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Evoluzione del cervello umano.

Fuoco, parola,
sangue.
Sabina Marineo

L’eterno mistero del cervello umano. L’evoluzione della specie Homo potrebbe essere una chiave per
svelarne alcuni aspetti, giacché segnò le tappe dello sviluppo cerebrale degli ominidi. Gli interrogativi sono
tanti. Perché l’aumento più considerevole del cervello avvenne d’improvviso, circa due milioni di anni fa?
Sappiamo inoltre che in media la massa cerebrale dell’uomo di Neanderthal era più grande di quella
dell’Homo sapiens. Dunque il nostro cugino scomparso non era di certo meno intelligente di noi. Al
contrario, semmai poteva esserlo di più. Ma… davvero dimensioni del cervello e intelligenza vanno di pari
passo? Oppure esistono altri fattori altrettanto decisivi?

Strane impronte, misteriose circonvoluzioni


Le dimensioni del cervello rivestono un ruolo importante nel momento in cui vengono rapportate alle
dimensioni del corpo cui appartengono. È ovvio che il cervello di un elefante sia più grande di quello di un
essere umano, ma il cervello dell’essere umano rapportato alle dimensioni corporee dell’uomo corrisponde
ad un valore maggiore del cervello di un elefante rapportato alla massa corporea del pachiderma. Il valore
risultante viene definito „quoziente di encefalizzazione“. E tirando le somme si può dire che il quoziente di
encefalizzazione dell’essere umano sia, in confronto a quello degli altri animali che popolano la terra, un
quoziente di tutto rispetto. In proporzione alle sue dimensioni corporee, il più grande in assoluto. Non è stato
sempre così. Diversi ominidi, diverse grandezze…

Ma se di esemplari di uomo anatomicamente moderno – e di relativi cervelli da analizzare- sulla Terra – ce


ne sono ormai otto miliardi, nulla è invece rimasto delle masse cerebrali dei nostri antenati avvolti dalle
nebbie della preistoria. E tuttavia una possibilità esiste: l’analisi delle impronte lasciate all’interno del cranio
dalle circonvoluzioni cerebrali. Grazie a una tomografia assiale computerizzata si ottengono delle
radiografie tridimensionali ad alta risoluzione del cranio fossile, poi si realizza al computer un’impronta
della scatola cranica che fornisce delle indicazioni sulla grandezza e la forma del cervello. I moderni metodi
di analisi offrono quindi la possibilità di dedurre lo sviluppo del cervello di un ominide sin dalla sua infanzia,
e di comparare l’evoluzione della specie dell’uomo moderno con quella degli ominidi estinti.

L’aumento della massa cerebrale. Di certo un impulso decisivo nella storia dell’evoluzione umana. Tanto
più che dopo la scissione della specie Homo da quella delle grandi scimmie – in particolare gli scimpanzé –
avvenuta circa sei milioni di anni addietro, l’aumento delle dimensioni del cervello avanzò dapprima con
estrema lentezza. Ci fu un’accelerazione improvvisa circa due milioni di anni fa, con l’avvento dell’Homo
erectus, il cui cervello avrebbe raggiunto un volume di tutto rispetto che si aggirava intorno ai 1000 cm cubi.
Tanto per rendere l’idea di queste grandezze, teniamo presente che il volume cerebrale dell’uomo
anatomicamente moderno adulto presenta, in media, 1300 cm cubi.

In base ai risultati di ricerca attuali, l’apparizione dell’uomo anatomicamente moderno – l’Homo sapiens –
risale a circa 180.000 – 200.000 anni fa, il che significa… un nulla, rapportato al lunghissimo periodo di sei
milioni di anni in cui già la specie degli ominidi aveva iniziato a popolare la Terra (con gli australopiteci).
Un lasso di tempo straordinariamente esteso, in cui il cervello di queste creature – in media 300 cm cubi –
non sembra aver subito grandi cambiamenti. Poi, circa due milioni di anni fa, l’aumento veloce nell’Homo
erectus. Come mai? Qual è stato il motore che ha accelerato di colpo il millenario processo?

Interessante è il fattore della posizione eretta, che permetteva alla specie Homo di camminare da bipede,
accoppiato ai cambiamenti climatici. Verso la fine del Pliocene (ca. 2,500 milioni di anni fa), in seguito alla
crescente aridità del clima, iniziarono infatti a diffondersi su tutto il pianeta ampi territori che presentavano
una vegetazione di tipo steppa, mentre i boschi si riducevano poco a poco. In un habitat di questo genere la
deambulazione bipede rappresentava un vantaggio, perché lasciava libere le mani che potevano essere
impiegate per altri scopi, ad esempio per la fabbricazione dei primi utensili da caccia.

Cervelli a confronto. Al cervello umano corrisponde il maggiore quoziente di encefalizzazione.

