche tradizionali,
l'interazione costante tra i membri della ritmica e tra quest'ultima vista
come un soggetto collettivo e i solisti.
"Per imparare ad accompagnare con precisione e ad improvvisare con
distinzione e personalit, i giovani bassisti, batteristi e pianisti devono
saper padroneggiare le forme convenzionali associate ai loro strumenti
attraverso un lungo processo fatto di studio disciplinato, sfide e scoperte.
(Berliner: 1994, p. 315, trad. mia)
Chiariti questi elementi preliminari, passer ora ad analizzare pi in
dettaglio il ruolo dei singoli membri della sezione ritmica, cercando di
sottolineare in particolare le modalit con cui i rispettivi ruoli-strumento

107

intervengono nelle dinamiche della jam e nei rapporti interpersonali tra i


membri di un gruppo.

3.6.3 Il bassista
Inizio questa rassegna sui membri della ritmica partendo dal bassista.
Si tratta di una scelta dettata da ragioni personali: come ho gi detto,
negli ultimi anni ho svolto l'attivit di bassista jazz, con crescente
impegno e dedizione. Le informazioni raccolte sui modelli di interazione
all'interno di un gruppo, e in particolare di una sezione ritmica, sono il
frutto di queste esperienze.
L'altro elemento che mi ha spinto a trattare innanzitutto il ruolo del
bassista legato alla centralit di questo strumento nel contesto della
ritmica. opinione diffusa tra i musicisti jazz che il basso rappresenti il
perno su cui ruota una performance basata sull'improvvisazione
collettiva.
Nel corso dei miei studi musicali mi sono sentito ripetere la stessa
affermazione innumerevoli volte, in particolare dai musicisti americani
con cui ho avuto modo di studiare e suonare: bass is the foundation. Il
basso getta le fondamenta su cui tutta la musica viene costruita. Questo
genere di affermazioni dimostrano che tra tutti i membri della sezione
ritmica, il bassista quello con il ruolo pi definito ed esplicito: egli
costruisce le basi ritmiche e armoniche su cui poggia tutto il resto,
partendo dall'accompagnamento ritmico della batteria e armonico del
piano, fino ad arrivare alle invenzioni del solista.
Questa centralit rappresentata anche fisicamente dalla posizione del
basso in un set tipico, tra la batteria e il piano. Il bassista si colloca tra gli

108

altri due membri non solo fisicamente ma anche musicalmente: in breve


potremmo dire che il piano e la batteria non fanno altro che arricchire
armonicamente e ritmicamente quello che il basso ha gi delineato nelle
sue componenti essenziali. Chiaramente questa affermazione potrebbe
essere smentita con forza da un pianista o un batterista, poich prassi
comune che ognuno dei membri della ritmica tenda a "tirare acqua al suo
mulino", ovvero a sostenere la centralit del proprio strumento rispetto
agli altri.
In realt, i musicisti pi esperti con i quali ho avuto modo di interagire
non mancavano di sottolineare questo aspetto: il ruolo del bassista
l'unico realmente insostituibile e il suo continuo sostegno alla musica
deve essere caratterizzato da attributi quali la solidit, la chiarezza e la
precisione.
Nel corso della mia esperienza personale come musicista mi sono
dovuto confrontare molto spesso con questo genere di aspettative e con il
senso di responsabilit nei confronti del gruppo che esse comportavano.
C' una battuta piuttosto ricorrente nei confronti del bassista: "Se
qualcosa va storto, colpa del basso. Se qualcosa va bene, non certo
merito suo!"
Al di l delle innocue schermaglie tra membri della ritmica, ho notato
che i solisti pi esperti in genere hanno delle idee molto precise sul
modo in cui il bassista dovrebbe "comportarsi".
Un sassofonista francese una volta interruppe una sessione di prove e
si rivolse a me dicendomi che mi avrebbe pagato lo stesso cachet anche
se avessi suonato il 50% in meno di note. Con questo intendeva che avrei
dovuto suonare con meno fronzoli, limitandomi al semplice sostegno
ritmico e armonico del brano. Tra tutti i membri della ritmica, il bassista

109

senza dubbio quello a cui vengono concessi meno slanci di


individualismo e creativit.
Questa precisione del ruolo ha i suoi risvolti sia in termini musicali
che per quanto riguarda i rapporti con gli altri musicisti e gli stessi
atteggiamenti personali che si ritiene debbano essere assunti dal bassista.
A questo punto vorrei delineare brevemente l'evoluzione di questo
ruolo nel jazz.
Nel jazz delle origini, il ruolo del basso, pur mantenendo la sua
centralit e indispensabilit, era "stretto" nelle limitazioni fisiche dello
strumento. Il contrabbasso senz'altro lo strumento con la minore
potenza sonora rispetto agli altri. Questo aspetto era ancor pi accentuato
nei primi anni del XX secolo, quando i contrabbassisti montavano sul
proprio strumento delle pesanti corde di budello e soprattutto non
potevano ricorre ad alcun sistema di amplificazione. Ancora pi
problematica era la ripresa del suono di questo strumento con i primitivi
mezzi della registrazione acustica. Nelle prime incisioni di jazz il
contrabbasso era infatti assente: la registrazione semplicemente non era
in grado di "catturare" le frequenze gravi dello strumento. per questo
che molti contrabbassisti dell'epoca, come il leggendario Pops Foster di
New Orleans, si trovavano costretti ad imparare a suonare anche il basso
tuba, lo strumento pi grave della famiglia degli ottoni, tipico delle
bande musicali anche nel nostro Paese. Il basso tuba, o semplicemente
tuba, era molto pi semplice da registrare. Ad ogni modo, questi pionieri
rimanevano comunque dei bassisti: il loro ruolo rimaneva sempre lo
stesso, a prescindere dallo strumento che utilizzavano per assolverlo. In
pratica si trattava di suonare le stesse linee che dal vivo si suonavano sul
contrabbasso, trasportate per basso tuba. anche per questo motivo che
il termine generico di "bassista" viene ancora oggi utilizzato a

110

prescindere dallo strumento utilizzato (contrabbasso, basso elettrico,


tuba), riferendosi al ruolo assunto piuttosto che allo strumento suonato.
Il compito del bassista quello di definire in maniera univoca la
scansione ritmica del brano e le fondamenta armoniche su cui
costruito.
Come ho gi accennato, un tipico standard basato su una griglia
armonica costituita da una serie di accordi che si ripetono entro un
determinato numero di battute. Il bassista costruisce una linea che
collega questi accordi tra di loro, indicando in maniera univoca in quale
punto del brano ci si trova e al contempo scandendo la pulsazione
ritmica in maniera costante e regolare.
per questo che si considera il basso lo strumento di riferimento per
tutti. "Se ti sei perso, ascolta il basso", ripetono spesso i jazzisti. Con la
sua pulsazione continua e la chiarezza dei passaggi armonici che delinea,
il bassista rappresenta la "rete di sicurezza" per ogni solista.
Lo stile pi comune di accompagnamento il cosiddetto walking bass,
ovvero una linea di basso che marca tutti i movimenti di una battuta (in
genere su un tempo di 4/4). Il movimento ondeggiante del walking bass
associato al ritmo scandito dal batterista sul piatto (ride) rappresentano il
simbolo (sonoro) pi caratteristico del jazz. l'esplicita manifestazione
di quel termine pressoch impossibile da spiegare che swing. Lo swing
non un elemento musicale, non si pu trascrivere su carta n spiegare
in termini tecnici. piuttosto un modo di concepire la musica (ma anche
e soprattutto la vita, direbbe un jazzista) caratterizzato da una spinta
continua ad "andare avanti nonostante tutto" (da cui l'uso di verbi di
moto come walking e ride), con un atteggiamento positivo e rilassato.
Il movimento dei bassi su una linea costante che sottolinea e struttura
l'armonia presente in molta musica occidentale, e in particolare nel

