[Concetti generali di
Zoologia]
Introduzione
Origini della teoria
darwiniana dell’evoluzione
La prima spiegazione completa dell’evoluzione è opera del biologo francese Jean Baptiste
de Lamarck (1744-1829; Figura 12.2) e risale al 1809, anno di nascita di Darwin. Egli per
primo sostenne in maniera convincente che i fossili erano i resti di animali estinti. La sua
ipotesi sui meccanismi dell’evoluzione, cioè l’ereditarietà dei caratteri acquisiti, era di una
semplicità affascinante: gli organismi, nel tentativo di adattarsi al proprio ambiente,
acquisirebbero adattamenti che vengono poi ereditati dalla loro progenie. Secondo Lamarck,
le giraffe hanno evoluto un collo lungo perché i loro antenati, sforzandosi di raggiungere il
cibo, allungarono man mano il proprio collo, trasmettendo, poi, questa caratteristica alla
progenie. Nel corso di molte generazioni tali cambiamenti si sarebbero accumulati fino a
produrre il lungo collo delle giraffe moderne. Il concetto evolutivo di Lamarck è oggi detto
trasformista, in quanto afferma che mentre i singoli individui cambiano le proprie
caratteristiche attraverso l’uso e il disuso delle parti del corpo, l’ereditarietà fa le
corrispondenti correzioni portando all’evoluzione. Oggi respingiamo le teorie trasformiste,
perché gli studi genetici hanno dimostrato come i tratti che un organismo può acquisire nel
corso della vita, per esempio un irrobustimento dei muscoli, non possono essere trasmessi
alla prole. La teoria evolutiva di Darwin differisce da quella di Lamarck per essere una
teoria sulla variazione, basata sulle differenze genetiche che si verificano tra gli organismi
all’interno di una popolazione. L’evoluzione a livello di popolazione include cambiamenti
attraverso le generazioni nelle caratteristiche dell’organismo che prevalgono nella
popolazione. Darwin sosteneva che gli organismi che possedevano caratteristiche ereditarie
che conferivano un vantaggio per la sopravvivenza o la riproduzione avrebbero lasciato più
prole rispetto ad altri organismi, facendo sì che le caratteristiche più favorevoli alla
sopravvivenza e al successo riproduttivo dei loro portatori si accumulassero nelle
popolazioni attraverso le generazioni.
Il geologo sir Charles Lyell (1797-1875; Figura 12.3) introdusse, nel suo trattato Principles
of Geology (1830-1833), il concetto dell’attualismo. L’attualismo racchiude due principi
importanti che guidano lo studio scientifico della storia della natura. Questi principi
affermano che: (1) le leggi della chimica e della fisica sono rimaste invariate durante la
storia della Terra; (2) gli eventi geologici del passato sono avvenuti grazie a processi
naturali simili a quelli che osserviamo attualmente. Lyell dimostrò che le forze naturali,
agendo su lunghi periodi di tempo, potevano spiegare la formazione di rocce contenenti
fossili. Per esempio, poiché i resti scheletrici di coralli (vedi Paragrafo 19.1), foraminiferi
(vedi Paragrafo 17.3, “Foraminifera”) e molluschi (vedi Paragrafo 22.1) si accumulano sul
fondo del mare, formano sedimenti di carbonato di calcio che alla fine vengono inglobati nel
calcare. Gli studi geologici di Lyell lo portarono a concludere che l’età della Terra dovesse
essere riconsiderata in termini di milioni di anni. I tassi di sedimentazione misurati sono
troppo lenti per aver prodotto le formazioni rocciose sedimentarie della terra in un periodo
di tempo così breve. Questi principi furono utili per confutare spiegazioni miracolose o
soprannaturali della storia della natura, sostituendole con spiegazioni scientifiche. Lyell
enfatizzò anche la natura graduale dei cambiamenti geologici che si susseguono nel tempo e
intuì, inoltre, che tali cambiamenti non hanno una particolare direzione. Per esempio, la
posizione delle montagne e del mare cambierebbe gradualmente nel tempo, ma la superficie
terrestre non avrebbe alcuna tendenza direzionale a diventare più montuosa o più allagata.
Vedremo come entrambe queste affermazioni abbiano lasciato tracce importanti nella teoria
dell’evoluzione di Darwin.
La teoria evolutiva
darwiniana: la prova
Cambiamento continuo
La premessa principale alla base dell’evoluzione darwiniana è che il mondo vivente non è
né costante né perpetuamente ciclico, ma cambia sempre e con continuità ereditaria dalla
vita passata a quella presente. Il continuo cambiamento nella forma e nella diversità della
vita animale nel corso degli ultimi 600-700 milioni di anni è ben rappresentato nei resti
fossili. Un fossile è ciò che rimane di un organismo vissuto nel passato, riportato alla luce
dalla crosta terrestre (Figura 12.8). Alcuni animali hanno lasciato resti fossili completi (gli
insetti conservati nell’ambra e i mammut), o le loro parti dure (denti e ossa), o parti di
scheletro pietrificate per infiltrazione di silice o di altri minerali (ostracodermi e molluschi).
