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DA:

STORIA DELLA VITA E DEGLI ANIMALI

Testo di Giuseppe Minelli


professore di Anatomia comparata all'Università di Bologna
Una ideazione e una produzione della
JACA BOOK
Milano, ottobre 1986.
INDICE
Parte 1
I PESCI. VARIETA' ED EVOLUZIONE.

1. Le nostre origini più antiche: p. 8


2. Agnati estinti: gli Ostracodermi: p. 11
3. Agnati viventi: i Ciclostomi missinoidi: p. 15
4. Agnati viventi: i Ciclostomi petromizonti: p. 18
5. L'invenzione della bocca per predare: p. 21
6. I primi vertebrati con la bocca: i Placodermi: p. 25
7. Il Devoniano: il grande periodo dei pesci: p. 28
8. Come i pesci cartilaginei e quelli ossei risolvono il problema della pressione osmotica: p. 31
9. Come i due tipi di pesci risolvono il problema del peso specifico: p. 35
10. I pesci alla fine del Devoniano: p. 39
11. I pesci cartilaginei, o Condroitti: p. 42
12. La rotazione della bocca e l'olfatto negli squali: p. 45
13. I magnifici organi di senso dello Squalo: l'occhio e la linea laterale: p. 49
14. Che cosa e come mangia lo Squalo: p. 54
15. Come nuotano, come cacciano gli squali: p. 58
16. Come si riproducono gli Squali: p. 62
17. Gli Squali sopravvissuti: p. 65
18. Le Razze, o Batoidei: p. 70
19. Gli organi elettrici di alcuni Batoidei: p. 74
20. I pesci ossei: i Condrostei: p. 78
21. Gli Olostei: p. 83
22. I pesci moderni: i Teleostei: p. 87
23. Forma c colore dei Teleostei: p. 91
24. I Teleostei: come predano, perché emigrano: p. 95
25. I Teleostei: alcune particolarità: p. 100
26. Riproduzione e cure parentali dei Teleostei: p. 104
27. I Teleostei degli abissi: p. 108
28. I Sarcopterigi: i pesci che respirano anche nell'aria: p. 112.

Parte 2
GLI ANFIBI. DALL'ACQUA ALLA TERRA.

1. Nelle acque del Devoniano: p. 116


2. I sarcopterigi: p. 120
3. La Latimeria: p. 125
4. Dipnoi estinti e viventi: p. 130
5. Dipnoi viventi: p. 134
6. Il preadattamento dei ripidisti: p. 138
7. Il teatro del debutto degli anfibi: p. 143
8. Per diventare anfibi: lo scheletro: p. 148
9. Per diventare anfibi: l'orecchio e l'occhio: p. 152
10. Compaiono i primi anfibi: l'Ichthyostega: p. 156
11. L'era degli anfibi: p. 160
12. Il corpo allungato: p. 164
13. Le origini degli anfibi viventi: p. 168
14. Caratteri degli anfibi: la metamorfosi: p. 172
15. L'accoppiamento e le cure parentali: p. 176
16. La respirazione, la voce, il sangue: p. 180
17. Come si alimentano: p. 185
18. Come si muovono: p. 189
19. La pelle e il letargo: p. 193
20. Gli apodi: p. 197
21. Gli urodeli: p. 202
22. Salamandre e tritoni: p. 206
23. Gli anuri: p. 210
24. I rospi: p. 215
25. Le rane: p. 219
26. I nemici naturali delle rane e il mimetismo: p. 223
27. Il declino degli anfibi antichi: p. 227
28. L'anfibio si avvicina al rettile: p. 230
Classificazione degli Anfibi viventi: p. 235.

Parte 3
I RETTILI CONQUISTANO LA TERRA.

1. I rettili: p. 237
2. Per essere rettili: l'embrione e la pelle: p. 242
3. Per essere rettili: il rene e il polmone: p. 247
4. Per essere rettili: il cervello e il movimento: p. 252
5. La classificazione dei rettili: p. 256
6. Il teatro del debutto dei rettili: p. 260
7. Primi rettili: i cotilosauri: p. 264
8. Il Permiano, un nuovo scenario: p. 268
9. Le tartarughe: caratteri generali: p. 272
10. Tartarughe viventi d'acqua dolce e terrestri: p. 275
11. Tartarughe marine: p. 279
12. I pelicosauri: p. 284
13. I terapsidi: p. 288
14. I terapsidi teriodonti: p. 291
15. Rettili acquatici estinti: caratteri generali: p. 296
16. Gli ittiosauri: p. 300
17. I sauropterigi: p. 304
18. Il Tuatara: p. 308
19. Caratteri dei sauri. I gechi: p. 313
20. Le iguane e gli agamidi: p. 317
21. Il camaleonte e l'eloderma: p. 321
22. I varani, le lucertole, l'orbettino: p. 325
23. Caratteri generali dei serpenti: p. 329
24. Le vipere e i crotali: p. 334
25. I cobra, i serpenti di mare, i boa e i pitoni: p. 338
26. La maggiore via evolutiva dei rettili: i dinosauri: p. 343
27. I coccodrilli estinti. Caratteri generali dei viventi: p. 347
28. Coccodrillo, alligatore e gaviale: p. 352
Classificazione: p. 355.

Parte 4
DINOSAURI E UCCELLI.

1. I dinosauri nella storia: p. 357


2. Le ramificazioni: p. 362
3. Dinosauri saurischi (Teropodi): p. 366
4. Dinosauri saurischi (Sauropodi): p. 371
5. Dinosauri ornitischi (Onitopodi e Anchilosauri): p. 375
6. Dinosauri ornitischi (Stegosauri e Ceratopsidi): p. 378
7. Pterosauri: p. 382
8. Morte dei dinosauri: cause biologiche: p. 386
9. Morte dei dinosauri: cause astronomiche: p. 391
10. Origine degli uccelli: p. 396
11. Uccelli antichi: p. 399
12. Uccelli moderni: p. 404
13. Come respirano, come mangiano: p. 410
14. Lo scheletro: p. 414
15. Il volo: p. 420
16. L'intelligenza: p. 425
17. Il colore: p. 429
18. Nido, uovo, cure parentali: p. 433
19. Le migrazioni: p. 438
20. Uccelli corridori estinti: p. 442
21. Uccelli corridori viventi: p. 446
22. Pinguini e alche: p. 450
23. Avvoltoi, aquile, falchi: p. 454
24. Rapaci notturni: p. 457
25. Colibrì e quetzal: p. 460
26. Tucani, picchi, pappagalli: p. 465
27. Uccelli di palude: p. 469
28. Passeriformi: p. 472.
Parte 1
I PESCI. VARIETA' ED EVOLUZIONE.
1. LE NOSTRE ORIGINI PIU' ANTICHE.

Nelle acque del Precambriano-Cambriano, oltre 600 milioni di anni fa, la vita si presenta con una moltitudine ed
una varietà incredibile di forme. Per un caso veramente eccezionale e fortunato oggi abbiamo a disposizione
impronte degli animali di quel periodo, anche se questi non possedevano delle parti dure, come i gusci,
facilmente fossilizzabili.

I PRIMI ANIMALI
Alcuni di questi animali possono essere ricondotti ai grandi gruppi descritti dalla Zoologia. Così la Wiwaxia era
un Mollusco, la Peytoia, a forma di fetta di ananas, era un precursore dei Celenterati; altri invece erano
sconosciuti, e ai nostri occhi decisamente assurdi, come l'Hallucigenia, con le tante piccole bocche ed i 12
trampoli, e l'Opabina, con la grande bocca posta all'estremità di un lungo tentacolo.

DUE VIE DELL'EVOLUZIONE


Ma ciò che era avvenuto in quei mari ci interessa da vicino; in quel periodo infatti l'evoluzione degli animali si
era incamminata su due vie diverse. Da un lato gli Invertebrati, con modalità di sviluppo e organizzazione
anatomica loro propria, dall'altro i Cordati, da cui emergeranno in seguito i Vertebrati, ai quali appartiene il gruppo
dei Pesci, trattato in questo volume. E' curioso osservare che la forza evolutiva, o la capacità di dare origine a
forme nuove, nelle due vie É completamente diversa. A parte le forme strane, destinate inesorabilmente a
scomparire tutte, gli Invertebrati rapidamente si diffusero con forme anche molto raffinate nel modo di
muoversi, predare, difendersi, eccetera. I Cordati invece stentano ad emergere, forse erano già presenti nei
mari del Cambriano con dei piccoli animali nuotatori come la Pikaia, ma erano una minoranza
insignificante rispetto agli Invertebrati. I rappresentanti viventi degli antichi precursori dei pesci sono pochi e
forse costituiscono solo dei rami laterali sterili dell'evoluzione dei Cordati. Tra questi gli Urocordati, o Tunicati
(come le Ascidie), hanno la corda posta solo nella coda e per di più solo nella fase larvale, poiché l'adulto, con la
sua forma a botticella, non ha nulla a che vedere con l'organizzazione generale dei Cordati.

L'ANFIOSSO
Ma É l'Anfiosso che desta un più forte interesse, pur essendo piccolo, cieco, quasi senza organi di senso e un
pessimo nuotatore. Infatti questo animaletto, ancor oggi vivente, É considerato un rappresentante antico dei
pesci, anzi, un precursore antichissimo. Sono state promosse imponenti iniziative di studio, come la costruzione
di centri di ricerca specifici, per conoscere ogni particolare di questo timido animale. E' stato addirittura calcolato
che, dopo l'uomo e il topo, l'Anfiosso É l'animale più studiato e meglio conosciuto
Questo prezioso abitante dei mari, non più lungo di 5-6 centimetri, vive solitamente infossato nella sabbia, da
cui emerge solo con la bocca provvista di cirri che aiutano a filtrare l'acqua. Una particolarità questa che
É comune a tutti i precursori e anche ai primi vertebrati. Il modo di alimentarsi, infatti, rimane a lungo
estremamente primitivo, perché basato solo sulla filtrazione dell'acqua per ricavarne quel po' di cibo che vi É
sospeso. Ci vorrà ancora del tempo per far evolvere un modo più efficiente di mangiare.
2. AGNATI ESTINTI: GLI OSTRACODERMI.

La comparsa sulla scena della terra dei primi vertebrati É accompagnata subito da un piccolo mistero. I
probabili progenitori dei pesci erano animali di piccole dimensioni, senza struttura scheletrica, esili,
diafani, quasi impossibili da fossilizzare.

I PRIMI VERTEBRATI
Poi, improvvisamente, 450-500 milioni di anni fa circa, nei mari dell'Ordoviciano, compaiono i primi sicuri
vertebrati: gli Ostracodermi. Questi animali sono ancora di piccole dimensioni, pochi centimetri, ma
posseggono una pesante corazzatura ossea che copre tutta la testa e parte del tronco. Il mistero si riferisce
appunto al formarsi di questa corazzatura. Vi É sempre una logica nelle strutture c nell'organizzazione
anatomica, vi É sempre una causa che le determina. Le ipotesi sono diverse: protezione dall'alta
concentrazione dei sali dell'acqua di mare (poiché i primi Ostracodermi erano marini), oppure una
precipitazione di sali di calcio dovuta all'eccessiva concentrazione di questo sale nei mari di quel periodo. Ma
forse i veri responsabili furono altri animali. Nei mari dell'Ordoviciano vivevano infatti degli Artropodi (tra cui lo
Pterygotus), antichi progenitori delle Aragoste e dei Gamberi, giganteschi nelle dimensioni, lunghi anche
fino a 2 metri. Questi predatori, con le loro robuste chele, dovevano rappresentare dei nemici acerrimi per i
primi nudi vertebrati. Una corazzatura potente poteva offrire un'adeguata protezione. Forse fu proprio la lunga
pressione selettiva di quei primi, giganteschi Artropodi a far emergere poco a poco lo scudo osseo degli
Ostracodermi.

LA BOCCA IMMOBILE
Degli Ostracodermi, oggi estinti, noi conosciamo anche l'anatomia delle parti molli, come il cervello, il
cuore, le branchie, l'intestino, gli organi di senso, poiché hanno lasciato la loro impronta sulla superficie
interna della loro corazzatura ossea, la quale a sua volta si É perfettamente fossilizzata nel tempo. Dallo
studio delle parti molli si É scoperto che questi animali, antichi di quasi mezzo miliardo di anni, avevano già
l'organizzazione generale tipica dei vertebrati, con gli stessi organi e apparati che ci caratterizzano. La loro
bocca, però, era molto primitiva, immobile, circolare, utilizzata solo per aspirare l'acqua e nutrirsi delle
sostanze organiche che erano in sospensione nei mari. Questa precarietà nel modo di alimentarsi pose
un forte limite al loro sviluppo corporeo. Gli Ostracodermi rimasero in genere sempre molto piccoli, lunghi
pochi decimetri, ma la loro organizzazione generale risultò vincente.

L'ESPANSIONE DEGLI OSTRACODERMI


Rapidamente l'evoluzione fece emergere specie diverse di Ostracodermi, che invasero non solo i mari, ma anche
le acque costiere, i fiumi, i laghi, e per un lunghissimo periodo, oltre 60 milioni di anni, dominarono, come
unici vertebrati, tutto l'ambiente acquatico del globo, anche grazie alla progressiva scomparsa dei
giganteschi Pterygotus, gli unici animali che per taglia e aggressività potevano competere con loro.
L'evoluzione, inoltre, aggentilì la tozza struttura dei primi Ostracodermi, alleggerì o addirittura fece
scomparire il pesante scudo osseo di protezione
Lo Pterolepis, ad esempio, aveva già una linea elegante, simile a quella di un pesciolino senza corazza; la
forte muscolatura del tronco e della coda gli consentivano una buona capacità di nuoto e una discreta
velocità; ma la solita bocca circolare e immobile ci induce a pensare che questo animale vivesse nel suo
ambiente dragando o filtrando la sabbia o il fango; l'ipotesi É confortata anche dall'asimmetria della coda,
con il lembo inferiore più lungo del superiore: si creava così una spinta verso il basso che consentiva allo
Pterolepis di affondare una parte della testa nei fondali per nutrirsi
Non dovevano mancare dei pericoli per questi piccoli animali. In un gruppo di Ostracodermi, i Cefalaspidi,
e in particolare nell'Hemicyclaspis, comparve sul capo una struttura stretta e allungata, riconosciuta
probabilmente come un organo elettrico molto voluminoso, capace di provocare scariche per scoraggiare
eventuali predatori.

IL DECLINO DEGLI OSTRACODERMI


Il dominio degli Ostracodermi cominciò però a declinare quando comparvero e si affermarono, all'inizio del
Devoniano, i primi veri pesci, con mandibola e mascella, capaci quindi di predare, uccidere, divorare: prima i
Placodermi e poi gli Acantodi (li vedremo più avanti). In un processo lento ma inesorabile gli
Ostracodermi, incapaci di contenere lo strapotere dei nuovi venuti, si estinsero
Scomparvero tutti tranne un piccolo gruppo che É giunto fino a noi: i Ciclostomi.

3. AGNATI VIVENTI: I CICLOSTOMI MISSINOIDI.

Del grande impero degli Agnati oggi non rimangono che pochi esponenti, i Ciclostomi, distinti in due ordini
molto diversi tra loro: i Missinoidi ed i Petromizonti.

LE MISSINE
La Missine glutinosa É l'animale più caratteristico e conosciuto dell'ordine; É lunga circa 30 centimetri con un
corpo anguilliforme ed un'anatomia decisamente regredita rispetto al modello base del vertebrato. Gli
organi di senso sono ridotti in pratica al solo olfatto, molto sensibile, mentre gli occhi e l'orecchio sono vestigia
quasi inutili
Queste regressioni sono le conseguenze della vita estremamente monotona, basata sull'attesa di una
vittima da parassitare. Le Missine vivono infatti sui fondali marini, anche a grande profondità, ove si insinuano
nella sabbia nuotando all'indietro fino a sprofondare per metà della lunghezza del corpo. L'altra metà invece
sporge con la bocca e l'unica narice, pronta a raccogliere l'odore del cibo.

GLI SPAZZINI DEL MARE


Le Missine sono gli spazzini del mare: tutto quello che É commestibile e che cade sul fondo viene circondato
da decine di Missine che, attratte dall'odore accorrono al banchetto. Ma anche i pesci vivi, specie se hanno
qualche difficoltà di movimento, possono essere aggrediti da questi primitivi vertebrati. La tecnica di aggressione
É decisamente originale: la Missine si insinua tra le branchie della vittima e comincia a secernere un
liquido mucoso che coprendo l'epitelio respiratorio finisce per soffocare il pesce. Dopo la morte del malcapitato
la Missine inizia a divorare la sua preda cominciando dall'interno ed esce dal pesce solo quando questo É
ridotto ad un involucro vuoto di pelle e squame. Le Missine possono provocare anche gravi danni alla pesca: a
volte aggrediscono i pesci impigliati nelle reti o negli ami posti sul fondo e distruggono in poche ore tutto il
pescato.

COME LE MISSINE DIVORANO IL CIBO


I Missinoidi sono degli Agnati, hanno cioÉ la bocca immobile, quindi non dovrebbero essere in grado di fare a
pezzi un pesce, ma le Missine hanno adottato un metodo per divorare il nutrimento decisamente singolare e
curioso. La bocca a ventosa si applica saldamente sulla preda, poi il corpo affusolato si contrae in modo da
formare un nodo, che successivamente viene fatto scorrere fino alla testa, strappata così via dal malcapitato
assieme ad un suo brandello di carne, inghiottito il quale, l'attacco ricomincia. In pochi minuti le Missine
scavano una galleria nei tessuti delle vittime, ove scompaiono per continuare il loro vorace lavoro
Questo modo insolito per divorare le prede É utilizzato dalla Missine anche per sfuggire alla presa dell'uomo.
Se si afferra con una mano l'animale, subito si forma il caratteristico nodo nella coda che scorrendo verso la
testa riesce a sfilare via la Missine dalla mano
E' un comportamento che si É instaurato non certo per sfuggire alla cattura dell'uomo, ma per superare
l'impossibilità di predare con una bocca circolare ed immobile.

4. AGNATI VIVENTI: I CICLOSTOMI PETROMIZONTI


LE LAMPREDE
Le Lamprede appartengono al secondo ordine di Agnati sopravvissuti, i Petromizonti. Con questi vertebrati
vediamo apparire dei comportamenti e delle particolarità anatomiche già raffinate. Il corpo É
anguilliforme, la lunghezza può anche arrivare al metro, forse oltre
Le abitudini nella forma larvale sono ancora da antico filtratore, ma l'adulto É un terribile aggressore. Le sue
prede preferite sono i pesci ed i cetacei, che aggredisce e rapidamente uccide.

UNA SOLUZIONE AL PROBLEMA DELLA BOCCA IMMOBILE


Anche le Lamprede devono superare la difficoltà della bocca circolare ed immobile, ma la loro soluzione É più
semplice ed efficace. Le pareti della bocca a ventosa sono armate da affilatissimi denti cornei, mentre il
fondo É occupato da una lingua muscolosa a pistone, pure essa provvista di denti. La Lampreda, che É una
discreta nuotatrice, può con un guizzo rapido aggredire una preda di passaggio ed aderire con la bocca alla
superficie del corpo. Il malcapitato si dibatte furiosamente per staccare l'aggressore, ma la bocca non lascia la
presa; anzi con i movimenti dei denti la Lampreda comincia a raspare il corpo dell'animale, mentre la lingua,
con il suo movimento a pistone avanti e indietro, aspira il liquame che si forma. Come se non bastasse, nella
bocca sono presenti anche delle ghiandole il cui secreto impedisce la coagulazione del sangue della preda, anzi
ne facilita la fuoruscita, per cui rapidamente il pesce muore dissanguato e la Lampreda può così continuare
indisturbata il suo banchetto.

LA VORACITA' DELLE LAMPREDE


Le Lamprede sono di una voracità incredibile; É rimasto giustamente famoso quanto É successo nei grandi
laghi americani negli ultimi 50-60 anni. All'inizio del secolo questi laghi producevano circa 3900 tonnellate
l'anno di pesce pregiato, come Trote e Salmoni. Era un patrimonio di pesci eccezionalmente ricco e prezioso;
ma, per motivi non ancora ben chiari, cominciarono a svilupparsi in numero eccezionale le Lamprede, e
di conseguenza il pescato si ridusse in pochi decenni a poche tonnellate (circa 12), tutto distrutto dai
famelici Ciclostomi
Il fenomeno trova una spiegazione che É basata essenzialmente sulle strane abitudini sessuali della
Lampreda.

COME SI RIPRODUCONO LE LAMPREDE


La Lampreda nasce verso le sorgenti dei fiumi, in acque dolci basse e fredde, quindi, compiuta la metamorfosi,
discende il corso d'acqua fino al mare, ove conduce anche per anni la sua vita da parassita di pesci e cetacei.
Quando É sessualmente matura, cessa di mangiare e comincia il lungo viaggio per ritornare nei luoghi
d'origine. In questa migrazione la Lampreda riesce a superare anche rapide e correnti impetuose
utilizzando la bocca a ventosa per aggrapparsi alle rocce e balzare da un sasso all'altro. Quando giunge finalmente
nelle acque adatte alla riproduzione, si accoppia, depone le uova ed ormai sfinita muore. La strage operata
dalle Lamprede nelle acque dolci dei grandi laghi americani può derivare da un cambiamento di abitudini. Le
Lamprede, forse impedite da chiuse, forse per altri motivi, hanno sostituito il mare con i grandi laghi,
utilizzando sempre i fiumi emissari come luoghi di riproduzione. Fermandosi nei laghi per accrescersi e
maturare, le Lamprede si sono riprodotte tranquille, anche per l'assenza dei naturali predatori marini, ed hanno
fatto strage di tutti gli abitanti dei laghi
Un'ultima annotazione: le Lamprede hanno una carne tenera, delicata, deliziosa; sono considerate un "cibo da
re", purtroppo É difficile pescarle, ed É quindi impossibile trovarle in un normale mercato del pesce.

5. L'INVENZIONE DELLA BOCCA PER PREDARE.

L'evoluzione della vita, quasi un miliardo di anni fa, scoprì che un organismo formato da molte cellule, ciascuna
o a gruppi, specializzate per un compito preciso, era molto più efficiente e funzionale della somma delle
capacità delle diverse cellule
Questa scoperta portò rapidamente alla diffusione in tutte le acque di una nuova forma di vita, l'organismo
pluricellulare. Una delle specializzazioni più importanti si riferisce alla cattura del cibo per alimentare l'intero
organismo.

I MODI DELL'ALIMENTAZIONE
Il modo più semplice per svolgere questo compito É di filtrare l'acqua per trattenere le particelle organiche
che vi si trovano in sospensione. Oggi sono ancora viventi degli invertebrati antichissimi, le Spugne, organismi
marini molto semplici che aspirano l'acqua da molti piccoli pori e la espellono da una grande apertura, dopo
averla filtrata per trattenere ossigeno e alimenti sotto forma di alghe unicellulari, detriti organici, batteri
Ma con il procedere dell'evoluzione tra gli invertebrati si scoprì molto precocemente che per utilizzare altre
fonti di cibo occorrevano una bocca e delle armature specifiche. Rapidamente in questa grande linea evolutiva
comparvero bocche adatte per afferrare, strappare, succhiare, masticare, schiacciare, eccetera. La linea
evolutiva dei pesci, invece, É in deciso ritardo; non solo gli antichi precursori, ma anche tutto il primo gruppo di
vertebrati sono animali filtratori di acqua o di fango. Come abbiamo visto, gli Ostracodermi, pur dominando
per un lunghissimo periodo con forme anche molto sofisticate, avevano una bocca immobile che serviva solo
per filtrare.

UNA BOCCA MOBILE ANCHE PER IL VERTEBRATO


La bocca mobile comparve quasi improvvisamente in pieno Siluriano, più di 400 milioni di anni fa. Era una
bocca provvista di arco mandibolare, capace di aprirsi e chiudersi, provvista di denti. Essa fece mutare
sostanzialmente le tecniche dell'alimentazione: ora l'animale poteva cercarsi direttamente la fonte di cibo,
cacciare, procurarsi velocemente grandi quantità di alimento
La scoperta venne subito premiata: le nuove forme di pesci si affermarono rapidamente a spese
naturalmente degli inoffensivi Ostracodermi.

LA BOCCA MOBILE, TAPPA FONDAMENTALE DELL'EVOLUZIONE DEI VERTEBRATI


I nuovi venuti, i Placodermi (che vedremo meglio nel prossimo capitolo), non erano molto diversi dai loro
precursori, ma in più possedevano una terrificante bocca armata di taglientissimi denti
Prontamente i Placodermi si diffusero su tutta la terra; nessuno era in grado di contrastarli; crebbero anche in
lunghezza e peso. Per la prima volta la vita nelle acque cominciò ad assumere dimensioni gigantesche. La
bocca mobile adatta a predare, pur arrivando in ritardo, consentì ai vertebrati di passare da organismi di
pochi centimetri e pochi grammi, come negli Ostracodermi, a forme lunghe metri e pesanti quintali
Con i Placodermi la vita assume una dimensione nuova e spettacolare.
DA DOVE DERIVA LA BOCCA MOBILE
La differenza tra una bocca circolare e immobile, come quella degli Ostracodermi, e una bocca mobile armata
di mandibole e mascelle, come quella dei Placodermi, É enorme. Purtroppo non abbiamo nessuna forma
intermedia che possa farci capire come É avvenuta questa evoluzione, e da dove derivi questa nuova forma. Vi É
solo un'ipotesi che gode di qualche credito, poiché appare abbastanza probabile
Nell'organismo filtratore, come nell'Ostracoderma, dietro alla bocca immobile, armata di un anello cartilagineo,
esistevano una serie di archi, articolati e mobili, che sostenevano le branchie e che, alzandosi e
abbassandosi, consentivano la respirazione. Da questi archi, forse dal secondo e dal terzo, potrebbe
derivare la bocca mobile, costituita per l'appunto da due mezzi archi articolati tra loro: il superiore (la mascella)
e l'inferiore (la mandibola); mentre gli archi successivi al terzo rimasero con la funzione di sostenere le branchie
Gli animali dotati di questo tipo di bocca mobile vengono chiamati "Gnatostomi", dalla parola greca che
significa "bocca provvista di mascelle".

6. I PRIMI VERTEBRATI CON LA BOCCA: I PLACODERMI.

Il tramonto inesorabile degli Ostracodermi, come abbiamo già visto, iniziò con la comparsa di pesci nuovi,
capaci naturalmente, cioÉ anche senza particolari accorgimenti, come nei Ciclostomi, di aggredire una preda per
lacerarne le carni, dilaniarla, inghiottirla. I nuovi venuti con mandibola e mascella, i Placodermi, oggi estinti, furono
poi i capostipiti di tutti gli altri vertebrati, riuniti sotto la denominazione di Gnatostomi, proprio per
sottolineare la capacità della bocca. Anche per questi vertebrati É affascinante il problema delle origini: da
dove sono derivati i Placodermi? Purtroppo non abbiamo forme intermedie, per cui la risposta si deve basare
solo su deduzioni.

PLACODERMI PRIMITIVI
Innanzitutto il Placoderma ebbe origine nelle acque dolci e solo in un secondo tempo, quando si affermò su ogni
altra forma vivente, migrò e colonizzò stabilmente anche i mari. L'aspetto dei primi Placodermi era decisamente
simile ai più antichi Ostracodermi: il capo e parte del tronco erano coperti da una robusta corazzatura ossea.
Questa osservazione ci permette di fare l'ipotesi che i Placodermi derivassero da forme molto arcaiche e
poco evolute di Ostracodermi.

COME OPERA L'EVOLUZIONE


Emerge qui una particolarità dell'evoluzione che si ripeterà più volte: una forma nuova, una nuova classe,
non prende origine dalle linee evolutive più avanzate della precedente, ma, all'opposto, nasce dagli organismi
primitivi, meno differenziati o meno evoluti. I primi Placodermi, infatti, non assomigliano affatto agli ultimi
Ostracodermi, con i quali dovettero competere e che cancellarono dalla faccia della terra, ma sono decisamente
simili ai più antichi Ostracodermi. Si precisa qui per la prima volta una norma, se non una legge, che
l'evoluzione seguirà sempre: sono le forme meno specializzate e meno evolute ad avere quella plasticità
necessaria per proseguire il cammino evolutivo.

LA BOCCA DEI PLACODERMI


I Placodermi, dunque, comparvero nelle acque dolci del Siluriano
Il loro debutto fu relativamente facile: la terribile bocca armata di affilatissimi denti forniva loro un vantaggio
incolmabile rispetto agli inoffensivi Ostracodermi. La lotta, se vi fu, era impari; gli antichi padroni delle acque
lasciarono progressivamente il passo ai nuovi venuti. I Placodermi prima si impossessarono delle acque dolci,
poi del mare, e per gli Ostracodermi fu la fine; scomparvero tutti, e del grande gruppo degli Agnati solo i
Ciclostomi sono riusciti a giungere fino a noi.

FULGORE E DECLINO DEI PLACODERMI


Nel Devoniano iniziò un periodo di massima espansione per i primi pesci con la bocca mobile; alcune forme
marine arrivarono a 6 metri di lunghezza; una dimensione mai raggiunta prima, neanche dai pur evoluti
invertebrati
Ma anche lo strapotere dei Placodermi ebbe un termine. Le acque del Devoniano videro il fiorire rapido e
rigoglioso di svariate linee evolutive di pesci, meglio adattate alle diverse esigenze ambientali, più competitive,
quindi più idonee a colonizzare ogni tipo di ambiente acquatico
I Placodermi, che avevano sopraffatto gli Ostracodermi da cui derivavano, come per una condanna biblica
furono sopraffatti dalla loro discendenza, e scomparvero tutti inesorabilmente sotto l'incalzare delle forme
più moderne.

7. IL DEVONIANO: IL GRANDE PERIODO DEI PESCI.

Ogni classe dei vertebrati ha avuto un suo periodo di grande fulgore, ha toccato un momento di grande
espansione per numero di forme e varietà di specie: vedremo in volumi successivi di questa collana il periodo
degli Anfibi, poi quello dei Rettili, e infine quello dei Mammiferi.

IL PERIODO DEI PESCI


Il Devoniano É giustamente famoso come il momento fortunato per i pesci. Nelle acque dolci, poi nei mari,
dominano i Placodermi, con forme sia minute, sia gigantesche; ma l'evento più importante e determinante
per il seguito della nostra storia si riferisce alla nascita di due nuove grandi vie evolutive di pesci. I
Placodermi, infatti, sono destinati ad estinguersi verso la fine del Carbonifero, ma dal loro grembo sorgono
indipendenti e, come vedremo, completamente diverse, due linee di pesci che poi proseguiranno del tutto
autonome nella loro evoluzione.

I PESCI CARTILAGINEI E QUELLI OSSEI


Da una forma ancora poco conosciuta prendono l'avvio i pesci con lo scheletro interno costituito di cartilagine,
da cui deriveranno gli Squali; mentre dagli Acantodi inizia la storia del pesce osseo, che originerà il pesce
più tipico, come la Trota ed il Tonno
L'avvenimento presenta un lato curioso: il punto di partenza. Il Placoderma infatti É un pesce con una
pesante corazzatura ossea che protegge la testa e parte del tronco, mentre lo scheletro interno - colonna
vertebrale e scheletro delle pinne - É esile, in parte cartilagineo e in parte osseo. Da questa forma iniziale si
origina un pesce più elegante e slanciato; scompare o si riduce molto la corazzatura ossea, mentre si
rinforza lo scheletro interno, ma con due modalità completamente diverse. In una linea evolutiva il cranio, la
colonna vertebrale, lo scheletro in genere É costruito con la cartilagine, mentre nell'altra linea viene
utilizzato il tessuto osseo. Non si può assolutamente sostenere che un metodo sia migliore o superiore all'altro;
entrambe le linee evolutive si sono affermate anche con forme gigantesche, ben sorrette dal loro scheletro
I pesci cartilaginei, o "Condroitti", ed i pesci ossei o "Osteoitti", hanno quindi origine indipendente dai Placodermi
del Devoniano, e da quel periodo proseguiranno autonomi la loro storia evolutiva. Vivere nell'acqua, come
vedremo, comporta la soluzione di svariati problemi: insulti osmotici, peso specifico, dinamica del nuoto,
riproduzione, eccetera. A dimostrazione sia dell'indipendenza delle due linee evolutive, sia delle grandi
possibilità e fantasia dell'evoluzione, ogni gruppo di pesci risolve a suo modo i singoli problemi, a volte con
soluzioni più valide ed efficienti in un gruppo, a volte nell'altro
In comune hanno solo la forma modellata dalle esigenze idrodinamiche: il corpo affusolato, una coda con
una muscolatura potente per il nuoto, una o due paia di pinne pari come stabilizzatori per correggere i movimenti
di rollio e di beccheggio. Ma a parte questo aspetto esterno, quasi tutto quello che vi É dentro É diverso.

8. COME I PESCI CARTILAGINEI E QUELLI OSSEI RISOLVONO IL PROBLEMA DELLA PRESSIONE


OSMOTICA.

IL PROBLEMA
L'insulto osmotico É tra i più importanti problemi da risolvere per un organismo che vive nell'acqua del mare o dei
fiumi. Una cellula, come un organismo, ha una certa concentrazione di sali al suo interno, che può essere
diversa dalla concentrazione di sali presente all'esterno.

UN PESCE NEL MARE


Un pesce di mare, ad esempio, ha una quantità di sali nel sangue, nei muscoli, eccetera, che É molto più bassa
di quella dell'acqua di mare
Se fossero uguali, tra l'altro, il pesce sarebbe talmente salato da essere immangiabile. Ma questa differenza
tra le due concentrazioni provoca una forte pressione osmotica, che tende ad equilibrare le due concentrazioni
stesse. Si crea cioÉ un flusso d'acqua che esce dalla cellula e dai tessuti del pesce per cercare di portare in
equilibrio le quantità di sali. L'acqua, uscendo, accresce la concentrazione dei sali contenuti all'interno
dell'animale, mentre contemporaneamente diluisce quelli esterni. Parrebbe inverosimile, ma senza mezzi di
difesa un pesce nell'acqua di mare si "seccherebbe". Infatti da tutte le sue cellule l'acqua uscirebbe per cercare di
rendere salatissimo il pesce e questo si ridurrebbe ad un involucro quasi secco attorno allo scheletro.

UN PESCE IN ACQUE DOLCI


L'opposto accade per un pesce che vive nelle acque dolci di un fiume
Questa volta sono le sue cellule ad avere una concentrazione di sali più elevata di quella dell'acqua del fiume,
si crea così un flusso opposto di acqua che dall'esterno penetra nella cellula e nei tessuti del pesce per diluirne i
sali. In questo caso l'animale si gonfia come una palla, tutte le cellule si dilatano fino a scoppiare, ed il pesce
muore in una esplosione generale delle sue cellule. Il problema quindi sta nell'inventare qualche cosa che
impedisca questi flussi di acqua in entrata o in uscita dal pesce.

LA SOLUZIONE NEI CARTILAGINEI


I Condroitti trovano una soluzione molto brillante ed efficace. Tutti gli animali hanno come prodotto di rifiuto da
eliminare una molecola contenente azoto che può essere ammoniaca, o urea, o acido urico. Con le urine
questo prodotto di scarto viene eliminato continuamente. I Condroitti, gli Squali e le Razze, invece, conservano
nei tessuti quel tanto di urea che basta per equilibrare la concentrazione dei propri sali con quella dell'acqua di
mare. Questi pesci quindi sono in equilibrio osmotico con l'esterno grazie all'alta concentrazione di urea nei
loro tessuti. Al palato, la carne degli squali non ci appare salata, l'urea infatti non ci dà questa sensazione; tutt'al
più un lieve odore, percepibile solo ai nasi più raffinati, dimostra l'origine del pesce
Questo sistema per bloccare il deflusso di acqua che essiccherebbe il pesce É efficientissimo, ma non può
funzionare a rovescio, non può proteggere l'animale nell'acqua dolce. Forse questa É una delle cause
principali per cui gli Squali e le Razze sono nella maggioranza pesci di acqua salata.

LA SOLUZIONE NEGLI OSSEI


Nella linea evolutiva degli Osteoitti il problema si risolve invece coprendo tutte le parti dell'animale che
vengono a contatto con l'acqua, cioÉ la pelle, la bocca, l'intestino, di una sostanza impermeabile all'acqua,
il muco, secreto da cellule ghiandolari. Il velo di muco impedisce all'acqua di entrare od uscire dal corpo del
pesce e l'accorgimento É perfettamente valido sia nell'acqua di mare, sia nell'acqua dolce. Si possono
riconoscere anche al tatto i due animali; i Condroitti hanno in genere una pelle rugosa, mentre gli Osteoitti
sono scivolosi, sfuggono alla presa delle mani a causa del velo di muco che li ricopre.

LA PELLE NEI DUE TIPI DI PESCI


La soluzione trovata dai due tipi di pesci per risolvere il problema dell'insulto osmotico si riflette sulla struttura
della loro pelle
Nei pesci cartilaginei l'epidermide É sottile con rare cellule ghiandolari e con squame dentellate che
rendono rugosa la pelle; nei pesci ossei oltre alle squame, a volte assenti, vi sono svariati strati di cellule con
molti elementi ghiandolari: in particolare verso la superficie sono numerosissime le cellule che secernono il muco,
che copre tutto il corpo dell'animale.

9. COME I DUE TIPI DI PESCI RISOLVONO IL PROBLEMA DEL PESO SPECIFICO.

Vivere e nuotare in acque basse non presenta particolari problemi, questi invece sorgono e sono importanti
quando ci si trasferisce in acque profonde.

IL PRINCIPIO DI ARCHIMEDE
Per comprendere queste difficoltà occorre richiamare alla memoria il vecchio principio di Archimede: un corpo
nell'acqua riceve una spinta verso l'alto con una forza pari al peso dell'acqua che il corpo stesso sposta.
Contemporaneamente però il corpo, grazie alla forza di gravità, ha una spinta verso il basso pari al suo
peso. Così un chilogrammo di piombo sposta una quantità di acqua pari a 900 grammi, quindi su quel corpo di
piombo agiscono due forze: una lo tira verso il basso con una spinta di un chilogrammo, mentre una di 900
grammi preme verso l'alto; naturalmente il blocco di piombo andrà a fondo inesorabilmente
Un chilogrammo di legno, invece, sposta una quantità di acqua molto superiore a un chilo e quindi sta a galla.
Anche un pesce deve fare i conti con Archimede, con la complicazione che il volume del suo corpo può variare
con la pressione dell'acqua.

II. PROBLEMA
Facciamo l'esempio di un pesce che a una certa profondità ha un peso specifico (rapporto peso/volume )
uguale a quello dell'acqua che sposta: in questo caso l'animale può stare tranquillo a quel livello poiché non
subisce nessuna spinta né verso l'alto, né verso il basso
Ma se spostiamo il pesce, ad esempio verso la superficie, si riduce la pressione dell'acqua, il volume del suo
corpo aumenta e di conseguenza si crea una spinta verso l'alto per la riduzione del peso specifico e l'animale
viene trascinato sempre più velocemente a galla. Al contrario, spostando il pesce verso il basso, con
l'aumentare della pressione aumenta il peso specifico e l'animale cade sul fondo come un sasso
Appare evidente quanto sia importante per chi nuota in acque profonde saper controllare e contrastare queste
spinte, poiché l'animale deve essere in grado di spostarsi in alto o in basso come ritiene opportuno,
senza correre il rischio di venire inesorabilmente trascinato a galla o sprofondato negli abissi marini
I due tipi di pesci risolvono il problema in modo completamente diverso, questa volta con una soluzione più
geniale ed efficiente in quelli ossei.

LA SOLUZIONE NEI CARTILAGINEI


Tra i pesci cartilaginei il problema non esiste per le Razze, che vivono solitamente adagiate sul fondo; ma uno
Squalo, che in genere ha un elevato peso specifico, deve vincere la forza che cerca continuamente di
trascinarlo sul fondo. La soluzione viene trovata nella forma del muso, nell'impianto delle pinne anteriori e nella
forma asimmetrica dei due lembi della coda. Nuotando infatti si crea non solo una spinta in avanti, ma anche delle
piccole spinte verso l'alto che contrastano l'elevato peso specifico. Il problema quindi É risolto, ma con un
grosso inconveniente: gli Squali che vivono al largo delle coste, in acque profonde, non devono mai fermarsi
per riposare: sono come condannati a muoversi continuamente, pena lo sprofondamento immediato negli
abissi.

LA SOLUZIONE NEGLI OSSEI


Nei pesci ossei, o meglio in quelli più evoluti, come nei Teleostei, si utilizza una vescica contenente un
miscuglio di gas, la vescica natatoria, per equilibrare continuamente il peso specifico dell'animale con
quello dell'acqua che il corpo sposta. Quando il pesce si muove verso l'alto o verso il basso É sufficiente ridurre
o aumentare i gas nella vescica per diminuire o accrescere il volume del corpo, mantenendo così sempre in
equilibrio i due pesi
E' la soluzione ideale; il pesce può fermarsi per riposare, può spostarsi in alto e in basso dove É più
conveniente vivere senza alcun problema di peso specifico, ed inoltre il costo energetico É basso.

10. I PESCI ALLA FINE DEL DEVONIANO.

Nei capitoli precedenti si É cercato di sottolineare due grandi differenze tra le due linee evolutive di pesci (i
Condroitti e gli Osteoitti) che presero origine nel Devoniano.

FINE DEI PLACODERMI


Probabilmente come i Placodermi, anche i due nuovi tipi di pesci si originarono nelle acque dolci di grandi fiumi
o estuari, e solo in un secondo tempo si spinsero anche in mare. Soprattutto i pesci cartilaginei si
installarono stabilmente nei mari ove cominciarono a rendere la vita difficile ai vecchi Placodermi. Gli antichi
pesci corazzati dovettero affrontare così la concorrenza su due fronti. Nei mari il confronto avvenne con il pesce
cartilagineo, nelle acque dolci con il pesce osseo. Probabilmente però non fu una battaglia diretta
E' difficile immaginare uno scontro tra un Placoderma ed uno Squalo primitivo; più probabile É invece un
confronto di efficienza. Entrambe le forme erano dei pesci predatori dotati di bocche e denti adeguati allo scopo,
per cui si può supporre che la vittoria arridesse a chi predava di più, a chi riusciva a sottrarre l'alimento all'altro.
Uno scontro diretto É improbabile, anche perché i Placodermi avevano raggiunto in pieno Devoniano delle
dimensioni cospicue, mentre i primi pesci cartilaginei erano di gran lunga più piccoli. Ma la maggiore agilità nel
nuoto, un ritmo di riproduzione più elevato, una bocca più adeguata possono aver spostato lentamente, ma
inesorabilmente, l'ago della bilancia a favore dei Condroitti. E per i Placodermi fu la fine; lentamente ma
inevitabilmente una specie dietro l'altra, cominciarono a sparire
Il dominio del primo grande gruppo di veri pesci terminò verso la fine del Carbonifero, quando oramai i Condroitti
e gli Osteoitti erano già affermati nei loro territori preferiti
Del grande gruppo dei Placodermi, che avevano popolato le acque del nostro globo per oltre 100 milioni di
anni, nessuno É rimasto in vita
Quello dei Placodermi É l'unico grande gruppo di vertebrati che non ha lasciato una testimonianza vivente;
nessuno É sopravvissuto.

DUE LINEE EVOLUTIVE NEI PESCI OSSEI


le acque del Devoniano sono testimoni inoltre di un altro evento importantissimo. Mentre la linea evolutiva
dei pesci cartilaginei procedeva autonoma nel suo sviluppo, tra i pesci ossei si instaurò una netta biforcazione in
due sottogruppi. Per comprendere questo evento occorre ricordare che la terra emersa in quel periodo era
costituita in gran parte da paludi, da laghi con bassi fondali e da stagni. La temperatura inoltre era elevata,
per cui in quelle acque doveva scarseggiare l'ossigeno. I pesci ossei si divisero in quel periodo in due grandi
linee evolutive: una prima rimase a colonizzare le acque fresche, profonde e ricche di ossigeno, mentre la
seconda iniziò l'adattamento alla vita di palude. In questo ambiente la respirazione con le branchie non É più
sufficiente, in quanto l'ossigeno dell'acqua É troppo scarso, per cui occorre saper utilizzare anche l'ossigeno
dell'aria: inoltre, più che nuotare, nelle acque basse É importante anche saper strisciare
In conclusione tra gli Osteoitti un gruppo continuò la sua evoluzione come pesce tipico, gli Actinopterigi;
mentre l'altro si adattò a vivere al confine tra acqua e terra, i Sarcopterigi. Fu un evento importantissimo e
determinante per il seguito della nostra storia.

11. I PESCI CARTILAGINEI, O CONDROITTI.

I SELACI
Nel Devoniano comparvero i primi pesci con scheletro cartilagineo, i Condroitti, da cui deriveranno gli attuali
Squali (Selaci) e Razze. I precursori della classe non erano animali molto grandi, non superavano il metro; ma
fin dalle origini la forma del loro corpo, la potente coda, le ampie pinne testimoniano un'ottima capacità di nuoto
che, unita alla bocca possente e ben armata, rendeva questi animali degli aggressori molto potenti e pericolosi.
La fortuna di questi primi pesci cartilaginei fu immediata; rapidamente si espansero nei mari e nelle acque
dolci, ove soppiantarono i più pesanti e tozzi Placodermi e dove entrarono anche in competizione con l'altra linea
evolutiva di pesci moderni, gli Osteoitti, o pesci con lo scheletro formato da tessuto osseo. Nei due ambienti
l'espansione dei Selaci non fu identica: se nelle acque dolci infatti dovettero cedere il passo agli altri pesci,
nelle acque salate dei mari invece si affermarono rapidamente con forme e dimensioni diverse, anche
gigantesche. Dal momento della loro comparsa, oltre 350 milioni di anni fa, fino verso la fine del Trias, meno di
200 milioni di anni fa, i Selaci furono in continua espansione sia per numero di esemplari, sia per numero di
famiglie e specie; sembrava che il loro regno non dovesse avere mai termine, ma proprio dopo il Trias, in pieno
Giura, una minaccia nuova ed inaspettata bloccò, anzi ridusse, la loro espansione.

UN CONTRASTO CON I RETTILI


I Selaci, che avevano vinto facilmente la competizione con i Placodermi, e che avevano raggiunto un
ragionevole equilibrio con i pesci ossei, non seppero reggere il confronto con gli ultimi arrivati nell'acqua, i
Rettili, che abbandonata la terraferma avevano iniziato la loro espansione anche nei mari. L'Era Secondaria,
giustamente chiamata l'Era dei Rettili, É caratterizzata dalla grande diffusione di questi Vertebrati che si
spinsero anche nei mari con diverse linee evolutive, tutte adattate al nuovo ambiente.

I RETTILI MARINI
Accanto alle antiche Tartarughe, ancora oggi viventi nei mari, erano presenti, ed anche molto diffusi, i
Plesiosauri, dei giganteschi rettili predatori, con un corpo tozzo, ma con un lungo, elegante e guizzante collo.
Nei mari nuotavano anche dei Tylosauri, rettili con la forma e le dimensioni degli attuali Coccodrilli (non progenitori
di questi però), che con la loro possente bocca armata di affilatissimi denti dovevano rappresentare più che un
terribile concorrente. Gli Ittiosauri infine, che rappresentano l'altra linea evolutiva di Rettili marini,
raggiunsero una forma e dimensioni simili agli attuali Cetacei (Delfini ed Orche) ed ebbero un lungo periodo di
dominio nei mari del Giura. Tutte queste forme di Rettili, ben adattate all'ambiente marino, provocarono
una drastica riduzione nel numero ed espansione dei nostri Selaci. Anzi, sia la competizione diretta (si pensi ad
un probabile scontro tra due voraci ed armatissimi predatori, come uno Squalo ed un Tylosauro) sia la concorrenza
per la ricerca del cibo con gli altri Rettili marini determinarono una scomparsa lenta ma così progressiva delle
diverse specie di Selaci dominatori incontrastati nei milioni di anni precedenti, che l'intera classe corse il
rischio di estinguersi.
QUASI UNA TRAGEDIA
Come si erano estinti i Placodermi per la supremazia dei Selaci, così poco mancò che questi ultimi
scomparissero dalla scena per la supremazia dei Rettili marini, e noi oggi non conosceremmo, se non per
qualche dente fossile, quella magnifica macchina per predare che É lo Squalo. Ma, buon per i Selaci, i Rettili
marini, per cause ancora oscure, verso la fine dell'Era Secondaria cominciarono ad estinguersi, ed i Selaci
ripresero la loro espansione che li riportò a dominare come predatori tutti i mari del nostro pianeta.

12. LA ROTAZIONE DELLA BOCCA E L'OLFATTO NEGLI SQUALI.

La storia dell'evoluzione dei Selaci presenta una sostanziale immobilità. Quando infatti compaiono nel
Devoniano, questi pesci hanno già tutte le loro caratteristiche. Con il passare dei milioni di anni, 350 dall'origine
ad oggi, il Selacio si modifica ben poco. Solo una particolarità cambia radicalmente: la bocca, dalla
posizione tradizionale, si sposta ventralmente, in una posizione decisamente scomoda per mangiare. Ma se
questo strano evento ha avuto luogo, ciò significa che deve aver portato un vantaggio. Per spiegare questo
enigma occorre prima esaminare alcuni organi di senso del pesce.

GLI ORGANI DI SENSO DOMINANTI


Nei pesci attuali, come nei più antichi, tre organi di senso dominano sugli altri: l'occhio, la mucosa olfattoria e la
linea laterale. I Selaci, come gli Squali, hanno la fama immeritata di essere miopi e di avere un occhio poco
efficiente: vedremo più avanti quanto non sia vera questa affermazione; mentre risponde a verità l'opinione che gli
Squali hanno un ottimo olfatto. Un terzo organo molto importante É la linea laterale che, come vedremo meglio
nel prossimo capitolo, fornisce informazioni preziose a un animale predatore
Questi tre organi di senso in un pesce tradizionale sono posti sulla superficie dorsale del capo, tutt'al più le
narici sono all'estremità del muso.

SPECIALIZZAZIONE
Quando nei Selaci, assieme alla bocca, si spostano sul piano ventrale anche le narici e la linea laterale, questi
due organi di senso si specializzano per raccogliere informazioni su ciò che accade al di sotto dell'animale.
Infatti nelle posizioni tradizionali il campo visivo si sovrappone in parte al campo esplorato dall'olfatto; con la
migrazione nei Selaci di narici e linea laterale, all'occhio rimane il compito di esplorare i lati e il dorso dell'animale,
mentre si sposta ventralmente il campo esplorato dall'olfatto e da parte della linea laterale. Le informazioni
così raccolte sono più accurate e specializzate, e questo determina un sicuro vantaggio che va a
compensare la strana e scomoda posizione della bocca.

L'OLFATTO
La narice dello Squalo ha una struttura molto complessa, prevedendo sia un'apertura per l'entrata del l'acqua,
sia una per l'uscita. Vi É quindi un continuo flusso di acqua che attraversa la camera ove delle lamine fitte e
stipate di mucosa olfattoria raccolgono anche la più piccola informazione odorosa. Gli Squali, infatti, riescono
a riconoscere una sostanza fino alla diluizione di una parte su un milione.

A CACCIA CON L'OLFATTO


Con un simile olfatto lo Squalo non solo individua la preda, ma riesce anche a dirigersi verso di lei. Noi
possediamo narici molto vicine tra loro, e per di più abbiamo una mucosa olfattoria poco sviluppata: negli
Squali, invece, le fossette olfattorie sono molto distanziate e grazie alla loro forte sensibilità l'animale riesce a
valutare la differenza d'informazione tra le due. Se la preda É posta sulla destra, l'odore sarà più intenso da
quella parte e lo Squalo si sposterà in quella direzione; se la preda si trova nel centro, entrambe le
narici forniranno la stessa informazione, per cui l'animale procederà in linea retta, ma questo secondo evento
É più raro.
LA TIPICA CACCIA DELLO SQUALO MARTELLO
Di norma lo Squalo si avvicina alla preda seguendo un percorso a spirale, perché tende a nuotare verso il
lato dove É posta la preda paragonando costantemente le stimolazioni delle narici di destra con quelle di
sinistra per determinare la differenza dell'odore. Questo modo di cacciare diventa tanto più vantaggioso quanto
più sono distanziate le narici, così rese più sensibili alla differenza di odore dei due lati
Questa maggiore differenza ed efficienza É forse all'origine della strana forma della testa dello Squalo
martello, avido cacciatore di Razze. Le sporgenze laterali del capo di questo pesce distanziano non solo gli
occhi, ma anche le narici, aumentandone quindi la sensibilità e la capacità di orientare l'animale verso l'ignara
Razza seminascosta nella sabbia.

13. I MAGNIFICI ORGANI DI SENSO DELLO SQUALO: L'OCCHIO E LA LINEA LATERALE.

Quando si parla di organi di senso É quasi inevitabile fare riferimento a quelli che noi possediamo e
considerarci un po' un metro per giudicare gli altri. Nella realtà la nostra sensibilità É ben poca cosa rispetto a
quella che hanno gli altri animali. I pesci in modo particolare conoscono la realtà che li circonda attraverso degli
organi sensibili ad informazioni per noi assolutamente sconosciute ed incomprensibili. Anche lo Squalo, pur
essendo uno dei pesci più antichi, possiede un corredo di organi di senso molto specializzati.

L'OCCHIO
Già conosciamo le grandi possibilità dell'olfatto, ma anche l'occhio non É da meno. La fama dello Squalo
miope deve essere rivista, o almeno modificata, poiché vi sono alcune particolarità che lo rendono addirittura
unico tra i vertebrati. Nei vertebrati con abitudini diurne le cellule dell'occhio sensibili alla luce, i coni ed i
bastoncelli, sono isolate le une dalle altre da frange di pigmento nero che assorbono il raggio luminoso dopo che
questo ha stimolato il cono od il bastoncello. Nei vertebrati ad abitudini notturne, invece, attorno alle cellule
sensibili vi sono dei cristalli che riflettono il debole raggio luminoso consentendo a questo di stimolare più volte i
coni ed i bastoncelli. Gli occhi con questi cristalli sembrano luminosi al buio, come ci accade di vedere nei
gatti, nei cani, nei gufi, eccetera. Ebbene, nel nostro Squalo l'occhio ha entrambe le possibilità: di giorno i
coni ed i bastoncelli sono isolati da frange di pigmento, che di notte si ritirano per lasciare scoperti i cristalli
proprio come in un animale notturno. Lo Squalo in conclusione É l'unico vertebrato che ha l'occhio adattabile,
sia per vedere di giorno, sia per la visione notturna.

LA LINEA LATERALE
Ma l'organo di senso più interessante e misterioso - nello Squalo come in tutti gli altri pesci, poiché É collegato
con la vita acquatica - É la linea laterale ed i suoi derivati
Se si guardano da vicino con attenzione la testa e il tronco del pesce si può notare, in entrambi i fianchi del
suo corpo, una serie di forellini sulla pelle disposti regolarmente in fila, uno dietro l'altro, con un disegno a
volte rettilineo, come nel tronco e nella coda, a volte con eleganti circonvoluzioni, come nel la testa attorno
all'occhio o vicino alla bocca e alle narici. Guardando meglio questi forellini, si vede che tutti comunicano con un
canale sul cui fondo si trovano gruppi di cellule sensoriali. L'acqua di mare penetra nel canale e trasporta
l'informazione alle cellule sensoriali, che a loro volta la trasmettono al cervello. Ma quali informazioni? Lo studio
negli ultimi decenni sulla funzionalità della linea laterale dimostra una grande versatilità di questo organo di
senso. Innanzitutto permette all'animale di sentire i suoni dell'ambiente; l'orecchio infatti É utile all'animale
solo per fargli mantenere l'equilibrio, per cui le onde sonore sono raccolte dalle cellule sensoriali della linea
laterale. Se inoltre un corpo si dibatte, come nel caso di un animale ferito o di un nuotatore inesperto, le onde di
compressione che questo determina nell'acqua sono percepite dalla linea laterale dello Squalo, che si dirige
allora verso la preda
La linea laterale É inoltre un termorecettore, essendo capace di valutare anche piccole differenze di
temperatura dell'acqua, persino inferiori ad 1/100 di grado. Un'evoluzione ulteriore della linea laterale
permette allo Squalo di valutare il campo elettrico generato dal movimento dei suoi stessi muscoli e di valutarne le
variazioni. Ma questa sensibilità la rivedremo meglio e con maggiori dettagli in un altro pesce, cugino dello
Squalo, la Razza, ove questa possibilità É molto più raffinata e specializzata.

IL GUSTO
Anche il gusto negli Squali É ben rappresentato e probabilmente con una forte sensibilità, ma a tutt'oggi É
poco studiato; quello che É certo É la presenza di papille gustative disseminate su tutta la pelle dell'animale,
dal muso alla coda, più concentrate in corrispondenza del capo, più rade sul tronco
Forse lo Squalo É anche in grado di orientarsi con le linee magnetiche del campo terrestre, poiché alcuni
Squali compiono delle precise migrazioni periodiche, ma anche di questa sensibilità conosciamo
pochissimo
E' evidente da queste descrizioni quali masse di informazioni, per noi del tutto sconosciute, lo Squalo può
percepire dall'ambiente, e come riesce a conoscere bene tutto quello che gli accade intorno, vicino o lontano,
per essere pronto ad approfittare di qual siasi evento. Al confronto dei sensi dello Squalo, i nostri sono ben poca
cosa.

SQUALI E RAZZE, CIBO DA RE


Alcuni Squali e Razze hanno carni eccellenti ed entrano nella nostra alimentazione con il loro nome preciso,
come lo Spinarello, il Palombo, lo Smeriglio, eccetera. Però É curioso come in quasi tutte le nazioni lo Squalo
venga anche spacciato per altri pesci più pregiati, o più conosciuti. Per citare le truffe più curiose: lo Smeriglio o
Lamna, decapitato, viene spacciato per Pesce Spada o addirittura per Salmone; l'Isurus o Mako ed il Pesce
martello vengono venduti come Tonno; in alcune nazioni viene chiamato Salmone di Roccia un pesce che non
É né Salmone, né vive tra le rocce, poiché e uno Sciliorinide, una famiglia di Selaci che vivono in mare aperto.
Nell'Europa del centro nord tranci di Squalo affumicato vengono venduti con il nome di Anguilla di lago,
mentre la Razza affumicata diventa Trota di lago.

14. CHE COSA E COME MANGIA LO SQUALO.

Non vi É cibo nel mare, grande o piccolo che sia, che non trovi uno Squalo pronto ad approfittarne. Infatti,
accanto alle forme classiche che conosciamo per il loro aspetto terrificante e per l'insaziabile voracità, vi sono
anche Squali del tutto innocui per l'uomo, che frugano il fondo marino per cercare il cibo con il sensibilissimo
olfatto.

SQUALI FILTRATORI
Il più grande di tutti gli Squali viventi, lo Squalo balena, che É lungo anche 18 metri e pesa 70 quintali, si
ciba addirittura di piccoli pesci e gamberetti che cattura filtrando l'acqua proprio come fa la Balena, ma in modo
diverso. Questo strano Squalo possiede un fegato gigantesco e ricchissimo di olio (fino a 600 litri), che lo
tiene costantemente a galla e in posizione verticale, con la bocca spalancata quasi a pelo d'acqua. Lo Squalo
nuota in questa posizione, per cui l'acqua entrando dalla bocca e uscendo dalle branchie viene filtrata di tutti i
piccoli organismi esistenti.
SQUALI PREDATORI
Ma quando si parla di Squali vengono alla mente le immagini dei grandi predatori, come lo Squalo bianco (che É
poi grigio), lo Squalo azzurro (Verdesca) e lo Squalo tigre. Lo Squalo bianco, detto anche Pescecane, É
pericolosissimo, poiché si avvicina molto alla costa, sia per cercarvi il cibo, sia per riposarsi adagiandosi
sul fondo. In Australia É capitato e capiterà ancora a qualche sfortunato bagnante di calpestare uno Squalo
addormentato vicino a riva, subendone poi tutte le conseguenze. Ma in genere i grandi predatori nuotano al
largo, per cui l'incontro con l'uomo É piuttosto raro. La voracità di questi Squali ha dell'incredibile, mangiano tutto
quello che vedono senza alcuna preferenza o distinzione. Nello stomaco di uno Squalo bianco furono trovati
un prosciutto, diverse zampe di montone, la metà posteriore di un maiale, la testa e le zampe di un cane
mastino, brandelli di cavallo e diversi sacchi di tela: evidentemente il frutto di un naufragio
La voracità insaziabile di questi Squali ha una spiegazione, una sua giustificazione. Innanzitutto in genere sono
pesci che devono nuotare continuamente; come abbiamo già visto, infatti, il loro peso specifico li trascinerebbe
sul fondo o negli abissi se si arrestassero, quindi hanno bisogno di molta energia per poter continuare a
nuotare instancabilmente. Inoltre il loro intestino, primitivo e poco funzionale, É rettilineo, non ha quelle
anse e circonvoluzioni presenti nei vertebrati più evoluti: il percorso del cibo É breve, i succhi digestivi non
riescono a sciogliere completamente l'alimento ed infine la scarsa superficie interna dell'intestino stesso assorbe
malamente i prodotti della digestione. Invero vi É una piega della mucosa che si avvolge a spirale all'interno
dell'intestino per aumentare la superficie assorbente, ma É un ripiego ancora poco funzionale. Per questi
motivi lo Squalo non digerisce completamente le sue prede, da qui la sua insaziabile voracità.

LA POSIZIONE DELLA BOCCA


Per predare, per strappare brandelli di carne, lo Squalo possiede una bocca armata di affilatissimi denti. La
posizione della sua bocca però É decisamente sbagliata, e provoca non pochi inconvenienti all'animale;
ma già sappiamo dei vantaggi che esso ha acquisito spostando ventralmente non solo la bocca, ma anche
molti organi di senso, per cui il bilancio complessivo É favorevole all'animale e l'inconveniente É accettabile
Con la bocca ventrale, infatti, per azzannare una preda più voluminosa di lui, uno Squalo deve disporsi quasi a
pancia in avanti; solo in questa posizione riesce ad affondare i suoi denti nella carne della preda ed a mordere
con forza per staccarne dei brandelli; anzi, per aiutare questo compito, lo Squalo agita freneticamente la testa,
fino a che non riesce a staccarsi con il grosso frammento di cibo in bocca
Tutta questa azione É un atto puramente istintivo, un riflesso automatico, come sanno bene alcuni
pescatori rimasti azzannati da Squali morti a bocca aperta: la bocca si É richiusa prontamente al contatto
con un corpo estraneo. Questo modo di predare É esclusivo degli Squali, negli altri pesci la tecnica É
completamente diversa.

I DENTI
La dentatura degli Squali predatori É veramente possente ed efficientissima. Il dente É in genere una
piastra triangolare con il bordo seghettato ed É solo appoggiato malamente alla mandibola e alla mascella, per
cui può cadere facilmente. Ma voi non vedrete mai uno squalo sdentato, poiché appena cade un dente, un altro
dente É subito pronto per sostituirlo. Anzi ogni dente funzionante ha una fila di sostituti, via via più piccoli,
pronti ad intervenire in caso di bisogno. Questo tipo di dentatura É unica ed esclusiva degli Squali;
apparentemente sembra fragile, nella realtà É efficientissima.
15. COME NUOTANO, COME CACCIANO GLI SQUALI.

Il corpo dello Squalo É tipico di un pesce; la linea affusolata consente una buona penetrazione nell'acqua, la
coda con la sua potente muscolatura assicura il movimento in avanti, come accade non solo nei pesci, ma
anche negli Ittiosauri, Rettili che vissero nel Secondario, e negli attuali Cetacei.

