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Archeologia delle tenebre.

L’archetipo del felino nella preistoria


Matteo  Meschiari

Vendrassi la spezie leonina colle unglate branche aprire la terra e nelle fatte spelonche
seppellire sè insieme co’ li altri animali a sè sottoposti.
Leonardo da Vinci

Fino al 1994, anno della scoperta della Grotta Chauvet in Ardèche, la presenza di
immagini di felini nell’arte paleolitica era esigua. In cinquant’anni di ricerca si era definito
un bestiario piuttosto consolidato, e le analisi statistiche sembravano perentorie: da un
lato una massiccia presenza di bovidi e cavalli, dall’altro una sparuta costellazione di
animali detti ‘pericolosi’, in particolare mammuth, rinoceronti, orsi e appunto felini.
Si era anche osservato che questi animali occupavano nelle grotte ornate una posizione
marginale. Marginale nello spazio, e cioè erano graffiti o dipinti in luoghi per lo più
nascosti, in genere in cunicoli, pozzi o sul fondo della cavità, e marginale nel tempo,
perché sembravano piuttosto delle emergenze sporadiche, senza alcuna continuità.
Con la Grotta Chauvet che, fino a nuova scoperta, ci ha consegnato le più antiche
immagini mai realizzate dall’uomo (32.000 anni fa), il quadro statistico può dirsi
rivoluzionato: qui felini, rinoceronti e orsi costituiscono la stragrande maggioranza delle
immagini. Conseguenza: le teorie interpretative sono state riviste, e oggi si è d’accordo
nell’ammettere che non sempre l’associazione bisonte-cavallo ha avuto un valore
simbolico centrale. In epoca più antica, anzi, l’immaginario dell’uomo sembra essersi
concentrato su altri animali, e tra questi il felino deve aver svolto un ruolo cruciale.
Quale fosse questo ruolo non è chiaro. Il mio contributo è un sondaggio preliminare.
Facciamo un passo indietro, molto prima dell’arte e dell’Homo sapiens. Negli anni
Ottanta del Novecento, un paleontologo sudafricano, Bob Brain, ha ricostruito una
pagina fondamentale del passato dei nostri progenitori. Studiando certi accumuli d’ossa
risalenti a 2.500.000 di anni fa, ha potuto ribaltare una teoria che li interpretava come
ammassi di rifiuti di Australopiteci.
Tra le ossa erano rappresentati quasi tutti gli animali della savana ma, elemento
inquietante, c’erano in maggioranza crani di babbuini, solo i crani e, cosa ancora più
inquietante, c’era anche qualche cranio di Australopiteco. Come il resto delle ossa, i crani
degli Australopitechi recavano tracce di morte violenta, e da qui a formulare teorie di
cannibalismo e culto delle teste il passo era stato breve.
Bob Brain, invece, con pazienza, e come una sorta medico legale della preistoria, ha
dimostrato che i cumuli d’ossa erano piuttosto il resto dei pasti di un grande felino.
Studiando il comportamento dei felini attuali, il loro modo di uccidere le prede, di
trasportarle, di mangiarle, ha compreso che il carnefice non era un ominide, ma il
Dinofelis, un cugino minore della tigre dai denti a sciabola, un cacciatore robusto e
micidiale, di taglia intermedia tra il leopardo e il leone.
La cosa interessante è che pare che il Dinofelis fosse specializzato nella caccia dei
primati, in questo modo si spiega la massiccia presenza di crani di babbuini e di ominidi
nei suoi rifiuti, umani e babbuini che un felino riesce a mangiare interamente ad
eccezione della testa. In altre parole, conclude Brain, circa 2.500.000 di anni fa,
l’antenato dell’uomo ha vissuto in un ecosistema a rischio, cacciato da un antagonista
biologico che ha messo addirittura in crisi la sopravvivenza della specie.
Solo l’arrivo dell’Homo abilis, con la tecnologia del fuoco e dell’utensile in pietra
scheggiata, ha potuto dare una svolta alla storia dell’uomo sulla terra. Il Dinofelis è stato
sconfitto e l’uomo ha conquistato il vertice della piramide biologica.
