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M A R I A E M A N U E L A R A N D A Z Z O

L’OMBRA E LA GRAZIA.
I METAXÙ DI SIMONE WEIL

“La creazione è provocata dal moto discendente della pesantezza, dal


moto ascendente della grazia e dal moto discendente della grazia alla
seconda potenza”.

Pensiamo per un sol secondo alla parte più oscura, caotica, indistinta,
mescolata della materia, al dionisiaco, alla Nύξ più lunga che possa
esistere, alla pesantezza dei corpi che si oppone manicheisticamente
alla parte più chiara, iridescente, formata, apollinea, alla lievità del
giorno più pacifico, serafico che possa esservi. Secondo la Teogonia di
Esiodo la Notte aveva generato tre figli (ed altri): i primi due Αἰθήρ ed
Ἡμερα , ovvero la luce e il giorno, contrapposti a θάνατος, la morte.

Meditiamo, dunque, su degli enti capaci di nutrirsi essenzialmente di


luce: tali esseri vivranno in uno stato di grazia. Meditiamo su degli enti
capaci di nutrirsi essenzialmente di ombra: tali esseri vivranno in uno
stato di dissolutezza. La creaturalità, nella sua interezza, totalità è
parcellizzata: si palesa un’anima retta da leggi analoghe a quelle della
pesantezza materiale.
Riflettendo sulla natura umana e la misticheggiante tensione, quasi
avvertita come necessaria, alla alterità divina, Simone Weil, tra il 1940 e
il 1942, comincia una disamina diffusa, nelle pagine del suo diario
personale, di questioni dall’eminente carattere religioso-filosofico.
Negli anni della composizione studia il sanscrito e affronta lo studio
delle Upanishad.
Le pagine sono ricche di suggestive metafore-sentenze e di riferimenti a
culture, società e tradizioni diversificate; queste si intrecciano con
continui andirivieni temporali. Lungi dall’essere un mero sfoggio del suo
eclettismo, di una narcisistica esibizione della sua erudizione, gli scritti
in questione sono emblema di una sublimazione in vista di un unico
traguardo: l’interpretatio sovrannaturale di ciò che è naturale.

Nella visione di Simone Weil, due forze imperano sull’universo: la luce e


la pesantezza. Così bisogna pregare, soffrire, patire, portare la croce,
accettarla, fare silenzio, partecipare al cosmico lamento: sembra a tratti
di leggere Kierkegaard. Scottanti, crude sono le parole usate.

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Ci esorta all’agonia che è “la suprema notte oscura, della quale anche i
perfetti hanno bisogno per l’assoluta purezza. Per questo meglio che sia
amara” (Weil, 2011).

La vita è abbandonata alla dismisura e la filosofa vuol porre la misura, il


métron (Μέτρον ἄριστον, “la misura è la miglior cosa” – massima
attribuita a Cleobulo) in un Israele insozzato e atroce, tale a partire da
Abramo, ad eccezione di qualche autentico profeta, in un Israele eletto
per poi essere quel che è stato: il carnefice di Cristo. La giustizia deve
essere applicata in una Roma qual “grosso Animale dal carattere ateo,
materialista, che adora soltanto se stesso” (Weil, 2011).

La vita è abbandonata alla dismisura e la filosofa vuol porre la misura, il


métron (Μέτρον ἄριστον, “la misura è la miglior cosa” – massima
attribuita a Cleobulo) in un Israele insozzato e atroce, tale a partire da
Abramo, ad eccezione di qualche autentico profeta, in un Israele eletto
per poi essere quel che è stato: il carnefice di Cristo. La giustizia deve
essere applicata in una Roma qual “grosso Animale dal carattere ateo,
materialista, che adora soltanto se stesso” (Weil, 2011).

In un quadro siffatto, il dolore morale conducente alla morte, salva


l’esistenza, è battesimo, pura redenzione dal declino, è essenza
dell’innocenza dello stato di natura pre-lapsaria. Ma essere innocenti
non vuol dire esser felici: significa sopportare il peso di tutto l’universo,
gettando un contrappeso.
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Usciamo dalla caverna, come ci suggeriva già Platone, per stare dentro e
fuori come la Weil (cristiana nel profondo del cuore ma fedele di fatto
agli atei suoi amici e alla grecità), attraverso l’esercizio filosofico che ci
insegna a morire ogni giorno. Attraverso la prece riflessiva si coglie la
perpetuità che ci strappa, fino all’eternità.

Veniamo purificati nell’accettare la morte in quanto simbolo del


distacco totale (ormai avvenuto): la mortificazione del sé, la perdita
dell’egoità (“Ichheit” direbbe Fichte), per eliminare l’epigonia. La miseria
degrada: permette che io sia io. Ma nell’io non v’è alcuna fons
energetico-vitale alla quale si può giungere. Non è necessario pertanto
distruggere, piuttosto discreare, non portare dall’essere al non-essere,
quanto passar dal creato all’increato. Bisogna sradicarsi sia socialmente
che vegetativamente. Ma d’altronde cosa siamo? Siamo una
piccolissima parte che deve imitare (e sussistere con) il tutto.

Ebbene, l’anima del mondo: lo spirito che permea l’Universo, quello


spirito dal quale siamo tratti e con il quale dovremmo vivere in
comunione, in una forma di panismo. “L’atman. Che l’anima di un uomo
prenda per il corpo tutto l’universo” (Weil, 2011).

Se dovessimo, poi, distruggere qualcosa, qual sarebbe considerata


sacrilega nella medesima azione? Non di certo ciò che è infimo poiché
non ha valore alcuno. Nemmeno ciò che è supremo perché non lo si può
nemmeno tangere. È sacrilego distruggere i metaxù, qual motivo
dell’esistere stesso del bene e del male. I veri beni sulla Terra sono
metaxù. Un qualsivoglia uomo che ne sia privato, non si sentirebbe
nemmeno più un uomo. Ma cosa sono i metaxù? Materialità
appartenenti all’umana specie che apportano benessere: le case, le
culture, le tradizioni. Ma il temporale non acquista senso se non
mediante lo spirituale: ecco la chiave di volta. Non limitiamoci alle cose,
squarciamo il velo che vi si trova accanto, ed attingiamo alla suprema
sorgente: quel Dio che dobbiamo amare, nel dolore, nell’angoscia, nel
tormento, per ottenere, accedere all’immortalità.
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Il processo, dal carattere ambiguo, che gode della polarizzazione di
amore e sofferenza, condurrà l’uomo al divenire, atto della
fenomenologia trattata: sol in tal modalità si schiuderà innanzi a lui
l’incommensurabile, l’alfa e l’omega, l’infinito.

Riferimenti
Weil, Simone. 2011. L’ombra e la grazia (1940-42). Milano: Bompiani.

DOI 10.17605/OSF.IO/9EUB8

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