E la caccia agli animali che popolavano le steppe urgeva per soddisfare il fabbisogno crescente di carne.
L’epoca della nutrizione esclusivamente – o principalmente – a base di materie vegetali era giunta alla fine.
In un clima sempre più freddo questo tipo di alimentazione, tipica delle grandi scimmie, ora non bastava più.
Ci voleva una maggior quantità di proteine per sopravvivere. La scoperta e il controllo del fuoco, che
caratterizzano la specie Homo erectus e sembrano aver avuto luogo oltre un milione di anni fa, hanno inoltre
permesso alla specie Homo di cuocere la carne, rendendola più digeribile. Non è da escludersi che la nuova
dieta degli ominidi abbia incrementato lo sviluppo rapido della massa cerebrale. Questo pensa, insieme ad
altri studiosi, Il biologo dell’evoluzione Josef Reichholf. Una dieta per il cervello?

Anche il paleoantropologo Oliver Sandrock sostiene che l’aumento della massa cerebrale sia strettamente
legato agli sviluppi climatici. Circa due milioni di anni or sono i cambiamenti climatici repentini dell’ultima
Era glaciale hanno portato a mutamenti ambientali veloci e massicci e quindi influenzato in modo decisivo
la ricerca di cibo. Secondo lui, anche soltanto il fatto che gli ominidi siano stati costretti a “spremere le
meningi” e inventare sempre nuovi metodi ed espedienti per sopravvivere, avrebbe portato a un aumento del
cervello.
Ricette preistoriche e… parole parole parole
Un’altra considerazione. Nel momento in cui l’ominide passava da una dieta vegetale ad una onnivora che
includeva il consumo di carne, l’intestino si riduceva favorendo così una crescita del cervello. Non solo
questo. Particolarmente importante fu il processo della cottura. Poiché la dieta a base di cibi cotti, che
derivava dall’uso del fuoco, non forniva soltanto una nutrizione più digeribile. Il fuoco uccideva i germi e
aumentava la durata degli alimenti. Altro vantaggio: il cibo cotto apportava molta più energia di cibo crudo.
Inoltre il fatto di fruire di una quantità maggiore di calorie in una minore quantità di cibo, snelliva i tempi di
ricerca e di consumo del cibo stesso e metteva a disposizione degli ominidi più tempo per altre attività,
quelle stesse attività che un giorno avrebbero portato alla fabbricazione di strumenti musicali, alla
realizzazione di splendide pitture parietali, statuette, oggetti ornamentali ed altro.

Reichholf sottolinea l’importanza del portamento eretto e della carne nell’alimentazione onnivora della
specie Homo. Scrive:

“Per lo sviluppo di neonati e bambini sono necessarie soprattutto le proteine. Più aumentava la percentuale
di carne nella dieta degli ominidi poiché questi potevano spostarsi con più facilità (bipedi) e quindi fruire di
buone porzioni di carne fresca di animali appena uccisi, più bambini potevano partorire le donne e nutrirli
poi con latte ricco di proteine, fino al termine del periodo di svezzamento (N.d.A.: che doveva durare per
circa tre, quattro anni). In questo modo s’innestò un automatismo proprio dell’evoluzione umana. Più
migliorava l’approvvigionamento di cibo, più prole generavano e allevavano gli ominidi.”

Un argomento che non si può contestare, giacché:

“Nell’evoluzione è importante la sopravvivenza di una generazione, non quella di un individuo.”


Evoluzione del cervello umano. ©P’tit-Pierre-CC-BY-SA-3.0

Però sappiamo che già gli australopiteci si nutrivano, oltre che di vegetali, occasionalmente anche di carne
ricavata da carcasse animali. Anche gli australopiteci erano bipedi. Dunque perché il veloce aumento del
cervello si verificò soltanto con l’Homo erectus? Molti studiosi identificano il fattore decisivo nella
datazione, nell’inizio di un’era caratterizzata da rapidi cambi climatici: due milioni di anni fa. Per
sopravvivere in un clima estremamente freddo, era necessaria più energia e quindi più carne. Di
conseguenza la caccia diveniva un fattore decisivo. La pressante necessità di cacciare e quindi di seguire la
preda in modo più efficiente favoriva spostamenti di ampio raggio.