Ora, il salto da 2.500.000 di anni fa al Paleolitico Superiore è enorme, e nulla, in una
prospettiva rigorosamente scientifica, può giustificare una connessione. L’unico ponte
che testimonia un legame tra l’uomo e il felino in una fase anteriore all’arte paleolitica è
una sepoltura neanderthaliana in cui, presso un personaggio di rango, sono state trovate
le ossa delle zampe e le vertebre della coda di un grosso felino.
Probabilmente si trattava di una pelle gettata sulle spalle dell’inumato, come si vede ad
esempio nell’iconografia classica degli stregoni africani. Per il momento, però, possiamo
conservare l’immagine del Dinofelis come metafora dell’evidente ossessione dell’uomo
per il felino, un’ossessione che ha marcato moltissime culture tribali, che ha sempre
accompagnato la cultura occidentale dall’Antichità al Medioevo a oggi, e che continua a
popolare, tra fascino e angoscia, il nostro immaginario e i nostri sogni.
Non è forse casuale, allora, che la più antica arte abbia sepolto in una grotta la più
terribile carica di felini mai dipinta dall’uomo. Un vortice di linee rabbiose ed eleganti che
scaturiscono con violenza centrifuga da un punto vuoto, forse un foro nel diaframma di
pietra che tiene a bada le energie ctonie, forse l’aleph insondabile, o un vaso di Pandora,
come sembra suggerire l’immaginoso apocalisse di Leonardo.
L’arte paleolitica è una potente chiave di lettura per cominciare uno scavo di quello che
con ogni evidenza sembra un archetipo radicato nel nostro inconscio, e questo perché
già nel Paleolitico il felino era rappresentato in modo problematico. Al contrario di altri
animali, per cui la rappresentazione naturalistica era la norma, col felino entriamo in un
terreno ambiguo, e la grotta Chauvet ci offre le immagini più eloquenti di questa
ambiguità.
Un esperto di felini attuali, osservando i leoni senza criniera dipinti nella grotta, ha
sottolineato che colui che li fece aveva una conoscenza diretta ed esatta dell’animale,
secondo il suo parere, cioè, aveva dovuto osservare degli esemplari vivi da molto vicino.
Lo testimoniano i dettagli anatomici, le posizioni di quiete o di corsa riprodotte alla
perfezione, e addirittura le diverse espressioni del muso.
Proprio le espressioni del muso, però, hanno colpito gli studiosi d’arte, perché nella
grotta Chauvet i profili dei felini passano da un massimo di realismo in certi animali ad
autentiche ‘caricature’ in altri: in certi casi la fisionomia della testa sembra assumere
espressioni facciali quasi umane.
È noto che le rappresentazioni di umani nel Paleolitico sono piuttosto rare e
approssimative, come se di fronte a tanta capacità di rappresentazione realistica degli
animali ci fosse una difficoltà tecnica, o psicologica, o religiosa che impediva di ritrarre
l’uomo in modo chiaro. Profili, volti, corpi somigliano piuttosto a fantasmi indistinti o, in
altri casi, scivolano nell’animale, creando ibridi in cui umanità e ferinità si mescolano in
un modo che non può non avere avuto un significato profondo.
La cosa interessante è che se molti leoni di Chauvet si avvicinano a fisionomie umane,
esistono anche molte rappresentazioni umane che si avvicinano a rappresentazioni
leonine. Ma come spiegare questa convergenza in un modo che vada al di là delle
interpretazioni sciamaniche o genericamente magiche? La confusione uomo-animale, la
metamorfosi, il partecipare di due nature in un solo corpo è un motivo troppo generico
per aiutare nella ricerca, e soprattutto non dice nulla di nuovo sulla relazione concettuale
tra l’uomo e il felino. Esistono però alcune opere d’arte delle origini che danno qualche
indizio.
