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Camillo Benso conte di Cavour: biografia e pensiero politico

Camillo Benso conte di Cavour è senza dubbio uno dei personaggi più
significativi dell’Unità d’Italia. Uomo politico che, attraverso diversificate e ricche
esperienze in Europa, riesce a capire la necessità prioritaria di arrivare
all’unificazione di un paese diviso e afflitto da problemi economici e sociali.

Biografia di Camillo Benso conte di Cavour (riassunto)

Camillo Benso, secondogenito dei nobili marchesi di Cavour da generazioni


radicati a Torino, è figlio di un importante proprietario terriero che ricopre
periodicamente anche funzioni pubbliche. Il giovane Camillo abbandona presto la
carriera militare alla quale inizialmente viene destinato dalla famiglia per dedicarsi
agli studi, agli amori e alle speculazioni e occuparsi dell’azienda paterna,
approfondendo contemporaneamente le proprie conoscenze di economia e
politica. La formazione culturale, insieme ai viaggi che compie in Europa, gli
conferiscono competenze moderne e all’avanguardia che lo rendono uno
statista unico all’interno della penisola.

Dopo una breve esperienza come giornalista del quotidiano “Il Risorgimento”, da
lui fondato insieme ad altri amici intellettuali, Cavour a partire dal 1850 domina
incontrastato la politica del Piemonte, prima come Ministro dell’Agricoltura e
delle Finanze nel governo presieduto da Massimo d’Azeglio e, dal novembre
1852, come Primo Ministro del re Vittorio Emanuele II di Savoia.

Con qualità politiche e diplomatiche fuori dal comune lo statista tesse le fila
che portano all’insperata unificazione dell’Italia, alla quale dedica la sua
intera esistenza. Parallelamente ai successi politici Cavour vive anche alcuni
momenti di difficoltà e fragilità che lo portano più volte a pensare al suicidio. La
sua prematura scomparsa, il 6 giugno 1861, a poche settimane di distanza dalla
proclamazione del Regno d’Italia, lascia un vuoto difficilmente colmabile nel
Parlamento nazionale appena eletto e nel paese unificato.

Il pensiero politico di Cavour

Convinto ammiratore, sin dagli anni della giovinezza, del liberismo economico e
politico diffuso nei paesi europei più avanzati, Camillo Benso conte di Cavour si
ispira nella sua attività di uomo di Stato principalmente al modello inglese. Nei
suoi viaggi giovanili a Parigi, Bruxelles e Londra, Camillo ha modo di misurarsi
con le realtà dei governi costituzionali e con il processo di industrializzazione in
corso.

Oltre ad osservare da vicino le attività parlamentari dei vari paesi il giovane si


infervora per i dibattiti sui trasporti, sulla libertà di scambio e sul ruolo
dell’opinione pubblica. Assume da quel momento una posizione politica
liberale e moderata diffusa tra la moderna borghesia che sosterrà per tutta la sua
esistenza, distaccandosi fermamente da qualsiasi forma di assolutismo e
rivoluzionarismo.

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Il primo parlamento italiano del Regno d’Italia a Torino


 8 APRILE 2020

Il liberalismo di Cavour si contraddistingue principalmente per il suo


pragmatismo che si allontana da quello eccessivamente teorico del suo
amico Cesare Balbo. In politica esso si traduce in una vasta opera di
ammodernamento del paese che va dalla liberalizzazione degli scambi con
l’estero, all’abolizione del dazio sul grano, fino ad arrivare al potenziamento del
sistema stradale e ferroviario.

L’obiettivo iniziale seguito da Cavour è quello di far raggiungere al Piemonte


un progresso economico e civile per trasformarlo in uno Stato moderno e
inserirlo nel gioco diplomatico delle grandi potenze europee. Solo seguendo
questa direzione è possibile secondo lo statista piemontese raggiungere il
traguardo che egli si prefigge: “fare l’Italia”.