111

repertorio barocco. La pratica del basso continuo prevedeva l'esecuzione


di una linea di basso su cui uno strumento armonico (in genere il
clavicembalo) improvvisava degli accordi sulla base di indicazioni
numeriche. Queste prassi costituiscono le radici su cui poggia la
moderna tradizione del walking bass.
Le componenti essenziali di una linea di basso sono la chiarezza e la
solidit, attributi che i musicisti tendono a "traslare" dalla funzione
propriamente musicale del basso alle qualit personali che si ritiene un
bassista debba avere. Anche in questo caso ritorna la connessione stretta
che nel jazz si crea tra strumento suonato, ruolo assunto all'interno del
gruppo e qualit personali del musicista. Pi volte nel corso degli ultimi
anni mi sono sentito ripetere la stessa esortazione: "sei un bassista,
comportati da bassista". Tradotto in termini correnti, ci pu essere
interpretato come: "sii chiaro in quello che fai, pensa solo alle cose
fondamentali e non perderti in inutili complicazioni. Solo cos diventerai
una persona solida e affidabile su cui tutti gli altri possono contare". In
una parola, un bassista.
In un suo celebre metodo per contrabbasso jazz, Rufus Reid delinea in
maniera chiara tale concezione: "Come bassisti dovremmo essere capaci
di suonare completamente da soli e trasmettere l'essenza di un brano
semplicemente con la costruzione della nostra linea di basso. Non
abbiamo bisogno di un pianista per chiarire il tipo di accordi, non
abbiamo bisogno di un batterista per chiarire il ritmo. Dovreste essere
capaci di "fare swing" e irradiare energia tutt'intorno. [...] Non fate
affidamento su nessun altro oltre a voi stessi" (Reid: 1983, p. 65; trad.
mia)
Con lo sviluppo tecnico dello strumento, l'avvento di corde di metallo
pi duttili e sonore e soprattutto dell'amplificazione e della registrazione

112

elettriche, il ruolo del contrabbasso si evoluto enormemente. Gi a


partire dagli anni '40, alcuni pionieri come Jimmy Blanton e Oscar
Pettiford iniziarono ad inserire interventi solistici nelle proprie
performance, una pratica fino ad allora semplicemente impossibile da
realizzare.
Lo sviluppo delle capacit e possibilit tecniche ha svincolato i
bassisti dal semplice ruolo di accompagnatori. I bassisti contemporanei
sono ancora ben consci delle responsabilit che il loro ruolo comporta,
ma al contempo hanno a disposizione un ventaglio ampissimo di
possibilit per assolvere a tale compito e soprattutto, possono esprimersi
anche come solisti.
I bassisti

contemporanei

suonano

dei

contrappunti

elaborati

interpretando "al volo" le direzioni presa dal solista e relazionandosi in


maniera pi dinamica e creativa con il pianista e il batterista.
Nella storia del jazz ci sono stati bassisti che hanno fatto compiere al
ruolo di questo strumento dei giganteschi balzi in avanti. Penso, tra gli
altri, a musicisti come Scott LaFaro, bassista nel trio del pianista Bill
Evans. Con LaFaro il basso smette di rappresentare la semplice ancora di
sicurezza su cui poggia tutto il resto, per diventare un partner diretto del
solista, schierato in prima fila insieme agli altri strumenti piuttosto che
relegato nelle "retrovie"
L'evoluzione del ruolo arrivata a tal punto che in alcuni casi il
bassista pu trascurare il suo compito primario di accompagnatore per
ritagliarsi spazi pi ampi. Sembra come se alcuni bassisti volessero
"prendersi una rivincita" dopo decenni di sottomissione alle esigenze del
gruppo, dopo lunghi anni di carriera trascorsi a "lavorare" duro perch
gli altri potessero divertirsi a suonare o a ballare. Molti bassisti
contemporanei sono dotati di capacit tecniche che fino a qualche

113

decennio fa erano impensabili. Uno dei miei docenti di contrabbasso una


volta mi disse che spesso conviene imporsi delle "autolimitazioni" e
tornare a fare il buon vecchio mestiere di pilastro della musica. Si tratta a
mio parere di un'evidente dimostrazione del senso di responsabilit che il
ruolo di bassista implica, al servizio della musica e della coesione tra i
vari membri del gruppo. Il vero bassista, secondo molti jazzisti, quello
che ama il suo mestiere, nonostante le limitazioni, e lo assolve con
dedizione e precisione.
Come per gli altri strumenti, anche i bassisti apprendono le
convenzioni legate la loro ruolo attraverso un lungo processo di
"addestramento" e assimilazione che include la trascrizione o
memorizzazione delle linee di basso registrate nei dischi e l'imitazione
"dal vivo" di bassisti pi esperti.
La performance dal vivo rappresenta poi l'occasione per mettere alla
prova le competenze assimilate, confrontandosi con gli stimoli e i
suggerimenti che provengono dagli altri musicisti.
La jam session in particolare il luogo in cui i bassisti, cos come gli
altri membri della ritmica, si "fanno le ossa". Per partecipare ad una jam,
un bassista deve avere un repertorio di standard che ha portato a
memoria e che in grado di eseguire all'istante quando vengono
"chiamati" dagli altri musicisti. C' una differenza fondamentale tra una
jam e un situazione pi formale come pu essere una seduta di
registrazione o una prova d'orchestra. Quando si tratta di eseguire dei
brani originali o degli arrangiamenti scritti appositamente per un grande
organico, generalmente il bassista si ritrova sul leggo una partitura ben
precisa. In pratica il bassista dovr semplicemente leggere le note e
curarsi di eseguirle in maniera corretta. Si tratta in genere di linee di
basso e ostinato piuttosto essenziali e semplici che il compositore o

114

l'arrangiatore pretender siano eseguite "alla lettera", senza variazioni


personali. Gli spazi lasciati all'inventiva del bassista sono realmente
molto ristretti.
Quando si esegue una standard nel corso di una jam, il bassista
continua a svolgere il suo ruolo di sostegno ritmico armonico, ma in
questo caso non esiste una partitura rigida e tutto dipende dall'inventiva
del musicista e dalla sua capacit di applicare le forme convenzionali di
accompagnamento pi adeguate per quel brano specifico.
Ammetto che spiegare ai "non addetti" il funzionamento di questo tipo
di approccio ai brani un'impresa piuttosto difficile, specie quando non
si pu ricorrere ad esempi musicali.
Nella pratica, si tratta di un procedimento piuttosto semplice che in
genere gli studenti di jazz apprendono senza troppa fatica.
Quando "studia" uno standard e lo memorizza, il bassista (come del
resto qualsiasi altro musicista dovrebbe fare) deve interiorizzare la
successione degli accordi e conoscere il sistema per collegarli
armonicamente uno con l'altro, in maniera fluida e coerente.
Essendo il principale strumento di riferimento armonico, il bassista
in assoluto il componente della ritmica che pi di altri deve conoscere
l'armonia dei brani e il suo "funzionamento", ovvero le relazioni che
intercorrono tra i vari accordi della "griglia".
In pratica, ogni bassista "compone" all'istante la propria partitura,
affidandosi alle proprie conoscenze armoniche (le note che compongono
ogni accordo) e alle convenzioni stilistiche e ritmiche che ha appreso nel
corso della sua esperienza.
La scelta del modo in cui dovr essere accompagnato un brano
dipende infatti dalla natura del brano: ad esempio se si tratta di suonare

115

un brano lento, una ballad, il bassista sapr gi in partenza che dovr


marcare solo il primo e secondo movimento di ogni battuta.
Pi di una volta, dopo una jam o un concerto, qualcuno venuto a
complimentarsi con me perch riteneva straordinario che io "conoscessi
a memoria" tutte quelle linee di basso cos complesse e lunghe. Il
tentativo di spiegare a queste persone il tipo di "lavoro" che eseguivo in
qualit di bassista in genere occupava il resto della serata.
Col passare del tempo e accumulando esperienze e suggerimenti (pi
spesso critiche) da parte degli altri musicisti, un bassista applicher
questo processo di "composizione continua" e di applicazione di clich
in maniera del tutto automatica e spontanea.
"In un ciclo continuo di generazione, applicazione e rinnovamento, i
bassisti creano nuove forme usando dei modelli elaborati sulla base di un
vocabolario individuale, in una concezione che si rinnova durante ogni
singola performance" (Berliner: 1994, p. 324; trad. mia).
A questo punto vorrei inserire un'altra annotazione di carattere
biografico. Non avendo compiuto degli studi musicali di tipo
accademico, ho imparato a suonare il basso jazz direttamente dai dischi,
come intere generazioni di musicisti hanno fatto prima di me. In
sostanza, ho imparato a creare una linea di basso (un walking, per usare
un termine tecnico) ben prima di essere in grado di leggere una partitura
orchestrale. Quando mi ritrovai ad occupare il posto di bassista nella big
band della scuola di musica in cui studiavo, trovai estremamente
frustrante dover leggere a prima vista le linee di basso composte dal
direttore d'orchestra. A volte le trovavo troppo semplici, noiose e
ripetitive. Altre volte erano troppo complesse per me e semplicemente
non ero in grado di leggerle a prima vista. Tuttavia avevo gi
interiorizzato i sistemi principali di accompagnamento e conoscevo gli