Fino alla scoperta della Grotta Chauvet, l’immagine più antica mai prodotta dall’uomo era
una statuetta in avorio di mammuth raffigurante un umano ritratto in piedi e con testa
leonina. Si tratta della statuetta di Höhlestein-Stadel (Bade-Wurtemberg), datata a circa
30.000 anni fa. Le interpretazioni di questo artefatto sono varie. Alcuni sostengono che
si tratta di uno stregone che indossa una pelle di leone, altri pensano a una reale
metamorfosi dall’animale all’uomo, o viceversa.
Quello che conta notare, però, è che la relazione uomo-felino non è solo suggerita, come
nei casi precedenti, ma prende una forma unitaria, il che ci pone di fronte a una
concettualità che non si riduce alla somma di due nature, ma evoca una terza entità, un
campo semantico ulteriore, un luogo mentale in cui umano e felino si incontrano, vivono
una relazione, quasi una simbiosi.
La seconda opera è la più antica immagine prodotta dall’uomo sul continente africano.
Rinvenuta nella grotta denominata Apollo 11, in Sud Africa, è un ciottolo dipinto con
pigmento nero, datato a circa 26.000 anni fa. La figura di base è un felino, ma le zampe
posteriori sono due gambe certamente umane, probabilmente aggiunte a posteriori.
Sempre aggiunte a posterioni sono due corna sulla testa dell’animale, e un segno nel
ventre che indica verosimilmente il fallo. Ancora una volta cioè troviamo l’unione umano-
felino, ma in più si aggiungono attributi bovini e maschili. L’intervento sull’immagine
originaria va dunque nella direzione dell’elemento umano, di un secondo elemento
animale e della sessualità.
La terza opera viene dalla grotta Chauvet, ed è databile a circa 30.000 anni fa. La cosa
straordinaria è che ritroviamo tutti gli elementi elencati sopra, ma racchiusi in un’icona
tripartita che sembra sciogliere qualche ombra. Utilizzando una stalattite, di chiara
valenza fallica, l’artista ha dipinto in nero una cosiddetta Venere, con un triangolo pubico
ben marcato e inciso verticalmente, e cosce arrotondate che terminano a punta, senza
piedi, secondo la tradizionale iconografica delle statuette paleolitiche aurignaziane e
gravettiane.
Si può infatti confrontare questo artefatto con le note Veneri di Savignano o di Laussel.
La differenza qui è che la Venere appare come il ‘ritocco’ di un’emergenza naturale
preesistente: la forma calcarea può aver suggerito all’artista una somiglianza tra
stalattite e statuaria ‘classica’.
Aggiunta in un secondo tempo, abbiamo una figura bovina in posizione innaturale, cioè
in piedi, il che ci permette di collegarla immediatamente ad altri esempi simili denominati
tradizionalmente ‘stregoni’, di chiara simbologia maschile. Da notare l’ambiguità di
lettura dell’immagine, con una ‘conflittualità di contorni’ che permette di leggere la
coscia sinistra della venere come la coscia sinistra dell’uomo-bisonte, o viceversa. Il
fenomeno, diffusissimo nell’arte paleolitica, indica un legame intimo, un sincretismo.
Per ultimo poi, quasi a incorniciare e a saldare a livello iconografico il principio maschile
e quello femminile, abbiamo il proflilo di un felino, la cui linea dorsale prosegue in quella
dell’uomo-bisonte, mentre quella della zampa anteriore continua nel bordo della
stalattite, chiudendo circolarmente l’insieme. Appena abbozzata abbiamo la silouhette di
un secondo felino.
Come nel caso della placchetta sudafricana, si riconoscono varie fasi di esecuzione, ma
che sia intercorso poco o molto tempo tra la prima e l’ultima fase, resta fermo il fatto
che l’associazione ha prodotto un tutto unico il cui significato non può sfuggire. Esiste
una connessione necessaria tra il felino e il principio maschile-femminile, come se fosse il
felino a favorire il sincretismo tra i due sessi.