COMPITI DELLE PINNE


In tutte queste forme di vertebrati adattati alla vita acquatica sono presenti anche delle pinne, sia isolate sul
dorso e sul ventre, sia a coppie ai lati della testa e del tronco
Queste pinne hanno dei compiti importanti, legati ai movimenti irregolari che un corpo subisce nell'acqua.
Tutti conosciamo gli ondeggiamenti di una barca, il rollio ed il beccheggio, che a volte possono provocare
nausee, vomito, vertigini. Senza affermare che anche gli organismi marini soffrono il mal di mare, si può
constatare comunque che tutti posseggono queste pinne per correggere automaticamente o ridurre i
movimenti di rollio e di beccheggio. Le pinne pari anteriori hanno anche un altro compito legato al movimento: se
la coda spinge in avanti, all'animale occorre anche qualche struttura capace di frenare il movimento od
invertirlo per spingersi all'indietro. Nei Teleostei queste pinne sono mobili e possono agire da freno e da
marcia indietro; negli Squali stranamente esse sono immobili, utilizzabili solo per creare, con la loro inserzione
obliqua, quella spinta verso l'alto che evita di precipitare sul fondo a causa del maggiore peso specifico, come
abbiamo già visto
Per questo lo Squalo É forse l'unico pesce che non É in grado di fermarsi, se non smettendo di spingere con
la coda ed aspettando che il corpo si arresti da solo per l'attrito, né tanto meno É in grado di nuotare all'indietro.

SQUALI A REAZIONE In alcuni Squali forti nuotatori la spinta in avanti É assicurata, oltre che dalla coda,
anche dalle branchie! Infatti questi animali, mentre nuotano, si riempiono la bocca di acqua che espellono poi con
forza dalle fessure branchiali. Si crea così una spinta in avanti, per reazione alla forza del getto dell'acqua espulsa,
che concorre con la coda al movimento dell'animale. Alcuni Squali quando nuotano non si preoccupano di
aprire e chiudere la bocca per far circolare l'acqua attraverso le branchie, ma semplicemente mantengono la
bocca aperta, così l'acqua con il movimento dell'animale può scorrere continuamente ed ossigenare le branchie.

COME RESPIRANO GLI SQUALI


Negli Squali le branchie sono contenute in cinque camere (in alcuni 6 e 7) aperte da un lato nella faringe,
dall'altro ai lati della testa dell'animale. Per far circolare l'acqua lo Squalo spalanca la bocca tenendo chiuse le
fessure branchiali, poi apre queste e chiudendo la bocca costringe l'acqua a passare dalla faringe alle camere e
da qui all'esterno.

LA TECNICA DELLO SQUALO VOLPE


Già abbiamo visto come cacciano gli Squali predatori e non; merita però una segnalazione particolare lo
Squalo volpe, chiamato anche Codalunga o Volpe di mare, il quale deve questo nome alla presenza di una
lunga pinna caudale, che, con molta fantasia, qualcuno considera assomigliante alla coda della volpe, da cui il
nome che nessuno poi cambiò. Questo Squalo caccia in modo insolito: le sue prede sono piccoli pesci che
vivono in branchi, ma per non faticare a catturarne uno alla volta, lo Squalo volpe accerchia il branco, poi si mette
a nuotargli intorno con spirali sempre più strette, agitando la lunga coda freneticamente. I pesci, disorientati e
spaventati dai colpi di coda, finiscono per addensarsi caoticamente al centro della spirale, e, incapaci di fuggire,
sono facile e rapida preda dello Squalo.

REMORA E PESCE PILOTA


Spesso i grandi squali sono accompagnati da piccoli pesci, chiamati pesci pilota, che nuotano davanti a loro,
o, come le remore, stanno attaccati alla loro pelle con una ventosa. La credulità popolare sostiene che
questi pesci guidino lo squalo sulla preda; in realtà non offrono nulla di utile in cambio della possibilità di utilizzare
le briciole dei banchetti degli squali.

16. COME SI RIPRODUCONO GLI SQUALI.

Tra le tante contraddizioni dell'anatomia dello Squalo, con i suoi caratteri primitivi accanto ad altri molto
evoluti, vi É anche la presenza degli organi copulatori che consentono la fecondazione interna. Di norma
É un carattere arcaico deporre le uova e gli spermatozoi nell'ambiente esterno e lasciare al caso l'incontro tra i
due. Solo nelle forme più evolute compare la fecondazione interna con organi copulatori per facilitare l'unione
dello spermatozoo con l'uovo. Il nostro Squalo maschio, pur essendo un pesce molto antico, ha degli organi
copulatori ai lati della cloaca - l'apertura genitale, urinaria e fecale - ottenuti per modificazione di un raggio delle
pinne pelviche. E' infatti facile riconoscere uno Squalo maschio da una femmina: basta cercare i due organi
copulatori.

SQUALI OVIPARI
Anche nello sviluppo delle uova vi sono modalità contrastanti: un gruppo di Squali, detti "ovipari", depone le
uova che vengono in genere attaccate alle piante del fondo. Dentro il guscio di queste uova si sviluppa
l'embrione, provvisto di un voluminoso sacco vitellino, ricco di alimenti, per soddisfare le esigenze nutritive
dell'embrione per tutto il periodo dello sviluppo. Questo modo di riprodursi É sicuramente antico e primitivo;
l'uovo e l'embrione sono abbandonati a se stessi e possono cadere vittime dei numerosi pericoli e nemici che li
circondano.

SQUALI VIVIPARI
Ma vi É un altro gruppo di Squali che adotta un metodo di sviluppo molto più efficace e moderno. Le uova
non vengono deposte, ma si fermano lungo l'ovidotto della madre: in questo caso il sacco vitellino
provvede non solo a fornire alimenti all'embrione, ma stabilisce rapporti con i vasi materni, rendendo così
possibili degli scambi nutritivi tra embrione e madre. Si dicono "vivipari" appunto quegli animali il cui embrione
si sviluppa all'interno del corpo materno, traendo nutrimento da esso. Questa É una particolarità di sviluppo
estremamente moderna; ha molte analogie con quanto accade nei mammiferi, Uomo compreso, ove l'embrione
si arresta precocemente nell'utero, che non É altro che l'ultimo tratto specializzato dell'ovidotto, e qui ha
rapporti con la madre che provvederà per tutto il periodo della gravidanza a nutrire il suo embrione ed a depurarlo
delle scorie del suo metabolismo. Alcuni Squali e i mammiferi hanno quindi forti somiglianze, per non dire
analogie, nel loro meccanismo di sviluppo. Naturalmente, così come avviene per i Mammiferi, al termine
della gravidanza la madre partorisce uno Squaletto già grande e perfettamente formato, che esce dalla cloaca
prima con la testa poi con tutto il corpo. Questo metodo di sviluppo É molto più sicuro di quello di
abbandonare le uova nell'ambiente esterno, ed inoltre il nuovo nato, quando diviene libero, É già perfettamente in
grado di difendersi dai nemici dell'ambiente
Nel Lamna, o Smeriglio, la femmina continua a produrre uova mentre i suoi due embrioni, uno per ovidotto, si
stanno sviluppando; queste uova però non vanno perdute, poiché i piccoli Lamna, pur nel buio del ventre,
riescono a trovarle ed a inghiottirle.

IL CANNIBALISMO
Ma quello che accade nel ferocissimo e pericoloso Squalo toro ha dell'incredibile e giustifica la grande
aggressività di questo animale. La femmina produce una serie di uova che si fermano lungo i due ovidotti, in
ognuno dei quali si forma una catena di embrioni, che inizialmente utilizzano le riserve del sacco vitellino.
Cessate queste, però, inizia una feroce competizione dentro a ciascun ovidotto; gli embrioni lottano per
sopraffarsi a vicenda e per cibarsi del vinto. Progressivamente il numero degli embrioni cala, fino a che rimane
un solo vincitore per ogni ovidotto. A questo punto lo Squaletto É già pronto per il parto. Non stupisce quindi la
voracità e l'aggressività degli Squali toro, visto che per venire alla luce devono superare una durissima e
ferocissima selezione.

17. GLI SQUALI SOPRAVVISSUTI.

Gli Squali, come abbiamo visto, attraversarono un grave periodo di crisi per la forte presenza dei Rettili marini
durante il Secondario, ma dopo la scomparsa dei concorrenti si ripresero rapidamente e riconquistarono il
dominio perduto. Oggi gli Squali sono i predatori dei mari più grandi e voraci, solo le Orche possono competere
con loro
Citarli tutti É un po' inutile oltre che noioso. In genere tra le diverse specie non vi sono grandi o spettacolari
differenze: cambiano le dimensioni, il colore, la forma delle pinne, della bocca, dei denti e delle abitudini, ma in
sostanza la struttura di base degli Squali É simile. Alcuni però meritano una segnalazione.

CARCHARODONTE, O SQUALO BIANCO


Forse É il rappresentante più tipico e conosciuto degli Squali; quando si parla o si disegna genericamente uno
Squalo predatore ci si riferisce allo Squalo bianco, detto anche Pescecane. Questo animale, che attacca e
divora tutto quello che incontra, può avventarsi anche sulle imbarcazioni. In genere segue le navi per divorare ciò
che viene gettato fuori bordo. Il nome Squalo bianco É decisamente bugiardo, poiché il colore della pelle sui
fianchi e sul dorso varia dal grigio al nero, solo il ventre É bianco. Le dimensioni di questo Squalo sono
eccezionali per un predatore, poiché può giungere fino a 12 metri di lunghezza; ma un suo diretto parente, il
Megalodon, estintosi qualche milione di anni fa, raggiungeva l'incredibile lunghezza di 30 metri
Se si considera che la spaventosa bocca degli esemplari più grandi di Squali bianchi può inghiottire un uomo
intero senza scalfirlo, si può immaginare la dimensione della bocca del Megalodon. Buon per noi che É estinto,
poiché sarebbe stato capace di inghiottire per intero una barca con tutti i suoi occupanti.

ISURUS, O MAKO
E' chiamato anche Squalo tonno per il sapore delicato delle sue carni
E' un instancabile nuotatore: giorno e notte esplora continuamente i mari in cerca di prede. Forse É lo Squalo
più pericoloso per chi nuota al largo. La pesca del Mako É molto spettacolare: si può cercare di catturarlo
all'amo da motoscafi veloci; allora, una volta preso, l'animale si dibatte per liberarsi compiendo incredibili balzi
fuori dall'acqua.

PRIONACE GLAUCA, O VERDESCA O SQUALO AZZURRO


Ha il corpo molto allungato, la coda appiattita e le pinne pettorali a forma di falce. Sulla parte superiore del corpo
É di un blu molto scuro
E' un altro Squalo molto pericoloso per la sua voracità, pur non raggiungendo dimensioni eccezionali. Reca
notevoli danni durante la caccia alle Balene: interi branchi di Verdesche attaccano il grosso cetaceo, quando
già É stato colpito a morte, per cibarsene. Infatti questo pesce trova più comodo seguire le navi per divorarne i
rifiuti piuttosto che andare a caccia negli spazi liberi. Per questa sua abitudine si avvicina alle coste e ai
porti, rendendosi così molto pericoloso per l'uomo.

LAMNA, O SQUALO NASUTO


E' uno Squalo molto comune nei mari ed anche nelle pescherie. Il nome gli deriva dal muso molto più lungo
della norma, ma É bene non scherzare con questo pesce poiché può aggredire e provocare gravi ferite. La
fama di questo Squalo deriva dal sapore delle sue carni (É chiamato anche Smeriglio). Appena pescato emana
un pessimo e sgradevole odore, che cessa però dopo poche ore, e può essere messo in commercio sia con il
suo nome, sia spacciandolo per Pesce spada o addirittura per Salmone.

CETORINO MASSIMO, O SQUALO ELEFANTE


E' il numero due nella scala delle dimensioni, secondo solo allo Squalo balena che già conosciamo. Il
Cetorino, lungo 13 metri, nuota normalmente tenendo spalancata l'enorme bocca, così da poter filtrare
tonnellate di acqua ogni giorno e trattenere nell'apparato filtrante delle branchie migliaia di piccoli organismi
contenuti nel plancton
Questi due giganti, lo Squalo balena e lo Squalo elefante, sono completamente innocui per l'uomo, che
non attaccano mai, essendo occupati per 24 ore su 24 a raccogliere le piccole prede.

MEGACHASMA PELAGIOS
Questo Squalo lo conoscono in pochi, poiché ne É stato pescato un solo esemplare presso le isole Hawaii
Si ignorano le sue abitudini di vita, ma É molto interessante poiché ha la bocca all'estremità del muso, proprio
come gli antichissimi precursori di tutta la classe
Forse É un rappresentante vivente degli Squali che vissero nell'antico Devoniano-Permiano, prima cioÉ che nella
classe avvenisse la rotazione ventrale della bocca. Se questo É vero, il Megachasma É uno dei pesci viventi più
antichi che si conoscano, un vero fossile vivente.

DIFESE CONTRO GLI SQUALI


In molti paesi si conducono ricerche per scoraggiare gli Squali dall'attaccare l'uomo. Ad esempio si É
tentato di creare al largo delle spiagge una barriera di bollicine d'aria emesse da un tubo bucherellato
adagiato sul fondo. Ma si É scoperto che lo Squalo, invece di temere questa barriera, la riattraversava più volte,
come in un gioco. Altri metodi non hanno dato, per ora, risultati migliori.

18. LE RAZZE, O BATOIDEI.

I Batoidei sono strettamente imparentati con gli Squali, perché, come questi, hanno lo scheletro cartilagineo.
Sono però molto diversi dagli Squali per la forma appiattita del corpo e per le fessure branchiali che si aprono
ventralmente, non ai lati come in genere in tutti i pesci, Squali compresi.

UN ANIMALE DI FONDO
Anche se tra loro vi sono delle specie buone nuotatrici, i Batoidei si sono evoluti come animali di fondo. Il
corpo appiattito ed il particolare modo di muoversi favoriscono l'infossamento nella sabbia, sia per cercarvi
nutrimento, sia per nascondersi dai nemici naturali
Ma restare sepolti nella sabbia crea un grosso problema di respirazione: se l'acqua venisse prelevata
dalla bocca, come fanno tutti i pesci, conterrebbe detriti, sabbia e poco ossigeno. Per superare
l'inconveniente viene utilizzata la prima camera branchiale, chiamata spiracolo, la cui apertura spostata
dorsalmente serve per aspirare l'acqua. Infatti, quando É infossato nella sabbia, l'animale lascia sporgere da
questa solo i due occhi e due tubicini, gli spiracoli, con cui preleva l'acqua che attraverserà poi le branchie.

PIU' CHE NUOTARE, VOLANO


Ma i Batoidei possono anche nuotare, anzi la grande Aquila di mare (Myliobatis aquila) É una maestosa
nuotatrice e deve il suo nome al modo con cui si sposta nell'acqua. La regola per tutti i pesci vuole che sia la
colonna vertebrale, con la sua muscolatura e le sue pinne, a determinare, flettendosi, la spinta necessaria per il
movimento; nei Batoidei invece la colonna vertebrale É rigida e praticamente immobile, mentre le enormi
pinne laterali si muovono dall'alto in basso, proprio come le ali di un uccello. I Batoidei quindi, più che
nuotare, volano dentro l'acqua; e l'immagine di un'aquila viene spontanea quando si osserva la maestosità
della Myliobatis. Questo Batoideo possiede, come altri, una particolarità che può renderlo pericoloso: sulla
base della lunga ed affilata coda vi É un aculeo dentellato, usato come arma di difesa, la cui puntura É
particolarmente dolorosa ed a volte mortale, poiché É impregnato di una sostanza tossica elaborata da una
ghiandola.

L'ALIMENTAZIONE
L'alimentazione dei Batoidei É molto monotona: la loro dieta É basata su piccoli animali raccolti sul fondo,
come Molluschi, Gamberetti, Polipi. La bocca in genere non É armata di denti aguzzi per strappare o lacerare
ma di denti tendenzialmente appiattiti, capaci di schiacciare gusci e scheletri duri. La ricerca della preda É
basata quasi esclusivamente sull'olfatto, molto sensibile e raffinato, mentre gli occhi piccoli, posti sul dorso,
servono solo per spiare l'arrivo di eventuali predatori.

IL PESCE SEGA
Il Batoideo che stimola maggiormente la curiosità É sicuramente il "Pristispristis", meglio conosciuto come
Pesce sega. Il muso, o meglio il rostro, di questo animale É infatti eccezionalmente lungo ed armato sui due lati
di sottili ed acuminati denti. A prima vista l'animale sembra, per la forma del corpo affusolata, più uno Squalo
che un Batoideo, ma l'appartenenza a quest'ultima sottoclasse É stabilita dalla posizione delle fessure
branchiali, poste come in tutti i Batoidei sulla parte ventrale dell'animale. Le dimensioni del Pesce sega sono
notevoli, potendo raggiungere anche sei metri di lunghezza: incontrare un animale di questa mole É sempre
un'avventura indimenticabile e non priva di pericolo. Il rostro, la formidabile arma del Pristis, viene utilizzato
per la ricerca di prede: nuotando in prossimità del fondo, l'animale fruga la melma o la sabbia con la "sega", i cui
denti strappano dal fondo i malcapitati, che vengono poi fatti a pezzi dalla stessa arma prima di essere inghiottiti.
Ma il Pesce sega può usare la sua arma anche per difendersi dagli attacchi di predatori, come gli Squali,
oppure, se si sente o si crede minacciato, anche contro dei pescatori subacquei troppo curiosi ed invadenti.
Le ferite dei denti della "sega", anche se non molto profonde, sono laceranti e rischiano di portare alla
morte per dissanguamento
Un ultimo particolare curioso sul Pesce sega si riferisce allo sviluppo e nascita degli embrioni. Il Pristis
infatti É un pesce viviparo, l'embrione cioÉ compie tutto il suo sviluppo all'interno dell'ovidotto della madre e
viene partorito già completamente formato ed efficiente, tranne che per la sua "sega", la quale per tutto lo
sviluppo É molle ed inefficiente, ricoperta da un astuccio che ricorda il fodero della spada. Con questo
accorgimento la madre non corre alcun pericolo, né durante lo sviluppo, né soprattutto durante il travaglio
del parto. Solo quando il neonato comincia a nuotare liberamente nel mare, i sali di calcio rinforzano
rapidamente la "sega" con i suoi denti, rendendola così robusta e micidiale.

19. GLI ORGANI ELETTRICI DI ALCUNI BATOIDEI.

Quando nell'antichità i pescatori toccavano inavvertitamente un Pesce torpedine ricevevano un'intensa


stimolazione, con un forte e rapido brivido, che li lasciava storditi. I più antichi naturalisti, come il greco
Aristotele ed il romano Plinio, si occuparono del fenomeno, cercarono anche di spiegarlo, ma non andarono oltre
l'affermazione che questi animali possedevano un "fluido malefico''. Con quelle parole non si spiegava nulla,
ma era impossibile anche per questi grandi ricercatori andare oltre, poiché nessuno allora conosceva
l'"elettricità". Infatti solo nel 1600 cominciarono le ricerche in questo campo
La scoperta della pila e delle sue possibilità permise di avviare anche lo studio sull'elettricità negli animali e
ci si avvide che i "fluidi malefici" emanati da alcuni pesci, non solo dai Batoidei, altro non erano se non vere
scariche elettriche.

L'ORGANO ELETTRICO DELLA TORPEDINE


Nelle Razze, ma soprattutto nelle Torpedini, la possibilità di dare origine a scariche elettriche É esaltata al
punto che É possibile raggiungere e superare i 200 volt, più che sufficienti per accendere una lampadina. Ma
come riescono questi animali a produrre tali scariche? Con molta prudenza, dopo essersi accertati che la
Torpedine sia sicuramente morta, É facile osservare sui lati del corpo, alla base delle pinne, due masse
gelatinose, chiamate "organi elettrici", che determinano il fenomeno sfruttando una caratteristica del muscolo
Quando il muscolo si contrae provoca una modificazione del campo elettrico che lo circonda poiché si
creano due poli, uno positivo e uno negativo, proprio come in una pila
L'organo elettrico delle Torpedini É formato da una serie di piccoli muscoli poliedrici appiattiti, infilati gli uni sugli
altri
Questi muscoli hanno completamente perduto la capacità di contrarsi, ma hanno conservato la capacità di
creare delle scariche elettriche
Essi si comportano dunque come tante piccole pile scariche quando l'animale É in riposo, che però si
caricano istantaneamente tutte assieme quando la Torpedine, attraverso i nervi, invia loro il comando di produrre
una scossa elettrica. Poiché queste "pile", meglio chiamarle elettroplacche, sono disposte una sull'altra in serie,
come in una torcia elettrica, il voltaggio delle diverse elettroplacche si somma, da qui la possibilità di
raggiungere e superare i 200 volt
L'organo elettrico É formato da numerosi gruppi di elettroplacche per cui l'intensità della corrente può essere
molto elevata e pericolosa.

IL COMPITO DELL'ORGANO ELETTRICO


L'organo elettrico É destinato soprattutto a stordire gli estranei, gli eventuali aggressori, oppure a uccidere
piccole prede. Questo compito di offesa e difesa fu subito chiaro ai primi ricercatori, ma solo in seguito venne
scoperta una seconda e non meno importante funzione. Con la scarica elettrica le Torpedini creano dei
campi elettrici che circondano i loro corpi con delle linee di forza, via via più deboli verso la periferia. Ma il fatto
straordinario É che il Batoideo "sente" queste sue linee di forza e percepisce tutte le eventuali variazioni con
la linea laterale che già conosciamo. Infatti se un altro animale penetra all'interno di questo campo di forze
provoca delle distorsioni delle sue linee subito avvertite dal Batoideo, il quale riesce inoltre a percepire
dall'intensità delle perturbazioni la mole e la natura dell'intruso per comportarsi di conseguenza. Quindi, oltre
che un potente mezzo per aggredire o difendersi, l'organo elettrico É anche un'eccezionale organo di senso,
capace di far conoscere con precisione il mondo che circonda il Batoideo con tutte le sue variazioni.
L'organo elettrico non É esclusivo dei Batoidei, ma si forma indipendentemente anche in altri gruppi di pesci,
come nei Teleostei, soprattutto in quelli che vivendo in acque torbide o comunque poco illuminate hanno
bisogno di un sussidio all'inefficacia degli occhi.

LA CHIMAERA
Tra i Condroitti vi É un piccolo gruppo di pesci con lo scheletro cartilagineo conosciuto solo dagli specialisti,
poiché É rappresentato da un solo ordine vivente, l'unico sopravvissuto di un gruppo molto più ampio presente
nelle acque dal Devoniano al Giura. Il nome dell'Ordine, Olocefali (tutta testa ), non É molto gentile, ma
sottolinea l'eccezionale dimensione del capo di questi animali. Come se non bastasse il nome specifico
dell'animale É "Chimaera monstrosa"; decisamente questo pesce era antipatico ai ricercatori che per primi lo
descrissero e battezzarono
Le dimensioni degli Olocefali sono notevoli, potendo raggiungere il metro di lunghezza, ma tutti sono innocui;
la bocca É relativamente piccola ed utilizzata per cercare il cibo sui fondali sabbiosi o melmosi.
20. I PESCI OSSEI: I CONDROSTEI.

GLI ACANTODI, PROGENITORI DEI PESCI OSSEI


Più di 400 milioni di anni fa nelle acque dolci del Siluriano dei piccoli pesci irti di aculei, gli Acantodi,
nuotavano inconsapevoli dell'importanza dei compiti che avrebbero svolto nella storia dei pesci. Questi
Acantodi anche oggi sono oggetto di studio e di dispute
Alcuni ricercatori li considerano più antichi dei Placodermi, quindi progenitori di tutti i pesci; altri, la
maggioranza, li considerano invece una derivazione precoce dai Placodermi ed il punto di partenza di tutti i
pesci ossei. Noi ci atterremo a quest'ultima ipotesi, per cui la storia iniziale dei primi pesci vede la comparsa del
grande gruppo dei Placodermi, tutti destinati ad estinguersi, ma da cui presero origine due linee evolutive,
autonome ed indipendenti, di pesci: quelli a scheletro cartilagineo, i Condroitti (i futuri Squali che abbiamo già
visto), e quelli con lo scheletro osseo, gli Osteoitti, che si originarono dagli Acantodi. Questi nuovi pesci si
diffusero rapidamente nelle acque dolci, ma già pochi milioni di anni dopo la loro comparsa dettero origine a due
linee evolutive di pesci ossei completamente diverse per struttura e per il destino che le attendeva.

I PESCI CHE RESPIRANO ANCHE NELL'ARIA


Un gruppo - chiamato "Sarcopterigi" - colonizzò, al confine tra l'acqua e l'aria, le acque dolci e calde del
Devoniano e del Carbonifero. Questo ambiente, come vedremo nel capitolo finale e meglio ancora nel
volume di questa collana dedicato agli Anfibi, impose delle caratteristiche anatomiche del tutto peculiari, come
la capacità di utilizzare l'ossigeno atmosferico, e la locomozione su pinne rigide.

I PESCI PIU' TIPICI


L'altra linea evolutiva - gli "Actinopterigi" - mantenne e perfezionò l'organizzazione tipica del pesce destinato alla
vita nelle acque. Il cammino lungo questa strada evolutiva, però, non fu continuo né progressivo, ma
procedette un po' per balzi.

I CONDROSTEI
Il primo grande gruppo di Actinopterigi che incontriamo non ha ancora lo scheletro ben ossificato e
presenta delle caratteristiche primitive, come squame ossee sul capo, intestino rettilineo, eccetera
Questo gruppo, o superordine - denominato "Condrostei" - dominò dalla fine del Devoniano fino a tutto il Trias,
per circa 150 milioni di anni. I Condrostei, originatisi probabilmente nelle acque dolci, si spinsero anche nei
mari ove rappresentavano con gli Squali i due tipi fondamentali di pesci di quel periodo
La fortuna dei Condrostei cominciò a declinare quando comparve nelle acque un nuovo tipo di pesce osseo,
più moderno e meglio ossificato, l'Olosteo (che vedremo nel prossimo capitolo). La presenza di un pesce più
efficiente mise in crisi i Condrostei, i cui esponenti cominciarono ad estinguersi per scomparire
definitivamente all'inizio del Giura. Solo due gruppi sono sopravvissuti e sono giunti fino a noi: i Polipterini e gli
Acipenseriformi.

I POLIPTERINI
Dei due gruppi sopravvissuti quello dei Polipterini É sicuramente il più arcaico. Il Biscir, ad esempio, ha un
corpo serpentiforme, lungo fino ad un metro, con tante piccole pinne dorsali, mentre le pinne anteriori sono
capaci anche di sostenere il corpo e di muoverlo sul fondo. E' un predatore delle acque dolci dei fiumi e dei
laghi africani ed É in grado anche di respirare l'ossigeno atmosferico per mezzo della vescica natatoria o di
strisciare fuori dall'acqua, quando il fiume va in secca, per cercare delle pozze più profonde.

GLI ACIPENSERIFORMI: LO STORIONE


Anche questo notissimo pesce, conosciuto per la prelibatezza delle sue carni e per l'ancor più squisito caviale,
É un fossile vivente, un rappresentante contemporaneo del grande gruppo dei Condrostei, con ancora molti
caratteri arcaici, come il cranio cartilagineo con la valvola a spirale, e scudi ossei sul capo, sul dorso e sui fianchi.
Lo Storione comunque É il pesce d'acqua dolce più grande. Il record appartiene ad un esemplare lungo 8,5
metri e pesante 13 quintali. Lo Storione nasce nelle acque dolci, ma all'età di circa 12 mesi si trasferisce nel
mare, ove completa il suo sviluppo. Alla maturità sessuale, circa verso i 12 anni, sotto lo stimolo della
riproduzione, lo Storione abbandona il mare per risalire il fiume che lo vide nascere. E' a questo punto che
interviene l'uomo, avido delle sue carni e delle sue uova; si pesca infatti lo Storione quando le femmine piene
di uova risalgono i fiumi
Lo Storione É ancora abbondante, perché accuratamente protetto, vista la sua importanza economica, nel Mar
Caspio e nel Mar Nero, e naturalmente nei fiumi che sfociano in questi mari; mentre É in forte regressione nel
bacino del Mediterraneo ed anche nel Nord America, ove anzi pare che sia scomparso. Nei fiumi dell'America del
Nord vi É però un cugino dello Storione, chiamato Pesce spatola per la forma della sua bocca, da cui si ricava
una sorta di caviale, ma che É tutt'altra cosa da quello vero.

IL CAVIALE
Si ricava direttamente dalle uova dello Storione dopo una salatura e un lieve trattamento con borace. Ogni
femmina produce circa il 10% del suo peso in uova, e poiché sono in genere animali che superano il quintale.
ogni pesce fornisce da 10 a 20 chilogrammi di uova. Vi sono diverse specie di Storione a cui corrispondono tipi
diversi di caviale. Il migliore in assoluto proviene dallo Sterleto, a cui segue il Sevruga, quindi il Beluga. Altri tipi
di caviale sono decisamente inferiori o addirittura non provengono da uova di storione.

21. GLI OLOSTEI.

La storia evolutiva dei pesci ossei si ripete secondo la classica successione di forme per competizione: il
declino dei Condrostei, che avevano dominato a lungo, ebbe inizio con la comparsa di un secondo pesce più
moderno ed efficiente, l'Olosteo, che, meglio adattato all'ambiente e quindi vincente, progressivamente riuscì a
soppiantare in tutte le acque il vecchio dominatore. L'Olosteo comparve circa 225 milioni di anni fa, molto
probabilmente da un ramo laterale dei Condrostei, ma provvisto di una migliore capacità evolutiva. Il
massimo sviluppo degli Olostei si ebbe tra il Giura e il Creta. Ma proprio in quel periodo un terzo gruppo di pesci
ossei, derivati dagli Olostei, venne alla ribalta, i Teleostei, che vedremo nei capitoli seguenti. Proprio come era
successo milioni di anni prima, la presenza di una nuova linea evolutiva di pesci, già perfettamente ossificati e
molto differenziati ed efficienti, mise in crisi i precedenti dominatori, i cui ordini, uno alla volta, scomparirono
dalla ribalta
Anche nel caso degli Olostei, però, per nostra fortuna, qualcuno non si É lasciato sopraffare del tutto ed É
giunto fino a noi: il Lepisosteus e l'Amia.

I SOPRAVVISSUTI
I sopravvissuti, il Lepisosteus e l'Amia, sono entrambi pesci d'acqua dolce dell'America del Nord e del Centro,
e conservano accanto a caratteristiche di primitività altre più evolute e avanzate
L'intestino ad esempio É circonvoluto, come sarà in seguito quello di tutti gli altri vertebrati, ma i due esemplari
posseggono ancora una vescica natatoria utilizzata per la respirazione.

IL LEPISOSTEUS
Questo Olosteo vive nelle acque dolci dell'America del Nord e del Centro, ove É presente con diverse specie.
In genere i Lepisostei sono accaniti predatori di pesci, che catturano con la lunga bocca armata di affilatissimi
denti
Una specie, il "Lepisosteus tristoechus", raggiunge la rispettabile lunghezza di quasi 4 metri, e per la forma
della testa viene chiamato "Squalo delle acque dolci" o "Luccio alligatore", pur non essendo né uno squalo, né
un luccio, né un alligatore. I Lepisostei hanno un'anatomia piena di contraddizioni, per molti lati con
caratteristiche di primitività, ma posseggono anche degli aspetti che vedremo diffusi solo a partire dagli Anfibi e
dai Rettili, come le vertebre massicce e la testa articolata con la colonna vertebrale
Mentre tutti i pesci, nessuno escluso, non possono voltare la testa a destra e a sinistra poiché il cranio É fisso
sulla colonna vertebrale, i Lepisostei possono girare la testa, anzi utilizzano questo movimento per catturare le
prede
I Lepisostei non amano il freddo e vanno in letargo d'inverno in acque profonde, mentre d'estate amano cacciare
negli acquitrini, anche in acque basse e povere d'ossigeno poiché riescono a respirare con la vescica
natatoria e a utilizzare l'ossigeno atmosferico.

L'AMIA CALVA
Vive nell'America del Nord, preferibilmente in acque basse e ricche di vegetazione ove rimane nascosta durante
tutta la giornata per uscire a caccia all'imbrunire. Quando d'estate l'ossigeno o l'acqua cominciano a
scarseggiare l'Amia può venire in superficie per respirare anche l'ossigeno atmosferico; d'inverno invece il pesce
si trasferisce in acque profonde ove cade come in letargo in attesa del ritorno del bel tempo. In questo periodo,
nei punti più profondi del fiume o delle paludi, non É infrequente trovare decine di Amie, che stanno
svernando, unite insieme fianco a fianco, cosa assolutamente intollerabile durante la stagione calda,
quando soprattutto i maschi sorvegliano e difendono il proprio territorio. Le femmine hanno maggiori
dimensioni, possono raggiungere 80 centimetri di lunghezza, mentre i maschi si riconoscono per una bella macchia
nera circondata da un bordo giallo-arancio sulla radice della coda.

L'AMIA MASCHIO, PADRE AFFETTUOSO


Per la prima volta con l'Amia ci imbattiamo in un fenomeno che anche nelle classi successive di animali non
incontreremo di frequente: la cura della prole, la difesa cioÉ da parte di un genitore dei propri figli. Nel
momento degli amori il maschio prepara un nido scavando una piccola buca libera da fango e detriti. Terminato il
lavoro, comincia a cercare ed a richiamare una femmina. Un'impresa che non É da poco poiché ve ne É una
sola per ogni tre maschi, quindi almeno due rimarranno scapoli per quell'anno ed il loro lavoro sarà inutile
Trovata la femmina, questa viene invitata con un rito complicato a deporre nel nido le uova, che il maschio
poi feconderà. Dopo questo incontro la femmina abbandona il nido e tutti i compiti restano a carico del
maschio, che per tutto il periodo di sviluppo della prole deve provvedere a mantenere pulito il nido e tenere lontano
i nemici
Quando si schiudono le uova, gli avannotti rimangono uniti e per maggiore protezione si ammassano sotto il
ventre del padre. Questo rapporto dura a lungo ed É strettissimo; quando il padre si allontana dal nido si porta
sempre appresso la sua prole; se per un guizzo improvviso il padre si separa, il gruppo si arresta
immediatamente e rimane fermo in attesa del ritorno del genitore. Se questo per disavventura non riesce più
a ritornare, la prole, sempre ferma in una vana attesa, É facile preda dei tanti nemici.

22. I PESCI MODERNI: I TELEOSTEI.

140 milioni di anni fa, in piena Era Secondaria, mentre in tutte le acque dominavano gli Olostei, entrarono in
scena dei pesci nuovi, completamente ossificati e molto più efficienti, i Teleostei. I nuovi venuti avevano le loro
radici negli Olostei, ma si differenziavano da questi per alcuni accorgimenti anatomici importanti, come una
grande vescica natatoria non utilizzata per la respirazione aerea, ma come abbiamo già visto nel capitolo 9
quale mezzo per equilibrare il peso specifico del loro corpo; un nuovo intestino e le nuove
caratteristiche scheletriche e dell'epidermide concorsero a perfezionare questo pesce che lentamente ma
inesorabilmente prese il sopravvento sugli Olostei. Questi ultimi praticamente si estinsero alla fine del Creta
ed i Teleostei oramai indisturbati, si diffusero su tutti i mari e nelle acque dolci.

ECCEZIONALE ESPANSIONE DEI TELEOSTEI


La spinta evolutiva dei nuovi pesci e eccezionale: rapidamente si differenziano in molti ordini, famiglie e
specie, forse molto più numerosi di altre classi di vertebrati. La forma É decisamente monotona, tipica del
pesce; qualche ordine si allontana dallo schema generale; il più curioso É il Cavalluccio marino, che con il
marsupio, la coda prensile e la testa non in linea con la colonna vertebrale appare un animale decisamente
assurdo.

ALCUNE CARATTERISTICHE
I Teleostei si spingono anche in ambienti estremamente difficili ed inospitali: alcuni Temoli si sono adattati a
vivere in acque termali che raggiungono i 46 gradi centigradi di temperatura e con altissima salinità, altri sono
in grado di vivere a 0 gradi centigradi, grazie anche ad una sostanza anticongelante presente nei tessuti e nel
sangue
Le dimensioni sono estremamente varie: il gigante dei Teleostei É il brasiliano Arapaima, che raggiunge i 4-5
metri di lunghezza, mentre, all'estremo opposto, il più piccolo É il Mistichthys delle acque delle Filippine che
non supera gli 11 millimetri, contendendo così al Pandaka pygmaea il record delle dimensioni minime per un
vertebrato
Molto si favoleggia sulla longevità dei Teleostei; si racconta ad esempio di un Luccio che visse in cattività per
ben 267 anni e di una Carpa che visse 150 anni, ma sono dati difficili da verificare; certamente in natura É
difficile raggiungere queste cifre per gli innumerevoli pericoli e competizioni che l'animale deve affrontare.

I TELEOSTEI FUORI DALL'ACQUA


I Teleostei non si sono limitati ad invadere ogni tipo di acque disponibili, ma, come faranno altre classi in
seguito, hanno cercato di uscire dal loro ambiente. Vedremo che per la forte espansione degli Anfibi, poi dei
Rettili, e infine dei Mammiferi, alcuni esemplari di queste tre classi abbandonarono la terraferma per
ritornare nell'acqua; così i Teleostei, non paghi del dominio delle acque, hanno cercato di espandersi nell'aria e
sulla terra emersa. Vi sono ad esempio dei Pesci volanti che balzano fuori dall'acqua e compiono brevi voli
sostenendosi sulle pinne pari anteriori molto larghe ed espanse a forma di ali. Il Perioftalmo comune É un
pesciolino che riesce addirittura a vivere fuori dall'acqua, anzi può perfino muoversi, un po' strisciando, un
po' aiutandosi con le pinne anteriori foggiate come un arto. Ma entrambi i tentativi sono goffi, non potranno,
anche in un futuro molto lontano, andare oltre. Nessuno vedrà mai un Teleosteo volare o camminare con
sicurezza
L'organizzazione anatomica dell'animale si É evoluta per fornire delle prestazioni ottimali come pesce, non come
uccello o mammifero
I Teleostei sono cioÉ degli animali troppo specializzati, troppo legati al loro ambiente per essere in grado
di compiere delle modificazioni evolutive importanti o sconvolgenti. I pesci che passeranno la frontiera tra
l'acqua e la terra sono completamente diversi dai Teleostei, come vedremo nel volume di questa collana che
ha per argomento gli "Anfibi"
Le caratteristiche di base del Teleosteo non sono dissimili da quelle descritte per gli altri pesci. Le esigenze sono
le stesse, per cui non stupisce che in animali diversi per origine e derivazione si raggiungano le stesse
soluzioni.
23. FORMA E COLORE DEI TELEOSTEI.

Molti Teleostei vivono in grandi branchi sempre in movimento, come le Aringhe, e sono attivamente cacciati da
numerosi predatori. Le poche difese per la sopravvivenza della specie sono affidate in questi casi sia al grande
numero degli individui, per cui É presumibile che qualcuno non verrà predato, sia al numero elevato di uova e
quindi di neonati che una femmina può produrre, sia alla capacità di fuga e di mimetismo del corpo. Questi
pesci in genere hanno un corpo affusolato, con forma idrodinamica per consentire una buona penetrazione
nell'acqua, e un colore caratteristico che va da toni scuri sul dorso che progressivamente si schiariscono
scendendo lungo i fianchi fino a divenire bianchi sul ventre.

IL MASCHERAMENTO
In questo modo l'animale É ben mascherato quando É visto dall'alto, poiché la sua sagoma scura si
mimetizza sul fondo nero, mentre il bianco del ventre cerca di confondere la sagoma dell'animale quando É
visto dal basso. Quest'ultimo mascheramento non riesce perfettamente, ma viene agevolato da una forte
iridescenza delle parti bianche, le quali, riflettendo la luce, emettono bagliori come di flash, che non
permettono di analizzare bene la forma del pesce. Nonostante questi accorgimenti, gli animali però vengono
regolarmente predati, pur salvandosene un certo numero.

LIVREE APPARISCENTI
Nelle barriere coralline di tutti i mari si incontrano invece dei pesci con delle colorazioni assolutamente non
mimetiche, anzi eccezionalmente appariscenti. Tra questi forse i più belli sono i Chetodontidi, chiamati
anche Pesci farfalla per i loro splendidi colori ricchi di forti contrasti cromatici. Per la bellezza e le piccole
dimensioni questi pesci vengono allevati in acquario a scopo ornamentale, ove si fanno ammirare anche per il
modo elegante di nuotare; purtroppo in cattività vivono per molti anni ma non si riproducono. E' sempre
difficile analizzare le cause che hanno portato a determinate strutture o colorazioni, ma É evidente che questi tipi
di pesci non devono avere molti nemici da cui difendersi; forse il colore, come accade anche negli uccelli,
assume il significato di un messaggio e permette il riconoscimento tra gli individui della stessa specie, vuoi per
stabilire la presenza e il dominio in un territorio, vuoi per favorire l'incontro tra gli individui di sesso opposto nel
momento della riproduzione. Una cosa É comunque certa: quelle livree appariscenti non sono il frutto del capriccio
del caso, ma nascono da precise esigenze.

VIVERE NELLE TANE


I predatori, come la Cernia, che vivono nel buio degli anfratti e delle tane in attesa del passaggio di qualche
preda, hanno un colore prevalente su tutto il corpo decisamente scuro, se non nero. La sagoma così si confonde
con le ombre o il buio della cavità, e non può essere vista dagli ignari candidati a vittime.

I PLEURONETTIDI, O PESCI PIATTI


Questo sottordine di Teleostei merita un discorso più ampio per due particolarità veramente singolari ed
eccezionali: l'appiattimento del corpo e la capacità di cambiare il colore come fa il Camaleonte. Alla nascita i
Pleuronettidi (la Sogliola, il Rombo, la Platessa) sono pesciolini del tutto normali e per un certo periodo di tempo
vivono e nuotano normalmente
Ad un certo punto dello sviluppo però cambiano completamente le abitudini e la forma del corpo. L'animale
tende a stare sul fondo posato su un fianco, e il corpo progressivamente si appiattisce lateralmente. Ma
mentre avviene questo cambiamento l'occhio del lato che poggia sul fondo, che se rimanesse in quella posizione
sarebbe completamente inutile, migra lentamente verso il lato rivolto verso l'alto, così l'animale pur appiattito
sui lati presenta due occhi apparentemente normali.
COME SI CAMBIA IL COLORE
Il colore nei vertebrati É affidato a particolari cellule, i cromatofori (portatori di colore), lontanamente
imparentate con le cellule nervose. I cromatofori sono delle cellule con molte ramificazioni e con granuli
di pigmento che può, spostandosi, impartire o meno il colore. Se questi granuli sono raggruppati attorno al
nucleo, la cellula si schiarisce completamente, mentre se si espandono in tutti i prolungamenti la cellula
acquista il massimo del colore. Naturalmente tutte le gradazioni intermedie sono possibili
Molti vertebrati, con maggiore o minore rapidità, sono in grado di cambiare il proprio colore per uniformarlo
con quello dell'ambiente
Il meccanismo con cui si attua questa variazione É molto complesso, ma parte sempre dall'occhio che
percepisce il colore dell'ambiente.

24. I TELEOSTEI: COME PREDANO, PERCHE' EMIGRANO.

Già conosciamo la tecnica con cui lo Squalo predatore aggredisce la sua preda o stacca brandelli di carne; nei
Teleostei il metodo diventa più raffinato ed efficiente. Non mancano ancora dei pesci che attaccano
direttamente la vittima, in genere animali di grande mole, per dilaniarne le carni con ferocia.

I PIRANHA
I Piranha sono pesci dei fiumi dell'America del Sud, famosi per la rapidità con cui riducono al solo scheletro
le proprie vittime
Guadare un fiume nei loro territori, o semplicemente inoltrarsi nell'acqua per dissetarsi, É estremamente
pericoloso. I Piranha, attirati dall'odore, si avventano contro la preda per affondarle nelle carni gli affilatissimi
denti, che stranamente hanno la stessa forma dei denti degli Squali predatori, a triangolo schiacciato e con bordo
tagliente. Come gli Squali, una volta affondati i denti nella carne, anche i Piranha scuotono violentemente il
corpo e la testa per completare l'opera e staccare il brandello di carne che viene rapidamente inghiottito,
così da consentire all'inesorabile pesce un ulteriore attacco. Inoltre il sangue della vittima rapidamente si
diffonde nel fiume richiamando così altri Piranha che accorrono a centinaia, anche da grandi distanze, a
completare il banchetto.

L'ATTACCO DI SORPRESA
Un'altra tecnica, anche questa non troppo raffinata, prevede la caccia e l'attacco di sorpresa; il Luccio può
essere preso ad esempio di questo metodo di aggressione. Di solito sta in agguato nascosto tra la vegetazione
e, al sopraggiungere di un malcapitato, guizza fuori dal nascondiglio per afferrare la preda con gli aguzzi denti.
Questo modo di predare impone però un'eccezionale velocità di nuoto per poter sfruttare il fattore sorpresa.

PREDARE ASPIRANDO
E' poco noto un metodo più comune di predare, che non richiede grandi capacità di nuoto, anzi può essere
praticato con adeguati trucchi anche da pesci pesanti, goffi e lenti
Il metodo É basato sull'esaltazione del meccanismo di respirazione; già abbiamo visto che per respirare il
pesce, con la camera branchiale chiusa, solleva il cestello branchiale e dilata la bocca così da creare una
depressione per aspirare l'acqua, poi a bocca chiusa l'acqua viene spinta attraverso le branchie dopo aver
aperto la relativa camera. Aumentando le dimensioni del cestello branchiale e della bocca, che diviene
un'enorme cavità irta di denti, si può accentuare l'aspirazione di acqua così che la preda É letteralmente
risucchiata in quello spaventoso antro mortale. Il sistema funziona abbastanza bene, come nelle Cernie, che
uniscono la tecnica dell'agguato e dell'avvicinamento lento a quella dell'aspirazione rapi da della preda.
PESCI PESCATORI
Altri pesci risolvono brillantemente il problema di giungere abbastanza vicino al presunto bottino con il
sistema dell'esca. Nella Rana pescatrice ad esempio, sulla testa, proprio sopra la bocca, vi É un lungo raggio
mobile con in cima un'escrescenza carnosa colorata
Quando la Rana É in agguato rimane ferma e a bocca chiusa sul fondale, solo l'escrescenza si agita
freneticamente. Se un pesce ignaro si avvicina per afferrare l'ingannevole esca, la Rana pescatrice apre
violentemente la bocca e aspira il malcapitato. Lo stesso sistema É adottato anche nei fondali bui degli abissi,
ma l'esca in questo caso É rappresentata da un punto luminoso posto all'estremità dell'asta.

LA MIGRAZIONE
Un aspetto interessante e molto studiato della vita dei Teleostei riguarda il fenomeno della migrazione. Gran
parte delle specie si sono evolute in un determinato ambiente che non hanno mai abbandonato; questo tipo di
pesce lo si può quindi trovare solo in determinati posti. Altre specie hanno cambiato il loro modo di vivere
tradizionale e le loro abitudini per spostarsi in acque diverse. Ma se il comportamento dell'adulto É
sufficientemente flessibile per l'adattamento al nuovo ambiente, le esigenze di sviluppo, esigenze che non
conosciamo, impongono invece che gli individui ritornino nei loro luoghi di origine, che emigrino da un
ambiente all'altro. Si verificano allora imponenti spostamenti di pesci dai fiumi ai mari, o viceversa. Due
esempi per tutti: i Salmoni erano animali d'acqua dolce, probabilmente in origine abitavano nelle acque basse,
fredde e ricche di ossigeno dei monti; poi, non sappiamo perché, decisero di colonizzare i mari e
abbandonarono le fresche acque montane. Oggi il Salmone vive nei mari, ma quando arriva alla maturità sessuale
ritorna al fiume dove era nato, ne risale il corso fino alla sorgente, senza lasciarsi scoraggiare dagli ostacoli
naturali che incontra, per deporre e fecondare le uova, e poi muore. I neonati, raggiunto un adeguato
sviluppo, discendono il fiume per tornare al mare
L'Anguilla É un esempio del comportamento opposto: il luogo di riproduzione É il mare, mentre nei fiumi
completa il suo sviluppo, quindi la direzione della migrazione avviene nel senso inverso a quello percorso
dal Salmone. Una delle domande più interessanti sul problema della migrazione É che cosa guidi il pesce in
questi grandi spostamenti. Il Salmone ritorna nel luogo dove era nato anni prima; l'Anguilla percorre migliaia di
chilometri nel mare: come si orientano? Per il Salmone sembra che l'olfatto, cioÉ il ricordo dell'odore del
fiume natìo, guidi l'animale; per l'Anguilla le risposte sono vaghe: forse vi É un orientamento astronomico,
forse si orizzontano sul campo magnetico terrestre.

25. I TELEOSTEI: ALCUNE PARTICOLARITA'.

I libri classici di zoologia separano i vertebrati in due grandi gruppi: quelli che non sanno termoregolarsi, per
cui il loro corpo ha la stessa temperatura dell'ambiente, come avviene per tutti i pesci, gli anfibi ed i rettili, e
quelli invece che mantengono sempre costante la temperatura del loro corpo, come gli uccelli a 41gradi
centigradi ed i mammiferi a 37 gradi centigradi.

PESCI CALDI
Questa affermazione categorica fa però una grossa eccezione nei Teleostei. Alcune specie sono nuotatrici
eccezionali e instancabili: percorrono chilometri di mare ogni giorno per cercare nuove zone ove predare; al
fine di migliorare il rendimento del nuoto esse hanno escogitato un espediente per sfruttare il calore del
muscolo in movimento. Infatti con la contrazione del muscolo una parte dell'energia viene dissipata sotto
forma di calore, come ben sappiamo quando sudiamo copiosamente dopo un intenso lavoro muscolare. Tutti i
pesci producono calore nuotando, ma questo calore viene rapidamente disperso nell'acqua, e il loro corpo si
mantiene freddo
Nel Pesce spada e nel Tonno, eccezionali nuotatori invece, una rete di vasi molto complessa fa sì che il sangue
venoso caldo che esce dal muscolo riscaldi il sangue arterioso che entra nel muscolo. Con questo
accorgimento il calore prodotto dal nuoto non viene perduto, ma serve per innalzare la temperatura della
muscolatura stessa. Sappiamo che tutte le reazioni chimiche avvengono in un dato tempo, che però si
dimezza se la temperatura supera 10 gradi centigradi; e poiché la contrazione muscolare si attua attraverso
una serie complessa di reazioni chimiche, aumentare la temperatura significa rendere queste più rapide e più
efficiente il nuoto. Anzi, quanto più frenetico É il nuoto, tanto più si riscalda il muscolo e la contrazione diviene più
rapida. Gli scienziati hanno scoperto solo di recente questi pesci "caldi", che però erano già conosciuti dagli
umili pescatori delle tonnare. La pesca del Tonno infatti si effettua spingendo il branco di pesci nella cosiddetta
"camera della morte", un'area chiusa da tutti i lati e sul fondo da una robusta rete che viene lentamente tirata in
barca per catturare il pesce. I Tonni, sentendosi prigionieri, si dibattono disperatamente per cercare una via di
scampo, ma finiscono per essere arpionati e trascinati nella barca; in quel momento, come dicono i pescatori,
il Tonno ha il sangue "caldo e fumante". Questi Teleostei quindi sono gli unici animali del grande gruppo dei
vertebrati a sangue freddo che sanno sfruttare il prezioso calore prodotto dalla contrazione muscolare per
migliorare la prestazione del nuoto: un accorgimento estremamente moderno e avanzato; anzi,
paradossalmente, si potrebbe dire che questi Teleostei sono molto più avanzati dal punto di vista evolutivo dei
Rettili, almeno di quelli viventi.

MASCHI E FEMMINE. Vi sono alcuni aspetti del sesso nei Teleostei non facilmente spiegabili ed
eccezionali. Tutti sappiamo che la sessualità É determinata geneticamente, vi sono cioÉ dei cromosomi che
impongono la sessualità. Nell'uomo, ad esempio, i due cromosomi sessuali che determinano la femmina
sono uguali tra loro e vengono chiamati X X, nel maschio sono differenti e sono denominati X Y. Chi possiede
una delle due coppie diviene irrevocabilmente o maschio o femmina e tutto il suo organismo É fornito dei
caratteri generali indispensabili ad espletare le complesse funzioni specifiche del sesso. Nel caso dei Teleostei
la determinazione del sesso É sempre genetica, però in modo non così rigido e schematico e secondo modalità
molto più complesse di quelle dei Mammiferi
Vi sono ad esempio i Labridi, gli Sparidi e i Serranidi che hanno un comportamento del tutto peculiare. Alla
nascita le femmine si comportano secondo le esigenze del sesso: si accoppiano, depongono le uova,
eccetera; trascorso un certo numero di anni, progressivamente cambiano sesso e acquistano le caratteristiche di
un maschio e come tale si comportano. Se però in questa specie si può cercare di spiegare i fenomeno
come la conseguenza di una programmazione anche genetica ed endocrina dell'organismo, vi sono altri
esempi che indicano invece come sia poco definito il confine tra maschio e femmina. Il "Labroides
dimidiatus" ad esempio vive in piccoli branchi costituiti da un maschio con un harem di femmine: tra queste ve ne
É una dominante, in genere più grande delle altre. Se per un evento accidentale scompare il maschio, la
femmina dominante cambia sesso e diviene maschio, mentre un'altra femmina diviene dominante, pronta a
cambiare sesso se il nuovo maschio, ex femmina, dovesse sparire.

L'ELETTROFORO
Tra le tante particolarità dei Teleostei va ricordata anche la loro capacità di fornire potenti scariche elettriche. Il
metodo É lo stesso descritto per le Torpedini. Ad esempio l'elettroforo può dare una corrente fino a 500 volt,
più che sufficiente ad accendere una lampada ed estremamente pericolosa anche per un mammifero di
grandi dimensioni.
26. RIPRODUZIONE E CURE PARENTALI DEI TELEOSTEI.

Gran parte dei Teleostei É ovipara, le uova cioÉ vengono deposte all'esterno del corpo della femmina e dopo
la fecondazione da parte del maschio vengono abbandonate al loro destino. La mortalità in questi casi É
altissima, sia durante lo sviluppo nell'uovo, sia quando finalmente la giovane larva comincia a nuotare. I
predatori sono innumerevoli; queste forme larvali infatti rappresentano un anello molto importante nella catena
alimentare degli abitanti delle acque, che va dalle alghe microscopiche ai grandi pesci predatori come il
Tonno. La sopravvivenza delle specie che si riproducono in questo modo É assicurata dall'altissimo numero di uova
che una sola femmina riesce a produrre, spesso superiore al milione, e dalla rapidità di crescita e sviluppo della
giovane larva. In questi pesci mancano completamente le cure parentali ed anche il rituale dell'accoppiamento É
sbrigativo: la femmina depone le uova sul fondo ed il maschio passandoci sopra le feconda.

L'ACCOPPIAMENTO
La mortalità si riduce di molto se vi É invece un vero e proprio accoppiamento grazie al quale la
fecondazione delle uova avviene nell'addome della femmina. Viene così favorita la possibilità dell'incontro
tra l'uovo e lo spermatozoo, molto aleatorio invece quando la fecondazione É esterna. In questi Teleostei il
maschio, come ad esempio il Gambusia (un pesce d'acqua dolce originario dell'America Settentrionale e
Centrale), almeno nel momento della riproduzione É facilmente riconoscibile per la presenza di un gonopodio,
derivato in genere dalla modificazione del quarto e quinto raggio della pinna anale. Dopo la fecondazione le
uova possono essere subito deposte e abbandonate a se stesse o custodite entro nidi.

I TELEOSTEI CHE PARTORISCONO


Non mancano però delle specie, come il Lebistes, le cui femmine conservano nel proprio addome le uova
anche dopo la fecondazione, per cui le larve si possono sviluppare tranquille e al riparo da ogni pericolo.
Quando la larva É in grado di nuotare e di alimentarsi da sola, viene partorita dalla madre
In queste specie il numero delle uova e dei nuovi nati É molto più ridotto, a volte limitato a poche decine di
individui per parto. Fa eccezione la femmina del Portatore di spada, un pesce molto noto agli appassionati
d'allevamento in acquario, che dà alla luce fino a duecento piccoli per volta.

IL COMPORTAMENTO DELLO SPINARELLO


Lo studio del comportamento dei pesci É particolarmente complesso per le difficoltà di condurre queste ricerche
nel luogo naturale ove il pesce vive. Spesso infatti l'animale quando É in cattività perde gran parte dei suoi
comportamenti originali. Solo lo Spinarello non cambia le sue strane abitudini anche in acquario, per cui É stato
studiato con particolare cura. Il maschio di questo pesciolino, quando É pronto per la riproduzione, acquista una
vistosa colorazione, in genere rossa, sul ventre. Da quel momento diventa particolarmente vivace ed
aggressivo. Con pazienza, aiutandosi con delle alghe e con un suo secreto vischioso, costruisce un nido che
difende con accanimento se vede sopraggiungere degli altri maschi con la livrea rossa. Al termine del lavoro
convince, con un preciso corteggiamento, diverse femmine in successione ad entrare nel nido per deporvi le uova,
che lui feconda regolarmente. Il lavoro dell'instancabile maschio continua ancora, poiché si prende cura delle
uova, mantenendole pulite e proteggendole dai predatori
Ci si É chiesto che cosa determini la forte aggressività dello Spinarello, che affronta con coraggio e
decisione ogni intrusione nella sua zona. Si É scoperto che non É la forma che scatena lo Spinarello poiché
un finto pesce, ma non colorato di rosso, non suscita alcuna reazione, mentre delle sagome grossolanamente
ovoidali ma con dipinto un occhio od una grossa macchia rossa suscitano subito la reazione dello Spinarello. E'
il rosso che soprattutto lo disturba.
UN NIDO INSOLITO: LA BOCCA
La Tilapia, un pesce delle acque dolci africane, ma che si sta diffondendo in tutto il mondo in allevamenti
artificiali per la bontà delle sue carni e la facilità con cui si adatta e si riproduce, ha inventato una modalità
veramente singolare per proteggere le uova e le larve. La fecondazione in questa specie É esterna, ma la
femmina aspira successivamente le uova in bocca e le conserva per tutto lo sviluppo. Le larve alla nascita
escono dalla bocca della madre, ma non si allontanano troppo, poiché, all'avvicinarsi di un pericolo, subito
ritornano precipitosamente nella sicura bocca della madre.

I PESCI MOSTRUOSI
Il gusto estetico dei giapponesi e la loro ammirevole pazienza secolare li ha resi capaci di modificare
profondamente la forma del Pesce rosso comune, il "Carassius auratus". Hanno così ottenuto delle forme
anatomicamente assurde, e agli occhi di un naturalista decisamente mostruose, ma gradevoli per chi tenga
un acquario. Il meccanismo con cui si formano questi pesci non É molto noto, comunque si basa su mutazioni
che agiscono non durante lo sviluppo, poiché il pesce alla nascita É normale, ma durante l'accrescimento

27. TELEOSTEI DEGLI ABISSI.

Oggi conosciamo meglio il suolo lunare che gli abissi dei nostri mari
Le difficoltà nell'esplorazione di questa parte del nostro pianeta sono enormi: le altissime pressioni, gli ampi
spazi, le correnti ai diversi livelli, le condizioni atmosferiche, uniti all'interesse puramente scientifico di
queste esplorazioni, fanno sì che sappiamo ben poco degli abitanti di questa parte dei mari. Ciò che É noto
deriva da poche campagne di pesca con navi e reti attrezzate per la cattura di pesci a grandi profondità, e da
ancor più occasionali esplorazioni di batiscafi con uomini e telecamere a bordo. Ciò che oggi sappiamo dei
nostri abissi É senz'altro un quadro parziale e molto superficiale della realtà; forse in queste acque ci
aspettano ancora delle interessanti scoperte.

NEGLI ABISSI SCONOSCIUTI


Però sappiamo che nel buio perenne degli abissi marini la vita É rappresentata da tutti i principali grandi
gruppi zoologici, compresi anche i vertebrati. In quelle profondità vi sono degli ospiti occasionali venuti per
cercarvi del cibo; É noto ad esempio che molti Squali si spingono anche sotto i 1500 metri. Diversi Cetacei, tra cui
forse il più audace É il Capodoglio, sono in grado di spingersi anche a profondità maggiori. Questi ultimi animali,
anzi, sono oggetto di studi accurati, poiché per un Mammifero i problemi collegati alla capacità di portarsi
dalla superficie agli abissi e viceversa nell'arco di 20-30 minuti sono giganteschi, apparentemente insolubili;
basti pensare all'embolia che minaccia i nostri subacquei capaci di spingersi solo a poche decine di metri di
profondità.

GLI ABITANTI STABILI DEGLI ABISSI


Ma É la fauna stabile degli abissi marini che desta un curioso interesse. Innanzitutto in quest'ambiente si
può solo essere pesci predatori di altri pesci. A queste profondità la catena alimentare non può cominciare dai
vegetali, seguiti dai mangiatori di vegetali, eccetera, ma inizia subito con animali che divorano altri animali
Impostato così il discorso, la vita negli abissi cesserebbe rapidamente, poiché, se gli animali si divorano
tra loro, in breve tempo rimarrebbero in pochi e senza cibo; ma occorre invece tenere presente che sopra gli
abissi vi sono migliaia di metri di acqua ove altri pesci vivono, combattono, invecchiano e muoiono. Da qui una
pioggia continua di sostanze organiche, detriti, brandelli di pesci o pesci morti che continuamente cade negli abissi
e sostiene con questo nutrimento la vita a enormi profondità. Quasi tutti i grandi gruppi di invertebrati sono
presenti, dagli Anellidi ai Molluschi, agli Artropodi, tutti in genere non molto diversi dalle forme che vivono a
piccole profondità. Nei Teleostei invece si esasperano in modo impressionante le caratteristiche predatorie.
La bocca diventa enorme e mostruosa come ad esempio nell'Eufaringe, che può catturare ed inghiottire
pesci molto più grandi di lui. A volte il pesce inghiottito si vede per trasparenza come nell'enorme stomaco
del Saccofaringe. I denti spesso sono lunghissimi ed acuminati, quasi sproporzionati
In molte specie inoltre vi sono degli organi luminosi che servono a volte per rischiarare l'ambiente, ma più
spesso per lanciare segnali tra individui della stessa specie, o per il riconoscimento tra maschi e femmine, o per
attirare le prede come abbiamo già visto.

GHIANDOLE CHE PRODUCONO LUCE


Gli organi luminosi derivano da ghiandole nelle cui cellule una reazione chimica produce luce. Vi sono poi
anche degli accessori come dei cristalli che fanno da riflettori e delle cellule che, come una lente, concentrano
la luce in un fascio preciso. Vi sono altri organi luminosi che invece ricavano luce da batteri capaci di attuare la
reazione chimica caratteristica; in questo caso la ghiandola limita il suo compito a nutrire questi batteri.

PER ESSERE SICURI DI NON PERDERE IL MASCHIO


Nel buio degli abissi l'incontro tra i due sessi É molto casuale; a volte dei segnali luminosi aiutano questa
unione, che però rimane sempre problematica. Il Teleosteo Photocorynus risolve in modo del tutto
particolare il problema
Il maschio, che É molto più piccolo della femmina, quando casualmente ne incontra una si salda al corpo di
questa; i suoi tessuti sono in simbiosi con quelli della femmina per cui il sangue di questa lo nutre. Questa
saldatura É permanente poiché cessa solo con la morte della femmina, che si assicura così per tutta la vita
un suo fedelissimo maschio.

28. I SARCOPTERIGI: I PESCI CHE RESPIRANO ANCHE NELL'ARIA


Già abbiamo visto che il Devoniano É stato il grande periodo dei pesci. Quasi 400 milioni di anni fa,
soprattutto nelle acque dolci, comparvero e si diffusero i pesci con lo scheletro costituito da tessuto osseo. I
precursori di tutti furono gli Acantodi, dei piccoli pesci spinosi, irti di aculei
Da questi però presero il via due grandi linee evolutive che procedettero nel loro sviluppo in modo del
tutto autonomo, raggiungendo delle organizzazioni anatomiche e funzionali completamente diverse,
poiché legate all'ambiente che le aveva selezionate o perfezionate. La via degli Actinopterigi, che già
conosciamo, É percorsa da pesci tipici, legati ed adattati completamente all'acqua. Tutti i loro
accorgimenti anatomici sono rivolti alla vita nell'acqua più o meno profonda. L'altra linea evolutiva, invece,
quella dei Sarcopterigi, É percorsa da pesci ossei che si sono adattati ad un ambiente di confine tra l'acqua e l'aria.