Altri fossili comprendono esuvie di artropodi, impronte, calchi ed escrementi (coproliti).
Oltre a documentare l’evoluzione degli organismi, i fossili forniscono anche informazioni
sui cambiamenti ambientali, comprese le principali variazioni nella distribuzione di terre
emerse e mare. Dal momento che molti organismi non hanno lasciato fossili, è per noi
impossibile avere un quadro completo della storia passata della Terra; nondimeno, la
scoperta di nuovi fossili e ulteriori studi su quelli già noti possono fornire nuove indicazioni
su come la forma e la diversità degli animali siano cambiate nel tempo geologico. I fossili
formati sui fondali dei mari antichi possono essere estratti nelle montagne attuali.
Lo studio dei fossili rischia di essere fuorviante, in quanto la loro conservazione è selettiva.
Infatti, le parti scheletriche dei vertebrati e gli invertebrati con conchiglie e altre parti dure
fossilizzano molto bene (vedi Figura 12.8). Gli animali a corpo molle, come le meduse e la
maggior parte dei vermi, fossilizzano solo in circostanze particolari, come quelle realizzatesi
nei depositi di scisti di Burgess, nella British Columbia (Figura 12.9). Condizioni
eccezionalmente favorevoli alla fossilizzazione produssero lo strato fossile precambriano
nel sud dell’Australia, la cava di catrame di Rancho La Brea (Hancock Park, Los Angeles), i
grandi depositi di dinosauri (Alberta, Canada, e Jensen, Utah; Figura 12.10) e i depositi
fossili delle province cinesi di Yunnan e Liaoning. I fossili si depositano in strati, con i
nuovi strati che si sovrappongono a quelli più vecchi. Nel caso, raro, in cui non vi siano
riarrangiamenti degli strati, è possibile individuare una sequenza temporale, con i fossili più
vecchi depositati negli strati inferiori. Alcuni fossili vengono spesso utilizzati per
identificare determinati strati. Certi fossili di organismi marini ampiamente diffusi, fra cui
diversi foraminiferi (vedi Paragrafo 17.3) ed echinodermi (vedi Paragrafo 28.4), sono buoni
indicatori di ere geologiche specifiche, tanto da essere chiamati “indicatori” o “fossili
guida”. Sfortunatamente, di norma gli strati si rovesciano o si piegano. Depositi più vecchi,
portati alla luce dall’erosione, possono essere coperti da nuovi depositi in un livello diverso.
Quando esposte a grandi pressioni o al calore, le rocce sedimentarie stratificate
metamorfosano in quarzi cristallini, ardesia o marmo, distruggendo i resti fossili. La
stratigrafia dei due gruppi principali di antilopi africane e la sua interpretazione evolutiva
sono riportate nella Figura 12.11. Le specie sono identificate in base alle dimensioni e alle
forme caratteristiche delle corna, che costituiscono il principale reperto fossile in questo
gruppo. Nella figura le linee continue verticali indicano la distribuzione temporale delle
specie determinata dalla presenza delle caratteristiche corna negli strati di roccia di età
differenti. Le linee in rosso indicano i reperti fossili di specie tuttora viventi e le linee
continue grigie i reperti fossili di specie estinte, mentre le linee grigie tratteggiate indicano
le relazioni dedotte fra specie viventi e fossili basate sulla condivisione di caratteristiche
strutturali omologhe.