Quello che emerge da questa analisi e dalle precedenti immagini di felini umanizzati o di
umani felinizzati, è che il felino incarnava un principio dualistico, ambiguo, proteiforme,
forse ermafrodita, comunque connesso alla sfera sessuale e a una sessualità che poteva
riassumere l’unità degli opposti. Tutte le tradizioni successive mostrano il felino come
indistintamente associato alla sessualità maschile o femminile. Dei e dee in forme
leonine hanno mascherato nell’immaginario dei popoli pulsioni e paure sessuali sepolte
nell’inconscio.
Un quarto artefatto, simile ai precedenti ma che introduce un nuovo elemento, è un
graffito ritrovato al Riparo Tagliente, nel Veronese, databile a circa 11.000 anni fa. Si
tratta della sepoltura di un giovane uomo tra i 22 e i 23 anni. Le ossa degli arti inferiori
erano state ricoperte con pietre di varie dimensioni, due delle quali, le più grandi, posate
non casualmente sui femori, presentavano superfici graffite rivolte verso il basso, e cioè
in modo da aderire al corpo del defunto. In una di esse è forse riconoscibile un segno
vulvare, nella più grande c’è il graffito di uno stupendo leone delle caverne, la cui
schiena è sovrastata da grandi corna di bos primigenius.
Da notare che la testa del felino era originariamente rivolta verso i genitali del defunto.
Ecco allora che ritroviamo l’associazione felino-bovide, come in Apollo 11 e Chauvet, e
una connessione non casuale con la sfera sessuale. Quello che c’è di nuovo è che il tutto
si trova in una sepoltura, quindi l’insieme iconografico è associato alla morte. Forse le
pietre servivano a impedire che il defunto si rialzasse, che tornasse tra i vivi, e come
guardiano abbiamo un felino che ne minaccia il pube.
Ora, tra 32.000 anni fa in Francia, 30.000 anni fa in Germania, 26.000 anni fa in Africa e
11.000 anni fa in Italia corrono distanze spaziali e temporali che impediscono ogni reale
connessione. Ma quello che stupisce in questa libera comparazione è che troviamo già
nel Paleolitico alcuni dei campi semantici tradizionalmente legati al felino nelle culture
successive, in particolare l’ambiguità dualistica, la sessualità e la morte. Il legame tra
morte e sessualità è bene illustrato da certe culture africane. Presso alcune tribù si
temeva che vedere un leone potesse ridurre l’uomo all’impotenza sessuale.
Presso i Magussaua la circoncisione, che introduceva alla maturità sociale e sessuale,
veniva praticata da un uomo mascherato da leone o da leopardo, che azzannava
simbolicamente i genitali dell’iniziando. Presso gli Adamaua lo stregone che circoncideva
il ragazzo indossava una maschera di leopardo, e presso i Tschamba gli strumenti
utilizzati per questa operazione erano contenuti in una sacca ricavata dalla zampa di un
felino. L’iniziazione alla sessualità, attraverso la morte simbolica del rito di passaggio,
era dunque strettamente connessa al felino, che sì uccideva, ma anche richiamava alla
vita, e incarnava così il classico dualismo di morte e rinascita.
Un’altra incisione paleolitica pare simbolizzare proprio questo rituale, e il rapporto tra il
felino del Riparo Tagliente e il corpo dell’inumato sembra rientrare in questa dimensione
simbolica. Il felino ne minaccia i genitali ma, di fronte alla morte reale, come già nella
morte iniziatica, poteva essere il tramite verso un’altra vita. Il felino dunque come
divoratore dei genitali ma anche come animale psicopompo.
Ora, l’accostamento del felino a un passaggio tra i mondi (dei vivi e dei morti,
dell’infanzia e dell’età adulta) sembra caratterizzare molte culture: nella tomba dei Tori
di Tarquinia la pantera, anche per gli Etruschi associata a Dioniso, è di colore blu, perchè
Dioniso, oltre che dio dell’estate e della fertilità, è anche dio dell’aldilà, e il colore blu o
azzurro della pantera rimanda proprio alla dimensione ultraterrena e invisibile del dio.