Per far questo, osserva Reichholf, gli ominidi svilupparono un senso dell’orientamento sempre maggiore che
si basava su un gran numero di informazioni riguardanti l’habitat, gli agenti atmosferici, gli insegnamenti
tramandati di padre in figlio e i modelli di comportamento animale. Tutto questo esigeva dei cervelli… “ad
alte prestazioni”. L’Homo erectus, scopritore del fuoco, buon cacciatore e grande camminatore, fu dunque il
primo a sviluppare per necessità un cervello dalle dimensioni considerevoli. Interessante è il fatto che molto
più tardi, durante il Neolitico e quindi dopo il passaggio dalla vita nomade (o seminomade) dei cacciatori
raccoglitori a quella sedentaria degli agricoltori e allevatori di bestiame, le dimensioni della massa cerebrale
umana diminuirono del 10- 13%. Alcuni studiosi vedono questo fenomeno strettamente collegato al nuovo
tipo di vita più sociale, integrata in gruppi più grandi, e di certo meno avventurosa.

Infine vorrei citare ancora l’interessante teoria di quegli antropologi che interpretano l’aumento delle
dimensioni cerebrali come conseguenza dello sviluppo della parola e, quindi, di linguaggi differenti. Un
punto chiave nella storia dell’evoluzione umana che mi affascina parecchio. L’antropologo americano
Terrence Deacon, per esempio, afferma che la parola fu la causa dell’aumento delle dimensioni del cervello,
e non viceversa. La lingua: un fattore importantissimo e, come hanno dimostrato gli studiosi, legato alla
dominanza dell’emisfero cerebrale sinistro. Qui si trovano alcuni centri essenziali che regolano l’uso della
parola. E i cervelli degli ominidi, con sicurezza ai tempi dell’Homo erectus, sembrano aver presentato questa
caratteristica che li differenziava da quelli delle scimmie. Una dominanza provata non solo dalla
conformazione delle circonvoluzioni cerebrali, ma anche dal semplice dato di fatto che erano in grado di
fabbricare utensili usando la mano destra. La conseguente padronanza di una lingua sintattico-grammaticale,
indispensabile a formulare pensieri complessi e pianificare nel futuro, è strettamente legata ad un aumento di
intelligenza del soggetto in questione ed esperti prestigiosi come il biologo tedesco professor Gerhard Roth
individuano in questo fattore il motore principale alla base di una crescita veloce del cervello umano. L’uso
della parola e quindi di un linguaggio è ormai una sicurezza nel caso dell’uomo di Neanderthal, almeno da
quando si è scoperto un osso ioide di questo ominide nella grotta israeliana di Kebara e i genetisti hanno
individuato nel suo DNA la presenza di un gene legato all’utilizzo della parola.

Il Neanderthal ce l’aveva più grande


L’evoluzione del cervello umano. Tenendo sempre presente, come evidenziato all’inizio dell’articolo, che
non è la sola grandezza del cervello a fare l’intelligenza perché questa va sempre rapportata alle dimensioni
corporee del soggetto interessato, ecco che si affaccia l’immancabile dibattito. Ho scritto più sopra che il
cervello dell’uomo di Neanderthal era in media più grande di quello dell’Homo sapiens. Che significa in
cifre? Se il volume del Sapiens si aggirava sui 1300 cm cubi, quello del Neanderthal, in media 1400 cm cubi,
poteva arrivare anche a 1750 (esemplare di Amud, Israele) e addirittura 1900 cm cubi. Di conseguenza gli
antropologi si chiedono se fra Neanderthal e Sapiens vi fossero delle differenze dal punto di vista sociale e
cognitivo. Una domanda scottante. Soprattutto il lobo occipitale (area visiva primaria, secondaria e terziaria)
dell’uomo di Neanderthal era particolarmente sviluppato, un fatto che ha portato alcuni studiosi a supporre
che forse le capacità visive e di percezione dello spazio fossero in quest’ominide particolarmente sviluppate.
Elementi che avrebbero favorito le sue attività di cacciatore.
Cranio di Neanderthal (in primo piano) e cranio di Homo sapiens a confronto. Museo di Urmu. Blaubeuren,
Germania. ©Reimund Schertzl

Alcuni reperti archeologici suggeriscono la presenza di possibili discrepanze nel comportamento delle due
specie. Vediamo perché. I modelli delle variazioni endocraniali presenti nei due individui subito dopo la
nascita si differenziano. Ciò sarebbe attestato da frammenti fossili di due crani di Neanderthal deceduti
durante o subito dopo il parto. Questi neonati sono stati scoperti già nel 1914 in Francia, nella Dordogna,
depositati nel magazzino del museo di Les Eyzies-de Tayac-Sireuil e poi, come spesso accade, dimenticati.
Negli anni Novanta del secolo scorso sono stati risvegliati dal loro sonno e sottoposti ad analisi tomografica
computerizzata nell’Istituto Max Planck di Lipsia. Lo stesso è stato fatto con dei frammenti cranici di
neonati Neanderthal scoperti nel Caucaso, nel giacimento paleologico di Mezmaiskaya.

