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LA PERCEZIONE

Lezione del Dott. Panzera Fernando del 15.04.11

Buonasera a tutti, benvenuti a questa impegnativa lezione che ci terrà insieme per un
bel po’ di tempo.

Come sapete il tema di oggi è: la percezione, argomento obbligato per ogni corso di
psicologia che si rispetti e insieme argomento di grandissima complessità per le
molteplici questioni che ci costringe ad affrontare da tempi antichissimi.

Il tema della percezione si fonde infatti in molti casi strettamente al tema della
conoscenza e in generale al tema più vasto del nostro rapporto con la realtà.

Per rendere poi ancora più complessa ma certamente anche molto affascinante la
comprensione di questa attività possiamo aggiungere che la percezione, in quanto
strettamente legata al funzionamento degli organi di senso, ha un ovvio fondamento
neurofisiologico e si svolge quindi nella delicata zona di confine tra fisico e psichico
sfidando la nostra capacità di tenerli insieme oppure cadere nella scissione o
separazione tra “res cogitans” e “res extensa” che Cartesio ha formalizzato nel 1600.

Premesso che non seguirò uno schema canonico nel trattare questo argomento e le
patologie relative, entro subito nel vivo della questione.

Molte sono le definizioni possibili per questa attività, si può dire che è una attività
psichica complessa che viene dopo la sensazione, oppure che è un momento di
conoscenza che integra sensibilità ed esperienza, o la si può definire in altri modi.

Io per iniziare ho preso la definizione da un testo di psichiatria piuttosto diffuso, il


Sarteschi, che la definisce così:

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Slide 1 la percezione

La percezione
• La percezione è una attività psichica
complessa atta ad integrare le sensazioni
attuali elaborate dagli organi di senso, con
l’esperienza appresa. E’ quindi una attività
conoscitiva, in parte a carattere ricettivo in
parte costruttivo , che consente di cogliere la
realtà e di strutturarla sulla base dei dati
dell’esperienza

Ho scelto questa definizione per alcuni punti che vengono sottolineati e che mi
sembrano importanti:

1) l’aver attribuito alla percezione un carattere in parte ricettivo e in parte


costruttivo perché è un punto fondamentale su cui torneremo,

2) il considerarla una attività conoscitiva, cioè percepire non è banale


registrazione di dati

3) e infine per una cosa che, a mio parere giustamente, non è presente in questa
definizione mentre si ritrova quasi sempre nelle altre, e intendo riferirmi al
fatto che non c’è in questa definizione alcun riferimento ad una attività della
coscienza, cosa che ci lascia liberi di ipotizzare e cercare una partecipazione
dell’inconscio.

Dopo queste piccole premesse facciamo per nostra comodità e per chiarezza una
precisazione e cerchiamo di distinguere dalla percezione la sensazione che può
essere considerata invece:

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slide 2 la sensazione

La sensazione
• Un processo elementare non elaborato
psichicamente, prodotto dalla interazione tra
stimolazioni del mondo esterno e organi di
senso specifici.

Dunque distinguiamo l’una dall’altra per un certo lavoro di interpretazione o


elaborazione psichica che trasformerebbe la sensazione in percezione.

La sensazione può dunque essere considerato un processo più elementare della


percezione anche se nel linguaggio comune spesso i due termini sono usati come
sinonimi.

Torniamo adesso alla nostra definizione e cerchiamo di sviluppare meglio i punti che
la costituiscono cominciando dal primo

Come ricorderete vi ho fatto notare che viene attribuito alla percezione un carattere
recettivo e costruttivo insieme, cosa che la rende estremamente complessa e con la
prossima diapositiva vi mostrerò come questi siano temi e questioni centrali
affrontati già molto tempo fa e ancora oggi molto attuali.

Slide 3 Pitagora e Democrito

Due teorie
• Pitagora (570-490 a.c.): piramide visiva,
raggi emessi dall’occhio, teoria emissionista

• Democrito (460-370 a.c.): éidola che


raggiungono gli occhi, teoria immissionista

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Direi che è facile ritrovare nella estrema sintesi delle diapositive dei nessi con le
teorie attuali, ma visto che è evidente che siamo di fronte ad una ricerca molto antica
potrebbe essere interessante ricostruire una piccola storia del pensiero e delle ipotesi
che sono state formulate sulla percezione che, per quanto lontane, hanno lasciato
tuttavia delle tracce leggibili.

Premesso che da sempre l’aspetto più studiato di questo fenomeno è la percezione


visiva e che anche io le darò un particolare risalto, risalendo all’indietro troviamo
appunto tra i primi a occuparsene, o per meglio dire tra i primi di cui abbiamo
testimonianze, i filosofi greci che si appassionarono molto al problema e da subito
furono di fronte alla grande dicotomia che poi abbiamo ritrovato nella sua essenza
direi fino ad oggi.

Il grande Pitagora, (570-490 a.c.) matematico insigne, e dopo di lui Euclide, padre
della geometria che porta il suo nome ipotizzarono che la visione avvenisse grazie a
dei raggi che partendo dall’occhio colpivano gli oggetti, dall’urto dei raggi con gli
oggetti scaturiva la visione e l’occhio era come il vertice di una piramide visiva
dunque misero l’accento sulla attività del soggetto che emetteva questa specie di
propaggine.