NELLE ACQUE CALDE DEL DEVONIANO


La ricostruzione degli ambienti del Devoniano, basata soprattutto sullo studio delle piante e delle
caratteristiche geologiche di quel periodo, lascia supporre che le terre emerse fossero formate
prevalentemente da paludi, con fiumi non molto profondi e dal decorso lento e con scarse montagne, mentre il
clima per tutto il periodo doveva essere stazionario sul caldo temperato o torrido. Anzi queste condizioni
climatiche durarono a lungo, per oltre 120 milioni di anni e ciò ebbe una forte influenza sulla evoluzione dei
Sarcopterigi e sull'origine degli Anfibi
Perciò in quel periodo le acque dolci, proprio per la loro scarsa profondità e per l'elevata temperatura,
dovevano contenere ben poco ossigeno. Infatti questa importante molecola, così come qualsiasi gas, si discioglie
nell'acqua in quantità maggiore se la temperatura É più fredda; le acque fresche, tumultuose e schiumeggianti
dei fiumi di montagna infatti contengono molto ossigeno atmosferico disciolto. Se invece l'acqua É calda, non
solo l'ossigeno atmosferico non si scioglie, ma quello che eventualmente le piante acquatiche producono con
la fotosintesi subito diventa gassoso, sale alla superficie e si disperde nell'atmosfera
Per un pesce, che di norma respira con le branchie e che quindi trae la molecola di ossigeno dall'acqua,
vivere in acque calde diventa difficile se non impossibile. Infatti se i primi Actinopterigi furono pesci d'acqua
dolce, quelli che ne derivarono preferirono l'ambiente marino con acque più profonde, fresche e ricche di ossigeno,
e solo in un secondo tempo, molti milioni di anni dopo, quando la terra cambiò il clima e le acque dolci
divennero più profonde e fresche, gli Actinopterigi ritornarono nei loro luoghi di origine. Ma in quel periodo di
tempo, dal Devoniano a tutto il Carbonifero, la nicchia ecologica costituita dalle acque dolci povere di ossigeno fu
occupata da pesci capaci di utilizzare anche l'aria per respirare.

I PESCI CHE RESPIRANO NELL'ARIA E COMINCIANO A CAMMINARE


I Sarcopterigi furono il grande gruppo di pesci che si adattarono a questo difficile ambiente
Il lungo arco di tempo infatti consentì l'evoluzione di forme idonee sia a vivere nell'acqua che a utilizzare
l'ossigeno atmosferico. Per questo ambiente infatti occorreva un organo specifico per respirare; ma non
bastava: l'acqua bassa spesso costringeva il pesce a trascinarsi sul fondo melmoso, e per agevolare anche
questo tipo di movimento le classiche pinne utilizzabili per il nuoto divennero più tozze, più robuste, capaci di
sostenere il corpo dell'animale e di farlo avanzare. Comparve così per la prima volta nei vertebrati un modo
nuovo di muoversi; non erano ancora le zampe degli Anfibi e degli altri vertebrati terrestri, ma costituivano già
delle premesse all'evoluzione del movimento con gli arti. Queste due importanti caratteristiche del
Sarcopterigio, il nuovo organo respiratorio e le pinne tozze, formatesi per l'adattamento ad un particolare
ambiente, furono il presupposto fondamentale per l'evoluzione degli Anfibi, per un passaggio evolutivo
fondamentale nella storia del vertebrato. E' un classico esempio di preadattamento: un particolare anatomico
evoluto per una certa esigenza É poi esaltato dall'evoluzione successiva e porta a spettacolari ed imprevedibili
conseguenze.
Parte 2
GLI ANFIBI. DALL'ACQUA ALLA TERRA.
1. NELLE ACQUE DEL DEVONIANO.

Nelle acque del Devoniano (da 395 a 345 milioni di anni fa) l'evoluzione dei pesci era in pieno rigoglio.
Accanto ai gruppi antichi, come gli Ostracodermi ed i Placodermi, destinati a scomparire, due grandi
linee evolutive si stavano affermando in due diversi ambienti
Nelle acque salate dei mari, accanto ai primi pesci ossei, erano in piena espansione i pesci con lo scheletro
cartilagineo, dai quali presero origine, come abbiamo visto nel volume di questa collana dedicato ai Pesci,
gli attuali squali e le razze. Nelle acque dolci o salmastre, invece, iniziò a espandersi un tipo diverso di pesci,
provvisti di uno scheletro ossificato. Tra questi però molto presto si instaurò una distinzione netta operata dalle
caratteristiche delle acque.

LA TERRA NEL DEVONIANO


L'ambiente delle terre emerse nel Devoniano probabilmente era molto monotono: predominava la palude con
acque basse e calde, mentre erano rare le montagne con torrenti impetuosi e acque fredde. Fuori
dall'acqua stavano comparendo le prime piante ad alto fusto, come gli equiseti e le felci, e si andavano formando i
primi boschetti popolati solo dai primi invertebrati usciti dall'acqua. In questo ambiente con acque basse e calde,
l'organizzazione tipica di un pesce si trovava a disagio. Il nuoto era più difficoltoso, ma soprattutto le branchie non
riuscivano a ricavare dall'acqua l'ossigeno necessario alle esigenze dell'animale.

L'OSSIGENO NELL'ACQUA
Infatti vi É una legge ben precisa che stabilisce la quantità di un gas che si scioglie nell'acqua a seconda della
temperatura di questa
Quanto più fredda É l'acqua, tanto maggiore É la quantità di gas che vi si discioglie, viceversa in acque calde
solo piccole quantità di gas riescono a sciogliersi. L'ossigeno, questo fondamentale elemento per la vita
animale, É un gas, quindi segue questa legge. In un ambiente caldo con acque stagnanti, non solo non si può
sciogliere l'ossigeno dell'aria, ma anche quello prodotto dalle piante acquatiche con la sintesi clorofilliana, per
lo stesso motivo, sale alla superficie sotto forma di piccole bollicine. Dunque nemmeno le piante, che come
tutti sappiamo sono grandi produttrici di ossigeno, riescono ad ossigenare sufficientemente le acque basse, calde
e stagnanti. In un simile ambiente la vita per un pesce É praticamente impossibile, salvo escogitare un
espediente nuovo per ossigenare il sangue, per venire in aiuto alle branchie.

LA RESPIRAZIONE AEREA
Forse non fu una novità assoluta, forse già in alcuni antichi Placodermi si era sviluppato un diverticolo,
cioÉ un prolungamento a forma di piccolo sacco polmonare, del primo tratto dell'intestino, con funzioni
respiratorie, così almeno ci suggerisce l'impronta di un fossile. Questo accorgimento comparve sicuramente
anche in un gruppo primitivo di pesci ossei e fu la carta vincente per colonizzare le acque dolci del Devoniano.
Questi pesci impararono a respirare, oltre che con le branchie, anche con quella sorta di polmone primitivo, che
anche oggi chiamiamo impropriamente vescica natatoria.

LE NARICI E LE COANE
Però, per far arrivare l'ossigeno al polmone, per quanto primitivo, occorreva aprire una nuova via. Nei pesci,
fino ad allora, le due fossette olfattorie erano servite solo a percepire gli odori dell'acqua: erano a fondo
chiuso e comunicavano unicamente con l'esterno attraverso una medesima apertura da cui l'acqua entrava e
usciva. Ora si trasformano in narici vere e proprie, cioÉ assolvono a un duplice compito: percepire gli odori e far
passare l'aria. Infatti continuano a comunicare con l'ambiente esterno, ma in più si aprono anche sulle pareti
interne della bocca con due condotti e due fori chiamati coane. Così l'ossigeno che entra dalle narici, attraverso le
coane, può passare alla bocca e da questa al polmone. I pesci che possiedono le narici e le coane vengono detti
appunto Coanati, o, più comunemente, Sarcopterigi, e sono in grado di respirare anche l'ossigeno dell'aria.
Furono proprio loro i nuovi pesci ossei che comparvero nelle acque dolci, o salmastre, basse e calde del
Devoniano.

LA VESCICA NATATORIA
Il polmone primitivo, usato dai Sarcopterigi per respirare anche l'ossigeno atmosferico, viene chiamato
per tradizione vescica natatoria, anche se non ha alcuna funzione per il nuoto. Il nome errato deriva dal
fatto che tale vescica venne osservata per la prima volta nei Teleostei, cioÉ i pesci ossei più tipici, nei quali ha
funzioni legate al galleggiamento, da cui il nome appropriato di vescica natatoria (si veda il volume di questa
collana dedicato ai "Pesci"). Solo molto più tardi si scoprì che alcuni pesci, come i Dipnoi, usavano tale
vescica con funzioni di polmone, ma oramai il nome era entrato nell'uso comune e tale É rimasto.

2. I SARCOPTERIGI (DIPNOI, CELACANTI, RIPIDISTI).

Come abbiamo visto, nelle acque calde e basse del Devoniano, circa 400 milioni di anni fa, comparvero i
Sarcopterigi, i primi pesci ossei capaci di respirare anche l'aria con un rudimentale polmone. In quel tipo di
acqua, molto povera di ossigeno, la nuova scoperta fu subito premiata dall'evoluzione. I Sarcopterigi ebbero
immediatamente successo e si diffusero rapidamente in quell'ambiente, ove rappresentarono a lungo
l'unica forma di vertebrati. Gli altri pesci infatti, cartilaginei od ossei che fossero, legati alla sola
respirazione per branchie, non potevano assolutamente sopravvivere in quelle acque ostili. I Sarcopterigi, senza
una concorrenza diretta, si diffusero rapidamente dando origine a due linee diverse di pesci, i Dipnoi ed i
Crossopterigi, che avevano risolto in modo diverso il problema della sopravvivenza in quelle acque.

I DIPNOI
Questi Sarcopterigi (che vedremo meglio nei capitoli 4 e 5) conservano alcune caratteristiche antiche come una
copertura ossea sul cranio
accanto alla novità della respirazione aerea. Ma per vivere in un ambiente paludoso e caldo, ove era
possibile che una prolungata siccità provocasse il prosciugamento delle distese di acqua, occorreva risolvere il
grosso problema di come sopravvivere durante i periodi sfavorevoli. La soluzione adottata dai Dipnoi ancora
viventi, ma probabilmente anche da quelli del Devoniano, prevedeva lo sprofondamento del pesce nel
fango, eventualmente coperto da un secreto duro come in un bozzolo, aperto solo in corrispondenza della
bocca per respirare quel po' di aria necessaria per sopravvivere
Questa scelta ebbe delle conseguenze nella struttura scheletrica delle pinne, come vedremo nel capitolo 4, che
impedirono ai Dipnoi di essere i protagonisti del passaggio dall'acqua alla terra.

I CROSSOPTERIGI
Questo secondo gruppo di Sarcopterigi ebbe un maggiore successo e si diffuse in tutte le acque dolci del
Devoniano; anzi la loro forza evolutiva ne portò alcuni - i Celacanti - a spingersi anche nei mari, ove era forte la
concorrenza dei pesci cartilaginei e dei primi pesci ossei. Ma i Crossopterigi delle acque dolci sono quelli che
maggiormente ci interessano per la nostra storia. Essi trovarono un'altra soluzione al problema
dell'eventuale inaridimento dell'ambiente; invece di sprofondare nella melma e sopravvivere in qualche
modo, scoprirono che era più utile e vantaggioso cercare delle acque più profonde ove continuare a vivere ed a
riprodursi. Ma questo modo di vivere impose delle strutture scheletriche diverse da quelle di un pesce tipico.
L'architettura della colonna vertebrale e soprattutto dello scheletro delle pinne dovette cambiare per
consentire al pesce anche un movimento sul terreno, per quanto impacciato ed approssimato. I Crossopterigi
che adottarono questo modo di vita vengono classificati tra i Ripidisti, ed É proprio tra questi che emergerà il
vertebrato capace di uscire dall'acqua per adattarsi alla vita sulla terraferma e alla respirazione aerea. Uno
dei Ripidisti più vicini all'organizzazione dei più primitivi anfibi - anche se lo riteniamo più un testimone che
non il protagonista del passaggio dall'una all'altra classe - É l'"Eusthenopteron". Questo pesce era già capace
di spostarsi sulla terraferma, come testimonia lo scheletro e la forma delle pinne. Anche la struttura a labirinto del
suo dente É simile a quella degli anfibi primitivi (vedi capitolo 10).

L'IMPORTANZA DEI RIPIDISTI


Quando i paleontologi, esaminando le caratteristiche scheletriche dei diversi pesci, arrivarono alla conclusione
che solo i Crossopterigi potevano avere delle possibilità anatomiche e funzionali per uscire dall'acqua, ed in
particolare tra questi solo i Ripidisti dovevano essere i protagonisti di tale importante evento, apparve evidente che
l'interesse scientifico per analizzare il fenomeno doveva essere puntato su questi animali. Da qui una serie
minuziosa di studi sullo scheletro di questi pesci, purtroppo oggi tutti estinti, e di confronti con gli anfibi più
antichi conosciuti, anche per cercare il protagonista o i protagonisti dello sfondamento della barriera che
separa la vita acquatica da quella sulla terraferma.

ESTINZIONE DEI RIPIDISTI


Purtroppo però questo importante gruppo di Crossopterigi non superò il Carbonifero. Quando le condizioni
ambientali e climatiche caldo-umide del Carbonifero trapassarono prima nel freddo-secco, poi nel caldo- secco
del Permiano, la situazione per i Ripidisti divenne impossibile
In quegli ambienti, o per il freddo e la crosta di ghiaccio che impediva di affiorare alla superficie per
respirare, o per il clima torrido ove l'essiccamento di gran parte delle distese di acqua rendeva inutile una
migrazione per cercare un ambiente più favorevole, i Ripidisti furono inesorabilmente condannati. Nessuno
superò il Permiano; 280 milioni di anni fa erano tutti scomparsi. Oggi di questo fondamentale gruppo di pesci
abbiamo solo delle testimonianze fossili: impronte di scheletri, dei denti e nulla più. Peccato, se qualcuno di loro
fosse sopravvissuto, quante cose sapremmo di più su come era avvenuta la trasformazione di un pesce in un
anfibio! Però non tutto ci É sconosciuto.

NOTA: L'INFLUENZA DELL'AMBIENTE


La storia dei Sarcopterigi É estremamente indicativa ed emblematica dei rapporti tra l'organizzazione del
vivente e le caratteristiche dell'ambiente. Dall'organizzazione tipica di un pesce, ben adattato a vivere
nell'acqua, non emergerà mai un anfibio; invece l'opportunità di colonizzare paludi con acque calde, basse e
povere di ossigeno modella un tipo di pesce completamente diverso, non tanto nella forma, quanto nelle strutture
scheletriche e nelle funzioni
Tutto questo É possibile solo se l'evoluzione ha a disposizione un arco di tempo sufficientemente lungo,
valutabile a decine e decine di milioni di anni, con caratteristiche però costanti di temperatura, umidità,
eccetera. L'ambiente in questo caso É formativo, ma se in esso avvengono variazioni troppo brusche allora la
sua funzione diviene distruttiva; le specie che non hanno il tempo necessario al nuovo adattamento sono
destinate inesorabilmente ad estinguersi, come accadde per l'appunto ai Ripidisti all'inizio del Permiano.

3. LA LATIMERIA (CELACANTI).
LE ORIGINI DELLA LATIMERIA: I CELACANTI
Nel precedente capitolo abbiamo visto di sfuggita che non tutti i Crossopterigi si accontentarono di colonizzare
le calde acque dolci, o salmastre, delle lagune e delle paludi. Nella seconda metà del Devoniano un
piccolo gruppo di Crossopterigi, i Celacanti, tentò l'avventura del mare, in acque fredde e profonde, come la
"Latimeria" e il "Macroponia". Questa scelta permise loro di sopravvivere. Mentre cioÉ il gruppo di origine, i
Ripidisti, si estingueva per le condizioni impossibili delle acque dolci all'inizio del Permiano, i Celacanti,
nelle fredde e tranquille acque profonde dei mari, continuarono a vivere fino verso la metà del Giura. Poi
anche loro si estinsero, o almeno così si credeva, dato che da allora non vi era più alcuna testimonianza fossile
Ma nel 1938-39 una notizia eccitante mise in agitazione il mondo scientifico: un Celacanto era ancora vivo e
vegeto!

LA RISCOPERTA DELLA LATIMERIA


La storia del rinvenimento di questo importante pesce merita di essere raccontata anche nei particolari a
modello di come può avvenire una scoperta scientifica
A East London, un piccolo porto della costa sudafricana, vi era un modestissimo museo di storia naturale,
diretto dalla signora Courtenay-Latimer (si noti il secondo cognome), che a volte riceveva dai pescatori del
luogo dei pesci insoliti e non commerciabili. Alla fine del dicembre del 1938 al piccolo laboratorio della signora
Latimer giunse un grosso pesce, lungo più di un metro e mezzo, che l'addetta non aveva mai visto prima e
che non sapeva come classificare. Nell'incertezza, eseguì uno schizzo della forma, con annotate anche
alcune particolarità che le erano apparse subito importanti, tra cui: "le pinne hanno un vago aspetto di arti e
presentano delle squame fino al punto in cui si aprono a raggiera". Lo schizzo e le annotazioni vennero inviate al
professor J. L. B. Smith, dell'università di Grahamstown in Sudafrica, che comprese subito con emozione
l'eccezionalità del ritrovamento, riconoscendo nello schizzo, pur nella sua approssimazione, e nella descrizione, le
caratteristiche di un Crossopterigio, un esemplare di un gruppo di pesci ritenuto estinto da milioni di anni.
Subito il professore spedì un telegramma alla signora Latimer per annunciarle l'avvenimento e per pregarla di
conservare al meglio l'esemplare. Ma oramai era troppo tardi, troppo tempo era passato, l'animale era stato
imbalsamato: rimanevano conservate solo la pelle e lo scheletro, mentre tutte le preziose parti interne erano
andate perdute. Comunque nel 1939 il professor Smith annunciò al mondo scientifico la scoperta del nuovo
pesce a cui diede il nome di "Latimeria", in onore alla signora scopritrice, e di "chalumnae" a ricordo del luogo
ove era stato pescato, alla foce del fiume Chalumna.

LA TAGLIA
Il professor Smith, dopo il riconoscimento dell'eccezionale esemplare, si impegnò alla ricerca di un secondo
esemplare, da studiare meglio, soprattutto nelle parti molli che mancavano al primo. Un po' a causa del
conflitto mondiale, un po' per la difficoltà di ottenere dei finanziamenti, tutti gli sforzi del professore furono vani.
Nel 1948 arrivò a stampare dei volantini con la fotografia dell'esemplare di Latimeria imbalsamato, nei quali
si prometteva un premio di 100 sterline a chi catturava, conservava ed inviava al professor Smith un'altra
Latimeria. Ma il tempo passava e nessuno si presentava a riscuotere la taglia. Si giunse così al dicembre del
1952, 14 anni dopo la cattura del primo esemplare, quando finalmente un telegramma dalle isole Comore, al
largo del Madagascar, annunciò la cattura del secondo esemplare. Smith subito accorso per via aerea, ebbe
l'onore per primo di studiare l'anatomia generale della Latimeria. Da quel momento però l'iniziativa passò ai
ricercatori francesi, a cui si deve la maggior parte delle ricerche su questo pesce.

LA LATIMERIA OGGI
A tutt'oggi sono stati pescati meno di una trentina di esemplari di Latimeria, ma ora, a differenza di pochi
anni fa, l'animale É rigorosamente protetto. Se viene pescato bisogna ributtarlo a mare; solo pochi autorizzati
possono organizzare delle campagne specifiche di pesca nelle acque popolate dalla Latimeria. Oggi É possibile
solo fotografarla o studiarla nel suo ambiente senza disturbarla. Le ricerche degli ittiologi francesi ci
forniscono però tutti i dati più interessanti per conoscere l'animale, tra cui spicca l'involuzione della vescica
natatoria, che nei progenitori Ripidisti era utilizzata per sfruttare l'ossigeno atmosferico. L'ossigeno sciolto
nell'acqua del mare É più che sufficiente per le esigenze della Latimeria, da qui la scomparsa della capacità di
respirare anche l'aria, mentre la vescica natatoria, ex polmone primitivo, diviene una massa di grasso, forse per
alleggerire il peso specifico del corpo. La Latimeria di oggi É un pesce di circa un metro e mezzo di lunghezza,
con una bocca enorme provvista di acuminati denti. Il corpo É ricoperto da grandi squame di colore blu, molto
robuste, che si estendono anche sulle tozze pinne pari anteriori e posteriori. La coda, pure tozza, É
caratteristica della specie.

LA SCIENZA E I PESCATORI
Mentre gli scienziati si affannavano tra gli anni '40 e '50 a rintracciare degli esemplari di Latimeria, i
pescatori delle isole Comore e del Madagascar conoscevano da sempre perfettamente l'animale
Anzi, quando ne catturavano uno, oltre alle imprecazioni per aver pescato un pesce immangiabile (dicono
che le carni della Latimeria abbiano un sapore infame), scuoiavano l'animale per utilizzarne la pelle come carta
vetrata gettando poi in mare tutto il resto! Chi sa se il mare ci riserverà altre graditissime sorprese, magari già
perfettamente conosciute da indigeni inconsapevoli.

4. DIPNOI ESTINTI E VIVENTI (CERATODIDI).

Questo ordine di Sarcopterigi popolò le acque dolci di tutta la terra dal Devoniano al Trias, per un periodo
lunghissimo, da 400 a circa 195 milioni di anni fa. I fiumi, le paludi e gli acquitrini ospitavano questi pesci
assieme agli altri Sarcopterigi, i Ripidisti, tutti capaci di utilizzare anche l'ossigeno atmosferico. Già abbiamo
visto nel capitolo 2 che il problema di sopravvivere, quando, per l'eccessivo caldo e la mancanza di
pioggia, le acque cominciavano ad abbassarsi, fu risolto dai due gruppi di pesci in modo diverso. I Ripidisti
avevano imparato ad uscire dal l'acqua per raggiungere, strisciando sul terreno con l'aiuto anche delle pinne
tozze, le pozze di acqua più profonde; i Dipnoi invece rimanevano nello stesso posto, sprofondati nel fango.
Questo diverso comportamento ebbe alcune conseguenze nello scheletro delle pinne dei due tipi di Sarcopterigi.

EVOLUZIONE DELLE PINNE


Nei Ripidisti l'evoluzione premiò delle pinne più robuste con elementi ossei articolati tra loro che favorivano
brevi passeggiate fuori dall'acqua. Nei Dipnoi, che non uscivano mai dall'acqua, la pinna divenne più esile e
in alcuni si trasformò addirittura in una struttura filiforme; il modo di usarle però era identico, poiché anche
queste sottili pinne aiutano l'animale a muoversi sul fondo. Camminare sott'acqua infatti É molto più facile poiché il
peso del corpo non É scaricato sulle pinne, ma sostenuto dall'elemento liquido per il noto principio di Archimede
che abbiamo visto già nel volume sui "Pesci"
La differenza nelle abitudini di vita e nella struttura scheletrica delle pinne determinò un diverso destino dei
due gruppi di pesci
Cessate le condizioni favorevoli, i Dipnoi scomparvero quasi tutti, lasciando solo tre generi sopravvissuti fino
ad oggi, mentre i Ripidisti si estinsero.

LA DIFFUSIONE DEI DIPNOI


Il più antico Dipnoo che si conosca É il "Dipterus", già presente nelle acque del Devoniano. Lungo 30
centimetri, É conosciuto come Dipnoo sia per la comunicazione delle fossette olfattorie con la bocca, via
necessaria per respirare l'aria, sia per la struttura dello scheletro delle pinne. Da questo Periodo troviamo i Dipnoi,
anche se non molto numerosi, in tutte le acque dolci della terra. Questa distribuzione cosmopolita può
essere spiegata solo con la teoria della deriva dei continenti, secondo la quale nel Devoniano le terre emerse
formavano un blocco unico che in seguito si frammentò negli attuali continenti. Infatti i Dipnoi non erano
certamente capaci di grandi migrazioni attraverso i mari; ci spieghiamo così anche la distribuzione
attuale dei sopravvissuti, in Australia, in Africa, nell'America del Sud, sempre in un ambiente tropicale ove É
possibile l'essiccamento del fiume o del lago.

I DIPNOI VIVENTI
I Dipnoi sono conosciuti dalla scienza ufficiale da più di due secoli, ma la loro anatomia e la capacità di
respirare anche con un solo polmone sono stati studiati di recente. Non vi É stato attorno a questi animali
lo scalpore suscitato dalla scoperta della Latimeria
Ma lentamente e progressivamente questi sparuti rappresentanti di un grande glorioso gruppo di pesci sono
entrati nell'interesse generale tanto da meritarsi anche dei nomignoli comuni, oltre a quelli ufficiali della
scienza, come "lungfish" degli inglesi (pesci con polmoni) o "Lurchfische" dei tedeschi (pesce rana). Ne
sono sopravvissuti tre soli generi, ciascuno in una zona precisa della terra.

IL NEOCERATODO
E' il Dipnoo australiano, l'unico sopravvissuto del genere "Ceratodus" che nel Trias era presente su tutta la
terra. Il Neoceratodo può superare il metro di lunghezza con un peso di oltre 10 chilogrammi. Si distingue dagli
altri due generi per le pinne ancora tozze e pesanti, non filiformi, e per possedere un solo polmone. Le sue carni
sono eccellenti ed É stato oggetto di attiva pesca da parte degli indigeni, da qui la sua rarefazione e la minaccia
di estinzione. Oggi lo si può trovare nelle acque del Queensland, ove É accuratamente protetto; anzi si É
cercato di diffonderlo anche in acque più profonde, come nei piccoli laghi della regione. Il Neoceratodo
dimostra la sua primitività anche per il modo in cui riesce a sopravvivere nel momento della siccità. Gli altri
Dipnoi viventi (vedi capitolo 5) sono capaci di sprofondare nel fango e di rimanere in vita anche se il fiume si
dissecca completamente; il Neoceratodo invece si rifugia nelle ultime pozzanghere ove resta praticamente
immobile respirando l'ossigeno atmosferico. In queste condizioni corre due gravi pericoli: può essere facilmente
catturato dall'uomo o dai predatori, o può morire se viene a mancare completamente l'acqua e la pozzanghera si
dissecca. Anche per questo si spera di arrestare la sua probabile estinzione immettendolo in zone non
soggette alla siccità. Sarebbe una grave colpa perdere un esemplare così importante per la storia del
vertebrato.

5. DIPNOI VIVENTI (LEPIDOSIRENIDI).

La Sirena squamata e il Protottero sono i Dipnoi più evoluti, con pinne esili e filiformi, e con un polmone
duplice che si stacca da un diverticolo ventrale del primo tratto dell'intestino faringeo, in modo perfettamente
identico a quanto vedremo dagli anfibi in poi. Entrambi riescono a sopravvivere anche al completo
essiccamento dei loro laghetti o fiumi, poiché sono in grado di scavare delle gallerie nel fango, ove attendere,
sopravvivendo, il ritorno dell'acqua.

LA SIRENA SQUAMATA
Quando fu scoperta per la prima volta, non si conosceva il grande sviluppo che in epoche precedenti avevano
avuto i Sarcopterigi e si rimase stupefatti nel vedere un pesce con due polmoni funzionanti
Questo stupore venne trasferito anche nel nome scientifico "Lepidosiren paradoxa" per sottolineare gli
aspetti assurdi del pesce
Oggi sappiamo che l'animale non É assolutamente paradossale, ma rientra, per le sue caratteristiche,
nel grande gruppo dei Sarcopterigi. La Sirena squamata, che raggiunge il metro di lunghezza, popola alcuni
bacini del Sudamerica, in particolare il Rio delle Amazzoni con tutti i suoi affluenti. Data l'estensione dei suoi
territori, tutti ricchi di acqua, poco popolati e non inquinati, si ritiene che questo Dipnoo non sia in via di estinzione.

IL PROTOTTERO
E' il Dipnoo più studiato: si adatta bene anche in cattività, anzi, quando É racchiuso nel suo blocco di argilla,
può essere trasportato da un luogo all'altro senza subire traumi. Lo si può osservare nei più ricchi zoo del mondo.
Il corpo ha una forma affusolata simile a quella della Sirena squamata e come questa É un ottimo scavatore di
gallerie, dove abita anche quando non c'É siccità. Ad esempio, all'epoca degli amori il maschio scava delle
ampie gallerie, ove attira la femmina, anzi diverse femmine, che, deposte le uova, si disinteressano poi del loro
sviluppo, mentre il maschio si prende cura delle uova, le mantiene pulite, scaccia gli eventuali predatori, e
protegge anche le larve che nascono e che debbono compiere la metamorfosi prima di divenire indipendenti.
Il Protottero e la Sirena squamata infatti presentano una modalità di sviluppo decisamente insolita per un pesce:
compiono la metamorfosi.

LA METAMORFOSI
Dalle uova dei Dipnoi infatti esce una larva che, per le caratteristiche generali, É molto simile ad un
girino di anfibio! La larva ha in effetti una lunga coda, un corpo tozzo, un ciuffo di branchie esterne e
l'abbozzo delle pinne pari. Con il procedere dello sviluppo si completa la metamorfosi; il corpo si allunga,
scompaiono le branchie esterne e compaiono tutte le caratteristiche dell'adulto
Nel Protottero lo sviluppo successivo É rapidissimo; l'animale si accresce da 5 a 35 centimetri in soli tre mesi.
Tale rapidità É forse richiesta dalla necessità di raggiungere una taglia ed una forza adeguata per scavare le
gallerie ove rifugiarsi all'arrivo della stagione calda. Questo pesce vive infatti in torrenti che vanno in secca
regolarmente in agosto e in dicembre, e per quella data bisogna già essere capaci di scavare gallerie.

COME SCAVA IL PROTOTTERO


La tecnica di scavo di questo Dipnoo É veramente singolare: mangia la melma! Infatti procede aspirando la
sabbia con la bocca per eliminarla attraverso le branchie. A forza di morsi, il Protottero scava la sua galleria, in
genere verticale, di cui poi allarga il fondo. Quando avverte che l'acqua sta scomparendo, si avvolge su se stesso
nel fondo della galleria e secerne, attraverso la pelle, un secreto che indurendo impedisce il suo
essiccamento quando l'acqua scompare del tutto. Una sorta di "bozzolo" impermeabile, quindi, avvolge e protegge
l'animale, ma non completamente; vi É infatti un forellino in corrispondenza della bocca che consente un
minimo di respirazione. Il Protottero, nel suo bozzolo, può sopravvivere anche fino a quattro anni; quando
viene rimesso nell'acqua, É in genere magro, anzi magrissimo se sono trascorsi degli anni, e la sua prima
preoccupazione É di riprendere il peso. Ma non É un problema difficile, l'animale mangia di tutto, anche i
vegetali, che tritura con i suoi strani denti a piastra
E' curioso osservare come il Protottero che vive in acquario, con acqua sempre abbondante, entri in
agitazione all'inizio dell'agosto e cominci a scavare gallerie; É un po' come se possedesse un calendario interno
che lo avverte del sopraggiungere della stagione secca.

COME CATTURARE IL PROTOTTERO


Le carni del Protottero sono molto apprezzate, ma l'animale É difficile da pescare. Quando il fiume É in
secca, dall'esterno non sono visibili i bozzoli che lo racchiudono; inoltre quando nuota É molto diffidente e
timido. I Sudanesi però hanno scoperto il suo lato debole: si avvicinano silenziosamente ai luoghi ove É
possibile trovarlo e percuotono con dei bastoni piccoli tamburi, cercando di simulare il rumore del tuono. A
questi suoni il Protottero reagisce con uno schiocco prodotto dalla bocca che lo rivela agli astuti pescatori.

6. IL PREADATTAMENTO DEI RIPIDISTI.


Nei capitoli precedenti si É cercato di esporre le caratteristiche dei diversi Sarcopterigi, i pesci che respirano
anche con i polmoni, poiché sono questi i protagonisti del passaggio del vertebrato dalla vita acquatica alla
vita sulla terraferma. E' dalle conoscenze sull'anatomia di questi animali, sia viventi sia fossili, che possiamo
ricostruire questo fondamentale momento evolutivo, un po' difficile da immaginare. Il pensiero che un Teleosteo,
un pesce tipico come ad esempio il Pesce persico, possa uscire dall'acqua per camminare su di un prato,
appare ed É assurdo. Questo tipo di pesce É organizzato per vivere nell'acqua, solo nell'acqua, non può
assolutamente uscirne. Ma i Sarcopterigi erano completamente diversi: l'essersi evoluti per decine di milioni
di anni in un ambiente con acque calde, basse, povere di ossigeno e che a volte addirittura evaporavano,
lasciando in secca o quasi tutti i loro abitanti, portò alla costruzione di un modello di pesce con strutture
anatomiche esclusive ed estremamente utili per uscire dall'acqua e colonizzare le terre emerse.

IL PREADATTAMENTO
E' un aspetto molto particolare dell'evoluzione, che avremo modo di rivedere nel passaggio dal rettile al
mammifero. Preadattamento significa comparsa di particolarità anatomiche non solo utili per l'animale, ma
anche indispensabili per compiere un grande salto evolutivo. Nel nostro caso l'evoluzione dei Sarcopterigi dette
origine a un pesce non solo ben adattato al suo ambiente, ma anche idoneo ad uscire, all'inizio timidamente o
goffamente, dall'ambiente stesso.

IL PREADATTAMENTO DELL'ARTO
Il peso del corpo di un pesce É sopportato dall'acqua che il corpo stesso sposta, e la spinta in avanti viene
data dal movimento della coda. Le pinne dei pesci Teleostei servono solo per correggere i movimenti di rollio
e di beccheggio, perciò sono ampie e a ventaglio, con lo scheletro leggero e le parti ossee disposte a raggiera.
Nei Sarcopterigi invece le pinne sono usate anche per muoversi sul fondo melmoso, anzi, come abbiamo già
visto, i Ripidisti probabilmente erano in grado, nei momenti di siccità, di uscire da una pozzanghera per
cercare, strisciando ed aiutandosi con gli arti, acque più profonde
Le pinne, in questo caso, sono più pesanti, più tozze, in genere non a ventaglio, ma con un asse centrale più
robusto e ai lati elementi ossei diversi
La trasformazione della pinna in arto É stata studiata a fondo e attentamente, estendendo le ricerche anche
alle forme fossili, cosa impossibile per gli organi interni, come il polmone o il cuore. Da queste ricerche sono
emerse forti somiglianze tra lo scheletro delle pinne di alcuni Ripidisti e quello degli arti di anfibi primitivi,
come la "Ichthyostega! (l'anfibio più antico oggi conosciuto); É possibile infatti riconoscere nei Ripidisti alcune
parti che, per la posizione e le caratteristiche, possono essere considerate precorritrici dell'omero o del
femore o del radio, forse anche le dita sono riconoscibili. Ma al di là di queste somiglianze É molto più
importante la considerazione che la struttura pesante e tozza della pinna dei Ripidisti É in grado di aiutare
l'animale a muoversi anche sul terreno.

IL PREADATTAMENTO DEL POLMONE


Abbiamo già visto che i Sarcopterigi sono pesci che respirano anche con i polmoni, e questo lo abbiamo
appreso sia attraverso lo studio delle forme viventi, i Dipnoi, sia perché sappiamo che la respirazione aerea
avviene attraverso le narici aperte nella bocca con le coane. Si forma cioÉ una via per l'aria che impone delle
strutture ossee particolari rintracciabili anche nei fossili. I Ripidisti possedevano le coane, quindi avevano
anche i polmoni; avevano già, come pesci, questa importante struttura anatomica indispensabile per vivere fuori
dall'acqua.

IL PREADATTAMENTO DEL CUORE


Il discorso in questo caso É più complesso. I Teleostei hanno un cuore non suddiviso nelle parti sinistra e
destra, attraversato solo da sangue venoso da spingere nelle branchie. Dagli anfibi in poi il cuore É diviso, più
o meno completamente, in una cavità destra attraversata da sangue venoso destinato ai polmoni, e in una
cavità sinistra attraversata da sangue arterioso destinato alle altre parti del corpo
Questa differenza sembrerebbe legata all'ambiente nei due gruppi di animali. Oggi non sappiamo che tipo di
cuore avessero i Ripidisti, dato che questi Sarcopterigi sono tutti estinti, però possiamo osservare che tra i
Sarcopterigi viventi la Latimeria e i Dipnoi hanno il cuore chiaramente suddiviso in una parte destra ed una
sinistra, percorse da tipi di sangue diversi, per cui non É azzardato ipotizzare che anche i Ripidisti
possedessero questa importante, ma non fondamentale, particolarità anatomica.

CONCLUSIONE
Nei capitoli 8 e 9 vedremo quali sono le necessità anatomiche e funzionali per organizzare un anfibio da un
pesce; alcune di queste sono particolarmente complesse, altre meno fondamentali. I Ripidisti però, con
l'acquisizione di una pinna tozza e pesante, di un polmone per la respirazione dell'aria, e della circolazione doppia
del cuore, sono particolarmente adattati, meglio dire preadattati, per realizzare l'apparente, improbabile
trasformazione di un pesce in un anfibio.

7. IL TEATRO DEL DEBUTTO DEGLI ANFIBI.

Gli anfibi - che devono il loro nome (dalla parola greca "doppia vita") al fatto che vivono parte in acqua e
parte sulla terra - comparvero verso la fine del Devoniano, circa 350 milioni di anni fa, ma, per consentire
questo debutto, la vita sulla terra era già iniziata molti milioni di anni prima. In pieno Siluriano, oltre 420
milioni di anni fa, nell'acqua vi era un rigoglio di viventi; in particolare, il regno vegetale era rappresentato quasi
esclusivamente da alghe, anche di grandi dimensioni ed in giganteschi banchi, come ancora oggi possiamo
osservarne nel Mar dei Sargassi; mentre le terre emerse dovevano essere praticamente sterili, non per le
condizioni dell'ambiente però. L'ossigeno era già presente e abbondante, l'ozono già proteggeva dalle pericolose
radiazioni ultraviolette, mancava solo l'alimento
Certamente non furono gli animali a fare il primo passo; anche se qualcuno ci provò o mise semplicemente
la testa fuori dall'acqua, ritornò rapidamente nel suo elemento poiché un ambiente arido, roccioso, privo di
vita era decisamente inospitale e poco invitante.

LE ALGHE ESCONO DALL'ACQUA


Solo i vegetali potevano compiere il passo poiché questi, con la sintesi clorofilliana, riescono a soddisfare
autonomamente le loro esigenze alimentari. Le alghe, in particolare, furono i colonizzatori delle terre emerse,
ma perché uscirono dall'acqua? Verso la fine del Siluriano la terra fu percorsa da forti impulsi orogenetici; dal mare
e dalle pianure si sollevarono imponenti montagne, si formarono nuovi laghi e paludi. Alcune alghe dovettero
affrontare il problema di sopravvivere in un ambiente ove poteva mancare più o meno periodicamente
l'acqua.

LE PRIME PIANTE TERRESTRI


Ma i problemi per passare la frontiera tra l'acqua e la terra sono estremamente complessi; forse occorsero
molti tentativi prima di raggiungere una forma capace di sopravvivere fuori dall'acqua
Purtroppo non abbiamo una precisa testimonianza fossile di questi tentativi; le piante terrestri più antiche
che conosciamo sono le psilofitali come la "Rhynia", già provviste di un fusto, percorso da canali vascolari, alto
fino a mezzo metro, e di un rizoma strisciante sul terreno con ciuffi di piccole radici; mancano però le foglie,
anche se in alcune di queste piante vi sono delle leggere protuberanze del tronco somiglianti a spine, forse il primo
tentativo di costruire una foglia; non sono certamente spine, visto che non vi É ancora nessun animale
brucatore da cui difendersi. Le psilofitali furono dunque le piante che riuscirono per prime a creare le prime
macchie verdi, le prime oasi vegetali, in un mondo prima sterile e privo di vita.

LE FORESTE DEL CARBONIFERO


L'espansione di queste prime piante vascolari durò poco. La comparsa di forme più evolute, più differenziate
nelle parti caratteristiche, quindi anche più funzionali, portò alla completa estinzione del primitivo ceppo di
psilofitali, di cui oggi ci restano solo le impronte fossili. I nuovi arrivati dominarono la scena a lungo, e
caratterizzarono le grandi foreste del Carbonifero, anzi alcuni giungeranno fino a noi. Le nuove piante erano
vigorose ed imponenti. I licopodi e gli equiseti raggiungevano i 40 metri di altezza; le felci non superavano i 15
metri preferendo, un po' come le felci attuali, arricchire con arbusti il sottobosco. Si ritiene che l'eccezionale
rigoglio della flora del Carbonifero sia da mettere in relazione con un'atmosfera ricca di anidride carbonica,
derivata da un'intensa attività vulcanica. Dalla decomposizione delle foreste del Carbonifero derivano i
giacimenti di carbone fossile, quello che oggi viene estratto nelle miniere e adibito alla produzione di calore o
di sostanze industriali.

ANCHE GLI ANIMALI ESCONO DALL'ACQUA


Nel folto della boscaglia, nell'intrico del sottobosco, comparvero anche gli animali. Il richiamo fuori dall'acqua
non poté che essere determinato dall'eccezionale ricchezza di alimento costituito da vegetali vivi od in
decomposizione. Gli invertebrati, già molto evoluti, passarono per primi, tra gli animali, la mitica frontiera e
cominciarono a diffondersi indisturbati sulla terraferma. Chi furono i primi? Anche per questa domanda non
abbiamo risposta; i primi animali terrestri noti sono gli scorpioni, i miriapodi, i ragni; ma rapidamente si
aggiunsero nel Carbonifero delle forme molto sofisticate di insetti, anche volatori. La ricchezza dell'alimento
e la mancanza di predatori portò anche a forme gigantesche, come la Meganeura, una libellula con
un'apertura alare di 70 centimetri! Questo fu l'ambiente o il teatro dove debuttarono finalmente gli anfibi.

NOTA: L'ADATTAMENTO DELLE PIANTE ALLA VITA AEREA


I problemi vitali per un'alga, anche se di grandi dimensioni, sono di facile soluzione; ogni parte della pianta É
autonoma, cioÉ in grado di assorbire il nutrimento dall'acqua e le radiazioni solari per la sintesi clorofilliana,
ed espellere nell'ambiente l'ossigeno prodotto
A una pianta che vive fuori dall'acqua occorre innanzitutto una struttura scheletrica capace di sostenere tutto
l'organismo, si deve cioÉ formare un fusto; un'altra esigenza É quella di prelevare dal terreno l'acqua e il
nutrimento, da qui le radici. Per la sintesi clorofilliana si formano delle parti specializzate come le foglie od
anche il fusto, ma poi occorre anche un sistema di vasi per collegare i diversi componenti. Abbiamo così che,
attraverso i vasi, le radici sono collegate alle foglie, le quali ricevono l'acqua ed il nutrimento del sottosuolo per
sintetizzare le sostanze organiche da distribuire a tutto l'organismo. Infine abbiamo dei pori, o stomi, come
organi respiratori, con cui le piante prelevano l'anidride carbonica dall'ambiente ed espellono l'ossigeno.
Nelle prime piante terrestri, le psilofitali, non tutte queste strutture erano formate, mancavano infatti le foglie,
ma la stragrande parte dei problemi per una pianta terrestre É risolta.

8. PER DIVENTARE ANFIBI: LO SCHELETRO.

Quando iniziò il Carbonifero, circa 345 milioni di anni fa, le acque e la terra, come abbiamo visto nel
precedente capitolo, erano particolarmente ricche di vita, soprattutto nelle zone a clima tropicale. In
particolare i pesci Ripidisti erano già capaci di compiere brevi passeggiate fuori dall'acqua. Quasi certamente
la grande abbondanza di alimento nel sottobosco di quel Periodo, facilmente accessibile per la
mancanza di concorrenti diretti, rappresentò un forte stimolo a prolungare la loro permanenza fuori
dall'acqua, almeno durante il periodo di caccia. Questa fu, con ogni probabilità, la causa fondamentale della
comparsa degli anfibi. Ma da qui alla trasformazione di un pesce in anfibio la strada É lunga.

IL PREADATTAMENTO
Il fenomeno del preadattamento, già visto nel capitolo 6, É molto importante per comprendere questa
trasformazione. I Ripidisti, grazie alle pressioni selettive del loro ambiente, avevano acquisito delle particolarità
anatomiche estremamente preziose per vivere anche fuori dall'acqua, che però non bastavano, da sole, per
creare un anfibio, altri cambiamenti dovevano avvenire.

SI MODIFICA LA COLONNA VERTEBRALE


Quando il peso del corpo É sopportato dall'acqua che questo sposta, la colonna vertebrale serve
esclusivamente per il movimento: ad esempio deve flettersi per dare il colpo di coda; ma quando lo stesso corpo
esce dall'acqua, tutto il suo peso É caricato sulla colonna vertebrale, che deve di conseguenza essere più
rigida pur conservando una relativa mobilità. Nei pesci le vertebre si affrontano l'una all'altra, non sono cioÉ
articolate tra loro; dagli anfibi in poi, invece, le vertebre si incastrano tra loro in modo da non slittare quando
devono sopportare un peso o una spinta. Questa importante modificazione deve essere presente in
qualunque animale che esce dall'acqua, anche se striscia per poco tempo. I Ripidisti infatti avevano già
risolto il problema con una forte inclinazione dell'arco della vertebra, così che una poggiasse sopra l'altra. Ma dagli
anfibi in poi le vertebre si articolano con apposite sporgenze e rientranze dell'arco vertebrale (le zigapofisi), che
assicurano una continuità rigida alla colonna vertebrale. Negli anfibi più evoluti, e nei rettili, anzi, si
articolano tra loro anche i corpi delle vertebre, e in questo modo la colonna vertebrale diventa ancora più
robusta e capace di sopportare pesi eccezionali: si pensi alle tonnellate di alcuni Dinosauri erbivori
Che vi sia collegamento con queste articolazioni e la vita terrestre, lo dimostra anche l'osservazione che
quando l'animale ritorna nell'acqua, come il delfino, le articolazioni scompaiono e le vertebre non si incastrano
più le une con le altre.

SI MODIFICANO LE CINTURE
Il movimento di un pesce É assicurato dalla spinta generata dalla coda, mentre le pinne pettorali correggono
la posizione del corpo modificata dal movimento di rollio e beccheggio, per cui la cintura pettorale É collegata
mediante parti ossee al cranio. La cintura pelvica, ove si articolano le altre due pinne, É invece poco
importante, anzi in molti pesci É assente. Per l'animale che vive fuori dall'acqua la coda non ha più alcun rilievo
per il movimento, né vi sono problemi di rollio o di beccheggio, mentre la spinta in avanti É assicurata
essenzialmente dal movimento degli arti posteriori
Questo provoca una rivoluzione nei rapporti tra scheletro, cinture e arti. La cintura pettorale perde
d'importanza e non si articola più con il cranio (solo gli anfibi più primitivi mantengono questo rapporto),
mentre per scaricare il movimento dell'arto posteriore sulla colonna vertebrale e quindi su tutto il corpo, la
cintura pelvica, con un elemento osseo chiamato ileo, si collega con una o più vertebre, d'ora in poi chiamate
sacrali. Salvo che l'animale strisci, come un serpente, o nuoti come un Cetaceo, questi rapporti scheletrici sono
obbligatori per tutti i vertebrati terrestri; ma di questi non vi É alcuna traccia nei Ripidisti, per cui devono essere
considerati delle acquisizioni nuove, tipiche degli anfibi, e di tutti quelli che derivarono da loro.

L'INVENZIONE DEL COLLO


I pesci non hanno il collo; per un motivo che ci sfugge i pesci non sono capaci di voltare a destra o a sinistra
la testa, poiché il cranio É fuso con la colonna vertebrale. Per girare la testa devono spostare tutto il tronco,
un po' come facciamo noi quando abbiamo un forte torcicollo. Dagli anfibi in poi, invece, il cranio É articolato con
la prima vertebra, l'atlante, per cui sono possibili i movimenti laterali della testa, e da questi vertebrati in poi si può
parlare di collo. E' curioso osservare che, anche in questo caso, quando un rettile o un mammifero ritorna
nell'acqua, come nel caso dell'ittiosauro o della balena, anche il cranio ritorna rigido sulla colonna vertebrale
e non si può più parlare di un collo.

9. PER DIVENTARE ANFIBI: L'ORECCHIO E L'OCCHIO.

Anche alcuni organi di senso sono coinvolti nel passaggio dal pesce all'anfibio; tra questi molto importante
É la trasformazione dell'orecchio e dell'occhio.

L'ORECCHIO DEL PESCE


I pesci hanno un perfetto e sensibilissimo udito che dipende non dall'orecchio bensì dalla linea laterale che
abbiamo visto nel volume di questa collana dedicato ai "Pesci". Il loro orecchio, costruito solo con i canali
semicircolari, l'utricolo ed il sacculo, serve unicamente per risolvere i problemi dell'equilibrio e non É in grado
di percepire suoni. Quest'ultima funzione viene svolta dalle cellule vive della linea laterale, sensibili alle
vibrazioni sonore che percorrono l'acqua. In un anfibio adulto che vive fuori dall'acqua, queste cellule non
sono più sensibili; la pelle, tra l'altro, si indurisce e si arricchisce di cheratina per evitare l'essiccamento, per
cui non sono più possibili delle cellule perfettamente vive esposte all'ambiente. Occorre costruire un organo
nuovo. Ma come?

LA SOSPENSIONE DELLA MANDIBOLA


Per quanto possa sembrare strano, É la mandibola, o meglio il meccanismo di sospensione che collega la
mandibola al cranio, ad essere coinvolto nella costruzione dell'orecchio anche acustico. Lo stesso accadrà
per i mammiferi. Nei pesci la mandibola si articola con il cranio attraverso un osso chiamato iomandibolare. La
generalità dei pesci ha questo tipo di sospensione della mandibola che però cambia bruscamente al passaggio
verso l'anfibio.

L'ORECCHIO DELL'ANFIBIO
La capacità acustica dell'orecchio degli anfibi si acquista attraverso un ossicino, la columella, che da un lato,
quello esterno, poggia su un tratto di pelle esile e diafana, il timpano, e dall'altro in prossimità dell'orecchio
interno, ove, accanto agli antichi canali semicircolari, utricolo e sacculo, si É aggiunta una parte nuova e
sensibile, la lagena. In sintesi l'onda sonora fa vibrare la membrana del timpano; questa vibrazione viene
trasmessa, attraverso la columella, all'orecchio interno ove viene percepita dalla lagena
Queste arti dell'orecchio acustico non sono nuove: esistevano già nei pesci, ma utilizzate in maniera diversa.
In pratica la columella risulta dalla trasformazione dell'osso iomandibolare, che nei pesci fa parte del meccanismo
di sospensione della mandibola; mentre la cavità ove É posta la columella, l'orecchio medio con il canale di
Eustachio, deriva dalla prima camera branchiale; solo la lagena, la parte sensibile, É una struttura nuova
collegata sempre però alla parte antica dell'orecchio, quella vestibolare
Se si osserva una Rana od un Rospo É facile scoprire, dietro l'occhio, il timpano, formato da un'area circolare
della pelle, spesso di un altro colore; da lì comincia l'orecchio acustico degli anfibi.

L'OCCHIO
L'occhio non si modifica sostanzialmente nel passaggio dall'acqua alla terra, ma si arricchisce di alcune
strutture nuove per funzionare anche fuori dall'acqua
Nel pesce, la parte anteriore dell'occhio, la congiuntiva con la cornea, É costituita da cellule vive e continua
tutt'attorno con le cellule della pelle dell'animale. Fuori dall'acqua esiste però il problema dell'essiccamento;
le cellule dell'epidermide si difendono da questo pericolo indurendosi e arricchendosi di cheratina. Ciò però non É
possibile per le cellule interne dell'occhio, che devono rimanere perfettamente vive e trasparenti. Corneificare
anche queste cellule significherebbe opacizzarle e rendere quindi praticamente cieco l'animale. Il problema
si risolve mantenendo un velo liquido sopra l'occhio, proprio come se l'occhio fosse ancora immerso nell'acqua.

LE PALPEBRE E LE GHIANDOLE LACRIMALI


Si formano infatti delle pieghe della pelle per ricoprire la parte anteriore dell'occhio; anzi, negli anfibi se ne
formano tre: una, aderente all'occhio, esile e quasi trasparente, É la membrana nittitante che noi non
possediamo; le altre due, la palpebra superiore e quella inferiore, sono più spesse e con il colore tipico
dell'animale. Sia la membrana nittitante sia la palpebra inferiore scorrono sopra l'occhio, coprendolo o
scoprendolo alternativamente
Alle palpebre si aggiungono alcune ghiandole il cui secreto, ricco di acqua, viene continuamente disteso sopra
l'occhio per cui le sue cellule possono rimanere anche nell'ambiente aereo perfettamente vive e compiere nel
modo più opportuno il loro compito.

LE LACRIME
Le lacrime, o meglio il liquido lacrimale, compaiono per la prima volta negli anfibi con il compito specifico di
ricostruire un ambiente acquatico intorno all'occhio; ma a questo compito se ne aggiunge un altro non meno
importante. Le cellule vive dell'occhio sarebbero un ottimo terreno di pascolo e di riproduzione per virus, batteri,
funghi eccetera se non vi fosse nelle lacrime un eccellente antibatterico e fungicida: il lisozima. Con questa
sostanza l'occhio É anche protetto dall'aggressione dei microorganismi che continuamente penetrano sotto le
palpebre
10. COMPAIONO I PRIMI ANFIBI: L'"ICHTHYOSTEGA".

IL DENTE A LABIRINTO
L'affinità tra i pesci Ripidisti e gli anfibi più primitivi É testimoniata sia dalla struttura scheletrica del cranio e
delle pinne, sia dalla struttura del dente. Fra tutti i vertebrati, solo questi due gruppi hanno un dente stranissimo
ricoperto di avorio, la parte più esterna, che si insinua all'interno, nella dentina, formando uno strano
disegno, il quale visto in sezione, simula un labirinto; per questa particolarità i primi anfibi sono denominati
Labirintodonti (con i denti a labirinto).

IL PRIMO ANFIBIO
Fino a non poco tempo fa si riteneva che la data ed il luogo di nascita degli anfibi fossero rispettivamente
l'inizio del Carbonifero, 340 milioni di anni fa, ed il Gondwana, il supercontinente primitivo che si frammenterà
nei continenti attuali: Africa, Australia, Antartide, America del Sud con l'India ed il Madagascar. In Brasile,
più recentemente, É stata scoperta l'impronta dei passi di un anfibio impressa su un terreno vecchio di 360
milioni di anni. Dopo questa osservazione, forse si può affermare che gli anfibi presero origine verso la fine del
Devoniano nell'America del Sud e da qui si diffusero su tutta la terra. L'anfibio che lasciò le sue impronte nel fango
del Devoniano in Brasile ha preso il nome "Notopuspetri", ma di lui non conosciamo assolutamente niente; il
più antico anfibio che invece ci ha tramandato il suo scheletro fossilizzato É l'"Ichthyostega". Questo primo
rappresentante degli animali con quattro arti É stato rinvenuto in Groenlandia, dove alla fine del Devoniano,
evidentemente c'era un clima completamente diverso dall'attuale, se ospitava anfibi amanti del caldo umido
costante. L'"Ichthyostega", che É lungo oltre il metro, quindi un animale di tutto rispetto, É troppo grande per
considerarlo un precursore degli anfibi. Abbiamo già visto e rivedremo che il fenomeno del gigantismo si manifesta
all'interno di un gruppo in espansione, che non abbia rivali diretti con cui competere. Quindi l'"Ichthyostega" É
già un anfibio avanzato nel processo evolutivo, non certo l'anello di congiunzione con i pesci. Ha ancora
alcune caratteristiche da pesce, soprattutto nel cranio, massiccio, potente e una grande bocca, tipica da
predatore
Il suo cibo preferito forse era costituito da pesci, visto che con quella forte coda e con quei deboli atti non
doveva muoversi agevolmente sul terreno, forse era più rapido nell'acqua; fuori dall'elemento liquido
poteva cacciare solo prede particolarmente lente, come gasteropodi, anellidi, larve. Le caratteristiche generali,
infatti, indicano che questo animale, più che camminare, strisciava sul terreno con un movimento
serpentiforme. Ci vorrà ancora molto tempo perché l'animale a quattro zampe impari a camminare bene e
velocemente sul terreno
Da questi anfibi cominciò l'evoluzione della loro classe, che avvenne non progressivamente, ma con fasi
esplosive e rapide, intervallate da rallentamenti. Non tutti i caratteri degli anfibi definitivi si svilupparono
progressivamente; molti comparvero improvvisamente quando ancora permanevano delle caratteristiche da
pesce. Questo tipo di evoluzione viene anche chiamato a mosaico e ne vedremo un esempio tipico nel
capitolo 28 con la "Seymouria".

NOTA: COME CAMMINAVANO I PRIMI ANFIBI


Vi É una scienza, chiamata "icnologia", che studia le impronte lasciate sul terreno nelle diverse Ere
geologiche. Da queste impronte si possono ricavare interessanti deduzioni sulle caratteristiche dell'animale
che le ha lasciate e su come si muoveva. Il modo di camminare dei primi anfibi doveva essere particolarmente
goffo; il corpo era ancora molto tozzo e pesante, mentre gli arti erano piccoli e deboli, certamente incapaci di
sostenere il corpo. L'animale doveva quindi strisciare con un movimento serpentino, un po' come anche oggi
fanno i Tritoni e le Salamandre. Le zampe posteriori, fin dai primi anfibi conosciuti, erano più potenti e forti di
quelle anteriori, esattamente il contrario di quanto accade per le pinne dei pesci, come abbiamo già visto. Le
zampe si muovevano una alla volta; con tre ferme sul terreno una sola avanzava, ad esempio l'anteriore destra a
cui seguiva la posteriore sinistra, quindi l'anteriore sinistra e la posteriore destra
Questo movimento imponeva però anche una forte flessione della colonna vertebrale con la testa che oscillava
sui lati. Occorrerà modificare l'attacco degli arti sul bacino per cambiare e migliorare il passo, ma questo lo
raggiungeranno solo i rettili più evoluti.

11. L'ERA DEGLI ANFIBI (LABIRINTODONTI).

Nel Devoniano superiore (350 milioni di anni fa) la terra ospitava già i primi sicuri anfibi, di cui l'"Ichthyostega"
É un rappresentante tipico, incluso in un grande gruppo (o sottoclasse) di anfibi fossili chiamati Labirintodonti.

I LABIRINTODONTI
Il nome di questi anfibi primitivi deriva dalle caratteristiche del dente che abbiamo già visto nel capitolo 10. La
diffusione di questi animali sulla terra fu abbastanza rapida e favorita dalla particolarità che nel
Devoniano le terre emerse erano costituite da un supercontinente unico, per cui i Labirintodonti, pur essendo
dei pessimi camminatori, riuscirono ad insediarsi su tutta la terra, soprattutto nelle aree con clima caldo
torrido e ricche di acqua. I Labirintodonti infatti non dovevano amare molto la vita terrestre; anche le forme
più avanzate nell'evoluzione possedevano un corpo tozzo, pesante, con un cranio enorme; le zampe, inoltre,
erano ancora troppo deboli e con scarsa muscolatura, mentre la coda era in genere potente e robusta. Tutte
queste caratteristiche ci inducono a pensare che i Labirintodonti amassero più l'ambiente acquatico che quello
terrestre.

IL LORO SVILUPPO
I Labirintodonti forse furono gli anfibi primitivi che, più di tutti gli altri, riuscirono a sopravvivere alle avversità
dell'ambiente ed alla comparsa di altri e più evoluti animali. Comparvero nel Devoniano superiore e si
svilupparono soprattutto nel Carbonifero, quando gran parte della terra era coperta da immense foreste
tropicali; ma riuscirono a sopravvivere anche quando le condizioni climatiche divennero difficilissime durante
il Permiano, e si spinsero anzi fino, o quasi, alla fine del Giura, circa 140 milioni di anni fa. Questi anfibi
hanno vissuto quindi insieme con i Dinosauri dell'Era Cenozoica: sono rimasti sulla terra per oltre 200 milioni di
anni!

ANFIBI CON LE BRANCHIE


Un piccolo gruppo di Labirintodonti, formato da animali di piccole dimensioni, presenta ai lati della testa tre
paia di lunghe branchie piumose, come il "Gerrothorax" ed il "Branchiosaurus". I paleontologi che hanno
studiato questi animali non trovano un accordo. Per alcuni sono dei Labirintodonti tornati definitivamente
nell'acqua, rinunciando completamente a vivere sulla terra, come testimoniano le lunghe branchie; per altri,
questi esemplari sarebbero solo delle forme larvali destinate, con la metamorfosi, a perdere le branchie per
divenire un anfibio più terrestre. La disputa É aperta e non appare oggi facilmente risolvibile, anche se l'ultima
ipotesi sembra la meno probabile poiché gli animali posseggono anche le zampe ben formate e funzionanti,
cosa che in genere non accade nelle forme larvali.

SI ACCORCIA LA CODA
I Labirintodonti però, con il passare dei milioni di anni, acquistarono delle caratteristiche nuove, più tipiche
per vivere fuori dall'acqua. La coda, utilissima per il nuoto, ma di notevole impaccio quando l'animale camminava
sulla terra, tende ad accorciarsi. Nel "Cacops" si É già accorciata rispetto alle forme più antiche,
nell'"Eryops" É ridotta ad un moncherino
Queste forme forse stavano migliorando l'adattamento alla vita terrestre, ma il corpo tozzo ed i piccoli
arti ci indicano che comunque il loro movimento doveva essere lento, quasi strisciante.

IL GIGANTE TRA I LABIRINTODONTI


Il ritorno nell'acqua di alcuni anfibi consentì loro di aumentare notevolmente le dimensioni ed il peso del
corpo nonostante l'esile struttura scheletrica degli arti. Il "Trematosaurus" e il "Mastodonsaurus" del
Trias raggiunsero i 3-5 metri di lunghezza e con il loro possente cranio dovevano essere dei feroci predatori. Il
fenomeno presenta delle analogie con quanto accadde per i giganteschi Dinosauri erbivori, pure essi tornati
nell'acqua anche per far sostenere a questa il peso enorme del loro corpo. Solo in questo caso sia gli anfibi sia
i Dinosauri riuscirono a superare le incapacità dello scheletro degli arti.

NOTA: ORIGINE POLIFILETICA DEGLI ANFIBI


Tutti gli esperti concordano nell'affermare che l'"Ichthyostega" É l'anfibio più antico che oggi conosciamo, ma
non tutti lo ritengono il capostipite dell'intera classe. Oggi vi sono dei dubbi anche sull'ipotesi che gli anfibi
abbiano preso origine da un unico gruppo di pesci Ripidisti. Gli anfibi estinti e viventi sono talmente differenti
tra loro da giustificare anche l'ipotesi di più passaggi dall'acqua alla terra di forme diverse di pesci Ripidisti, da cui
poi indipendentemente si svilupparono le svariate linee evolutive degli anfibi. Questa classe porrebbe cioÉ
avere un'origine multipla, o polifiletica; cosa che non sorprenderebbe, vista la relativa facilità con cui si può
formare un anfibio a partire da un pesce che sa respirare anche l'aria.

12. IL CORPO ALLUNGATO (LEPOSPONDILI).


In un gruppo di anfibi del Carbonifero, chiamati Lepospondili si assiste ad un fenomeno che rivedremo solo
molto più tardi nella classe dei rettili: il corpo si allunga, aumenta il numero delle vertebre della colonna
vertebrale, mentre gli arti rimpiccioliscono e finiscono per scomparire.

SI PERDONO GLI ARTI


Il corpo, divenuto così serpentiforme, si muove strisciando sul terreno con un movimento ondulatorio. Questo
fenomeno dovrebbe stupire poiché il corpo tozzo e pesante degli anfibi del Carbonifero con le piccole zampe
certamente non consentiva una grande capacità di movimento; dovevano strisciare sul terreno con torsioni
della colonna vertebrale (come abbiamo visto nel capitolo 10), e questo era già un presupposto per il
movimento serpentiforme. Tra i Lepospondili incontriamo non solo delle specie con il corpo eccezionalmente
lungo e con delle zampette appena accennate, come il "Microbrachis" e l'"Hyloplesion", ma anche specie
con le caratteristiche tipiche del serpente, come la "Phlegethontia".