In un discorso pronunciato alla Camera il 15 aprile 1851 Cavour presenta il


suo programma liberal moderato mostrando già in questa occasione tutta la
propria lungimiranza politica:

“La storia moderna dimostra evidentemente essere la società spinta fatalmente


nella via del progresso.  L’umanità è diretta verso due scopi, l’uno politico
l’altro economico. Nell’ordine politico essa tende a modificare le proprie
istituzioni in modo da chiamare sempre un numero maggiore di cittadini alla
partecipazione del potere politico. Nell’ordine economico essa mira al
miglioramento delle classi inferiori, ad un miglior riparto dei prodotti della terra
e dei capitali.”
La vita e la morte di Camillo Benso Cavour
La giovinezza e il carattere di Camillo Benso conte di Cavour

Camillo Benso conte di Cavour nasce a Torino il 10 agosto 1810 da una


famiglia benestante, di origine ugonotta e convertitasi successivamente al
cattolicesimo. Il bambino viene battezzato da Paolina Borghese, sorella
di Napoleone Bonaparte, e dal marito di quest’ultima Camillo Borghese. Dei due
figli maschi di casa Cavour il primogenito Gustavo è quello che sembra dare
maggiore affidamento. Camillo, invece, da subito prova del suo carattere
orgoglioso e ribelle già nell’età della giovinezza.

A dieci anni viene mandato all’Accademia militare di Torino dalla quale esce con
il grado di luogotenente del Genio. Nel 1831, dopo aver trascorso qualche anno a
Genova dove intrattiene una relazione semi clandestina con la marchesa Anna
Giustiniani e entra in contatto con le correnti democratiche del luogo, sempre più
insofferente alla vita di corte del regno Sabaudo, lascia l’Italia e inizia a
viaggiare per l’Europa.

Visita la Svizzera, la Francia e l’Inghilterra e ne frequenta i salotti, le aule


parlamentari, e i circoli politici così da rafforzare le sue idee liberali-moderate e
fare propria la formula del politico francese François Giuzot del “juste milieu”
(giusto mezzo) che successivamente applicherà in modo personale in Parlamento.

Questi soggiorni all’estero, dunque, hanno un’importanza cruciale per la


formazione di Cavour anche perché servono a mostrargli la situazione di
evoluzione e progresso in cui si trova l’Europa e ad introdurlo nel mondo degli
affari e dell’economia, dando un impulso importante alle sua vocazione
imprenditoriale.
Una curiosità su Cavour: il periodo delle speculazioni in Borsa

Rientrato in Italia il giovane si lancia in molte iniziative finanziarie; inoltre, il


padre Michele, dopo essere stato eletto sindaco di Torino, gli affida la gestione
della tenuta agricola di famiglia a Leri (ottenuta durante il periodo Napoleonico
in seguito alle confische della Chiesa). Camillo avverte che è arrivato il
momento di dare prova concreta delle sue qualità mettendo in pratica tutto
ciò che ha appreso a livello teorico. Si getta a capofitto nella nuova attività
con l’intento di trasformare la tenuta in un’azienda moderna attraverso
l’impiego delle più avanzate tecniche agricole.

Per realizzare i progetti che ha in mente necessita di grossi capitali e per


procurarseli ricorre a speculazioni in Borsa. Fa alcuni buoni colpi e visto che
l’appetito vien mangiando ne tenta di più consistenti. Arriva allora la volta in cui
l’investimento gli va male e Cavour ci rimette ben 45 mila scudi. Deve intervenire
personalmente il padre a ricoprire il buco, non senza prima aver rivolto un duro
rimprovero al figlio che in questa situazione ha manifestato un eccesso di
sicurezza sconsiderato.

Cavour si preoccupa anche di studiare le condizioni del mercato nel quale i suoi
prodotti possono trovare spazio. Le sue iniziative in campo imprenditoriale e
finanziario contribuiscono ad accreditare negli ambienti più influenti del Piemonte
sabaudo l’immagine di un uomo con le idee moderne e avanzate.

Il Risorgimento e l’ingresso in politica di Camillo Benso Cavour

Dopo essersi dedicato per qualche anno agli affari, decide di entrare in politica nel
1847, collaborando con l’amico moderato Cesare Balbo alla fondazione del
quotidiano “Il Risorgimento”, di cui diviene subito il direttore. Da quel momento
la sua carriera di politico lo porta a diventare, nel giro di pochi anni, prima
parlamentare, poi ministro ed infine capo del governo.

Nell’editoriale che appare sul primo numero del nuovo giornale Cavour afferma
di intravedere nella politica riformista intrapresa da alcuni sovrani della
penisola il preannuncio di un generale Risorgimento nazionale:
“Il popolo italiano si è alzato come un sol uomo, non a rivoluzione ma a riforme,
non ad ostilità ma ad unione, non a pretese e a fazioni e violenze, ma a forte e
ordinata moderazione”.