I risultati dimostrano che già al momento della nascita la testa del Neanderthal presentava dimensioni
maggiori rispetto alla testa di un Homo sapiens, ma le differenze più evidenti che riguardano l’aspetto dei
due cervelli si sviluppavano dopo il parto. Alla nascita le due specie presentavano entrambe crani allungati
con dei cervelli di dimensioni pressoché uguali. E tuttavia durante il primo anno di vita il piccolo Sapiens
sviluppava la forma caratteristica di cranio tondo. Le ossa craniche sono, subito dopo il parto, molto sottili e
le suture del cranio ancora aperte (le tipiche “fontanelle”). Poiché la scatola cranica si adatta all’aumento
della massa cerebrale, ciò significa che i cervelli di Neanderthal e Sapiens seguivano uno sviluppo diverso
approssimativamente sino all’apparizione dei denti da latte. Dunque le due specie raggiungevano un volume
cerebrale simile in età adulta e seguendo differenti modelli di sviluppo. Che significava tutto questo, tradotto
in diversità di comportamento e intelletto?
La divergenza si presentava durante una prima fase dello sviluppo, ma dopo la crescita dei denti da latte non
sussisteva più. Ed ecco la deduzione importante: il diverso sviluppo subito dopo il parto potrebbe –
dobbiamo però esprimerci al condizionale – aver influito sull’organizzazione neuronale e sinaptica del
cervello e causato delle discrepanze che ancora non conosciamo. Le dimensioni sono una cosa,
l’organizzazione neuronale un’altra. Alcuni studiosi sostengono che questa è ben deducibile dall’impronta
delle circonvoluzioni cerebrali sulle calotte dei crani fossili; altri ritengono che queste impronte, alla fin fine,
siano troppo poco chiare per formulare affermazioni con un alto margine di certezza. Dunque dobbiamo
attendere ancora e vedere se ulteriori studi faranno luce sulle funzioni di questi geni che resero diversi i
nostri progenitori diretti dall’uomo di Neanderthal.

Il segreto è nel sangue?


Nel frattempo degli antropologi sudafricani e australiani hanno scoperto un altro segreto imperniato sul
profondo legame fra sangue e cervello. I crani fossili di ominidi forniscono infatti anche delle informazioni
sull’alimentazione sanguigna del cervello. Questa avviene tramite due arterie che penetrano, attraverso due
aperture, nelle ossa del cranio. Misurandone il diametro e misurando al contempo il potenziale volume della
massa cerebrale, è possibile individuare la quantità di flusso sanguigno che raggiungeva il cervello del
soggetto in vita. Ebbene, i reperti di Homo sapiens presentavano dei valori sei volte più alti di quelli
dell’australopiteco, nonostante la massa cerebrale del Sapiens fosse “soltanto” tre volte maggiore di quella
dell’australopiteco stesso.

Ciò significa che il cervello del Sapiens fruiva di un afflusso sanguigno di gran lunga maggiore di quello che
andava a irrorare i cervelli degli altri ominidi. Una maggiore alimentazione sanguigna favorisce un
metabolismo delle cellule più efficace, ne rinforza le sinapsi e di conseguenza porta a migliori facoltà
cognitive. Insomma: più importante è il flusso sanguigno nel cervello, più elevata è l’intelligenza
dell’individuo in questione. Ma di che individuo parlano, specificatamente, gli studiosi australiani e
sudafricani che di recente hanno presentato questa scoperta?

Ricostruzione di un uomo di Neanderthal. Neanderthal Museum, Mettmann, Germania. ©Reimund Schertzl

Roger Seymour dell’Università di Adelaide ed Edward Snelling dell’Università di Witwatersrand hanno


analizzato ben 35 crani di undici specie di ominidi, tra cui diversi esemplari di australopiteco, Homo erectus,
Neanderthal e Homo sapiens arcaico, datati in un periodo che abbraccia tre milioni di anni ad oggi. Secondo
questo studio, i neuroni dell’Homo sapiens fruivano di un’alimentazione sanguigna migliore e più efficace
di quanto non fosse quella dei loro predecessori. Anche di quella dell’uomo di Neanderthal, sottolineano gli
studiosi. Era questa la carta vincente dei nostri progenitori? Fu questo il vantaggio del Sapiens che finì per
decretare la sua sopravvivenza a scapito del cugino, l’uomo di Neanderthal, e delle altre specie? O forse
prossimamente qualche altra scoperta cambierà di nuovo tutto lo scenario?