Più tardi Macrobio ci ricorda che Crono, il dio con la falce che castra il tempo, era detto
in Oriente Deus leontocefalus, come la statuetta paleolitica di Höhlestein-Stadel. In
molte culture, dall’Africa all’America Latina, ritorna il felino come animale maestro di
iniziazione, animale che uccide, divora, e porta alla rinascita. In Grecia la pantera è
appunto connessa a Dioniso, dio smembrato e rigenerato. Presso gli Egizi il leone era
connesso al sole, forse, secondo alcune interpretazioni, per la caratteristica luminosità
degli occhi del felino di notte, o forse per un’idea di rinascita dopo la morte notturna.
Mitra, dio solare, è spesso rappresentato con testa leonina e a volte è ritratto in atto di
uccidere il toro sacro lunare (che la connessione felino-bovide del Paleolitico incarni
questa opposizione-unità tra principio solare e principio lunare, tra luce e buio, tra vita e
morte?). Per gli Assiro-Babilonesi il leone era simbolo di disordine e tenebra, e in India la
tigre era connessa a Shiva, dio distruttore e assieme rinnovatore...
Si potrebbero seguire all’infinito le fila di queste suggestioni, dai riti sciamanici
dell’America Latina, ai bestiari medioevali fino alla cinematografia recente, col Bacio
della pantera di Paul Schrader, ma il rischio è quello di smarrirsi in un pulviscolo
interpretativo che fa perdere di vista lo scopo iniziale della ricerca: qual è l’archetipo che
il felino della preistoria incarna e al tempo stesso traveste? Angoscia di castrazione,
come direbbe Freud, o massa di libido incestuosa, come diceva Jung a proposito del più
celebre ibrido umano-felino, la Sfinge? Forse tornare al Dinofelis e all’etologia felina può
ricentrare la questione ai suoi termini base.
Bob Brain, nei suoi studi sul comportamento dei felini, aveva raccolto una notizia
inquietante, che poi verificò di persona. Sui fianchi di una montagna africana di origine
vulcanica viveva una colonia di babbuini. Durante le ore di buio questi si riparavano dal
freddo notturno entrando nelle grotte laviche che foravano la montagna. Tuttavia nelle
grotte abitava anche un leopardo, che non doveva fare altro che scegliere una preda
quando ne aveva voglia.
I babbuini, paradossalmente, avevano accettato la presenza dello scomodo coinquilino e,
nonostante il pericolo certo, non rinunciavano al rifugio. Era come se un’inerzia e
un’indifferenza assurde incollassero i babbuini a quel luogo di morte. Brain ripetè
l’esperimento, e si nascose in un’altra grotta, questa volta senza leopardo. Calata la
notte, dal fondo, cominciò a strepitare all’improvviso, a imitare il ruggito di un felino, ma
nonostante confusione, urla e parossismo nel gruppo, nessuno dei babbuini fuggì.
Altri resoconti ci parlano dei felini mangiatori di uomini. Si tratta generalmente di
esemplari maschi in età avanzata che trovano nell’umano una preda relativamente facile
e che poi, visto il sapore della carne, lo preferiscono a ogni altro animale specializzandosi
nella caccia all’uomo.
I racconti dei pochi sopravvissuti all’attacco di un grosso felino, tra cui lo stesso
Livingstone, riferiscono che il contatto fisico con il predatore avviene in condizioni simili a
un sogno ad occhi aperti, in uno stato di deprivazione sensoriale quasi piacevole. L’uomo
non reagisce, e il cervello anestetizza il corpo, si instaura cioè una complicità tra preda e
predatore perché tutto finisca il più rapidamente possibile.
La proverbiale silenziosità del felino durante la caccia, il suo apparire ubiquo, le sue
rumorose, ripetute e violente manifestazioni sessuali, hanno certo colpito l’immaginario
di ogni tempo. Il fatto che i felini di taglia superiore comincino a smembrare la preda
dalle parti più molli, in genere proprio dai genitali, ci fa capire molte cose sulle pratiche
iniziatiche africane. In altre occasioni, certe posture del felino appaiono estremamente
umane, e nessun altro animale, tranne le grandi scimmie, assomiglia maggiormente
all’uomo nella taglia e nella muscolatura, e così via.