C’è qualcuno che ironizza sulla capacità di Cavour di scrivere e parlare


correttamente l’italiano; egli, infatti, ha sempre praticato più il francese che
l’italiano, sopratutto in ambito privato. Nonostante ciò il suo stile scarno e
essenziale, seppur distante dal linguaggio altolocato assai diffuso, porta una bella
ventata di concretezza e novità.

Cavour, ritratto di Francesco Hayez

Durante gli anni 1848-49, da direttore del quotidiano, assume sempre più
popolarità e radicalizza le sue posizioni liberal-moderate al punto da provocare
le ostilità di molti esponenti democratici che fanno di tutto per ostacolare il suo
ingresso in politica.

Tutto questo non ferma Cavour che viene eletto nelle elezioni per la IV
legislatura. Nel marzo del 1850 pronuncia alla Camera di Torino un vigoroso
discorso nel quale sostiene la necessità di una politica riformatrice che ponga
il Piemonte alla testa di “tutte le forze vive d’Italia”, anche per togliere spazio ai
mazziniani e alle loro tesi repubblicane.

Il 12 ottobre di quello stesso anno viene nominato ministro dell’Agricoltura e


Commercio nel governo di Massimo D’Azeglio. All’inizio la sintonia politica tra
i due è ottima ma, con il passare del tempo, meno buoni diventano i rapporti
personali  a causa dell’invadenza di Cavour, che si comporta come se sia lui il
capo di governo, fin quando non lo diventa realmente, nel novembre del 1852, in
seguito alle dimissioni di D’Azeglio.

Il Connubio Cavour-Rattazzi

Lo statista piemontese si rende subito protagonista di una rivoluzione


parlamentare, che alcuni storici interpretano come il primo esempio
di trasformismo nella storia politica italiana e a cui viene dato il nome
di Connubio. Grazie a questo accordo tra il centro-destra, di cui lui stesso è il
leader, e il centro-sinistra, capeggiato da Urbano Rattazzi, si costruisce una
nuova maggioranza moderata che relega all’opposizione i clericali-conservatori e i
democratici.

Il Connubio segna una svolta decisiva e un segno di rottura con il passato anche
sul piano istituzionale, in quanto da un’interpretazione costituzionale dello Statuto,
che riserva solo al re il potere esecutivo, si passa a far dipendere la vita del
governo non solo dalla fiducia del sovrano, ma soprattutto dal sostegno di una
maggioranza in parlamento.

Oltre a rafforzare le istituzioni liberali l’accordo tra Cavour e Rattazzi avvia il


paese verso il progresso civile e politico. “Io penso“, scrive Cavour qualche anno
dopo, “di aver reso con ciò un servizio al nostro paese, perché stimo di avere così
innalzata una barriera abbastanza alta onde la reazione non venga mai a
superarla“.

Per parte sua, in una lettera del 1870, Urbano Rattazzi scriverà:

“I principi che dovevano ispirare il nuovo partito (il raggruppamento


parlamentare Rattazzi-Cavour) erano principalmente due, cioè resistere a
qualsiasi tendenza reazionaria e nello stesso tempo promuovere, per quanto le
circostanze lo permettessero, un continuo e progressivo svolgimento delle libertà
consentite dal nostro Statuto, nell’ordine politico come in quello economico e
amministrativo”.
Il programma politico di Cavour

Le grandi riforme in politica interna del nuovo governo, sono realizzate su due


campi: i privilegi della Chiesa e la politica economica. Nel 1850 vengono
promulgate le leggi Siccardi che provocano una frattura tra Stato e Chiesa e che
hanno come obiettivo:

 l’espropriazione dei beni ecclesiastici,


 la riduzione delle feste religiose,
 la fine dell’insegnamento da parte dei religiosi.
Per quel che riguarda la politica economica, Cavour adotta da subito una linea
liberoscambista in ambito commerciale che mira: all’aumento della produzione
agricola e industriale, allo sviluppo di opere pubbliche con la costruzione di
strade, ponti, canali e ferrovie e all’intensificazione degli scambi con i paesi esteri.

Anche in politica estera la strategia dell’aristocratico piemontese è ben chiara e


mira all’avvicinamento del Piemonte all’Europa più moderna e sviluppata e al suo
passaggio dal rango di Stato regionale a Stato nazionale. Un passo importante
verso questa direzione è compiuto nel 1855, quando il regno Sabaudo entra
nella Guerra di Crimea a fianco di Francia ed Inghilterra, contro la Russia.