Tempo geologico
Molto tempo prima che l’età della Terra fosse nota, i geologi ne avevano suddiviso la storia
in una serie di eventi successivi, sulla base degli strati di rocce sedimentarie. Mediante la
“legge della stratigrafia” essi produssero una datazione relativa, con gli strati più antichi
nella parte inferiore della sequenza e quelli più recenti nella parte più alta. Il tempo fu
quindi diviso in eoni, ere, periodi ed epoche (vedi la Scala dei Tempi Geologici alla fine del
libro). Il tempo durante l’ultimo eone (Fanerozoico) è espresso in ere (per es., Cenozoico),
periodi (per es., Terziario), epoche (per es., Paleocene) e, a volte, in ulteriori suddivisioni di
un’epoca. Alla fine degli anni ’40 fu messo a punto un metodo radiometrico per la datazione
assoluta delle rocce. Attualmente sono usati svariati metodi indipendenti, tutti basati sul
decadimento radioattivo degli elementi naturalmente presenti nelle rocce. Questi “orologi
radioattivi” sono indipendenti da cambiamenti di pressione e temperatura e dunque non
risentono delle spesso violente attività di formazione della Terra. Uno dei metodi, la
datazione potassio-argon, si basa sul decadimento del potassio-40 (40K) ad argon-40 (40Ar)
(12%) e calcio-40 (40Ca) (88%). L’argon è un gas nobile che evapora dai liquidi. Si
accumula nella struttura cristallina della roccia solo dopo che la roccia si è solidificata e il
decadimento nucleare del potassio-40 produce un atomo intrappolato di argon. L’emivita del
potassio-40 è di 1,3 miliardi di anni; ciò significa che la metà del suo numero originale di
atomi decade in 1,3 miliardi di anni, mentre un’altra metà degli atomi rimanenti verrà persa
nel corso dei 1,3 miliardi di anni successivi. Questo decadimento continua fintanto che tutto
il potassio-40 radioattivo non sarà perso. Per misurare l’età di una roccia, è sufficiente
calcolare la percentuale di potassio40 residuo rispetto alla quantità di potassio-40
originariamente presente (cioè gli atomi di potassio-40 rimanenti più gli atomi di argon-40 e
calcio-40, risultati dal decadimento). Una equazione standard converte questi dati nel tempo
trascorso dalla formazione della roccia in funzione dell’emivita del potassio-40. Molti altri
isotopi radioattivi, alcuni utili per determinare addirittura l’età della stessa Terra, possono
essere utilizzati a questo scopo. Uno degli orologi radioattivi più utili si basa sul
decadimento dell’uranio in piombo. Con questo metodo è possibile datare rocce vecchie più
di 2 miliardi di anni, con un margine d’errore inferiore all’1%. I più antichi reperti fossili di
organismi macroscopici risalgono all’inizio del periodo Cambriano dell’era Paleozoica,
circa 542 milioni di anni fa. Il tempo geologico antecedente al Cambriano è chiamato era
Precambriana o eone Proterozoico. Sebbene l’era Precambriana da sola occupi l’85% di
tutto il tempo geologico, essa è stata meno studiata delle ere successive; ciò dipende dal
fatto che nelle formazioni precambriane è raramente presente il petrolio, che rappresenta un
incentivo notevole per la ricerca geologica. L’era Precambriana contiene fossili ben
conservati di batteri e alghe, impronte di meduse, spicole di spugne, coralli e tracce di vermi
molli. La maggior parte, ma non tutti, sono fossili microscopici.
Tendenze evolutive
I reperti fossili ci consentono di seguire i cambiamenti evolutivi su una più ampia scala di
tempo. Più volte, attraverso i resti fossili, si assiste al differenziarsi di specie che poi si
estinguono. Le specie animali, tipicamente, sopravvivono da 1 milione a 10 milioni di anni,
sebbene questi valori siano molto variabili. Quando si studiano le modalità con cui una
specie o un taxon si sono succeduti nel tempo, è possibile osservare delle tendenze. Le
tendenze sono cambiamenti in una certa direzione delle caratteristiche tipiche o dei modelli
di diversità in un gruppo di organismi. Le tendenze riscontrabili nei resti fossili dimostrano
chiaramente il principio di Darwin del cambiamento continuo. Una tendenza fossile molto
ben studiata è quella relativa all’evoluzione dei cavalli dall’Eocene a oggi. Risalendo
all’Eocene è possibile trovare molti diversi generi e specie di cavalli che si sono sostituiti gli
uni agli altri nel tempo (Figura 12.12). George Gaylord Simpson dimostrò che questa
tendenza è compatibile con la teoria evolutiva darwiniana. Le tre caratteristiche che meglio
rappresentano le tendenze evolutive nella linea filetica dei cavalli sono la dimensione del
corpo, la struttura del piede e la dentatura. In confronto con i cavalli moderni, i generi
estinti erano più piccoli, avevano denti caratterizzati da una superficie di masticazione più
limitata e piedi con un più alto numero di dita (4). Attraverso l’Oligocene, il Miocene, il
Pliocene e il Pleistocene si differenziarono nuovi generi, mentre quelli più vecchi si
estinguevano. Passando da un genere all’altro si assiste in tutti i casi a un aumento delle
dimensioni corporee, a un ampliamento della superficie masticatoria e a una riduzione del
numero di dita. Mano a mano che si riduceva il numero di dita, quello centrale diventava
sempre più pronunciato nel piede e, alla fine, rimase solo questo. I resti fossili mostrano
anche un cambiamento netto non solo nelle caratteristiche dei cavalli, ma anche nel numero
dei differenti generi e delle specie presenti nelle diverse epoche. I tanti generi di cavalli del
passato si sono estinti, lasciando un unico superstite, Equus. Tendenze evolutive della
diversità possono essere riscontrate nei fossili di svariati gruppi di animali (Figura 12.13).