NON TUTTO PERO E' CHIARO


Esposte così le cose, tutto sembra facile, lineare e logico: i Lepospondili acquistarono progressivamente
le caratteristiche rettiliane del serpente. Il loro corpo si allungò per l'aumento del numero delle vertebre. A
questo seguì la progressiva riduzione degli arti, via via sempre più piccoli, che scomparvero del tutto nelle
forme più avanzate ed evolute. Purtroppo però gli esemplari di Lepospondili che conosciamo non
confermano questa sequenza, in particolare la specie senza arti e con il corpo serpentiforme, la
"Phlegethontia", non segue nel tempo le altre forme, ma addirittura le precede
CioÉ É più vecchio l'esemplare senza arti di quelli che possiedono ancora le zampette.

UN ULTERIORE MISTERO
Merita indugiare ancora un po' sulla "Phlegethontia" poiché la datazione degli scheletri di questo piccolo
e poco appariscente anfibio indica che esso era già presente sulla terra all'inizio del Carbonifero, quando
cioÉ, secondo altre indicazioni, cominciò l'avventura dell'anfibio. Questo esemplare apode, cioÉ senza arti,
doveva per forza di cose avere dei precursori con zampe o pinne, e dovettero passare diversi milioni di
anni per consentire all'evoluzione di farli scomparire. Ma con questa osservazione, la data di nascita degli
anfibi, o almeno di questi anfibi, É da spostarsi all'indietro di svariati milioni di anni. Ciò testimonia quanto
spazio di lavoro e di ricerca vi sia ancora in paleontologia.

I SOPRAVVISSUTI
I Lepospondili popolavano le foreste paludose del Carbonifero del Nordamerica e dell'Europa, ma
probabilmente preferivano gli ambienti acquatici o molto prossimi all'acqua, con un terreno molle entro cui
insinuarsi anche per cercarvi il cibo. I Lepospondili scomparirono tutti tra il Carbonifero ed il Permiano,
quando il clima mutò drasticamente, ma forse lasciarono dei discendenti, anche se non conosciamo dei
fossili che congiungano questi antichi anfibi con gli Apodi attuali, anche loro privi di arti ed amanti dei climi
temperati torridi (vedi capitolo 20).

UN ANFIBIO CURIOSO
I Lepospondili non finiscono di stupirci: in mezzo a loro comparvero anche forme simili alle attuali
Salamandre, ma con un cranio decisamente strano, e norme e paradossale, come il "Diplocaulus"
Le parti laterali infatti si dilatano eccezionalmente, per cui nel complesso il cranio acquista una forma
decisamente triangolare, su cui spiccano molto in avanti due grandi occhi tondeggianti. Ci si chiede
naturalmente il motivo di questa strana ed inusitata forma, ma la risposta non É facile, poiché nessun animale,
in nessuna classe, ha mai posseduto un cranio simile. L'unica ipotesi avanzata ritiene che quel cranio potesse
servire per scavare nel fango o nel terreno molle al fine di snidarne gli animali, ma il mistero rimane.
NOTA: IL CORPO SERPENTIFORME
Nell'ambito dei vertebrati incontriamo delle specie con il corpo allungato e serpentiforme nei Ciclostomi, nei
Teleostei (anguilla), negli anfibi del Carbonifero ("Phlegethontia"), negli anfibi viventi (Apodi), e nei Lacertiliani
e nei Serpenti. Il fenomeno quindi É tutt'altro che raro, ma non É semplice spiegarlo, non É facile capire perché
scompaiono le zampe o le pinne. La spiegazione più grossolana si richiama alla teoria di Lamarck, secondo la
quale l'uso o il non uso di un organo provoca il suo sviluppo o la sua scomparsa; ma la scienza nega la
validità di questa affermazione, smentita da molte osservazioni ed esperimenti, per cui rimane sostanzialmente
un mistero la causa della scomparsa degli arti quando il corpo, allungandosi per la comparsa di nuove vertebre,
cominciò a muoversi senza l'uso delle zampe.

13. LE ORIGINI DEGLI ANFIBI VIVENTI.

Oggi sulla terra vivono tre ordini di anfibi: gli Urodeli, come la Salamandra ed il Tritone, gli Anuri, come la
Rana ed il Rospo, e gli Apodi, anfibi poco conosciuti con il corpo simile a quello dei lombrichi. Le
caratteristiche di questi animali sono del tutto particolari e tra loro non confrontabili. Gli Urodeli, ad esempio,
hanno dei caratteri di forte regressione, cioÉ di riduzione o di semplificazione dei diversi organi
Gli Anuri invece sono degli anfibi eccezionalmente evoluti; quando osserveremo la zampa della Rana
arriveremo alla conclusione che É l'arto meglio adattato al salto tra tutti i vertebrati! Gli Apodi poi sono
decisamente misteriosi con quel loro strano corpo da invertebrati.

LE ORIGINI
Il problema del collegamento degli attuali anfibi con quelli che dominarono nel Carbonifero non É risolto con
chiarezza; si possono avanzare solo delle supposizioni. Una cosa comunque É certa: in quel Periodo sulla
terra vi erano centinaia di specie diverse di anfibi, piccoli o giganteschi, ma non vi erano né le Rane od i Rospi,
né i Tritoni o le Salamandre. Si É cercata però la soluzione all'enigma del rapporto tra l'anfibio vivente e
l'antico con lo studio della struttura della vertebra.

LE ORIGINI DEGLI URODELI


Questo ordine di anfibi compare sicuramente all'inizio del Creta, circa 136 milioni di anni fa; vi É quindi un
periodo di circa 60 milioni di anni, tra la fine degli anfibi antichi e l'inizio degli Urodeli, privo di testimonianze
fossili di questi ultimi. E' difficile riempire questo spazio vuoto, per cercare le forme di origine dell'ordine.
Tra i diversi fossili, quello che presenta il maggior numero di indizi appartiene ai Lepospondili, di cui troviamo un
buon esempio nell'"Urocordylus" che visse nel Carbonifero. Guardando le caratteristiche dello scheletro e la
ricostruzione della forma di questo antico anfibio non possiamo non osservare una forte somiglianza con gli
attuali Urodeli; anzi l'animale sembra più agile e vivace come testimonia quella lunga coda compressa ai lati,
utilissima per il nuoto. Ma già sappiamo che gli Urodeli sono animali decisamente regrediti, con scheletro
poco ossificato, scarsa muscolatura e con movimenti lenti e goffi
Dall'"Urocordylus", o dai suoi più stretti parenti, sarebbe partita la radiazione evolutiva che ha portato agli attuali
Tritoni e Salamandre.

L'ORIGINE DEGLI ANURI


Questi anfibi sembrano più antichi degli Urodeli; forse la loro linea evolutiva inizia all'incirca quando
scompaiono tutti gli anfibi antichi. La ricerca dei precursori degli Anuri É facilitata da diverse particolarità del
loro scheletro, come la colonna vertebrale molto corta con poche vertebre e senza la coda (da cui per l'appunto il
nome di Anuro), gli ilei del bacino molto allungati, gli arti posteriori del tutto particolari e il cranio schiacciato.

IL METODO DELL'INDAGINE PALEONTOLOGICA


La ricerca dei progenitori delle rane ci fornisce l'occasione per capire il modo con cui si procede all'indietro
nel tempo per cercare di collegare tra loro animali che vissero in tempi tanto lontani e diversi. Lo scheletro
della Rana, infatti, É talmente personale ed inconfondibile che anche un profano riesce a riconoscerlo facilmente
A partire da oggi cerchiamo, andando all'indietro nel tempo, di trovare degli animali con lo scheletro simile o
quasi a quello della Rana. Fino a 150 milioni di anni fa il problema É risolvibile. Lo scheletro del
"Neobatrachus" possiede infatti tutte le caratteristiche della Rana o del Rospo: il cranio É molto schiacciato e con
grandi aperture, nella colonna vertebrale la coda É sostituita da un'asticella ossea (urostilo), nel
bacino gli ilei sono eccezionalmente estesi, mentre nelle lunghe zampe la tibia e la fibula sono fuse. Non vi É
dubbio: il "Neobatrachus" É un Anuro, per cui É logico immaginare un paesaggio del Giura con i terribili e
giganteschi Dinosauri, ma anche con innocue Rane che saltellavano tra le loro zampe
Continuiamo però a procedere all'indietro: giungiamo così nel Trias, 200 milioni di anni fa, e incontriamo il
"Triadobatrachus", che ha ancora caratteri tipici della Rana nel cranio e nel bacino, ed una piccola coda, ma
non nelle zampe, più classiche e poco specializzate
Siamo ancora di fronte ad un Anuro, non specializzato per il salto, ma avviato in quella direzione
Se fino a questo punto le osservazioni e deduzioni erano facili, procedendo ancora all'indietro i dubbi
divengono più forti e le affermazioni meno categoriche. Cercando così tra gli scheletri degli anfibi del
Carbonifero non troviamo le caratteristiche tipiche delle Rane, ma forse qualche indizio molto vago nel
"Miobatrachus" di 300 milioni di anni fa: il bacino É un po' strano e la coda É ridotta, mentre il cranio É
massiccio e pesante. Questo animale potrebbe essere il collegamento tra i primi anfibi e la linea evolutiva degli
Anuri, ma con molti dubbi. Una sola affermazione É sicura: l'evoluzione degli Anuri che portò ai Rospi ed alle
Rane attuali iniziò almeno nel Trias con il "Triadobatrachus"

14. CARATTERI DEGLI ANFIBI: LA METAMORFOSI.

Quando dalle uova nasce una forma vivente, o larva, destinata in tempi più o meno lunghi a cambiare
radicalmente la sua organizzazione anatomica ed il suo modo di vivere, si parla di metamorfosi. Il
fenomeno É stato inventato per la prima volta negli invertebrati
Tutti conosciamo la metamorfosi di un grigiastro e strisciante bruco in una farfalla dai colori sgargianti e
dall'elegante volo
Nei vertebrati il fenomeno É meno frequente; anzi la regola vorrebbe che dall'uovo uscisse subito un individuo
che, pur piccolo, fosse già in possesso di tutte le caratteristiche dell'adulto. Ma ogni regola ha le sue eccezioni:
così vi É una metamorfosi tra i Ciclostomi, tra i Dipnoi e tra gli anfibi. La metamorfosi tra i pesci Ciclostomi e i
Dipnoi non É rivoluzionaria, poche strutture si modificano profondamente dalla larva all'adulto
Molto più interessante É invece quello che si verifica negli anfibi.

STRAORDINARIA SIMILITUDINE
Abbiamo già visto nei capitoli precedenti che l'origine degli anfibi deve essere cercata tra i pesci Ripidisti, oggi
però tutti estinti. Ma tra i parenti viventi più vicini ai Ripidisti, vi sono anche i Dipnoi che, unici tra i pesci,
compiono la metamorfosi! Anzi, la somiglianza tra la larva dei Dipnoi e quella degli Anfibi É straordinaria, come
per sottolineare la loro stretta parentela.

LE UOVA DEGLI ANFIBI


La regola nella classe vuole che le uova vengano deposte all'esterno (ma come al solito vedremo anche le
eccezioni) ed abbandonate a se stesse. In genere, specie tra gli Anuri, le uova sono raccolte tra una massa
gelatinosa, detta ganga, che le protegge non solo dagli insulti diversi dell'ambiente, ma anche dai predatori,
poiché sembra che questa sostanza mucillaginosa piaccia a pochi animali. I Rospi forse sono i più ordinati in
questo compito: producono due lunghi cordoni gelatinosi contenenti ciascuno, come tante perle in una collana,
una fila di uova.

LO SVILUPPO DELL'ANFIBIO
Dopo un periodo più o meno variabile, ma in genere breve, con rapidità, dalle uova esce una larva che,
per la sua struttura anatomica e per le sue funzioni, É del tutto simile ad un pesce. La pelle, le branchie, il
cuore, la circolazione del sangue ed il metabolismo sono tipici di un pesce. Se vi sono dei polmoni questi
sono appena abbozzati e non sono utilizzati. Questo stadio può durare da pochi mesi ad un anno e più. Se non
vi sono le condizioni ambientali adatte di temperatura e di alimentazione lo sviluppo non procede oltre. Se
invece tutto va bene, comincia il processo metamorfosi.

LA METAMORFOSI
E' uno dei fenomeni che maggiormente hanno incuriosito i ricercatori
Un organismo, che É un pesce in tutto e per tutto, in pochi mesi si trasforma in un animaletto che può vivere
fuori dall'acqua. Spuntano le zampe, divengono funzionali i polmoni, negli Anuri scompare la lunga coda. In
questa trasformazione sono coinvolti tutti gli organi, e al termine del processo si ottiene un organismo
completamente diverso da quello di partenza. La metamorfosi ricapitola la storia dell'anfibio
Se si osserva quanto avviene in pochi mesi durante la metamorfosi di un Anuro (Rana o Rospo), si rimane
impressionati dalla similitudine con quanto avvenne al passaggio dal pesce all'anfibio, oltre 300 milioni di
anni fa, quando la struttura di un pesce si trasformò in un'organizzazione adatta a vivere fuori dall'acqua.

LA LARVA DELL'ANFIBIO
Dall'uovo nasce un organismo costruito come un pesce, ma con molte meno esigenze. La bocca infatti É
armata di dentini cornei che permettono di utilizzare per l'alimentazione anche quel velo di alghe che copre i
sassi nei fiumi o negli stagni. Veramente queste larve sono disposte a mangiare di tutto, anche la carne, ma in
mancanza di meglio si adattano ad un cibo che É rifiutato sia dai pesci sia dagli anfibi adulti. Le larve, cioÉ,
occupano una nicchia alimentare che non fa gola a nessuno, per cui in pratica non hanno concorrenza, ma in
compenso hanno molti nemici a cui, come al solito, fanno fronte con un alto numero di uova e di larve.

LE ECCEZIONI
Se la metamorfosi caratterizza l'anfibio, non É detto che le sequenze siano quelle già descritte: vedremo anche
delle cure parentali e degli stretti rapporti tra madre e figlio. Vi É inoltre una rana delle zone aride del Sudafrica,
"Breviceps adspersus", che compie dentro all'involucro gelatinoso non solo lo sviluppo embrionale, ma anche
tutta la metamorfosi, per cui quando decide di uscire all'aperto É già completamente formata.

15. L'ACCOPPIAMENTO E LE CURE PARENTALI.

Dagli anfibi in poi diventa difficile la fecondazione esterna (cioÉ deporre uova e spermatozoi direttamente
nell'ambiente esterno) attuata da molti pesci poiché troppo aleatoria quando l'acqua É poca e lo spazio
limitato. Ma gli anfibi non hanno organi copulatori, che compariranno solo nei rettili più evoluti, per cui la
fecondazione risulta particolarmente complessa.

L'ACCOPPIAMENTO DEGLI URODELI


Sarebbe lungo e noioso descrivere per tutte le specie di Urodeli il comportamento che assumono durante
l'accoppiamento, ma possiamo osservare come si comporta il comune Tritone crestato, che si riproduce
anche in laboratorio e può quindi essere esaminato e studiato con cura. Il maschio, al momento della
riproduzione, É ben riconoscibile per un'ampia cresta presente su tutto il dorso e per le sue colorazioni vivaci.
Con questa livrea va alla ricerca di una femmina da corteggiare; dopo averla trovata, però, non si accoppia
direttamente, ma depone sulle piante dei pacchetti di spermatozoi (spermatofore) che la femmina
accuratamente raccoglie con la cloaca e conserva all'interno del proprio corpo. La fecondazione É quindi
interna, ma gli spermatozoi sono deposti all'esterno; sembra quasi una fase intermedia tra le due modalità di
riproduzione. La femmina di questo Urodelo depone poche uova, ma le protegge una ad una
avvolgendole all'interno di un pacchetto formato da foglie ripiegate.

L'ACCOPPIAMENTO NEGLI ANURI


Tra questi anfibi scegliamo il Rospo comune che tutti possiamo osservare facilmente mentre si riproduce
verso il finire della stagione fredda. Quando le giornate cominciano ad allungarsi i Rospi lasciano le loro tane
e iniziano a vagare in cerca di uno stagno, un fosso, o di una qualunque pozza d'acqua poiché l'accoppiamento
avviene obbligatoriamente nell'acqua. In queste giornate É facile incontrare dei Rospi, a volte anche a
centinaia, tutti diretti in una sola direzione. Vi É qualche cosa di misterioso e non conosciuto che li guida nella
ricerca dell'acqua. Sembra impossibile che con la loro andatura lenta e sgraziata riescano a compiere dei
lunghissimi percorsi; ma con pazienza superano tutte le difficoltà ed a giungere a destinazione.

L'INCONTRO CON LA FEMMINA


Il rapporto tra maschi e femmine tra i Rospi non É in equilibrio, vi sono infatti molti maschi per poche
femmine, per cui non pochi esemplari del sesso forte avranno fatto un lungo viaggio inutilmente
L'incontro tra i due sessi É casuale, non vi sono cioÉ dei rituali di corteggiamento; quando il maschio riesce ad
avvicinare una femmina subito si avvinghia sul suo dorso con una presa eccezionalmente forte e non si muove
da quella posizione fino al termine dell'accoppiamento
Se si avvicina però un altro maschio anche l'ultimo arrivato vorrebbe salire sul dorso della femmina, ed inizia
una piccola battaglia a colpi di calci tra i due contendenti, ma difficilmente il primo arrivato lascia la presa.
Non É raro vedere un gruppo di maschi che cercano di abbracciare una sola femmina; se quest'ultima É molto
più grande dei maschi, come spesso accade, può ospitare contemporaneamente sulla schiena due contendenti.

LA PRESA CIECA DEL MASCHIO


La reazione di abbraccio del maschio É un fatto puramente istintivo e si attua come un classico riflesso
nervoso. Se ponete un maschio, all'epoca della riproduzione, sul dorso della vostra mano subito ve la afferrerà e
sentirete così la forza eccezionale della presa nonostante le dimensioni modeste del Rospo. La reazione É
talmente cieca ed automatica che il Rospo abbraccia qualsiasi cosa possa assomigliare al dorso di una
femmina. Non É raro vedere dei pesci con un rospetto avvinghiato sul dorso balzare fuori dall'acqua nel
tentativo di liberarsi dall'intruso, come in un rodeo acquatico.

LA DEPOSIZIONE DELLE UOVA


I Rospi, come la maggioranza degli Anuri, depongono le uova nell'acqua protette da una massa gelatinosa e
lasciate al loro destino, per cui, dopo l'accoppiamento, tutti i Rospi lasciano l'acqua e, compiendo il percorso
inverso, ritornano nei loro luoghi di caccia.

LE CURE PARENTALI
Vi sono però degli esempi, ancorché rari, di cure parentali
Il maschio del Fillobate porta sul dorso i girini per tutto il loro sviluppo. Il Rospo ostetrico maschio raccoglie le
uova tra le zampe posteriori e le trasporta sempre con sé fino alla schiusa e alla nascita dei girini. La Pipa
femmina custodisce le uova sulla propria schiena, dove la pelle, proliferando, finisce per avvolgerle tutte. Le
uova sono così contenute in piccole cellette entro le quali si compie l'intero sviluppo del girino (vedi anche capitolo
23).

16. LA RESPIRAZIONE, LA VOCE, IL SANGUE.

COME RESPIRANO
Sappiamo già che il polmone É stato inventato dai pesci Sarcopterigi, nei quali però funzionava o per aiutare le
branchie o per consentire la pura sopravvivenza dell'animale nei momenti di siccità. Negli anfibi invece il
polmone deve da solo soddisfare le richieste di ossigeno dell'animale, ma la sua struttura É ancora primitiva e
poco funzionale essendo formato da un sacco vuoto con le pareti quasi lisce. Un polmone così costruito non
riesce a soddisfare le richieste di ossigeno dell'animale per cui negli anfibi si sviluppano altri modi di respirare.

LA RESPIRAZIONE NEGLI URODELI


La soluzione in questi anfibi proviene spesso soprattutto dalla coda che É infatti fornita di una cresta ampia e
molto ricca di vasi sanguigni, per cui attraverso questa avvengono gli scambi respiratori ed il sangue si
arricchisce di ossigeno e cede l'anidride carbonica
Questi scambi inoltre avvengono anche su tutta la pelle dell'animale, pertanto l'apporto del polmone É del tutto
trascurabile. Anzi non mancano degli Urodeli in cui il polmone É atrofizzato e quindi inutile, per cui
l'animale si disinteressa completamente dell'aria e trae il suo ossigeno dall'acqua.

LA RESPIRAZIONE NEGLI ANURI


Il metabolismo di questi anfibi É più elevato di quello degli Urodeli per cui la richiesta di ossigeno É più alta. Il
polmone É sempre presente, ma ancora non pienamente efficiente. Negli Anuri manca la coda a cui affidare il
compito di ossigenare il sangue, per cui questa funzione, oltre che al polmone, É affidata alla pelle, ma ancora di
più alla bocca. La superficie interna dell'enorme cavità orale É infatti molto ricca di vasi e perciò su quest'area
avviene la parte preponderante della respirazione di un Anuro. L'ossigeno dell'aria (O) si scioglie nel liquido
che inumidisce le pareti interne della bocca, attraverso le quali passa al sangue; l'anidride carbonica (C O2)
procede in senso inverso. Il meccanismo di respirazione di questi anfibi É semplice. Abbassando ed innalzando
il pavimento della bocca, l'Anuro rimuove l'aria contenuta nella cavità. Se guardate la gola di una Rana la vedete
vibrare continuamente per espellere ed aspirare l'aria dalle narici. Invece l'aria nei polmoni viene spinta dentro
più volte come se venisse inghiottita a sorsi. Nel polmone così dilatato avvengono gli scambi respiratori e
possono passare anche svariati minuti prima che l'aria sia rinnovata.

LA VOCE DEGLI ANFIBI


Quando l'anfibio si decise ad uscire dall'acqua, l'aria era già percorsa da strida e canti. Gli invertebrati,
infatti, avevano abbandonato l'acqua molti milioni di armi prima e quasi sicuramente avevano già inventato il
canto, come segnale di richiamo, sfida, dominio. L'arrivo degli anfibi aggiunse un'altra voce, ma molto più
forte e petulante. Se infatti gli Urodeli rimasero sostanzialmente muti, tra gli Anuri - però solo nei maschi -
si sviluppò una straordinaria varietà di suoni con tonalità ed intensità anche molto alte. La Rana toro (vedi
anche capitoli 17 e 25) ha il suono più singolare per un anfibio; più che gracidare muggisce, da cui infatti il
nome; udire quel canto nel buio della notte raggela il sangue poiché sembra provenire da un misterioso,
possente ed invisibile animale. In genere però il canto degli Anuri É più dolce e caratteristico e viene
prodotto da due sacchi vocali che si dilatano ai lati del collo o da un'unica sacca sotto la bocca. La dilatazione
di queste sacche può essere eccezionale come nel Rospo marino e nella Raganella.

PERCHE' CANTANO
La domanda É semplice, ma la risposta É difficile. Il canto può essere un richiamo sessuale, ma gli Anuri
cantano anche nei periodi in cui non si riproducono; può essere un segnale di delimitazione e difesa del
territorio, ma questi anfibi spesso sono talmente numerosi e concentrati in piccoli territori che appare difficile
interpretare, tra il fracasso generale, il segnale dei singoli individui
Accontentiamoci di ascoltare questo canto, il primo che compare tra i vertebrati e prelude al canto stupendo
degli uccelli.

IL SANGUE DEGLI ANFIBI


Questa classe dei vertebrati detiene quasi sicuramente il record del più basso metabolismo, inferiore non solo
a quello dei rettili, ma anche a quello di quasi tutti i pesci. Di conseguenza anche la richiesta di ossigeno É
molto bassa, per cui le cellule preposte a tale compito, i globuli rossi, sono voluminose e tozze. Infatti quanto
più elevato É il metabolismo tanto più piccoli sono i globuli rossi, per essere più numerosi e trasportare così più
ossigeno.

NOTA: IL METABOLISMO
Le reazioni che avvengono nelle cellule di un organismo possono procedere con velocità diverse, e la
regolazione di questa velocità É affidata agli ormoni della tiroide. Un animale a metabolismo elevato ha delle
reazioni più rapide, si muove più velocemente, É più pronto a rispondere agli stimoli dell'ambiente; all'opposto,
un animale a metabolismo basso si muove più pigramente ed É torpido nelle sue reazioni. Una delle
conseguenze della diversa velocità dei processi metabolici É legata al consumo di ossigeno, poiché con
metabolismo alto occorre fornire alle cellule una quantità maggiore di questo gas, che É invece meno necessario
per chi ha un metabolismo basso.

17. COME SI ALIMENTANO.

COSA MANGIANO LE LARVE


L'alimentazione negli anfibi É radicalmente diversa tra la forma larvale e l'adulto. Le larve degli anfibi hanno
una bocca piccola e munita di dentini cornei cilindrici, usati per raspare e strappare il cibo, sia le carni sia i
vegetali. Queste larve infatti sono estremamente versatili nella loro alimentazione e disponibili a mangiare
di tutto. Se trovano la carcassa di un animale subito vi si affollano intorno per cibarsene, ma, in mancanza di
meglio, si accontentano di brucare quel velo di alghe verdi che copre spesso i sassi e le rocce sommerse
dall'acqua. Per l'alimentazione non hanno concorrenti; infatti nessun animale ha la stessa flessibilità nel tipo di
alimentazione, la stessa possibilità di ricavare energia da qualsiasi fonte. Questa straordinaria capacità É
anche agevolata dall'intestino incredibilmente lungo e tortuoso, che consente la perfetta digestione di ogni
forma di cibo.

COSA MANGIANO GLI ADULTI


Poi sopravviene la metamorfosi, il girino perde le sue caratteristiche di pesce ed acquista le particolarità di un
animale terrestre. Anche l'alimentazione cambia drasticamente: cadono i dentini cornei, la bocca diventa più
grande, enorme negli Anuri, provvista, ma non sempre, dei tradizionali denti; l'intestino si accorcia notevolmente
e diviene quello tipico di un animale mangiatore di carne. Gli adulti degli anfibi sono infatti tutti carnivori, e si
nutrono di prede vive, che cacciano con abilità. Nella loro dieta non sono previsti i vegetali, ma gli animali,
dagli invertebrati ai vertebrati, ed anche piccoli mammiferi.

A CACCIA CON LA LINGUA


Mentre negli Urodeli non si sviluppa alcun meccanismo particolare per catturare le prede, poiché questi anfibi si
limitano ad avvicinarsi al malcapitato per avventarsi poi su di lui a bocca spalancata, negli Anuri invece, ma
non in tutti, si sviluppa una lingua capace di catturare delle prede. Questa lingua ha una particolarità unica tra i
vertebrati, É inserita subito dietro il margine della mandibola ed É ripiegata all'indietro. Quando l'Anuro attacca una
preda, spalanca la bocca ed estroflette la lunga lingua, resa inoltre appiccicosa da un secreto ghiandolare. La
velocità di questo movimento É rapidissima, circa quindici centesimi di secondo, e con altrettanta rapidità viene
ritirata con la preda attaccata
Se si ha la ventura di vedere una rana a caccia di un insetto sembrerà che quest'ultimo tutt'a un tratto sparisca
nel nulla, tanto É veloce la cattura.

I DENTI
Come i girini degli anfibi sono abbondantemente provvisti di denti, così gli adulti sono decisamente poveri di
questo organo di offesa. In alcune Rane i denti sono presenti solo nella mascella; il Rospo addirittura É
completamente sdentato. I denti, del resto, in questi animali non sono praticamente utili. Gli anfibi infatti non
masticano; ci vorrà del tempo ancora prima di vedere comparire questa importante funzione: per ora, quando ci
sono, i denti servono solo per non far sfuggire la preda una volta catturata.

IL COMPITO DEGLI OCCHI DURANTE LA CACCIA


L'occhio negli anfibi É stato particolarmente studiato per capire il significato dei messaggi che invia al
cervello. In questi animali infatti l'organo della vista non si limita a raccogliere le immagini ed a inviarle al
cervello, ma valuta lui stesso se ciò che sta vedendo É una preda possibile o no. Innanzitutto la preda deve
muoversi; senza il movimento É come se l'occhio non vedesse nulla; inoltre la preda deve avere una forma
precisa. L'occhio dei Rospi, ad esempio, invia degli stimoli solo se l'oggetto in movimento ha la forma di un
lombrico, se É quadrangolare o rotondo non reagisce; l'occhio valuta anche le dimensioni dell'oggetto in
movimento, se É troppo piccolo non invia segnali, se É troppo grande invia invece dei segnali di allarme
Perciò in questi animali l'occhio ha una funzione "intelligente", decide, prima ancora del cervello, quale
reazione adottare.

I GRANDI DIGIUNATORI
Gli anfibi, proprio per il loro bassissimo metabolismo, sono dei formidabili digiunatori durante il letargo
invernale e quello estivo (vedi capitolo 19). A volte possono trascorrere dei mesi tra un pasto e l'altro senza
che l'animale ne soffra. Si narra che dei Rospi, murati vivi accidentalmente, siano stati trovati in vita dopo oltre un
anno di completo digiuno. L'unica cosa importante per questi animali É che non manchi l'umidità perché gli anfibi
non sanno risparmiare l'acqua e devono assumerne continuamente, non solo con l'alimentazione, ma,
come fanno i Rospi, anche attraverso la pelle del ventre quando questo É appoggiato su un terreno umido.

18. COME SI MUOVONO.

IL MOVIMENTO DEGLI URODELI


Molti Urodeli vivono costantemente nell'acqua, alcuni conservano addirittura le branchie anche da adulti,
per cui il movimento É assicurato più dalla coda che dalle zampe, che comunque concorrono a muovere
l'animale sul fondo. Quando però l'Urodelo esce dall'acqua, si presenta il problema di come camminare; la
questione forse era già stata risolta dai pesci Ripidisti ma non abbiamo alcuna prova per questa affermazione
I Tritoni forse sono i migliori camminatori tra gli Urodeli, ma il loro modo di muoversi É ancora goffo ed
approssimato. Tre zampe innanzitutto sono sempre appoggiate sul terreno mentre la quarta procede; ad
esempio avanza l'arto posteriore destro seguito dall'anteriore sinistro, e così via. Questo modo di camminare
porta, come conseguenza, ad un movimento ondulatorio della testa e della colonna vertebrale simile a quello
serpentino
Non stupisce quindi che tra degli Urodeli si sia progressivamente instaurato il movimento ondulatorio tipico dei
serpenti. Il corpo, in questo caso, non É più sollevato, ma striscia sul terreno, le zampe si riducono ad esili e
quasi inutili moncherini, che scompaiono addirittura nei Sirenidi, i quali hanno la classica forma allungata
delle specie capaci di strisciare o di nuotare con un movimento a serpentina della colonna vertebrale.

IL MOVIMENTO DEGLI ANURI


Guardare un Rospo quando si muove É decisamente comico: il corpo tozzo si solleva sui quattro arti che si
alternano con la stessa sequenza degli Urodeli. Ma in questo animale si può parlare di regressione di una
capacità che invece caratterizza tutti gli Anuri: il salto. Se il Rospo non salta, o salta malamente solo il maschio,
lo si deve alle sue dimensioni notevoli e alle sue proporzioni tozze, specialmente nella femmina. L'arto
posteriore di tutti gli anfibi Anuri, infatti, É costruito per consentire all'animale di compiere dei grandi balzi
quando É fuori dall'acqua o per spingere con potenza l'animale quando nuota. Il problema di costruire un arto
adatto per il salto sarà affrontato anche dalle altre classi: nei rettili, negli uccelli, nei mammiferi, ma il risultato
conseguito dagli anfibi É insuperabile; É quanto di meglio si possa fare per assicurare una forte e rapida
spinta dell'arto posteriore.

LA MOLLA
Da un punto di vista dinamico, un arto che salta equivale ad una molla compressa che improvvisamente si
distende con forza. Le zampe possono essere confrontate ad una molla con due spirali, corrispondenti ai due
segmenti mobili dell'arto, il femore e la tibia-fibula, a cui segue il piede.

EQUIVALENZA DELL'ARTO DELL'ANURO E DELL'UCCELLO


E' particolarmente interessante osservare come questa via per adattare un arto al salto sia stata seguita non solo
dagli anfibi, ma anche dai rettili, dagli uccelli e dai mammiferi. In particolare É straordinaria l'equivalenza tra la
zampa di un Anuro e quella di un uccello, entrambe costruite in modo tale da possedere tre segmenti
mobili invece dei due tradizionali.

MA L'ANFIBIO VA ANCORA PIU' AVANTI


Non basta ancora: se si guarda la colonna vertebrale ed il bacino su cui si articola la zampa emergono dei dati
sconcertanti. Nel bacino, gli ilei sono lunghissimi e si articolano (sono cioÉ mobili) sulla vertebra sacrale
mentre le vertebre caudali, fuse tra loro, formano un'asticella ossea, l'urostilo da cui partono dei muscoli per il
lungo ileo e gli altri segmenti della zampa. Con uno scheletro così formato, l'Anuro ha aggiunto un ulteriore
segmento mobile all'arto: il lungo ileo con la sua muscolatura. Non abbiamo mai visto, né lo rivedremo, un
elemento dello scheletro del bacino allungarsi ed acquisire le funzioni di un segmento osseo della zampa
Questi anfibi, in conclusione, pur nella loro antichità, sono stati in grado di evolvere un arto per il salto di
incredibile potenza ed efficienza.

19. LA PELLE E IL LETARGO.

LA PELLE
Prima della metamorfosi la larva che, come sappiamo, non abbandona mai l'acqua, ha una pelle molto simile a
quella di un pesce, le cellule sono poche e tutte vive. Dopo la metamorfosi specie negli anuri la pelle cambia
le sue caratteristiche. Il numero delle cellule aumenta, con gli strati superficiali parzialmente corneificati, cioÉ ricchi
di cheratina, una sostanza dura che protegge la pelle e che verrà utilizzata poi nei rettili per formare le
squame. Anzi nella parte dorsale di alcuni rospi vi sono dei rilievi conici della pelle, le verruche, che
assomigliano molto alle squame dei rettili. La pelle degli anfibi però rimane permeabile; l'acqua, l'ossigeno,
l'anidride carbonica possono attraversarla, e l'animale respira anche attraverso la pelle.

LA MUTA
La presenza dello strato superficiale di cellule parzialmente corneificate rende molto rigida la pelle, cioÉ
questa non si allarga quando l'animale cresce. Se l'anfibio É sano e si alimenta regolarmente, il suo
corpo cresce di volume: la pelle corneificata diventa troppo stretta e bisogna cambiarla. La muta consente il
cambio della pelle, così da poterne costruire un'altra più larga, un po' come se si cambiasse il vestito. Durante
la muta l'anfibio, specie il rospo, cerca di togliersi di dosso il vestito, grattandosi sia con le zampe anteriori, sia
con quelle posteriori. La pelle si stacca così a brandelli, ma É difficile trovarla poiché il rospo si affretta ad
inghiottirla per non sprecare le sostanze preziose, specie le proteine, che vi sono contenute.

LE GHIANDOLE DELLA PELLE


La pelle degli anfibi É molto ricca di ghiandole, distinte in due tipi: le mucose e le granulose. Le prime sono
sparse su tutto il corpo e producono un secreto che ricopre tutta la pelle, rendendola viscida e proteggendola
dalla disidratazione, cioÉ dall'essiccamento quando l'animale vive fuori dall'acqua. La seconda categoria di
ghiandole, o granulose, produce dei secreti diversi nelle diverse specie di anfibi, ma tutti tossici o velenosi.
Queste ghiandole sono a volte concentrate subito dietro l'orecchio, da cui il nome di parotide (da non
confondere però con le analoghe ghiandole dell'uomo che secernono invece saliva).

IL VELENO DEGLI ANFIBI


La presenza di queste ghiandole velenose É un buon mezzo di difesa per la specie che le possiede, ma
protegge poco il singolo individuo
Quando l'anfibio É irritato, e ancor più quando viene inghiottito da un predatore, le ghiandole velenose
emettono il loro secreto che irrita la bocca o lo stomaco del predatore; anzi i dolori sono così forti da
costringere l'animale a vomitare il malcapitato anfibio
Rapidamente i predatori, dopo aver fatto alcune infelici esperienze gastronomiche con questi anfibi, imparano
ad evitare questi animali e a cancellarli dal loro menù. Con questo meccanismo il sacrificio di pochi esemplari
assicura la sopravvivenza della specie.

IL LETARGO
Gli anfibi non sanno termoregolare il proprio corpo, cioÉ non riescono a mantenere costante la loro temperatura,
e quando l'ambiente diventa troppo freddo devono rifugiarsi in luoghi riparati e ridurre al minimo ogni funzione
vitale, per cercare di sopravvivere in attesa di tempi migliori. Il letargo, che consente di superare i momenti
sfavorevoli, lo rivedremo anche tra i rettili e i mammiferi con caratteristiche pressoché simili
I rospi in queste circostanze trovano rifugio in tane profonde che loro stessi riescono pazientemente a scavare;
invece gli anfibi che vivono prevalentemente nell'acqua, come le rane e i tritoni, trovano rifugio sul fondo
melmoso dello specchio d'acqua, ove sprofondano nel fango per rimanervi immobili per tutta la durata
dell'inverno. In queste condizioni la respirazione avviene solo attraverso la pelle, poiché mai l'anfibio si porta in
superficie per respirare; durante il letargo infatti le esigenze del suo metabolismo sono talmente basse che
possono essere soddisfatte dalle sole riserve dell'organismo e dall'ossigeno contenuto nell'acqua. Si racconta
anzi che i Rospi comuni possano rimanere in letargo per oltre tre anni, e uscire dal lungo periodo di astinenza
magrissimi ma perfettamente vivi.

L'ESTIVAZIONE
Alcuni anfibi anuri sono presenti anche in territori con un clima molto caldo e secco. Anche queste condizioni
ambientali, così come il freddo, non consentono all'anfibio di vivere all'aperto: deve ritirarsi in luoghi protetti,
in attesa che ritorni un clima più umido e fresco. L'estivazione É quindi del tutto simile al letargo; l'unica
differenza É che la prima protegge dal troppo caldo, l'altro dal troppo freddo.

20. GLI APODI.

Esaminiamo per primi gli Apodi, una delle tre sottoclassi degli anfibi, poiché sono i più misteriosi e strani.
Innanzitutto non si sa da dove derivino, quali siano stati i progenitori o i collegamenti con gli anfibi del
Carbonifero. Forse le loro abitudini di vita o l'ambiente tropicale in cui vivono hanno reso molto precaria ed
improbabile la fossilizzazione del loro corpo. Comunque questi anfibi sono un meraviglioso esempio del modo in
cui una forma vivente viene modellata ed adattata dall'evoluzione per vivere in gallerie scavate nel terreno in
cerca di cibo.

L'APODO ED IL LOMBRICO
L'aspetto di questi animali infatti É del tutto simile a quello dei lombrichi e possono essere facilmente confusi
con questi; il corpo infatti É cilindrico e solcato trasversalmente da anelli, proprio come nel grande gruppo degli
invertebrati, gli Anellidi. La somiglianza É talmente stretta che può trarre in inganno anche un esperto; solo con
un'osservazione accurata o notando il loro modo di muoversi sul terreno, molto simile a quello di un serpente,
rivelano la loro natura di vertebrati. Anzi, se vi É un animale che merita il termine di vertebrato É proprio
l'Apodo poiché detiene il record del numero delle vertebre: sempre più di duecento, anzi in una specie si arriva a
300! L'adattamento infatti alla vita sotterranea ha provocato non solo la scomparsa degli arti e delle cinture, ma
ha allungato eccezionalmente il corpo con l'aggiunta di nuove vertebre.

GLI ANFIBI DAL COLLO LUNGHISSIMO


In tutti gli animali dotati di arti le vertebre della colonna vertebrale si riconoscono poiché hanno
caratteristiche diverse a seconda delle regioni; vi sono cioÉ vertebre del collo, del torace, della regione
lombare e sacrale ed infine vi sono quelle della coda
Negli Apodi, come nei serpenti, le vertebre sono tutte uguali dalla prima all'ultima, per cui É arduo
comprendere quale regione sia stata coinvolta nel processo di allungamento, in quale regione cioÉ sia
cresciuto a dismisura il numero delle vertebre. Ma osservando che la cloaca, (lo sbocco comune del retto e
dei prodotti genitali ed urinari), É posta all'estremità del corpo e che in tutti i vertebrati la coda comincia dopo la
cloaca, si giunge alla conclusione che gli Apodi non hanno la coda! Osservando poi che il cuore É posto molto
lontano dalla testa, si giunge alla seconda conclusione che l'eccezionale lunghezza del corpo É dovuta
soprattutto ad un aumento del numero delle vertebre del collo! Se a questi animali, che sappiamo essere privi
di arti, aggiungiamo due paia di zampette, che sicuramente avevano i progenitori antichi, viene fuori
l'immagine di un animale simile ad una giraffa, ma dal corpo allungato come un verme.

COME SI SVILUPPANO
In genere gli Apodi sono ovipari, come tutti gli altri anfibi, e le uova vengono deposte nell'acqua o in buche nel
fango. Nell'Ittiofido glutinoso la femmina si avvolge a spirale attorno alle uova e le protegge fino alla schiusa
delle larve
Nel "Typhlonectes", che vive costantemente nell'acqua vi É una forma di sviluppo estremamente evoluta e
raffinata: le uova sono conservate nell'utero, ove si completa lo sviluppo della larva; durante questo periodo
l'embrione si nutre di una sostanza, il "latte uterino", proveniente dalle pareti molto vascolarizzate dell'utero. Vi
sono cioÉ dei rapporti di nutrizione tra madre ed embrione molto intimi ed evoluti.

COME E DOVE VIVONO


I nostri Apodi, che possono raggiungere anche il metro e mezzo di lunghezza, sono presenti nei terreni
umidi o paludosi delle zone tropicali dell'Asia sudorientale, dell'Africa e dell'America centromeridionale,
ove scavano continuamente delle gallerie in cerca di alimento. Non di rado predano i formicai ed i termitai. Di
notte possono uscire dalle tane per cacciare anche sul terreno. Le loro prede preferite sono invertebrati
larvali od adulti, ma anche vertebrati, perfino piccoli serpenti.

L'ADATTAMENTO ALLA PENETRAZIONE NEL TERRENO


Sicuramente non É adatto il termine di animale scavatore per un Apodo; infatti questo anfibio non ha alcun
organo per scavare, nella realtà, con i suoi movimenti, l'animale si insinua nel terreno molle e fangoso. Il
corpo cilindrico, gli anelli che solcano il suo corpo e le squamette calcificate della sua pelle facilitano questo
singolare modo di vivere. L'adattamento a questo comportamento ha profondamente modificato
l'organizzazione generale di questo anfibio. Non solo sono scomparse le zampe, ma anche la cintura pettorale ed
il bacino. Gli occhi, quasi inutili, sono piccolissimi, atrofizzati, spesso nascosti sotto la pelle, in un caso sono
posti addirittura sotto le ossa del cranio. Anche l'orecchio É molto regredito, per cui si può dire che gli Apodi
sono ciechi e sordi. In compenso, in prossimità delle piccole narici vi sono come due antenne, due tentacoli,
ricchi di nervi che rappresentano degli organi tattili molto sensibili. Forse É l'unico vero organo di senso
funzionale di questi animali, l'unico in grado di guidarli nella caccia di prede al buio. Ma sappiamo molto poco
sul comportamento di questi animali che, per di più, non si adattano facilmente a vivere in cattività.

21. GLI URODELI (CRIPTOBRANCHIDI, AMBISTOMIDI, PROTEIDI).

L'ordine degli anfibi Urodeli comprende le forme provviste di una lunga coda, arti piccoli, poco funzionali, e
con abitudini molto legate all'ambiente acquatico; alcune, anzi, non abbandonano questo ambiente neppure
per brevi passeggiate. I Criptobranchidi vengono considerati gli Urodeli più primitivi e sono distribuiti soprattutto
nel continente asiatico
Tra questi merita una citazione particolare la Salamandra gigante del Giappone, poiché, con il suo metro e
mezzo di lunghezza, É l'anfibio più grande oggi esistente.

IL LORO MODO Dl VIVERE


Il modo di vivere dei Criptobranchidi É oltremodo monotono, potendo rimanere per giorni interi immobili nel
loro ambiente in attesa che una preda passi per caso davanti al loro muso. Il bassissimo metabolismo
rende questi animali lenti e torpidi, ma consente loro anche un lungo digiuno tra un pasto e l'altro, per cui
non si affannano troppo per cercare degli alimenti. La grande Salamandra del Giappone oggi É rigorosamente
protetta poiché rischia l'estinzione. La sua carne gustosa e la possibilità di ricavare dai suoi tessuti dei
medicamenti popolari fa sì che vi sia una caccia attiva dell'animale, resa oltretutto facilissima per l'incapacità di
questo anfibio di difendersi o di fuggire o di nascondersi al sopraggiungere di un pericolo.

LA NEOTENIA
E' un fenomeno strano che compare solo in alcuni Urodeli ed É collegato al mancato o scarso
funzionamento della tiroide, la ghiandola endocrina che regola, tra l'altro, la metamorfosi degli anfibi. La
Salamandra tigre ("Ambystoma tigrinum") É stata scoperta nel secolo passato, ma per lungo tempo si credette che
la sua forma larvale, o Axolotl, fosse una specie diversa. La neotenia infatti conferisce la possibilità di
divenire maturi sessualmente anche prima della metamorfosi, per cui l'animale É in grado di riprodursi pure
durante la fase larvale. In particolare, l'Axolotl può vivere e riprodursi più volte e completare il suo ciclo
vitale senza mai metamorfosarsi nella forma adulta. Era facile quindi incorrere nell'errore di considerarle
due specie diverse, due tipi di animali che nulla avevano in comune se non l'appartenenza agli anfibi Urodeli
Solo quando si scoprì che era sufficiente somministrare dell'ormone tiroideo o far mangiare estratti tiroidei ad
un Axolotl per avviare la metamorfosi, il legame tra le due forme di Urodeli divenne evidente.

L'AXOLOTL
Questo anfibio Urodelo É stato ed É oggetto di studio, non solo per la possibilità di indagare il rapporto tra
ghiandole endocrine e metamorfosi (un processo in gran parte ancora oscuro), ma anche perché le sue cellule
sono gigantesche, quindi facili da studiare. Negli Axolotl, inoltre, può comparire l'albinismo, l'assenza
completa di pigmento, che per di più É geneticamente trasmissibile ai discendenti.

NOTA: LA TIROIDE
E' una tra le ghiandole endocrine del vertebrato più antiche, poiché É presente in tutti, anche nei precursori. Il
suo secreto, od ormone (la tirossina), viene dapprima accumulato all'interno di appositi follicoli, da cui
viene prelevato e messo in circolo quando le circostanze lo esigono. la funzione dell'ormone tiroideo É
complessa, ma coinvolge soprattutto la regolazione del metabolismo, la velocità cioÉ con cui si attuano i vari
processi metabolici in tutte le cellule. Negli animali che compiono la metamorfosi, la tiroide avvia questo
processo e ne controlla il ritmo ed il succedersi delle modificazioni.

L'ADATTAMENTO AL BUIO
Alcune specie di Urodeli si sono adattate a vivere in ambienti poco od affatto illuminati. In queste circostanze
compaiono o scompaiono dei caratteri specifici. Scompare il pigmento della pelle, per cui il corpo assume un
colore giallo rosato dovuto anche al rosso del sangue che scorre nei vasi, si riducono anche molti organi di senso,
tra cui il più evidente É l'occhio. La regressione dell'occhio in queste forme cavernicole ha posto sempre un
grosso problema tuttora non risolto: perché scompare quando l'animale vive nel buio più completo?
Rispondere che ciò dipende dal suo non uso significa rispolverare la vecchia teoria lamarckiana da sempre
considerata errata. Ma quale altra risposta É possibile?

IL PROTEO
Il Proteo, la specie più studiata di anfibio Urodelo cavernicolo, vive nelle acque sotterranee carsiche della
Jugoslavia, ove la lunga evoluzione al buio lo ha reso completamente cieco. Il colore É tipicamente
bianco-grigiastro, solo le branchie sono rosse e rutilanti, ma l'animale non É albino, in quanto se,
progressivamente e lentamente, lo si illumina, il colore ritorna e la pelle acquista un colore marrone-chiaro. E'
evidente che, pur avendo gli occhi atrofizzati, l'animale, o le cellule della sua pelle percepiscono i raggi
luminosi e reagiscono di conseguenza.

22. SALAMANDRE E TRITONI (SALAMANDRIDI, ANFIUMIDI, SIRENIDI).

LE SALAMANDRE
La Salamandra forse É l'anfibio Urodelo più conosciuto. Già il grande naturalista romano, Plinio il Vecchio ne
parlò nella sua "Historia Naturalis", attribuendo all'innocuo animale il potere di spegnere il fuoco, poiché,
essendo della stessa natura, era in grado di dominarlo
Questa credenza venne trasmessa agli arabi ed alla cultura europea medievale e giunse fin quasi al nostro
secolo, un po' modificata, ma nella sostanza ancora fantastica, poiché affermava che era l'unico animale
capace di attraversare indenne il fuoco. Non si riesce a comprendere come una tale sciocchezza possa essere
nata, ma meno ancora si comprende come possa aver resistito per tanti secoli, se non addirittura millenni. La
credulità umana non ha limiti ed É sempre aperta più al fantastico che al reale
Il nostro animale infatti non ha alcun potere magico, É un normale anfibio Urodelo diffuso soprattutto
nell'emisfero nord della terra e la sua caratteristica morfologica più evidente sono i colori sgargianti della
parte ventrale. La colorazione della Salamandra non É mimetica, ossia non cerca di nascondere l'animale
nell'ambiente. Anzi spesso tutt'altro, come nel caso della Salamandra rossa degli Stati Uniti. Ma vi É una
spiegazione possibile a questo fenomeno che rivedremo uguale anche negli anfibi Anuri
Quando la Salamandra É irritata, le ghiandole della sua pelle emettono un secreto biancastro decisamente
tossico ed irritante anche per l'uomo se viene a contatto con parti delicate e sensibili della pelle
Probabilmente le Salamandre non sono un cibo molto appetibile per i predatori ed in questo caso É molto
meglio farsi riconoscere bene per evitare di essere catturati. Così la Salamandra comune quando É
attaccata non può certo difendersi, poiché non ha alcuna arma, ma si limita a mostrare il ventre variamente e
vivacemente colorato, probabilmente per farsi riconoscere, poiché, se l'aggressore ha già avuto
un'esperienza alimentare con una sgradevole Salamandra, certamente non desidera ripeterla.

I TRITONI
Il genere "Triturus" non É meno conosciuto di quello comprendente le Salamandre. Infatti non vi É un
ruscello, fossa, o comunque un ambiente molto umido nell'emisfero nord della terra in cui sia difficile
incontrare un Tritone, ben riconoscibile, specie il maschio, per la cresta che gli orna tutto il dorso. Abbiamo già visto
(capitolo 15) che questo ornamento diviene più evidente nel maschio all'epoca della riproduzione ed É
particolarmente importante per attrarre la femmina e convincerla ad accettare le sue spermatofore. Il Tritone
alpino É forse l'anfibio che si spinge più in alto, poiché lo si può trovare fino a 3000 metri di altezza in ambienti
ove, a causa della temperatura, É già difficile vivere per molti animali più evoluti e specializzati. Ma il nostro
anfibio riesce a compiervi l'intero suo processo vitale, dall'accoppiamento allo sviluppo dell'uovo ed alla
metamorfosi, tutto concentrato nei pochi mesi in cui la temperatura dell'ambiente gli consente di vivere
normalmente.

LA VOGLIA DI DIVENTARE UN SERPENTE


Abbiamo già visto gli Apodi, anfibi senza zampe e con il corpo cilindrico simile ad un lombrico,
perfettamente adatto a strisciare o a insinuarsi nel terreno molle. Il fatto non rimane isolato: anche negli
Urodeli si manifesta questa tendenza ad assumere un corpo serpentiforme ed a ridurre i compiti delle zampe.

L'ANFIUMA
Questo anfibio, che vive nell'America del Nord, può raggiungere la rispettabile lunghezza di un metro e si
muove solo con movimenti serpentini del lungo corpo. Le zampe sono ancora presenti, ma ridotte a moncherini
decisamente inutilizzabili. Forse tra qualche milione di anni saranno scomparse. Il corpo in questi anfibi si allunga
poiché aumenta il numero delle vertebre del tronco (le zampe infatti sono molto distanti tra loro), con un
procedimento quindi diverso da quello visto negli Apodi (nei quali invece si allunga il collo).

I SIRENIDI
Anche questi Urodeli, che posseggono un corpo cilindrico lungo oltre il metro, vivono nell'America del Nord.
I Sirenidi sono anche neotenici, cioÉ, come abbiamo già visto, si possono riprodurre prima di compiere la
metamorfosi. Ai lati della testa infatti posseggono tre ciuffi branchiali, tipici delle larve, ma troppo piccoli per
assicurare una buona ossigenazione del sangue, per cui, come tutti gli anfibi, anche i Sirenidi respirano attraverso
l'epidermide. Le zampe, in questi Urodeli, sono ancora più ridotte: le posteriori sono infatti scomparse assieme
alle ossa del bacino, mentre le anteriori sono presenti, ma molto piccole e forse inutili.
23. GLI ANURI (PIPIDI, DISCOGLOSSIDI, PELOBATIDI).

Dei tre ordini di anfibi viventi, gli Anuri (dalla parola greca che significa "senza coda") sono tra i più evoluti e
meglio specializzati, come abbiamo già visto, per il salto. Sono presenti soprattutto nella fascia tropicale di tutto il
globo e in altre aree, purché ricche d'acqua o di umidità. In genere vivono nell'acqua, come ad esempio le
Rane e le Raganelle, ma alcuni trascorrono la loro esistenza sugli alberi, come i Racoforidi, o sul terreno, come i
Rospi.

ANURI SENZA LINGUA: GLI AGLOSSI


Questo sottordine, considerato il più primitivo degli Anuri, comprende delle specie che, pur avendo compiuto la
metamorfosi e quindi perduto le branchie, non abbandonano mai l'acqua per cui sono fortemente adattate a
quel tipo di ambiente. L'assenza della lingua indica probabilmente un'origine molto antica di questi Anuri.

LO XENOPO LISCIO
La femmina di questo Anuro, fino a pochi decenni fa, era allevata in tutti i laboratori di analisi e ricerca del
mondo; l'animale, infatti, era estremamente sensibile alle tracce di progesterone presenti nell'urina delle
donne anche al primo mese di gravidanza, per cui veniva usato come test biologico per rilevare o meno l'inizio
di una gravidanza. L'iniezione di urina infatti induceva nella femmina lo stimolo a deporre delle uova entro le 24
ore; dopo il test, però, la femmina doveva riposare per alcune settimane prima di essere riutilizzata. Da
qui l'esigenza nei laboratori di centinaia di esemplari per essere sempre pronti ad eseguire il test. Oggi invece
l'anfibio É sostituito dai test chimici molto più rapidi e sicuri, per cui É ormai raro trovarlo in un laboratorio
Lo Xenopo deve il suo nome alla pelle estremamente liscia e viscida, e scivolosa per cui sfugge facilmente
alla presa. Il suo forte adattamento alla vita acquatica É testimoniato anche dalla presenza della linea
laterale che sappiamo essere un organo di senso tipico dei pesci e degli anfibi Urodeli che non abbandona no mai
l'acqua.

LA PIPA
Anche questo Anuro É privo della lingua, ma la sua fama deriva dalla straordinaria abitudine di allevare le uova
sul dorso, inglobate nella pelle (vedi capitolo 15). La Pipa che non É proprio gradevole a vedersi, vive nei
fiumi del Sudamerica ed anch'essa non abbandona mai l'acqua. Il rituale dell'accoppiamento É quanto mai
strano e complicato, soprattutto per trasferire le uova dalla cloaca al dorso della femmina; qui giunte
cominciano a sprofondare nella pelle che si rigonfia attorno ad esse. In breve tempo tutte le uova scompaiono
sotto la pelle in apposite cellette dove si compie non solo l'intero sviluppo, ma anche la metamorfosi; quando
l'animale ha acquisito la stessa forma dell'adulto finalmente si decide a lasciare il suo rifugio e comincia
timidamente a vivere libero. Ma i primi giorni non si allontana molto dalla madre, le nuota attorno tranquillo poiché
non vi É nessuna reazione aggressiva da parte di questa. Il cannibalismo, un fenomeno molto diffuso negli
anfibi, É del tutto sconosciuto nella Pipa; forse vi sono dei segnali tra madre e figli che bloccano questo
comportamento.

GLI ULULONI
Questi rospi posseggono già la lingua, ma anche loro mantengono le abitudini preferibilmente acquatiche degli
Aglossi. Gli Ululoni sono noti per le colorazioni del corpo: mentre il dorso ed i fianchi infatti hanno i classici
colori bruni mimetici, il ventre ha vivaci macchie variegate rosse o gialle. Anche questa colorazione ha il
significato di segnale di riconoscimento. Quando l'anfibio É spaventato non si limita a secernere una
notevole quantità di una sostanza tossica emanante un acre odore, irritante gli occhi e le mucose del naso e
della bocca, ma assume una speciale posizione, come per mostrare i suoi colori ed avvertire il predatore che
conviene stare alla larga.
ROSPI PER CLIMI ARIDI
L'esempio degli "Scaphiopus", un genere di Anuri che vive nelle aride praterie del Nord America, É indicativo
di come sia possibile modellare le proprie abitudini e funzioni in rapporto alle caratteristiche
dell'ambiente. Quando in questi desolati ed aridi territori finalmente piove, tutti gli "Scaphiopus" abbandonano i
loro rifugi sotterranei e si precipitano nelle prime pozze d'acqua che incontrano, ove subito si accoppiano e
depongono le uova
Dopo solo due giorni dalle uova escono i girini che cominciano a nuotare ed a mangiare. Anche la
metamorfosi si compie rapidamente, e verso il dodicesimo giorno dalla deposizione delle uova lo
"Scaphiopus" può uscire dall'acqua e cercarsi un rifugio più sicuro
E' una vera gara a compiere la metamorfosi prima del prosciugamento delle pozze; una gara che non sempre
ha dei vincitori, poiché spesso l'acqua non si conserva fino al dodicesimo giorno e per i girini É un'ecatombe.

UN'ATROCE ABITUDINE
In una specie di "Scaphiopus" denominata Rospo della vanga di Hammond si É instaurata una modalità, per
accelerare la metamorfosi, veramente singolare: dalle uova escono un certo numero di larve che cominciano a
cibarsi, come al solito, di alghe o di quello che incontrano; dopo pochi giorni alcune di queste larve divengono
"cannibali" e cominciano a divorare i fratelli. Questi individui, con una dieta più ricca di proteine e sostanze
pregiate, si accrescono più rapidamente e completano la metamorfosi molto prima di quelli che mantengono
una dieta erbivora. La sopravvivenza della specie viene così assicurata attraverso il sacrificio di alcuni suoi
membri.

24. I ROSPI (BUFONIDI).

Un'altra grande famiglia di Anuri comprende i Bufonidi, da tutti meglio conosciuti con il nome di Rospi. Come
le Salamandre, anche i Rospi sono oggetto di credenze, favole, superstizioni, così le pozioni magiche elaborate
dalle streghe contengono spesso anche parti di Rospo, come le zampe e la pelle. Da molti viene considerato
velenoso, specie l'urina che emette quando viene afferrato con le mani. Il Rospo in effetti É tossico e una specie,
il Rospo marino, É velenosa anche per l'uomo, ma non per l'urina, bensì per il secreto di due grosse
ghiandole chiamate parotidi, che si possono osservare facilmente, come due rilievi ovoidali, subito dietro all'occhio
e sopra alla membrana del timpano dell'orecchio (da cui il nome). L'urina invece É assolutamente innocua
e la sua emissione avviene per un riflesso molto comune a tutti gli animali, e anche all'uomo, quando l'individuo É
in preda ad una forte paura.

IL ROSPO NON AMA L'ACQUA


Il nostro anfibio cerca l'acqua solo quando É il momento della riproduzione. Nella stagione degli amori i
Rospi abbandonano le tane sicure per cercare uno specchio d'acqua sufficientemente grande e profondo
dove incontrare l'altro sesso, accoppiarsi e deporre le uova
Compiuto il rito, i Rospi escono dall'acqua per ritornare nei loro territori di caccia. In questa migrazione,
compiono lunghi viaggi, superano ostacoli naturali, ma in genere riescono sempre a tornare nei loro luoghi
preferiti. Hanno cioÉ una notevole capacità di orientamento che però non É mai stata studiata a fondo. Il
luogo abitato dal Rospo É in genere una cavità umida, nascosta e buia
Questo anfibio, infatti, non ama la luce ed esce dal suo nascondiglio solo di notte, purché l'aria non sia troppo
asciutta. La sua pelle infatti, come in tutti gli anfibi, non É perfettamente corneificata, e l'animale rischia di
rinsecchire per evaporazione. Per questo motivo i Rospi si incontrano più facilmente di notte, quando l'umidità É
più elevata, o meglio dopo un temporale.
UN ANIMALE PREZIOSO
I Rospi sono accaniti cacciatori di insetti, larve, lombrichi, e le specie più grandi come le femmine del Rospo
comune ("Bufo bufo") arrivano ad aggredire anche piccoli roditori. Nonostante queste abitudini da predatori,
i Rospi sono completamente sdentati e inghiottono le prede intere. Per le loro abitudini alimentari, sono tra
gli animali più utili all'uomo: non recano alcun danno sia diretto sia indiretto, mentre distruggono animali spesso,
se non sempre, nocivi. Eppure l'incontro tra un Rospo e l'uomo É sempre funesto per l'animale. Forse la sua
bruttezza (ma É proprio vero poi che É brutto?), forse la fama immeritata di essere velenoso, provocano
sempre il desiderio di ucciderlo a sassate o a bastonate. Cosa per altro facilissima poiché i Rospi si spostano
lentamente e saltano con difficoltà.

IL GIGANTE TRA I ROSPI


Il Rospo marino, diffuso nell'America centromeridionale, É un vero gigante tra i Bufonidi, potendo
raggiungere i 20 centimetri di lunghezza, zampe escluse. Il suo nome non É sinonimo di abitudini marine,
poiché tutti gli anfibi viventi sono di acqua dolce; nessuno, che si sappia, É riuscito a spingersi nei mari.
L'appellativo "marino" deriva invece dalla sua preferenza a colonizzare i fiumi o gli specchi d'acqua in prossimità
del mare, ma sempre di acqua dolce. E' molto noto perché ha l'abitudine di spingersi a cacciare insetti anche in
zone abitate dall'uomo, non temendo neppure di aggirarsi in prossimità delle case per catturare gli insetti che di
notte si affollano attorno alle luci. Vi É anche però un aspetto negativo nel comportamento di questo Rospo,
che forse É alla base del suo coraggio od incoscienza: la ghiandola parotidea può lanciare uno schizzo di veleno
fino a 20 centimetri di distanza, e poiché la sostanza É molto tossica, o velenosa se ingerita, non vi e
animale che non abbia imparato a girare alla larga da questo anfibio.

UN ROSPO PER LE REGIONI ARIDE. E' diffuso in Africa e in Asia il Rospo regolare che si É adattato a
vivere in territori aridi al limite con il deserto. Durante la siccità rimane nascosto in profonde fosse, da cui esce
solo alla stagione delle piogge per un rapido pasto e per l'accoppiamento.

UN MESSAGGIO MISTERIOSO
Vi É un comportamento nei girini di Rospo che lascia stupiti e non si riesce a comprendere come possa
avvenire. Dalle uova nascono centinaia di girini che iniziano a pascolare alghe; in genere preferiscono
rimanere uniti e spostarsi insieme, ma se uno di loro rimane ferito, nel branco si provoca un segnale di fuga che
disperde il gruppo. Si É appurato che non É un segnale ottico o acustico a creare il panico, e neppure sono le
vibrazioni di una lotta; oggi si suppone che vi sia una sostanza nella pelle dei girini che, se viene liberata
nell'acqua a seguito di un trauma, provoca la reazione di fuga e quindi di protezione della specie.

25. LE RANE (RANIDI, RACOFORIDI).

La famiglia dei Ranidi É diffusa in tutta la terra, ovunque vi sia uno specchio d'acqua, un fiume non troppo
impetuoso o anche un'elevata quantità di umidità. Il clima preferito É il caldo torrido, per cui le fasce tropicali sono
particolarmente ricche di questi anfibi Anuri.