Poco dopo invece Democrito (460-370 a.c.), fondatore della scuola atomista,
propose una teoria esattamente contraria e anche un po’ più complicata perché
partendo dalla sua teoria in base alla quale la materia è costituita da piccole particelle
dette atomi, immaginò che gli oggetti emettessero in continuazione come, potremmo
dire oggi, immagini di se, come se perdessero una pellicola che li rivestiva, che però
ne manteneva forma e colore, queste immagini dette èidola entravano negli occhi
attraverso la pupilla ed entravano in contatto con l’anima vegetativa e sensitiva.

Dunque esplorazione contro ricezione, questi due aspetti che io vi ho proposto


affiancati, per lungo tempo furono contrapposti con grandi polemiche tra i sostenitori
dell’una o dell’altra ipotesi.

Questo infatti sarà per molti secoli il centro del dibattito sulla percezione e sulla
visione in particolare, e a dirla tutta, ancora oggi si possono percepire echi di quella
questione nel grande confronto che si svolge tra chi cerca di comprendere certi
processi attraverso i progressi spettacolari della neurofisiologia e chi piuttosto dà più
importanza e tenta di fare una ricerca sulla attività psichica che si svolge nel processo
percettivo. Cercheremo di tornare su questo ma per ora dobbiamo andare oltre
Democrito e Pitagora .

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Con un salto di quasi cinque secoli arriviamo a 129 d.c. anno di nascita
approssimativo di Claudio Galeno, il più grande medico dell’antichità che è
originario di Pergamo, in Turchia. Galeno non si limita a formulare ipotesi
speculative ma, partendo da una impostazione medica molto simile a quella attuale,
si applica ad una continua ricerca anche attraverso la dissezione che pratica prima di
giungere a Roma dove è proibita.

Grazie a questo, propone un modello anatomico dell’occhio e una teoria della visione
che dureranno nella sostanza fino al 1500.

Slide4 Galeno

Claudio Galeno 129-216


• “un corpo che viene visto fa una di due cose:
o manda qualcosa da se stesso a noi e quindi
dà una indicazione del suo carattere
peculiare, oppure (…) resta in attesa che
qualche forza sensoriale arrivi ad esso da noi”

La teoria di Galeno, intelligentemente, è una mediazione tra le due precedenti, ma


soprattutto grazie alle sue conoscenze di anatomia, Galeno comincia un percorso, che
sposta lentamente il fulcro della visione dall’occhio al cervello, uno spostamento di
circa venti centimetri per il quale ci vorranno quasi duemila anni.

Dopo Galeno per trovare una evoluzione della ricerca bisogna aspettare circa 800
anni e arrivare intorno all’anno mille. In quest’epoca mentre l’Europa è in pieno
medioevo e in molti si preparano alla possibile fine del mondo, attesa appunto per
l’anno mille, il mondo arabo sperimenta una grande fioritura in campo scientifico e
culturale.

In particolare vengono copiate e tradotte molte opere della tradizione greco-romana


tra cui appunto le opere di Galeno e da esse si riparte per giungere a nuove
conoscenze, Hunain Ibn Ishak siriano vissuto nell’ 800, scrive un mirabile “Trattato
sull’occhio, le sue malattie e le sue cure” e riparte appunto dalla teoria di Galeno.
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Slide 5 Hunain

L’occhio secondo Hunain Ibn Ishak


(809-873)copia del 1200
dell’originale dell’anno 1000 circa

A guardare bene si può vedere all’interno dell’occhio lo spirito visivo pronto a


raccogliere le immagini provenienti dal mondo

Se mi domandate cosa è lo spirito visivo vi dico che la realtà a quei tempi veniva
spiegata in un modo abbastanza semplice, esistevano infatti solo quattro elementi
fondamentali: acqua, aria, terra, fuoco che combinandosi davano origine ad ogni
sostanza.

Nel corpo umano poi si distribuivano quattro umori: sangue, flemma, bile gialla e
bile nera e si muovevano tre spiriti: lo spirito naturale per la produzione del sangue e
la nutrizione, lo spirito vitale per il calore e la circolazione e lo spirito animale per la
sensibilità e il movimento.

Per spiegare la sensibilità si immaginava che lo spirito vitale salisse col sangue verso
il cervello diventando etereo, qui diventava spirito animale entrava nei nervi e
finalmente si trasformava in spirito olfattivo uditivo e visivo.

Questo livello di conoscenza non cambia sostanzialmente fino al Rinascimento, ed


anzi condiziona una evoluzione possibile perché mentre l’anatomia fa un gran passo
avanti con Andrea Vesalio (1543, De humani corporis fabrica) medico
dell’imperatore Carlo V, lo stesso Vesalio è molto scadente nella sua rappresentazione
dell’occhio.
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slide 6 Vesalio

L’occhio secondo Vesalio (1543)


anatomicamente è simile a quello di

Dimostrandoci che una ideologia o un preconcetto possono alterare anche


l’osservazione diretta della realtà, nell’occhio di Vesalio i nervi sono ancora cavi e il
cristallino e il nervo ottico sono allineati contro ogni evidenza e il cristallino è al
centro.