Basterebbe anche solo studiare la fascinazione della gente di fronte alla gabbia dei leoni,
e raccoglierne i commenti, che invariabilmente vanno dall’ammirazione per la loro
bellezza, alla curiosità morbosa su come sarebbe venire mangiati da loro. Desiderio di
essere predati?
Bob Brain ha ritratto una pre-umanità di cacciati, non di cacciatori. Il primo uomo
davvero tale, l’Homo abilis, ribaltò la situazione, e così facendo inaugurò la nostra
specificità: una specie tecnicamente forte ma biologicamente debole, un dualismo tra
vulnerabilità e sopraffazione che ha marcato le storie individuali e collettive dell’umanità.
Il felino va all’uomo perché non ha consapevolezza delle sue armi, e perché al contrario
sa perfettamente di avere di fronte una preda priva di zoccoli per scalciare, denti per
mordere, artigli per lacerare. E l’uomo perché va al felino? Bruce Chatwin, toccato dagli
studi di Brain, parlava di nostalgia.
Una volta scomparso il Dinofelis ci è venuto a mancare l’Avversario, il Principe delle
Tenebre, e per questo, eliminatolo fisicamente, lo abbiamo tenuto con noi
interiorizzandolo, chiamandolo con molti nomi diversi a seconda delle varie mitologie, o
incarnandolo nel nemico di turno... Un’ipotesi altamente suggestiva e altamente
indimostrabile.
Forse, però, il fascino che sentiamo per il felino ci parla di una mancanza che non è solo
mancanza di attributi come la forza, l’eleganza, l’agilità, o l’istinto ferocemente
necessario che vediamo espressi così bene in un leopardo. Forse avvertiamo la
mancanza di un mondo in cui l’Altro era un animale in carne ed ossa, e non,
tragicamente, un fantasma interiore o, peggio, uno di noi.
Inoltre, nonostante Homo abbia sconfitto Felis molto anticamente, pare si sia trattato di
una sconfitta parziale. L’uomo come specie non era più minacciato, ma il felino
continuava ad essere competitivo nella caccia agli erbivori. Da antagonista biologico
passò dunque a concorrente alimentare. Con l’arrivo di Homo sapiens, intorno a 50.000
anni fa, molti grandi felini si estinsero, un’estinzione in massa che è indice non tanto di
uno spegnersi progressivo, ma più probabilmente di una caccia accanita e sistematica.
Sembra che il loro sterminio sia diventato a un certo momento una priorità assoluta.
Nei miti Olmechi, i giaguari sterminarono la prima popolazione umana del mondo e, per
scongiurarne la collera, si venerava un dio specifico, il bambino-giaguaro, metà umano e
metà felino, a cui si sacrificavano bambini. Si suppone che tale cerimoniale fosse il
riflesso capovolto di una grande caccia rituale su vasta scala condotta contro i felini in
fase pre-Olmeca. In altri termini, la lotta senza qurtiere ai felini deve aver provocato un
trauma profondo nei gruppi di Cacciatori Arcaici, vuoi per un senso di colpa, vuoi per
paura di subire una vendetta.
Gli Inca solevano sottrarre i cuccioli ai giaguari, e una femmina di giaguaro cui siano
stati tolti i piccoli diventa furiosamente vendicativa...
Le tracce culturali del rapporto uomo-felino parlano tanto di un archetipo dell’inconscio
collettivo, quanto di una volontà di rimozione. Il felino disturba l’individuo e disturba il
gruppo: freudiano il primo, junghiano il secondo?
Troppo banale. Forse la grande caccia al felino, reale e simbolica, è il riflesso della
volontà di non portare a piena emersione l’archetipo, è la paura del vaso di Pandora, che
può bruciare il singolo come la specie.