Lo sviluppo di Homo sapiens e Homo


neanderthalensis a confronto
Dario Iori

Un’analisi effettuata sullo scheletro di un bambino Neanderthal rinvenuto ad El Sìdron, in Spagna, ha


rivelato che nei nostri cugini neanderthaliani lo sviluppo del cervello e di altre strutture anatomiche era più
prolungato rispetto a quanto accade nell’uomo
Una ricerca guidata da Antonio Rosas del Museo Nacional de Ciencias Naturales (MNCN)–Consejo
Superior de Investigaciones Científicas (CSIC) di Madrid, in Spagna ha analizzato lo scheletro di un
bambino Neanderthal vissuto attorno a 49.000 anni fa. Gli scienziati hanno dimostrato che lo sviluppo dei
Neanderthal rispecchia in larga parte quanto accade anche in Homo sapiens, ma contrariamente a quanto si
pensava in precedenza, in Homo neanderthalensis lo sviluppo del cervello è ancora più lento rispetto quanto
accade negli esseri umani. I risultati dello studio sono stati pubblicati su Science.

Rispetto alla maggior parte dei primati, l’uomo ha una life-history molto peculiare, caratterizzata da una età
infantile piuttosto prolungata, un raggiungimento tardivo dell’età riproduttiva e una durata della vita
decisamente lunga. Nonostante fosse già stata osservata una tendenza al prolungarsi dell’immaturità da parte
di H. neanderthalensis (Pikaia ne ha già parlato qui) era ancora la nostra specie quella considerata la più
lenta nello sviluppo, soprattutto per quanto riguarda il cervello. Ciò nonostante, è risaputo che le dimensioni
dell’encefalo dei Neanderthal sono superiori rispetto a quelle di H. sapiens (1520 cm3 di volume medio
rispetto ai 1195 dell’uomo moderno).

Sviluppare un cervello di grandi dimensioni implica un notevole dispendio energetico, soprattutto se avviene
contemporaneamente alla crescita del resto del corpo. Nell’uomo, la crescita dell’encefalo durante l’età
infantile rallenta in maniera considerevole l’aumento di dimensioni del resto del corpo, che viene così
posticipato in maniera compensatoria.

Il campione studiato dai ricercatori, completo al 36%, è stato rinvenuto nel sito di El Sidròn, nelle Andurie
(in Spagna), località già nota per numerosi ritrovamenti di Neanderthal, ed è stato così denominato El Sidròn
J1. Esso apparteneva presumibilmente ad un bambino vissuto all’incirca 49.000 anni fa,che al momento
della morte aveva 7,7 anni, pesava circa 26 kg ed era alto 111 cm.

Lo scheletro e la dentatura, molto ben conservata, presentano una fisiologia molto simile ad un bambino
moderno della stessa età, a parte la colonna vertebrale che mostra un diverso livello di maturazione: la
giunzione a livello posteriore di alcune vertebre cervicali e toraciche non risulta ancora fusa in El Sidròn J1,
mostrando un ritardo di circa 2 anni rispetto ad H. sapiens (negli esseri umani la cosiddetta sincondrosi
neurocentrale tende a fondersi intorno ai 4-6 anni). Il cervello del bambino Neanderthal, inoltre, aveva
dimensioni pari all’87,5% rispetto all’encefalo di un adulto della stessa specie; in H. sapiens invece, un
coetaneo di El Sidròn J1 possiede un cervello il cui volume è circa il 95% di un adulto.

Questi due aspetti lasciano supporre che lo sviluppo del sistema nervoso nell’uomo di Neanderthal fosse più
lento rispetto a quanto accade nell’uomo moderno. Secondo i ricercatori, ciò appare piuttosto logico poiché
probabilmente correlato alle maggiori dimensioni del corpo e del cervello stesso nei Neanderthal. Una
crescita più prolungata nel tempo quindi, sarebbe stata necessaria affinché corpo ed encefalo dei nostri
cugini raggiungessero le dimensioni adulte.

Entrambe le specie, comunque, regolano la loro crescita in modo da adattare il consumo di energia alle loro
caratteristiche fisiche; esse presentano inoltre ritmi di crescita molto simili, aspetto che potrebbero aver
ereditato da un loro progenitore comune.

Riferimento:
Antonio Rosas, Luis Ríos, Almudena Estalrrich, Helen Liversidge, Antonio García-Tabernero, Rosa Huguet,
Hugo Cardoso, Markus Bastir, Carles Lalueza-Fox, Marco De La Rasilla, Christopher Dean. The growth
pattern of Neandertals, reconstructed from a juvenile skeleton from El Sidrón (Spain).Science, 2017;
Vol. 357, Issue 6357, pp. 1282-1287 DOI: 10.1126/science.aan6463Immagine da Wikimedia Commons

Le differenze genetiche e cerebrali tra noi e


i Neanderthal - Le Scienze
Confrontando la forma dei crani dei Neanderthal e quella degli umani moderni, una complessa ricerca
interdisciplinare è riuscita a risalire a differenze genetiche che influiscono su due strutture cerebrali che
controllano in primo luogo il movimento ma che potrebbero aver avuto un riflesso anche sull'evoluzione del
linguaggio

Partendo dalla differenza di forma del cranio dei Neanderthal e degli uomini moderni, un gruppo di
ricercatori è riuscito, grazie a una complessa ricerca interdisciplinare, a risalire ad alcune possibili differenze
nello sviluppo cerebrale nelle due specie. La ricerca, diretta dal paleoantropologo Philipp Gunz del Max
Planck Institut per l'antropologia evoluzionistica a Lipsia, e dai genetisti Simon Fisher e Amanda Tilot del
Max Planck Institut per la psicolinguistica a Nijmegen, nei Paesi Bassi, è pubblicata su "Current Biology".