Comunque i tempi sono maturi e con il ‘600 e il grande rinnovamento delle scienze
che viene da Galileo e Keplero si affina il metodo sperimentale e almeno l’anatomia
dell’occhio viene definita con esattezza.

Mentre i medici studiano il corpo e il cervello in particolare, altri pensatori si tentano


di rispondere a domande difficili senza sbirciare nel cervello altrui ma piuttosto
usando il proprio, i medici osservano e i filosofi riflettono.

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Cartesio in particolare propone un sua idea della percezione visiva che parte
ovviamente dalla sua concezione filosofica che ha come cardine il concetto di
dualismo o forse si potrebbe dire di scissione, tra mente e corpo che sono considerate
sostanze così diverse da escludersi a vicenda. Il corpo umano dice Cartesio è
sostanzialmente una macchina come quello degli animali dotato però di un principio
intellettuale, ma il grave problema di questa affermazione era trovare il punto in cui
le due sostanze venivano in contatto in modo da produrre rapporto con il mondo e
conoscenza dello stesso.

In sostanza Cartesio si domandava a chi la macchina fisiologica consegnasse la sua


esperienza del mondo e in che modo.

Cartesio risolse il problema attribuendo alla ghiandola pineale, (epifisi melatonina,


serotonina) la funzione di punto di passaggio o di comunicazione e affermando che
dagli occhi, attraverso i nervi cavi giungono ad essa dei tenui stimoli che mettono in
movimento gli spiriti animali che formano delle tracce nel cervello (Traitè de
l’homme 1633).

Slide 7 Cartesio

Schema della visione secondo


Cartesio (1633)

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Le ipotesi di Cartesio comunque sono fragili già quando vengono formulate e saranno
ben presto superate, dal progredire della medicina.

Altri filosofi si cimenteranno poi nell’impresa di comprendere il processo percettivo


ma un passo decisivo nella costruzione di un nuovo metodo di indagine verrà con
l’illuminismo e il positivismo che di lì a poco lo seguirà.

Con queste due grandi correnti di pensiero si stabilirà la netta separazione tra le
scienze umane e le scienze positive.

Queste ultime sembreranno in grado di offrire un progresso illimitato e con i primi


anni dell’8oo si sviluppano in particolare in Germania e Austria delle vere e proprie
scuole da cui prenderanno avvio sia la moderna fisiologia sia la psicologia come
scienza. In particolare nel 1833 Johannes Muller pubblica a Berlino il suo Manuale di
fisiologia umana, non molto tempo dopo nel 1870 Wilhelm Wundt che è stato suo
allievo scrive il suo Manuale di psicologia e apre nell’università di Lipsia il primo
laboratorio di psicologia. Gli studi sulla percezione saranno, a partire da questo
periodo oggetto di queste due discipline: neurofisiologia e psicologia sperimentale.

Ora però prima di abbandonare questa parte storica e dedicarci a cose più attuali,
farei, se me lo permettete, una piccola osservazione: come vi ho appena detto, dato
che la filosofia non poteva tenere il passo delle scienze sperimentali, lo studio della
percezione è diventato compito sostanzialmente della neurofisiologia e della
psicologia sperimentale.

Scienze diverse che hanno però in comune il metodo sperimentale come strumento di
ricerca, cosa ovvia per la neurofisiologia ma non così ovvia per la psicologia per la
quale il problema del metodo è una questione che direi non risolta.

Spezzettare l’unitarietà degli eventi affettivi e psichici per adattarli a


sperimentazione, misurazione e ripetibilità potrebbe dare risultati discutibili.

Comunque lasciamo gli psicologi ai loro problemi e seguiamo piuttosto i neurologi


in una breve e per quanto possibile semplice descrizione del processo fisiologico
della visione come lo conosciamo oggi.

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Slide 8 L’occhio

Struttura semplificata dell’occhio con


ingrandimento della retina

Questo è uno schema dell’occhio e della retina. Come potete intuire la luce entra dal
foro pupillare, attraversa il cristallino e il bulbo che è pieno di una sostanza
trasparente detta umor vitreo che nella diapositiva è rappresentato in rosso e
raggiunge la retina che tappezza tutto il bulbo oculare. A partire da questo punto
inizia la parte realmente complessa della visione che è all’inizio un fatto
essenzialmente fisico.

Intanto potete notare subito una particolarità: se guardate con attenzione


l’ingrandimento della retina osserverete innanzitutto che è composta da più strati di
cellule, per la verità sono più di quanti se ne vedono nella diapositiva, e questo ci
dice una prima cosa abbastanza importante e cioè che la retina ripete sostanzialmente
la struttura a strati della corteccia, tanto che qualcuno sostiene che la retina è una
parte di corteccia modificata.

Dunque una struttura complessa che svolge già un importante lavoro di elaborazione
dello stimolo.