Come individui ci confrontiamo con la paura di un ritorno violento e incontrollato
dell’inconscio, e come gruppo tendiamo a respingere un principio irrazionale e caotico
che mette in seria discussione le basi normative del gruppo.
Si può anche pensare che la caccia al felino abbia potuto funzionare come affermazione
di un potere biologico e simbolico. La caccia rituale al leone presso i Masai è
indispensabile per accedere alla condizione adulta, e in moltissime culture è strettamente
connessa all’affermazione di sovranità. Le guerre che caratterizzano il Neolitico sono
forse una prosecuzione di quelle ai grandi carnivori del Paleolitico.
Venendo a mancare questi, l’uomo ha cominciato ad accanirsi sull’uomo, riversando sui
propri simili un eccesso di energie di autodifesa e sopraffazione. Non è improbabile che il
felino, per empatia, risvegli una duplice tenebra, il sentimento ambiguo di una paura di
violenza: violenza mortale o violenza sessuale, violenza che si subisce o violenza che si
fa subire.
Mettendo assieme alcune analisi sulle più antiche testimonianze del rapporto tra uomo e
felino nella preistoria e, dall’altro lato, alcune osservazioni etologiche sui felini attuali, si
può notare che questa relazione si è riprodotta nella storia dell’uomo secondo schemi
piuttosto ripetitivi. Non esistono elementi per parlare di continuità culturale, ma una
certa impressione di universalità ci è data dal fatto che, biologicamente parlando, la
natura del felino, e anche la natura umana, sono cambiate relativamente poco negli
ultimi 40.000 anni.
Il felino, evidentemente, smuove certe parti sepolte nel nostro profondo, parti che
riconosciamo in lui o perché ci assomigliano, o perché ci mancano, facendoci sentire
imperfetti. Di fronte al felino proviamo un terrorre ipnotico, seduttivo, che instaura una
connivenza ambigua, un gioco di attrazione e morte in cui ci sentiamo sensualmente
perdenti, voluttuosamente dominati. Altre volte vorremmo essere come lui, magari
proprio per dominare a nostra volta. Il Dinofelis doveva rappresentare tutte queste cose
in modo perfetto, perché era il nostro perfetto antagonista, fatto su misura per noi,
l’unico con cui dovessimo fare seriamente i conti come specie.
Come i babbuini della caverna africana, anche oggi non facciamo che aspettare il nostro
turno, con la stessa provvidenziale indifferenza che ci impedisce di pensare ogni istante
alla certezza della nostra morte. Ma il felino è uscito materialmente dalle nostre vite, e
ne abbiamo cercato il fantasma in qualcosa che ci assomiglia di più, si tratti di un angelo
decaduto o di un terrorista islamico. La cosa è molto pericolosa, perché senza un
animale-guida rinunciamo a confrontarci simbolicamente con la nostra mente irriflessiva.
Neghiamo energie irrazionali, selvatiche, caotiche, che poi scoppieranno più tardi in
piccole o grandi ecatombi.
Proprio nella Mesopotamia in cui oggi si gioca la guerra del petrolio sorgeva il magnifico
palazzo di Assurbanipal. Uno dei bassorilievi sopravvissuti ci illustra la Grande Caccia del
Re. Orgoglioso, il sovrano si erge sul suo carro come un cacciatore bianco su una jeep, e
brandisce il bell’arco come si imbraccia un Remington. Il Presidente-Cacciatore sta
uccidendo leoni, grandi leoni maschi, muscolose leonesse, che giacciono trafitte al suolo
come tanti san Sebastiano.
Il sangue cola a fiumi... Cosa vuol dire? Siamo all’epoca delle città-stato, delle città-
granaio, della terra squadrata e misurata. Non c’è più posto per il selvatico nello spazio
degli uomini, ed ecco che il Re ricaccia il leone delle tenebre via dalle mura della città,
via dalla civiltà nascente. Ma il felino è un principio ermafrodita di luce e di tenebra, di
morte e rinascita, e il Re, con la scusa di uccidere le tenebre si fa uccisore della luce, di
tutta la luce che non sia l’olio che brucia nelle diecimila lampade della città. Ma quanto
può durare quell’olio? E quanto il petrolio?