Cranio fossile di Neandertal (a sinistra) e di un umano moderno (a destra). (Philipp Gunz,


CC BY-NC-ND 4.0 )

La forma del cranio degli umani moderni si caratterizza per una particolare globosità, che si distingue non
solo da quella di tutti gli altri primati, ma anche di tutti gli altri ominidi, Neanderthal compresi, la cui
struttura del cranio è più allungata. I ricercatori sospettano che questa differenza rispecchi cambiamenti
evolutivi nelle dimensioni del cervello e nelle connessioni cerebrali.

Gunz e colleghi hanno scansionato con tomografia computerizzata crani fossili di Neanderthal e crani di
esseri umani moderni, rilevando anche le impronte endocraniche del cervello, per poi ricavare un indice che
rispecchiava la globosità del cranio nelle due specie.

I ricercatori hanno poi analizzato il genoma di circa 4500 umani moderni cercando di identificare i
frammenti di DNA di origine neanderthaliana che sono presenti in varia misura in tutte le persone di
ascendenza non africana. Grazie alla quantità dei dati raccolti Gunz e colleghi sono riusciti a mettere in
relazione alcuni di questi frammenti, localizzati sui cromosomi 1 e 18, proprio con la globosità del cranio.

Immagini tomografiche di un cranio fossile di Neandertal (a sinistra) con la tipica impronta


endocranica allungata (in rosso) e di un umano moderno (a destra) dalla caratteristica forma
endocranica globulare (blu). (Philipp Gunz, CC BY-NC-ND 4.0 )
L'analisi dei segmenti di DNA identificati ha permesso di

scoprire che due di questi influiscono sull'attività di altrettanti geni a essi vicini, i geni UBR4 e PHLPP1, già
noti per avere un ruolo in importanti aspetti dello sviluppo cerebrale.

In particolare, i due geni contribuiscono alla neurogenesi (la generazione dei neuroni) e alla mielinizzazione
dei neuroni, cioè della guaina isolante che protegge gli assoni di alcuni neuroni.

I ricercatori hanno anche scoperto che la versione neanderthaliana del segmento che influisce su UBR4 fa sì
che questo sia leggermente meno espresso nel putamen, mentre la versione neanderthaliana attiva su
PHLPP1 fa sì che sia leggermente sovraespresso nel cervelletto.

"Entrambe queste regioni cerebrali - ha spiegato Gunz - ricevono un input diretto dalla corteccia motoria e
sono coinvolte nella preparazione, nell'apprendimento e nella coordinazione sensomotoria dei movimenti."
Ma il putamen fa anche parte di una rete di strutture cerebrali dette gangli della base che, ha proseguito
Gunz, "contribuiscono anche a diverse funzioni cognitive, come la memoria, l'attenzione, la pianificazione,
l'apprendimento delle abilità e, potenzialmente, l'evoluzione del linguaggio e il linguaggio stesso".

Secondo i ricercatori, questa scoperta può portare a sviluppare ipotesi sulle differenze neuronali, e
potenzialmente cognitive, fra umani moderni e Neanderthal, ipotesi che potrebbero essere testate
sperimentalmente, ricorrendo per esempio a campioni di tessuto neuronale umano coltivabile in laboratorio.

Un cervello diverso. E H. sapiens prese il


sopravvento
Giulio Tarro

L’uomo di Neanderthal condivise la Terra con Homo sapiens per decine di migliaia di anni. Poi a un certo
punto, circa 40.000 anni fa, si estinse, lasciando definitivamente il passo agli uomini anatomicamente
moderni.

Le ragioni profonde che portarono a questo passaggio fondamentale della storia umana rimangono tutt’ora
un mistero per la paleoantropologia. Un mistero che però ora un articolo pubblicato su “Scientific Reports”
da Hiroki Tanabe, dell’Università di Nagoya in Giappone, e colleghi, potrebbe contribuire a svelare.

Gli autori infatti hanno concluso che esistevano alcune differenze neuroanatomiche significative tra le due
specie, in particolare nella regione del cervelletto, differenze che potrebbero aver dato a H. sapiens un
vantaggio in termini di adattamento all'ambiente che fu poi decisivo per prendere il sopravvento.

