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Una finestra sulle Colline Metallifere

La scimmia di Montebamboli
Dopo 8 milioni di anni fa parlare ancora di sé

A distanza di circa cinquant’anni dagli ultimi ritrovamenti di scheletri fossili


nelle miniere di lignite Maremmane si ritorna a parlare dei primati vissuti in questo
territorio. Due paleontologi spagnoli, Meike Kohler e Salvador Moyà-Solà, con una
profonda ricerca ed una relazione dettagliata e documentata (1) hanno gettato
parecchio scompiglio nel campo scientifico riguardo le più consolidate ipotesi
evoluzionistiche.

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Quando il caso aiuta la scienza
Nella miniera di lignite prossima alla località di Montebamboli (tra Massa Marittima
e Monterotondo) furono rinvenuti, nel 1870, i resti fossili di un primate sconosciuto che fu
battezzato Oreopithecus bambolii.
Dal 1955 il paleontologo svizzero J. Hurzeler condusse parecchie campagne di ricerca
su questo mammifero che alcuni studiosi avevano attribuito ad un ramo laterale ed
estinto di ominidi.
Nel 1957, la miniera di lignite di Baccinello (frazione di Scansano), restituì uno
scheletro quasi completo della stessa specie (attualmente presso il Museo di Storia
Naturale dell’Università di Firenze) e ciò permise ad Hurzeler di completare le conoscenze
su questo animale che popolava alcuni milioni di anni fa il territorio Maremmano.
All’epoca gli esperti rimasero alquanto imbarazzati da alcune caratteristiche che
avvicinavano questo primate all’uomo, in particolare i denti, il bacino corto e largo e la
mano. D’altronde la datazione dell’orepiteco non ha mai dato adito a discussioni poiché
rinvenuto, appunto, in miniere di lignite del Miocene superiore, cioè di circa otto milioni di
anni fa.
Proprio ciò fu la pietra dello scandalo, poiché la ben più famosa Lucy
(l’australopiteco rinvenuto in Africa dal celebre paleontologo Leakey negli anni ‘60)
ritenuta la più antica ominide, cioè il nostro più lontano antenato con attributi umanoidi, è
vecchia ‘solo’ 3,2 milioni di anni.
Ma per comprendere appieno ciò che è accaduto così lontano nel tempo occorre
chiarire i termini dello scenario dell’epoca, molto differente dall’attuale.

Un territorio unico
L’ipotetico passeggero di un ancor più improbabile aereo, che nove milioni di anni fa
avesse gettato lo sguardo su quella parte della Toscana che oggi è chiamata Maremma
grossetana, avrebbe visto un panorama tropicale, occupato principalmente da un mare
poco profondo, popolato da molti pesci, crostacei e molluschi, con un vasto arcipelago di
isole fittamente ricoperte di vegetazione ed abitate da animali di ogni genere. Queste
isole facevano parte di un sistema molto ampio e complesso che creava un ‘ponte’ virtuale
tra le coste del nord Africa ed il continente europeo, quando l’Italia ancora non c’era.
Lo scenario era completato da vaste lagune racchiuse tra le isole che, in seguito
all’evoluzione di questo territorio, circa un milione di anni dopo, sprofondarono
trascinando tutti i resti degli esseri viventi, animali e vegetali, che, ricoperti da depositi
alluvionali, iniziarono il lento processo di fossilizzazione.
Successivamente la Terra entrò nel periodo del Pliocene (circa 5,5 milioni di anni fa)
ed iniziò ad assumere la fisionomia attualmente conosciuta.
La deriva dei continenti, divisi in placche che si spostano come lastre di ghiaccio
sull’oceano, li fa scontrare e li sottopone a spinte poderose che fanno curvare, spezzare e
sollevare la crosta terrestre.
La placca del continente Africano, insinuatasi nel fianco dell’Europa, continuò a
sollevare dapprima la catena Alpina, e, poi, quella Appenninica; questa è la ragione degli
ancora (ahinoi!) attuali terremoti italiani.
L’imponenza delle forze in gioco sollevò, oltre all’Appennino, anche il territorio delle
Colline Metallifere, e non solamente le isole sprofondate, ma anche i fondali marini,
completi dei sedimenti accumulati nel tempo.

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La scimmia che camminava in piedi
Quali erano i caratteri fisici e comportamentali di questa scimmia?
L’Oreopiteco era un primate, alto circa 1,20 m e di 35 Kg presunti, con braccia
lunghe, pesanti, muscolose, un piede ben proporzionato idoneo a supportare il 100% del
peso corporeo e con una tibia orientata verticalmente. Inoltre le vertebre lombari
presentavano la caratteristica curvatura (lordosi) necessaria per resistere alla spinta
verticale.
Le ossa della mano erano articolate in modo da consentire l’opponibilità del pollice.
La sua capacità cerebrale era modesta, circa 200 cm3 (mentre nell’uomo sono circa 1400).
E che la nostra ‘scimmietta’ avesse le caratteristiche funzionali per camminare su due
piedi sembra proprio indiscutibile: le dimensioni delle ossa del piede permettevano la
marcia eretta, come nell’uomo, diversamente da quanto risulta, invece, per lo scimpanzé,
dove le falangi, sproporzionate rispetto al tarso e metatarso, possono supportare
solamente il 60% della sua massa.
Anche la conformazione del bacino e le vertebre della colonna, adeguatamente
robuste, non lasciano adito a dubbi circa questa capacità davvero non comune.
Tutto ciò ha convinto sia lo studioso svizzero, come i ricercatori spagnoli, che
l’oreopiteco poteva deambulare conservando la stazione eretta.
Certo, la sua andatura non era elegante, strascicava i piedi, e sicuramente non si
poteva permettere corse simili a quelle umane; ma a quell’epoca era comunque un
fenomeno. Inoltre si arrampicava ancora sugli alberi, ma con la colonna eretta. Tuttavia
non aveva capacità intellettive evolute, a causa della ridotta cubatura cranica in rapporto
al volume del corpo.