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Poi , ma questa è solo una curiosità, al contrario di come si potrebbe pensare, la parte
sensibile composta da coni e bastoncelli, è la parte più esterna anzichè quella
direttamente esposta alla luce.

Ad ogni strato di cellule, corrisponde una classe di neuroni con compiti specifici che
interagiscono tra loro e con lo strato sovrastante e sottostante, per intenderci solo i
coni che sono elementi abbastanza semplici sono divisi in tre tipi sensibili al rosso,
verde e blu e dalla loro interazione viene tutta la gamma di colori che vediamo, altre
cellule sono specializzate nell’individuare il movimento, i contorni, il contrasto e
altre caratteristiche che dobbiamo trascurare.

L’immagine comunque, già elaborata in parte, viene trasmessa lungo i prolungamenti


delle cellule che formano il nervo ottico e giunge ad un primo passaggio, una prima
stazione per così dire, un ganglio detto corpo genicolato, qui viene ulteriormente
modificata e dopo altri passaggi riparte per giungere alla sua meta la corteccia
occipitale o corteccia visiva.

Slide 9 vie ottiche e corteccia visiva

Schema delle vie ottiche e della


corteccia visiva

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In questa parte della corteccia, che per inciso ha uno spessore che varia tra due e
quattro millimetri, si svolge infine la parte fondamentale, in senso strettamente
neurologico, del processo visivo. La complessità di questo foglietto di tessuto
nervoso è veramente troppo grande per entrare nei dettagli ma alcune cose si possono
accennare. Prima fra tutte è una considerazione che viene dall’anatomia comparata,
che ci dice che l’uomo è per così dire, un animale visivo. Cioè nell’uomo la vista è
sviluppata e specializzata come in nessun’ altra specie. La seconda è che questo ha
fatto sì che la nostra corteccia visiva rivesta più del cinquanta per cento del cervello e
sia suddivisa in aree con compiti diversi che interagiscono fra loro. Nella diapositiva
potete vedere come se ne contino almeno otto con alcune funzioni accennate, ma in
verità si può arrivare fino a trenta e oltre. Ci sono cellule specializzate per le forme, i
colori, i margini, il movimento, forme geometriche semplici e addirittura forme
complesse come i volti o parti del corpo come la mano.

Il progredire delle scoperte relative alla specializzazione dei neuroni è stato ed è così
ricco di sorprese da far dire ai ricercatori che si aspettano di trovare da qualche parte
la cellula della nonna.

Dalle aree visive primarie e secondarie che riconoscono e definiscono la realtà così
come noi ce la rappresentiamo partono poi una grande quantità di connessioni
neuronali che connettono la corteccia visiva con le cosiddette aree associative, i lobi
frontali e prefrontali e altre aree non ben delimitate dalle quali si suppone dipenda
l’aspetto cognitivo ed affettivo-emotivo della visione. Cioè ciò che la rende per noi
significativa e che la rende presumibilmente diversa da quella animale.

Detto questo però dobbiamo fermarci a riflettere, perché anche se sappiamo,


beninteso solo in parte, come e dove il nostro cervello forma le immagini ci resta da
capire in un certo senso chi è che guarda le immagini, cioè come le immagini
vengono utilizzate, come vengono organizzate, che fine fanno e perché a volte si
alterano, non ci dicono nulla o ci dicono cose sbagliate. Bisogna andare oltre il lavoro
dei neurologi e tornare in un certo senso all’antica questione tra Pitagora e
Democrito, tra teorie emissioniste più attente all’attività del soggetto e teorie
immissioniste più orientate su un processo se non proprio passivo quanto meno
meccanico.

Avevamo lasciato i primi psicologi alla fine del 1800 alle prese con la nascita di una
nuova scienza e proviamo a ripartire da lì premettendo e promettendo che il nostro
sarà un percorso a grandi salti.

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Slide 10 Helmholtz

Von Helmholtz 1821-1894


La legge causale è alla base della
conoscenza e della percezione essa
determina delle inferenze inconsce
che organizzano i dati sensoriali

Uno dei primi moderni scienziati che formula una teoria sulla percezione è Hermann
Von Helmholtz (1821-1894), che propone in verità una teoria più generale della
conoscenza da cui deriva in seconda battuta il suo pensiero sulla percezione.
Helmholtz è considerato il padre dell’empirismo cioè di una teoria in base alla quale
la conoscenza si realizza attraverso l’esperienza e infatti ipotizzò che un oggetto
percepito non fosse altro che un insieme di sensazioni che si organizzano in base alla
esperienza passata in quanto quelle sensazioni sono sempre state legate a
quell’oggetto o ad altri oggetti simili. Per meglio dire, le esperienze precedenti
determinano nel processo percettivo delle “inferenze inconsce” che correggono e
migliorano la percezione.

Le inferenze inconsce sono possibili in quanto il nostro pensiero si organizza a partire


da un principio che è da considerare innato, questa è l’unica concessione
all’innatismo, e questo principio è il principio di causalità, la legge causale è una
legge trascendentale e inderivabile da essa discendono tutti i principi che organizzano
il nostro sapere.