116

accordi, perci non mi riusciva difficile improvvisare all'istante la mia


parte, convinto che comunque avrebbe "funzionato". Dopo un paio di
prove, il direttore mi chiese di rimanere in classe e dopo che gli altri
musicisti se ne furono andati, mi fece dapprima i complimenti per le
belle linee di basso che avevo improvvisato, dopodich mi annunci che
se la volta successiva non avessi letto le parti esattamente com'erano
scritte mi avrebbe immediatamente licenziato.
Fu la prima volta in cui mi resi conto realmente del tipo di ruolo che
rivestivo nel gruppo e delle responsabilit che esso comportava.
In conclusione, quello del bassista il ruolo in cui maggiormente si
rispecchiano quelle complesse dinamiche di apprendimento delle
convenzioni, applicazione nel contesto della performance e interazione
con gli altri membri che costituiscono il fondamento del mestiere
dell'improvvisazione.
Per i successivi ruoli del batterista e del pianista, attinger ad
esperienze dirette, ovvero alle impressioni ricavate lavorando gomito a
gomito con queste categorie di musicisti nell'ambio della sezione ritmica.

3.6.4 Il batterista
Concordo pienamente con le affermazioni di Ingrid Monson, la quale
ritiene il ruolo del batterista come il pi sottovalutato all'interno del
gruppo.
"Molti ritengono erroneamente che il batterista suoni semplicemente il
ritmo e pertanto non partecipa nel flusso melodico e armonico della
musica. Da una prospettiva interattiva, tuttavia, la batteria rappresenta un

117

microcosmo di tutti i processi di interazione che abbiamo discusso,


compresa la sensibilit armonica e melodica." (Monson: 1996, p. 51)
La

batteria

consiste

di

un

set

di

percussioni

azionate

contemporaneamente da un unico musicista. Nel jazz slang si usa


generalmente il termine drum set o semplicemente drums per indicarla.
Un altro termine pi "arcaico" ma ancora oggi usato trap set o traps,
termine derivato da contraptions (insieme di "aggeggi" o "attrezzi" dei
quali a prima vista non si riesce a capire la funzione).
La batteria contemporanea sostanzialmente l'evoluzione del set di
piatti, tamburi e percussioni varie usate nelle marching bands americane
ed europee gi dal XIX secolo. L'introduzione del pedale per suonare la
grancassa e di altri automatismi come lo hi hat

(in italia detto

charleston: in pratica due piatti sovrapposti azionati da un unico pedale)


ha consentito ad un unico strumentista di attivare un intero set di
percussioni. L'introduzione della batteria direttamente correlata con la
nascita del jazz. La novit pi eclatante per i primi europei che
incontrarono questo nuovo genere di musica da ballo sincopata risiedeva
proprio nella presenza ingombrante di questo "arsenale" di percussioni.
Come mi fece notare una volta un grande jazzista italiano, Gianluigi
Trovesi, negli anni '40 a volte si usava il termine jazz proprio per
indicare la batteria, nuovo oggetto non ancora identificato "atterrato"
dagli USA nella musica da ballo italiana.
Un tipico drum set jazz comprende: una grancassa (bass drum), un hi
hat, un tamburo rullante (snare, identico a quelli suonati nelle bande
militari), un piatto largo (ride cymbal) ed eventualmente due o pi
tamburi (toms). A ci si aggiunga che il batterista pu utilizzare un largo
campionario di attrezzi per percuotere la batteria che vanno dalle
classiche

bacchette

di

legno

alle

"spazzole"

(ma

pu

usare

118

occasionalmente

anche

le

mani

"nude")

Ogni

batterista

pu

personalizzare il proprio set nei modi pi vari, arricchendolo di un


numero indefinito di pezzi.
L'elemento cruciale risiede nel fatto che il batterista aziona il proprio
set con i quattro arti contemporaneamente, il che presuppone un livello
di coordinazione estremamente raffinato.
Cos come abbiamo visto per il contrabbasso, anche la batteria ha
conosciuto un periodo di evoluzione sia nelle sue componenti tecniche
che nel ruolo musicale giocato nel contesto del gruppo.
Nelle prime formazioni di jazz, a New Orleans e Chicago, i batteristi
marcavano il tempo in maniera regolare utilizzando spesso dei pattern
ripetitivi e precisi. Nelle big bands, i batteristi suonavano la cassa
all'unisono con la parte del contrabbasso, contribuendo a rafforzare
l'azione di quest'ultimo e a definire in maniera univoca il ritmo del
brano. Vorrei ricordare che a questo stadio della sua evoluzione il jazz
principalmente musica da ballo e le figurazioni del basso e della batteria
"servono" ai ballerini per impostare il loro ritmo e stimolare le loro
evoluzioni.
Con l'avvento del be bop (v. supra), il batterista si svincola dal suo
ruolo di "metronomo" per incominciare a sottolineare in modo pi
interattivo il "discorso" musicale del solista, accentuando i passaggi
armonici della struttura del brano. La cassa non pi utilizzata per
raddoppiare la parte del contrabbasso, poich quest'ultimo, suonando in
un organico pi ristretto e potendo talvolta avvalersi di mezzi di
amplificazione, ha guadagnato forza e indipendenza. Molti batteristi
parlano dell'uso della cassa in termini di punteggiatura. In pratica,
mentre mantiene un ritmo pi o meno costante utilizzando l'hi hat e il

119

ride, il batterista mette delle "virgole" e dei "punti" nella conversazione


musicale tra gli altri membri del gruppo usando la cassa.
Le figurazioni ritmiche della batteria sono divenute via via pi
complesse ed elaborate. Nel jazz moderno i batteristi non solo "tengono
il tempo", ma sottolineano ed enfatizzano gli interventi dei solisti (ad
esempio ripetendo sui tamburi la figura ritmica di una frase appena
improvvisata dal solista) e inoltre marcano tutti i passaggi tra le varie
sezioni di un brano, evidenziando la struttura armonica della
composizione. Ad ogni modo, la funzione di esplicitazione del ritmo non
viene quasi mai intaccata e viene in genere delegata ad uno degli
elementi della batteria che continua a segnare un ritmo ben preciso,
mentre con gli altri elementi il batterista arricchisce e sviluppa la
pulsazione fondamentale.
Cos come succede per gli altri membri della ritmica, anche il
batterista (laddove non esiste una partitura orchestrale ben precisa)
improvvisa costantemente il proprio accompagnamento affidandosi ad
un campionario di tecniche, stili e convenzioni.
I batteristi apprendono tale set di convenzioni trascrivendo o imitando
i grandi batteristi del passato e praticando dal vivo con gli altri musicisti.
Particolare enfasi viene riposta nella memorizzazione di pattern e lick
(v. supra) tradizionali. Essendo svincolato da preoccupazioni di tipo
armonico, il batterista concentra la propria attenzione proprio
nell'arricchimento di tale campionario. I pattern di grandi batteristi come
Max Roach e Philly Jo Jones sono componenti essenziali di un batterista
che si vuole cimentare nell'accompagnamento di uno standard.
L'interazione con gli altri membri della ritmica garantisce poi la
creazione della cornice adeguata per lo sviluppo delle improvvisazioni
dei solisti. Le scelte operate da ognuno dei membri costituiscono dei