Le tendenze nella diversità dei fossili nel tempo sono il risultato del differente rapporto tra
tasso di formazione di nuove specie e tasso di estinzione di altre. Perché alcune linee
evolutive generano un alto numero di nuove specie mentre altre ne producono solo
relativamente poche? Perché diverse linee filetiche presentano tassi di estinzione (di specie,
generi o famiglie) più alti o più bassi? Una possibile risposta è nelle altre quattro teorie
evolutive di Darwin. Indipendentemente da come rispondiamo a queste domande, le
tendenze osservate nella diversità animale illustrano chiaramente il principio di Darwin del
cambiamento continuo. Dal momento che le altre quattro teorie darwiniane si basano su
questo principio, ogni prova a favore di queste teorie avvalora anche quella del
cambiamento continuo.
Discendenza comune
Darwin suggerì che tutte le specie animali e vegetali discendessero da “una stessa forma, in
cui, per prima, fu infusa la vita”. La storia della vita è rappresentata come un albero che si
ramifica, chiamato albero filogenetico (filogenesi). Gli evoluzionisti pre-darwiniani, incluso
Lamarck, parlavano invece di più origini indipendenti della vita, ciascuna delle quali
avrebbe dato origine a una linea filetica che sarebbe cambiata nel tempo, ma senza formare
troppe ramificazioni. Come tutte le buone teorie scientifiche, anche quella della discendenza
comune consente di fare importanti previsioni verificabili e, al limite, utili per confutare la
teoria stessa. Secondo questa teoria, potremmo essere in grado di ricostruire la genealogia di
tutte le specie attuali, fino a risalire alle linee filetiche ancestrali, condivise con altre specie,
sia viventi sia estinte. In teoria, potremmo essere in grado di continuare all’indietro nel
tempo in questo processo, fino a individuare l’antenato di tutta la vita sulla Terra. Su
quest’albero sono quindi riportate tutte le forme di vita, comprese molte forme estinte, che
rappresentano i rami morti. Anche se ricostruire la storia della vita in questo modo può
sembrare un’impresa impossibile, questo approccio è stato in realtà estremamente proficuo.
Come è stato realizzato questo difficile compito?
Darwin riconobbe la fonte principale di sostegno alla teoria dell’origine comune nel
concetto di omologia. Richard Owen (1804-1892), contemporaneo di Darwin, aveva usato
questo termine per definire “lo stesso organo in organismi differenti in ogni sua varietà di
forma e funzione”. Un classico esempio di omologia è lo scheletro degli arti dei vertebrati.
Le ossa dell’arto dei vertebrati hanno mantenuto caratteri stiche somiglianze di forma e
struttura, malgrado le varie trasformazioni per le diverse funzioni (Figura 12.14). Secondo la
teoria di Darwin della discendenza comune, le strutture che noi chiamiamo omologhe
rappresentano caratteristiche ereditate, con qualche modifica, da una corrispondente
struttura di un antenato comune. Darwin dedicò un intero libro, The Descent of Man and
Selection in Relation to Sex, all’idea che gli uomini condividessero un antenato comune con
le scimmie e con altri animali. Questa ipotesi era ripugnante per gli inglesi dell’epoca
vittoriana, che risposero con prevedibile sdegno (Figura 12.15). Darwin aveva costruito il
suo esempio essenzialmente su confronti anatomici che rivelavano l’omologia fra l’uomo e
le scimmie. Per Darwin, la stessa somiglianza fra scimmie e uomo poteva essere spiegata
solo in base a un’origine comune. Attraverso la storia di tutte le forme di vita, i processi
evolutivi generano nuove caratteristiche che vengono quindi ereditate dalle generazioni
successive. Ogni volta che una caratteristica nuova prende origine in una linea evolutiva, si
assiste all’origine di una nuova omologia. Tale omologia viene trasmessa a tutte le linee
discendenti fino a quando non sarà perduta. La condivisione di omologie tra specie fornisce
prove di una discendenza comune e ci consente di ricostruire le ramificazioni evolutive della
storia della vita. Possiamo al riguardo portare un esempio utilizzando la filogenesi degli
uccelli non volatori paleognati. Una nuova omologia scheletrica caratterizza ciascuna linea
filetica (Figura 12.16; la descrizione di queste omologie non viene riportata in quanto
altamente specialistica). I diversi gruppi di specie posizionati sui rami terminali dell’albero
contengono combinazioni diverse di tali omologie e rivelano quindi una discendenza
comune. Per esempio, gli struzzi presentano le omologie da 1 a 5 e la numero 8, mentre i
kiwi mostrano le omologie 1, 2, 13 e 15. I rami di questo albero combinano le specie in una
gerarchia annidata di gruppi entro gruppi (vedi Capitolo 16). I gruppi più piccoli (specie
raccolte in ramificazioni terminali) sono racchiusi in gruppi più ampi (speci raggruppate sui
rami basali, compreso il tronco dell’albero). Anche se cancellassimo la struttura dell’albero,
conservando solo le omologie osservabili nei gruppi di specie viventi, saremmo in grado di