Se me lo permettete vi faccio osservare che questo concetto di apprendere


dall’esperienza è sicuramente interessante ma ha una falla, un punto debole, di cui
peraltro Helmholtz era consapevole: questo tipo di rapporto con la realtà si basa come
potete capire sulla regolarità, ciò che è accaduto accadrà ancora, dunque posso
comprendere la realtà perché ne ho esperienza, ma è impotente di fronte al nuovo.

Diceva Helmholtz che in un universo irregolare il nostro pensiero sarebbe rimasto


inerte.

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Questo però ci pone un problema: come facciamo con i rapporti interumani che sono
massimamente irregolari specialmente tra esseri umani diversi? Dobbiamo rinunciare
alla conoscenza o cercare altri modi? Helmholtz sembra non si sia pronunciato ma
attenzione perché questo metodo avrà molti proseliti.

Tuttavia non soffermiamoci troppo, dopo l’empirismo di Helmholtz andiamo a


curiosare in un’altra teoria di segno opposto cioè una teoria che attribuisce
importanza proprio a principi innati che danno un senso alla percezione: la teoria
della Gestalt che significa teoria della forma.

Slide 11 spiegare il triangolo (legge della buona forma) di Kanitza

La Gestalt
La Gestalt ritiene che i
processi percettivi siano
guidati da principi innati che
danno un senso alla
percezione

La Gestalt nasce a partire dagli studi di Wertheimer, Kholer e Koffka del 1921 e in
particolare dalle osservazioni di Wertheimer riguardo al fenomeno che è alla base
della più comune delle illusioni ottiche : il cinema, che come sapete non è altro che
una sequenza di immagini fisse che, messe in rapida successione, danno l’illusione
del movimento. Wertheimer studiò e stabilì l’intervallo minimo di tempo perché si
verificasse la sensazione del movimento e questo movimento illusorio delle immagini
fu chiamato movimento phi. A partire da questa osservazione egli pensò che
esistessero nell’ uomo uno o più criteri o leggi che modificavano la realtà per renderla
comprensibile.

Effettivamente poi dopo questa prima intuizione molte altre “leggi di organizzazione
della forma“ furono scoperte e poste come principi fondamentali della percezione e di
seguito ne potete vedere alcune.
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Slide 12-13-14 leggi della gestalt

Legge della vicinanza


gli elementi del campo percettivo vengono uniti
in forme con tanta maggiore coesione quanta
minore è la distanza fra loro

Legge della somiglianza


gli elementi vengono uniti in forme con tanta
maggior coesione quanto maggiore è la loro
somiglianza

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Legge del destino comune
gli elementi che hanno un movimento solidale
fra loro e differente da quello degli altri elementi
vengono uniti in forme

Attraverso questi principi i gestaltisti tentarono di costruire un approccio alla mente


diverso da quello che andava affermandosi all’epoca fondato sull’elementarismo e il
comportamentismo derivati dall’empirismo che invece tendevano a individuare gli
elementi semplici alla base della organizzazione della mente.

Il concetto base della Gestalt, peraltro validissimo, era infatti che un insieme è molto
di più della somma delle sue parti e quindi la conoscenza di una forma come di una
musica non si poteva ridurre alla conoscenza delle singole linee o note.

A mio parere da queste premesse la Gestalt non sviluppò però una ricerca fruttuosa
finendo col cercare di formulare un numero sempre maggiore delle sue leggi
attraverso la utilizzazione proprio di quel metodo sperimentale che pensava di
superare.

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In un certo senso la Gestalt si perse proprio per aver smarrito l’idea di unitarietà da
cui era partita e dopo un periodo di grande successo e dopo aver dato origine ad una
scuola di psicoterapia, fu alquanto ridimensionata.

Arrivando ai nostri giorni tuttavia le scoperte più recenti hanno molto superato la
antica contrapposizione tra correnti di pensiero proponendoci un processo percettivo
umano in cui ciò che è innato e ciò che è acquisito si integrano e si adeguano
continuamente alla realtà e tutte le strutture preposte alla visione pur partendo da
una base genetica e quindi da risposte innate si organizzano progressivamente con l’
uso cioè con l’esperienza così come si alterano e si degradano se non vengono
utilizzate.

In particolare nella formazione e organizzazione del nostro sistema percettivo grande


importanza ha la attivazione delle connessioni neuronali che restano altrimenti non
efficienti.

Queste connessioni cominciano a funzionare e ad assumere una organizzazione


generale già nella vita fetale attraverso una attività autonoma basale, ma è solo al
momento della nascita che il sistema acquisisce rapidamente una architettura
definitiva in particolare per ciò che riguarda la corteccia visiva che è fondamentale
nell’uomo sia nella attività percettiva che in quella immaginativa.

Questo vuol dire che con la nascita noi acquisiamo sia la capacità di vedere che
quella di immaginare essendo nella nostra specie queste due attività strettamente
correlate sia dal punto di vista neurologico che da quello psichico. Per dirla altrimenti
nell’uomo le stesse aree corticali sono interessate sia nella visione che nella
immaginazione e nel ricordo.