120

segnali collettivi che ognuno dovrebbe recepire ed integrare nel proprio


ruolo. "Un particolare ritmo suonato dal batterista segnala al bassista che
certe linee di basso sono adeguate o meno. Allo stesso modo, un groove
particolare indicher al pianista il tipo di accompagnamento da eseguire.
Queste relazioni funzionano anche in senso inverso. [...] I musicisti
pongono particolare attenzione a questo tipo di dettagli musicali"
(Monson: 1996, p.52; trad. mia).
Alcuni batteristi, interrogati da me sul tipo di interazione che si
aspettano di ricevere da basso e piano, mi hanno spesso parlato di una
sorta di "intreccio" di mani. La mano destra con cui un contrabbassista
pizzica le corde "collegata" alla destra del batterista, che percuote il
piatto (ride cymbal): entrambe assolvono alla funzione di definire il
ritmo del brano, o groove (ad esempio, nel caso del walking, le figure
ritmiche saranno pressocch identiche e basate su sequenze di note da un
quarto). Di converso, la mano sinistra del batterista (che in genere agisce
sul rullante o snare) dovrebbe "intrecciarsi" con la mano sinistra del
pianista, che sigla gli accordi del brano: entrambe le "mani sinistre"
operano una continua punteggiatura del ritmo e degli interventi del
solista.
La relazione pi forte che si crea all'interno di una ritmica senz'altro
quella tra basso e batteria. Insieme, questi due strumenti costituiscono il
vero "motore" della musica. Un compito di tale imprescindibile
importanza da necessitare una relazione quasi simbiotica tra i due ruoli.
Tra jazzisti la si paragona spesso ad una relazione sentimentale, senza
che ci implichi alcun tipo di intento sarcastico. Per un batterista, trovare
un bassista con cui sentirsi a proprio agio (in termini musicali)
importante quasi come trovare un partner nella vita di ogni giorno. Molto
spesso le incomprensioni tra batterista e bassista sono viste

121

semplicemente come il risultato dell'incontro di due personalit che non


vanno d'accordo, piuttosto che come problemi tecnici legati alla musica.
La prova del fuoco proprio quel tipo di intreccio che si crea tra le
pulsazioni ritmiche espresse dai due musicisti nel cosiddetto walking.
Come ho gi cercato di spiegare, tenere il tempo con swing non pu
essere in nessun modo paragonato all'esecuzione precisa di un unisono.
Non si tratta semplicemente di suonare contemporaneamente le stesse
figure ritmiche, quanto piuttosto di trasmettere un senso di trasporto e di
coesione che trasudi rilassatezza e al contempo pulsione e proiezione "in
avanti" degli eventi musicali. I musicisti amano ripetere che questo
genere di cose non si possono studiare nelle scuole di musica o sui libri.
Sono piuttosto doti innate di ogni musicista. Ognuno ha la propria
concezione dello swing, legata a fattori unici ed individuali. Se la
concezione (o "intenzione", secondo il linguaggio dei jazzisti) del
batterista e quella del bassista sono differenti e non riescono e integrarsi
a vicenda, semplicemente la relazione non funzioner. In diverse
occasioni nella mia breve esperienza ho incontrato dei batteristi con i
quali semplicemente non riuscivamo a "trovarci" e come nelle relazioni
interpersonali, a nulla valgono gli sforzi per cercare di venirsi incontro. I
jazzisti parlano dello swing come di un fenomeno "magico" che non ha
spiegazioni razionali: quando non si crea, inutile accanirsi.
Anche nel caso della batteria, cos come abbiamo visto per il basso,
assistiamo ad una manovra di "accomodamento" e autolimitazione in
funzione delle "necessit" della jam.
Ad un batterista che lavora in una ritmica da jam session richiesto un
elevato grado di formalismo, sebbene tali aspettative siano in generale
meno stringenti di quelle avanzate nei confronti del bassista.

122

Potendo far riferimento ad un bassista "solido" e preciso nel ritmo, il


batterista pu prendersi maggiori libert e cercare un'interazione pi
diretta con il solista, nei termini gi citati di una "interpunzione" degli
interventi solistici.
Ho gi parlato della formula del trading come strumento per ritagliare
le parti solistiche della batteria. In realt, pur affidandosi al repertorio
convenzionale di accompagnamento, i batteristi cos come i bassisti
improvvisano continuamente, ma sempre nei limiti imposti dal proprio
ruolo.
Il conservatorismo implicito in molti contesti da jam session ha
portato molti batteristi a "fissare" il proprio stile su quello dell'epoca be
bop e hard bop (per intenderci, gli stili formalizzati tra gli anni '40 e gli
anni '50), considerati oramai come modi "standard" di accompagnare.
Un altro fattore di limitazione dell'intervento del batterista
connaturato con le specifiche acustiche dello strumento. La batteria
potenzialmente potrebbe produrre un tale livello di suono da coprire
qualsiasi altro strumento, acustico o amplificato che sia, specialmente
nei piccoli club in cui si tengono le jam session. per questo che uno dei
requisiti pi apprezzati per un batterista che si ritrova a lavorare in tali
situazioni proprio la capacit di controllare il proprio suono senza che
ci abbia ripercussioni sulla spinta ritmica.
Ciononostante, uno dei principali argomenti di discussione nel postjam session, ovvero quando i musicisti hanno finito di suonare e
inevitabilmente esprimono i propri giudizi sulla performance, riguarda
proprio il volume della batteria. L'accusa di "aver suonato troppo forte"
equivale, nel caso del batterista a quella di "non aver ascoltato".
Imparare ad ascoltare gli altri la conditio sine qua non per creare
interazione e permettere ad ognuno di esprimere la propria creativit, il

123

proprio "suono", in una parola la propria individualit. Un batterista che


non riesce a controllare il proprio suono e in questo modo copre gli
interventi degli altri considerato alla stregua di chi alza la voce in
modo prevaricatore nel corso di una conversazione, impedendo agli altri
di esprimere il proprio parere o giudizio. Una grave mancanza di rispetto
che intacca quella fondamentale predisposizione all'ascolto che qualsiasi
musicista di jazz indicher come essenziale per fare questa musica,
molto pi delle capacit tecniche in s.
Va detto, a difesa dei batteristi, che riuscire a controllare i volumi di
un drum set in un piccolo club impresa ardua. Ho conosciuto molti
batteristi che "soffrivano" molto per questo genere di accuse, come
quando una persona riceve delle critiche che ritiene ingiustificate perch
non tengono conto delle limitazioni e delle difficolt naturali che ognuno
porta con s nel suo rapporto con gli altri.

3.6.5 Il pianista
Nel jazz delle origini il piano non era un elemento imprescindibile
della sezione ritmica. Il suo ruolo poteva essere ricoperto da altri
strumenti come la chitarra o il banjo e nel caso in cui il piano fosse
presente, gli altri due strumenti rimanevano comunque in forze alla
ritmica, con il compito di sostenere e rafforzare l'accompagnamento del
piano.
Originariamente il piano era considerato uno strumento solista e
veniva utilizzato in particolare nei piccoli bar o nelle case di tolleranza a
New Orleans, dove forniva un sottofondo musicale continuo per gli
avventori.

124

Col tempo, esso entrato di diritto nella formazione standard di una


sezione ritmica, dapprima nelle registrazioni e poi anche nella pratica
musicale "dal vivo"
Tra i membri della sezione ritmica, il pianista senz'altro quello
soggetto

al

minor

numero

di

limitazioni.

Il

suo

apporto

all'accompagnamento del brano meno vincolato dalle convenzioni


ritmiche e le sue incursioni come solista sono pi frequenti e strutturate
di quelle degli altri due membri (basso e batteria)
In questo paragrafo mi occuper principalmente del ruolo di pianista
come accompagnatore.
Come avviene per il bassista, anche il pianista che accompagna un
solista non ha a disposizione una partitura precisa che gli indichi come
suonare gli accordi, ovvero come disporre le note in modo verticale o
come strutturare ritmicamente il proprio intervento.
Anche in questo contesto subentra il ricorso alle convenzioni.
Come abbiamo gi visto, un tipico standard

composta da una

sequenza di accordi inquadrati in una griglia armonica. Il compito del


pianista quello di esplicitare i singoli accordi, andando ad arricchire il
"lavoro" del bassista. Gli accordi sono indicati sui fake book con delle
sigle convenzionali che semplicemente indicano il tipo di accordo che
deve essere suonato e non contengono al loro indicazioni precise sul
modo in cui le note dell'accordo devono essere disposte. Questo tipo di
scelte sono lasciate all'inventiva del pianista. Il modo in cui un pianista
dispone le note di un accordo (detti voicing) rappresenta un "marchio di
fabbrica" con il quale viene in genere identificato il musicista. Senza
scenderei in particolari tecnici specialistici, vorrei sottolineare che il tipo
di voicing usato da un pianista costituisce la sua interpretazione
dell'armonia del brano e contribuisce a creare quel particolare