LA RANA ESCULENTA
La Rana più comune in Europa prende il nome di esculenta (dalla parola latina che significa "commestibile") per
sottolineare la delicatezza ed il sapore delle sue carni. Questi anfibi infatti rivestono un non indifferente valore
alimentare che si É concretizzato recentemente nella costruzione di appositi allevamenti artificiali, ove
vengono operati degli incroci per ottenere esemplari più grassi e gustosi
Questi allevamenti sono molto redditizi e, poiché siamo appena agli inizi, si può prevedere che in un
immediato futuro si riusciranno ad ottenere razze con cosce grosse e teste piccole, come É già successo per
gli animali che l'uomo ha allevato per le sue esigenze.

UN INCROCIO FELICE
La ricerca zoologica però oggi ha avanzato l'ipotesi che la Rana esculenta non sia una vera specie, ma
derivi dall'incrocio di altre specie; questo animale non sarebbe in grado di riprodursi, o lo farebbe
malamente; inoltre presenta una vasta gamma di colorazioni, per cui É impossibile descrivere la sua livrea tipica.
Che sia o no il frutto di amori illeciti tra specie diverse, rimane il fatto che la Rana esculenta É la forma più
comune di Anuro europeo. Nelle calde notti d'estate il canto dei grilli viene sovrastato dal suo petulante gracidio,
che si arresta solo al sopraggiungere di un pericolo. Si ritiene che il suo canto sia utilizzato non solo come
richiamo sessuale, ma anche come sfida agli avversari: se un maschio sente gracidare, subito si impegna a
rispondere con un grido ancora più forte. Questa sfida sembra rivolta anche verso altri rumori, come il fruscio
di foglie o lo sferragliare di un treno lontano. La Rana esculenta teme infatti soprattutto gli oggetti o gli
individui in movimento. Avvicinarsi ad uno stagno provoca sempre un fuggi fuggi generale di Rane che si
tuffano nell'acqua, ma se si rimane perfettamente immobili, gli animaletti, uno a uno, tornano a galla per poi
arrampicarsi sulle sponde e riprendere il concerto.

LA RANA TORO O CATESBEIANA


E' uno tra gli Anuri più grandi; il solo corpo supera i 20 centimetri di lunghezza, ma la fama ed il nome di questo
anfibio derivano dal suo canto, molto più vicino al muggito di un vitello che al gracidare di una rana. Le Rane
toro sono originarie dell'America del Nord ove vengono apprezzate non solo per le loro carni, ma anche per
le capacità atletiche, essendo protagoniste di gare di salto in lungo
Questa Rana É stata introdotta dall'uomo anche in Europa, soprattutto nelle regioni ricche di risaie, dove a
volte capita persino che finisca nella cronaca dei giornaletti locali. Se infatti viene introdotta in una regione
ove É sconosciuta, con il suo canto (si fa per dire), spaventa non poco gli abitanti del luogo che non esitano a
parlare di fantasmi od altro, ed a volte la stampa, avida di fantastico, ingigantisce l'episodio.

I RACOFORIDI
Vi sarebbero tante altre Rane da descrivere, distribuite un po' su tutti i continenti e con le livree più strane e
variegate, ma il discorso sarebbe lunghissimo. Merita forse citare una famiglia che ha abbandonato l'acqua
per colonizzare stabilmente la chioma degli alberi: i Racoforidi. Questi anfibi, concentrati soprattutto
nell'Africa e nell'Asia, conducono infatti una vita strettamente arboricola, non abbandonando mai le fronde degli
alberi ove conducono l'intero ciclo della loro esistenza. Le estremità delle dita dei Racoforidi sono provviste
di piccole ventose utili per tenersi ben attaccati al viscido fogliame delle umide foreste.

LE RANE CHE VOLANO


Alcune specie di Racoforidi, come la Rana volante di Wallace, sono provviste di zampe con dita molto lunghe
e riunite da un'esile pelle simile alla membrana delle ali dei pipistrelli. Possono così lanciarsi da un ramo all'altro,
e con le zampe e le dita ben distese frenare la caduta o correggere la direzione. Non É un volo però, ma un salto
nel vuoto ed una caduta rallentata e coordinata; É già qualche cosa di diverso del semplice camminare,
strisciare o saltare, ma il vero volo lo inventeranno per primi i Pterosauri, rettili che vissero 150 milioni di anni
fa
Per completare il ciclo di vita sugli alberi i Racoforidi devono anche riprodursi tra i rami. Questo può accadere
grazie alla grande umidità dell'aria nei luoghi abitati da questi anfibi, e al fatto che alcune specie appendono le
uova alle foglie proteggendole entro un grumo spumoso, ove si completa lo sviluppo.
26. I NEMICI NATURALI DELLE RANE E IL MIMETISMO.

I PREDATORI DELLE UOVA E DELLE LARVE


Gli anfibi entrano nella dieta di molti animali; soprattutto le uova e le forme larvali sono particolarmente ricercate
Uova e girini non hanno particolari mezzi di difesa, non sono cioÉ tossici come molti adulti, per cui possono
essere cacciati dai più svariati animali, come insetti (Ditischi, Libellule, Scorpioni d'acqua), pesci (Carpe,
Lucci, Trote), rettili (Bisce, Tartarughe), uccelli (Cicogne, Aironi) e mammiferi (Topi). Come se non bastassero i
nemici di altre classi, anche tra gli anfibi vi sono specie che si nutrono di altri anfibi, come le Rane toro, i Tritoni
e le Rane in genere. Non mancano come abbiamo visto, casi di cannibalismo: i fratelli si divorano tra loro,
i genitori si nutrono delle proprie larve.

IL NUMERO CHE SALVA


Una strage così imponente potrebbe provocare dei disastri irreparabili, cioÉ causare l'estinzione della
specie. Ma in natura il rapporto preda-predatore É sempre in equilibrio; vi É sempre la possibilità che un
certo numero di individui riesca a sopravvivere fino al momento della riproduzione. Gli anfibi affidano le loro
speranze di salvezza all'alto numero di uova e di girini che ogni coppia produce. In alcuni casi limite si possono
contare fino a 10 mila uova deposte da una sola femmina; vi É dunque una larga disponibilità di cibo per
i predatori. E' sufficiente che solo una decina di individui dei 10 mila riesca a raggiungere la maturità
sessuale e a riprodursi per assicurare la sopravvivenza della specie.

I NEMICI DEGLI ADULTI


Gli adulti si difendono meglio; già abbiamo visto nel capitolo 19 che vi possono essere delle ghiandole sulla pelle
il cui secreto irritante scoraggia i predatori. Alcune specie invece possono venire cacciate poiché la loro carne
É commestibile; tra i predatori delle forme commestibili vi sono, oltre agli animali citati prima, anche le volpi e
i ricci e addirittura alcune specie di pipistrelli che localizzano la preda con il loro raffinato sistema di lanciare
suoni dal naso o dalla gola per raccogliere l'eco delle onde sonore con gli ampi padiglioni delle orecchie.

IL COLORE COME ARMA DI DIFESA


Anche gli anfibi, come abbiamo già visto per i pesci, ricorrono ai colori per mimetizzarsi con l'ambiente. I colori
delle Rane sono in genere molto brillanti e vivaci e possono, seppure molto lentamente, cambiare a seconda
delle caratteristiche dell'ambiente. Pur non arrivando ai rapidi cambiamenti di colore del camaleonte, anche tra le
Rane nelle cellule che determinano il colore, sono possibili degli spostamenti di pigmento per adattare il colore
dell'animale a quello dell'ambiente.

IL MIMETISMO
In genere la colorazione della pelle delle Rane imita quella dell'ambiente, così da rendere poco visibile la
sagoma dell'anfibio
Ma vi É anche un altro modo per mimetizzare il corpo che ricorre a forti striature nere. Apparentemente
sembrerebbe che la tinta generale dell'animale non sia mimetica, ma se lo collochiamo nel suo ambiente
naturale, un sottobosco poco illuminato, con zone in ombra e sprazzi di luce, ecco che la sagoma della Rana
scompare, i suoi contorni si perdono nell'ambiente e l'animale non É più visibile.

IL COLORE COME SEGNALE DI PERICOLO


Per le specie tossiche, che per difendersi si affidano al secreto irritante della pelle, non É assolutamente
importante mimetizzarsi; anzi É fondamentale il segnale opposto: farsi cioÉ riconoscere bene
Abbiamo già visto che in questi casi il predatore impara a non cacciare più le specie irritanti, per cui, al
fine di facilitare il riconoscimento di queste specie, il colore della pelle É molto vivace, decisamente in contrasto
con quello dell'ambiente ed É diverso da quello di altre specie di Rane. Il colore in questo caso diviene come
un segnale di pericolo: attenti, cibo avvelenato!

RANE TRASPARENTI E RANE BIANCHE


Le "raganelle di vetro", come la "Centrolenella", presentano la rara possibilità di essere quasi prive di colore per
cui il piccolo corpo É come trasparente e lascia intravvedere tutti gli organi interni
Le rane, ma anche altri vertebrati, possono nascere senza pigmenti, essere cioÉ albine. In questo caso i girini
come gli adulti sono perfettamente bianchi, solo le zone ricche di vasi sanguigni appaiono debolmente rosa.
L'albinismo, che É causato da una mutazione, cioÉ da un errore nel codice genetico, non É eccezionalmente raro
in natura
Ma gli anfibi bianchi hanno una scarsa possibilità di salvezza; essendo troppo visibili, sono facilmente
predati dai nemici naturali
Allevati in cattività possono invece riprodursi e originare una popolazione di individui bianchi.

27. IL DECLINO DEGLI ANFIBI ANTICHI.

Il dominio degli anfibi si estese per tutto il Carbonifero; per oltre 60 milioni di anni, cioÉ, la terra fu popolata solo
da anfibi, grandi e piccoli, carnivori o erbivori, striscianti o saltellanti. Tale fulgore fu possibile grazie alle
condizioni climatiche di quel Periodo, stabili nel caldo-umido costante. Tale ambiente non solo favorì lo
sviluppo di immense foreste, ma rappresentò anche l'ideale habitat per l'anfibio, che non amò, né ama tuttora,
allontanarsi troppo dall'acqua. Se l'ambiente non fosse mutato non vi É nessuna ragione per non pensare
che sostanzialmente le cose non sarebbero cambiate molto; per cui anche oggi la terra sarebbe ancora popolata
prevalentemente da anfibi. Ma la tragedia era oramai nell'aria.

IL DISASTRO
Al termine del Carbonifero, ma ancor più all'inizio del Periodo successivo, il Permiano (circa 280 milioni di
anni fa), il clima cominciò a cambiare. L'umidità si ridusse e la temperatura cominciò a scendere. Si ebbe
allora forse la prima vera glaciazione nella storia della terra. Come se non bastasse, verso la fine dello stesso
Periodo, il clima cambiò ancora: l'aria rimase asciutta, ma la temperatura risalì ed iniziò un periodo
lunghissimo con un clima fermo sul caldo secco. I due avvenimenti furono entrambi funesti per gli anfibi. Nel
Permiano iniziò quindi il rapido declino della classe; gli ordini, uno alla volta, si estinsero; qualcuno, trovando un
rifugio nelle poche oasi ancora accoglienti, riuscì a sopravvivere fino al Trias, come gli Stereospondili; ma il
destino era segnato: nessuno degli anfibi che avevano dominato nel Carbonifero É giunto fino a noi. Le radici degli
anfibi viventi, infatti, sono incerte e tuttora da scoprire.

IL RUOLO DELLE CATASTROFI


Quello che avvenne nel Permiano É definibile come una catastrofe di dimensione mondiale. Valutata in sé,
dovrebbe essere considerata negativamente; nell'ottica invece del processo evolutivo la catastrofe ha un
preciso ruolo costruttivo. Il brusco cambiamento delle condizioni climatiche, infatti, da un lato provoca
l'estinzione delle forme che si erano adattate al clima precedente, dall'altro, nell'area sgombra di forme di vita con
cui competere, dà via libera ad un'altra linea evolutiva, meglio adattata alle nuove condizioni climatiche, che si
espanderà e originerà nuove forme viventi.

DOVE NASCE IL RETTILE. Al termine del Carbonifero, quando ancora erano in piena espansione gli anfibi,
erano già presenti i primi rettili. Come, dove e perché comparvero? Una prima ipotesi, la più antica, ritiene che
nell'ambito degli anfibi siano comparsi accidentalmente ma progressivamente dei caratteri da rettile, che, pur
non favorendo l'animale che li possedeva, non lo sfavoriva, erano come neutri. Quando l'ambiente cambiò, gli
animali con questi caratteri furono selezionati positivamente e si affermarono. Questa ipotesi contrasta
con l'osservazione banale che se un certo carattere non É continuamente selezionato favorevolmente,
rapidamente scompare (vedi gli occhi per gli animali cavernicoli, le zampe per chi striscia)
Un'altra ipotesi, forse più vicina alla realtà, ritiene che, pur essendo il clima del Carbonifero prevalentemente
caldo umido, dovevano esistere alla periferia delle terre emerse anche aree di confine con un clima più
instabile, più tendente all'arido, o variabilmente arido
Le eventuali mutazioni di tipo rettiliano che comparivano nel cuore dell'ambiente favorevole agli anfibi non
venivano premiate dall'evoluzione e sparivano, mentre se le stesse comparivano nelle aree di confine a
clima caldo-arido potevano essere selezionate favorevolmente e conferire all'anfibio la possibilità di spingersi in
ambienti più asciutti ed avviarsi così a divenire un rettile.

28. L'ANFIBIO SI AVVICINA AL RETTILE.

Alla fine del Carbonifero comparvero timidamente i primi rettili, i capostipiti dei protagonisti di uno dei capitoli
più straordinari e avvincenti della storia del vertebrato. Lo studio delle radici dei rettili, per indagare da quali
anfibi siano emersi, non ha ancora fornito dati certi, ma solo indicazioni di massima.

LA "SEYMOURIA", IL MAGGIORE INDIZIATO


Nel Carbonifero e nel Permiano erano abbastanza diffusi anfibi di dimensioni modeste - non superavano il
metro di lunghezza e con una forma simile a quella delle lucertole -, i Seymouriamorfi. Tra questi la
"Seymouria" É stata attentamente studiata per alcune particolarità uniche tra gli anfibi di quel periodo. Innanzitutto,
É certo che era un anfibio poiché doveva attraversare una metamorfosi per diventare adulta. Però aveva
anche caratteristiche scheletriche da rettile, accanto ad altre più tipiche da anfibio ed altre addirittura da pesce
In questi casi, non molto frequenti, i paleontologi parlano di evoluzione a mosaico per la varietà di caratteri
diversi riuniti nello stesso animale. La "Seymouria" É infatti costruita come un mosaico, avendo 2 caratteristiche
da pesce, 18 da anfibio e ben 11 da rettile.

LA "SEYMOURIA" E' ANCORA UN ANFIBIO? I caratteri rettiliani di questo anfibio hanno spinto molti studiosi a
considerarlo un precursore dei rettili. Purtroppo però un più attento e recente esame esclude questa ipotesi.
Innanzitutto la "Seymouria" era in pieno sviluppo quando i rettili erano già comparsi, quindi non fu certamente
questo anfibio a modificarsi in un rettile. Inoltre delle impronte sul suo cranio lasciano supporre la presenza di
una linea laterale, che, come abbiamo visto nel volume di questa collana dedicato ai "Pesci", É un organo di
senso tipico di animali che vivono nell'acqua, quindi in un ambiente inadatto per l'evoluzione dei rettili.

IL PROTAGONISTA E' ANCORA SCONOSCIUTO


Scartata l'ipotesi della "Seymouria" quasi rettile, o sulla strada per diventare rettile, É ripresa la ricerca del
protagonista del passaggio verso la nuova classe, ma a tutt'oggi nulla di nuovo É emerso. La "Seymouria"
però appartiene al più vasto gruppo (o sottordine) dei Seymouriamorfi, nel cui ambito può essere emersa la
specie che, abbandonando l'acqua, si avviò in un'altra direzione evolutiva, acquisendo caratteri specifici di
un animale terrestre come il rettile.

I PRIMI RETTILI
I rettili più antichi, risalenti al Carbonifero, circa 300 milioni di anni fa, vengono chiamati Cotilosauri. La forma del
loro corpo, ancora pesante, ricorda quella degli anfibi; apparentemente solo gli arti sono più tozzi e potenti,
ma il loro modo di camminare era ancora lento e la colonna vertebrale si fletteva a sinistra e a destra con il
movimento tipico degli Urodeli. Questi primi rettili, non molto grandi, mancavano completamente di una
precisa specializzazione, a testimonianza dell'osservazione che solo gli organismi generici hanno la plasticità
necessaria per avviare grandi cambiamenti.

LA CATASTROFE CREATIVA
Osservando questi animali appare evidente anche l'affermazione fatta nel capitolo 27 sulla capacità creativa
delle catastrofi. Questi primi rettili, sia per le dimensioni modeste, sia per la loro scarsa specializzazione,
non erano certamente in grado di competere con gli anfibi, di scacciarli dal loro ambiente. Gli anfibi del tardo
Carbonifero erano già troppo evoluti, troppo specializzati, e ben adattati alle caratteristiche dell'ambiente per
lasciarsi scalzare o soppiantare da forme rettiliane così poco competitive. Solo con la catastrofe degli anfibi
dovuta a rapidi cambiamenti di clima, i Cotilosauri ebbero la possibilità di affermarsi ed espandersi, per poi
dare origine alla grande e fortunata classe dei rettili.

NOTA: LE RICOSTRUZIONI
Quando ci si trova di fronte ad uno scheletro di qualche animale oggi non più vivente, se si vuole conoscerlo di
più, occorre ricostruirlo, aggiungendo alle ossa le masse muscolari e la pelle. Questo lavoro non É affidato alla
sola fantasia del ricercatore; i muscoli infatti, quando si inseriscono sul pezzo osseo, lasciano delle particolari
sporgenze, tubercoli, creste; da qui si può risalire alla quantità di muscoli presenti e quindi si può ricostruire
razionalmente l'animale
Però vi É sempre un certo margine di discrezionalità che segue le idee preconcette del costruttore. Così, nel
caso della "Seymouria", poiché i primi ricercatori la consideravano quasi un rettile, la ricostruzione portò
a disegnare un animale somigliantissimo ad un rettile, come si può osservare nello schizzo qui sopra (...).

NOTA: CARATTERISTICHE DEI PROTAGONISTI


E' un fenomeno che abbiamo già visto in altre occasioni, il protagonista di un grande passaggio evolutivo,
come É appunto quello dall'anfibio al rettile, deve avere un'organizzazione sufficientemente generica e scarsa
specializzazione. Sono queste infatti le condizioni essenziali per mantenere quella plasticità evolutiva necessaria
a nuovi adattamenti. Invece un organismo che si É specializzato per un preciso compito prosegue lungo questa
via acquisendo degli adattamenti sempre più mirati. In altri termini, più ci si specializza più ci si continua a
specializzare, perdendo di vista altre tendenze evolutive e con un inevitabile destino funesto quando poi le
condizioni ambientali mutano, rendendo inutili o dannose tali specializzazioni. Molti tra gli anfibi del Carbonifero
potrebbero essere dei protagonisti, poiché, in genere, erano animali poco o per nulla specializzati.
CLASSE DEGLI ANFIBI VIVENTI.

I numeri accanto ai nomi rinviano ai capitolio del volume.

ORDINE APODI
Famiglia CECILIDI: Specie Cecilia 20, Geotripete di Seraphin 20
Famiglia ITTIOFIDI: Specie Ittiofido glutinoso 20.

ORDINE URODELI
Famiglia CRIPTOBRANCHIDI: Specie Salamandra del Giappone 21
Famiglia AMBISTOMIDI: Specie Salamandra marmorata 17, Salamandra tigre 21, Axolotl 21
Famiglia PROTEIDI: Specie Proteo 21
Famiglia SALAMANDRIDI: Specie Salamandra gialla e nera 13-22, Salamandrina dagli occhiali 22,
Tritone crestato 15, Tritone alpino 22, Tritone punteggiato 16
Famiglia PLETODONTIDI: Specie Salamandra rossa 22
Famiglia ANFIUMIDI: Specie Anfiuma dalle tre dita 22
Famiglia SIRENIDI: Specie Sirena del fango 22.

ORDINE ANURI
Famiglia PIPIDI: Specie Xenopo liscio 23, Pipa 15-23
Famiglia DISCOGLOSSIDI: Specie Rospo ostetrico 15, Ululone 23
Famiglia PELOBATIDI: Specie Pelobate fosco 14-18, Rospo dalla vanga di Couch 23
Famiglia BUFONIDI: Specie Rospo comune 14-15-19-24, Rospo marino 16- 24, Rospo regolare 24, Rospo del
Colorado 19
Famiglia ILIDI: Specie Raganella 13-16-18-26, Phyllomedusa helenae 18, Agalychnis 26
Famiglia RANIDI: Specie Rana esculenta 13-16-25, Rana temporaria 13- 14, Rana leopardo 18, Rana toro 17-
25 Rana golia 26
Famiglia DENDROBATIDI: Specie Fillobate bicolore 15, Dendrobates granuliferus 19, Dendrobate dorato 26,
Platymantis boulengeri 26
Famiglia RACOFORIDI: Specie Iperolio africano 17, Rana volante di Wallace 25, Chiromantide xerampelina
25, Megalixalus 26
Famiglia MICROILIDI: Specie Testabreve punteggiato 14
Famiglia CENTROLENIDI: Specie Centrolenella albomaculata 26
Famiglia ATELOPODIDI: Specie Atelopo di Zetek 26.
Parte 3
I RETTILI CONQUISTANO LA TERRA.

1. I RETTILI.

UN ANIMALE CALUNNIATO
Vi sono parole che hanno un fascino sinistro, che evocano nella nostra mente immagini repellenti, tramandate
dalla letteratura e dal linguaggio popolare. La parola rettile É una di queste: deriva dal latino "reptilis", che
significa "strisciante", e viene usata per sottolineare l'abiezione, la non sincerità, la pericolosità nascosta e
subdola, poiché per noi, in genere, il rettile É un animale viscido e strisciante, pronto a scattare ed aggredire
senza preavviso. Questo volume non sarà certo in grado di modificare l'opinione comune, ma cercherà
almeno di rendere giustizia a una grande classe di vertebrati protagonista di avvenimenti straordinari e avvincenti.
Innanzitutto il rettile non É assolutamente viscido, la sua pelle É sempre asciutta, a volte aspra e corrugata come
nei coccodrilli e nelle tartarughe, a volte liscia e delicata come nei serpenti. Se É vero inoltre che molti rettili
strisciano, É non meno vero che i serpenti sono una minoranza rispetto a quelli che si muovono con altri metodi,
a volte anche eleganti ed aggraziati, come le lucertole. Ma la vera gloria dei rettili ha ben altre e più
importanti motivazioni.

I PRIMI VERI VERTEBRATI TERRESTRI


Innanzitutto i rettili furono i primi vertebrati a liberarsi dalla schiavitù dell'ambiente acquatico per vivere e
riprodursi sulle terre emerse, anche in ambienti aridi. Non fu un avvenimento di poco conto, anzi l'adattamento
alle nuove condizioni di vita fu difficile e complesso, ma, una volta raggiunto, rappresentò la struttura di base
su cui non solo fu costruita la classe dei rettili, ma anche le classi da questa derivate.

IL RETTILE: UN'IMPORTANTE MATRICE EVOLUTIVA


Infatti dai rettili, in particolari circostanze che avremo modo di vedere più avanti, derivarono le due classi di
vertebrati oggi dominanti sulla terra: gli uccelli e i mammiferi. Questo dato storico sfugge alla sensibilità del
senso comune: noi non riusciamo a vedere, in una colomba che vola o in un cavallo che corre, il rettile che li ha
generati, e tendiamo a rifiutare la realtà del processo evolutivo, per affermare l'indipendenza delle tre classi. Ma
lo studio della lunga storia dei rettili ci permette di analizzare con cura proprio il fenomeno "evoluzione" quando
questa si esprime con grandi cambiamenti spettacolari, chiamati processi di "macroevoluzione". Come prova
classica dell'evoluzione si cita sempre la storia del cavallo, o meglio della zampa del cavallo, che da 3 o 4 dita
che poggiavano sul terreno si É ridotta a un solo e potente dito, adattato alla corsa. Ma questo avvenimento,
pur importante per comprendere il processo evolutivo, É ben poca cosa rispetto alle grandi modificazioni insorte
nella storia del rettile e procedenti in direzioni diverse e con adattamenti specifici. In conclusione se vi É
una classe ove É possibile studiare il processo evolutivo, le sue "leggi", la sua alta plasticità, il destino delle
diverse forme, questa É proprio quella dei rettili.

IL GRANDE DOMINIO
I rettili inoltre meritano tutto il rispetto che si deve ad un nobile decaduto. Oggi quelli viventi rappresentano
infatti il residuo del grande impero che questi vertebrati instaurarono sulla terra e mantennero a lungo,
vincendo la concorrenza di nuove classi emergenti
Nacquero infatti nel tardo Carbonifero, circa 300 milioni di anni fa, si affermarono con una prima linea evolutiva
nel Permiano, 280 milioni di anni fa, ma esplosero con migliaia di forme diverse per tutta l'Era Secondaria (da
225 a 65 milioni di anni fa), con adattamenti alla corsa, al nuoto, al volo, al regime erbivoro e carnivoro; con
taglie minute, non superiori a quelle dei piccioni, e forme colossali, come gli enormi dinosauri erbivori. Per tutta
l'Era Secondaria non vi era un angolo della terra che non fosse saldamente occupato da un rettile.

LA LORO ESTINZIONE
Questa classe fu inoltre protagonista di un avvenimento, forse eccessivamente pubblicizzato dalla stampa
di divulgazione, ma che colpisce l'attenzione per la spettacolarità e il mistero che lo circonda: 65 milioni di
anni fa la stragrande parte dei rettili dominatori dell'Era Secondaria scomparve misteriosamente dalla scena
Sull'ecatombe dei rettili, si É scritto molto in passato e si scriverà ancora nel futuro: ancor oggi non sappiamo
cosa realmente accadde.

UN GRAVE ERRORE
Fino a non molto tempo fa i rettili viventi venivano presi a modello per spiegare le caratteristiche delle forme
che vissero nell'Era Secondaria: oggi questo grossolano errore É stato finalmente corretto, riconoscendo ai
rettili antichi un'organizzazione anatomica e funzionale molto più complessa ed avanzata dal punto di vista
evolutivo. In particolare i dinosauri sono oggi attentamente studiati, e le sorprese da queste indagini non sono
mancate, come vedremo con maggiore dettaglio nel volume di questa collana intitolato "Dinosauri e Uccelli". In
conclusione la fama sinistra dei rettili e la relativa tendenza ad ignorarli o a trascurarli non ha alcuna
giustificazione; questi vertebrati hanno avuto un ruolo molto importante nella nostra storia e meritano adeguata
attenzione.

2. PER ESSERE RETTILI: L'EMBRIONE E LA PELLE.

.UNA DIFFERENZA D'AMBIENTE


Guardando una salamandra (un anfibio) e una lucertola (un rettile), il problema di far derivare un rettile da un
anfibio sembrerebbe di facilissima soluzione: i due animali hanno la stessa forma e lo stesso modo di
camminare, anche se la lucertola É più veloce e scattante; entrambe poi vanno a caccia di piccoli insetti per
nutrirsi. Solo l'habitat dei due animali É diverso: tra le erbe umide e nei fossi le salamandre, nei luoghi sassosi
e assolati le lucertole. Quest'ultima osservazione, che superficialmente appare poco importante, É invece alla
base delle profonde differenze che separano l'organizzazione di organi, apparati e funzioni dei due vertebrati.

UN PASSAGGIO DIFFICILE
Come abbiamo visto nel volume sugli "Anfibi", fu relativamente facile far derivare un anfibio da un ripidista:
quello strano pesce del Devoniano che respirava aria aveva già le basi anatomiche per diventare un
anfibio. Ma per il passaggio dall'anfibio al rettile purtroppo le cose sono diverse. All'anfibio mancano gli
elementi che possono originare un vertebrato capace di vivere - dalla nascita alla morte - lontano dall'acqua:
si deve costruire "ex novo", oppure modificare profondamente la struttura dell'anfibio.

IL PROBLEMA: RIPRODURSI LONTANO DALL'ACQUA


I pesci e gli anfibi, per riprodursi, depongono le uova nell'acqua, e, sempre nell'acqua, si compie l'intero
sviluppo, dall'embrione all'individuo adulto. Infatti le cellule che compongono l'embrione sono tutte vive,
anche le più superficiali, perché debbono continuamente dividersi, accrescersi, formare le diverse parti del
corpo dell'animale. Inoltre, nelle prime fasi di vita, queste cellule traggono direttamente dall'acqua l'ossigeno per le
loro necessità. Ma un animale che vuole liberarsi dall'obbligo di vivere vicino all'acqua deve escogitare un
espediente per far sviluppare l'embrione "dentro" l'acqua, ma "lontano" dall'acqua. Sembra una contraddizione,
un problema insolubile, ma i rettili, per la prima volta nella storia dell'evoluzione, lo risolvono.

LA SOLUZIONE: UN UOVO NUOVO


I rettili sono i primi vertebrati a deporre le uova sulla terraferma, in nidi accuratamente preparati e a volte
anche custoditi dai genitori. Le uova, simili a quelle degli uccelli, sono provviste di un guscio calcareo, duro
ma poroso, che protegge l'embrione e contemporaneamente gli permette di respirare. All'interno dell'uovo
c'É la grande novità: molto precocemente l'embrione viene avvolto in una membrana che lo racchiude in una
celletta piena d'acqua, l'"amnios", che ricostruisce artificialmente l'ambiente acquatico necessario allo
sviluppo dell'embrione. Questo perciò si trova "dentro" l'acqua, ma l'uovo É deposto "lontano" dall'acqua; il
problema É risolto e la contraddizione É superata. Nell'uovo del rettile, poi, vi É anche il "sacco vitellino"
contenente sostanze altamente nutritive necessarie alla crescita dell'embrione; vi É inoltre l'"allantoide"
utilizzato per la respirazione e per raccogliere i prodotti di rifiuto degli organi renali dell'embrione
Con queste tre nuove scoperte, che correderanno anche l'uovo degli uccelli e dei mammiferi, l'embrione
compie l'intero sviluppo, al termine del quale, perfettamente formato, sfonda il guscio e inizia una vita
indipendente da adulto.

IL PROBLEMA: NON "PERDERE" ACQUA


Un anfibio allontanato dal suo ambiente naturale ed esposto all'aria si essicca rapidamente e muore. La sua
pelle infatti É formata da cellule vive, "nude", che fanno evaporare l'acqua contenuta nel suo corpo. Anche il
rettile adulto deve affrontare questo problema e trovare il modo di risparmiare ogni molecola della preziosissima
acqua che, dall'interno, permette al suo corpo di vivere.

LA SOLUZIONE DELLA PELLE


La composizione dei diversi strati della pelle di un rettile É molto complicata, ma, semplificando, si può dire
che esiste uno strato più in profondità composto di cellule vive che si suddividono continuamente
creando nuove cellule. Queste salgono lentamente in superficie e via via che invecchiano producono una nuova
molecola, la "cheratina", la stessa sostanza che forma, ad esempio, le nostre unghie. Quando la cellula
muore, rimane solo una laminetta di cheratina. Queste laminette, appiattite e strettamente collegate tra loro,
formano lo strato esterno della pelle del rettile, duro e impermeabile, il cosiddetto strato corneo, che blocca
ogni scambio d'acqua tra l'ambiente e le cellule sottostanti. Oltre a impedire l'evaporazione dell'acqua, lo
"strato corneo", quando É molto spesso, forma una protezione contro gli urti dell'ambiente esterno. Ecco come
hanno origine le grosse squame dei coccodrilli e quelle sottili dei serpenti - dalle quali si ricavano scarpe, cinture,
borsette, eccetera - o le squame compatte delle tartarughe - con cui si producono pettini, montature e altri
oggetti di pregio.

LA MUTA
Ma avere il corpo ricoperto da uno strato di sostanza cornea presenta anche un inconveniente: il corpo non può
accrescersi perché lo strato corneo non É elastico ma estremamente rigido. Il problema viene risolto in due
modi diversi
Nei coccodrilli e nelle tartarughe le squame si accrescono progressivamente con la formazione di
nuova sostanza cornea che si aggiunge "alla periferia". Il corpo può così aumentare di dimensioni seguendo il
progressivo aumento della grandezza delle squame. Le lucertole e i serpenti risolvono il problema in
maniera più spettacolare e interessante. Quando il vecchio involucro corneo diviene troppo stretto questi
animali se lo tolgono, né più né meno come si toglie un vestito, e ne costruiscono uno nuovo, più largo. Il
fenomeno, chiamato "muta", É poco appariscente nelle lucertole perché la pelle si stacca a brandelli, mentre nei
serpenti si stacca per intero e si sfila dalla parte della coda.
NOTA: VENDER CARA LA PELLE
Dalla pelle dei rettili si ricavano molti oggetti d'uso comune di qualità pregiata e a costi elevati. Ad
esempio per la pelle di coccodrillo si richiede l'allevamento di un gran numero di esemplari, da uccidere in
giovane età per avere pellami a squame piccole.

3. PER ESSERE RETTILI: IL RENE E IL POLMONE.

IL PROBLEMA: RISPARMIARE L'ACQUA COI RENI


Un organismo animale perde acqua anche attraverso un'altra via: il rene, un organo dell'apparato urinario.
Infatti dalla trasformazione delle proteine che servono a nutrire un essere vivente, secondo un processo di
ricambio che viene chiamato metabolismo, si ottengono anche dei prodotti di scarto, le molecole di Azoto, che
devono essere eliminate perché dannose all'organismo. Questo compito É affidato al rene che produce urina
nella quale sono disciolte le molecole azotate
In particolare nei pesci e negli anfibi allo stato larvale il prodotto di scarto che contiene le molecole azotate É
l'"ammoniaca". Questo composto, molto tossico, nel rene viene diluito in una grande quantità d'acqua e poi
eliminato. Ma un organismo animale che vive lontano dall'acqua, e che deve risparmiarla, non può adottare
questo sistema.

LA SOLUZIONE DEGLI ANFIBI ADULTI


Una prima soluzione al problema era stata trovata dagli anfibi adulti, che dovevano affrontare anche la vita sulla
terraferma: il prodotto di scarto del loro metabolismo contenente molecole azotate non É più l'ammoniaca ma
l'"urea", un composto molto meno tossico che può essere eliminato anche con poca acqua.

LA SOLUZIONE NEI RETTILI


I rettili, costretti a vivere anche molto lontano dall'acqua, trovarono una soluzione più radicale: il prodotto
di scarto del loro metabolismo azotato É l'"acido urico", ancor meno tossico dell'urea, che può essere eliminato
sotto forma di cristalli mescolati alle feci.

IL RENE DEI PESCI E DEGLI ANFIBI


Come abbiamo visto, per eliminare i prodotti del metabolismo azotato esiste un apposito organo dell'apparato
urinario, il rene. Nei pesci e negli anfibi esso si chiama "mesorene" e svolge il suo compito in maniera
perfetta, ma poiché il problema del risparmio idrico per questi animali non esiste, esso spreca una grande
quantità d'acqua: tutta quella che ritiene necessaria.

IL RENE NEI RETTILI


I rettili, come abbiamo visto, debbono produrre una urina (contenente anche lo scarto del metabolismo azotato)
particolarmente concentrata, o addirittura semisolida. Ecco dunque che nella storia dell'evoluzione si presenta
una nuova esigenza. Di preferenza, in questi casi, l'evoluzione sceglie un metodo che modifica gli organi già
esistenti per adattarli al nuovo compito. Questa volta invece il metodo scelto É nuovo e rivoluzionario. Il vecchio
mesorene dei pesci e degli anfibi, ancora presente e funzionante nei rettili allo stato embrionale, É
semplicemente abolito in quelli adulti e sostituito da un rene del tutto nuovo, il "metarene". Esso compie tutte
le funzioni del suo predecessore, ma in più sa risparmiare l'acqua riassorbendola dall'urina, e rendendo
quest'ultima molto concentrata.
L'INTESTINO E LA CLOACA
Anche attraverso l'intestino si può perdere acqua. Le feci nei pesci e negli anfibi hanno sempre un alto contenuto
di questo liquido, la cui dispersione deve essere bloccata. La soluzione al problema questa volta É
semplice: l'ultimo tratto dell'intestino posteriore, molto corto nei pesci e negli anfibi, diviene più lungo nei rettili e
le feci che vi transitano vengono progressivamente disidratate. Ma non basta: negli anfibi e nei rettili l'intestino
non si apre direttamente all'esterno, ma in una camera, chiamata "cloaca", in cui convergono anche i dotti
provenienti dal rene ed i gonodotti. Nella cloaca continua l'assorbimento di acqua sia dalle feci, sia dall'urina,
perciò il prodotto finale e molto povero di acqua, quasi solido.

IL POLMONE
Il polmone degli anfibi É un sacco a pareti quasi lisce e la sua funzionalità É molto limitata, perciò deve
essere affiancato dalla respirazione attraverso la pelle e attraverso la mucosa della bocca
Nei rettili però questo non É possibile; il grosso strato di sostanza cornea, che si forma sulla pelle per
impedire l'evaporazione dell'acqua, blocca anche qualsiasi scambio gassoso. Perciò nella nuova classe il
polmone deve rispondere da solo alle esigenze della respirazione. Tra i rettili dunque troviamo ancora dei
polmoni a forma di sacco, come nei serpenti e nelle lucertole, ma già con la parete interna più rilevata e
suddivisa in piccole camerette che aumentano la superficie respiratoria. Nelle tartarughe e nei coccodrilli il polmone
É più complicato, con un bronco principale che attraversa tutto l'organo, il "mesobronco", ma con aperture
che immettono in ampie camere respiratorie.

NOTA: IL METABOLISMO AZOTATO


Il metabolismo, o ricambio, É un processo molto complicato, in base al quale negli organismi viventi
avvengono delle trasformazioni biochimiche ed energetiche. In particolare l'energia chimica degli alimenti si
trasforma in energia (che fa accrescere, o mantiene, la sostanza propria di ogni organismo animale), in calore, in
movimento
Da questa trasformazione però si ottengono anche dei "rifiuti", dei composti chimici semplici che vanno
eliminati. Il metabolismo azotato prevede appunto l'eliminazione dell'Azoto, dannoso per l'organismo animale.
Ad esempio le molecole organiche delle proteine, che contengono l'Azoto, vengono "demolite", cioÉ
scomposte, in anidride carbonica, in acqua e in nuove molecole contenenti anche Azoto, come l'ammoniaca
oppure l'urea, oppure l'acido urico
L'"ammoniaca" É prodotta da molti pesci e dagli anfibi prima della metamorfosi; l'"urea" É prodotta dai
mammiferi, dai selaci e dagli anfibi dopo la metamorfosi; l'"acido urico" É il prodotto espulso dai rettili e dagli
uccelli.

4. PER ESSERE RETTILI: IL CERVELLO E IL MOVIMENTO.

IL CERVELLO E GLI ORGANI DI SENSO


E' opportuno citare le caratteristiche principali del cervello dei rettili. Esso É formato di varie parti di origine più
o meno antica e con compiti diversi. Procedendo dalla zona posteriore, incontriamo il "midollo allungato" che
presiede alla sensibilità generale ed al movimento della testa, poi il "cervelletto" collegato tra l'altro al
problema dell'equilibrio, poi il "mesencefalo" ove sono proiettate le immagini provenienti dalla retina dell'occhio, poi
il "diencefalo" che presiede a tutte le funzioni vegetative, ed infine il "telencefalo" che nei primi vertebrati riceve
le informazioni olfattorie, ma dai rettili ai mammiferi assume progressivamente anche il controllo generale
dell'attività nervosa dell'animale e diverrà il cervello "vero" dell'animale. Dall'anfibio al rettile il cervello aumenta
in dimensioni, mentre acquista importanza un'area nervosa che diverrà fondamentale nei mammiferi: la
"corteccia del telencefalo". Questa però non É uguale in tutti i rettili, anzi si assiste ad un fenomeno curioso, un
po' difficile da spiegare: il telencefalo dei coccodrilli É molto simile a quello degli uccelli, mentre quello delle
tartarughe si avvicina di più a quello dei mammiferi. Ovviamente non si vuole affermare che la nostra classe
derivò dalle tartarughe, ma questa somiglianza può essere dovuta all'estrema antichità sia di quei rettili
che delle nostre origini.

LO SCHELETRO
I rettili viventi (ben più piccoli dei loro colossali antenati dell'Era Secondaria) sono più grandi degli anfibi, e
quindi hanno uno scheletro più potente e meglio ossificato, ma in sostanza le caratteristiche di base delle
due classi sono simili. Differisce solo il numero delle vertebre sacrali su cui si articola il bacino: negli anfibi É
una sola, nei rettili sono due. Il cranio, che richiede un discorso complesso e che determina i criteri di
classificazione, verrà trattato più avanti.

COME SI MUOVONO
Il modo di muoversi dei rettili rimane sostanzialmente inalterato rispetto a quello degli anfibi urodeli, come i
tritoni e le salamandre (si veda in questa collana il volume sugli "Anfibi"). Il rettile solleva e fa avanzare una
sola zampa per volta, mentre le altre tre rimangono ferme sul terreno. Anche la sequenza del movimento É
ancora primitiva: ad esempio avanza l'anteriore destro, seguito dal posteriore sinistro; poi avanza
l'anteriore sinistro, seguito dal posteriore destro. Ciò provoca una forte torsione della colonna vertebrale e
un'oscillazione laterale della testa e imprime all'animale il moto ondulatorio tipico dei serpenti. E' un'andatura
decisamente primordiale: ci vorrà ancora del tempo per scoprire la corsa al galoppo o al trotto dei mammiferi.

UN'INVENZIONE IMPORTANTE: LA STAZIONE ERETTA


Molto precocemente però alcuni ordini di rettili dell'Era Secondaria si alzarono in piedi ed assunsero la stazione
eretta, camminando solo sulle zampe posteriori. Così quelle anteriori, libere dalle esigenze del movimento,
poterono essere usate per altri compiti. L'accorgimento fu subito premiato: molte specie di dinosauri adottarono la
stazione eretta, per i vantaggi che comportava, non ultima la possibilità di correre più velocemente. Ma con la
morte dei dinosauri, 65 milioni di anni fa, scomparve anche questa nuova andatura e i rettili oggi viventi
continuano a muoversi su quattro zampe; solo alcune famiglie di sauri sono capaci di compiere una breve
corsa con gli arti posteriori, ma ritornano poi subito nella classica posizione a quattro zampe. La stazione
eretta sarà poi reinventata dai mammiferi, ma da pochi ordini, tra cui il nostro, i primati.

DIFFUSIONE
Nell'Era Secondaria, quando il clima su quasi tutte le terre emerse era sostanzialmente stabilizzato sul
caldo-secco, i rettili erano diffusi dappertutto. Oggi il clima É molto più vario e di conseguenza anche la
distribuzione dei rettili non É uniforme, poiché questi animali non sanno termoregolarsi (cioÉ la temperatura del
loro corpo É influenzata dall'ambiente esterno) e generalmente devono vivere in climi caldi o temperati non
inferiori ai 10-15 gradi centigradi. La gran parte delle famiglie infatti É concentrata nelle zone tropicali e
subtropicali, e più ci si allontana da queste aree, più calano i rettili. Solo la Lucertola vivipara ed il Marasso
sono presenti ad esempio nella Scandinavia in prossimità del circolo polare artico; mentre la Groenlandia,
l'Islanda e l'estrema Antartide sono assolutamente prive di rettili.

5. LA CLASSIFICAZIONE DEI RETTILI.

COME CLASSIFICARE
Classificare le forme viventi, animali e piante, secondo un criterio logico É importante se si vuole mettere un po'
di ordine nella babele di forme e funzioni diverse. I metodi possono essere diversi ed ispirarsi a fattori
comuni: così un filatelico può riunire i francobolli per il tema che questi illustrano - ad esempio animali,
piante, astronautica - oppure per la nazione che li ha emessi, oppure per la forma - triangolari, quadrati,
rettangolari. In questo caso ogni criterio É buono, più o meno logico e razionale, ma risponde a valutazioni
personali
Per gli animali il discorso É più complesso: si potrebbe scegliere di classificarli secondo la loro
specializzazione e riunire ad esempio tutti quelli che volano o tutti quelli che nuotano, o strisciano. Ma questo
metodo era già stato criticato dal filosofo greco Aristotele, che aveva riconosciuto nei delfini una natura non da
pesci, ma da mammiferi per il corpo sempre caldo e per la presenza di ghiandole mammarie. Da allora É
passato molto tempo e i criteri si sono raffinati. In particolare, nel secolo scorso, con la scoperta e la
descrizione di centinaia e centinaia di rettili antichi, nacque anche il problema di trovare un metodo di
classificazione, che tenesse conto non tanto delle somiglianze esterne tra i vari animali, quanto dei loro
rapporti di parentela e della loro storia evolutiva.

LE FINESTRE DEL CRANIO


Molti criteri furono proposti, ma quello che si affermò, e che viene tutt'ora utilizzato, prende in considerazione
le finestre sulle due pareti laterali del cranio. Queste finestre, dette "finestre temporali", possono essere
presenti o assenti. Quando ci sono, sono collocate in maniere diverse rispetto alle ossa del cranio. Lo scopo di
queste finestre non É chiaro; forse servono ad alleggerire la parete del cranio, forse consentono l'inserzione di
muscoli. Di certo sappiamo solo che compaiono in diverse linee evolutive con caratteristiche diverse. Da
questa osservazione nasce il criterio di base per classificare tutti i rettili, viventi e fossili (si vedano anche le
due pagine iniziali e finali di questo volume).

GLI ANAPSIDI
Sono i rettili più antichi. Il loro cranio É formato da una parete ossea continua, "senza" finestre temporali.
Appartengono agli anapsidi i cotilosauri - i primissimi rettili comparsi sulla terra, oggi estinti - e i cheloni, di
cui fanno parte tartarughe estinte e tartarughe viventi.

I PARAPSIDI
Questo gruppo di rettili, con "una" finestra "quasi alla sommità" del cranio, comprende animali perfettamente
adattati alla vita nei mari, gli ittiosauri, molto simili ai delfini. Oggi i parapsidi sono tutti estinti.

GLI EURIAPSIDI
Hanno una finestra collocata un po' "più in basso" e "più ampia" rispetto a quella dei parapsidi. Anche
questi rettili presentano un adattamento alla vita acquatica, ma con forme e dimensioni eccezionali. I
plesiosauri, ad esempio, assomigliavano a voluminose giraffe con un lungo collo e gli arti trasformati in pinne.
Anche gli euriapsidi sono tutti estinti.

I SINAPSIDI
Questo importante gruppo di rettili ha "una" finestra posta "ancora più in basso" rispetto a quella dei parapsidi e
degli euriapsidi. In un ramo dei sinapsidi, quello dei rettili terapsidi, la finestra É del tutto simile a quella dei
mammiferi. Infatti da loro prese origine la nostra classe, come avremo modo di vedere. Tutti i sinapsidi sono
estinti.

I DIAPSIDI
Hanno "due" finestre, sulla parete laterale del cranio. Essi furono i protagonisti della grande espansione dei
rettili durante l'Era Secondaria e da loro presero origine due linee evolutive che sono giunte fino a noi, i
serpenti e i sauri. Alcuni diapsidi, però, gli arcosauri tecodonti, fecero anche una nuova scoperta. Il dente, che
prima era solo appoggiato all'osso, con loro fu saldamente conficcato nell'osso stesso, in un'apposita cavità (vedi
capitolo 26). Il nuovo impianto si rivelò efficacissimo. Dagli arcosauri tecodonti sorsero infatti i dinosauri, che
dominarono tutta l'Era Secondaria e da questi presero origine anche gli uccelli. Degli arcosauri tecodonti oggi
rimangono in vita i coccodrilli.

6. IL TEATRO DEL DEBUTTO DEI RETTILI.

CLIMA E FORESTE
Come per ogni grande gruppo di animali, anche per i rettili ci si chiede da dove derivino. La successione dei
fossili É chiarissima: prima della comparsa dei primi rettili, avvenuta nel tardo Carbonifero, la terra
godeva di un clima caldo-umido costante che aveva favorito lo sviluppo di immense foreste costituite da alberi
completamente diversi dagli attuali. I licopodi e gli equiseti superavano anche i 30 metri di altezza, le felci
raggiungevano i 10-15 metri, ma gigantesche fra tutti erano le cordaitali con i loro 40 metri di altezza. Questi
grandi alberi crescevano molto rapidamente, però si abbattevano al suolo al più piccolo uragano per la debole
struttura del loro fusto. Ma la facilità con cui questi giganti crollavano era compensata dalla rapidità di
sviluppo di nuovi esemplari. Così si creava un sottobosco ricco di sostanze organiche in decomposizione tra
cui brulicava la vita. Questo ambiente diede origine tra l'altro agli enormi banchi di carbone che tutt'ora
sfruttiamo per ricavare l'energia solare intrappolata dalle piante di quel periodo.

IL DOMINIO DEGLI ANFIBI


Tra le foreste del Carbonifero si svilupparono e si espansero i primi vertebrati che erano usciti dall'acqua, gli
anfibi. Il clima umido e caldo favorì la loro organizzazione: conquistarono rapidamente il dominio dei
sottoboschi e si diffusero su quasi tutta la terra con forme anche gigantesche, lunghe 4-5 metri. In questo
ambiente fecero la loro comparsa i primi rettili, i primi vertebrati capaci di vivere lontano dall'acqua e di superare
le gravi limitazioni dell'anfibio che É costretto a riprodursi in acqua e a non allontanarsene troppo. Chi furono gli
anfibi che originarono i rettili e come avvenne questo passaggio?

IL PROBLEMA DELL'ORIGINE DEI RETTILI


A chiusura del volume di questa collana dedicato agli "Anfibi" si É esaminato uno dei maggiori indiziati di
questo passaggio, la "Seymouria", che riunisce in sé aspetti da pesce, da anfibio e da rettile; ma le
ricerche più recenti tendono ad escluderla dalla galleria degli antenati dei rettili. Tutt'al più si può considerarla
rappresentante di un ordine di anfibi che, per la complessità e varietà dei caratteri, può aver dato origine al
nuovo vertebrato. In conclusione, non abbiamo un buon testimone di questo passaggio importante
dell'evoluzione; É una lacuna grave per la nostra storia, ma non giustifica alcun scetticismo sulla derivazione
dei rettili dagli anfibi. Se conosciamo poco il protagonista di questo passaggio, conosciamo ancora meno le
cause che lo hanno determinato, né sappiamo se vi fu una competizione tra le due forme di vertebrati. Il luogo ove
sono stati rintracciati i più antichi rettili conosciuti starebbe a indicare che la nuova classe nacque nell'emisfero
australe, a sud della massa continentale denominata Gondwana.

COME NASCE IL RETTILE


Secondo le idee correnti sul meccanismo dell'evoluzione, una nuova specie prende origine da una o più
mutazioni, che cambiano le caratteristiche dell'individuo. L'affermazione, così esposta, É molto semplificata,
ma l'accettiamo per la chiarezza del discorso. Dunque possiamo supporre che tra gli anfibi del Carbonifero
apparissero occasionalmente dei caratteri da rettile. Ma l'animale che possedeva la novità non era
necessariamente favorito rispetto ai suoi simili più tradizionalmente anfibi. Per esempio, al centro delle foreste
costantemente calde e umide del Carbonifero, i nuovi caratteri da rettile mettevano l'anfibio in una posizione di
svantaggio. Ma se egli abitava in "aree periferiche" - come certamente ne esistevano - con un clima instabile,
allora quegli stessi caratteri rettiliani lo rendevano superiore ai suoi simili: così quei caratteri si ripetevano
nelle generazioni successive e si affermavano nella popolazione, cioÉ venivano selezionati stabilmente. E'
probabile quindi che il luogo ove comparvero i primi rettili fossero le zone ai margini delle grandi foreste umide
del Carbonifero, dove l'instabilità del clima, e la conseguente possibilità di periodi di siccità, imponevano
un'organizzazione diversa da quella tipica dell'anfibio. In queste aree vi sarebbe stata una forte selezione di
organismi più idonei alla vita prevalentemente terrestre, e questa direzione evolutiva avrebbe poi portato
all'organizzazione dei rettili.

7. PRIMI RETTILI: I COTILOSAURI.

Verso la fine del Carbonifero (circa 300 milioni di anni fa) comparvero sulla terra i primi rettili.
Naturalmente non sappiamo se la loro organizzazione generale fosse identica a quella dei rettili di oggi, poiché
di quegli antichi animali possediamo solo lo scheletro fossilizzato, spesso incompleto e riconosciuto di tipo
rettiliano da poche caratteristiche del cranio e della colonna vertebrale. Forse la loro organizzazione non era
ancora totalmente da rettili, forse avevano ancora molte caratteristiche da anfibi. Del resto, come abbiamo
visto, la complessità dei problemi da risolvere per trasformare un anfibio in rettile ci fa pensare che il
passaggio non fu subitaneo, ma graduale.

SOMIGLIANZE CON GLI ANFIBI


Le forme più antiche per ora note sono riunite nell'ordine dei cotilosauri, con un cranio anapside, cioÉ
senza finestre temporali (vedi capitolo 5). Certamente coesistettero con numerosi ordini di anfibi, che allora
dominavano la terra. Avevano un aspetto vagamente da lucertole, ma con corpo più tozzo e dimensioni
maggiori. Lo scheletro dei cotilosauri ha forti somiglianze con quello degli anfibi seymouriamorfi, per cui appare
logica una parentela tra le due classi
La "Seymouria" infatti, quando era considerata un rettile, veniva classificata tra i cotilosauri.

CARATTERI GENERALI
La descrizione minuta dello scheletro dei cotilosauri sarebbe decisamente noiosa. Però merita
soffermarci a descrivere alcuni caratteri tipici di questi rettili, utili per riconoscere le diverse vie evolutive,
estinte o viventi
Ad esempio, sulla volta del cranio, tra le ossa parietali, c'É un forellino ("forame interparietale") per il
passaggio del terzo occhio - o "occhio pineale" - che vedremo meglio più avanti quando tratteremo dei
rincocefali (capitolo 18). Questo forellino É un carattere primitivo, già presente negli anfibi
La scatola cranica (o prima parete ossea) É protetta ai lati, dietro l'orbita, da una seconda, ampia parete ossea
continua. Anche questo carattere É primitivo e curioso, come se si fosse voluto racchiudere il cervello in un
doppio contenitore. Però É improbabile che fosse dovuto a motivi di sicurezza
Un'ultima osservazione si riferisce all'impianto dei denti che nei cotilosauri É ancora molto primitivo. Il
dente É semplicemente appoggiato sopra al pezzo osseo, mandibola o mascella, e legato a questo da una
fascia di fibre connettivali
Una dentatura così impostata É decisamente fragile, per cui non ci stupirà vederla in seguito profondamente
modificata.
LA DIFFUSIONE DEI COTILOSAURI
La diffusione dei cotilosauri fu subito rapidissima, favorita anche dal fatto che la terra in quel periodo era
costituita da un unico supercontinente. I fossili dei cotilosauri infatti si rinvengono in Asia, Europa,
Nordamerica e Sudafrica, aree lontanissime, oggi assolutamente non raggiungibili per un animale capace di
muoversi solo sulla terraferma, con molta lentezza e pigrizia. Eppure i cotilosauri già al termine del Carbonifero
erano presenti in tutti quei luoghi.

ALCUNI ESEMPLARI
L'esemplare meglio conosciuto dei cotilosauri É il "Limnoscelis", di cui possediamo anche uno scheletro
completo rinvenuto in un terreno, che nel lontano Carbonifero, quando l'animale morì, aveva
caratteristiche paludose. Da qui l'ipotesi che questi rettili, come gli altri cotilosauri, amassero ancora gli ambienti
umidi e ricchi d'acqua e forse non avessero ancora superate tutte le difficoltà per affrancarsi completamente
dal prezioso elemento. Le dimensioni del "Limnoscelis", carnivoro, non superavano il metro e mezzo di
lunghezza, quindi erano ancora decisamente inferiori a quelle dei giganteschi anfibi che vivevano nello stesso
periodo. Assieme a questo rettile ne viveva un altro, erbivoro, il "Diadectes", i cui resti fossili sono stati ritrovati
nel Texas.

8. IL PERMIANO, UN NUOVO SCENARIO.

UN AMBIENTE PER L'ANFIBIO, UNO PER IL RETTILE


Negli ultimi milioni di anni del Carbonifero la terra era ancora coperta prevalentemente da enormi foreste
popolate sia dagli anfibi, sia dai primi rettili. Le due classi di vertebrati, però, abitavano territori diversi. Negli
ambienti più umidi e ricchi d'acqua predominavano gli anfibi, mentre quelli più asciutti, ma non aridi, erano
preferiti dai rettili. Difficile pensare infatti ad una competizione tra i più evoluti anfibi ed i primi sparuti rettili,
non ancora sufficientemente affermati come forza nuova. I primi cotilosauri avevano un'organizzazione
molto generica, tipica delle forme intermedie, e quindi erano poco adatti ad affrontare una competizione
con forme più specializzate.

CAMBIANO CLIMA E VEGETAZIONE: GLI ANFIBI SI ESTINGUONO


Gli avvenimenti però mutarono questo stato di cose: il clima, che per tutto il Carbonifero, oltre 60 milioni di anni,
non era variato molto, cominciò a cambiare. Il periodo successivo, il Permiano, debuttò, 280 milioni di anni fa,
con una brusca ondata di gelo. Forse fu la prima glaciazione che comparve sulla terra. I ghiacci ai poli e sulle
montagne più alte aumentarono di spessore sottraendo così grandi quantità di acqua alle restanti parti della
terra. I mari si abbassarono, gli stagni e le paludi si prosciugarono, l'ambiente divenne sempre più ostile
per gli anfibi, che uno alla volta iniziarono ad estinguersi, o sopravvissero nelle poche oasi umide rimaste
qua e là. A questo clima freddo secco seguì, nella seconda parte del Permiano, un clima caldo-secco che
determinò un profondo cambiamento della vegetazione. Le felci, gli equiseti e tutte le crittogame vascolari,
che avevano ricoperto di verde la terra per molti milioni di anni, rimasero confinate nelle limitate zone a clima
tropicale dove ancor oggi possiamo vederle. Al loro posto comparvero e si svilupparono le "gimnosperme", che
avrebbero poi dominato nella successiva Era Secondaria. Alcune sono estinte, come la "Williamsonia" e la
"Cycadoidea" (una piccola palma dal tronco simile a un ananasso ricoperto di fiori), altre sono giunte sino a noi,
come la Ginkgo Biloba, l'araucaria, i cipressi, i tassi, le sequoie, gli abeti, i cedri, i larici e i pini. Capaci di
vivere e riprodursi anche in ambienti asciutti, questi nuovi alberi crearono uno scenario nuovo per uno degli
avvenimenti più clamorosi nella storia del vertebrato: l'espansione dei rettili.
INIZIA L'ERA DEI RETTILI
Il clima caldo-secco che si instaurò sulla terra nella seconda metà del Permiano, circa 250 milioni di anni fa,
rimase incredibilmente stabile fino alla fine del Creta, quasi 65 milioni di anni fa. Questa lunghissima ondata di
caldo favorì lo sviluppo dei rettili che, come gli anfibi, sono "eterotermi", cioÉ incapaci di mantenere costante la
temperatura del loro corpo, e non sopportano né il freddo, né il troppo caldo. Nel Permiano la nuova classe dei
rettili si espanse e conquistò ogni più remoto angolo della terra, senza trascurare né l'aria, né l'acqua. Tra i
rettili, infatti, si formarono, come vedremo, i primi vertebrati capaci di volare, mentre diverse linee evolutive
abbandonarono la terra per colonizzare anche i mari
I cotilosauri furono il punto di partenza delle diverse linee evolutive. Ad esempio il "Pareiasaurus" si
muoveva già con una certa sicurezza in quello scenario così mutato, con le nevi lontane e le solide
gimnosperme. Era un animale tozzo, lungo circa 3 metri, con un cranio anapside; non aggressivo, si cibava di
erbe. I suoi resti fossili, risalenti al Permiano superiore, sono stati ritrovati in Sudafrica e in Russia. Dai
cotilosauri, che si estinsero nel Trias, emersero nuove forme via via più evolute e meglio adattate al nuovo
ambiente.

NOTA: LE GIMNOSPERME
Questo tipo di piante che ha il dominio assoluto per tutta l'Era Secondaria É ancora ben rappresentato
anche ai giorni nostri, soprattutto dalle conifere. Sia le specie scomparse, sia le viventi hanno un fusto alto
e legnoso, molte non perdono le foglie, e In genere sono longeve. I fiori, distinti in maschili e femminili, non
presentano una grande varietà di colori poiché la fecondazione avviene prevalentemente attraverso il polline
trasportato dal vento. Il fusto É molto più forte e resistente di quello delle crittogame vascolari e questo
consente la formazione di ampie foreste con un sottobosco povero di sostanze organiche in decomposizione.

9. LE TARTARUGHE: CARATTERI GENERALI (ANAPSIDI CHELONI).

UN ANIMALE SEMPRE UGUALE A SE STESSO


Tra i rettili più antichi, assieme ai cotilosauri, vi sono le tartarughe. Il vocabolo generico di "tartarughe",
usato comunemente, indica quel gruppo inconfondibile di rettili corazzati che la zoologia riunisce nell'ordine dei
"cheloni" (o testudinati). I primi esemplari apparvero nel Permiano, circa 250 milioni di anni fa, come dimostra un
fossile di quel periodo con caratteristiche da tartaruga. Nel successivo Trias, 200 milioni di anni fa, lo
scheletro dei cheloni ha già una forma ben definita, e da allora É cambiato pochissimo, il che sta a dimostrare
l'estrema primitività e mancanza di plasticità di questi animali. Le tartarughe di oggi sono molto simili a quelle
del lontano Trias. Questa eccezionale staticità É riscontrabile solo negli squali (si veda in questa collana il
volume sui "Pesci"). Tutti gli altri gruppi di vertebrati hanno invece la necessaria plasticità per far progredire il
processo evolutivo.

LO SCHELETRO DEI CHELONI


Come i cotilosauri, anche questi rettili hanno un cranio anapside, cioÉ senza finestre temporali (vedi capitolo
5). Inoltre presentano una particolarità esclusiva dell'ordine: due potenti scudi ossei a protezione del corpo
che derivano dalla fusione di ossa già esistenti, come vertebre e coste, con pezzi ossei nuovi
Il "carapace", o scudo dorsale, É formato da una fila mediana di piastre ossee derivate dalle vertebre della
colonna dorsale con ai lati due serie di piastre derivate dalle coste; completa lo scudo dorsale una serie
marginale di piastre ossee di nuova formazione
Il "piastrone", o scudo ventrale, É formato da pezzi ossei appartenenti alla cintura pettorale e dalle
cosiddette "coste gastrali", o coste addominali
I due scudi sono saldati tra loro sui lati, ma sono aperti davanti e dietro per lasciar uscire la testa, le zampe e
la coda dell'animale
La rigidità degli scudi ossei É assicurata anche dalla presenza, sopra alle piastre ossee, di grandi squame
cornee derivate dall'epidermide: sono la parte esterna del guscio, quella che noi vediamo
Nei cheloni che hanno abbandonato la terra per vivere nei mari, gli scudi ossei si alleggeriscono molto, ma non
scompaiono completamente
Alcuni cheloni, in caso di pericolo, possono ritrarre testa e zampe dentro lo scudo. Molti altri non possono farlo
per mancanza di spazio: se ritirano la testa debbono lasciare fuori le zampe, o viceversa
Anche la particolare conformazione del collo ha importanza. I "pleurodiri" ritraggono il capo flettendo le
vertebre del collo su un piano orizzontale; i "criptodiri" lo fanno flettendo le vertebre su un piano verticale.

IL MOVIMENTO
Quando camminano sulla terraferma, i cheloni hanno la stessa andatura goffa degli anfibi urodeli: anche loro
hanno zampe laterali, e il loro corpo tende a strisciare sul terreno con un movimento serpentino
Molti cheloni si adattarono già nel Trias a vivere nell'acqua, sia nei mari sia nei fiumi, così gli arti si modificarono
in pinne e l'animale imparò a nuotare. Il movimento nell'acqua É molto più efficiente, elegante e anche veloce,
considerando il volume e la forma certamente non idrodinamica del corpo.