Tuttavia, arrivati a questo punto, dobbiamo riflettere su quanto detto per le


conseguenze che può avere sul nostro discorso.

Dire che capacità di vedere e di immaginare sono nell’uomo strettamente collegate


potrebbe esserci utile infatti per cercare di capire quella caratteristica speciale che gli
uomini hanno e che gli animali certamente non hanno.

Gli esseri umani hanno usato infatti le loro capacità non solo per comprendere la
realtà materiale e sfruttarla per la sopravvivenza ma, da un certo punto in poi, hanno
scoperto o inventato qualcosa di unico cioè hanno attribuito a forme, colori, o
oggetti un valore o se volete un senso stabilendo una differenza fondamentale con
una loro situazione precedente.

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Questo evento che ci è testimoniato dalla comparsa delle prime produzioni artistiche
si può collocare tra i 40.000 e i 50.000 anni fa e segna un punto fondamentale della
evoluzione.

In poche parole, i nostri progenitori scoprirono che le cose possono essere qualcosa di
altro o di più rispetto a ciò che sono, cioè attribuirono alla forma di un oggetto o di un
segno un senso che prima non vedevano o se volete “immaginarono” che un oggetto
fosse qualcosa altro, e nell’immaginarlo e probabilmente anche questa fu una
scoperta sensazionale, scoprirono anche che questo oggetto provocava una
emozione.

Dobbiamo pensare che negli animali invece un oggetto non possa essere altro che ciò
che è, e se è o sembra qualcosa di altro, se un pezzo di legno sembra un topo questo
è solo un errore di valutazione.

Slide 15 il toro

“Questo non è un toro“


autore sconosciuto circa 15000 anni

Questo è un dipinto preso tra i tanti trovati nelle grotte di Lascaux e come vedete ho
messo a questa diapositiva un titolo alquanto provocatorio prendendolo a prestito da
un’opera di Magritte che vi mostro subito.

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Slide 16 la pipa

“questa non è una pipa”


Magritte 1953

Mi sono permesso questo accostamento per tentare di spiegare cosa intendevo


dicendo che dei primitivi avevano attribuito un senso a degli oggetti o a dei segni.

Pur non essendo un critico d’arte credo di poter dire che Magritte , grande esponente
del surrealismo, una corrente artistica dei primi del ‘900, con questo quadro voleva
dire che la rappresentazione di un oggetto indica sempre qualcosa di più dell’oggetto
stesso o della sua riproduzione più o meno esatta ed in questo senso la
rappresentazione si stacca anche dall’oggetto stesso per cui un’opera rimanda
necessariamente ad un “vedere oltre” che ogni artista cerca naturalmente a suo modo,
e questo oltre è per l’appunto un senso o una qualità invisibile della realtà che gli
uomini colgono e su cui tentano una ricerca.

Potremmo supporre che questa qualità invisibile che gli artisti intuiscono e cercano di
esprimere sia un qualcosa che solo gli esseri umani cercano.

L’ignoto o la ignota artista di Lascaux senza fare alcun pensiero sull’arte


evidentemente ad un certo punto non si interessò al toro che probabilmente aveva
spesso davanti, ma piuttosto volle sperimentare quella specie di magia per cui una
linea su una parete di roccia poteva essere chiamata come l’animale che aveva
cacciato anche se ovviamente non c’era nessun toro ma solo linee sulla roccia.
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E così possiamo dire con Magritte che quello non è un toro ma la rappresentazione di
un toro che ha il senso di farci pensare al toro ma anche a ciò che l’autore ha voluto
esprimere, al suo rapporto con la realtà in cui viveva e in ultima analisi a questa
capacità di rappresentare o di immaginare che noi abbiamo e che si lega direttamente
dalla nostra capacità di vedere oltre che guardare la realtà.

E dato che abbiamo messo questa capacità di fare immagini alla nascita insieme con
l’inizio del processo della visione ipotizziamo che questo sia un fondamento della
nostra identità e che ci differenzi dalle altre specie animali.

Ora questa è certo una affermazione molto forte che va sostenuta adeguatamente, e
allora per riuscire a spiegarmi proverei a cambiare radicalmente il punto di
osservazione parlando di percezione non come fenomeno fisiologico ma nelle sue
manifestazioni patologiche.

Cercando dunque attraverso la percezione alterata dei malati di individuare cosa


manca a questi pazienti che non si può assolutamente perdere.

Per sostenere il mio discorso però, e anche per avviarmi verso una conclusione
possibile di questa lezione, non mi soffermerò su tutta una serie di disturbi percettivi
che sono chiaramente interpretabili come effetto di lesioni neurologiche, perché
considero che, pur essendo a volte particolarissimi, e certamente fonte di curiosità
(ricorderete il libro di Oliver Sacks “L’uomo che scambiò sua moglie per un
cappello”), questi sintomi o disturbi sono da considerare sostanzialmente come
impedimenti meccanici alla percezione, poco più complessi di quanto non potrebbe
essere una lesione oculare che riduca la vista.