Proviamo a guardare quante volte il felino è stato ucciso. Nella Mesopotamia delle città
geometriche, nella Grecia della neonata ragione che scaccia Dioniso, nell’Europa cristiana
dei gatti arsi con le streghe, negli zoo, nei mercati cinesi in cui si vende ancora pene di
tigre per illudere maschi impotenti... O la legge o il selvatico, o la città o il bosco, o
l’ordine o il caos. Ma è l’aut aut la vera menzogna, siamo schiavi del pensiero dialettico
solo da poche centinaia di anni, e il misterioso pendente della Grotta Chauvet ci mostra
altri modi possibili della mente.
Il felino che racchiude e sigilla l’unione tra la fertilità femminile e l’esuberanza maschile,
come il cerchio che racchiude lo Yin e lo Yang, è il campo in cui i due opposti coabitano,
un campo che non porta a una sintesi identitaria, soprattutto un campo che resta
pericoloso, poco rassicurante, necessariamente instabile.
In Cina lo Yin è l’essenza del principio femminile ed è simboleggiato da una tigre. La dea
della fertilità Kuan Yin è rappresentata a cavallo di una tigre. In Egitto Sekhmet era la
dea leontocefala della guerra, e Bastet dalla testa di gatta univa al calore solare le
passioni ardenti. In India, Durga, la Madre Terribile, cavalca un leone. In Grecia la dea
della fecondità Cibele viaggiava su un carro trainato da leoni.
La scandinava Freya, dea della terra, della libertà e della passione violenta viaggia su un
carro trainato da gatti. E il gatto era consacrato ad Artemide. Nel sogno il leone è indice
di forze selvagge, indomite, maschili e penetranti, uno spiritus mercurialis, per dirla con
Jung, indice di pulsioni sessuali incontrollate, e si potrebbe continuare.
Quello che forse conta trattenere dall’icona della Grotta Chauvet, invece, è che solo nella
rinuncia del razionale, nel dialogo con l’istintuale, si possono conciliare gli opposti. In
ogni caso, il nostro rapporto col felino ci parla da sempre del difficile gioco con l’alterità,
un’alterità che ora ci attrae ora ci spaventa. Censurando il felino, il selvatico, uccidendolo
senza sostituirlo con qualcosa di altrettanto potente (che in fin dei conti non esiste), si
rischia di cadere nell’unica vera tenebra, la mancanza di scelta.

Testi di riferimento
- G. BARTOLOMEI, A. BROGLIO, A. GUERRESCHI, P. LEONARDI, C. PERETTO, B. SALA:
Una sepoltura epigravettiana nel deposito pleistocenico del Riparo Tagliente in
Valpantena (Verona), in “Rivista di scienze preistoriche”, XXIX, 1, 1974.
- C.K. BRAIN: The Hunters or the Hunted? An Introduction to African Cave Taphonomy.
Chicago, Chicago University Press, 1983.
- G. BRUSA ZAPPELLINI: Occhi, begli occhi. Il leone e i riti della piccola morte, in Id.,
Arte delle origini / Origini dell’arte. Preistoria delle immagini, Edizioni Archeopterix-
Arcipelago, Milano, 2002 (in stampa).
- B. CHATWIN: Le vie dei canti. Milano, Adelphi, 1988.
- J.M. CHAUVET, E. BRUNEL-DESCHAMPS, C. HILLAIRE: La Grotte Chauvet à Vallon-
Pont-d´Arc. Postface par J.Clottes, Paris, Seuil, 1995.
- J. CLOTTES: Chauvet. L’art des origines. Paris, Seuil 2001
- Y. LE GUILLOU: La Vénus du Pont-d’Arc, in “International Newsletter on Rock Art”,
XXIX, 2001.
- W.E. WENDT: ‘Art mobilier’ from the Apollo 11 Cave, South West Africa: Africa’s Oldest
Dated Works of Art, in “South African Archaeological Bullettin”, XXXI, 1975.

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