ricostruire la struttura ramificata dell’intero albero. Gli evoluzionisti cercano di verificare la
teoria della discendenza comune osservando i modelli di omologia presenti in tutti i gruppi
di organismi. Lo schema formato da tutte le omologie, considerate nel loro insieme,
dovrebbe indicare esattamente un solo albero ramificato, che rappresenti la genealogia
evolutiva di tutti gli organismi viventi. La struttura ad albero, dedotta dall’analisi delle
strutture scheletriche di uccelli non volatori, può essere testata da dati raccolti
indipendentemente dall’informazione di sequenze di DNA. La filogenesi degli uccelli non
volatori dedotta da dati di sequenze di DNA non è del tutto in accordo con quella dedotta
dalle strutture scheletriche (vedi Figura 12.16); se noi scegliamo l’ipotesi favorita dai dati
delle sequenze di DNA, dobbiamo allora ipotizzare che alcune delle strutture scheletriche o
si sono originate più volte o sono andate perdute in alcune linee, come illustrato nella Figura
12.16B. Il conflitto tra le ipotesi filogenetiche derivate dalle strutture scheletriche e dalle
sequenze di DNA guida i sistematici a esaminare i loro caratteri filogenetici e ad analizzare
le fonti di errore nel dedurre le relazioni filogenetiche dettagliate fra le specie. Tutti i dati
filogenetici sono a favore dell’ipotesi secondo cui questi uccelli non volatori sono più
strettamente imparentati gli uni con gli altri di quanto non lo siano con qualsiasi altra specie
vivente. La struttura della gerarchia annidata dell’omologia è così pervasiva nel mondo
vivente da costituire la base della nostra classificazione sistematica di tutte le forme di vita
(generi raggruppati in famiglie, famiglie raggruppate in ordini e così via). La classificazione
gerarchica, in quanto estremamente evidente, ha preceduto persino la teoria di Darwin,
sebbene non fosse stata spiegata adeguatamente. Una volta accettata l’idea della
discendenza comune, i biologi hanno intrapreso studi strutturali, molecolari e/o
cromosomici del le omologie fra gruppi animali. Considerate nel loro insieme, le strutture
gerarchiche articolate svelate da questi studi hanno permesso di ricostruire gli alberi
filogenetici di molti gruppi e di continuare lo studio di altri. L’uso della teoria darwiniana
della discendenza comune nella ricostruzione della storia evolutiva della vita e nella
classificazione degli animali sarà descritto in dettaglio nel Capitolo 16. Va notato che la
precedente ipotesi evoluzionistica riguardo a più origini differenti e indipendenti della vita,
rappresentabile quindi come linee filetiche non ramificate, prevede sequenze lineari di
trasformazioni evolutive, senza una gerarchia di omologie fra specie. Dal momento che noi
osserviamo una gerarchia nelle omologie, questa ipotesi deve essere respinta. Va infine
notato che le argomentazioni creazioniste, che non sono ipotesi scientifiche, non possono
fornire argomentazioni verificabili su alcun modello di omologia e, quindi, non riescono a
soddisfare i criteri di una teoria scientifica della diversità animale.
L’ontogenesi è la storia dello sviluppo di un organismo durante tutta la sua vita, dalla sua
origine come uovo fecondato o germoglio attraverso l’età adulta fino alla morte. I primi
stadi di sviluppo e le caratteristiche embriologiche contribuiscono enormemente
all’individuazione di omologie e parentele comuni. Studi comparativi di ontogenesi
mostrano come i cambiamenti evolutivi durante lo sviluppo generino nuove forme e
strutture corporee. Lo zoologo tedesco Ernst Haeckel, un contemporaneo di Darwin,
propose che ciascuno stadio successivo dello sviluppo di un organismo rappresentasse una
delle forme adulte comparse nella sua storia evolutiva. Per esempio, la presenza di abbozzi
di tasche branchiali negli embrioni umani indicherebbe un antenato simile a un pesce. Su
questa base, Haeckel formulò la generalizzazione: l’ontogenesi (lo sviluppo individuale)
ricapitola la filogenesi (l’origine evolutiva). Questa osservazione divenne poi nota
semplicemente come ricapitolazione o legge biogenetica. Haeckel basò tale leg sulla
premessa, inesatta, secondo cui i cambiamenti evolutivi avvengono per stadi successivi che
si aggiungono a un’ontogenesi ancestrale invariata, concentrando l’ontogenesi ancestrale nei
primi stadi dello sviluppo embrionale. Tale idea era basata sul concetto lamarckiano
dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti (vedi Paragrafo 12.1). Un embriologo del XIX secolo,
K.E. von Baer, fornì una spiegazione più soddisfacente della relazione fra ontogenesi e
filogenesi. Egli intuì che, semplicemente, le caratteristiche dei primi stadi di sviluppo sono
maggiormente condivise, anche fra gruppi molto differenti, rispetto a quelle più tardive. Per
esempio, la Figura 12.17 illustra le similitudini nei primi stadi di sviluppo fra organismi che
da adulti sono molto differenti fra loro. Gli adulti di animali con un’ontogenesi
relativamente breve e semplice assomigliano spesso agli stadi di pre-adulto di altri animali,