Tutta la ricerca si è svolta confrontando tra loro modelli anatomici cerebrali ricavati da scansioni di
tomografia computerizzata di teche craniche fossili di individui estinti.

Gli autori hanno considerato i reperti neanderthaliani denominati Amud 1 (risalente a 50.000-70.000 anni fa),
La Chapelle-aux-Saints 1 (47.000-56.000 anni fa), La Ferrassie 1 (43.000-45.000 anni fa) e Forbes’ Quarry
1 (nessuna datazione disponibile). A questi si sono aggiunte le scansioni di quattro H. sapiens, e cioè i
reperti noti come Qafzeh (90.000-120.000 anni fa), Skhul 5 (100,000–135,000 anni fa), Mladec 1 (35.000
anni fa) e Cro-Magnon 1 (32.000 anni fa circa). Tanabe e colleghi hanno infine considerato le scansioni di
risonanza magnetica cerebrale di 1185 soggetti viventi, da cui si è ottenuto un modello del cervello umano
medio attuale.
Questi confronti hanno permesso di prevedere quale aspetto potesse avere il cervello dei primi Homo
sapiens e dei Neanderthal e in che modo le singole regioni cerebrali potessero differire tra le due specie. La
conclusione è stata che i primi Homo sapiens non avevano cervelli più grandi di quelli di Neanderthal, ma
morfologie cerebrali significativamente diverse: in particolare, avevano un cervelletto più grande.

Utilizzando poi i dati di 1095 soggetti moderni, gli autori hanno esaminato la possibile correlazione tra la
dimensione del cervelletto e le capacità dei soggetti, come la comprensione e la produzione del linguaggio,
la memoria di lavoro e la flessibilità cognitiva.

L’analisi statistica dei dati raccolti indica che le differenze neuroanatomiche dei primi Homo sapiens rispetto
ai Neanderthal conferivano loro abilità cognitive e sociali più avanzate. Proprio questo fattore potrebbe aver
influito sulla capacità dei primi umani di adattarsi ai cambiamenti ambientali, aumentando le loro possibilità
di sopravvivenza rispetto ai Neanderthal. (red)

Lo sviluppo del cervello dei Neanderthal era


migliore del nostro
Sky TG24

Uno studio spagnolo sullo scheletro di un ominide di sette anni dimostra che la massa cerebrale cresceva in
modo più lento rispetto a quello dei sapiens permettendogli così di avere più capacità

Dall'analisi dei denti e delle ossa di un bambino Neanderthal vissuto 49mila anni fa è emerso che il cervello
di questi ominidi, contrariamente a quanto si credeva finora, si sviluppava con un ritmo di crescita lungo e
uniforme, nel passaggio da bambino a adulto. Studi precedenti, invece, sostenevano che il cranio dei
Neanderthal cresceva a strappi irregolari e in anticipo rispetto al processo nell’uomo (Homo sapiens).
Motivo per il quale si riteneva che le capacità intellettive di questi ominidi fossero meno sofisticate delle
nostre. In realtà, però, uno studio condotto dai ricercatori del Consiglio superiore di ricerca scientifica di
Madrid - guidati da Antonio Rosas - e pubblicato sulla rivista "Science", mette in luce uno sviluppo del
cervello addirittura più lento in questi antichi cugini rispetto all'uomo e quindi più vantaggioso.

I vantaggi della lentezza evolutiva


La comunità scientifica, spiegano i ricercatori, era convinta che l’uomo fosse la specie con lo sviluppo
cerebrale più lento e continuo. Un processo che, grazie alla combinazione di tempo ed energia, ci avrebbe
aiutato a far evolvere capacità che per esempio non appartengono alle scimmie o ad alcuni ominidi, nei quali
il cervello si sviluppa in maniera prematura e seguendo salti più irregolari durante la crescita.

Il bambino di Sidrón
Il ricercatore Antonio Rosas e la sua equipe è arrivato alla conclusione che la crescita del cervello nei
Neanderthal era molto più lenta di quanto si pensasse, esaminando lo scheletro relativamente completo di un
bambino in una fase cruciale dello sviluppo. Il giovane ominide, rinvenuto nel sito archeologico di El Sidrón,
in Spagna, e battezzato per questa ragione "El Sidrón J1", secondo i ricercatori doveva avere circa 7 anni.
Analizzando le ossa e il cranio di questo Neanderthal il team di ricerca è riuscito a stimare che lo sviluppo
del cervello di El Sidrón J1 doveva avere essere circa all'87,5% delle dimensioni di quello di un esemplare
di Neanderthal adulto. Un dato che smentirebbe tutte le teorie che vorrebbero una crescita celebrale precoce
in questa specie, soprattutto considerando che un coetaneo sapiens ha un cervello sviluppato quasi al 95%.
Inoltre, per lo studio, le dimensioni di denti e cervello sarebbero il riflesso di una crescita del corpo lunga e
continua nel tempo e non a ritmi diversi.