Cavour (a sinistra) al Congresso di Parigi.

Al Piemonte viene così concesso di partecipare alla conferenza di pace di Parigi


del 1856 e Cavour, in tale occasione, può presentare la delicata questione italiana
davanti a tutte le altre potenze europee.

Lo statista riesce anche nell’impresa di riunire tutti i partiti politici, che hanno
partecipato ai moti del 1848, fondando nel 1857 la Società Nazionale Italiana,
che rappresenta una grande convergenza tra monarchia Sabauda e movimento
nazionale; ad essa aderiscono tra gli altri anche Daniele Manin e Giuseppe
Garibaldi: tutto ciò implica la subordinazione della politica insurrezionale a
quella diplomatica.

Dagli accordi di Plombiéres all’armistizio di Villafranca

A questo punto, Cavour, dopo aver strappato al partito rivoluzionario l’iniziativa


ed il consenso di cui gode presso la popolazione, senza tuttavia eliminarne
totalmente l’azione, sfrutta a sua vantaggio il fallito attentato compiuto a Parigi

L’evento viene utilizzato dal primo ministro come la prova che la situazione
esplosiva italiana costituisca un pericolo per l’ordine europeo. La sua strategia
risulta essere vincente: il 20 luglio 1858 stringe un’alleanza militare con
Napoleone III , gli accordi di Plombiéres , che impegnano la Francia ad entrare
nella Seconda Guerra d’Indipendenza  al fianco del Piemonte contro l’Austria.
Il punto più oscuro e doloroso della sua carriera politica, è rappresentato senza
dubbio dall’Armistizio di Villafranca; in quell’occasione il sovrano Vittorio
Emanuele II e Napoleone III firmano un disonorevole trattato di pace con il
governo austriaco, senza neanche avvertirlo. Ha luogo tra lo statista e il sovrano
sabaudo un durissimo scontro verbale; i testimoni affermano che Cavour
fosse completamente fuori di testa tanto da mettersi a tirare calci alle sedie
per la furia.

Tutto ciò lo spinge a dimettersi ma, sentendo ormai totalmente propria la causa
italiana, inizia a prendere contatti con i governi provvisori dell’Italia centrale per
esortarli a non mollare e a continuare a credere nella lotta per l’indipendenza.

Cavour e l’Unità d’Italia

Quando Cavour viene richiamato da Vittorio Emanuele II al governo il 21


gennaio del 1860 ha le idee chiare su ciò che va fatto; in cambio del via libera
francese all’annessione di Emilia-Romagna e Toscana al Regno sabaudo, il conte
cede alla Francia a malincuore, Nizza e Savoia.

Per quanto riguarda, invece, l’Italia meridionale, Cavour non gioca alcun ruolo
nella preparazione della spedizione dei mille, ma non impedisce in alcun modo la
sua realizzazione. Egli adotta una tattica attendista, osservando l’evolversi degli
eventi, e interviene direttamente soltanto verso la fine della spedizione: nonostante
le rassicurazioni di Giuseppe Garibaldi circa la sua fedeltà al programma
monarchico, lo statista piemontese teme che possa realizzarsi il sogno mazziniano
di un’assemblea costituente e che il generale, puntando verso Roma, possa
provocare l’intervento delle potenze straniere in difesa dello Stato pontificio.

Per questo motivo Cavour invia nell’Italia centrale un corpo di spedizione che
invade lo Stato pontificio, occupa Marche e Umbria, e si dirige verso Napoli. A
questo punto il primo ministro piemontese richiede che nei territori occupati da
Garibaldi siano convocati plebisciti per ratificare l’annessione al Piemonte.

Il generale è costretto a cedere e così tra ottobre e novembre le Marche,


l’Umbria, la Sicilia e tutto il Mezzogiorno votano in larghissima maggioranza
l’annessione al regno di Sardegna. Nello storico incontro di Teano, il 26 ottobre
1860, Garibaldi conclude la sua celebre impresa consegnando formalmente il
potere al re Vittorio Emanuele II di Savoia.

La morte di Camillo Benso Cavour

Camillo Benso conte di Cavour intrattiene nel corso della sua vita alcune relazioni
sentimentali ma non si sposa e non ha figli. Egli dedica gran parte della propria
esistenza al sogno di “fare l’Italia” e cerca di realizzare questo sogno
principalmente dominando in maniera incontrastata l’aula parlamentare.