125

"ambiente" musicale. I musicisti di jazz in genere parlano di "colore" o


"sapore" di un voicing.
Oltre ad improvvisare il "colore" dei propri voicing, un pianista deve
decider anche in quale momento inserirli, ovvero selezionare tra un set di
modelli convenzionali di accompagnamento ritmico. Nel jazz moderno,
l'inserimento

degli

accordi

assume

quello

stesso

carattere

di

interpunzione e sottolineatura ritmica del brano che abbiamo gi visto


nel ruolo del batterista. In genere, i solisti apprezzano gli stili di
accompagnamento poco "invasivi" da parte del piano. Le note
fondamentali degli accordi sono gi presenti nella linea di basso ed su
quel riferimento che i solisti improvvisano: se un pianista inserisce
troppo spesso degli accordi potrebbe creare disorientamento nel solista,
oppure "ingabbiarlo" in un contesto armonico troppo ricco e "preciso".
Non un caso che i pianisti pi esperti, quando interviene un nuovo
solista, si astengano del tutto dal suonare per un certo numero di battute,
il tempo necessario perch il solista si trovi a suo agio nella ritmica e
definisca il tipo di "discorso" che vorr sviluppare.
I diversi stili di accompagnamento ritmico del pianista fanno spesso
riferimento alle figure "classiche" eseguite dalle sezioni fiati delle big
bands del passato. In sostanza, quando utilizza quel tipo di clich
derivati dall'era dello swing, il pianista si comporta come se avesse
"sotto le dita" un'intera sezione fiati.
In genere, il pianista il membro pi competente in armonia e questo
fa di lui un punto di riferimento, in particolare per il bassista.
In situazioni raccolte come quelle di un piccolo club, il basso si trova
abbastanza vicino al piano da poter "spiare" sulla tastiera il tipo di
accordi che il pianista sta usando. Nel corso di una jam pu accadere che
si decida di suonare un brano anche se il bassista non ne conosce

126

perfettamente la struttura armonica: spesso il tempo a disposizione per


negoziare la scelta dei brani infatti troppo ristretto oppure si vuole
semplicemente evitare di perdere troppo tempo per cercare un brano
conosciuto da tutti. In questi casi spesso il pianista a correre in aiuto
del bassista e lo pu fare in diversi modi, almeno stando alla mia
esperienza personale. Un primo sistema quello di spiegare brevemente
la struttura armonica al bassista prima di cominciare a suonare, usando la
tastiera dello strumento come supporto esplicativo. In pratica il pianista
mostra al bassista la successione degli accordi suonandoli direttamente
sulla tastiera. Ci reso possibile anche dal fatto che molti standard
hanno delle strutture piuttosto prevedibili che la prassi della jam ha
contribuito a semplificare (le partiture originali di questi brani sono
spesso pi complesse di quelle convenzionalmente utilizzate durante una
jam). Un altro sistema quello di suonare i primi chorus usando dei
voicings molto semplici che il bassista pu interpretare all'istante
osservando la tastiera e cercando di "stare dietro" al pianista. Oppure, pi
semplicemente, il pianista suggerir gli accordi al bassista durante
l'intera durata del brano, sperando che ad un certo punto questi riesca a
muoversi da solo senza ricorrere a tale sostegno.
Se da un lato il pianista offre questa forma di "soccorso" armonico per
il bassista, dall'altra egli pu avanzare delle richieste sul modo di suonare
quest'ultimo.
Quando i membri di una ritmica hanno l'occasione di suonare insieme
per un periodo di tempo abbastanza lungo, si crea tra di essi una tale
empatia musicale che porta ognuno di loro ad essere in grado di
anticipare in tempo reale il tipo di scelte nell'accompagnamento operate
dai suoi colleghi. Questa forma di coordinamento particolarmente utile
ai fini dell'esecuzione e non un caso che una formazione " ben

127

collaudata" venga spesso assunta "in blocco" dai gestori dei locali o dai
solisti.
In conclusione di questa rassegna sui ruoli dei membri della ritmica,
vorrei far notare come il modo di operare di questi musicisti rappresenti
una perfetta dimostrazione del lavoro di interazione necessario per
realizzare un performance basata sull'improvvisazione.
Monson ha descritto questo scambio continuo di stimoli e segnali tra i
vari membri del gruppo in termini di "tensione" tra l'urgenza espressiva
individuale e coesione dell'intero gruppo.
"Poich l'ensemble diviso in solisti e sezione ritmica, si potrebbe
dire che esistono due livelli in cui questa tensione individuo-gruppo
opera: la relazione tra solista (che all'occasione pu anche essere un
membro della ritmica) e la sezione ritmica, e la relazione tra i singoli
componenti della stessa sezione ritmica" (Monson: 1996, p. 67; trad.
mia).
Nel successivo paragrafo cercher di indagare i modelli di
organizzazione e di interazione interni al gruppo dei solisti o front line,
con particolare riferimento a quella che Becker ha indicato come
"etichetta della jam session"

3.7. I solisti
Nel paragrafo precedente ho trattato le dinamiche che si instaurano tra
i membri della sezione ritmica, concentrandomi sul parallelo ruolostrumento e considerando i tre componenti tradizionali della ritmica

128

(basso, piano e batteria) sia individualmente che come gruppo


omogeneo.
Dovendo ora occuparmi della cosiddetta front line, ovvero
dell'insieme dei solisti che partecipano ad una performance, credo sia
necessario precisare che in questo caso non esiste quella omogeneit
riscontrata per la ritmica. La front line non svolge un compito ben
definito come l'accompagnamento per la ritmica, n tantomeno agisce
in modo collegiale e coordinato se non in alcuni momenti precisi della
performance, come ad esempio nell'esposizione del tema o melodia,
quando i solisti si coordinano per eseguire una traccia melodica insieme.
Innanzitutto nel contesto di una jam session, la front line non ha un
formazione stabile con ruoli ben definiti. Anche i singoli membri della
ritmica possono "uscire" temporaneamente dal loro ruolo individuale di
accompagnatori e ci avviene nel momento in cui il piano, il basso o la
batteria sono chiamati ad eseguire un assolo, divenendo dei solisti a tutti
gli effetti.
A proposito del termine solo o assolo, il caso di sottolineare che si
tratta di un uso impreciso del termine. Molti musicisti fanno notare come
in effetti non si tratti di veri e propri assolo perch la ritmica continua a
suonare sotto l'intervento del musicista in questione. Si tratta piuttosto di
un "mettersi davanti agli altri", di esporsi in prima persona con la propria
improvvisazione. Ma questo intervento (o meglio dovrebbe essere)
tutto fuorch un monologo: mentre il solista improvvisa sugli accordi del
brano, la ritmica non si limita ad accompagnarlo ma interagisce col
solista in continuazione, sottolineando le sue idee o addirittura
proponendo degli stimoli quando si accorge che le idee del musicista
cominciano a diventare stanche e ripetitive. in questo dialogo serrato e

129

continuo che si sviluppa il processo continuo di interazione tra ritmica e


solista
La composizione della front line di una jam lasciata sostanzialmente
al caso. Nel locale in cui si sta svolgendo la performance improvvisata
possono essere presenti pi solisti, ad esempio dei sassofonisti o dei
trombettisti. La loro partecipazione all'esecuzione di un brano non
obbligatoria ed lasciata alla loro scelta individuale. Alcuni solisti
possono rimanere seduti ad ascoltare gli altri mentre suonano per poi, ad
un certo punto, decidere di "entrare" nella jam imbracciando il proprio
strumento.
Le modalit con cui un musicista che suona uno strumento
tipicamente solista (in genere uno strumento a fiato) decide o meno di
"entrare" e il tipo di regole convenzionali che in genere tender a seguire
attengono

quella

che

Becker

ha

indicato

come

"etichetta

dell'improvvisazione".
Una delle regole di questa etichetta prevede che ogni musicista suoni
l'esatto numero di chorus del suo predecessore.
Come ho spiegato precedentemente, dopo che il tema principale
(melodia o head) di uno standard stato esposto, i vari solisti si
alternano

ripercorrendo

la

struttura

armonica

del

brano

ed

improvvisandoci sopra delle nuove melodie. Il numero di volte in cui


viene risuonata la struttura (chorus) mentre il primo dei solisti si
esibisce, rappresenta il riferimento per tutti i solisti che lo seguiranno. In
pratica, se un sassofonista attacca a suonare il suo assolo e si "prende"
cinque chorus, il secondo solista (magari un altro sassofonista) ne
suoner altrettanti, n pi n meno.
"Suonare di pi sarebbe apparso scortese, presuntuoso, da "esaltati";
suonare di meno sarebbe stato interpretato come il segnale che il primo