Per capirci sto parlando di tutta la serie delle agnosie che sono mancati
riconoscimenti di oggetti, forme, colori, o immagini note come i volti dei familiari
ognuna dipendente dalla lesione di una specifica area cerebrale,

e di tutta una sconfinata serie di disturbi neurologici con i corrispondenti problemi


percettivi .

Ritengo che queste patologie per quanto interessanti non riguardino tuttavia quel
particolare modo di percepire che solo gli esseri umani hanno realizzato e che in
sostanza si tratti di disturbi da cui possono essere affetti anche molti animali.

La mia intenzione è invece come avete ben capito di parlare di percezione nell’uomo
e di ciò che la rende unica e dunque dopo aver parlato della capacità di fare immagini
parlerò brevemente di un’altra particolarità che ci distingue dagli animali, e cioè la
possibilità di ammalarsi psichicamente.
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Dunque intendo concludere la lezione parlando di due patologie molto gravi,
strettamente legate in particolare alla schizofrenia ma anche ad altre gravi sindromi
psichiatriche, che si verificano ambedue in assenza di lesioni all’apparato sensoriale.

Vi parlerò quindi brevemente di percezione delirante e allucinazione escludendo però


dal discorso tutta la gamma delle allucinazioni dovute a intossicazione alcoolica o
all’uso di sostanze.

Iniziamo ancora una volta con una definizione.

Slide 17 Schneider percezione delirante

Kurt Schneider 1887-1967


Si parla di percezione delirante quando ad una
percezione reale viene attribuito, senza un
motivo comprensibile, (…)un significato
abnorme generalmente nel senso
dell’autoriferimento.

La prima osservazione che possiamo fare a partire dalla definizione di Schneider che
è degli anni ’50 del secolo scorso, è che si parla immediatamente di una percezione
reale. Per chi non abbia dimestichezza con la psichiatria potrà essere utile fare un
esempio: una percezione delirante può essere quando un paziente vede un segnale di
strada interrotta e immediatamente lui sa che quello vuol dire che la sua strada
finisce, che deve morire, un altro vede una bandiera ad una finestra, dunque siamo in
guerra, dovrà fare il soldato e così via.

La visione dell’oggetto e del contesto è perfetta il significato è del tutto folle.

I vecchi psichiatri attribuivano alla percezione delirante un valore particolare proprio


riguardo alla diagnosi di schizofrenia tanto che Schneider la mise tra i sintomi primari
di questa malattia e per spiegarla distinguevano nella percezione significato primario
e secondario.

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Il significato primario è legato alla realtà immediata dell’oggetto percepito, e dunque
il segnale di strada interrotta vuol dire senza dubbio che non si può passare, a questo
significato si aggiunge però un secondo significato, potremmo forse dire un senso, di
ciò che si osserva, che nel delirante e nello schizofrenico in particolare, compare in
modo del tutto incomprensibile.

Dove una persona sana percepisce, vede un cantiere e magari una difficoltà
nell’arrivare ad un appuntamento il delirante vede qualcosa di oscuro e minaccioso
riferito specificamente a lui.

Senza dilungarmi sulle molte sfumature interpretative di questa patologia e per


arrivare subito al punto che ritengo interessante per il nostro discorso utilizzerei per
continuare alcune osservazioni prese da un articolo scritto nel 1960 da Massimo
Fagioli.

Le caratteristiche che Fagioli individua nella percezione delirante sono


essenzialmente due come potete vedere

Slide 18 Fagioli percezione delirante

Aspetti della percezione delirante


(Fagioli 1960)
• Percezione nuova per aumento di significati
secondari deliranti

• Sensazione di psiche agente

E fra i tanti autori e le molte affermazioni esistenti, le ho scelte perché mi sembrano


importanti per sostenere il mio discorso.

Se infatti consideriamo queste due affermazioni troviamo che esse sottolineano due
punti fondamentali:

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1) prima di tutto che la percezione delirante è effettivamente un disturbo percettivo in
quanto la attribuzione di significato secondario fa parte nell’ uomo della attività
percettiva. Differenziandosi in questo da Schneider che pur chiamandola percezione
delirante la colloca tra i disturbi del pensiero.

2) che dietro questo disturbo c’è una difficoltà, una angoscia legata al rapporto
interumano.

Permettetemi di citare direttamente l’articolo per spiegare il secondo punto:

“Il soggetto non sa o non può vivere il mondo reale (...) L’urgenza di difendersi da
un mondo pauroso e minaccioso conducono il soggetto a reagire in maniera abnorme
con la creazione di nuovi significati. E c’è un’entità che agisce sul soggetto mediante
le cose e gli avvenimenti, entità umana o antropomorfa che viene avvertita dal
soggetto come agente su di lui.

La spiegazione di questo (...) è nel fatto che lo spostamento verso un altro mondo
parte dalla necessità di sfuggire ed evitare un mondo umano. Non sono le cose, non è
il mondo inanimato che è insopportabile ma il contatto con gli uomini. Nel nuovo
mondo (...) vengono istintivamente proiettate le entità sentite insopportabili e rese più
accettabili.”