caratterizzati da un’ontogenesi più complessa, ma gli embrioni di un dato gruppo non
devono per forza assomigliare alle forme adulte dei loro progenitori. La divergenza
evolutiva avviene anche a stadi precoci di sviluppo, che non sono così stabili come riteneva
von Baer. Oggi si conoscono molti parallelismi fra ontogenesi e filogenesi, ma le
caratteristiche di un’ontogenesi ancestrale possono essere individuate tanto negli stadi
precoci quanto in quelli più tardivi delle ontogenesi dei discendenti. Il processo di
acquisizione di cambiamenti evolutivi durante lo sviluppo prende il nome di eterocronia, un
termine inizialmente utilizzato da Haeckel per indicare eccezioni alla regola della
ricapitolazione. Se l’ontogenesi di un discendente si estende oltre quella ancestrale, nuove
caratteristiche possono essere aggiunte tardi nello sviluppo, oltre il punto in cui lo sviluppo
sarebbe terminato nell’evoluzione dell’antenato. Se l’ontogenesi dei discendenti avviene più
velocemente di quella ancestrale, ovvero se le caratteristiche dell’ontogenesi ancestrale si
manifestano in stadi precoci dello sviluppo, si può dire che l’ontogenesi riassume in qualche
modo la filogenesi. Tuttavia l’ontogenesi può anche essersi abbreviata durante l’evoluzione.
Alcuni stadi terminali dell’ontogenesi ancestrale possono essere stati perduti e gli adulti
della discendenza finiscono per assomigliare agli stadi di pre-adulto dei loro antenati
(Figura 12.18). Questo rovescia il parallelismo tra ontogenesi e filogenesi (ricapitolazione
inversa), dando luogo alla pedomorfosi (mantenimento di caratteri giovanili ancestrali da
parte di adulti nella discendenza). Dal momento che al variare dell’ontogenesi le diverse
parti di un organismo possono cambiare in modo indipendente, nelle diverse linee filetiche
spesso si osserva un mosaico di differenti tipi di trasformazione evolutiva dello sviluppo. Di
conseguenza, sono rari i casi in cui un’intera ontogenesi ricapitola una filogenesi.
Modularità dello sviluppo ed evolvibilità
(o capacità di evoluzione)
Le innovazioni evolutive si verificano non solo dai semplici cambiamenti nei tassi dei
processi di sviluppo, ma dai cambiamenti della sede fisica del corpo in cui viene attivato un
processo. Eterotopia (o capacità di evoluzione) è il termine tradizionalmente usato per
descrivere un cambiamento nella posizione fisica di un processo di sviluppo nel corpo di un
organismo. Per spostare lo sviluppo di una struttura da una parte del corpo a un’altra, il
processo di sviluppo deve formare un modulo semiautonomo che può essere attivato in
nuove posizioni. Un esempio interessante di modularità ed eterotopia si osserva in alcuni
gechi. I gechi come gruppo presentano tipicamente dei cuscinetti, strutture adesive sul lato
ventrale delle dita dei piedi, che consentono loro di arrampicarsi e aggrapparsi a superfici
lisce. I cuscinetti sono costituiti da squame modificate contenenti lunghe sporgenze,
chiamate setae, che possono essere modellate sulla superficie di un substrato. Un modulo
responsabile dello sviluppo del cuscinetto è espresso, in un’insolita specie di geco, non solo
sulle dita dei piedi ma anche sul lato ventrale della punta della coda. Questa specie ha,
quindi, acquisito un’appendice adesiva aggiuntiva mediante espressione ectopica di un
modulo di sviluppo standard. La modularità è evidente anche nelle mutazioni omeotiche nel
moscerino della frutta, Drosophila melanogaster. Tali mutazioni possono sostituire un
modulo che normalmente sviluppa un’antenna con un modulo di sviluppo per una zampa,
producendo così una mosca con un paio di zampe sulla testa. Un’altra mutazione omeotica
nei moscerini della frutta trasforma gli organi per l’equilibrio presenti sul torace in una
seconda coppia di ali; il modulo bilanciatore viene sostituito dall’attivazione del modulo ala,
che nelle mosche si attiva normalmente solo in una porzione più anteriore del torace. La
modularità è fondamentale per spiegare alcuni importanti cambiamenti evolutivi, come
l’evoluzione degli arti dei tetrapodi (vedi Paragrafo 31.1). La transizione evolutiva dagli arti
a pinna agli arti standard dei tetrapodi è avvenuta attivando nel sito di formazione degli arti
un insieme di geni omeopatici, il cui modello di espressione si è evoluto inizialmente come
un modulo per formare parte della colonna vertebrale. I modelli di espressione genica
condivisi dagli arti anteriori e dagli arti posteriori dei tetrapodi hanno rivelato la meccanica
genetica e dello sviluppo di questo modulo. Il termine evolvibilità è stato introdotto per
indicare le grandi opportunità evolutive create dall’avere moduli di sviluppo semiautonomi
la cui espressione può essere spostata da una parte del corpo a un’altra. Un lignaggio in
evoluzione che contiene un ampio kit di strumenti di sviluppo modulare può “sperimentare”
con la costruzione di molte nuove strutture, alcune delle quali persisteranno e daranno
origine a nuove omologie.