I CHELONI ESTINTI
Tra i precursori di questi rettili corazzati É da annoverare l'"Eunotosaurus". Vissuto nel Permiano,
presentava un inizio di scudo dorsale derivato dalle coste divenute larghe e piatte; il piastrone ventrale
mancava, e l'animale possedeva caratteristiche generali da anfibio. Inoltre aveva ancora i denti, destinati però a
scomparire presto nelle forme successive del Trias. Ma già con la "Triassochelyse" la "Proganochelys",
appartenenti al sottordine degli anfichelidi, e vissute nel Trias, tutte le caratteristiche scheletriche son
giunte e come tali rimarranno fino a noi
10. TARTARUGHE VIVENTI D'ACQUA DOLCE E TERRESTRI (ANAPSIDI CHELONI).

TARTARUGHE CACCIATRICI
L'immagine che quasi tutti noi abbiamo della tartaruga É di un animale mite, torpido nei movimenti e
vegetariano. Se questo É vero per le tartarughe "domestiche"' che possiamo tenere nelle nostre case, non É
altrettanto vero per tutte le specie
Nell'America del Nord e del Centro vivono due tartarughe, la Tartaruga azzannatrice e la Tartaruga alligatore, i
cui nomi dicono già molto
Queste due specie, che possono raggiungere e superare il metro di lunghezza, si trattengono solitamente
nelle acque dolci dei fiumi o dei laghi. La Tartaruga azzannatrice É la più pericolosa. Il nome le deriva dal
modo di cacciare: quando É in acqua si avvicina ai pesci con movimenti quasi impercettibili, per poi scattare
con un guizzo degno di un serpente e azzannare la preda col becco, senza più lasciare la presa finché la
malcapitata non É morta. Questo rettile É così famelico e così abile nel catturare i pesci, che può causare
gravi danni al patrimonio ittico del bacino in cui vive. Come se non bastasse, di notte l'Azzannatrice a volte esce
dall'acqua per cacciare anche gli animali terrestri che incontra, anche se di notevoli dimensioni. La
Tartaruga alligatore, più che cacciatrice, É pescatrice e preferisce adescare la preda. Sulla sua lingua infatti vi
É un'escrescenza carnosa rossa, simile ad un lombrico, che viene agitata con pazienza a becco spalancato. Se
un pesce cade nell'inganno viene subito inghiottito. Il becco di queste due specie É ricurvo e affilato come
quello degli uccelli rapaci, e viene usato per strappare brandelli di cibo, inghiottiti senza masticare, poiché le
tartarughe non hanno denti.
LA RIPRODUZIONE
Il ciclo vitale delle tartarughe d'acqua dolce É estremamente semplice: all'epoca degli amori e dopo
l'accoppiamento, che avviene nell'acqua, la femmina esce dallo stagno o dal fiume per cercare un posto
sabbioso dove scavare una buca e deporre poche uova, da 10 a 20
Infatti, a differenza delle tartarughe marine, quelle di acqua dolce non hanno molti nemici, e poche uova
sono sufficienti per la sopravvivenza della specie. Una volta deposte le uova, la femmina si disinteressa
completamente della nidiata e torna alle sue abitudini di caccia. Dopo un periodo variabile di tempo, a volte anche
mesi, in rapporto alla temperatura dell'ambiente, dall'uovo escono piccole tartarughe, già perfettamente
formate, che si precipitano in acqua per iniziare la loro famelica caccia.

I GIGANTI TERRESTRI
Le Tartarughe delle Galapagos, rese famose anche dalle ricerche di Darwin, sono le più grandi tra le
tartarughe terrestri, potendo arrivare fino a 110 centimetri di lunghezza. Purtroppo questi giganteschi
animali corrono il rischio di estinguersi, un po' a causa della caccia di cui erano oggetto fino a pochi decenni fa per
l'ottimo sapore delle loro carni, un po' per la riduzione dell'habitat incontaminato e selvaggio ove questi
animali vivono e si riproducono, e un po' per l'aumento dei loro predatori naturali, introdotti recentemente
dall'uomo, come cani e suini.

LE TARTARUGHE GIOCATTOLO
Nel bacino del Mediterraneo e nel Nord America vivono due specie di tartarughe che hanno sempre avuto
notevole successo come animali da compagnia. La Tartaruga di Hermann e la Tartaruga greca sono rettili
terrestri che possono vivere anche nell'ambiente famigliare poiché non temono l'uomo, anzi con il tempo
riconoscono la persona che le nutre
Sono infatti mitissime e dotate anche di una certa intelligenza; la loro fama É legata alla resistenza del loro
corpo, poiché possono sopravvivere anche dopo mutilazioni, alla loro longevità, poiché possono superare il
secolo di vita, e alla loro capacita di digiunare, potendo rimanere anche un anno o più senza alcun alimento
La Pseudemide scritta, una piccola e graziosa tartarughina del Nord America, deve il suo nome anche una
strana abitudine del secolo scorso: si usava inviarla viva con frasi augurali o amorose scritte sul dorso. Oggi
questa abitudine É quasi cessata, ma per la grazia dei suoi vivaci movimenti la Pseudemide viene ospitata in piccoli
acquari casalinghi.

11. TARTARUGHE MARINE (ANAPSIDI CHELONI).

Non solo le tartarughe di terra sono molto antiche, con esemplari fossili risalenti ad oltre 150 milioni di anni fa;
anche le tartarughe marine hanno antenati antichissimi.

IL GIGANTE ESTINTO
Risale al Creta infatti lo scheletro fossile di una tartaruga marina che misurava oltre 6 metri di lunghezza.
L'"Archelon", così É stata chiamata la specie di questo gigante, visse in un periodo dominato da altrettanto
giganteschi rettili, appartenenti ad altre specie, diffusi sulla terraferma, nell'aria, e nei mari. Può essere una
coincidenza, oppure alla base di questa generale tendenza al gigantismo vi É una causa che a noi oggi sfugge.

LE TARTARUGHE MARINE OGGI


Le dimensioni delle tartarughe marine viventi sono molto più modeste: la più grande, la Dermochelide coriacea,
raggiunge i due metri di lunghezza. Questa comunque rispettabile tartaruga (pesa 6 quintali) É presente in tutti
i mari caldi del mondo, ma il suo numero si va riducendo pericolosamente. La specie É indirettamente
minacciata dall'uomo che, pur non mangiandone le carni, dà la caccia alle sue uova, che si dicono
particolarmente saporite. Recentemente poi É insidiata da un nuovo pericolo: la sua dieta É quanto mai varia,
mangia di tutto, animali e vegetali, non disdegna neppure le urticanti meduse. Proprio per quest'ultima abitudine,
quando vede galleggiare gli indistruttibili sacchetti di plastica, credendoli un cibo appetitoso, la
Dermochelide li inghiotte, intasandosi così inesorabilmente lo stomaco, e dopo alcuni mesi muore di fame.

UN MOMENTO DRAMMATICO: LA DEPOSIZIONE DELLE UOVA


Il vero tallone di Achille di tutte le tartarughe marine, grandi o piccole che siano, É il momento della
riproduzione. All'epoca degli amori si assiste ad imponenti migrazioni di individui maschi e femmine, che
vivono in mare aperto, verso i luoghi di riproduzione, sulla terraferma. Durante il tragitto, sempre nel loro
elemento, si accoppiano, ma É solo la femmina che esce dall'acqua. Le spiagge solitarie, o ritenute tali, sono
la meta delle femmine che di notte si avventurano sulle rive, silenziosamente. Il peso del corpo, che
nell'acqua non rappresenta un problema, impedisce loro di muoversi liberamente, per di più le zampe, molto
simili a pinne, sono più adatte a nuotare che a camminare. Comunque, strisciando malamente sulla sabbia,
le femmine riescono a inoltrarsi sulla spiaggia, fino a un punto che i marosi non possano raggiungere. Qui con
le zampe posteriori scavano una buca ove depongono in genere molte uova, anche un centinaio, che poi
coprono accuratamente. Compiuto il lavoro, ritornano con minore fatica nel loro elemento, il mare. E a questo
punto cominciano i guai. Per i cacciatori di uova, uomo compreso, É un gioco facilissimo scoprire i nidi, basta
seguire le orme sulla sabbia
Ma anche se il nido non viene scoperto, i pericoli continuano
All'epoca della schiusa, che in genere avviene contemporaneamente per tutte le uova, le piccole tartarughe,
scavando nella sabbia, vengono in superficie e subito si precipitano verso il mare con una corsa affannosa.
Durante il tragitto, però, possono rimanere vittime di numerosi predatori, soprattutto uccelli, che, avendo
imparato i ritmi di riproduzione, si affollano numerosi nei paraggi. Le superstiti che riescono a raggiungere
l'acqua non sono ancora in salvo, poi ché vengono inseguite dagli uccelli tuffatori e dai mammiferi marini
Questa ecatombe viene compensata dal grande numero di neonati, che in alcune specie può raggiungere anche
il migliaio per ogni femmina. Solo in questo modo le tartarughe marine possono sopravvivere. Se a questi fattori
di morte naturale si aggiunge anche l'uomo, il rischio dell'estinzione totale É elevato.

LE TARTARUGHE MARINE COMMESTIBILI


La Testuggine commestibile, o Testuggine franca, o verde, É forse la tartaruga con la carne più saporita, con
cui si prepara la famosa zuppa; dalla sua corazza inoltre si ricavano pettini ed altri oggetti pregiati. Questo
fa della Testuggine commestibile un animale particolarmente richiesto e cacciato. Le sue dimensioni sono
notevoli, potendo raggiungere anche il metro e mezzo di lunghezza. La sua alimentazione É esclusivamente
erbivora e forse proprio questa dieta rende gustose le sue carni. L'area di diffusione É la fascia calda-
temperata di tutti i mari, per cui É possibile incontrarla anche nel Mediterraneo
La Testuggine embricata ha caratteristiche e distribuzione simili alla Testuggine commestibile, e come
questa corre il rischio di estinguersi. Negli ultimi anni si É cercato di attenuare il fenomeno raccogliendo le
uova per incubarle artificialmente e liberare poi senza pericoli i piccoli neonati. Forse É già una speranza, ma
É un'iniziativa che deve essere attuata su larghissima scala
Anche la Tartaruga caretta può essere inserita tra le commestibili, pur essendo la sua carne meno apprezzata
dai buongustai. Un'abitudine comune le riunisce tutte comunque: quando non sono affamate salgono in
superficie a dormire placidamente e senza timori. Non É infrequente infatti imbattersi in piccoli branchi che
galleggiano appisolati al sole e con precauzione si può raggiungerle e catturare qualche esemplare prima
che il branco si svegli e fugga. Ma la caccia a questi animali avviene soprattutto quando risalgono la spiaggia per
deporre le uova. In quelle circostanze le tartarughe, non potendo fuggire, sono facilmente catturabili.

12. I PELICOSAURI (SINAPSIDI).

I SINAPSIDI
I sinapsidi sono i rettili che hanno una finestra temporale sulla parte inferiore della parete laterale del cranio
(vedi capitolo 5)
Come via evolutiva presero origine dagli antichi cotilosauri nella seconda parte del Carbonifero, quasi 300
milioni di anni fa, ed erano destinati ad essere i protagonisti di un grande ed importante evento: originare nel loro
seno una nuova classe, i mammiferi
Il debutto di questi rettili, come al solito, avvenne in sordina, con pochi e sparuti esemplari. Nell'ambito dei
rettili sinapsidi si riconoscono due indirizzi evolutivi autonomi, oggi classificati come ordini: i pelicosauri e i
terapsidi (vedremo questi ultimi nei capitoli 13 e 14). I pelicosauri si dividono in tre sottordini: sfenacodonti,
ofiacodonti, edafosauri.

PRIMI PELICOSAURI: IL "VARANOPS" E L'"OPHIACODON"


La forma più antica e primitiva di pelicosauri ofiacodonti per ora nota É il "Varanops brevirostris", una
lucertola lunga un metro e mezzo, senza particolari specializzazioni; la dentatura di questo rettile, poco
differenziata come in tutte le specie pioniere, testimonia un'alimentazione quanto mai varia
Non minori caratteristiche di primitività presenta un altro rettile pelicosauro della fine del Carbonifero,
l'"Ophiacodon". Questa specie É stata studiata a lungo, poiché dal suo grembo potrebbero essere uscite due
linee evolutive completamente diverse: gli ittiosauri, i rettili marini simili ai delfini, e i terapsidi, da cui, come
vedremo, emergeranno i mammiferi. L'importanza di questa specie nella storia del vertebrato appare evidente,
peccato che gli esemplari fino ad oggi rinvenuti non siano numerosi, e sono scarsi o nulli i collegamenti con le
forme ben definite di ittiosauri e terapsidi
Fu nel Permiano inferiore che i pelicosauri si affermarono come dominanti: ben il 70% dei rettili allora
presenti sulla terra era costituito da pelicosauri più moderni e già con precise specializzazioni.

UN PELICOSAURO CARNIVORO: IL "DIMETRODON"


Il "Dimetrodon" É il rappresentante carnivoro meglio conosciuto tra i pelicosauri sfenacodonti; l'aspetto É
ancora quello di una grossa lucertola, lunga fino a tre metri, ma con un cranio molto massiccio, voluminoso ed
armato di una potente ed acuminata dentatura. Le zampe sono ancora attaccate al tronco lateralmente, ma più
sottili ed agili, perciò appare logico supporre che il "Dimetrodon" riuscisse anche a correre con una discreta
velocità. Il carattere anatomico più appariscente di questo rettile, però, É l'ampia e sottile cresta sul dorso
sorretta da una serie di raggi ossei. Questa strana caratteristica É in comune anche con le forme erbivore.

UN PELICOSAURO ERBIVORO: L'"EDAPHOSAURUS"


Più voluminoso del precedente, essendo lungo oltre tre metri, ma con un cranio più piccolo ed elegante,
l'"Edaphosaurus" rappresenta il gruppo di pelicosauri erbivori del Carbonifero-Permiano. Anche questo rettile ha
un'ampia cresta sul dorso che inizia subito dietro la testa per terminare in corrispondenza della radice della coda.
L'altezza della cresta raddoppia le dimensioni apparenti del corpo dell'animale, da qui una prima ipotesi sulla
funzione di questa strana appendice che si rifà a quanto accade in alcuni rettili viventi.

LA FUNZIONE DELLA CRESTA SUL DORSO


In alcune specie di sauri agamidi, come il Drago volante (vedi il capitolo 20), sono presenti, ai lati del capo
o sul dorso, delle pieghe della pelle, sostenute da barrette ossee molto allungate, che l'animale può estendere,
sembrando così molto più voluminoso e grosso di quanto non sia nella realtà. Questa ipotesi sulla funzione della
cresta era stata inizialmente avanzata anche per i pelicosauri, ma oggi sulla base di altre considerazioni si
ritiene che il compito dell'ampia cresta, sempre distesa poiché i raggi che la sostenevano erano immobili,
fosse quello di creare un espediente per catturare il calore del sole.

NOTA: IL PRIMO SISTEMA Dl TERMOREGOLAZIONE


Tutti i vertebrati che fino ad ora abbiamo incontrato hanno la temperatura del corpo uguale a quella
dell'ambiente esterno, e ogni variazione, in caldo o freddo, si riflette anche sul loro organismo
La cresta dei pelicosauri può essere il primo sistema inventato dal vertebrato per attuare una
termoregolazione, ancorché primitiva e forse non molto efficiente. Se infatti viene esposta
perpendicolarmente ai raggi solari, la cresta assorbe calore e riscalda il sangue che scorre nei suoi vasi; se
invece viene disposta parallelamente ai raggi del sole, il sangue può raffreddarsi. Non É molto, ma É già
qualche cosa, e può funzionare per riscaldare o raffreddare il corpo senza dipendere troppo dalla temperatura
esterna
La cresta dei pelicosauri era sostenuta da barrette ossee originate dall'arco neurale molto prolungato delle
vertebre.

13. I TERAPSIDI (SINAPSIDI).

Questo ordine di rettili sinapsidi (vedi capitolo 5) fu scoperto verso la metà del secolo scorso, ma solo molto più
tardi ci si avvide della sua grande importanza per la storia del vertebrato. Oggi le ricerche su questi rettili sono
fiorentissime, soprattutto sui reperti fossili del Sudafrica e su quelli più antichi trovati in Russia. Infatti nei
terapsidi cominciano a delinearsi caratteri scheletrici tipici dei mammiferi, tanto da lasciar supporre che proprio
da questi rettili abbia avuto origine la nostra classe.

ERBIVORI E CARNIVORI
I terapsidi comparvero nella seconda metà del Permiano, circa 250 milioni di anni fa durante il dominio dei più
antichi pelicosauri con la grande cresta. Il loro successo fu immediato, rapidamente si diffusero su tutta la
terra, costituita allora da un unico continente
Alla fine del Permiano ben l'80% dei rettili presenti sulla terra erano terapsidi
La loro organizzazione, infatti, era più evoluta, il loro scheletro, in molte forme, più leggero, elegante e adatto
alla corsa. In alcune specie i denti si differenziarono tra loro, specializzandosi per strappare, incidere,
triturare. I nuovi caratteri acquisiti resero questi animali più efficienti dei pelicosauri, che, uno alla volta, si
estinsero
Nell'ambito di questi rettili si distinsero forme erbivore e carnivore che ricordano molto le analoghe comunità di
mammiferi. Gli erbivori più voluminosi raggiunsero le dimensioni di un bue. Erano animali tozzi e pesanti
come il "Moschops", la specie più nota vissuta in Sudafrica, e il "Titanophoneus", rinvenuto in Russia.
L'ambiente di questi due dinocefali doveva essere simile alle attuali savane semiaride, dove pascolavano in
grandi branchi
Assieme a loro vivevano i carnivori, con forme più aggentilite e scheletro più idoneo alla corsa. Tipico
rappresentante dei carnivori É il "Cynognathus", un teriodonte della taglia di un grosso cane, con una struttura
scattante di cui si avvaleva per inseguire le prede, che azzannava con i lunghi canini
Il terapside dicinodonte più comune alla fine del Permiano era sicuramente il "Dicynodon", un grosso e
tozzo erbivoro che presentava una curiosa mescolanza di denti e becco. La bocca infatti era armata sui lati da
possenti canini, mentre l'estremità del muso terminava con un classico becco.

LA LORO FINE
L'impero dei terapsidi non durò a lungo; così come avevano soppiantato gli antichi pelicosauri, a loro volta, sul
finire del Trias, furono sopraffatti da un nuovo gruppo di rettili, gli arcosauri tecodonti, da cui emergeranno i
dinosauri. Nell'Africa del Sud questa successione É evidentissima nella sua drammaticità: un largo spessore del
terreno contiene scheletri di terapsidi, ma bruscamente a questo succede uno strato con solo scheletri di
tecodonti. Dunque anche per i terapsidi arrivò la fine. Ma non per tutti però.

14. I TERAPSIDI TERIODONTI (SINAPSIDI).

RETTILI SIMILI Al MAMMIFERI


I teriodonti, un sottordine dei terapsidi vissuti nel Permiano-Trias (vedi capitolo 13), vengono anche chiamati
"rettili simili a mammiferi". La definizione É stata coniata dai ricercatori anglosassoni e descrive bene la
forte tendenza di questi rettili ad acquisire, soprattutto nel cranio, i requisiti propri del mammifero
Il fenomeno É importante ed interessa tutte le famiglie dei teriodonti. Nella tabella a destra sono messi a
confronto i caratteri più significativi dei rettili e quelli dei mammiferi. Il grafico in alto [qui non riportato. N.d.C.]
traduce visivamente la maggiore o minore quantità dei caratteri da mammifero presenti nelle diverse famiglie
di teriodonti. Più la freccia É lunga, più la famiglia si avvicina al mammifero: gli ictidosauri e i tritilodonti, ad
esempio, sono quasi mammiferi, al punto che É difficile stabilire a quali delle due classi appartengano; É certo
che tra loro emerse il primo mammifero.

TABELLA. Confronto tra rettili e mammiferi basato su alcuni caratteri dello scheletro e dell'anatomia
[Con R indichiamo i rettili, con M i mammiferi].

R: palato manca; M: palato


R: mandibola rettilinea; M: mandibola ad angolo
R: movimenti della mandibola solo verticali; M: movimenti della mandibola anche orizzontali
R: mandibola formata da più pezzi; M: mandibola formata da un pezzo solo
R: eterotermi: incapacità di termoregolarsi; M: omeotermi: capacità di termoregolarsi
R: senza orecchio esterno; M: con orecchio esterno
R: occhi laterali; M: occhi frontali
R: denti tutti uguali; M: denti diversi tra loro
R: forame interparietale; M: manca
R: coste addominali; M: mancano
R: 17 falangi; M: 14 falangi.

RETTILI A SANGUE CALDO? Uno degli interrogativi più interessanti sui terapsidi É se avessero la possibilità
di regolare la temperatura del proprio corpo, come oggi sanno fare gli uccelli e i mammiferi. I rettili viventi non
hanno questa capacità, e per estensione si É sempre creduto che non l'avessero neppure i rettili antichi.
Su uno scheletro fossile non resta traccia di questa capacità, ma si può procedere per indizi, proprio come
per la soluzione di un giallo misterioso
Un animale termoregolato consuma continuamente molta energia per produrre calore, e l'energia si
ottiene rapidamente attraverso la masticazione per accelerare il processo digestivo. I teriodonti erano in grado
di masticare, poiché non avevano solo denti conici e aguzzi capaci di dilaniare, ma anche denti specializzati per
triturare il cibo. La presenza di un palato consentiva di masticare e respirare contemporaneamente, proprio
come oggi sanno fare i mammiferi. Inoltre sul cranio di alcuni esemplari sono state scoperte le impronte
dell'attacco di peli tattili: ciò lascia supporre che i teriodonti possedessero una pelliccia per conservare il calore
del corpo, come ad esempio l'"Anteosaurus". Per di più si sono trovati fossili di teriodonti in località ove si
presume che il clima fosse freddo, con precipitazioni anche nevose: ciò avvalora l'ipotesi di una
termoregolazione in questi animali, poiché i rettili tradizionali non tollerano temperature inferiori a 10-12 gradi
centigradi. Ecco perché oggi si fa sempre più strada la convinzione sconvolgente che già nel lontano Trias ci
fossero rettili a sangue caldo.

SONO RETTILI O SONO MAMMIFERI? Il quesito a questo punto É lecito; in particolare se si osserva il
cranio di un ictidosauro le caratteristiche da mammifero sono imponenti. In pratica l'unico carattere da rettile É
la presenza nella regione latero posteriore di un piccolo ossicino, il quadrato, che nei mammiferi va invece a
formare uno dei tre ossicini dell'orecchio medio, l'incudine. Ma se questo animale ha il cranio e i denti da
mammifero, se sa termoregolare il proprio corpo, se É coperto da una folta pelliccia, perché insistere nel
considerarlo un rettile? Quel piccolo ossicino É un particolare troppo trascurabile per insistere sulla
interpretazione tradizionale.

PERCH╔ E' AVVENUTO TUTTO QUESTO


Questi rettili quasi mammiferi, o forse già mammiferi, sono oggetto di dispute accanite, sulle cause che hanno
spinto i teriodonti verso il nuovo tipo di organizzazione. Un'ipotesi ritiene che tutte le informazioni genetiche
per fare un mammifero siano già presenti nel più vasto ordine dei terapsidi e che comincino a manifestarsi in modo
più o meno evidente solo nei teriodonti. Un'altra ipotesi, più affascinante, chiama in causa i dinosauri: con
l'arrivo degli arcosauri tecodonti (tra cui i dinosauri), i terapsidi cominciarono a declinare. Alcuni di loro, i
teriodonti, per non essere sopraffatti, si rifugiarono nell'unica nicchia ecologica ancora disponibile, la debole
luce crepuscolare o il buio. Di notte infatti un rettile tradizionale, che non É in grado di termoregolare il proprio
corpo, cessa o rallenta molto ogni attività. In quel momento un altro animale può subentrare nel suo habitat.
L'acquisizione dei caratteri principali da mammifero quindi si spiegherebbe con l'adattamento alla vita nella
penombra o al buio. La nostra classe possiede tutte le caratteristiche degli animali notturni, anche nelle specie
che oggi vivono normalmente alla luce del sole. In conclusione la linea evolutiva dei rettili con cranio di tipo
sinapside (vedi capitolo 5) si esaurisce con i teriodonti, ma forse É più esatto dire che continua nei teriodonti, i
quali con l'adattamento alla vita notturna si trasformano in una nuova classe, i mammiferi, destinata ad
evolversi in modo esplosivo solo dopo la scomparsa dei dinosauri, circa 65 milioni di anni fa.

15. RETTILI ACQUATICI ESTINTI: CARATTERI GENERALI.

Il fenomeno É meno conosciuto di quanto meriti. Forse le immagini popolari hanno privilegiato il grande
sviluppo dei dinosauri terrestri lasciando un po' in ombra quello che accadde nei mari, ma anche questo
ambiente, dal Permiano al Creta, fu invaso dai rettili che si evolsero in modo non meno spettacolare e imponente. I
rettili infatti sentirono un'irresistibile attrazione verso la vita acquatica; in molte linee evolutive e in modo del
tutto autonomo comparvero forme che spingendosi nelle acque modificarono più o meno le proprie
caratteristiche scheletriche, spesso seguendo regole precise.

LA FORMA DEL CORPO


Se gli ittiosauri (vedi capitolo 16), che avevano il corpo pisciforme, sono sempre citati come esempio di
convergenza della forma al nuovo ambiente, gli altri rettili marini presentavano invece una notevole varietà
d'aspetto. Il corpo schiacciato dorso-ventralmente con l'aggiunta di uno scudo formato da piastre ossee fu
raggiunto non solo dalle tartarughe (vedi capitolo 9), ma anche dai placodonti (vedi capitolo 17), una linea
evolutiva senza alcuna parentela con le tartarughe, per cui appare logica la deduzione di una buona riuscita di
quel tipo di corpo. Un corpo simile a quello dei coccodrilli comparve nei mesosauri, forse più affusolati e
anguilliformi. Nei plesiosauri (vedi capitolo 17) si affermò un corpo tozzo e pesante, compensato però da un
lungo collo guizzante. L'evoluzione quindi nel modellare una forma idonea all'ambiente acquatico sfoggiò tutta la
sua inesauribile fantasia.

LE PINNE
Il nuovo modo di vivere impose anche un nuovo modo di muoversi nell'elemento liquido. La coda, l'organo
propulsore dei pesci, ma poco importante per un animale terrestre, ritornò ad assumere un ruolo determinante
per il movimento, come negli ittiosauri, nei mesosauri ed in minor misura anche nei sauropterigi (vedi capitolo 17).
Gli arti invece si modificarono profondamente in tutti i rettili acquatici, tendendo ad assumere la forma e la
funzione di una pinna. Quelle specie marine o di acqua dolce che non abbandonarono completamente
l'abitudine di camminare o strisciare sul terreno, presentavano ancora una certa mobilità dei diversi pezzi
scheletrici che compongono l'arto; invece nelle forme che lasciarono per sempre l'ambiente terrestre i pezzi
divennero più rigidi, mentre aumentò eccezionalmente il numero delle falangi.

L'ALIMENTAZIONE
Carattere comune a tutti i rettili acquatici fu la dieta carnivora basata sulla cattura di pesci, o altri animali, per
mezzo di una bocca armata di acuminatissimi denti. Solo i placodonti avevano denti a piastre trituratrici capaci
di schiacciare la conchiglia dei molluschi gasteropodi.

LA RIPRODUZIONE
Forse fu l'adattamento più difficile da raggiungere per l'affrancamento completo dall'ambiente terrestre.
Una parte di rettili acquatici conservò la possibilità di muoversi sulla terraferma, non per cacciare prede però
- poiché il loro movimento doveva essere lento, come quello delle odierne testuggini marine - ma per venire a
terra a deporre le uova. Gli ittiosauri e i plesiosauri invece rimasero esclusivamente in acqua: l'uovo
completava il suo sviluppo nel corpo della madre e i piccoli venivano partoriti già perfettamente formati. Vi É
un reperto fossile eccezionalmente conservato di una femmina di ittiosauro ritrovato a Holzmaden in Germania
con lo scheletro di alcuni embrioni ancora racchiusi nel corpo della madre ed altri poco lontani. Evidentemente
durante l'agonia la femmina riuscì a dare alla luce alcuni embrioni che però morirono subito dopo.

LA CRISI DEI PESCI


Il grande sviluppo dei rettili marini, soprattutto nel Giura, mise in forte crisi i pesci che già da milioni di anni
popolavano quelle acque; in particolare subirono la pressione dei rettili i pesci cartilaginei, come gli
squali, che rischiarono addirittura l'estinzione. Ma buon per loro, per motivi tutt'ora poco noti, i rettili
marini, chi prima chi dopo, entrarono in crisi e cominciarono ad estinguersi lasciando così via libera alla ripresa
dell'espansione degli squali.

I MESOSAURI
Anche questi rettili raggiunsero una buona specializzazione per la vita acquatica, forse non marina però. I
caratteri dei mesosauri non ci permettono una precisa collocazione nelle grandi sottoclassi che conosciamo;
per loro si usa spesso il termine "incertae saedis", cioÉ a dire, in parole ampollose, che non sappiamo dove e
con chi classificarli. I mesosauri comunque non ebbero un grande sviluppo; comparvero infatti verso la fine
del Carbonifero, ma nell'ultima parte del Permiano erano già estinti. Le loro dimensioni erano modeste, non
superiori al metro, ma il cranio con l'enorme bocca irta di denti li rendeva temibili predatori di pesci. L'aspetto
generale era simile a quello dei coccodrilli, ma i due animali non hanno alcun grado di parentela tra loro
16. GLI ITTIOSAURI (PARAPSIDI).

La linea evolutiva dei rettili parapsidi, cioÉ con una finestra temporale quasi alla sommità del cranio (vedi
capitolo 5), É particolarmente interessante poiché in questa sono comprese solo forme perfettamente adattate
alla vita nei mari: gli ittiosauri. Questi rettili raggiunsero una tale specializzazione per il nuovo modo di
vivere da assomigliare in larga misura ai delfini o ai pesci. Anzi quando si vuole illustrare il fenomeno della
convergenza É inevitabile citare anche gli ittiosauri. Purtroppo però non abbiamo la possibilità di documentare le
tappe attraversate da questi rettili per raggiungere la forma idrodinamica che li distingue.

IL MISTERO DELLE LORO ORIGINI


I primi scheletri fossili di ittiosauri risalgono al pieno Trias, circa 200 milioni di anni fa, ma con un'anatomia
già perfettamente definita: il corpo affusolato, la coda potente con la relativa pinna, gli arti trasformati in
pinne. Non abbiamo cioÉ alcuna forma intermedia capace di collegare questi primi rettili già adattati alla vita
marina con quelli terrestri da cui devono pur derivare. Il mistero É ancora più fitto se si considera che gli
ittiosauri sono tra i rettili fossili meglio conosciuti. Disponiamo di molti scheletri completi perfettamente
conservati; É stato rinvenuto addirittura un frammento della loro pelle. L'ambiente marino infatti É
particolarmente favorevole alla fossilizzazione dello scheletro. Se ad esempio l'animale muore vicino alla foce di un
fiume, il suo corpo verrà sepolto dai sedimenti trasportati dalle acque e rapidamente sottratto agli agenti
distruttori, il che faciliterà il processo di fossilizzazione. Oggi conosciamo molto meglio le forme che vissero
nell'acqua, specie nei mari, che quelle terrestri. Nonostante tutto questo, sappiamo così poco sull'origine degli
ittiosauri che sono state avanzate delle ipotesi abbastanza strane, come quella che li fa derivare dai rettili
pelicosauri del tipo "Ophiacodon" (vedi capitolo 12), oppure quella che li fa derivare direttamente da anfibi
embolomeri (vedi il volume di questa collana sugli Anfibi), senza passare attraverso i cotilosauri, ritenuti i
precursori di tutti i rettili.

QUASI PESCI
Comunque siano andate le cose, nel Trias, 225 milioni di anni fa, comparvero i primi ittiosauri nei mari
dell'emisfero nord, ma ben presto si estesero in tutti gli oceani. Il periodo del loro massimo fulgore cade tra il
Giura ed il Creta, 130 milioni di anni fa, quando in tutti i mari dovevano essere presenti numerosi branchi di
ittiosauri che nuotavano insieme in cerca di prede, un po' come oggi fanno i tonni. La forma degli ittiosauri infatti É
del tutto simile a quella di un pesce predatore, e anche la dentatura É tipica del cacciatore, per cui appare
logica la deduzione che anche le abitudini di vita fossero identiche. Come per tutti i rettili dominatori dell'Era
Secondaria, anche per gli ittiosauri iniziò un lento ma inesorabile declino che culminò nella loro totale
scomparsa, circa 65 milioni di anni fa, o forse anche meno. Così come É misteriosa la loro origine, non meno
misteriosa É la loro fine. Perché scomparvero, visto che avevano raggiunto un'ottima specializzazione per la vita
marina, mentre animali acquatici come squali e pesci ossei continuavano a vivere indisturbati in quegli
stessi mari? Perché scomparvero solo loro? Non vi É una risposta a questa domanda; anche le ipotesi
catastrofiche, che vedremo a proposito dei dinosauri, non sono assolutamente soddisfacenti.

NOTA: LA CONVERGENZA
E' uno dei fenomeni più affascinanti dell'evoluzione: lo stesso ambiente, le stesse esigenze portano a forme
pressoché identiche. Ad esempio, 400 milioni di anni fa, con i pesci cartilaginei (gli squali), emerse una
forma da pesce predatore che ritroviamo quasi identica negli ittiosauri di 130 milioni di anni fa, nei teleostei
(tipo tonno) e nei mammiferi (tipo delfino) meno di 50 milioni di anni fa. Partendo cioÉ da matrici diverse (pesce
cartilagineo, od osseo, o rettile, o mammifero) si raggiunge la stessa forma idrodinamica con una possente
coda per assicurare un nuoto veloce. L'ambiente quindi seleziona in un'unica direzione e il risultato finale É
identico.

NOTA: LE PINNE DEGLI ITTIOSAURI


Non solo il corpo di questi rettili si adattò all'ambiente marino, ma anche gli arti si modificarono
profondamente per trasformarsi in pinne. La zampa divenne rigida, i pezzi ossei, come l'omero e il femore,
si accorciarono notevolmente, mentre la parte più espansa della pinna si arricchì di un elevato numero di
falangi
L'iperfalangia É infatti la caratteristica più tipica dell'arto trasformato in pinna e la ritroviamo negli altri rettili
adattati alla vita: marina, come i plesiosauri (vedi capitolo 17), ed in misura minore nei cetacei attuali. Però
vi É una netta differenza tra un rettile marino e un cetaceo. Nei rettili tutte le zampe si sono trasformate in
pinne, mentre nei cetacei questa modificazione compare solo negli arti anteriori, poiché i posteriori, con l'intero
bacino, scompaiono.

17. I SAUROPTERIGI (EURIAPSIDI).

La finestra temporale dei rettili con cranio di tipo euriapside (vedi capitolo 5) É posta quasi al vertice ed É
molto ampia. La linea evolutiva di questi rettili É estremamente eterogenea, poiché comprende specie
anche molto diverse tra loro per forma, dimensioni e abitudini di vita.

I PROTOROSAURI
L'ordine dei protorosauri, vissuti nel Permiano-Trias e oggi estinti, É il più antico tra quelli euriapsidi e deriva
direttamente dai cotilosauri (vedi capitolo 7). Erano rettili di piccole dimensioni, simili a lucertole, che
conducevano vita parzialmente acquatica. Tra loro il "Tanystropheus" era il più curioso per il lungo collo,
ottenuto non con l'aumento del numero delle vertebre cervicali ma con l'eccezionale allungamento delle stesse,
come avviene per le giraffe.

I SAUROPTERIGI
Questo ordine comprende rettili euriapsidi estinti vissuti nel Trias- Giura e adattati in genere alla vita anfibia, o
decisamente acquatica
Sono distinti in tre sottordini: i notosauri, i plesiosauri, i placodonti.

I NOTOSAURI
Questi rettili sauropterigi - tra i quali il "Nothosaurus" - furono forme intermedie che, diversamente da quanto
abbiamo visto per gli ittiosauri, segnarono il passaggio dalla vita terrestre a quella marina. Avevano
abitudini da anfibi, uscendo dall'acqua per brevi passeggiate sulla terraferma, forse allo scopo di deporre le
uova e allevare i piccoli. Infatti le loro zampe erano articolate e sapevano sostenere il peso del corpo.
Contemporaneamente avevano già alcune delle principali caratteristiche dei rettili più tipicamente marini, come
il collo allungato ed il corpo appiattito.

I PLESIOSAURI
Sono i più noti nell'ordine dei sauropterigi anche per l'abbondanza dei reperti fossili. Raggiunsero l'apogeo della
loro evoluzione tra il Giura e il Creta, diffondendosi numerosi in tutti i mari, poi lentamente cominciarono ad
estinguersi
La caratteristica principale dei plesiosauri É decisamente imbarazzante per gli studiosi dell'evoluzione.
Abbiamo visto nel capitolo precedente che l'habitat acquatico porta all'evoluzione di un corpo e di un cranio
affusolato, con una potente coda per assicurare la spinta in avanti. Però questa che sembra una regola ha la
clamorosa eccezione nei plesiosauri. Il loro corpo era non solo voluminoso, ma tozzo e compresso
ventralmente; il movimento non era assicurato dalla coda, in genere di modeste dimensioni e con scarsa
muscolatura, ma dai quattro arti modificati in quattro robuste ed ampie pale armate di moltissime falangi
proprio come negli ittiosauri. Con un corpo simile i plesiosauri non dovevano essere veloci nuotatori, tutt'altro.
Ma l'arma migliore di questi rettili era il collo, lunghissimo, spesso più lungo della restante parte del corpo,
sormontato da una piccola testa armata di affilatissimi denti. Forse la tecnica per catturare le prede prevedeva
un avvicinamento lento e cauto, per poi invece dardeggiare fulmineamente il lungo e guizzante collo e
azzannare il malcapitato
Questa linea evolutiva dei rettili euriapsidi ebbe una notevole fortuna, e come sempre accade quando una
nuova forma É vincente, comparvero anche specie gigantesche. L'"Elasmosaurus" superava i 13 metri di
lunghezza, mentre il "Peloneustes" era lungo circa 3 metri.

UNA CURIOSITA' STORICA


E. D. Cope, un illustre paleontologo americano del secolo scorso, autore di numerosissime scoperte, prese
un grosso abbaglio quando ricostruì in laboratorio il primo "Elasmosaurus" fossile: giunto quasi al termine della
costruzione dello scheletro si pose il problema di dove mettere la testa. L'animale presentava alle due estremità
due prolungamenti della colonna vertebrale che non differivano molto tra loro, per cui bisognava decidere quale
fosse la coda, quale il collo
Dopo una lunga meditazione prese la risoluzione sbagliata e mise la testa sull'estremità della coda, con
grande soddisfazione dei "colleghi" che non gli risparmiarono critiche e motteggi quando fu chiaro lo sbaglio.

I PLACODONTI
L'ultimo sottordine dei sauropterigi si compone di animali decisamente curiosi. La loro dieta a base di molluschi
provvisti di conchiglia modificò i loro denti in piastre appiattite (da cui il nome di questi rettili) per schiacciare i
gusci, mentre la mandibola era provvista di una potente muscolatura
I placodonti erano rettili marini, ma l'arto non completamente modificato in pinna era ancora capace di
spostare il corpo anche sulla terraferma, dunque potevano condurre una vita anfibia. Alcuni placodonti,
come il "Placochelys" e l'"Henodus", erano protetti da una corazzatura sul dorso - formata da ampie piastre ossee -
molto simile a quella delle tartarughe. Si diffusero soprattutto nei mari del Trias in corrispondenza delle coste
europee, ma già nel Giura erano completamente scomparsi

18. IL TUATARA (DIAPSIDI RINCOCEFALI).

I DIAPSIDI I rettili diapsidi, cioÉ con due finestre sulla parete del cranio (vedi capitolo 5), rappresentano la
linea evolutiva più importante, sia per numero di specie, moderne e antiche, sia per la spettacolarità
dell'evoluzione in alcuni gruppi. Dai diapsidi infatti prenderanno origine anche i dinosauri e i rettili volatori, gli
pterosauri. Sono inoltre diapsidi tutti i rettili oggi viventi, con la sola eccezione delle tartarughe. Si dividono in
lepidosauri e arcosauri con tecodonti, due superordini con una differenza importante. I "lepidosauri"
hanno i denti appoggiati alle arcate mascellari, come del resto tutti i rettili finora esaminati a partire dai cotilosauri
(vedi capitolo 7). Gli "arcosauri tecodonti", per la prima volta, hanno i denti infissi negli alveoli (vedi capitolo 26)
I lepidosauri si ramificano in tre ordini: eosuchi, rincocefali, squamati. Per la classificazione dei diapsidi e
per i relativi capitoli si veda la tabella qui sotto (..)

TABELLA DI CLASSIFICAZIONE DEI RETTILI DIAPSIDI..

Superordine Lepidosauri
Comprende gli ordini: Eosuchi, Rincocefali, Squamati (a sua volta comprendente Sauri e Ofidi).

Superordine Tecodonti
Comprende gli ordini: Tecodonti, Loricati, Ornitischi e Saurischi, Pterosauri.
GLI EOSUCHI
Sono i lepidosauri di origine più antica. Le prime forme, infatti, risalgono al Permiano, circa 250 milioni di anni
fa. Ma non ebbero molta fortuna perché già verso la fine del Trias erano probabilmente estinti.
L'"Askeptosaurus" del Trias assomigliava a un coccodrillo ed era lungo circa due metri. Faceva vita
semiacquatica, con la lunga coda che gli permetteva di nuotare, mentre usava le corte zampe per camminare
goffamente sulla terraferma, dove deponeva le uova; si nutriva di pesci e piccoli rettili. Da questo primitivo
ordine ne derivarono altri due, i rincocefali e gli squamati.

I RINCOCEFALI
Mentre gli eosuchi si stavano estinguendo, era in espansione il piccolo ordine dei rincocefali, che ebbero il
loro massimo sviluppo nel Giura, quando sulla terra dominavano i dinosauri. Anche la loro vita evolutiva fu
però breve; già a metà del Creta sembrano scomparsi; da quel periodo a oggi, infatti, non ne esistono tracce fossili.
Più che la concorrenza dei temibili dinosauri, a condannare i rincocefali fu l'espansione dei sauri e degli ofidi,
che avevano invaso la stessa nicchia ecologica ed erano più abili e veloci nel cacciare.

IL FOSSILE VIVENTE
Si riteneva che i rincocefali fossero completamente estinti. Ma nel 1840 gli studiosi, esaminando
attentamente alcune lucertole provenienti dalla Nuova Zelanda - che prima d'allora erano state classificate
tra i sauri solo perché vi assomigliavano moltissimo -, giunsero alla sensazionale scoperta che di rincocefali ne
esistevano ancora. Quei fossili viventi avevano circa duecento milioni di anni, in tutto quel tempo la loro
anatomia era rimasta praticamente invariata, e avevano vissuto accanto ai dinosauri! La notizia fece ben presto
il giro del mondo, suscitando un forte interesse negli ambienti degli specialisti. Si organizzarono spedizioni per la
ricerca e lo studio di quei rettili.

APPENA IN TEMPO
Ma una brutta sorpresa aspettava i ricercatori: con l'arrivo dell'uomo bianco, nelle lontane isole della Nuova
Zelanda, al largo dell'Australia, erano stati introdotti anche il gatto ed il maiale, che, inselvatichiti, avevano
rapidamente distrutto la popolazione di rincocefali. Solo alcune isolette disseminate nelle baie delle due isole
maggiori ospitavano ancora pochi esemplari di quei preziosi rettili, che furono subito posti sotto un controllo
stretto per impedirne l'estinzione. Il primo provvedimento a loro favore fu lo sterminio dei gatti e dei maiali e
quindi si cercò, anche con fortuna, di allevare quei rettili in cattività.

IL TUATARA
Il nome popolare con cui gli indigeni maori chiamavano il nostro rettile era "tuatara", cioÉ "portatore di
aculei", per via della cresta dorsale fatta di aculei cornei. Il nome scientifico con cui fu battezzato É
"Sphenodonpunctatus" (sottordine degli sfenodonti). Il Tuatara dimostrò subito ai primi esami la sua estrema
primitività. Le vertebre sono simili a quelle dei pesci, É privo di organi copulatori e ha un metabolismo
bassissimo, inferiore non solo a quello di tutti i rettili ma anche a quello di molti anfibi. Proprio per questo tipo di
metabolismo il Tuatara ha movimenti lentissimi e torpidi; si accontenta di catturare anche pochi insetti al
giorno poiché le sue richieste energetiche sono altrettanto basse. Non stupisce che i rincocefali non fossero
stati in grado di competere con i più abili serpenti e lucertole nella caccia di insetti o di piccole prede
Sopravvissero solo in quelle remote isole della Nuova Zelanda dove la concorrenza non esisteva
Il Tuatara ha abitudini notturne: esce dalla tana solo di notte, anche se non fa molto caldo. La temperatura
del suo corpo infatti É singolarmente bassa, poiché si aggira sui 13 gradi centigradi persino quando l'animale
É in piena attività (si fa per dire); i rettili in genere hanno una temperatura più elevata, anche il rospo raggiunge i
25 gradi centigradi, il che sottolinea ancora una volta la primitività del Tuatara. Questo rettile, però, ha almeno un
organo decisamente evoluto: il terzo occhio, o "occhio pineale", specializzato per percepire solo le
lunghezze d'onda dell'infrarosso; agisce cioÉ come un termorecettore per informare l'animale sulla
temperatura dell'ambiente. Oggi il Tuatara non corre più alcun pericolo; É l'ospite privilegiato di alcune isole
in cui É assolutamente vietato l'accesso.

NOTA. Il Tuatara in genere abita in tane scavate nel terreno in coabitazione con un uccello. Non É ancora
chiaro chi dei due provveda a scavare la tana, e quindi chi sia l'inquilino; le due specie, così diverse tra loro,
vanno comunque d'accordo, anche perché l'uccello ha abitudini diurne e il tuatara notturne

19. CARATTERI DEI SAURI. I GECHI (DIAPSIDI SQUAMATI, SAURI).

Conosciuto un uccello, si può dire di averli conosciuti tutti poiché la classe di questi vertebrati É molto
omogenea; per i rettili l'affermazione non vale: i vari ordini hanno radici profondamente diverse, alcune più
antiche, altre più recenti. Così una tartaruga differisce da un serpente o da un coccodrillo, sia per forma che per
storia evolutiva. I sauri (o lacertiliani) forse sono i rettili viventi con origini più recenti, poiché risalgono al Giura,
circa 150 milioni di anni fa, quando già erano presenti sulla terra le tartarughe e i coccodrilli.

L'ANATOMIA
I sauri, che appartengono ai diapsidi lepidosauri squamati, hanno il cranio caratterizzato da due finestre
temporali, quella inferiore, però, non É chiusa per la mancanza di un pezzo osseo; questo consente all'animale
di spalancare la bocca, non solo abbassando la mandibola, ma anche alzando la mascella, con un movimento
che diverrà molto più evidente nei serpenti. L'aspetto esterno É tipicamente lacertiliano, più o meno tozzo o
slanciato. Non mancano forme senza arti simili ai serpenti, che si riconoscono però come sauri perché la
membrana del timpano del loro orecchio É sul fondo di una piccola, visibile depressione; i sauri, cioÉ,
hanno un inizio dell'orecchio esterno che si svilupperà appieno nei mammiferi.

LA RIPRODUZIONE
La riproduzione avviene per mezzo di uova che in genere sono abbandonate al loro destino; alcune
specie però, come la Lucertola vivipara, le conservano nell'ovidotto, dove l'embrione completa il suo sviluppo,
uscendo dal corpo materno già completamente formato
Molti sauri hanno sulla superficie interna delle cosce delle strane ghiandole, i "pori femorali", che sono
particolarmente attivi durante il periodo degli accoppiamenti e secernono un liquido denso e vischioso. A
cosa serva questo liquido É ancora da scoprire: forse É un richiamo, forse agevola l'accoppiamento; di certo si sa
solo che É in stretta relazione con l'epoca degli amori
I sauri, che da soli comprendono poco più della metà dei rettili viventi, sono suddivisi in 6 infraordini, 22
famiglie, 300 specie
Descriverli tutti É un compito da trattato di zoologia, qui verranno illustrati solo alcuni esempi tra i più
interessanti.

LA DISTRIBUZIONE
Dato che amano i climi caldi, i sauri sono particolarmente concentrati tra i due Tropici. Via via che ci si
allontana verso i poli le famiglie di questi rettili calano rapidamente, per scomparire del tutto nell'Artico e
nell'Antartico. I sauri infatti vivono, mangiano e si riproducono a una temperatura compresa tra i 10 gradi centigradi
ed i 40 gradi centigradi; se fa più freddo o più caldo i rettili si rifugiano nelle tane (ibernazione o
estivazione) in attesa di temperature migliori.

I GECHI
Tra i sauri, la famiglia dei geconidi É tra le più antiche, con vertebre simili a quelle dei rettili fossili o dei pesci.
I gechi sono praticamente cosmopoliti, essendo distribuiti su tutta la fascia caldo-temperata della terra. Sono
gli unici sauri capaci di emettere suoni, anzi il loro nome deriva dal grido "gech-gech" che lanciano quando
sono impauriti, ma sanno produrre anche altri suoni più dolci e delicati. Tutti i gechi hanno abitudini notturne; al
crepuscolo escono dalle loro tane e si arrampicano sui muri e sui rami per cacciare insetti; solo il geco
giapponese ha un regime vegetariano. L'occhio di questi sauri É molto voluminoso e sporgente, con la pupilla a
forma di stretta fessura verticale; É privo di palpebre e spesso l'animale ci passa sopra la lingua umida. Come
tutti i sauri, anche i gechi fanno la muta, e la vecchia pelle, divenuta troppo stretta, cade a brandelli. I
gechi sono conosciuti anche per la loro straordinaria capacità di arrampicarsi in verticale sui muri o su altre
superfici anche levigatissime; le cinque dita delle loro zampe infatti sono appiattite e provviste di una fitta serie
di lamelle, ciascuna delle quali possiede una miriade di microscopici uncini, capaci di sfruttare anche la più
piccola ed invisibile asperità della parete; questi uncini funzionano un po' come le unghie del gatto quando si
arrampica su un albero
Il carattere del geco É molto mite, non teme l'uomo, anzi spesso vive sulle pareti delle case, a volte vi penetra
anche, poiché trascorre la notte spostandosi da un territorio all'altro in una caccia continua agli insetti che
cattura e divora con la sua enorme bocca. I gechi infine sono moderatamente capaci di cambiare colore; di notte
tendono verso una tonalità scura, di giorno si schiariscono.

IL PARENTE SENZA ZAMPE


In Australia vivono i pigopoditi, dei geconidi privi degli arti anteriori, mentre i posteriori sono ridotti a
moncherini. Questi strani geconidi hanno il tipico aspetto dei serpenti e come tali si spostano e cacciano. La
lunghezza del loro corpo É dovuta soprattutto alla coda, particolarmente affusolata e sottile.

20. LE IGUANE E GLI AGAMIDI (DIAPSIDI SQUAMATI, SAURI).

Due famiglie di sauri, gli iguanidi e gli agamidi, sono tra loro molto simili ma hanno una distribuzione diversa. Gli
iguanidi vivono nella fascia calda del nuovo mondo, mentre l'Africa, l'Eurasia meridionale e l'Australia sono
popolate dagli agamidi. Gli iguanidi comprendono rettili che variano da pochi centimetri, come i frinosomi, a un
metro e mezzo, come le Iguane delle Galapagos
Tra gli iguanidi, ma anche tra gli agamidi, vi sono specie particolarmente veloci; anzi per aumentare la
velocità della loro corsa si alzano sul terreno e corrono solo con gli arti posteriori. La cosa, se É eccezionale per
un rettile vivente, non lo É affatto per l'intera classe; infatti molti rettili estinti dell'Era Secondaria avevano la
stazione eretta, come vedremo nel capitolo 26.

LE IGUANE MARINE
Fino a qualche decennio fa le coste ricche di scogli delle isole Galapagos, al largo dell'Ecuador,
nell'Oceano Pacifico, ospitavano folti banchi di iguane marine che si riscaldavano al sole. Doveva essere
uno spettacolo meraviglioso, descritto anche da Darwin nel 1835, quando visitò quei luoghi: centinaia e
centinaia di iguane lunghe fino a un metro e mezzo, ferme sotto il sole e incuranti anche della presenza
dell'uomo, che poteva avvicinarsi tranquillamente
Infatti questi rettili, nonostante le loro dimensioni (sono tra i più grandi sauri viventi) e il loro aspetto certamente
non accattivante, sono totalmente docili e inoffensivi. La loro dieta É a base di tenere alghe marine, che
brucano sul fondo o in superficie. Le iguane sono gli unici sauri che si spingano anche nel mare, ma solo vicino
alla costa e solo per il tempo necessario a procurarsi il cibo. Il loro numero però É pericolosamente diminuito
per l'accanita caccia di cui sono oggetto: la pelle dell'iguana infatti, opportunamente conciata, É molto pregiata
per la confezione di borsette e scarpe; per di più É facilissimo catturare questi miti e pacifici animali

LE IGUANE TERRESTRI
Sempre nelle isole Galapagos Darwin vide e descrisse anche un'altra specie di grandi iguane le cui abitudini
erano invece tipicamente terrestri; anche queste iguane un tempo erano numerosissime; Darwin ad esempio
racconta di avere incontrato qualche difficoltà per piantare le tende, poiché il terreno era disseminato di tane di
iguana; oggi purtroppo anche questi grandi sauri corrono il rischio di estinguersi: non solo É apprezzata la loro
pelle ma É ricercata anche la loro carne, che dicono molto prelibata. Ciò non stupisce, visto che le iguane
terrestri si cibano di frutta e bacche che raccolgono di giorno, quando non fa troppo caldo, al mattino o
all'imbrunire; nelle ore di canicola, invece, sostano e si appisolano all'ombra dei cespugli o degli alberi.
Anche questi sauri sono miti e non temono l'uomo, un tempo non avevano nemici naturali, oggi i cani
inselvatichiti concorrono alla distruzione di questa stupenda specie.

I BASILISCHI
Con il termine "basilisco", che significa piccolo re, già nell'antica Grecia veniva indicato un mitico animale dotato
di misteriosi poteri malefici. La credenza passò alla Roma antica e al medioevo; la leggenda dell'animale
portentoso, ma che nessuno aveva mai visto, giunse anzi fino al 1700. In realtà, per molti secoli astuti
imbroglioni avevano creato dei falsi basilischi riunendo insieme parti diverse di più disparati animali. Oggi nessuno
crede più al terribile basilisco, ma il nome É passato a un iguanide americano che con la sua cresta sulla testa
e sul dorso sembra un piccolo re. Il genere "Basiliscus", vivente dal Messico meridionale all'Ecuador, non É più
lungo di 80 centimetri ma É molto veloce e scattante: può addirittura correre, per un breve tratto però, anche
sull'acqua, un po' come fa un sasso piatto quando viene lanciato sul pelo dell'acqua.

LA DIFESA CON UN BLUFF


L'agamide Testa di rospo barbuto É famoso per il modo con cui si difende: se minacciato da un altro
animale, prima si appiattisce immobile sul terreno poi, continuando il pericolo, si alza sulle zampe e spalanca la
bocca che appare molto più grande di quanto non sia in realtà per la presenza ai lati di due pieghe di pelle
estensibile e molto colorata; se il pericolo persiste l'animaletto si lancia in un disperato attacco nel tentativo di
mordere l'avversario.

IL MOLOCH
In Australia vive il più strano e il più brutto dei sauri, il Moloch; questo piccolo agamide, non più lungo di 20
centimetri, infatti, oltre ad avere un corpo tozzo e poco aggraziato É tutto ricoperto di tubercoli simili a spine
che lo rendono ancora più orrendo, ed anche per questo viene denominato "horridus".

IL DRAGO VOLANTE
Merita una citazione anche questo agamide. Lungo i fianchi ha due "ali" di pelle, sostenute dalle costole
molto allungate, che si possono richiudere come un ventaglio. Quando sono aperte, sostengono l'animale nei
suoi balzi da un ramo all'altro. Questa specie di salto planato É utilizzato dal sauro anche per cacciare insetti al
volo.

21. IL CAMALEONTE E L'ELODERMA (DIAPSIDI SQUAMATI, SAURI).

IL CAMALEONTE
Il camaleonte É molto conosciuto, anche tra i non esperti, sia per il suo strano aspetto, sia per la sua capacità,
un po' troppo mitizzata, di cambiare colore. La famiglia dei camaleonidi, il cui nome greco indicherebbe o
"piccolo leone" o "cammello-leone", sembra derivare dagli agamidi ed É distribuita nelle zone calde temperate
dell'Asia, dell'Africa e dell'Europa meridionale
Le abitudini di vita del camaleonte sono molto monotone; in genere non si allontana mai dal suo habitat, alberi o
arbusti, dai quali scende raramente a terra. Al mattino esce dal suo rifugio e lentamente cerca un ramo dove
potersi riscaldare al sole. Il suo movimento sui rami É lentissimo e dondolante, come di una foglia mossa dal
vento. Le sue zampe hanno due dita rivolte in senso opposto alle altre tre, così da poter attanagliare con
sicurezza il ramo su cui cammina; anche la coda É prensile, unico sauro ad avere questa possibilità, ed É usata
come quinta zampa.

LA CACCIA
Quando il sole lo ha ben riscaldato, il rettile comincia la caccia
Suo cibo preferito sono gli insetti, con una spiccata predilezione per le cavallette. Per catturare la preda, il
camaleonte si avvicina furtivo e fa scattare con incredibile velocità la sua lunghissima e appiccicosa lingua.
Se l'insetto viene toccato dall'estremità ingrossata della lingua, vi rimane inesorabilmente attaccato e viene
trascinato nell'enorme bocca. Il movimento della lingua É così fulmineo, che il nostro occhio quasi non lo
percepisce; solo con le riprese cinematografiche rallentate É possibile vedere con chiarezza il meccanismo e la
precisione di questa formidabile arma, che compensa di gran lunga la lentezza dei movimenti
Quando però da cacciatore si trasforma in cacciato (tra i suoi nemici più temibili ci sono i serpenti), allora il
camaleonte si trova a mal partito. La lentezza di movimenti gli impedisce la fuga; non gli resta che lasciarsi
cadere dal ramo, sperando in bene.

L'OCCHIO. Il camaleonte ha strani occhi voluminosi e sporgenti che si muovono indipendenti l'uno dall'altro
in cerca di cibo, o per scrutare l'arrivo di un nemico. Nella caccia essi giocano un ruolo importante
Solo quando il malcapitato insetto É a portata di lingua entrambi gli occhi convergono su di lui, forse per
misurare bene la distanza e la posizione del bersaglio e non sbagliare la mira.

IL CAMBIAMENTO Dl COLORE
La fama del camaleonte É legata anche alla sua capacità di cambiare colore facilmente per uniformare le
tinte del suo corpo a quelle dell'ambiente. Questa capacità non É esclusiva dei camaleonti, in maniera meno
vistosa É possibile osservarla anche in molti altri sauri. Nei camaleonti, però, il colore non ha solo uno scopo
mimetico, É anche una spia del loro umore. Un camaleonte irritato o che cerca di difendere il suo territorio da un
rivale assume una colorazione poco o per nulla mimetica; anche le malattie influenzano il colore, dal nero
intenso al bianco quasi puro ma le specie, prese singolarmente, dispongono di una gamma di colori più
ristretta.

L'ELODERMA
La famiglia dei sauri elodermatidi - Eloderma orrido e Eloderma sospetto - può sopportare anche per anni
la più totale mancanza di cibo e acqua e questo la rende particolarmente adatta ad abitare in territori ove, sia
l'acqua sia le potenziali prede, sono eccezionalmente scarse. Vive nelle regioni aride e desertiche del
Messico e dell'Arizona
Gli eldermi sono gli unici sauri velenosi. Il veleno É prodotto da una ghiandola specializzata e si mescola alla
saliva, però non viene iniettato nelle carni della vittima con appositi denti, come fanno i serpenti (vedi capitolo
24). La tecnica É molto più primitiva e rozza: l'eloderma azzanna la preda e per svariati minuti non molla la presa
per nessun motivo, così da consentire alla saliva velenosa di diffondersi nel corpo della vittima. Il metodo É
decisamente poco efficace, ma occorre tenere presente che l'eloderma ricorre al morso solo in casi estremi,
mai comunque quando va in cerca di cibo. Questo sauro infatti si nutre di piccole prede o uova che cattura e
ingerisce direttamente. Morde con ferocia solo se É aggredito, o se si sente in pericolo e non può cercare la
salvezza nella fuga. Quando É costretto a difendersi, il sauro, che normalmente ha movimenti pigri e lenti,
scatta fulmineamente e affonda gli acuminati denti nel corpo del nemico. La presa del suo morso É
fermissima, si può tirare o bastonarlo ma il sauro non apre la bocca, si può anche farlo a pezzi, ma la testa
rimane saldamente avvinghiata alla carne, solo con un coltello si può sforzare la bocca e spalancarla. La
pericolosità per l'uomo non É eccessiva: si conoscono solo una dozzina di casi letali, ma un morso
dell'eloderma É particolarmente doloroso e provoca un forte rigonfiamento della parte colpita.
22. I VARANI, LE LUCERTOLE, L'ORBETTINO (DIAPSIDI SQUAMATI, SAURI).

I VARANIDI
Il nome di questa famiglia di sauri forse deriva dall'arabo "uran" che significa "lucertola" poiché il loro aspetto
generale É simile a quello delle comuni lucertole. Le loro dimensioni sono quanto mai varie, con specie
lunghe non più di 20 centimetri e specie che raggiungono i tre metri e mezzo. Sono distribuiti in Asia, Africa e
Australia. In genere carnivori e attivi cacciatori, cercano la preda soprattutto con l'aiuto dell'olfatto finissimo e
della lunga lingua bifida. Questa, presente anche nelle lucertole e nei serpenti, viene usata per raccogliere da
terra le particelle odorose; la lingua viene poi ritirata in bocca, dove le due piccole cavità sul palato che
formano l'organo di Jacobson (vedi capitolo 23) percepiscono l'odore
L'olfatto diventa così estremamente sensibile e l'animale può seguire la sua preda semplicemente
raccogliendo dal terreno le particelle odorose che questa lascia dietro di sé
La voracità dei varanidi É incredibile: possono divorare e inghiottire una quantità di carne pari al loro peso. Dopo
questi banchetti, però, si sdraiano a digerire e dormono anche per sei giorni di fila. Il più grande della sua
famiglia, e di tutti i sauri, É il Varano di Komodo, un tempo molto diffuso nelle isole dell'Indonesia. Questo
gigante, lungo oltre tre metri e con un peso superiore al quintale, É un cacciatore accanito, aggredisce
animali più grandi di lui, come cervi e cavalli, che affronta con coraggio o incoscienza. Non essendo
velenoso, difficilmente riesce a provocare la morte immediata nelle sue vittime. Quando queste, ferite
gravemente, si trascinano via e muoiono, il varano localizza la carogna con l'efficientissimo olfatto, e l'odore
del corpo in decomposizione fa accorrere al pasto numerosi compagni. Per sbranare le carni usa una tecnica
insolita: morde a fondo e poi fa un balzo all'indietro per strappare il brandello che rapidamente inghiotte
I Varani di Komodo hanno corso il rischio di estinguersi poiché accanitamente cacciati per la loro pelle
pregiata; oggi però sono stati creati dei parchi per proteggere i superstiti, poiché sarebbe imperdonabile
perdere questi enormi esemplari, certo non simpatici come il panda, tutt'altro, ma unici nel loro genere.

NOTA. Il varano di Komodo, che prende il nome dall'isola su cui vive (nell'arcipelago della Piccola Sonda, in
Indonesia), ╚ ormai ridotto a poche centinaia dl esemplari anche per la caccia da parte dell'uomo agli animali
di cui si nutre, cervi porcini e maiali selvatici. Per le sue grandi dimensioni e per la sua forma, spesso viene
spacciato nei documentari dl divulgazione per un dinosauro.