Slide 19 corvi sul grano

Vincent Van Gogh


campo di grano con corvi 1890

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Dunque la percezione delirante ci parla di una crisi o fallimento nel rapporto
interumano, ambito specifico nel quale la acutezza percettiva, qualità fondamentale
per la sopravvivenza nel mondo animale, deve trasformarsi in sensibilità e fantasia,
qualità fondamentali per la realizzazione della nostra identità umana.

Lo schizofrenico che ha perso qualcosa che riguarda il rapporto interumano,


potremmo dire affetti e immagini, perde il rapporto fondamentale con la realtà, le sue
percezioni sono alterate.

Per quanto riguarda il nostro discorso possiamo dire che è da ipotizzare la perdita di
quella “qualità speciale” che gli uomini mettono nel percepire che io ho legato alla
nascita umana e alla capacità di immaginare.

Abbandonando ora il discorso sulla percezione delirante entro direttamente nell’altro


tema che voglio affrontare, l’allucinazione, mostrandovi un montaggio di alcune
scene prese dal Macbeth di Orson Welles, riduzione cinematografica della tragedia
shakespeariana.

Per quanti possono averlo dimenticato, l’opera narra del valoroso e nobile cavaliere
Macbeth , che si lascia ingannare dalla profezia delle streghe e, trascinato anche dalla
fredda determinazione della moglie compie una serie di crimini orrendi per diventare
re.

Il senso di colpa e il vuoto che sempre più li circonda porterà alla follia e alla morte
sia lui che la moglie.

Filmato su Macbeth 15 min.

Sperando che il mio montaggio non sia stato troppo duro per questo bel film di
Welles, riprendiamo i nostri temi.

E’ evidente che Macbeth, dal momento in cui decide l’omicidio di Duncan, si perde,
o per meglio dire si ammala.

Il senso di colpa lo consuma e le pretese spietate della moglie non fanno che
aumentare la sua sofferenza.

Perso, guastato, il rapporto con la realtà umana, sembra che anche il rapporto con la
realtà fisica sia alterato.

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Vede un pugnale che lo guida verso un delitto, vede una delle sue vittime che lo
guarda muto dal fondo del tavolo, in tutti e due i casi sembra dubbioso, in uno
potrebbe essere ubriaco. Dopo poco sente una voce che gli parla. Una angoscia
crescente lo divora.

Cosa succede?

Slide 20 l’allucinazione

Allucinazione
L’ allucinazione è stata definita percezione
senza oggetto.
Il soggetto percepisce con caratteri di
concretezza, di obiettività, di spazialità
sensoriale, oggetti, suoni, parole
assolutamente inesistenti vivendoli come
reali
La psichiatria ci dice che la allucinazione è un sintomo che si associa spesso a
fenomeni deliranti in particolare nelle psicosi . Le allucinazioni possono riguardare
come avete visto nel film tutti gli organi di senso, vista, udito e tutti gli altri e
certamente sono il primo e uno dei più studiati disturbi della percezione.

Possono essere di moltissimi tipi: semplici, complesse, funzionali e simulare le


sensazioni più strane.

Di tutta questa grandissima varietà che in alcuni libri è quasi imbarazzante, per la
verità resta poi poco passando alla clinica.

Le allucinazioni veramente significative per lo psichiatra sono infatti particolarmente


quelle uditive specie in forma di voci dialoganti e commentanti.

Ma detto questo dell’allucinazione sappiamo ancora ben poco.

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Soprattutto non sappiamo come risolvere questa contraddizione palese per cui in
assenza di un oggetto viene percepito un oggetto.

Se vogliamo provare a capire è evidente che dobbiamo ipotizzare che l’apparato


sensoriale non sia affatto coinvolto; questi malati travolti dai loro pensieri deliranti
mettono fuori di sé ciò che li turba, forse potremmo dire che immaginano ciò che
vedono e sentono.

Tanto da dover concludere in accordo con quanto scriveva Fagioli su Left della scorsa
settimana che la allucinazione propriamente è non un disturbo della percezione ma un
disturbo del pensiero.

Resta sia nella percezione delirante che nella allucinazione una gravissima difficoltà
nel rapporto con le immagini. Immagini alterate nel senso, o immagini totalmente
inventate per dare forma alle proprie angosce.

Forse a differenza del delirante che altera freddamente il senso della realtà,
l’allucinato tenta ancora con le sue fantasticherie di trovare il senso, ma è
evidentemente un tentativo fallimentare. Le sue rappresentazioni sono povere come il
suo pensiero e come i suoi rapporti.

Ora però siamo veramente alla conclusione e vorrei finire la lezione con una nota più
leggera utilizzando ancora un vecchio film nel quale una immaginazione un po’ fuori
dal normale mette in grave crisi le persone troppo normali.

Il film è Harvey e racconta di un uomo che ha per amico, o immagina di averlo, un


grande coniglio bianco, una creatura visibile solo a lui, buona e socievole.

Questa versione divertente e ingenua dell’ Idiota di Dostoevskij, racconta in modo


molto leggero di come un uomo che non abbia rinunciato al proprio io, alla propria
umanità, possa sembrare strano ai tanti che non riescono più a vedere l’invisibile.

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