130

solista era andato troppo per le lunghe o peggio, che i musicisti


successivi avevano meno cose da dire" (Becker: 2000)
Le ragioni di una tale attenzione all'etichetta risiederebbero, secondo
Becker, nella natura intrinsecamente egualitaria del jazz. In una jam
session tutti hanno diritto ad esprimersi, anche se non tutti sono sullo
stesso livello di capacit e talento artistico. Rispettare un'ordinata
successione dei solisti, come se si seguisse l'ordine degli interventi in un
convegno, e accordare a tutti la stessa attenzione e lo stesso spazio
significa, almeno nelle intenzioni, rispettare il contributo di ognuno alla
riuscita della performance.
Devo ammettere che nelle mie esperienze individuali non sempre ho
riscontrato questa attenzione cos profonda alla parit di trattamento tra i
solisti. Pu darsi che ci sia connaturato con la tendenza tipica nella
cultura americana di porre particolare enfasi sul rispetto, tutto formale,
delle opinioni altrui. Del resto, sar la natura dei fatti a dimostrare quale
opinione la pi forte, ovvero qual' il solista che ha pi cose da dire,
musicalmente parlando.
La mia opinione che questo atteggiamento "educato" sia in realt un
mascheramento della sottile tensione competitiva che naturalmente si
instaura tra i solisti in una jam. In pratica, quando un musicista si
esibisce in un assolo, si sta "esponendo" al giudizio degli altri musicisti e
del pubblico. E quando in una jam sono presenti due o pi musicisti che
suonano il medesimo strumento, inevitabile che qualcuno (tra il
pubblico o tra gli altri musicisti) si abbandoni a dei confronti, spesso
impietosi.
Questa sottile tensione tra condivisione e competizione si manifesta, a
mio avviso, in una serie di atteggiamenti di esplicita dimostrazione di
"cortesia" e rispetto. Ci risulta particolarmente evidente nel caso dei

131

cosiddetti newcomers, ovvero di coloro che partecipano per la prima


volta ad una particolare jam, non appartenendo al "giro" dei musicisti
che la frequentano abitualmente.
In genere, un newcomer si presenta ad una jam in cui non mai stato
prima accompagnato da uno sponsor, ovvero da un musicista "del giro"
che far le presentazioni di rito. In genere i newcomers sono accettati
con entusiasmo e gentilezza sia dai membri della ritmica che dagli altri
solisti e questo atteggiamento si manifesta ad esempio con la prassi
comune di lasciare al nuovo arrivato la scelta del brano da suonare (v.
supra).
chiaro

che la

ritmica assolver il

proprio

compito

di

accompagnamento e stimolo con ognuno dei solisti, senza fare


distinzione in base alla intrinseche qualit di ognuno di loro. Ma
altrettanto evidente che, essendo l'assolo il risultato di un processo di
interazione tra pi ruoli e personalit musicali, un solista pi esperto e
dotato di talento sar in grado di costruire meglio il proprio intervento
solistico, strutturandolo in maniera "narrativa", dando coesione e
dinamismo al suo "discorso" e soprattutto coinvolgendo in continuazione
la ritmica in un continuo gioco di rimandi e citazioni. evidente che un
solo di questo tipo attirer maggiormente l'attenzione del pubblico, lo
coinvolger in un "viaggio" musicale che interessante proprio perch
basato sull'imprevisto, sulla svolta inattesa, sul "colpo" di scena. Il
pubblico non mancher di sottolineare questa esibizione con cenni di
apprezzamento durante la performance, fischi, applausi, urla e
quant'altro. Con questo non voglio affermare che l'obiettivo di un solista
quello di dimostrare a tutti quello che capace di fare e terrorizzare in
questo

modo

gli

altri

solisti

presenti

in

sala.

L'obiettivo

dell'improvvisazione l'espressione dell'individualit di ognuno e l'unico

132

modo di realizzare ci nel jazz quello di ascoltare e rispettare gli altri, a


partire dai membri della ritmica per arrivare al pi sprovveduto dei
newcomer che ha avuto il "coraggio" di presentarsi alla jam.
Esistono delle forme "simulate" di scontro tra solisti nella cultura della
jam session. Due sassofonisti o due trombettisti possono schierarsi "uno
contro l'altro" e sfidarsi in un'improvvisazione a due, dividendosi
equamente le varie sezioni di un chorus. Se questo genere di
manifestazioni possono apparire "sfrontate" o eccessive agli occhi di un
"esterno", in realt per chi vive la realt del jazz dall'interno
rappresentano dei momenti di forte condivisione e di rispetto. Ne una
prova il fatto che, anche quando si stanno apparentemente "sfidando",
due solisti tenderanno sempre a "citarsi" a vicenda. Pi che un duello, si
tratter sempre e comunque di un duetto.
La mia teoria che il jazz rimane effettivamente e profondamente
egualitario,

nonostante

l'apparente

individualismo

della

pratica

dell'assolo, a sua volta "coperto" dal rispetto di tutta una serie di regole
di cortesia che possono apparire puramente formali.

3.8 Relazioni di potere, valori musicali e risoluzione dei conflitti


Essendo il prodotto di una costante e delicata opera di interazione e
negoziazione tra diverse individualit artistiche, i rapporti tra solisti e
sezione ritmica e tra i membri stessi della ritmica non sono di certo
esenti da situazioni di conflitto.
La nascita e la risoluzione di situazioni conflittuali direttamente
correlata alle relazioni di potere presenti all'interno del gruppo.

133

La domanda che a questo punto potremmo porci la seguente: esiste


un vero leader in una performance di questo tipo? C' qualcuno che
dirige effettivamente il gioco?
Verrebbe da pensare che tale ruolo sia svolto dal solista, o meglio dal
musicista che in quel preciso istante sta rivestendo il ruolo di solista.
In effetti molti musicisti dichiarano che il solista a "guidare" la
musica nella direzione che egli intende e che gli altri musicisti che in
quel momento lo stanno accompagnando nel suo intervento hanno il
compito di riconoscere questo ruolo e di interpretare le sue indicazioni.
Tuttavia, come fa notare Berliner, "[all'interno di un gruppo] le
relazioni di potere non sono necessariamente statiche. A seconda della
situazione, i leader differiscono nelle limitazioni sulla libert espressiva
che impongono agli altri membri della band, cos come i singoli membri
a loro volta differiscono nel livello di "obbedienza" all'autorit"
(Berliner: 1994, p.419; trad. mia).
Una tipica situazione di conflitto pu crearsi ad esempio nel rapporto
tra bassista e batterista. "Un membro della sezione ritmica pu ad un
certo

punto

rendersi

conto

che

il

suo

personale

approccio

all'accompagnamento pu andare in conflitto con quello espresso da un


altro dei membri della ritmica e magari anche con il gusto del solista.
Questa situazione richiede di operare una scelta tra adottare l'approccio
dell'altro musicista come una costrizione alla propria inventiva o
continuare a seguire la propria personale interpretazione di interplay con
i solisti" (ivi. p.421).
In una situazione "moderna", ad esempio, il batterista spesso si sente
legittimato a svincolarsi maggiormente dal compito di marcare
regolarmente la pulsazione ritmica per interagire maggiormente con il
solista. Questo tipo di approccio richiede un elevato grado di sicurezza

134

da parte del batterista perch si tratta di esporre il gruppo al rischio di


"perdersi", ovvero di spezzare la regolarit della pulsazione ritmica. I
batteristi pi dotati sono in grado di creare questa situazione di
interazione continua e di "frattura" della regolarit ritmica senza per far
perdere il senso della pulsazione, avendola stabilmente interiorizzata.
una situazione molto frequente nel jazz contemporaneo, ma meno
comune all'interno di una jam, nella quale anche i batteristi pi creativi e
"spregiudicati" tendono a mantenere un profilo basso, ovvero a fornire
un accompagnamento ritmico pi regolare ed esplicito.
In ogni caso, le libert che un batterista pu concedersi dipendono in
ultima analisi dal tipo di supporto che riceve dal bassista. Un batterista
pu

sentirsi

legittimato

"scomporre"

la

pulsazione

ritmica

fondamentale se il bassista che suona con lui garantisce un pulsazione


regolare e "forte". A sua volta, il bassista pu sentirsi stimolato
dall'atteggiamento pi libero del batterista e concentrarsi maggiormente
sulla solidit del proprio accompagnamento, proprio perch sa che tale
combinazione tra un basso robusto e preciso ed una batteria "elastica" e
interattiva pu contribuire molto alla dinamicit del brano.
Tuttavia, nel contesto della jam, caratterizzato spesso da una forte
adesione ai modelli "classici" di accompagnamento, questo tipo di
atteggiamenti "creativi" da parte della ritmica non sono sempre visti in
maniera positiva. Nelle jam si suonano quasi sempre degli standard
molto conosciuti e un solista in genere si aspetta un tipo di
accompagnamento pi statico e stabile, considerando soprattutto che
magari la prima volta che suona con quei musicisti. Questo non deve
essere interpretato come una regola fissa, quanto piuttosto come una
prassi diffusa. Esistono solisti che esigono il pi elevato livello di
interazione da parte della sezione ritmica e altri che invece si aspettano