Gli studi per capire l’evoluzione dell’uomo moderno


Lo studio, sostengono i ricercatori, dimostra che in realtà il modello di crescita dei Neanderthal è simile al
nostro. Questi antichi cugini, ha spiegato Rosas alla Bbc, "avevano un cervello più grande per permettere al
corpo, anch’esso più grande del nostro, di raggiungere la dimensione adulta", e non a causa di un progresso
precoce. La scoperta di un "ritmo" simile, secondo Rosas, potrebbe aprire anche all’ipotesi che l’uomo
sapiens e il Neanderthal possano aver ereditato questo modello di crescita da un antenato comune ancora
ignoto.

Differenze dopo la nascita nel cervello dei


Neanderthal e Sapiens indicherebbe causa del
successo dell’uomo moderno
Il cervello degli esseri umani e quello degli uomini di Neanderthal sono circa delle stesse dimensioni e
appaiono piuttosto simili globalmente. Ma alcune differenze che si manifestavano appena dopo la nascita, e
in particolare nel primo anno di vita, mostrerebbero fondamentali differenze sul comportamento globale tra
noi e in nostri cugini ormai estinti. La ricerca in questione apparirà nel numero del 9 novembre della rivista
Current Biology, una pubblicazione di Cell Press.

I risultati sono basati sul confronto delle impronte sulla scatola cranica del cervello in via di sviluppo e delle
strutture circostanti derivate dal crani di uomini moderni e fossili, tra cui quello di un neonato di
Neanderthal.

Philipp Gunz del Max Planck Institut per l’antropologia evolutiva ha spiegato che le differenze che i
ricercatori osservano nello sviluppo cerebrale precoce probabilmente riflettono i cambiamenti nei circuiti
cerebrali sottostanti. E’ proprio quell’organizzazione interna del cervello che influenza di più la capacità
cognitiva.

“Negli esseri umani moderni, le connessioni tra le diverse regioni del cervello che si instaurano nei primi
anni di vita sono importanti per le funzioni superiori di tipo sociale, emotivo, e relazionale”, ha detto Gunz.
“E’ quindi improbabile che i Neanderthal vedevano il mondo come noi.”

L’esistenza o meno di differenze cognitive tra gli esseri umani moderni ed i Neanderthal è oggetto di
controversie in antropologia e archeologia. Poiché la gamma di dimensioni del cervello nei Neanderthal
sostanzialemtne simile a quella gli esseri umani, molti ricercatori avevano assunto che le capacità cognitive
delle due specie fossero simili. Questa nuova scoperta incrina tale assunzione.

Infatti, la forma complessivamente allungata della scatola cranica non è cambiata molto nel corso di oltre
due milioni di anni di evoluzione umana, nonostante un notevole aumento del volume cranico. E’ la forma
globulare della sede cranica degli esseri umani moderni che contraddistingue la nostra specie dai nostri più
stretti parenti fossili. I nuovi risultati mostrano che, al momento della nascita, sia gli uomini di Neanderthal
che gli esseri umani moderni avevano un cervello allungato, ma solo la sede del cervello dell’homo sapiens
aveva una forma più globosa nel primo anno di vita.

“La forma globulare della scatola cranica degli esseri umani adulti è quindi in gran parte il risultato di una
fase iniziale di sviluppo del cervello che è assente da uomini di Neanderthal”, ha detto Gunz.
Il gruppo di ricerca aveva già trovato che i modelli di sviluppo del cervello umano e degli scimpanzé sono
notevolmente simili dopo il primo anno di vita, ma differiscono notevolmente subito dopo la nascita. I nuovi
risultati mostrano dunque che la “fase di globulizzazione” dello sviluppo del cervello distingue gli esseri
umani moderni non solo dagli scimpanzé, ma anche dagli uomini di Neanderthal.

Questa nuova ricerca sullo sviluppo del cervello umano potrebbe far luce sui risultati di un recente confronto
tra i genomi dell’uomo di Neanderthal e moderno, secondo i ricercatori.

“Il modello unico di sviluppo cerebrale precoce nell’uomo moderno è particolarmente interessante alla luce
delle recenti scoperte nel progetto di studio del genoma dei Neanderthal, che ha individuato i geni rilevanti
per la cognizione che sono derivati gli esseri umani moderni”, hanno scritto i ricercatori. Essi ipotizzano che
un allontanamento dal modello ancestrale di sviluppo del cervello che si è verificano nei primi Homo
sapiens abbia portato ad una riorganizzazione del cervello che ha portato gli esseri umani moderni ad avere
“una marcia in più” rispetto a tutti i nostri antenati mai comparsi sulla faccia della terra.

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