Speciazione allopatrica
Le popolazioni allopatriche di una specie sono quelle che occupano aree geografiche
separate. Esse non si incrociano, ma teoricamente lo potrebbero fare, qualora venissero
rimosse le barriere geografiche che le separano. La speciazione che deriva dall’evoluzione
di barriere riproduttive tra popolazioni geograficamente separate è conosciuta come
speciazione allopatrica o speciazione geografica. Le popolazioni separate si evolvono
indipendentemente e si adattano ai propri rispettivi ambienti, sviluppando tra loro barriere
riproduttive come risultato dei diversi cammini evolutivi. Dal momento che la variazione
genetica sorge e cambia indipendentemente, popolazioni fisicamente separate divergeranno
geneticamente anche se i loro ambienti rimangono molto simili. Un cambiamento
ambientale tra popolazioni può anche promuovere divergenza genetica tra di esse, favorendo
fenotipi differenti nelle popolazioni separate. A Ernst Mayr (Figura 12.19) si deve gran parte
della conoscenza sulla speciazione allopatrica, grazie ai suoi studi sulla speciazione negli
uccelli. La speciazione allopatrica ha inizio quando una specie si separa in due o più
popolazioni geograficamente separate. Ciò può avvenire in due diversi modi: per
speciazione per vicarianza o per il principio del fondatore. La speciazione per vicarianza ha
inizio quando qualche cambiamento climatico o geologico frammenta l’habitat di una
specie, producendo barriere impenetrabili che separano geograficamente popolazioni
differenti. Una specie di mammiferi che abita, per esempio, una foresta di pianura, potrebbe
trovarsi divisa in due gruppi dall’innalzamento di una barriera montuosa, dallo
sprofondamento e inondamento di una faglia o dal verificarsi di mutamenti climatici che
determinano l’intrusione, nella foresta, di zone desertiche o di prateria. La forma zione
dell’istmo di Panama separò popolazioni del riccio di mare Eucidaris, portando alla
formazione di due specie isolate: una caraibica e una dell’Oceano Pacifico. La speciazione
per vicarianza ha due conseguenze importanti. Sebbene la popolazione originaria venga
frammentata, ogni singola suddivisione rimane abbastanza integra. Il processo, in sé, non
porta a trasformazioni genetiche per il semplice fatto di ridurre di numero la popolazione o
di spostarla in ambienti differenti. Un’altra conseguenza importante è che uno stesso evento
vicariante può frammentare simultaneamente più specie diverse. Per esempio, la
frammentazione di un ambiente forestale di pianura, come quello sopra descritto,
causerebbe, con ogni probabilità, la suddivisione di molte specie diverse, tra cui salamandre,
rane, lumache e molti altri abitanti della foresta. Un dato di fatto è che si osservano gli stessi
modelli geografici fra specie strettamente affini in gruppi di organismi differenti i cui habitat
sono simili: in questo si vede una prova a favore della speciazione per vicarianza. Nel modo
alternativo in cui si può instaurare una speciazione allopatrica sono coinvolti pochi individui
di una specie, che si disperdono e raggiungono territori nuovi e distanti, dove non esistono
altri membri della stessa specie. Essi stabiliscono una nuova popolazione, in un evento che è
detto fondatore. Una speciazione allopatrica dovuta a un evento di questo tipo venne
osservata per i moscerini della frutta delle Hawaii. Queste isole presentano numerosi
appezzamenti di foresta, separati da colate di lava. In rare occasioni, un forte vento può
trasportare piccoli gruppi di moscerini da un appezzamento a un altro, dove questi possono
dare origine a una nuova popolazione. Talvolta anche una singola femmina fecondata può
fondare una nuova popolazione in una sede diversa. A differenza di ciò che avviene nella
speciazione vicariante, la nuova popolazione ha, inizialmente, dimensioni molto limitate, il
che può causare un cambiamento veloce e drastico della struttura genetica della popolazione
ancestrale (vedi Paragrafo 12.4, “Deriva genetica”). Caratteristiche fenotipiche che erano
stabili nella popolazione di origine possono manifestare variazioni inconsuete nella nuova
popolazione. Su queste nuove variazioni agisce, poi, la selezione naturale, che fa affermare
nuove caratteristiche e nuove proprietà riproduttive, accelerando l’evolversi di barriere