Due piedi non fanno un uomo


Meike Kohler e Salvador Moyà-Solà hanno indagato a lungo presso il Museo di
Basilea, dove sono conservati circa 400 fossili di orepitechi del Miocene, traendone la
conclusione che:”La marcia bipede non é stata appannaggio dell’uomo e degli australopitechi. E’
apparsa molto prima di loro, indipendentemente, almeno una volta nella evoluzione”.
In sostanza l’oreopiteco non è un antenato diretto della stirpe umana, benchè in
condizioni particolari abbia potuto sviluppare la sua bipedia.
E qui rientra in gioco la genesi del territorio illustrata precedentemente. Difatti è
stato proprio il particolare isolamento di cui hanno goduto per diversi milioni di anni
queste scimmie che, in assenza di predatori terrestri (i loro scheletri non sono stati
rintracciati tra i fossili dei giacimenti), ha consentito loro una evoluzione verso la bipedia.
Sembra quindi che la bipedia dell’Oreopithecus fosse un fenomeno insulare.
“Questa grande scimmia, o il suo antenato - il dryopitheco africano probabilmente - si è
trovata isolata su di un’isola dal clima temperato e con vegetazione densa, e si è evoluta
differentemente dagli antropoidi africani. In assenza di predatori essa ha potuto permettersi il lusso
di imparare a vivere a terra - suggeriscono Meike Kohler e Salvador Moyà-Solà. Numerosi
lavori hanno dimostrato che era quattro volte meno costoso, dal punto di vista energetico, spostarsi
a terra. In più, vivere sospesi agli alberi è vivere pericolosamente, moltiplicando i rischi di caduta e
di conseguenti fratture.”
Se la bipedia è vantaggiosa, poche delle grandi scimmie hanno avuto l’occasione di
svilupparla. “In Africa, dove i predatori sono numerosi, le scimmie sono rimaste rifugiate sugli
alberi.”
In altre parole, per selezione naturale, si era potuto sviluppare un primate che a terra
godeva di condizioni di vita migliori di quelle dei suoi “parenti” arboricoli coevi, presenti
nel resto del continente europeo, ma da sempre alle prese con voraci predatori terrestri.
Ed ancora l’evoluzione geologica spiega la mancanza di discendenza degli
oreopitechi, divenuti (con i sollevamenti tettonici di circa 6 milioni di anni fa) facile preda
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dei carnivori provenienti dal vecchio continente ormai collegato, che cominciavano a
colonizzare le nuove terre emerse.
Ma ciò che i ricercatori spagnoli hanno voluto affermare (e questo è il primo punto
che determina l’imbarazzo dell’ambiente scientifico internazionale) è che la bipedia non
costituisce un marchio DOC per la definizione di ‘ominidi’, tagliando netto un legame
finora, invece, consolidato.
Difatti l’oreopiteco non era più evoluto dal punto di vista cerebrale, solo per avere
conquistato la stazione eretta e, conseguentemente, le mani libere.
E questo è il secondo punto di contrasto, poiché da molto tempo esiste una scuola di
pensiero di evoluzionisti che identifica proprio nell’uso delle mani una condizione per lo
sviluppo delle capacità intellettive dei nostri antenati.

Come sempre nei casi di ipotesi innovative numerosi studiosi del settore si sono
schierati contro, ma non mancano altri autorevoli ricercatori che appoggiano questa
teoria con argomentazioni difficilmente confutabili.
In ultima analisi, sembra proprio che se questo primate era divenuto bipede per una
serie di circostanze favorevoli, ciò non può essere più considerata una esclusiva degli
umani.
Inoltre, stando così le cose, il fenomeno bipedia non ha avuto la sua culla in Africa,
come finora ritenuto, ma in Europa, meglio in Italia; in Maremma per la precisione.
Tuttavia, assumendo per valide le conclusioni dei paleontologi spagnoli, si aprono
alcuni interrogativi fondamentali sulle modalità di evoluzione dei veri ominidi.
In breve: se non fu la stazione eretta, né l’uso delle mani, a determinare il passaggio
da scimmia ad ominide, quale fu il fattore che solamente 5 milioni di anni dopo permise a
Lucy, o qualche suo antenato, questo salto della barricata? Forse l’articolazione del
linguaggio?

C’è ancora abbastanza lavoro per intere generazioni di paleontologi.

Sennuccio del Bene 1998

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Homo Sapiens
albero genealogico
100.000 40.000
anni anni

Homo sapiens Homo sapiens


neanderthalensis sapiens
500.000
anni

Homo
sapiens arcaico

1,5 milioni
di anni

Australopithecus Homo
boisei erectus
3,2 milioni 2,5 milioni
di anni di anni

Australopithecus Australopithecus Homo


aethiopicus africanus habilis

8 milioni Lucy
di anni

Oreopithecus Australopithecus
bambolii afarensis Ricostruzione
schematica ad uso
didattico

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Bibliografia
(1) M. Kohler, S. Moyà Solà - Ape-like or hominid-like? The positional behavior of
Oreopithecus bambolii reconsidered - Proceedings of the National Academy of Science
(USA), Vol 94, 1997
M. Sozzi (a cura) - La Preistoria del territorio Massetano - Centro Studi Strorici “Agapito
Gabrielli”, Massa M. 2001

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