135

che i membri di quest'ultima facciano semplicemente il proprio dovere,


senza troppi fronzoli. Nella mia esperienza ho constatato che
quest'ultimo tipo di atteggiamento quello pi diffuso nelle jam. Con
questo non intendo dire che la jam frequentata soltanto da solisti che
amano suonare in maniera "tradizionale" e che si aspettano quindi un
accompagnamento altrettanto "tradizionale" (basso in walking costante e
batteria che segna in maniera "metronomica" il tempo): quello che ho
notato piuttosto che anche i solisti pi creativi e "moderni" in genere
adattano il proprio comportamento musicale al contesto della jam e alla
"tradizionalit" del repertorio standard.
Ho assistito molto spesso alla nascita e alla successiva risoluzione di
questo genere di conflitti all'interno del gruppo. In genere, le situazioni
conflittuali "vengono fuori" alla fine della jam, quando i musicisti si
ritrovano inevitabilmente a commentare la serata. Ci sono anche casi in
cui il comportamento di un musicista in particolare pu essere
interpretato come una violazione delle regole implicite di rispetto e
condivisione e questo pu portare a delle discussioni particolarmente
animate. Devo dire per che nella maggior parte dei casi i problemi sorti
nel corso della performance vengono trattati con ironia e leggerezza e
trovano una rapida soluzione. Trovo interessante a questo riguardo
inserire una citazione del trombettista Wynton Marsalis, tratta da un
recente volume in cui racconta le sue esperienze personali in qualit di
giovane "apprendista" prima e poi di affermato musicista. Marsalis
descrive il modo in cui si affronta la necessit, talvolta imbarazzante, di
far capire ad un solista che sta prendendo uno spazio troppo ampio per il
proprio assolo.

136

"[...] qui parliamo di una sorta di galateo del palco. Quando un


musicista comincia a suonare head mentre stai eseguendo un assolo,
equivale a dire "Smettila". Se la decisione di passare a un head
prematura o dettata dall'invidia o da qualche rancore personale, tutti gli
altri fanno segno di no e continuano a suonare, come a dire "Lascia stare,
vai pure avanti da solo". Allora, il solista pu e deve continuare. Ma se
tutti si uniformano ad un head davvero ora di terminare l'assolo. A
volte qualche maleducato prosegue ugualmente, ma in generale i
musicisti accettano le regole che governano le performance dal vivo.
come una cosa che nella comunit nera chiamiamo dap-off. Quando
ora di terminare una conversazione, uno d all'altro una sonora stretta di
mano (dap). il segnale che dice "Devo andare". Ma qualche volta
l'altro trattiene la mano e continua a parlare, anche se c' stato il dap-off.
un atteggiamento che non va assolutamente: la prossima volta che ti
danno la mano, vai a casa e zitto."
I diversi modi in cui si pu giungere ad una soluzione dei conflitti
"sono illuminanti circa un aspetto del vecchio adagio sui jazzisti, ovvero
che essi "suonano cos come sono", vale a dire che le personalit
individuali degli artisti e il loro modo di essere formano una parte
inestricabile delle loro personalit musicali. Di conseguenza, i modelli di
improvvisazione collettiva non sono i semplici prodotti di puri concetti
musicali, gusti personali e capacit tecniche ma piuttosto il risultato
dell'interazione sociale all'interno del gruppo, delle relazioni di potere e
della predisposizione alla collegialit e al compromesso" (Berliner:
1994, p.430; trad. mia).

137

Conclusione

L'obiettivo di questa breve ricerca stato quello di proporre


un'interpretazione dei modelli di interazione che si instaurano all'interno
di un gruppo impegnato in una performance basata sull'improvvisazione.
Il "caso studio" preso in esame quello della jam session, e la scelta di
questa

forma

particolare

di

pratica

musicale

stata

dettata

principalmente da motivazioni di carattere biografico. Era mia attenzione


fornire un'analisi dell'improvvisazione nel jazz e del fenomeno della jam
session attraverso un'etnografia svolta come osservatore partecipante, nel
tentativo di offrire una visione unitaria e sistematica utile ad un pubblico
di non specialisti.
Mentre portavo a termine la stesura di questa ricerca ho realizzato che
il mio lavoro probabilmente sarebbe stato interessante pi per l'adozione
di un particolare punto di osservazione e per la metodologia utilizzata
che per le conclusioni a cui sono pervenuto.
Nel corso della trattazione ho utilizzato una mia interpretazione del
concetto di densit. Con esso intendevo sottolineare come la complessit
dei fenomeni sociali, a mio avviso, si sviluppi su una serie di livelli
sovrapposti il cui reale dispiegamento non ravvisabile utilizzando un
unico approccio disciplinare. Da questo punto di vista, anche i fenomeni
sociali apparentemente pi marginali e limitati (in termini di ampiezza e
complessit) sottendono una larga rete di connessioni con altri elementi
del reale e la complessit di queste connessioni si manifesta
maggiormente quando si utilizza un approccio teorico di tipo

138

multidisciplinare e, qualora il contesto lo consenta, uno strumento


empirico di tipo "diretto" come pu essere l'osservazione partecipante.
Ho pertanto cercato di utilizzare gli strumenti dell'indagine sociologica e
in particolare le metodologie dell'analisi qualitativa come "collante" tra i
diversi approcci disciplinari.
Tradotto nei termini del contesto da me osservato, questo tipo di
approccio teorico ed empirico mi ha permesso di rilevare alcune
caratteristiche del fenomeno dell'improvvisazione e del cosiddetto
"cerimoniale della jam session" che all'inizio della mia ricerca non mi
erano ancora chiare. Non si tratta di una prospettiva totalmente nuova di
questo genere di fenomeni, poich altri lavori ben pi complessi e
approfonditi del mio sono giunti a conclusioni tutto sommato parallele.
Mi riferisco in questo caso soprattutto alle ricerche di Paul Berliner e
Ingrid Monson.
In conclusione di questo lavoro, vorrei porre l'accento su alcuni aspetti
che ritengo possano offrire lo spunto per un ulteriore approfondimento.
Nel corso degli ultimi dieci anni ho partecipato a numerose jam, la
maggior parte delle volte in qualit di musicista. La considerazione che
ne ho ricavato che questa istituzione presenta un carattere direi quasi
universale, applicabile ai contesti geografici e sociali pi disparati.
Potremmo dire che la formula della jam session si diffusa globalmente
parallelamente alla cultura jazz che l'ha generata. Un'ennesima conferma
di quanto quest'ultima si sia oramai stabilita e integrata in contesti assai
lontani (geograficamente, culturalmente e socialmente) dal proprio
bacino d'origine. Questo non pu che confermare la teoria ampiamente
condivisa che definisce il jazz come un linguaggio pi che un genere
musicale in senso stretto.

139

Il modello dell'improvvisazione nel jazz si evoluto nel corso dei


decenni da prassi musicale culturalmente e localmente connotata (nel
contesto americano) a linguaggio universale applicabile ai pi disparati
ambiti

musicali.