I LACERTIDI
Sono i sauri più comuni, meglio conosciuti col nome di lucertole. La loro distribuzione si estende in Asia, Africa,
Europa; una specie, la Lucertola vivipara, si spinge anche in territori freddi, fino al Circolo Polare Artico e può
essere trovata persino a 2500 metri di altezza. La femmina di questa specie, infatti, conserva e riscalda nel
proprio corpo le uova fino al completo sviluppo dell'embrione
Anche i lacertidi hanno la lingua bifida capace di raccogliere da terra le particelle odorose
Il colore di questi animali É quanto mai vario, ma in genere i toni sono brillanti e vividi. La "Lacerta viridis", il
comune ramarro, ad esempio, É di un verde quasi fosforescente con sfumature blu, certo non particolarmente
mimetico rispetto al verde naturale delle piante
I lacertidi, come altri sauri, possono "perdere la coda". In realtà si tratta di un accorgimento difensivo. Nelle
vertebre della coda c'É un punto ben definito dove la lucertola può provocare volontariamente una rottura,
staccando dal proprio corpo la coda, che pure rimane viva e si agita per alcuni istanti, sconcertando l'eventuale
aggressore: di quei brevi istanti approfitta la lucertola per fuggire. La coda amputata spunterà di nuovo, ma
non più perfetta come quella che l'animale ha eliminato per salvarsi la vita.
GLI ANGUIDI
Questo gruppo di sauri riunisce le forme il cui corpo É simile a quello dei serpenti; infatti in latino "anguis"
significa "serpente"
Gli arti però possono ancora essere presenti ma piccoli, o ridotti a moncherini, oppure mancare del tutto.
L'Orbettino, che É il più classico rappresentante degli anguidi, ha un comportamento simile a quello dei
serpenti e viene spesso confuso con loro e ritenuto erroneamente anche velenoso.

GLI ANFISBENIDI
Sono dei sauri adattati a vivere nel sottosuolo. Quindi hanno un comportamento e un corpo articolato ad
anelli che É assai simile a quella dei lombrichi. Il particolare modo di vita ha infatti modellato degli
accorgimenti funzionali molto simili nei due animali, che però sono molto lontani per posizione sistematica. Gli
anfisbenidi raramente abbandonano le loro gallerie, solo di notte a volte fanno una capatina in superficie; il
resto della loro vita trascorre nel buio dei rifugi, anche grazie alla forte specializzazione dell'udito, un organo
di senso assolutamente indispensabile per tutti gli anfisbenidi.

23. CARATTERI GENERALI DEI SERPENTI (DIAPSIDI SQUAMATI, OFIDI).

Come tutti gli animali con il corpo serpentiforme, anche gli ofidi, o serpenti, hanno avuto degli antenati con le
zampe che sono andate poi completamente perdute nel corso dell'ulteriore evoluzione; solo nei boa sono
rimaste tracce del bacino e del femore. I serpenti sono distribuiti su tutti i continenti, perciò É presumibile che
siano comparsi sulla terra quando questa era costituita da un unico supercontinente. Dopo il
frammentarsi delle zolle i serpenti proseguirono la loro evoluzione nei vari territori in modo autonomo;
comunque, un po' come abbiamo visto per i sauri, vi É una notevole affinità di forme nel blocco euroasiatico,
africano e australiano da una parte e le due Americhe dall'altra.

IL CRANIO
Anche i serpenti appartengono al grande gruppo dei diapsidi, ma le due finestre temporali (vedi capitolo 5) non
sono più visibili a causa delle profonde modificazioni del loro cranio notevolmente alleggerito sulle pareti
laterali. Tutti gli ofidi infatti sono in grado di spalancare enormemente la bocca e inghiottire prede più voluminose
di loro. Questo É possibile non solo per l'elasticità del faringe, ma anche perché, con l'apertura della bocca,
anche la mascella si innalza e le due ossa della mandibola si abbassano e si allargano. Ad esempio un pitone,
che ha la testa non più larga della mano di un uomo, può inghiottire anche un maialetto o un capretto.

DIMENSIONI E ANATOMIA
Il corpo allungato degli ofidi può avere dimensioni quanto mai varie: i Tiflopi, o serpenti ciechi, sono lunghi
circa dieci centimetri e hanno uno spessore di appena un millimetro e mezzo, e visti da lontano sembrano
vermiciattoli, mentre l'Anaconda può superare i dieci metri di lunghezza con trenta centimetri di spessore. Essere
serpenti però comporta anche profonde modifiche degli organi interni pari: il polmone si riduce ad uno solo,
il destro, lungo ed affusolato come il corpo, mentre il sinistro É piccolo o addirittura atrofizzato; i reni rimangono
due, ma sono allungati e disposti uno dietro l'altro. Anche la colonna vertebrale É modificata, tutte le vertebre
tranne le prime portano delle coste arcuate, ma libere ventralmente poiché manca lo sterno. Le coste che
possono alzarsi o abbassarsi sono molto importanti per il movimento serpentino dell'animale.

UN ORECCHIO SORDO
Non avendo né il timpano né la tuba di Eustachio, i serpenti non percepiscono affatto i suoni; la loro sordità,
però, non deriva da un'atrofizzazione dell'organo di senso, ma da una sua estrema specializzazione in
un'altra direzione. La columella, un ossicino che trasmette le vibrazioni del timpano all'orecchio interno, É
collegata con la mandibola e trasmette le vibrazioni di questo pezzo osseo. Quando si acciambella al suolo, il
rettile appoggia sempre la testa (e quindi anche la mandibola) sul terreno, da dove ogni vibrazione viene subito
trasmessa all'orecchio e al cervello. Ma i serpenti non vanno a caccia con l'orecchio, perché gli animali che
costituiscono il loro alimento abituale sono troppo piccoli per fare entrare in vibrazione il suolo quando si
muovono. Forse allora questo originale organo di senso, presente in tutti gli ofidi, si É evoluto per evitare al
serpente di essere calpestato dalle enormi zampe dei giganteschi dinosauri, che, numerosi, popolavano la
terra quando iniziò l'evoluzione degli ofidi. Anche oggi il serpente non gradisce la presenza di animali di
grossa mole, e se sente con il suo speciale orecchio l'arrivo di un intruso voluminoso non ha dubbi, cerca di
sottrarsi all'incontro. I serpenti in genere non sono aggressivi, mordono solo quando sono direttamente disturbati
e se non hanno alcuna possibilità di fuga.

L'OLFATTO CON L'ORGANO DI JACOBSON


L'abbiamo già incontrato in alcuni sauri: sul palato di tutti gli ofidi vi sono due fossette, l'organo di
Jacobson, coperte da un sensibilissimo tessuto olfattorio. Mentre si muove, il serpente spinge continuamente
fuori dalla bocca la sua lingua bifida, lunga e sottile, per raccogliere dal terreno le particelle odorose. Quando la
lingua rientra in bocca, le sue due punte vanno a inserirsi nelle due fossette dell'organo di Jacobson che
valuta le informazioni chimiche contenute nelle particelle. Questo organo di senso viene utilizzato soprattutto
nella caccia poiché non vi sono serpenti erbivori, ma tutti devono catturare delle prede per sopravvivere.

L'OCCHIO SEMPRE VIGILE


I serpenti sono dotati di una buona capacità visiva, però mancano di palpebre e il loro occhio É sempre aperto:
non possono dormire a occhi chiusi, ma solo riposare ad occhi aperti. In compenso l'occhio É protetto da
una pelle esile e di norma trasparente sotto alla quale c'É un velo di liquido lacrimale. Come i sauri anche gli
ofidi compiono la muta, cambiando la pelle quando É diventata molto stretta
Spesso riescono a togliersi l'intero involucro corneo tutto in un colpo, come per un vestito che si sfila dal
corpo. L'operazione viene facilitata dal serpente che all'epoca della muta striscia contro gli alberi o le rocce o si
insinua in strette fessure. Quando la pelle sta per essere sostituita, la parte che copre l'occhio si opacizza poiché
anche questa dovrà essere cambiata; forse in quel periodo l'animale vede come attraverso un vetro smerigliato.

24. LE VIPERE E I CROTALI (DIAPSIDI SQUAMATI, OFIDI).

I DENTI DEL VELENO E LA CACCIA


Anche nel caso degli ofidi occorre fare una scelta tra le tante specie che compongono questo vastissimo
sottordine. I viperidi e i crotalidi rappresentano forse le forme più evolute di questi rettili. Le due famiglie
comprendono serpenti estremamente velenosi; anzi il loro apparato per iniettare il veleno raggiunge il
massimo della perfezione. Sull'osso mascellare, corto e tozzo, sono impiantati due lunghi e acuminati denti
percorsi all'interno da un canale - dentro a cui scorre il veleno prodotto dalle due ghiandole velenifere - che si
apre in prossimità della punta. Quando il serpente tiene la bocca chiusa, questi denti sono ripiegati all'interno,
ma quando la spalanca, scatta una serie di leve ossee che rizza i due denti. I genere il serpente, più che
mordere, spinge a fondo denti nella carne della vittima, con un movimento dall'alto al basso, e
contemporaneamente vi inietta il suo veleno. Il meccanismo funziona più o meno come quello di una siringa per
iniezioni
La formidabile arma É usata soprattutto nella caccia, per la quale sia i viperidi che i crotalidi seguono sempre lo
stesso rituale. Quando la preda É a tiro, con uno scatto fulmineo della testa e della prima parte del corpo,
iniettano il veleno nella vittima, poi, con non minore rapidità, si ritirano. Il movimento É così repentino che può
anche non essere visto; a molti É accaduto, durante una passeggiata, di avvertire un improvviso, acuto dolore
a un polpaccio e di accorgersi solo in un secondo tempo di essere stati morsi da una vipera. Comunque,
dopo l'attacco, la vipera o il crotalo attendono pazientemente che il veleno faccia il suo effetto e finalmente
iniziano la ricerca del corpo, basandosi esclusivamente sulle tracce odorose raccolte dalla lingua bifida.

I VIPERIDI
Questa famiglia É presente solo in Asia, Europa e Africa per cui É presumibile che sia comparsa quando le
Americhe e l'Australia si erano già staccate dal primitivo blocco continentale. Le prede preferite dei viperidi sono
i roditori, piccoli e grandi; a tale proposito questi serpenti dovrebbero essere inclusi tra gli animali molto utili
all'uomo, ma la loro oggettiva pericolosità ne consiglia sempre l'uccisione. I viperidi (e anche i crotalidi)
escono dai loro nascondigli quando la temperatura dell'ambiente oscilla tra 15 e 30 gradi centigradi, dunque li
si può incontrare sia di giorno sia di notte, dipende solo dalla temperatura. I viperidi, come tutti i serpenti,
depongono le uova che poi abbandonano al loro destino. Però, a differenza di quanto accade per gli altri serpenti,
nel momento della deposizione dentro all'uovo c'É un embrione già formato, che può rompere il guscio e
uscire dopo poche ore. In alcune specie lo sviluppo si completa nel corpo materno e la femmina partorisce dei
viperini già pronti a cacciare e già provvisti di veleno. La specie più diffusa É la Vipera comune, detta anche
Marasso palustre, che vive in Europa e in Asia. Una tra le più belle É la Vipera nasicorne per i vivaci colori della
sua pelle.

I CROTALIDI
Se gli abitanti delle Americhe hanno la fortuna di non avere i pericolosissimi viperidi, hanno in compenso i
non meno pericolosi crotalidi, chiamati comunemente serpenti a sonagli; anzi questi sono ancora più temibili
perché più grandi: il Crotalo diamantino É lungo quasi tre metri e il Crotalo muto quasi quattro metri
In un certo senso però i crotalidi sono meno pericolosi per l'uomo perché lo mettono in guardia. Infatti
all'estremità della coda hanno un sonaglio formato da anelli corneificati che emettono un suono caratteristico
quando la coda vibra. Ciò dimostra come i serpenti non siano per natura aggressivi, se non quanto basta per
alimentarsi
Infatti, quando il crotalo vede avvicinarsi un estraneo che non rientra nel suo menù, agita freneticamente la
coda come per avvertirlo della sua pericolosa presenza.

UN ORGANO STRAORDINARIO
Unici tra i serpenti, i crotalidi possiedono uno straordinario organo di senso. Ai lati della testa, tra le narici e gli
occhi, hanno due aperture che comunicano con due camerette, ognuna divisa in due da una sottile membrana.
Sono le "fossette termosensibili", che, come dice il nome, percepiscono i raggi infrarossi emessi da un corpo
caldo. I crotalidi se ne servono per andare a caccia, lasciandosi guidare verso la preda ( ad esempio un topo)
quasi esclusivamente dal calore che questa emana. Le fossette termosensibili chiamate anche "occhi
termici" consentono la caccia in ogni condizione ambientale: di giorno, di notte, o nel buio delle tane dei
roditori; però possono essere utilizzate solo per gli uccelli e i mammiferi che hanno il corpo più caldo
dell'ambiente, mentre non funzionano affatto per le prede con il corpo freddo, come gli anfibi e gli altri rettili. In
cattività si può dimostrare quanta importanza abbia questo organo di senso mettendo davanti al crotalo una
lampadina accesa. Sebbene la forma non corrisponda ad alcun tipo di preda, sebbene non emetta alcun odore,
il crotalo, percependo il calore, si lancia con la bocca spalancata all'attacco della lampadina.

25. I COBRA, I SERPENTI DI MARE, I BOA E I PITONI (DIAPSIDI SQUAMATI, OFIDI).

ELAPIDI
Questa famiglia si compone di serpenti molto velenosi, diffusi in tutti i continenti (esclusa l'Europa). Tra i più
noti ci sono i Cobra dell'Asia sudorientale, i Mamba africani e i Serpenti corallo americani. I loro denti sono
più corti di quelli dei viperidi e non si ripiegano, e mentre il veleno delle vipere agisce sul sangue, il loro agisce
sul sistema nervoso. Hanno una forma slanciata e a volte colori molto brillanti.

I COBRA
La specie si distingue per il cosiddetto "cappuccio" formato, ai lati del capo, da due appendici di pelle dilatabile
sostenuta dalle coste del collo molto allungate. Quando si sente minacciato, il Cobra, che in genere É
pochissimo aggressivo, rizza la testa e allarga il cappuccio, normalmente ripiegato, così da apparire più
grande e spaventare l'avversario
Il Cobra reale, diffuso in India, Indocina e Cina, con i suoi quattro metri di lunghezza, É il gigante tra i cobra; e
poiché il veleno che i serpenti riescono a iniettare É proporzionale alle loro dimensioni, si può immaginare la
sua pericolosità: poche gocce del suo veleno uccidono un cavallo in pochi minuti. Si nutre di serpenti, anche
velenosi
Il Cobra dagli occhiali, diffusissimo nell'Asia sudorientale, ha un cappuccio rotondo sul quale, dorsalmente, le
squame formano un disegno tipico, simile a un paio d'occhiali. Vive ovunque, persino nei giardini delle
grandi città, ed É il partner preferito degli incantatori di serpenti
Dei molti cobra africani il Cobra sputatore vale come esempio di una tecnica difensiva particolare, usata dai
serpenti contro i nemici, ma non per cacciare. E' basata non sul morso diretto, ma sul lancio a distanza di un
getto velenoso. Il rettile alza la testa, apre la bocca e "sputa" il veleno che esce dall'apposito dente seguendo
una traiettoria orizzontale. Il getto può raggiungere il bersaglio anche a una distanza di due metri, però il veleno
agisce solo sulle mucose. Se finisce negli occhi, può provocare anche la cecità, temporanea o permanente.

IL NEMICO
I serpenti velenosi hanno un pericoloso e irriducibile nemico, la Mangusta. Questo piccolo mammifero
ingaggia lotte furibonde con qualsiasi cobra. La sua tattica consiste nello stancare il serpente: dapprima, con
tutta una serie di finte lo costringe ad attaccare più volte, sottraendosi fulmineamente al morso. Poi, quando il
serpente, esausto, non riesce più a tenere sollevata la testa, lo morde alla nuca e lo finisce.

NOTA. in India gli incantatori allevano le manguste per farle combattere contro i cobra. Contrariamente a
quanto si crede, questo mammifero non ╚ immune al veleno: la prontezza dei riflessi e l'agilit└ assieme a
una folta pelliccia, sono le principali armi con cui ha ragione del nemico.

GLI IDROFIDI
Il Pacifico prospiciente l'Africa, l'Asia meridionale, l'Australia e l'America Centrale É popolato dagli idrofidi,
l'unica famiglia di serpenti adattati alla vita nel mare. La loro caratteristica principale É lo schiacciamento
a paletta dell'estremità della coda che, opportunamente manovrata, favorisce la spinta nel nuoto. Variano da
una lunghezza di un metro, o poco più, come il Serpente di mare comune, ai quasi tre metri dell'"Hydrophis
spiralis". Usano il loro potente veleno per uccidere i pesci di cui si cibano, mentre non attaccano mai l'uomo.

I BOIDI
Questa famiglia ha molte caratteristiche di primitività, tra cui dei resti di bacino e di femore. E' diffusa nel
vecchio e nel nuovo mondo: i Pitoni, tra cui il Pitone reticolato, vivono in Africa, India, Indocina, Australia; i
Boa, tra cui il Boa costrittore e l'Anaconda, nell'America centro meridionale. I Pitoni depongono le uova, mentre le
femmine dei Boa le conservano nel proprio corpo fino al completo sviluppo dell'embrione. Sono cacciati
dall'uomo, che utilizza sia la loro pelle per farne borse, scarpe e altri oggetti, sia le loro carni: i Cinesi ad esempio
le considerano prelibate. Tra i boidi ci sono i serpenti più grandi in assoluto, però il record É di difficile
attribuzione poiché sono segnalate lunghezze vicino ai 10 metri sia per il Pitone reticolato che per l'Anaconda.
Sono privi di ghiandole velenifere e la loro tecnica di caccia É molto diversa da quella descritta finora. Molte
specie, come il Boa costrittore, amano sostare in agguato sugli alberi; altre, come l'Anaconda, preferiscono stare
immersi nell'acqua, in attesa che qualche animale sprovveduto venga all'abbeverata. Nei due casi, l'attesa può
durare giorni o settimane, ma prima o poi verrà premiata. Quando l'ignaro animale giunge a tiro questi serpenti,
dardeggiando la testa, lo attaccano, azzannando dove capita e subito dopo lo avvolgono tra le loro potentissime
spire. La stretta spesso É mortale, ma ciò ha poca importanza, poiché questi rettili possono incominciare a
inghiottire il malcapitato prima ancora che muoia, iniziando come al solito dalla testa.

26. LA MAGGIORE VIA EVOLUTIVA DEI RETTILI: I DINOSAURI (DIAPSIDI, ARCOSAURI TECODONTI).

Una delle linee evolutive più importanti dei vertebrati É quella dei dinosauri, chiamati anche "rettili dominatori"
perché dominarono incontrastati sulla terra per oltre cento milioni di anni, nell'Era Secondaria. La parola
"dinosauri", a noi così familiare, però, non É quella con cui vengono classificati, da un punto di vista scientifico,
questi rettili con cranio diapside, cioÉ con due finestre temporali sulla parete del cranio (vedi capitolo 5).

IL DENTE
La denominazione più precisa per indicare il grande gruppo dei dinosauri É "arcosauri tecodonti", poiché
questi rettili scoprirono un modo nuovo di legare il dente alle ossa della mascella e della mandibola. I denti
sono strutture antichissime: comparvero nei placodermi (vedi il volume di questa collana sui "Pesci") 400 milioni
di anni fa e sono presenti in tutte le classi finora incontrate, pesci, anfibi, rettili. Finora, però, abbiamo visto che i
denti erano semplicemente appoggiati all'osso, al quale erano legati da fasci di piccole fibre connettivali. Denti
così impiantati non erano molto stabili e potevano cadere facilmente, tanto che c'erano altri denti, pronti a
sostituirli, più o meno rapidamente, come ad esempio avviene negli squali. Gli arcosauri tecodonti, invece,
inventarono una cavità, l'"alveolo", tramite la quale il dente venne saldamente ancorato alle arcate mascellari;
anche i mammiferi adotteranno questo tipo di impianto; diversamente dai mammiferi, però, i tecodonti potevano
avere rinnovi continui della dentatura, e infatti non esistono scheletri fossili di dinosauri sdentati.

L'ORIGINE
Il più antico arcosauro tecodonte conosciuto É l'"Ornithosuchus", presente sulla terra nel Trias, oltre 200
milioni di anni fa. A una prima, veloce osservazione l'esemplare si rivela molto evoluto, quindi si può dedurre
che le origini della sua linea evolutiva vadano collocate nel Permiano, 280 milioni di anni fa, direttamente tra i più
antichi rettili, i cotilosauri (vedi capitolo 7). L'"Ornithosuchus", infatti, aveva adottato la stazione eretta, cioÉ la
capacità di camminare o correre solo sugli arti posteriori, molto più sviluppati e potenti di quelli anteriori; la sua
lunga coda serviva a bilanciare il peso del corpo, che con questo nuovo tipo di andatura veniva spostato in
avanti. E' curioso notare che mentre i primi arcosauri tecodonti avevano già la stazione eretta, altri successivi rami
secondari, da loro derivati, tornarono a camminare a quattro zampe.

L'ESPANSIONE
Gli arcosauri tecodonti dimostrarono una eccezionale predisposizione per la vita sulla terraferma; abbiamo già
visto (capitoli 15-17) le numerose linee evolutive di rettili che si spinsero nell'acqua e si adattarono al nuovo
elemento, ma tra queste non figurano gli arcosauri tecodonti, che rimasero animali decisamente terrestri
Dagli arcosauri tecodonti, però, si staccarono in tempi diversi svariati ordini: loricati, pterosauri, ornitischi,
saurischi e, indirettamente, addirittura una nuova classe, quella degli uccelli
I "loricati" sorsero molto precocemente, nel Trias, e mantennero nella loro organizzazione molte caratteristiche
primitive, rimaste più o meno invariate fino ai coccodrilli viventi
Gli "pterosauri", oggi estinti, comparvero sul finire del Trias e perdurarono per tutto il Creta. Erano rettili
capaci di un volo planato che sfruttava le correnti aeree, con ali non molto resistenti, formate da una sottile
membrana di pelle tesa tra le zampe anteriori e il tronco
Gli "ornitischi" e i "saurischi" rappresentano il noto gruppo dei dinosauri, piccoli o giganteschi, bipedi o
quadrupedi, erbivori o carnivori. La distinzione tra i due ordini É basata esclusivamente sulla diversa struttura
del bacino, negli ornitischi simile a quello degli uccelli, nei saurischi tipicamente rettiliano. Comparsi verso la
metà del Trias, i dinosauri erano destinati a uno dei più misteriosi eventi della storia del vertebrato: l'improvvisa
estinzione in massa 65 milioni di anni fa, alla fine dell'Era Secondaria
Dai dinosauri saurischi derivò, in pieno Giura, la classe degli uccelli veri e propri, capaci di volo attivo, grazie
alla particolare struttura delle loro ali, in grado di "battere" l'aria senza pericolo di lacerarsi
Per quanto possa apparire paradossale, gli animali più vicini agli estinti dinosauri sono una loro filiazione, gli
uccelli, ed É per questo che li abbiamo riuniti assieme nel quinto volume di questa collana, intitolato appunto
"Dinosauri e uccelli"
Le caratteristiche generali dei loricati sono tipiche dei rettili ed É con questo ordine che chiudiamo il volume
dedicato alla grande classe dei rettili.

27. I COCCODRILLI ESTINTI. CARATTERI GENERALI DEI VIVENTI (DIAPSIDI ARCOSAURI, LORICATI).

Del grande gruppo degli arcosauri tecodonti oggi sono rimasti solo i coccodrilli, chiamati scientificamente
"loricati", dalla parola latina "lorica", una corazza in cuoio rinforzata da lamine metalliche usata nell'antica Roma
Infatti il dorso dei coccodrilli É coperto di ampie e robuste squame cornee sostenute da sottostanti analoghe
squame ossee.

PROTOSUCHI E MESOSUCHI
I primi coccodrilli a comparire sulla terra, nel Trias, 200 milioni di anni fa, furono i protosuchi. L'anatomia di questi
lontani progenitori lascia supporre che amassero più la vita sulla terraferma che quella acquatica.
L'"Orthosuchus", ad esempio, aveva arti ben sollevati dal terreno, sui quali doveva muoversi agilmente
La predilezione per l'acqua, condivisa da tutte le specie oggi viventi, si manifestò nel Giura, oltre 150 milioni
di anni fa. In quel periodo nuotava nei mari un gruppo di coccodrilli più evoluti dei precedenti, i mesosuchi.
Alcuni di loro, come il "Metriorhyncus" e il "Geosaurus", avevano arti trasformati in pinne ed É probabile che non
sapessero più camminare sulla terraferma, oppure lo facevano con molta goffaggine, solo per deporvi le uova.

EUSUCHI
Sul finire del Creta, 65 milioni di anni fa, scomparvero i mesosuchi e debuttò un terzo gruppo di coccodrilli, molto
simili agli attuali, gli eusuchi. A quei tempi il clima era ancora favorevole ai rettili e anche questa linea
evolutiva ebbe subito una buona espansione, raggiungendo forme gigantesche. In Texas, negli strati di quel
periodo e stato rinvenuto il cranio fossile di un esemplare che doveva raggiungere i 16 metri di lunghezza,
visto che la sola testa misurava un metro e mezzo: si tratterebbe del più grande coccodrillo mai esistito; con
l'enorme bocca poteva attaccare e sbranare i giganteschi dinosauri erbivori suoi contemporanei. Anzi, forse fu
proprio l'abbondante riserva di cibo - come i coccodrilli, anche i dinosauri erbivori abitavano negli stagni e
nelle paludi - a causare il gigantismo. I coccodrilli di mole enorme scomparvero con l'estinzione dei dinosauri.
COCCODRILLI VIVENTI: L'AMBIENTE E LE ABITUDINI
Tranne una specie che gradisce le acque salmastre, oggi tutti i loricati vivono nelle acque dolci della fascia
tropicale di tutti i continenti, esclusa naturalmente l'Europa, dove il clima non É più adatto per un coccodrillo,
ma lo fu a suo tempo, come testimoniano i numerosi reperti fossili. I coccodrilli entrano in attività solo quando
il loro corpo raggiunge la temperatura di 32-35 gradi centigradi; anche per questo di giorno amano oziare
pigramente al sole, per iniziare la caccia solo al tramonto, e sempre in acqua, dove trascorrono anche la notte.
Sono abili e veloci nuotatori grazie alla spinta della robusta coda. Inoltre hanno una particolarità assente negli
altri rettili, ma caratteristica dei mammiferi, uomo compreso: un palato duro e un sistema di valvole nelle narici
e in gola che consente loro di respirare anche con la bocca aperta nell'acqua, purché affiorino in superficie le
narici. Sono tutti carnivori e non hanno preferenze alimentari, aggredendo indifferentemente altri rettili,
pesci, uccelli e mammiferi, tra cui anche l'uomo. Temibili cacciatori, usano una tattica molto semplice: esplorano
lentamente le rive dello specchio d'acqua, lasciando affiorare solo la parte superiore della testa che
facilmente può essere scambiata per un ramo galleggiante. Individuata la preda, le si avvicinano furtivi e
l'azzannano anche se É più grande di loro, trascinandola in acque più profonde per farla annegare. Poiché i loro
denti non sono adatti a lacerare né a masticare, per staccare brandelli di carne lasciano putrefare le loro
vittime sott'acqua, poi vi affondano i denti ruotando freneticamente su se stessi
Se l'acqua scarseggia o se, al limite, il fiume va in secca, i coccodrilli si sprofondano nel fango, lasciando
sporgere solo le narici per la respirazione, ed entrano in una sorta di letargo - l'estivazione - durante il
quale tutte le loro funzioni vitali rallentano moltissimo. In queste condizioni riescono a sopravvivere per
settimane e tornano perfettamente vitali quando ritorna l'acqua.

LA RIPRODUZIONE
I loricati si riproducono per uova deposte sul terreno, in genere in nidi di terriccio e foglie marcescenti, la cui
fermentazione genera il tepore necessario per far sviluppare l'embrione. Unici tra i rettili viventi, i coccodrilli
presentano un comportamento molto raffinato nella cura della prole. La femmina del Coccodrillo del Nilo non solo
non si allontana dal nido durante lo sviluppo dell'uovo per proteggerlo dai numerosi predatori, ma al
momento della schiusa, con la sua bocca enorme e sgraziata, rompe delicatamente il guscio per facilitare
l'uscita dei neonati. Subito dopo, pochi alla volta, li raccoglie amorevolmente in bocca e li trasporta nel l'acqua.
Dopo alcuni viaggi tutta la nidiata É in salvo e i piccoli possono già cominciare a cercarsi il cibo da soli. Per
alcune settimane ancora, però, non si allontanano troppo dalla madre, nella cui bocca sono pronti a
precipitarsi al primo segnale di pericolo. I giovani coccodrilli hanno infatti molti predatori, ma con il passare del
tempo e l'aumentare delle dimensioni, perdono rapidamente i loro nemici, tranne uno: l'uomo e il suo fucile.

NECESSITANO DI PROTEZIONE
La caccia che l'uomo fa ai coccodrilli per le loro pelli pregiate ha causato una drastica riduzione degli esemplari
di tutte le specie. Il rischio dell'estinzione si fa più forte di giorno in giorno, anche per la mancanza di
sensibilità alla difesa di questi animali non aggraziati a vedersi e molto temuti.

28. COCCODRILLO, ALLIGATORE E GAVIALE (DIAPSIDI ARCOSAURI, LORICATI).

I coccodrillidi, gli alligatoridi e i gavialidi sono le tre famiglie di loricati oggi viventi. Le differenze, con
l'eccezione del muso molto allungato dei gavialidi, sono minime e basate soprattutto sulle caratteristiche degli
scudi cornei della testa (che possono anche mancare) e del corpo, nonché sulla forma e disposizione dei denti.
I COCCODRILLIDI
E' la famiglia più nota; anzi spesso con il nome di coccodrilli si definiscono comunemente tutti i loricati. I
coccodrilli sono noti fin dall'antichità: gli Egizi li rappresentavano nelle loro sculture e li facevano oggetto di culto
al punto di imbalsamarli. La distribuzione della famiglia É molto ampia, poiché comprende l'America Centrale,
l'Africa, l'India e l'Australia. Il Coccodrillo del Nilo, il più conosciuto, rag giunge i 7 metri di lunghezza. Un
tempo viveva in tutti i fiumi dell'Africa, Nilo compreso; oggi il suo habitat si É molto ridotto. Il colore dei giovani
É verde scuro, ma con gli anni la pelle tende a ricoprirsi di incrostazioni e detriti vari; a volte vi attecchiscono
persino piccole piante acquatiche, contribuendo così a mascherare ancora meglio l'animale che già di per sé,
quando É in agguato, assomiglia a un vecchio tronco d'albero. La tecnica di caccia É quella descritta nel
precedente capitolo. Questi coccodrilli a volte scavano gallerie, con l'ingresso sotto il pelo dell'acqua, che
sboccano in camere dove l'animale può ritirarsi a consumare il pasto.

UN COCCODRILLO MARINO
Alla famiglia dei coccodrillidi appartiene anche l'unica specie che si spinge in mare aperto, lontano dalle coste: É
il Coccodrillo marino che normalmente vive negli estuari dei fiumi. E' diffuso in Asia meridionale e in
Australia; può raggiungere i 7 metri ed É molto pericoloso per l'uomo. Dato l'ambiente in cui vive, si nutre di
cibi particolarmente ricchi di sali, che poi elimina attraverso le lacrime prodotte dalle apposite ghiandole.
Forse da questo deriva l'espressione "lacrime di coccodrillo".

GLI ALLIGATORIDI
In America e nel bacino del Fiume Azzurro, in Cina, vive un'altra famiglia di loricati, gli alligatoridi. Un tempo
era facile vedere sulle rive di lenti fiumi melmosi o sabbiosi grandi branchi di alligatori intenti a godersi il
calore del sole; ci si poteva anche avvicinare, perché la loro indole era poco aggressiva. In seguito alla grande
strage di cui sono stati fatti oggetto a scopi commerciali, oggi gli alligatori si sono trasformati in esseri timidi e
paurosi, che fuggono in acqua al minimo segnale di pericolo. Per sfruttare i pregi della loro pelle vengono
prodotti in allevamenti artificiali, provocando un accrescimento molto rapido: in un anno gli esemplari possono
passare da 40 centimetri a 2 metri, cioÉ una taglia già commerciabile. Tra le specie più note di questa famiglia
ricordiamo l'Alligatore del Mississippi che vive negli stati sudorientali del Nordamerica e raggiunge i 6 metri e i
più piccoli Caimani dell'America centro meridionale che raggiungono il metro e mezzo.

I GAVIALIDI
Questa famiglia diffusa in India e Indonesia oggi si compone di un'unica specie, il Gaviale del Gange. Sono
facilmente distinguibili dagli altri coccodrilli per il muso molto allungato irto di moltissimi denti. Le dimensioni sono
di tutto rispetto, fino a 7 metri; il loro carattere timido e le loro abitudini alimentari (basate esclusivamente su
pesci) li rendono inoffensivi per l'uomo e per gli altri animali
Anche il Gaviale viene cacciato, non per la sua pelle, ma per i danni che arreca al patrimonio ittico, essendo
non solo buon pescatore, ma anche mangiatore insaziabile.
CLASSIFICAZIONE DEI RETTILI ESTINTI E DI QUELLI VIVENTI
(Indichiamo i sottordini viventi con la lettera "v" tra parentesi. I numeri accanto ai nomi rinviano ai capitoli del
volume).

CLASSE RETTILI.

Sottoclasse Anapsidi
Ordine Cotilosauri (7, 8)
Ordine Melosauri (15)
Ordine Cheloni - con sottordini: Anfichelidi (9); Pleurodiri (v, 9-10- 11); Criptodiri (v, 9-10-11).

Sottoclasse Parapsidi
Ordine Ittiosauri (15, 16).

Sottoclasse Euriapsidi
Ordine Protosauri (17)
Ordine Sauropterigi - con sottordini: Notosauri (15, 17); Placodonti (15, 17); Plesiosauri (15, 17).

Sottoclasse Sinapsidi
Ordine Pelicosauri - con sottordini: Ofiacodonti (12); Sfenacodonti (12); Edafosauri (12)
Ordine Terapsidi - con sottordini: Dinocefali (13); Dicinodonti (13); Teriodonti (14); Ictidosauri (14).

Sottoclasse Diapsidi
- Superordine Lepidosauri
Ordine Eosuchi (18)
Ordine Rincocefali - con sottordine Sfenodonti (v, 18)
Ordine Squamati - con sottordini: Sauri (o Lacertliani) (v, 19-20-21- 22); Ofidi (o Seroenti) (v, 23-24-25)
- Superordine Arcosauri tecodonti. Ordine Tecodonti (26)
Ordine Loricati - con sottordini: Protosuchi (27); Mesosuchi (27); Eusuchi (o Coccodrilli) (v, 27-28)
Ordine Ornitischi - con sottordini: Ornitopodi (26); Stegosauri (26); Anchilosauri (26); Ceratopsidi (26)
Ordine Saurischi - con sottordini: Sauropodi (26); Teropodi (26)
Ordine Pterosauri - con sottordini: Ranforinchi (26); Pterodattili (26).
Parte 4
DINOSAURI E UCCELLI.
1. I DINOSAURI NELLA STORIA.

Solo 150-200 anni fa nulla si sapeva di un avvenimento eccezionale per spettacolarità e durata, verificatosi
milioni di anni prima: la presenza sul nostro pianeta di forme di vita completamente diverse da quelle che
vediamo oggi. Si ignorava che per oltre cento milioni di anni la Terra fu occupata in ogni angolo da rettili
dinosauri, piccoli, grandi, giganteschi. Quando accidentalmente veniva alla luce qualche parte del loro
scheletro, lo si prendeva per uno "scherzo della natura", forse anche perché con la fossilizzazione le ossa
assumono la consistenza e l'aspetto di pietre. Ogni tanto qualche osservatore più attento avanzava ipotesi
diverse, ma lo scetticismo era generale. All'inizio del secolo scorso, con il francese Georges Cuvier (1769-
1832), nasceva la paleontologia, la scienza che studia le forme di vita più antiche basandosi sui ritrovamenti
fossili, e cominciava a delinearsi davanti agli occhi dei ricercatori la figura di uno tra i più straordinari
protagonisti della storia del vertebrato, il dinosauro, o "lucertola terribile", come dice la parola greca da cui
deriva questo termine
Nel 1795 l'esercito rivoluzionario francese pose l'assedio a una fortezza situata sulla Montagna di San
Pietro, nei pressi di Maastricht, una cittadina olandese. Superata la resistenza dei difensori, le truppe
ebbero l'ordine di perquisire la fortezza per impadronirsi di una reliquia preadamitica (come veniva chiamata a
quei tempi), la cui fama era diffusa in tutto il mondo civile. Si trattava di un cranio e di due mandibole di un
essere gigantesco, scoperto in una cava di gesso. Le truppe vittoriose arrivarono però troppo tardi: il
proprietario del prezioso cranio aveva già provveduto a nasconderlo in un altro luogo. Questo É forse il primo
avvenimento storico legato alla scoperta dei rettili fossili, e testimonia il grande interesse che questi animali
estinti seppero suscitare.

LA CORSA ALLA SCOPERTA DEI DINOSAURI


La vera "febbre della caccia al dinosauro" scoppiò nella seconda metà del diciannovesimo secolo, quando tutti
i musei di storia naturale, tutte le istituzioni culturali e scientifiche, erano particolarmente desiderosi di
possedere degli scheletri di dinosauri. Si organizzarono così svariate spedizioni per individuare i possibili
giacimenti di fossili
Nacque una gara affannosa a chi rintracciava il dinosauro più strano, più grande, più terribile. In questa
competizione si distinsero soprattutto gli americani Edward Drinker Cope (1840-1897) e Othniel Charles Marsh
(1831-1899), dapprima amici, poi accanitissimi rivali
Il teatro delle loro ricerche furono i terreni con giacimenti fossiliferi del Giura e del Creta, negli Stati
Uniti. Dei loro emissari, nel più stretto segreto, percorrevano instancabilmente quei territori alla ricerca di un
indizio che lasciasse supporre la presenza di fossili. L'eventuale scoperta veniva segnalata in tutta
segretezza a Cope o a Marsh, che si affrettavano ad organizzare una spedizione. Per evitare che il rivale venisse
a conoscenza del luogo di scavo, si partiva in direzioni sbagliate, e solo dopo aver zigzagato per far
perdere le proprie tracce si decideva di puntare sul luogo prescelto. Gli scavi erano frenetici, si dovevano estrarre
tutti i fossili presenti prima che l'avversario venisse a conoscenza della scoperta; ma, come se non bastasse,
terminati i lavori, si distruggeva quello che restava con delle cariche di dinamite, nel timore che il rivale
riprendesse le ricerche in quegli stessi luoghi e trovasse ancora qualche fossile importante. La folle gara
ebbe almeno come risultato la scoperta, in pochi decenni, di numerose specie di dinosauri, poi ricostruiti in
laboratorio.
LE RICERCHE OGGI
Quando le imprese di Cope e Marsh ebbero termine, iniziarono indagini più rigorose, volte non tanto alla ricerca
di esemplari sensazionali, quanto a migliorare le conoscenze generali su questo eccezionale gruppo di
vertebrati. Oggi É relativamente poco importante scoprire una nuova specie di dinosauro; É più interessante
rinvenire indizi che ci diano informazioni su come vivessero questi animali, di che cosa si cibassero, di come
fosse il loro metabolismo, di quali malattie soffrissero. Per fare ciò non basta raccogliere ossa fossili sul
posto. Trovata una roccia fossilifera, oggi la si porta in blocco nel chiuso di un laboratorio e si procede con calma
all'estrazione delle diverse ossa, studiando minuziosamente anche tutto quello che circonda il reperto.

LA FOSSILIZZAZIONE
Le possibilità che la carcassa di un animale si conservi nel tempo sono decisamente scarse. Per fossilizzarsi,
cioÉ per diventare un minerale, lo scheletro deve essere sottratto, in tempi abbastanza rapidi, agli attacchi
chimici dell'ambiente. La pioggia ad esempio tende a estrarre dalle ossa la componente minerale, mentre i
microrganismi distruggono quella organica. Una tempesta di sabbia può seppellire la carcassa, lo straripamento
di un fiume può trascinarla nel suo delta, dove verrà coperta dai sedimenti; una pozzanghera di viscido bitume
o l'infida argilla possono intrappolare per sempre un malcapitato animale. Una volta coperto lo scheletro, col
tempo il sedimento si trasforma in roccia, inglobando le ossa, a loro volta infiltrate dai cristalli minerali
La possibilità che uno scheletro si fossilizzi dipende anche dai caratteri anatomici dell'animale e dall'ambiente
in cui É vissuto. Ad esempio, abbiamo scarse conoscenze sui terapsidi teriodonti, dei rettili molto simili ai
mammiferi, anche perché in genere erano animali di modestissima taglia, non più grandi di un topo, e vivevano
nel buio sottobosco delle foreste, dove un brulichio di altri viventi distruggeva rapidamente la loro carcassa.

2. LE RAMIFICAZIONI.

LA LINEA EVOLUTIVA ALL'ORIGINE DEI DINOSAURI


Nel volume di questa collana dedicato ai Rettili abbiamo visto le diverse linee evolutive della grande classe
dei rettili; tra queste, nel Trias, emergono gli arcosauri tecodonti, provvisti di una doppia finestra laterale sul
cranio (diapsidi) e di denti saldamente infissi negli alveoli della mascella; da quest'ultimo carattere deriva infatti il
nome greco di "tecodonti". Sono loro i progenitori dei dinosauri
Gli arcosauri tecodonti, però, sono la matrice di altre linee evolutive di rettili, tra cui i loricati, giunti fino a
noi con i coccodrilli, e gli pterosauri, oggi estinti, che furono i primi vertebrati capaci di volare, anche se
non si conoscono forme intermedie tra un rettile che cammina e uno che vola.

LE ORME DEL "CHIROTHERIUM"


Le prime tracce certe dei dinosauri risalgono al Trias, oltre duecento milioni di anni fa. Un po' ovunque, e
soprattutto in Europa, America e Sud Africa, furono rinvenute delle misteriose impronte fossili che sollevarono
annose discussioni prima di essere identificate. Scoperte nel 1824, prima furono attribuite a un uomo o a una
grande scimmia chiamata "Paleopithecus", poi a un grosso rospo, poi a un rettile, e infine a un mammifero, al
quale si dette il nome di "Chirotherium"
Nel 1925 le discussioni finirono; quelle orme erano di un dinosauro, e lo testimoniava il fatto che gli arti
anteriori erano molto più piccoli e deboli di quelli posteriori. I dinosauri infatti furono i primi vertebrati ad
assumere la posizione eretta e a muoversi più velocemente degli altri rettili a quattro zampe loro contemporanei
Forse questa scoperta fu la loro carta vincente: con la velocità si può predare meglio, o si può sfuggire più
rapidamente ai predatori.

L'AFFERMAZIONE DEI DINOSAIIRI


Nel Trias l'80% dei rettili erano terapsidi, una linea evolutiva diversa da quella dei dinosauri (vedi il volume
"Rettili" di questa collana, capitolo 13). La competizione tra le due linee si risolse subito a favore dei
dinosauri, che si imposero su tutta la terra, allora riunita in un unico supercontinente, Pangea. I terapsidi
scomparvero e l'impero dei dinosauri durò per un tempo incredibilmente lungo, circa 120 milioni di anni, fino
alla fine del Creta
Stranamente però sembra che nessun dinosauro si avventurasse nelle acque aperte: i molti rettili che in quel
periodo si adattarono alla vita marina appartenevano a linee evolutive ben diverse da quella dei dinosauri.

I SAURISCHI
Tra i dinosauri si possono osservare due vie evolutive, distinte dalle caratteristiche del bacino. Nei saurischi la
disposizione delle ossa del bacino É quella tipica del rettile, con la sola differenza che l'ileo era molto ampio
e si articolava con numerose vertebre della colonna vertebrale, mentre l'osso del pube era rivolto in avanti. Nei
rettili a quattro zampe l'ileo si articola solo con due vertebre della regione sacrale della colonna vertebrale e il
peso del corpo si distribuisce in ugual misura sui quattro arti. Ma nei dinosauri, che originariamente si
sollevarono in piedi sulle zampe posteriori per assumere un'andatura bipede, tutto il peso del corpo si scaricava
sul bacino e sugli arti posteriori, da qui l'esigenza di un più ampio rapporto tra gli ilei e la regione sacrale della
colonna vertebrale. I saurischi comprendevano dei carnivori giganteschi, bipedi, come il "Tyrannosaurus rex",
rappresentato spesso in disegni e cartoni animati e degli erbivori colossali, tornati a camminare su quattro zampe,
che probabilmente conducevano vita anfibia per scaricare nell'acqua parte delle loro 20-50 tonnellate di peso.
Non tutti i saurischi erano giganteschi, vi erano anche forme molto più minute ed eleganti: da queste prese
forse origine una nuova classe, quella degli uccelli.

GLI ORNITISCHI
L'altra linea evolutiva dei dinosauri, quella degli ornitischi, aveva un bacino simile a quello degli uccelli odierni,
cioÉ con l'osso del pube rivolto all'indietro. Anche gli ornitischi possedevano un ileo molto ampio, e di
conseguenza un'ampia articolazione tra bacino e colonna vertebrale. Erano erbivori e comprendevano: gli
stegosauri, con il dorso irto di grandi piastre ossee; i ceratopsidi, muniti di corna; gli anchilosauri, con il corpo
quasi tutto ricoperto di una corazza ossea per difendersi; gli ornitopodi - tra i quali vedremo i "dinosauri a becco
d'anatra" e l'"Iguanodon" - di mole gigantesca, con andatura bipede e abitudini anfibie.

3. DINOSAURI SAURISCHI (TEROPODI).

Il ramo dei saurischi si separa in due grandi gruppi, i teropodi con un'alimentazione strettamente carnivora, e i
sauropodi, erbivori (che vedremo nel prossimo capitolo).

LA CODA E LE ZAMPE DEI TEROPODI


I dinosauri teropodi possono avere forme spettacolari, di grande effetto sui visitatori dei musei che ospitano i
loro scheletri, oppure forme minute e poco appariscenti, che però offrono un notevole interesse scientifico.
Grandi o piccoli, hanno tutti la stazione eretta - cioÉ sono bipedi - perciò il peso del loro corpo, per non
cadere in avanti, É bilanciato dalla coda, grossa e pesante
Le zampe anteriori sono possenti e molto sviluppate, mentre quelle anteriori appaiono piccole, anzi, nei
teropodi più giganteschi sembrano addirittura inutili moncherini
In un primo momento si pensò che si fossero atrofizzate e non servissero a nulla, poi si scoprì che grazie
a quei piccoli arti, provvisti però di unghie, l'animale poteva bloccare le prede che cacciava, oppure
aiutarsi in una difficile operazione. Anche i dinosauri, infatti, per riposare si sdraiavano a terra, ma poi
rialzarsi con le sole zampe posteriori doveva essere un problema: afferrare un appiglio con quelle mani, sia pur
piccole, poteva offrire una buona soluzione.

IL "TYRANNOSAURUS REX"
Con la sua altezza di oltre 5 metri, É il gigante tra i carnivori terrestri. Era provvisto di un'enorme bocca irta di
acuminati denti e la mandibola possente gli consentiva di spalancare la bocca per azzannare la preda in
profondità. L'animale doveva rappresentare un pericolo costante per ogni altra forma vivente, anche perché,
presumibilmente, riusciva a correre per brevi tratti piuttosto velocemente. Gli arti posteriori sono infatti robusti
e si conoscono delle impronte lasciate da un "Tyrannosaurus" in corsa che distano quasi 4 metri una dall'altra.
Per una corsa veloce però occorre anche un metabolismo elevato, per cui non si può escludere che questi
rettili fossero in grado di mantenere costante la loro temperatura; ma vedremo meglio questo argomento in un
prossimo capitolo. Il "Tyrannosaurus" non fu l'unico gigante del suo tempo, altre specie, come il
"Gorgosaurus", presentavano gli stessi caratteri. Accanto ai carnivori vivevano delle vere e proprie montagne di
carne, i dinosauri erbivori, che rappresentavano il cibo preferito dei carnivori, la fonte principale a cui rifornirsi
di alimento ed energia.

I TEROPODI PICCOLI
Se il pubblico ammira il "Tyrannosaurus", il ricercatore É affascinato dallo studio delle forme più minute dei
teropodi. Il "Compsognathus", ad esempio, poco più grande di un pollo, É il dinosauro più piccolo che oggi
conosciamo. Come tutti i teropodi, era carnivoro, ma con un corpo agile ed elegante e uno scheletro leggero. Le
zampe lunghe e ben provviste di muscolatura, lasciano supporre che fosse un abile corridore. La fama e
l'interesse del "Compsognathus" É legata anche all'ipotesi che questo piccolo dinosauro sia all'origine della grande
classe degli uccelli. Le somiglianze scheletriche tra il "Compsognathus" e il più antico uccello sono
talmente sorprendenti da indurre qualche ricercatore ad avanzare l'ipotesi che anche questi dinosauri fossero
uccelli primitivi. Vedremo infatti che il più antico uccello, l'"Archaeopteryx", É riconosciuto come uccello, e non
come rettile, solo per l'impronta delle penne attorno al suo scheletro; per il resto ha caratteristiche tipicamente
rettiliane.

L'INTELLIGENZA
Passata la frenesia della ricerca del dinosauro più grande e spettacolare, oggi si cerca di studiare,
soprattutto negli esemplari più piccoli, lo sviluppo di un carattere che non fossilizza: l'intelligenza. Il
problema É molto complesso e difficile da risolvere; certamente non si può identificare o collegare
l'intelligenza con una minore o maggiore massa cerebrale, ma É certo che da un cervello esiguo non si può
sviluppare una buona intelligenza. A questo proposito i dinosauri saurischi si collocano esattamente ai due
estremi. Come vedremo nel prossimo capitolo, i colossi erbivori avevano un cervello piccolissimo, quindi
dovevano essere stupidi, mentre non sono poche le specie di teropodi che avevano un rapporto tra volume
del cervello e volume del corpo molto simile o superiore a quello di alcuni ordini di mammiferi. Tra questi rettili
quindi emerse anche un modo più evoluto di reagire, probabilmente più intelligente. Purtroppo però queste
ricerche sono solo agli inizi, si tenta anche di fare dei calchi della cavità del cranio per vedere quali parti del
cervello fossero più o meno sviluppate. Il futuro forse sarà ricco di sorprese.
NOTA. Fornito di circa 60 denti affilati adatti a lacerare la carne, il cranio fossile di "Tyrannosaurus", lungo
poco più di un metro, testimonia la mole e la voracità del temibile carnivoro del Creta superiore. Mascella e
mandibola potevano snodarsi al massimo permettendo così di ingoiare grossi bocconi dl carne
I resti fossili del "Tyrannosaurus" sono stati ritrovati nel Nord America. Malgrado l'aspetto poderoso, la
bocca gli serviva pi┘ per dilaniare le prede che per attaccarle. Per colpire e immobilizzare le vittime si serviva
delle grosse zampe posteriori. Si ritiene che comunemente si cibasse di dinosauri erbivori, come i
"Trachodon", molto diffusi in quel periodo.

4. DINOSAURI SAURISCHI (SAUROPODI).

I saurischi detengono il record assoluto nelle dimensioni per un vertebrato terrestre; solo le grandi balene
possono competere con loro, anche se per i cetacei il problema del peso É risolto dal principio di
Archimede: É l'acqua a sostenere il loro corpo. I colossi erbivori invece scaricano il loro peso sul terreno
attraverso gli arti, da qui l'esigenza di zampe mostruosamente colossali.

I COLOSSI ERBIVORI
I sauropodi derivano dai prosauropodi, un gruppo di saurischi bipedi vissuti nel Trias; questi animali erano
ancora parzialmente carnivori, mentre i sauropodi presentano un'alimentazione strettamente erbivora
A differenza degli altri dinosauri, questi erbivori ritornarono a camminare su quattro zampe, ma il minore
sviluppo degli arti anteriori rivela la loro origine da forme bipedi. La posizione quadrupede, l'alimentazione
erbivora e la grande disponibilità di cibo portò ben presto al gigantismo. Il "Diplodocus", il "Brontosaurus"
pesavano decine di tonnellate; il record però sembra appartenere al "Brachiosaurus" che forse
raggiungeva e superava le 100 tonnellate
Sorge subito un enigma: per quanto le zampe fossero potenti e forti - alcuni femori superavano i 2 metri di
lunghezza con oltre cinquanta centimetri di diametro - non si ritiene che fossero in grado di sopportare a
lungo un carico di 50-60 tonnellate. Soprattutto se si tiene conto che, quando un quadrupede si muove, il suo
peso poggia solo su tre zampe, essendo ora l'una, ora l'altra delle quattro sempre sospesa, e se si considera
che quelle posteriori ricevono il carico maggiore. Da qui l'ipotesi che questi animali conducessero una vita
prevalentemente anfibia per scaricare il peso del loro corpo in acque sufficientemente profonde.

COSA MANGIAVANO: BRUCARE LE ALGHE


Il secondo enigma, non meno misterioso, É la dieta di questi colossi
Innanzitutto in molte specie la testa era incredibilmente piccola per cui non si comprende come il dinosauro
riuscisse a inghiottire l'enorme quantità di cibo necessaria al suo corpo smisurato. Inoltre se i sauropodi,
conducendo una vita anfibia, si alimentavano di alghe o di piante lacustri, sorge un ulteriore, complicato problema,
perché le alghe, se da un lato sono facilmente digeribili, dall'altro sono poco nutrienti per l'alto contenuto
d'acqua. Attraverso la piccola bocca sarebbe dovuta passare una quantità ancora maggiore di cibo!

BRUCARE GLI ALBERI


Il problema É così complesso che alcuni ricercatori hanno abbandonato l'idea dei sauropodi anfibi per fare altre
ipotesi. Ad esempio si É pensato che questi colossi si muovessero fuori dall'acqua e utilizzassero il
lungo collo per brucare le cime degli alberi, ove i teneri germogli potevano offrire un più ricco alimento. L'ipotesi
É interessante, peccato che trascuri due difficoltà: la prima, che abbiamo già considerato, É legata al
problema del peso, la seconda alla pericolosità estrema, per quei giganti erbivori, lenti e pigri, del vivere sulla
terraferma in stretto contatto con i terribili carnivori; l'acqua dunque doveva essere anche un sicuro rifugio per i
sauropodi.

LA DENTATURA
Ci si aspetterebbe di trovare nella bocca dei sauropodi una dentatura adeguata a un'alimentazione erbivora,
invece questi misteriosi animali presentano un'altra sorpresa: sono quasi sdentati! I pochi denti posti all'estremità
del muso, sono dei cilindretti rivolti in avanti, adatti certamente a strappare vegetali, ma pochi per volta
Vi É chi prospetta una dieta diversa basata sui molluschi strappati dal fondo e schiacciati con quegli strani
denti. L'ipotesi però É da scartare poiché non sono mai state trovate delle grandi quantità di gusci frantumati
di molluschi nei luoghi abitati dai sauropodi
Accanto allo scheletro di questi animali sono stati rinvenuti invece dei sassi sferici, chiamati gastroliti, forse
provenienti dallo stomaco di questi dinosauri. E' probabile quindi che, come gli uccelli, i sauropodi
possedessero uno stomaco in grado di masticare con l'aiuto di pietre e sassi.

IL CERVELLO
Il controllo di quella enorme massa di carne era affidato a un cervello del tutto particolare, anzi a tre cervelli.
In corrispondenza infatti dell'attacco degli arti anteriori e posteriori il midollo spinale É molto ingrossato,
mentre il vero cervello É piccolissimo, racchiuso dentro alla minutissima testa. Considerate le dimensioni del
loro corpo, questi giganteschi erbivori avrebbero dovuto avere un cervello in proporzione, invece il volume
del loro cranio É incredibilmente basso. E' difficile immaginare un barlume di intelligenza in questi
animali; forse erano delle enormi e totalmente stupide macchine che continuamente trasformavano dei vegetali
in carne. Così strutturati, i sauropodi erano fragilissimi, la loro esistenza era legata a troppe circostanze
favorevoli - grandi quantità di cibo e di acqua - per cui non stupisce la loro scomparsa, avvenuta al mutare
dell'ambiente, e con la loro, quella dei grandi carnivori.

5. DINOSAURI E ORNITISCHI (ORNITOPODI E ANCHILOSAURI).

La seconda grande via evolutiva dei dinosauri, quella degli ornitischi, ha forme spettacolari, anche se
non gigantesche come quelle dei saurischi. Gli ornitischi che devono il loro nome alle caratteristiche del
bacino, simile a quello degli uccelli, presentano forme bipedi e quadrupedi caratterizzate da arti anteriori diversi dai
posteriori che lasciano supporre un'origine bipede. L'alimentazione degli ornitischi É quasi esclusivamente
erbivora, la dentatura molto specializzata. Si dividono in quattro linee evolutive indipendenti: gli ornitopodi, gli
anchilosauri, gli stegosauri e i ceratopsidi.

GLI ORNITOPODI
Sono gli unici ornitischi a stazione eretta; i loro arti anteriori però non sono inutili moncherini, ma forti e a volte
anche armati di un pollice lungo e acuminato. Molti erano anfibi, infatti sono stati rinvenuti degli ornitopodi
mummificati con una membrana tra le dita simile a quella degli uccelli nuotatori. Nell'aspetto il loro corpo non
É molto dissimile da quello dei grossi carnivori bipedi: il peso sbilanciato in avanti É compensato da una robusta
coda. Questa poi, in alcuni casi si mostra piuttosto rigida e, durante il moto, sollevandosi dal terreno,
sferzava pericolosamente a destra e a sinistra; si conoscono esemplari che subirono fratture, poi
rinsaldatesi, alle vertebre della coda.

ANIMALI STRANI
Gli ornitopodi presentano forme strane: il "Trachodon", che misurava fino a 10 metri di lunghezza, aveva la
bocca foggiata a becco di anatra ma armata da oltre 2000 denti conici disposti ordinatamente in file parallele.
Anche il "Kritosaurus" era fornito di questa batteria di denti specializzati per triturare vegetali. Questi dinosauri
inoltre non avevano difesa, né armi, né scudi, ed É presumibile che affidassero la loro salvezza a una
raffinata sensibilità nell'avvertire il pericolo, dal quale cercavano di scampare gettandosi nelle acque delle paludi
Gli ornitopodi dalle abitudini anfibie hanno teste molto strane, come quella a becco d'anatra del "Trachodon", o
quella sormontata da una cresta ossea simile a un elmo del "Corythosaurus", o del "Parasaurolophus",
con un prolungamento tubolare rivolto all'indietro e cavo all'interno, dentro cui passava l'aria.

L'"IGUANODON"
Con questo dinosauro ornitopode si ritorna alla normalità; nulla di strano o insolito nel suo scheletro, solo il
pollice degli arti anteriori era trasformato in un acuminato pugnale, forse un'arma estrema di difesa.
L'"Iguanodon" doveva essere molto comune in Europa; nel Belgio É stato scoperto un sedimento contenente ben
23 scheletri completi o quasi di questi rettili: un vero cimitero! La forma dell'"Iguanodon" era quella
tradizionale del dinosauro bipede, le dimensioni di tutto rispetto: era alto fino a 5 metri e lungo quasi 10.
L'alimentazione era erbivora, i denti seghettati e adatti a triturare dei vegetali.

GLI ANCHILOSAURI
Questo sottordine di ornitischi comprende quelle forme che affidarono il problema della sopravvivenza a delle
pesanti corazze ossee sul capo e su tutto il corpo. Gli anchilosauri ritornarono al movimento su quattro
zampe, rinunciando così ai vantaggi della velocità. Il dinosauro infatti, visto il peso del suo corpo, doveva
muoversi lentamente, accontentandosi di spostarsi da un luogo all'altro in cerca di nuovi pascoli. Lo
"Scholosaurus", ad esempio, lungo oltre cinque metri, aveva delle gravose piastre ossee sul dorso, provviste
di rilievi conici. La coda robusta e munita di due aculei, rappresentava un importante mezzo di difesa, anzi
l'unico in possesso dello "Scholosaurus". Forse per catturare gli anchilosauri era indispensabile rovesciarli
sul dorso, così da esporre il loro addome, privo di difese, e rendere vane le sferzate della coda.

6. DINOSAURI ORNITISCHI (STEGOSAURI E CERATOPSIDI).

GLI STEGOSAURI
In questo sottordine sono compresi i dinosauri ornitischi provvisti di enormi piastre ossee sul dorso. Questi
rettili, rinvenuti prevalentemente nell'America del Nord, raggiungevano i 9 metri di lunghezza, dalla punta
della piccola testa all'estremità della coda
Il corpo era massiccio, con la colonna vertebrale arcuata, per cui la testa e la coda erano all'altezza del suolo.
Gli arti pesanti e tozzi, simili a quelli degli elefanti, impedivano un'andatura veloce. La difesa dell'animale era
però affidata alla robusta coda che terminava con quattro lunghi e acuminati aculei. Le sferzate di questa coda
dovevano essere particolarmente pericolose per l'aggressore e provocare profonde ferite.

LE PIASTRE SUL DORSO


Ma il carattere più tipico degli stegosauri sono le due serie di piastre ossee disposte sul dorso, dal collo
fino agli aculei della coda. A cosa servivano queste piastre? Si É pensato che fossero, assieme alla coda
sferzante, un'arma di difesa contro i morsi dei carnivori. Recentemente però si É osservato che il tessuto osseo
di queste piastre era molto ricco di vasi sanguigni, e che le piastre di una fila erano sfalsate rispetto a quelle
della seconda fila, si É perciò avanzata l'ipotesi che lo stegosauro potesse riscaldare o raffreddare il
proprio sangue, semplicemente disponendo le piastre perpendicolari o parallele ai raggi del sole. Abbiamo già
visto questo modo di sfruttare il calore del sole negli edafosauri (vedi in questa collana il volume "Rettili", capitolo
12).
LA PICCOLA TESTA
Gli stegosauri sono caratterizzati anche da una testa incredibilmente piccola, viste le dimensioni del resto del
corpo. Si ripropone anche per questi dinosauri erbivori il problema della sproporzione tra quantità di cibo
necessaria all'animale e dimensioni della bocca
Nella testa piccola inoltre vi É un cervello altrettanto modesto, per cui anche questi dinosauri presentano degli
ingrossamenti del midollo spinale - soprattutto in corrispondenza degli arti posteriori - che soccorrono
l'insignificante cervello
I CERATOPSIDI
E' un gruppo di ornitischi molto omogeneo, sviluppatosi soprattutto nella seconda parte del Creta, da ritenersi
quindi tra i dinosauri più moderni e recenti apparsi sulla terra. I ceratopsidi probabilmente presentavano anche
abitudini sociali: vivevano in branchi che vagavano pascolando nelle savane e nelle distese erbose degli altipiani di
quel periodo. Come tutti gli erbivori anche i ceratopsidi avevano dei nemici che ne insidiavano l'esistenza,
ma nel gruppo si sviluppò e assunse sempre più importanza l'assetto del cranio fornito di un prolungamento
osseo che copriva e proteggeva gran parte del collo.

LE CORNA
Ma la caratteristica più evidente dei ceratopsidi É legata alla scoperta delle corna; questi rettili infatti
all'inizio del loro sviluppo non presentano alcun corno, come il "Protoceratops", poi ne compare uno sui nasali,
simile a quello del rinoceronte. Nello "Stiracosaurus" le corna sono una dozzina, così da rendere
particolarmente pericolosa una carica di questo animale. Si può immaginare una lotta tra un ceratopside e un
"Tyrannosaurus", con il carnivoro che cerca di affondare le sue fauci nelle parti molli dell'erbivoro e questi
che, agitando la testa, cerca di offendere e ferire l'aggressore. Questa non É solo fantasia: si conoscono infatti
dei reperti scheletrici di grandi carnivori con delle chiare fratture mal risanate nelle ossa del bacino e nelle zampe
posteriori, inferte probabilmente da possenti ceratopsidi. Alla fine del Creta, in prossimità della data
fatidica dell'estinzione dei dinosauri, i ceratopsidi erano, soprattutto nell'America del Nord, i dinosauri
erbivori più comuni.