Cavour, infatti, concepisce il Parlamento come una superba arma politica per


l’uomo di Stato che voglia e sappia servirsene. Pur essendo dichiaratamente un
liberale moderato, a differenza del politico francese Guizot, lo statista piemontese
interpreta il “giusto mezzo” in maniera personale, concependolo come una
posizione da definire dentro l’aula parlamentare di volta in volta e da mantenere
nonostante l’evolvere degli eventi storici.

Dopo essere stato protagonista anche nelle giornate dell’inaugurazione del


Parlamento e della proclamazione del Regno d’Italia , il principale artefice
dell’unificazione italiana si ammala alla fine di maggio di malaria. Le sue
condizioni di salute, che inizialmente non sembrano essere precarie, peggiorano
sensibilmente nel giro di pochi giorni, anche grazie all’incompetenza dei medici
che effettuano troppi salassi. Nelle ultime ore di vita assalito dalla febbre delira,
pronunciando frasi confuse sul futuro dell’Italia:

“L’Italia nel settentrione è fatta, ma vi sono ancora i napoletani, bisogna


moralizzare il paese. Tutti sono buoni a governare il paese con lo stato
d’assedio. Io, invece, li governerò con la libertà“.

Camillo Benso conte di Cavour si spegne precocemente a Torino la mattina


del 6 giugno del 1861, all’età di cinquant’anni. La salma viene tumulata a
Santena nella cappella di famiglia e sulla tomba, per sua volontà, viene scritta
l’epigrafe: “Sono figlio della libertà, ad essa debbo tutto quel che sono”.

La scomparsa di Cavour suscita in Italia e all’estero un’enorme emozione,


anche tra i suoi avversari politici più decisi. A rendergli omaggio, in un’aula
parlamentare dove a regnare è la commozione tra tutti i presenti, sono Rattazzi e il
deputato repubblicano e democratico Giuseppe Ferrari che pronuncia un sincero
elogio funebre per l’avversario appena scomparso:

“Inchiniamoci davanti alla tomba sulla quale piangono popoli e re e


imperatori.  L’ingegno suo altro non lasci che la rimembranza della magica
sicurezza con cui prontissimo afferrava ogni questione e dominava il
complicatissimo labirinto degli equivoci ammira quell’insigne italiano, quel
coraggio senza spada, che trionfava dei generali e dei tribuni e sembrava quasi
egualmente signoreggiare le falangi rivoluzionarie di Garibaldi nel Mezzodì e
quelle regolari della Francia nel Nord? No, voi non sentirete da me in questo
recinto una parola contraria al Conte di Cavour, che ha compiuto l’opera sua,
che ci ha vinti, e la cui morte nella vittoria può essere augurata al migliore dei
nostri amici”.
L’eredità di Cavour

Con la scomparsa di Cavour l’Italia perde molto, perché sicuramente un


personaggio di tale calibro e carisma avrebbe fatto comodo alla nazione; la classe
dirigente che viene a succedergli, figlia della rivoluzione politica da lui effettuata,
cerca, per risolvere gli infiniti problemi  che affliggono il nuovo stato, di seguire
per quanto sia possibile le indicazioni ed i consigli che egli ha tracciato nei suoi
ultimi discorsi parlamentari.

Come ha sottolineato lo storico Luciano Cafagna uno dei maggiori paradossi è


che il primo ministro piemontese sia stato culturalmente poco italiano. Egli,
infatti, al tempo del suo ingresso in politica, parla e scrive in francese e conosce
poco sia l’italiano che l’Italia, tanto che in tutta la sua vita non mette mai piede al
di sotto di Firenze e Bologna.

La fortuna del Piemonte e dell’Italia è stata quella di aver trovato la persona


giusta nel momento di maggior necessità, in quanto, per la buona riuscita della
causa nazionale serviva qualcuno che, come Cavour, aveva la passione per
l’economia e l’amministrazione e aveva fatto del cosmopolitismo culturale e
dell’intraprendenza borghese due componenti importanti e fondamentali della sua
formazione.

Egli apparteneva a quella categoria di uomini dotati di infinite virtù tra cui:


l’intuito, la prontezza, il coraggio, la capacità di adattarsi e di saper
controllare con tenacia e pragmatismo qualsiasi situazione gli si presentasse
davanti, convinto del fatto che “la miglior politica fosse quella delle risoluzioni
audaci”.

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