Il

tipo

di

competenze

che

il

"mestiere"

dell'improvvisazione presuppone e il percorso di apprendistato


necessario per acquisirle, rappresentano un patrimonio che accomuna le
esperienze di musicisti provenienti da ogni parte del mondo.
sufficiente sfogliare un qualsiasi magazine specializzato per rendersi
conto di come artisti di grande rilevanza internazionale che provengono
da tutti i continenti continuino ad offrire quotidianamente nuove
interpretazioni ed applicazioni di questo linguaggio.
Lo stesso fenomeno della jam session, cos fortemente legato alla
cultura del jazz, si diffuso globalmente gi da decenni, conservando
molti di quegli elementi caratteristici (direi "tradizionali") della sua
formula originaria. Ogni notte, nei locali di tutto il mondo, si tengono
centinaia di jam basate sul repertorio degli standard oppure
semplicemente sul linguaggio dell'improvvisazione jazz. La cosa
straordinaria che un musicista che ha gi avuto esperienze in questo
senso, che stato in qualche modo "addestrato" a partecipare ad una jam,
potr accedervi in qualunque momento. Ci reso possibile da quella
condivisione di regole pi o meno rigide, dal rispetto di una essenziale
"etichetta" dell'improvvisatore, dalla conoscenza di un repertorio
comune di standard e dall'utilizzo di un glossario tecnico che rende
possibile la realizzazione di arrangiamenti istantanei con un'assoluta
spontaneit.
Non sono in grado di decidere se questo tipo di performance abbia
avuto una tale fortuna per un fenomeno di diffusione di quella cultura
che l'ha generato oppure perch in realt si sia oramai stabilizzato come

140

modello di interazione musicale ed interpersonale che "funziona" a


prescindere dal contesto in cui viene messo in atto. In altre parole non mi
ancora chiaro se una jam session funzioni solo perch esiste un
linguaggio culturale condiviso ormai globalmente oppure se tale
linguaggio si sia diffuso proprio perch effettivamente efficace nel caso
in cui si voglia realizzare una performance basata sull'improvvisazione.
Ad ogni modo, l'efficacia di tale pratica ha offerto lo spunto ad alcuni
autori per applicarla anche in contesti ben diversi da quello musicale.
Alcuni esperti di marketing si sono serviti del modello della jam per
sviluppare delle strategie di collaborazione tra membri di un consiglio di
amministrazione che si trovino ad affrontare una situazione imprevista,
dovendo contare dunque solo sulle proprie competenze, sul singolo ruolo
rivestito da ogni membro e sulla capacit di coordinare i propri interventi
improvvisati (cfr.: Weick: 1998; Barrett: 1998, Meyer: 1998).
Altri hanno cercato di applicare i modelli dell'improvvisazione nel
contesto della vita quotidiana, ravvisando infine una certa idiosincrasia
tra il comportamento del jazzista che improvvisa, spinto da una
insopprimibile necessit di espressione e di creazione del nuovo e
dell'imprevedibile,

il

comportamento

dell'"uomo

comune".

Quest'ultimo, di fronte ad un imprevisto, improvvisa un atteggiamento


ritenuto "consono" per non correre il rischio di apparire diverso dagli
altri e rifugiarsi il pi velocemente possibile nella normalit utilizzando
tutta una serie di pattern di comportamento socialmente accettabili(cfr.
Sparti: 2005).
Ritengo che tali applicazioni del modello siano utili tutt'al pi a livello
metaforico. La performance musicale pu anche essere vista come un
caso particolare di interazione tra pi individui, ma l'elemento che la
rende unica e non traducibile in altri contesti proprio la musica, ossia

141

un linguaggio che si fonda sullo sforzo di tradurre in termini non verbali


l'indicibile, l'ineffabile, il momento contingente e la sua fugacit.
Trasferire quello che accade nel mondo della musica alla vita quotidiana
dimostra ancora una volta come la musica "costruisca" nell'atto
dell'esecuzione un livello distinto di realt, in cui continuiamo ad essere
sempre e comunque esseri umani ed attori sociali, ma nel quale ci
troviamo improvvisamente costretti e al contempo legittimati ad agire
secondo altre regole e altri linguaggi che valgono solo in quella
"dimensione parallela" spaziale e temporale che attraverso la musica
siamo riusciti a creare.
Ho iniziato questo paragrafo definendo la jam session come una
performance collettiva basata sull'improvvisazione. Potrei aggiungere
che questa definizione molto generica potrebbe essere applicata alla
performance jazz in generale. In realt, i processi di improvvisazione
intervengono su pi livelli nella realizzazione di una performance.
Nel jazz il processo di improvvisazione non pu essere relegato
soltanto all'assolo. In particolare durante una jam session, potremmo dire
che si comincia ad improvvisare prima ancora di suonare, ovvero quando
si decide quale sar il prossimo brano. A questo punto sto utilizzando
un'accezione pi ampia di improvvisazione. In realt, come abbiamo
visto, i musicisti concordano i brani da eseguire operando una selezione
da un set di risorse disponibili, ovvero il numero di standard conosciuti
da tutti i musicisti presenti sul set. Continuando con questo esempio, si
improvvisa o quantomeno si determina collettivamente in maniera
estemporanea anche l'arrangiamento del brano che si vuole eseguire
(head arrangement). Si improvvisa la successione dei brani e il percorso
narrativo che porta da un brano all'altro, ovvero la scaletta. Il musicista o
i musicisti che suoneranno il tema principale decideranno sul momento,

142

in pratica improvviseranno, il modo in cui vorranno rendere quella


melodia. Soprattutto la sezione ritmica improvvisa continuamente,
basandosi sulle convenzioni e sulle prassi sedimentate che abbiamo
descritto, il tipo di accompagnamento che fornir al solista. Improvvisa
ovviamente il solista durante l'assolo, ma anche in quel caso utilizzando
le risorse che ha disposizione, ovvero la sua esperienza, le competenze
acquisite, le forme di un linguaggio che ha appreso nel corso della sua
intera carriera.
L'improvvisazione il frutto di un costante lavoro di interazione. A
sua volta, questa interazione resa possibile dalla consapevolezza del
proprio ruolo all'interno del gruppo e del tipo di contributo che si tenuti
ad offrire all'esecuzione.
Le raccomandazioni che ho ricevuto dai musicisti europei ed
americani con cui ho avuto la fortuna di collaborare e studiare portavano
tutte inevitabilmente alla stessa conclusione: il compito fondamentale di
un musicista quello di ascoltare, di essere consapevole di quello che
succede intorno a s. Potremmo dire che il jazz si suona con le orecchie
e con gli occhi, prima che con le mani. Tutto quello che avviene nel
corso dell'esecuzione, il tipo di ambiente sonoro che si sta creando, le
scelte che ognuno deve operare, il tipo di interventi che chiamato a
realizzare, sono il frutto di una continua negoziazione di significati, di
un'interazione costante tra i vari membri del gruppo. un lavoro di
squadra che implica il rispetto per gli altri componenti e l'attenzione ai
contributi di ognuno. Nessuno opera in totale solitudine, tantomeno il
solista che chiamato ad improvvisare. I momenti pi esaltanti di una
performance, per il gruppo ma soprattutto per il pubblico che assiste,
sono quelli in cui questa interazione raggiunge i livelli di un'empatia

143

immediata, quella sorta di fusione di personalit distinte che i jazzisti


chiamano interplay. Nel jazz come nella vita quotidiana nessuno
veramente solo nelle sue azioni. Viviamo in un mondo in cui miliardi di
personalit distinte sembrano muoversi come molecole distinte con
percorsi aleatori in cui le interazioni e i contatti appaiono spesso come
eventi eccezionali o fortuiti. Eppure ogni singolo individuo
costantemente inserito in una fitta rete di relazioni di cui la maggior
parte delle volte non consapevole.
In una performance jazz entra in campo un grande numero di fattori
che il pi delle volte non pu essere percepito dalla prospettiva di un
"semplice" ascoltatore. Ognuno dei musicisti ha attraversato un periodo
pi o meno lungo di formazione, che continua per tutta la durata della
sua carriera e corre parallelo, spesso sovrapponendosi, alle sue
esperienze come individuo e come membro della societ. Il tipo di
rapporti che ha instaurato con gli altri membri del gruppo condiziona la
sua esecuzione al pari della sua competenza musicale. L'interazione che
avviene tra i vari musicisti crea un ambiente che cambia in
continuazione, all'interno del quale ognuno deve operare delle scelte per
inserire il proprio intervento, pronto a reagire ad ogni stimolo e ad ogni
situazione, siano essi positivi o negativi. In questo ambiente, i musicisti
devono trovare lo spazio per manifestare la propria individualit
creativa, attraverso una ricerca continua del "proprio suono" ("il tuo
suono la tua impronta digitale", mi ha detto una volta un batterista
americano) e del proprio personale linguaggio musicale. E tutto questo
avviene nell'immediatezza del momento, l'istante contingente in cui si
dispiega la "magia" dell'improvvisazione.
Questa ricerca rappresenta il mio modesto contributo al tentativo di
raccontare la ricchezza e profondit di significati che si cela dietro una

144

performance jazz. Quella stessa ricchezza che la musica ha il potere di


rivelare a chiunque senza nemmeno dover ricorrere alle parole.

145

146

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