riproduttive tra la popolazione originaria e quella di recente formazione C’è molto da
imparare a proposito della genetica della speciazione allopatrica proprio dai casi in cui
popolazioni, che si erano in precedenza separate, tornano in contatto prima che le barriere
riproduttive si siano del tutto consolidate. In questi casi, gli incroci tra le popolazioni
divergenti sono chiamati ibridazioni e i nati da questi incroci vengono detti ibridi (Figura
12.20). Studiando le caratteristiche genetiche delle popolazioni ibride, è possibile
identificare la base genetica delle barriere riproduttive. I biologi fanno spesso distinzione tra
le barriere riproduttive che influiscono sulla fecondazione (barriere pre-copula) e quelle che
alterano la crescita, lo sviluppo, la vivenza o la riproduzione dell’individuo ibrido (barriere
post-copula). Le barriere pre-copula possono causare il mancato riconoscimento di partner
sessuali potenziali tra i singoli membri di popolazioni divergenti, o l’impossibilità di portare
a termine il rituale di accoppiamento. I dettagli delle caratteristiche delle corna delle antilopi
africane (vedi Figura 12.11) sono importanti per riconoscere membri della stessa specie
come potenziali compagni. In alcuni casi, i genitali dei maschi e delle femmine delle due
popolazioni risultano essere incompatibili o i gameti possono non essere in grado di fondersi
per formare lo zigote. In altri casi, le barriere precopula possono essere strettamente
comportamentali, malgrado la quasi totale identità fenotipica dei due gruppi. Specie diverse,
ma indistinguibili su base fenotipica, sono dette specie sorelle (sibling species). Tali specie
si generano quando le popolazioni allopatriche divergono nel periodo riproduttivo, nei
segnali sonori, comportamentali o chimici richiesti per l’accoppiamento. Le divergenze
evolutive in questi caratteri possono generare effettive barriere pre-copula, senza che queste
siano accompagnate da cambiamenti evidenti nel fenotipo. Specie sorelle si ritrovano in
gruppi del tutto diversi, come ciliati, ditteri o salamandre.
Radiazione adattativa
Gradualismo
La teoria di Darwin sul gradualismo si oppone a un’origine improvvisa delle specie. Piccole
differenze, come quelle che osserviamo usualmente fra individui di una popolazione,
rappresentano il materiale grezzo da cui è partita l’evoluzione di forme di vita molto
differenti. Questa teoria condivide con la teoria di Lyell sull’attualismo l’idea secondo cui
non possiamo spiegare i cambiamenti del passato invocando eventi catastrofici inusuali,
attualmente non osservabili. Se nuove specie si fossero originate in seguito a singoli
cambiamenti catastrofici, dovremmo avere la possibilità di osservare eventi analoghi ancora
oggi, mentre ciò non avviene. Ciò che invece osserviamo sono piccoli cambiamenti continui
dei fenotipi presenti nelle popolazioni naturali. Questi cambiamenti continui possono
provocare l’insorgere di grandi differenze fra le specie solo perché si accumulano nel corso
di milioni di anni. Una semplice enunciazione della teoria di Darwin sul gradualismo è che i
cambiamenti quantitativi portano a cambiamenti qualitativi. Mayr (vedi Figura 12.19) fa
un’importante distinzione tra gradualismo di popolazione e gradualismo fenotipico.
Secondo il gradualismo di popolazione, in una popolazione si affermano nuovi caratteri
grazie a un aumento della loro frequenza da una frazione limitata, fino alla maggioranza
della popolazione stessa. Numerose e ampiamente accettate sono le prove a favore del
gradualismo di popolazione. Il gradualismo fenotipico afferma che i nuovi caratteri, anche
quelli che portano alle divergenze maggiori con i fenotipi ancestrali, sono prodotti in una
serie di piccoli passi graduali, accumulati in centinaia di migliaia di generazioni.
Selezione naturale
Deduzione 1 – Tra i membri di una popolazione c’è una continua lotta per
l’esistenza. Degli individui prodotti a ogni generazione solo una parte, spesso molto
piccola, riesce a sopravvivere. Ne “L’origine delle specie”, Darwin scrisse che “questa è la
dottrina di Malthus largamente applicata agli interi regni animale e vegetale”. La lotta per il
cibo, per il rifugio e per lo spazio vitale diventa sempre più aspra, mano a mano che
aumenta la sovrappopolazione.