NOTA. Circa 130 milioni dl anni fa i "Protocepatops" deponevano le uova nelle sabbie della Mongolia e alla
schiusa i piccoli erano completamente formati.

7. PTEROSAURI.

Questo ramo evolutivo comprende i rettili che, primi tra i vertebrati, hanno imparato a volare. La tecnica del
volo però É basata sullo sfruttamento delle correnti calde ascensionali, lanciandosi da rocce a picco sul mare; il
volo cioÉ É planato. L'ala non batte come per gli uccelli o i pipistrelli, ma si limita a distendersi sia per sfruttare
la spinta verso l'alto delle correnti, sia per controllare la direzione. Nonostante questa limitazione, gli
pterosauri conquistarono una tale abilità di volo planato, che, nelle forme più avanzate ed evolute, assunsero
dimensioni enormi, con un'apertura alare di 15- 17metri: l'essere vivente più gigantesco che si sia mai staccato
con le sue sole forze dalla terra per librarsi nell'aria
Dalle caratteristiche del cranio e dei denti appare evidente la discendenza degli pterosauri dagli arcosauri
tecodonti, però non si conosce alcuna forma intermedia tra un rettile che cammina e uno che vola. Anche lo
pterosauro più antico infatti presenta caratteristiche adatte al volo, per cui non si sa nulla sull'origine dell'ala, o
meglio del patagio.

IL LORO VOLO
La possibilità di librarsi nell'aria era assicurata da un'esile membrana che si distendeva da un dito
enormemente allungato della zampa, il quarto, sino alle parti laterali del corpo; era quindi un patagio simile a
quello degli attuali pipistrelli, sebbene il rettile non fosse però in grado di battere la sua ala; lo scheletro della
gabbia toracica, ove si sarebbe dovuta inserire la muscolatura per compiere quel movimento, É infatti troppo
esile e delicato. Inoltre anche il bacino e le zampe posteriori erano gracili, per cui si presume che gli
pterosauri camminassero molto malamente sul terreno
Le prime tre dita della mano e le dita dei piedi erano provviste però di robusti unghioni, perciò si suppone
che questi rettili si arrampicassero sugli alberi o sulle rocce per cercare un punto adatto da cui lanciarsi nel
vuoto e poi planare con le ampie ali distese e pronte a sfruttare il vento.

LA LORO ALIMENTAZIONE
Una delle opinioni prevalenti vuole che questi rettili fossero abili pescatori. La varietà della loro dentatura e la
presenza di ossa di pesci rinvenuti assieme ai reperti di pterosauri depongono infatti favorevolmente verso
questa ipotesi; solo il gigantesco "Quetzalcoatlus" É stato trovato lontano dal mare e vicino a ossa di
dinosauri, per cui É possibile immaginare che questi pterosauri divorassero le carogne, un po' come gli attuali
avvoltoi. Comunque tutti avevano un cranio e un collo molto robusto che contrastava con il resto del corpo
più leggero e gracile. Gli pterosauri sono suddivisi in due gruppi forse imparentati tra loro: i ranforinchi e gli
pterodattili.

I RANFORINCHI
Sono tra i più antichi, ma non primitivi, poiché vissero e volarono per tutto il Giura, da 180 a 135 milioni di
anni fa. Di modeste dimensioni, con un'apertura alare non superiore agli 80 centimetri, presentavano come
caratteristica più evidente una lunghissima coda, forse per poter equilibrare il peso della grossa testa, oppure
come organo di direzione. Il più conosciuto É il "Rhamphorhynchus" che ha una testa voluminosa e una bocca
armata da lunghi denti aguzzi disposti irregolarmente; visse in Europa e in Africa. I ranforinchi scomparvero
dalla scena alla fine del Giura, forse perché incalzati da un altro gruppo di pterosauri in piena espansione, gli
pterodattili.

GLI PTERODATTILI
Anche questo gruppo di rettili volatori ha il quarto dito dell'arto anteriore molto lungo per sostenere l'ampio
patagio, ma rispetto ai ranforinchi manca completamente della coda. Alcuni, come lo "Pteranodon",
hanno una larga cresta sul cranio forse per bilanciare il muso molto allungato o come organo di direzione.
Tra gli pterodattili troviamo una grande varietà di esemplari con dimensioni che vanno da quelle di un passero
al gigantesco "Quetzalcoatlus", che, ad ali aperte, misurava fino a quasi 17 metri. La diffusione di siffatti
rettili era molto estesa, poiché comprendeva oltre ai territori prima abitati dai ranforinchi anche le
Americhe. Gli pterodattili si estinsero contemporaneamente ai dinosauri 65 milioni di anni fa; una data fatale
per tutti i rettili dominatori.

UN PARTICOLARE STUPEFACENTE
Nella roccia fossilifera dei reperti di alcuni pterosauri, accanto alle ossa, É rimasta l'impronta di numerosi
peli che coprivano la pelle dell'animale. Questa scoperta suscitò molto clamore perché il pelo era stato
sempre considerato una caratteristica esclusiva del mammifero. La presenza di peli sul corpo di un rettile rinforza
oggi l'ipotesi che molti di questi dominatori dell'Era Secondaria fossero in grado di conservare il calore del
proprio corpo, e che fossero quindi qualche cosa di più dei rettili attuali, privi di questa importante
possibilità.

8. MORTE DEI DINOSAURI: CAUSE BIOLOGICHE.

Alla fine dell'Era Secondaria, 65 milioni di anni fa tutti i rettili dominatori, soprattutto i dinosauri, si estinsero e
scomparvero. Il fenomeno É così imponente e insolito nella storia dell'evoluzione del vivente da suscitare un
forte interesse. Da quando si cominciò a indagare sulle cause della spettacolare estinzione dei dinosauri a
oggi, si sono già accumulate decine e decine di ipotesi che testimoniano l'incertezza esistente ancora su
questo problema. Delle tante esposte nella tabella illustrata qui sotto, verranno discusse solo quelle più
probabili o più attendibili.

TABELLA.

CAUSE BIOLOGICHE
Morte per specializzazione
Cambiano le piante
Il dinosauro É stupido
Il dinosauro ha freddo
Diminuisce lo spessore del guscio delle uova
Nascono solo maschi
Nascono solo femmine
Avvelenamento da piante
Incroci tra consanguinei
Predazione delle uova da parte dei mammiferi
Disfunzioni endocrine
Malattie.

CAUSE ASTRONOMICHE (vedi capitolo 9)


Esplosione di meteoriti e blocco della fotosintesi clorofilliana
Esplosione di una supernova e radiazioni sulla Terra
Aumento dell'attività vulcanica
Aumento delle radiazioni solari
Cambiamento dell'inclinazione dell'asse terrestre
Forti sbalzi di temperatura
Attraversamento della coda di una cometa
Non ci stavano dentro l'Arca.

MORTE PER SPECIALIZZAZIONE


E' una delle ipotesi più affascinanti, anche per le implicazioni che se ne possono ricavare. Quando un
ambiente rimane costante per lungo tempo, come accadde appunto nell'Era Secondaria, gli animali che vi
vivono tendono a perfezionare sempre di più le proprie caratteristiche per adattarle sempre meglio alle esigenze
dell'habitat. In questo caso l'animale diventa più specializzato e perciò più efficiente ma perde in plasticità, per
cui il sopraggiungere di una variazione dell'ambiente provoca la sua estinzione. I giganteschi dinosauri
erbivori dovevano avere a disposizione degli specchi di acqua adeguatamente profondi per sostenere il
peso del loro voluminoso corpo, ma se il livello dell'acqua cambiava, per una prolungata siccità o per la
copiosità delle piogge, il dinosauro era spacciato
Il clima, che per tutta l'Era Secondaria era rimasto stabile, all'inizio dell'Era Terziaria cambiò, per cui É
probabile che questa causa pur non essendo la sola, sia stata significativa per l'estinzione di quei
dinosauri che erano molto specializzati.

CAMBIANO LE PIANTE
Sul finire dell'Era Secondaria cambiò radicalmente la vegetazione: comparvero e si diffusero le angiosperme, i
vegetali più comuni ai nostri giorni, con caratteristiche nuove. E' dunque probabile che i dinosauri erbivori non
fossero capaci di adattarsi al nuovo cibo, da qui la loro estinzione, e la conseguente scomparsa dei carnivori che
davano loro la caccia. E' una causa probabile, anche se non spiega tutto, visto che alcuni tra i dinosauri più
moderni, come il "Triceratops", probabilmente si nutrivano già dell'erba che oggi conosciamo.

IL DINOSAURO STUPIDO
Si É pensato anche a una competizione tra il dinosauro lento dal cervello piccolo e il mammifero più agile e
intelligente. Questa ipotesi É stata abbandonata recentemente dopo la scoperta di dinosauri, come i
dromeosauri, dal cervello molto voluminoso e dallo scheletro leggero, fattori che lasciano supporre una notevole
abilità e competitività. Purtroppo anche i dinosauri "intelligenti" perirono allo scoccare della data fatale.

IL DINOSAURO HA FREDDO
Un'altra ipotesi che godeva di molto credito fino a pochi anni fa metteva in rilievo il profondo cambiamento
di clima avvenuto contemporaneamente all'estinzione dei dinosauri. Il caldo secco costante, che aveva
caratterizzato tutta l'Era Secondaria, favorendo lo sviluppo e l'espansione dei rettili, notoriamente amanti del caldo,
fu seguito da un periodo più freddo e da un alternarsi delle stagioni
Questo clima provocò una strage tra i dinosauri, incapaci di sopportare il freddo, o comunque il variare
della temperatura. Alla luce degli studi più recenti, però, questa ipotesi si rivela piuttosto debole. Oggi si fa
strada l'idea che i dinosauri sapessero termoregolare il loro corpo, e ci sono indizi a testimoniarlo
L'impronta del pelo degli pterosauri, ad esempio, indica che erano provvisti di una pelliccia per proteggersi
dal freddo; inoltre le caratteristiche del tessuto osseo di molti dinosauri sono quasi identiche a quelle del
mammifero e profondamente diverse da quelle di un rettile vivente, dimostrando così un metabolismo molto attivo,
in grado di produrre anche calore. Il dinosauro molto probabilmente quindi sapeva termoregolarsi e poteva
di conseguenza superare le difficoltà della bassa temperatura.

LO SPESSORE DELLE UOVA


Una precisa e accurata indagine statistica sullo spessore del guscio delle uova dei dinosauri indica un
progressivo assottigliamento e un forte aumento della loro fragilità. Tuttavia molti rettili dell'Era Secondaria
erano ovovivipari, partorivano cioÉ neonati già efficienti ed autonomi, ma anche loro si estinsero
In conclusione non vi É una sola causa biologica che possa spiegare tutto; forse fu una concomitanza di
eventi negativi a determinare la strage.

9. MORTE DEI DINOSAURI: CAUSE ASTRONOMICHE.

I METEORITI
Cuvier, il naturalista francese della fine dell'Ottocento, ricorse per primo a ipotesi "catastrofiche" per
giustificare la scomparsa improvvisa di molte forme animali, anche se a quei tempi poco si sapeva della
possibilità di un impatto di corpi celesti con la Terra
Nelle calde notti estive tutti abbiamo visto delle "stelle cadenti" solcare rapidamente il cielo. Il fenomeno ha
luogo quando la Terra, percorrendo la sua orbita si avvicina a sciami di materiale cosmico che attrae a sé con
la forza di gravità. La maggior parte di questo materiale É troppo piccola per raggiungere il nostro pianeta e si
consuma appena entra nell'atmosfera tracciando la caratteristica scia incandescente. Qualche rarissima volta,
però, accade che dei corpi più grandi - i meteoriti - riescano a toccare il suolo: nell'impatto scoppiano
scavando ampi crateri. Sulla base di questo fenomeno alcuni studiosi hanno indicato nei meteoriti i principali
responsabili della morte dei dinosauri.

UNA SCOPERTA SCONCERTANTE


Nel 1977 il geologo statunitense Walter Alvarez, analizzando uno strato di terreno presso Gubbio in Italia
- vecchio di circa 65 milioni di anni - scoprì che la concentrazione di iridio, un metallo molto raro, era
incredibilmente elevata. Con l'aiuto del padre Luis, premio Nobel per la fisica, elaborò nel 1980 l'ipotesi
dell'impatto sulla Terra di un meteorite gigantesco, dalla cui esplosione si sprigionò una nube di polvere,
contenente anche iridio, che oscurò la luce del Sole. Le prime a morire furono le piante - che vivono grazie alla
fotosintesi clorofilliana e perciò dipendono dal Sole - seguite, lungo una logica catena alimentare, prima dai
dinosauri erbivori, poi da quelli carnivori. L'ipotesi ha fatto molto scalpore, appassionando soprattutto i non
addetti ai lavori, ma lasciando scettici i paleontologi e i biologi
Nel 1983, però, un paleontologo dell'università di Chicago, John Sepkoski, e alcuni suoi collaboratori,
dopo una lunga indagine statistica sulla presenza e scomparsa delle specie negli ultimi 250 milioni di anni,
hanno rilevato che la strage dei dinosauri, avvenuta 65 milioni di anni fa, non fu l'unico evento drammatico nella
storia della vita sulla Terra: con regolarità, ogni 26 milioni di anni, un evento provoca un'ecatombe di forme
viventi. La catastrofe che portò all'estinzione dei dinosauri non fu un fatto occasionale, ma prevedibile e
che si ripeterà. L'ultima catastrofe avvenne 11 milioni di anni fa, dunque la prossima si verificherà tra 15 milioni di
anni
Ora restava solo da scoprire la causa di quell'evento così preciso e metodico, evidentemente di origine
astronomica. Due sono le ipotesi che godono di un certo credito.

L'IPOTESI DEL NEMESIS


Questa ipotesi chiama in causa la Nube di Oort, uno sciame di mille miliardi di corpi celesti che avvolge il
nostro sistema solare. In condizioni normali questa enorme massa di materiale cosmico ruota tranquilla e
innocua. Ma a intervalli di milioni di anni il "gemello oscuro" del Sole - una stella la cui esistenza É stata ipotizzata
dal fisico californiano Richard Muller - nella sua enorme orbita ellittica si avvicina alla Nube di Oort e con la
propria gravità ne strappa un numero imprecisato di corpi celesti destinati a cadere sul Sole, o sui suoi pianeti;
tra questi ultimi c'É anche la Terra, che viene così bombardata da meteoriti, anche giganteschi, con le
conseguenze già descritte. Il gemello oscuro del Sole, che non É mai stato visto, É stato battezzato Nemesis.

L'IPOTESI DEL PIANETA X


Gli astrofisici John Matese e Daniel Whitmire, invece, ritengono che il colpevole della perturbazione della Nube
di Oort sia il decimo pianeta del nostro sistema solare, anche questo mai osservato direttamente,
chiamato Pianeta X. L'esistenza di questo pianeta É forse più probabile, poiché può essere la causa delle
anomalie dell'orbita di Nettuno. Il pianeta X porta a compimento la sua enorme orbita ogni 56 milioni di anni
circa, intersecando così la Nube di Oort due volte per ogni orbita e provocando il distacco di molti meteoriti,
destinati ad essere catturati inesorabilmente dal sistema solare.

LO SCETTICISMO
Queste ricerche, condotte con estrema cura da scienziati molto autorevoli e in laboratori qualificati, non
possono non impressionare, ma l'ambiente scientifico rimane ancora perplesso sull'ipotesi di un blocco della
sintesi clorofilliana; un evento del genere non può colpire solo alcuni grandi gruppi di animali. Infatti secondo
le indagini paleontologiche, 65 milioni di anni fa si estinsero, tra i vertebrati, i dinosauri, i rettili volanti e i rettili
marini e, tra gli invertebrati, le ammoniti, ma non si hanno tracce di crisi ad esempio tra gli uccelli, le piante,
o i pesci teleostei che in quel periodo anzi erano in piena espansione. Forse vi É ancora molto da studiare per
risolvere il giallo della fine dei dinosauri.

UN'IPOTESI CURIOSA
Tra le tante ipotesi avanzate, vi É anche quella proposta dai "neocreazionisti americani" che interpretando
alla lettera le parole della Bibbia ritengono che i dinosauri, non potendo per la loro mole entrare nell'Arca,
morirono annegati. E' un'ipotesi come tante, ma traendo la sua origine da un preciso assioma ideologico non ha
alcuno spazio di discussione.

I PARENTI DEI DINOSAURI


65 milioni di anni fa scomparvero tutti i dinosauri, ma ancora vi É chi considera la remota possibilità che nel
folto di foreste tropicali difficilmente esplorabili vi siano delle specie sopravvissute di quel grande gruppo di rettili.
Non si può escluderlo a priori, ma se vi sono dei sopravvissuti, questi non saranno i giganteschi animali che
tutti conosciamo, ma esseri molto meno appariscenti e spettacolari.

10. ORIGINE DEGLI UCCELLI.

IL PRIMO UCCELLO
Verso la fine del Giura, circa 140-150 milioni di anni fa, in una laguna dell'odierna Baviera (Germania),
scoppiò un furibondo temporale con fulmini, scrosci d'acqua e venti che piegavano gli alberi. Due animali poco
abili nel volo tentavano disperatamente di contrastare le forze scatenate della natura, ma il vento inesorabile li
portò al largo, dove annegarono. Le loro carcasse caddero sul fondo della laguna e il limo trascinato dai
fiumi in piena rapidamente li coprì
Il sedimento si consolidò poi in roccia, un calcare dalla grana eccezionalmente fine, che un tempo veniva
usato come pietra da stampa, cioÉ "litografica". Queste circostanze fortunate si unirono al fatto che chi scavò
quelle rocce, e trovò lo scheletro dell'animale, subito comprese l'importanza della scoperta, e l'esemplare non
andò perduto
In quel prezioso fossile, assieme allo scheletro ben conservato, si scorgono le chiare impronte delle penne
che ornavano il corpo
L'animale quindi era un uccello, il più antico che oggi si conosca. In seguito dagli stessi giacimenti bavaresi di
Solnhofen venne alla luce un secondo esemplare, anche questo in ottimo stato di conservazione
Se si considera la rarità degli scheletri fossili di uccelli, animali in genere molto piccoli e con le ossa leggere e
fragili, l'averne trovati due, e per di più con l'impronta delle penne É veramente straordinario. I due
esemplari naturalmente vennero studiati e ricevettero un nome. "Archaeopterix" significa "ala antica",
"lithographica" deriva dalla pietra in cui É stato rinvenuto, il calcare litografico. Lo studio dello scheletro
dell'uccello mise subito in evidenza che le caratteristiche principali erano tipicamente rettiliane, fatta eccezione
per le clavicole a forcella.

LA FORMA INTERMEDIA
Nelle polemiche sollevate dalle teorie sull'evoluzione, uno dei cavalli di battaglia degli antievoluzionisti É
l'assenza di forme intermedie tra le grandi classi; non vi sono cioÉ delle lucertole viventi con il pelo o le
ghiandole mammarie che preannunciano il mammifero, né coccodrilli con le ali. Se questo É vero per le forme
viventi, non lo É affatto per quelle estinte
Nel volume sui "Rettili" abbiamo visto che i terapsidi teriodonti preannunciano o sono già mammiferi; ora
emerge chiaramente che l'"Archaeopteryx" É una forma intermedia. Oggi, a causa delle ali e delle impronte
delle penne, nessuno mette in dubbio che questo esemplare sia un uccello, ma se i due fossili si fossero
conservati in una roccia a grana più grossa, inadatta a trattenere l'impronta delle penne, tutti sarebbero stati
concordi nel classificare questi animali tra i rettili tecodonti, anzi tra i dinosauri saurischi a cui somigliano
moltissimo. Che cosa si pretende di più da una forma intermedia!

ORIGINE DELLE PENNE


Studiando lo sviluppo delle penne ci si É accorti che le prime fasi di crescita di questa struttura sono del tutto
simili a quelle dello sviluppo della squama, per cui appare logica la deduzione secondo cui la penna É una
squama ultraspecializzata. Forse le prime penne comparvero sul corpo dei rettili per proteggerli dal freddo;
abbiamo già visto infatti che i dinosauri più evoluti molto probabilmente avevano il sangue caldo e
necessitavano di una protezione contro la dispersione del calore del corpo. Solo in un secondo momento dalla
penna protettrice si passò alla penna adatta al volo. A questo proposito si avanzano due ipotesi: secondo la
prima l'ala si sviluppò progressivamente in rettili saurischi arboricoli che saltando da un ramo all'altro
trovarono un sempre migliore sostegno in penne sempre più lunghe; l'altra ipotesi ritiene che i progenitori degli
uccelli fossero dei rettili corridori, e che fosse un corridore anche l'"Archaeopteryx": quella che noi riteniamo
un'ala per volare era un accorgimento per meglio catturare gli insetti durante la corsa. Ma l'ipotesi che ha più
credito vede l'"Archaeopteryx" come un animale volatore.

11. UCCELLI ANTICHI.

L'"ARCHAEOPTERYX"
Il primo vero uccello apparso sulla terra, come abbiamo visto nel precedente capitolo, É l'"Archaeopteryx
lithographica", che visse in Europa 140-150 milioni di anni fa
Questo antico esemplare, grande circa quanto un corvo, non doveva essere un buon volatore: i muscoli del
petto erano deboli, le zampe robuste e la lunga coda doveva arrecare notevole impaccio nel volo
Già sappiamo che la coda potente caratterizza i dinosauri corridori a stazione eretta, perciò non É escluso che
l'"Archaeopteryx" fosse un agile corridore, però le tre unghie robuste sulle dita della mano indicano che
poteva arrampicarsi su alberi e rocce. Forse aveva imparato a volare planando sulle ali e sulla coda.
Nonostante le caratteristiche di estrema primitività, l'"Archaeopteryx" É classificato tra gli uccelli.

GLI ORNITURI
Un lungo intervallo di tempo separa i resti dell'"Archaeopteryx" da quelli degli altri uccelli, secondi ad apparire
sulla scena circa 80- 90 milioni di anni fa. Durante questo lungo intervallo, di cui nulla sappiamo, si andarono
perfezionando le caratteristiche fondamentali della classe, che vedremo praticamente immutate in tutti gli uccelli,
riuniti nella sottoclasse degli ornituri. Questa sottoclasse É suddivisa in odontognati (uccelli antichi ancora
forniti di denti), paleognati (uccelli che hanno rinunciato al volo per privilegiare la corsa) e infine neognati
(uccelli volatori in senso lato).

GLI ODONTOGNATI
La primitività degli odontognati É testimoniata dalla presenza nel becco robusto di piccoli e aguzzi denti
conici, un tipico carattere rettiliano. Sono gli ultimi uccelli ad avere ancora i denti. Dopo di loro il becco ha un
deciso sopravvento e i denti spariscono completamente. La scena in cui appaiono gli odontognati É diversa:
l'"Archaeopteryx" volava, se volava, in Europa durante il Giura; gli odontognati volavano nell'America del Nord.
Più precisamente i loro scheletri sono stati rinvenuti in terreni del tardo Creta nel Kansas, ma essendo uccelli
già evoluti, si può pensare che la loro diffusione fosse ben più ampia.

L'"HESPERORNIS"
Sbaglierebbe grossolanamente chi pensasse di trovare in questo antico uccello dei caratteri di primitività,
poiché l'"Hesperornis" si presenta con una forte specializzazione per la vita acquatica. Siamo cioÉ di fronte
non a un animale antico e capostipite che si sta evolvendo per acquisire le caratteristiche della nuova classe,
ma a un essere che ha deviato dall'habitat naturale per colonizzare un nuovo ambiente. Il fenomeno non É
nuovo: abbiamo già visto che sia gli anfibi sia i rettili originarono forme che ritornando nell'acqua
assunsero caratteri adatti al nuoto. Ma quelle forme comparvero quando le due classi erano in piena espansione,
mentre l'"Hesperornis", per quanto ne sappiamo, É uno degli uccelli più antichi. E' molto probabile che le
nostre conoscenze sull'origine degli uccelli e sulla loro diffusione siano molto carenti poiché i due esemplari noti
di odontognati hanno un'organizzazione già avanzata
L'"Hesperornis" infatti rinunciò alle prerogative tipiche dell'uccello, poiché non volava, ma nuotava.
Anzi le sue ali erano addirittura ridotte a moncherini, con un residuo piccolo e insignificante dell'omero.
Anche questa particolarità lascia perplessi: la scomparsa dell'arto anteriore deve aver richiesto un lungo
tempo misurabile in decine di milioni di anni, di cui noi oggi nulla conosciamo. L'"Hesperornis" nuotava con le
robuste zampe posteriori attaccate piuttosto indietro sul busto. Le notevoli dimensioni di questo primo
uccello nuotatore potevano raggiungere i 180 centimetri. Quando era costretto a portarsi sul terreno per
deporvi le uova, doveva camminare molto male, a piccoli saltelli, un po' come fanno ancora oggi i pinguini; ma il
regno di questo antico uccello era il mare, dove trascorreva la maggior parte del tempo immergendosi a
caccia di pesci, che catturava con il lungo becco armato di denti.

L'"ICHTHYORNIS"
Mentre nelle lagune del Kansas nuotava l'"Hesperornis", nell'aria volava un uccello non più grande di un
piccione, l'"Ichthyornis". La sua primitività É manifestata solo dalla presenza dei denti, per tutto il resto era simile
agli uccelli moderni. Lo scheletro dell'ala era già ben formato, lo sterno con la robusta carena lascia pensare a
una possente muscolatura per il volo: l'animale era già in grado di battere con forza le ali e di superare tutte
le limitazioni di un volo planato. L'"Ichthyornis" era già un vero uccello, ma con il cranio ancora un po' primitivo.

NOTA. L'ipotesi pi┘ accreditata nell'etologia considera l'"Archaeopteryx" un veleggiatore che si


arrampicava sui tronchi e sulle rocce per poi lanciarsi in un volo planato, con le penne delle ali e della coda
completamente allargate.

12. UCCELLI MODERNI.

L'"Ichthyornis" e l'"Hesperornis", come abbiamo visto nel capitolo precedente, sono con l'"Archaeopteryx" gli
unici uccelli noti che vissero nell'Era Secondaria e coabitarono sulla terra con i dinosauri
Ma, date le caratteristiche già molto avanzate ed evolute, soprattutto delle prime due specie, appare logico
pensare che in quell'Era la classe degli uccelli fosse già in piena espansione e avesse già le caratteristiche
anatomiche e funzionali che la distinguono
Purtroppo, però, per i primi milioni di anni di vita di questa classe le conoscenze paleontologiche sono
assolutamente inadeguate, e non offrono una storia completa dell'origine degli uccelli, ma solo brevi flash
isolati. La causa di ciò É forse dovuta alla particolare leggerezza dello scheletro di quegli animali,
difficilmente fossilizzabile, e alle loro abitudini di vita. Già parlando della fossilizzazione (capitolo 1) vedemmo
che un piccolo organismo che vive nelle foreste difficilmente trova le condizioni ideali per fossilizzarsi. La
vita nel sottobosco, ove cade la carcassa, É troppo ricca e tutto viene rapidamente distrutto, o meglio riutilizzato
Conosciamo l'"Archaeopteryx" perché i due esemplari caddero nel mare; abbiamo a disposizione cinquanta
scheletri fossili di "Hesperornis" poiché erano uccelli marini; entrambe le specie cioÉ erano nelle condizioni
migliori per fossilizzarsi. Ma quante erano le specie di uccelli viventi nell'Era Secondaria assieme ai giganteschi
dinosauri? E' impossibile tentare una risposta, ma sicuramente svariate centinaia, forse migliaia, perché
l'"Ichthyornis" e l'"Hesperornis" sono già molto avanzati nell'evoluzione e profondamente diversi tra loro.

LE RAMIFICAZIONI DELLA CLASSE


Nelle classi esaminate nei precedenti volumi di questa collana É stato possibile elaborare quello che viene
definito un "albero filogenetico", per mettere in rilievo la successione dei diversi ordini e il grado di
parentela tra le famiglie; questa elaborazione per gli uccelli non É possibile se non a grandissime linee. La classe
infatti É molto omogenea per complessità di caratteri, ma quando un ramo evolutivo si distingue per una
particolarità (gli uccelli corridori, ad esempio, hanno rinunciato al volo) non si sa con certezza con chi
imparentarlo all'origine. Il risultato É che o si espongono i diversi ordini, uno separato dall'altro (come si É fatto
nella pagina finale) o si elabora un albero con molti punti interrogativi e pochi rami.

CARATTERISTICHE DELLA CLASSE


Un uccello, come un qualsiasi altro vertebrato, presenta gli organi e gli apparati tipici della sua classe - un
cervello, un intestino, due polmoni, uno scheletro, eccetera - però molto evoluti o specializzati
Le caratteristiche di base sono tipicamente rettiliane, e infatti la classe deriva direttamente dai dinosauri
saurischi, ma con acquisizioni del tutto particolari e avanzate. Le cause che hanno determinato questa
evoluzione possono essere cercate sia nella specializzazione al volo, sia nella soluzione dei problemi connessi
con la termoregolazione. Gli uccelli infatti, al pari dei mammiferi, hanno il corpo termoregolato, cioÉ
mantengono costante la loro temperatura anche se l'ambiente esterno É più caldo o più freddo. Nei precedenti
capitoli e nel volume di questa collana dedicato ai "Rettili", abbiamo visto che la possibilità di termoregolare il
corpo può essere comparsa anche tra i rettili, sia nei terapsidi teriodonti (i rettili quasi mammiferi) sia nei
dinosauri, sia negli pterosauri (i rettili volatori), ma sono solo supposizioni tratte da alcune caratteristiche
dello scheletro. Negli uccelli e nei mammiferi, invece, la termoregolazione É un carattere stabile che però
ha richiesto molti accorgimenti per poter essere acquisito.

PERCHE' TERMOREGOLARSI
La temperatura corporea di un pesce, di un anfibio, di un rettile che vive ai nostri giorni É in balia della
temperatura dell'ambiente; se questa cresce o cala, il calore del corpo segue le stesse variazioni (pesci, anfibi,
rettili sono cioÉ eterotermi). Quando fa troppo freddo o troppo caldo, l'animale deve cercare di sottrarsi alle
condizioni sfavorevoli nascondendo in tane profonde o andando in letargo, e rallentando molto tutte le
funzioni del suo organismo. Un omeotermo (così si definisce un animale capace di termoregolarsi), invece,
mantiene sempre costante la propria temperatura e può compiere tutti i processi vitali anche in condizioni
ambientali sfavorevoli. Il primo vantaggio dell'omeotermo sull'eterotermo É quindi di poter vivere anche a
temperature basse o elevate. Il secondo vantaggio, non meno importante, É legato all'incremento del
metabolismo che si ottiene a temperature più elevate. Una legge biochimica, infatti, stabilisce un rapporto tra
metabolismo e temperatura del corpo; quanto più elevata É quest'ultima, tanto più É accresciuto il metabolismo,
per cui l'animale diviene più vivace, più scattante, più sensibile e più rapido in tutte le funzioni. I vantaggi
quindi sono evidenti, ma l'omeotermia impone la soluzione di svariati problemi, come vedremo in seguito, che
le due classi, uccelli e mammiferi, affronteranno e risolveranno con soluzioni diverse.

NOTA. UN UCCELLO IN LETARGO


Esiste un solo uccello capace di autoabbassarsi per la temperatura, fino a cadere in letargo per interi mesi
come i mammiferi. E' il succiacapre di Nuttall del Nord America, che trascorre l'inverno in cavità naturali,
abbassando la temperatura del proprio corpo da 41 a 20 gradi centigradi. Solamente pochi altri gruppi di uccelli,
quali i rondoni, i colibrì e gli uccelli topo hanno la stessa capacità, ma per un tempo limitato, o solo durante la
notte.

NOTA. LA TERMOREGOLAZIONE Gli uccelli sono termoregolati a 41 gradi centigradi circa, mentre i
mammiferi a 37 gradi centigradi. I problemi connessi con la termoregolazione sono complessi. L'animale
deve produrre calore, poiché in genere la temperatura dell'ambiente É inferiore a quella del corpo, ma per fare
questo occorre mangiare molto di più, digerire più rapidamente, assorbire dall'aria più ossigeno, poiché il
metabolismo di tutto l'organismo É più elevato. Occorre inoltre proteggere il corpo dalla perdita di calore che
e tanto più forte quanto più freddo É l'ambiente. Occorre infine un sistema di raffreddamento quando la
temperatura esterna É più elevata di quella del corpo, e una centrale termica di controllo che sappia avviare o
bloccare i diversi sistemi di raffreddamento o di riscaldamento.

NOTA. IL PASSERO DOMESTICO


Il passero domestico offre un buon esempio di termoregolazione, data la sua adattabilit└ al climi piu' diversi e
di conseguenza agli alimenti pi┘ diversi per poter sopperire al bisogno dl energia. Grazie a questa sua
capacit└, ╚ riuscito a conquistare tutti i continenti, tranne l'Antartide. Al seguito delle popolazione europee si ╚
diffuso ben oltre la sua area originaria, anche su isole a centinaia di chilometri dalle coste. Durante
l'inverno trattiene il calore gonfiando le piume e, data la scarsit└ di cibo, riduce all'indispensabile la
sua attivit└ per evitare dispersioni di energia e calore. Si comporta al contrario d'estate, quando la temperatura ╚
pi┘ elevata e vi sono molti pi┘ alimenti a disposizione.

13. COME RESPIRANO, COME MANGIANO.

Quando una massaia pulisce dalle interiora un coniglio prima di cuocerlo non manca di togliere anche i
grandi e voluminosi polmoni che trova racchiusi nella gabbia toracica; quando esegue la stessa operazione
con un pollo, non può fare altrettanto perché i polmoni sono così piccoli e insinuati tra le vertebre della
colonna vertebrale, che si vedono a stento. Data l'esiguità dei loro polmoni, si potrebbe dedurre che agli uccelli
non occorra molto ossigeno per vivere. Nulla di più falso.

IL METABOLISMO
Il metabolismo É un complesso procedimento in base al quale nei viventi avvengono le trasformazioni di un
tipo di energia (ad esempio quella chimica degli alimenti) in un altro tipo di energia (ad esempio calore,
movimento). Come abbiamo visto, gli uccelli hanno una temperatura di base sui 41 gradi centigradi (i
mammiferi sui 37 gradi centigradi). Ma, lo ripetiamo, per ottenere questo calore ci vuole molta energia, cioÉ
molto cibo da digerire in fretta e bene; poi quando le sostanze organiche assorbite giungono ai tessuti, per
ricavarne calore occorre anche molto ossigeno per ossidarle. Dunque gli uccelli hanno un metabolismo più
elevato dei mammiferi. Inoltre, essendo in genere animali di piccola taglia, disperdono più calore. Da ciò deriva
che gli uccelli hanno un consumo medio di ossigeno fino a 20 volte maggiore di quello dei mammiferi. Eppure
hanno un polmone di modestissime dimensioni rispetto alla restante parte del corpo. Come É possibile?

UN ORGANO ECCEZIONALE: IL POLMONE


Nel polmone degli anfibi, dei rettili e dei mammiferi l'aria passa dalla trachea, dai bronchi, dagli alveoli
respiratori - dove ristagna più o meno a lungo per cedere l'ossigeno al sangue e riceverne l'anidride
carbonica - poi esce, ripercorrendo all'inverso la stessa via. In questo caso lo scambio tra i due fluidi (aria e
sangue) non può superare il 50%; se cioÉ nell'aria vi sono 100 parti di ossigeno, 50 passeranno nel sangue e
50 rimarranno inutilizzate (questo nella teoria; in pratica, per motivi diversi, nel sangue passa molto meno
ossigeno). Il polmone degli uccelli, costruito per superare questa dispersione, utilizza numerosi sacchi aerei,
ove non avvengono degli scambi respiratori, ma che servono per far percorrere all'aria un itinerario ben
preciso. L'aria inspirata, infatti, penetra nell'ampio sacco aereo addominale e da qui viene spinta attraverso il
polmone dove può scambiare i gas con il sangue per procedere poi oltre, fino a giungere ad altri sacchi aerei
che provvederanno a espellere all'esterno l'aria viziata. Con questo accorgimento il rendimento del polmone
sale a oltre il 60-65% di ossigeno utilizzato sul totale inspirato (contro il 20-25% nell'uomo), consentendo così di
soddisfare le esigenze dell'uccello senza ricorrere a strutture troppo voluminose. Solo di recente i
ricercatori sono riusciti a capire qualche cosa di come funzioni il polmone degli uccelli, ma i minatori fino a
non molto tempo fa erano ben consapevoli delle grandi possibilità di questo organo; usavano infatti portare
nel sottosuolo anche una gabbietta con un uccellino. Se vi erano esalazioni di "gas di miniera", il primo a
risentirne era l'uccellino che con i suoi efficientissimi polmoni rapidamente assorbiva il micidiale gas e con la
sua morte consentiva ai minatori di salvarsi in tempo.

L'UCCELLO MASTICA CON LO STOMACO


Per mantenere costante la temperatura corporea occorre fornire all'organismo molte sostanze organiche
da bruciare per ricavare energia. L'animale omeotermo, però, non solo deve mangiare di più, ma deve anche
digerire più in fretta per assicurare un continuo rifornimento di energia al suo organismo. Si accelera la
digestione masticando, riducendo cioÉ il cibo in piccoli frammenti affinché gli enzimi digerenti lo sciolgano molto
più in fretta. I mammiferi, anche loro omeotermi, masticano con la bocca, dove i denti premolari e molari
sono specializzati per questo compito. Gli uccelli invece masticano con lo stomaco! L'apparato digerente degli
uccelli infatti É del tutto particolare e specializzato per accelerare al massimo la digestione. Nel caso degli
uccelli granivori, il cibo viene dapprima immagazzinato in una sacca dell'esofago (ingluvie o gozzo), da cui poi
viene prelevato a piccole porzioni e avviato a un primo stomaco ghiandolare che lo arricchisce di enzimi
digerenti. Da qui passa a uno stomaco muscolare (o ventriglio) dove viene accuratamente triturato grazie agli
strati muscolari delle pareti e alla presenza di piccoli sassi. Da questo secondo stomaco esce solo un prodotto
semiliquido che prosegue poi nell'intestino medio dove continua la digestione e inizia l'assorbimento delle
sostanze organiche. In alcuni uccelli ciò che non si riesce a ridurre in poltiglia nello stomaco muscolare (penne,
sassi, peli, unghie, ossa) viene rigettato all'esterno, É la cosiddetta "borra". Il metodo É efficientissimo:
l'uccello si ingozza rapidamente del cibo che riesce a trovare e solo in un secondo tempo, al sicuro nel nido,
un po' alla volta lo sminuzza con calma nello stomaco e lo avvia alla digestione.

NOTA. Quasi tutti gli uccelli si dissetano immergendo il becco nell'acqua riempendosi la bocca e alzando
la testa per far scorrere l'acqua in gola, e ripetendo questi movimenti più volte. i colombi invece bevono
immergendo il becco nell'acqua e succhiando.

14. LO SCHELETRO.

Anche un non esperto dopo un breve addestramento riconoscerebbe un osso di uccello da quello di qualsiasi
altro vertebrato; É sufficiente infatti prenderlo in mano e soppesarlo: quello dell'uccello É straordinariamente
leggero, anche quando si tratta di ossa che devono sopportare dei forti carichi, come quelle delle zampe
Un'altra caratteristica unica nello scheletro degli uccelli É che la parte superiore del becco (mascella) É mobile
come quella inferiore (mandibola).

L'OSSO PIENO D'ARIA


Tale leggerezza É dovuta al fatto che nel tessuto osseo ci sono delle piccole cavità piene d'aria comunicanti
con i sacchi aerei. Negli altri vertebrati invece, l'osso É più compatto e pesante, anche laddove É composto
di tessuto spugnoso. Con ossa siffatte, lo scheletro degli uccelli É eccezionalmente leggero, requisito
fondamentale per un animale che deve librarsi in volo; si calcola che a parità di volume l'osso di un uccello pesi un
terzo di meno rispetto a quello di un mammifero.

LA ZAMPA
Per quanto possa sembrare strano, l'arto posteriore dell'uccello si É evoluto per il salto; quando l'animale spicca
il volo, pur con tutte le eccezioni, deve fare un salto verso l'alto per consentire alle ali di compiere il primo
battito. Ma non basta, quando l'animale atterra, si arresta più o meno bruscamente, perciò il peso del suo corpo e
la sua velocità gravano improvvisamente sugli arti, che si trovano a dover assorbire il contraccolpo. Per
rispondere a tutte queste esigenze, parte delle vertebre del tronco si fonde con l'ampio bacino in un unico
osso, il sinsacro. Ma É soprattutto l'arto posteriore che si modifica. Nel volume di questa collana dedicato agli
"Anfibi" (capitolo 18) abbiamo già visto che rispetto agli altri vertebrati con quattro arti, nella zampa posteriore di
una rana si forma un ulteriore segmento articolato per aumentare la spinta per il salto (un po' come se si
aggiungesse a una molla una spirale in più); anche l'arto posteriore degli uccelli ha tre segmenti articolati, che si
originano con modalità complicate ma che realizzano in sintesi lo stesso accorgimento. Il piede quindi
poggia sul terreno solo con le falangi delle dita, presenti in numero vario, da due, come negli struzzi, a quattro,
come di norma.

L'ALA
Anche l'arto anteriore si modifica per adattarsi al volo: i segmenti divengono più lunghi e dal prolungamento
di due dita si forma un tipico osso ad anello schiacciato, posto quasi al termine dell'ala. Vi É anche un primo
dito, piccolo ma funzionale, che sostiene una piccolissima ala, l'alula, che ha compiti precisi, anche se non
ancora ben definiti. La cintura pettorale su cui si articolano le ali É potente, anche per trasmettere a tutto
lo scheletro la spinta originata dal volo, le due clavicole si fondono a un'estremità e formano un osso a
forcella (caratteristico di tutti gli uccelli) chiamato comunemente "osso del desiderio", che si usa spezzare in due:
tra due persone chi, tirando, resta con in mano l'estremità più lunga É il più fortunato, e il suo desiderio si avvererà.

LO STERNO
Per il volo occorrono però anche dei potenti fasci muscolari che da un lato si inseriscono nell'ala e dall'altro sullo
sterno, o meglio su una cresta ossea di questo chiamata carena. Lo sterno può anche non essere carenato
come nell'antico "Archaeopteryx" e negli attuali uccelli corridori (ad esempio lo struzzo), poiché la carena É
sempre associata alla capacità di volare e alla presenza di una muscolatura adatta.

L'EVOLUZIONE DELLO SCHELETRO


Già abbiamo visto che lo scheletro dell'"Archaeopteryx" possedeva caratteristiche più vicine a quelle dei rettili
che a quelle degli uccelli, ma già negli esemplari un po' meno antichi, come l'"Ichthyornis", tutte le
principali modificazioni erano già comparse: lo sterno carenato, l'ala, le zampe a tre segmenti. Negli uccelli
viventi le caratteristiche dello scheletro sono molto monotone; solo gli specialisti riescono a individuare piccole
differenze, utili per elaborare uno schema di classificazione.

DAI DENTI AL BECCO


La classe debutta con una bocca irta di aguzzi denti conici, tipici dei predatori, molto precocemente sostituiti,
però, da un astuccio corneo che copre la mascella e la mandibola: il becco. Questa struttura non É una
novità: compare anche nei rettili come le tartarughe e in altre specie oggi estinte e la rivedremo nei
monotremi, dei mammiferi molto primitivi. E' difficile stabilire se siano più efficienti i denti o il becco, rimane solo
la constatazione che in una classe molto sofisticata ed evoluta come quella degli uccelli l'animale con il
becco al posto dei denti ha avuto la possibilità di evolversi con grande fortuna, così da espandersi in ogni
angolo del mondo
Caratteristica del becco É la grande varietà di forme e dimensioni, adatte alle esigenze alimentari
dell'ambiente. Darwin stesso nel corso dei suoi viaggi ebbe modo di osservare adattamenti diversi nel becco di
uno stesso genere di uccelli, a seconda del tipo di cibo presente nelle diverse isole. Questa osservazione, con
altre naturalmente, fu alla base delle prime considerazioni evolutive del grande scienziato
Esempi di becchi diversi, tutti ben adattati a dei compiti specifici, sono numerosissimi negli uccelli. Alcuni
sembrano paradossali e assurdi come nel bucero e nel tucano, ma forse non ne comprendiamo ancora i
motivi e la funzionalità, perché in genere non vi sono strutture assurde e inutili nell'organizzazione di tutti gli
esseri viventi.

NOTA. La natura ha dotato gli uccelli dl un'infinita variet└ di becchi. Per i passeriformi drepanidi delle
Hawaii il tempo ha modellato forme diverse adatte al diversi cibi, così da poter sfruttare ogni nicchia
ecologica dl quelle isole. Nella grande sacca sotto al becco i pellicani rigurgitano il pesce parzialmente digerito
che servir└ a nutrire i piccoli. Il tucano e il bucero hanno enormi becchi sgraziati. Nei rapaci, come l'arpia, il becco
uncinato, forte e tagliente, serve a lacerare la carne delle prede. Gli aironi hanno il becco lungo e appuntito per
infilzare i pesci, mentre il fenicottero filtra l'acqua con il becco ricurvo e munito di lamelle che trattengono
il cibo.

15. IL VOLO.

REMIGANTI PRIMARIE E SECONDARIE


Il volo degli uccelli segue meccanismi molto complessi. Fino a non molto tempo fa si credeva che quando
l'ala si abbassava l'uccello si inalzasse e andasse avanti: É vero, ma solo in parte. Innanzitutto nell'ala si
possono distinguere due parti principali: una attaccata a quella che dovrebbe essere la mano con penne remiganti
primarie, e una collegata all'avambraccio con penne remiganti secondarie. I due tipi di penne sono
facilmente riconoscibili: le primarie sono caratterizzate da un asse (rachide) e da rami laterali (barbe), questi
ultimi sviluppati soprattutto su un lato; le secondarie hanno le barbe ben sviluppate su entrambi i lati.

COME SI VOLA
Questa diversa forma corrisponde a due funzioni diverse: la parte posteriore dell'ala (o "avambraccio"),
con le penne remiganti secondarie, si muove relativamente poco, ma fornisce costantemente la forza di
sostegno, anche quando sta immobile. Prendiamo ad esempio l'ala dell'aereoplano: l'aria si muove più
rapidamente sulla superficie superiore, determinando così quella pressione maggiore al di sotto dell'ala che
crea un sostegno necessario per rimanere sospesi nell'aria. L'analogia con l'ala dell'aeroplano É perfetta: con il
movimento, grazie alla forza che agisce sotto l'ala, si crea una spinta verso l'alto che sostiene l'aereo o l'uccello.
Proseguiamo nel paragone: l'elica, nell'aereo, e la parte anteriore dell'ala (o "mano") con le remiganti
primarie, nell'uccello, assolvono la stessa funzione, che É quella di determinare la spinta in avanti. Il
movimento di questa parte dell'ala É estremamente complesso; ma si É giunti a qualche ipotesi sul suo
funzionamento grazie a riprese cinematografiche a velocità normale, osservate poi al rallentatore. La parte
anteriore dell'ala si muove a semicerchio: mentre si abbassa, prima avanza poi si arretra generando così una
spinta in avanti, oltre a concorrere al sostegno
Per ottenere le diverse spinte le penne devono non solo essere diverse, ma anche sporgere una sull'altra,
in modo da formare una superficie piana continua. Quando l'ala si innalza le penne vengono ruotate, così da
offrire alla resistenza dell'aria solo la costa; appena l'ala ha raggiunto il punto più alto le penne ritornano nella
posizione originale per formare di nuovo una superficie piana continua.

LA PENNA: UNA STRUTTURA STRAORDINARIA


Il volo quindi É basato sulle caratteristiche della penna che rappresenta una delle strutture più straordinarie
e complicate tra quelle che ricoprono il corpo dei vertebrati. Nulla in natura É al tempo stesso più leggero e
più resistente. Si ritiene che la penna derivi da una ulteriore specializzazione della squama del rettile: nelle
due strutture, infatti, la prima parte dello sviluppo É identica, poi la penna acquista progressivamente la sua
peculiarità: il rachide al centro e le barbe di lato. Dalle barbe si staccano dei piccoli rami (barbule), che si
agganciano tra loro grazie a dei microscopici uncini. La superficie continua che si ottiene É così in pari tempo
estremamente leggera ed estremamente resistente perché non lascia passare l'aria, che provocherebbe delle
lacerazioni.

LA PIUMA
L'uccello ha non solo delle penne adatte al volo sulle ali e sulla coda, ma anche delle penne e delle piume
disposte su tutto il corpo che servono a proteggerlo dal freddo
L'animale, come già sappiamo, É termoregolato a circa 41 gradi centigradi, una temperatura che di
regola É superiore a quella dell'ambiente, perciò il suo corpo tende a raffreddarsi. Per limitare questa perdita di
calore vi sono delle penne, chiamate "del contorno", e sotto a queste delle piume che, trattenendo uno strato
d'aria, riducono la dispersione di calore. La penna in questo caso ha le stesse funzioni del pelo, anzi
funziona meglio poiché riesce a proteggere anche le specie acquatiche (come i pinguini) mentre il pelo,
incapace di far questo, scompare nei mammiferi marini come i cetacei.

IL RICAMBIO DELLE PENNE


Anche le penne invecchiano e si consumano, perciò É necessario un continuo ricambio. La muta in genere
avviene gradualmente, per non compromettere la funzionalità dell'ala. Solo in alcuni uccelli acquatici (come
il cigno) le penne remiganti delle ali e quelle della coda cadono contemporaneamente: per un certo periodo
l'animale non É in grado di volare e cerca di tenersi nascosto per non divenire una facile preda. In alcune
specie, adattate a vivere in ambienti che s'innevano periodicamente, le penne mutano due volte all'anno per
rendere il colore più mimetico rispetto ai colori dell'ambiente (vedi il capitolo 17).

UNA GHIANDOLA IMPORTANTE


Quasi tutti gli uccelli hanno all'estremità della colonna vertebrale una ghiandola (uropigea) che produce un
secreto untuoso che l'animale con il becco si spalma sulle penne. Questo secreto ha due funzioni
importantissime: l'untuosità serve a mantenere elastiche le penne, che altrimenti diverrebbero molto fragili,
inoltre contiene una provitamina che alla luce si trasforma nella complessa e importante vitamina D. Quando
vediamo un uccello passarsi il becco tra le penne, generalmente pensiamo che si stia pulendo, in realtà si sta
sporcando con il secreto untuoso della ghiandola, inoltre inconsapevolmente assume la sua razione di
vitamina D e riaggancia gli uncini delle barbule che accidentalmente si erano aperti.

16. L'INTELLIGENZA.
IL CERVELLETTO
E' una massa ovoidale, ricca di pieghe, che occupa la parte centrale e posteriore del cervello degli uccelli. A
questo centro vengono affidati i compiti di coordinamento delle masse muscolari e di equilibrio
dell'animale. Il maggior volume di questa area nervosa rispetto a quella dei rettili non stupisce, dato che il
cervelletto deve controllare le masse muscolari del petto e delle zampe, di gran lunga maggiori negli uccelli

IL MESENCEFALO E IL TELENCEFALO
I dubbi e le incertezze cominciano quando si esaminano gli altri due centri. Il mesencefalo infatti, molto
voluminoso, É costituito da due masse sferiche poste ai lati del cervello. Quest'area nei vertebrati inferiori
controlla tutta l'attività nervosa dell'animale, ma nei mammiferi si riduce quando un altro centro, il telencefalo,
assume tutto il controllo dell'animale. Negli uccelli invece esiste, accanto a un ben sviluppato mesencefalo, un
ancor più voluminoso telencefalo costituito da due emisferi. Entrambe le aree ricevono gli impulsi di senso
(acustici, ottici, eccetera) e sono coinvolte nelle risposte motorie. Negli uccelli quindi É un po' come se vi
fossero due cervelli, entrambi capaci di sentire ed entrambi capaci di influenzare il comportamento. Come
questo possa avvenire e quali siano i rapporti tra i due centri gli studiosi non sono ancora riusciti a scoprirlo e
forse questa particolarità anatomica É alla base di un comportamento ricco di contraddizioni non spiegabili.

GLI UCCELLI SONO INTELLIGENTI? E' molto difficile definire l'intelligenza, forse si É più vicini al vero
quando si considera intelligente un comportamento capace di modificarsi a seconda delle diverse circostanze.
Ad esempio negli invertebrati e in molti vertebrati a uno stimolo corrisponde sempre una risposta uguale
determinata geneticamente, cioÉ causata dalle caratteristiche dei circuiti nervosi già predisposti dalla nascita;
questo tipo di comportamento non può essere considerato "intelligente", ma di tipo riflesso. Se
l'animale risponde a uno stimolo con una varietà di modi dettati da cause varie (esperienza, apprendimento,
eccetera) si può già parlare di "atteggiamenti intelligenti". Su questa base se si esaminano gli uccelli emergono
dei fatti contraddittori: il "Camarhyncus pallidus", ad esempio, stana le larve dai legni marci con un bastoncino di
legno; usa cioÉ un attrezzo con un comportamento estremamente complesso, quindi "intelligente". A quasi tutti
gli uccelli si può insegnare qualche cosa, segno evidente che hanno la capacità di apprendere, presupposto
fondamentale per l'intelligenza. Ma gli esempi opposti non mancano. Alcuni uccelli covano amorevolmente le
loro uova, ma se una si sposta e sporge pericolosamente dal nido l'uccello non capisce quello che É avvenuto e
non provvede a riportare l'uovo al suo posto. Il cuculo depone un uovo nel nido di un'altra specie che provvederà a
incubarlo e a nutrire il neonato anche se É molto più grande e di colore diverso dal suo
Quando il giovane cuculo nasce, con la schiena spinge fuori dal nido le altre uova per essere l'unico a
essere imboccato dai genitori adottivi. Il comportamento sembra intelligente, nella realtà É puramente
istintivo poiché il cuculo continua nei suoi movimenti anche quando non ci sono più uova, o anche se, pur non
essendovi affatto uova, viene stimolato da una pressione sul dorso. Sono quindi atteggiamenti innati che
non prevedono alcuna flessibilità. Così anche i genitori adottivi del cuculo non capiscono che stanno alimentando
un estraneo alla specie, nonostante che il cosiddetto "piccolo" sia tre, quattro volte più voluminoso della madre.

L'IMPRINTING
Questo termine indica una singolare capacità nervosa presente in molti uccelli scoperta e descritta da un grande
naturalista, Konrad Lorenz
Quando dall'uovo sguscia il neonato, le prime immagini che coglie, le prime esperienze che compie, le prime
cose viventi che vede, si imprimono stabilmente nel suo cervello e condizioneranno poi tutto il comportamento
successivo. Così, se alla nascita gli uccelli vedono per un tempo sufficientemente lungo una persona, questa viene
considerata come un genitore e i rapporti con lei sono tipici del comportamento dei neonati della specie. Questi
uccelli cioÉ, già alla nascita, hanno preparati geneticamente dei precisi modelli comportamentali a cui però
manca ancora il soggetto cui questi comportamenti devono essere rivolti. Quest'ultimo perfezionamento
avviene con l'osservazione diretta dopo la nascita. Anche se l'imprinting É un comportamento affascinante e
curioso, non si può certamente definirlo intelligente.

17. IL COLORE.

IL MIMETISMO
Nella maggior parte degli uccelli i colori del piumaggio sono combinati in modo da neutralizzare l'effetto
della propria ombra. Così i colori più scuri sono disposti nelle parti superiori, su cui la luce cade più intensa,
mentre quelli più chiari sono posti ventralmente, dove spesso si trovano in ombra. Questa differente distribuzione
del colore, già vista per i pesci, serve per spezzare la sagoma dell'animale
Naturalmente vi É anche un adattamento cromatico all'ambiente; così negli abitanti delle chiome delle foreste
predomina il verde, mentre quelli che abitualmente vivono sul terreno tendono a una colorazione marrone.
Abbiamo visto (capitolo 15) che vi possono essere anche variazioni stagionali: ad esempio la pernice É bruna
d'estate, mentre all'approssimarsi dell'inverno cambia le penne e diviene bianca.

L'OSTENTAZIONE
Tra gli uccelli, però, incontriamo anche l'opposto fenomeno dell'ostentazione. I maschi di alcune specie
sfoggiano un piumaggio coloratissimo e sgargiante, fatto apposta per essere notato. Anche la forma delle
penne, in questo caso, si discosta dallo schema solito: così troviamo barbe tanto esili e distanziate tra loro da
sembrare piume
In genere alla vistosità dei maschi si contrappone la livrea mimetica delle femmine, dalle tinte più smorte. E' un
classico esempio del dimorfismo sessuale - la forte differenza nei colori e nelle dimensioni tra maschio e
femmina di uno stesso genere - determinato dalle modalità con cui si formano le coppie all'epoca della
riproduzione.

IL CORTEGGIAMENTO: COLORI E MOVENZE


E' infatti la femmina a scegliere ed accettare il maschio; però, prima, deve essere stimolata dall'aspetto del
pretendente. Così É successo che col passare delle generazioni le femmine, continuando a scegliere i maschi
dai colori più vistosi e dalle penne più lunghe e insolite, hanno finito per selezionare stabilmente esemplari
sempre più appariscenti. Il maschio del pavone É un esempio della selezione sessuale operata dalle femmine.
La sua meravigliosa coda cosparsa di tutti i colori dell'iride viene pomposamente esibita durante il
corteggiamento. Purtroppo la bellezza del piumaggio attira, assieme a quella della femmina, anche l'attenzione dei
predatori
All'epoca degli amori quasi tutti i maschi eseguono "danze", o figure più semplici, che, assieme ai colori, servono
per adescare le femmine
Queste movenze ci appaiono strane solo perché vengono eseguite fuori del loro contesto abituale e in forma
esagerata, ma la loro origine É del tutto naturale; ad esempio ripetono, esasperandolo, il movimento di alzarsi
in volo o di passarsi il becco tra le piume, o ancora imitano la ricerca e l'offerta di cibo.

IL PARASSITISMO
Gli uccelli sono spesso citati per la loro abilità nel costruire nidi, per la pazienza con cui covano le uova e per le
cure che rivolgono alla prole. Ma, come sempre succede in ogni famiglia, anche in questo caso non mancano
le "pecore nere". Nel capitolo 16 abbiamo visto il cuculo femmina che depone nei nidi altrui le proprie uova per
poi non curarsene più. Un passeriforme africano caratterizzato dalla lunga coda del maschio, la Vedova
paradisea, pratica un parassitismo più raffinato: depone le uova nel nido di un altro piccolo passeriforme, la
Melba, molto diverso per aspetto. Quando esce dall'uovo il piccolo Vedova quasi non si distingue dai piccoli
Melba. La somiglianza si protrae per circa cinque settimane, quanto basta per raggiungere l'autonomia dai
genitori adottivi e lasciare il nido, poi la Vedova acquista il colore e le fattezze tipiche della sua specie.

NOTA. I CROMATOFORI
Il colore delle penne, con tutte le sue infinite sfumature, deriva da pigmenti sintetizzati da cellule specializzate:
i cromatofori. In genere sono tre i pigmenti di base: il marrone-nero É di origine proteica, mentre il giallo e
il rosso sono di natura lipidica
L'azzurro invece si ottiene per riflessione della luce su strutture microcristalline. Dalla com binazione di questi
colori nasce la grande variabilità cromatica che incontriamo negli uccelli.

18. NIDO, UOVO, CURE PARENTALI.

MURATORI, TESSITORI E GIARDINIERI COSTRUISCONO LA CASA


Se vi sono degli sfaticati come il cuculo e la vedova, la norma vuole invece che gli uccelli siano abilissimi
costruttori di nidi. Però l'animale non impara il mestiere da nessuno: nel suo cervello, alla nascita, É già
impresso tutto il procedimento necessario a completare l'opera. Il materiale prevalente di cui É fatto il nido
sono arboscelli, più o meno grandi, che costituiscono l'armatura, mentre la parte interna É imbottita da
materiali più soffici, come vecchie piume, ciuffi di lana, esili fili di erba, eccetera. Lo strumento usato É quasi
esclusivamente il becco, con il corpo invece l'uccello adatta la forma interna del nido. Entrambi i sessi in genere
sono coinvolti in questa opera che richiede non solo abilità ma anche un gran dispendio di energie
Vi sono degli uccelli, chiamati comunemente "tessitori", che sanno intrecciare con gran cura i fili di erba,
annodarli, cucire tra loro lembi di foglie per formare dei nidi estremamente complessi
Una tecnica più raffinata prevede l'uso di materiali che si solidificano. Le rondini raccolgono con il becco
dell'argilla bagnata che utilizzano per la costruzione del nido. Quando l'argilla É secca, le pareti risultano molto
solide, per cui non rimane che tappezzare l'interno con materiale morbido
Gli ptilonorinchidi hanno un comportamento veramente singolare. Nella stagione degli amori il maschio
costruisce con grande abilità una capanna, poi dispone davanti all'entrata, in bell'ordine, il materiale più svariato,
purché abbia dei bei colori vivaci: pietruzze, fiori, bacche e quant'altro trovi di vistoso. Tutta questa esibizione di
colori serve solo per attirare l'altro sesso, evidentemente sensibile al richiamo dei colori. Quando giunge
finalmente una femmina, la coppia si ritira nel buio della capanna dove avviene l'accoppiamento
Compiuto il quale, il maschio si allontana e riprende la sua vita da scapolo, mentre la femmina abbandona la
capanna, meglio sarebbe chiamarla "garéonniÉre", per costruirsi un più serio e funzionale nido.

LA FORMAZIONE DELL'UOVO
L'uovo viene costruito dalla femmina con una tecnica che ricorda la catena di montaggio di un'auto. L'uovo
degli uccelli, molto simile a quello dei rettili (vedi il relativo volume di questa collana, capitolo 2), deve
possedere una grossa riserva di sostanze alimentari, dell'acqua e un guscio abbastanza robusto da sopportare
il peso dell'animale durante la cova. Dall'ovario si stacca una sferetta rossa, il tuorlo, che contiene l'area
embrionale per formare il nuovo uccello e una grande quantità di sostanze nutrienti. Mentre scende lungo
l'ovidotto, al tuorlo si aggiunge la calaza che mantiene il tuorlo nel centro dell'uovo, poi l'albume ricco di proteine
e d'acqua, poi una membrana esile e infine il guscio. All'interno dell'uovo il nuovo uccello si accresce e si
nutre e solo quando lo sviluppo É completato può uscire finalmente all'aperto.
L'INCUBAZIONE
Per far procedere lo sviluppo dell'embrione all'interno dell'uovo É assolutamente indispensabile che questo
sia mantenuto al caldo. La parte interna del nido imbottita da materiali morbidi può essere d'aiuto, ma di
norma sono i genitori a fornire il calore necessario
Anzi il tepore non deriva tanto dal calore stesso dell'animale, quanto da aree della pelle poste sul suo ventre -
le cosiddette "placche incubatrici" - che, essendo molto ricche di sangue, sono molto calde
Il compito della cova può essere svolto alternativamente da entrambi i sessi, oppure la femmina non abbandona
mai il nido e il maschio provvede ad alimentarla. Il pinguino imperatore, che vive sui terreni gelidi, trattiene
l'uovo tra i piedi e lo riscalda con una piega della sua pelle.

LA CURA DELLA PROLE


Alla nascita gli uccelli si presentano in due distinti modi: o il neonato implume É assolutamente incapace di
provvedere alle proprie necessità alimentari, o É già in grado di cercarsi il nutrimento. Il caso della gallina É
noto a tutti: appena uscito dall'uovo, il pulcino sa camminare e beccare. Nel caso dei neonati "inetti" sono entrambi
i genitori, o uno solo, a provvedere al sostentamento dei piccoli sempre affamati, sempre a bocca aperta.
Questa funzione É un atto puramente riflesso; qualsiasi cosa abbia la forma e il colore di una bocca
spalancata induce gli uccelli adulti a portarvi del cibo. Si racconta di un uccello che, avendo nidificato vicino alla
sponda di uno stagno, imboccava delle astute carpe che avevano imparato a spalancare la bocca all'arrivo
dell'uccello.

NOTA. Il nido del fagiano australiano ╚ una buca scavata nel terreno con uno spesso letto di foglie su cui
vengono deposte le uova, ricoperte poi da uno strato di sabbia. Il calore prodotto dalla fermentazione delle
foglie incuba le uova. Se la temperatura scende, il maschio scava la sabbia e la sparge intorno perch╔ si scaldi
al sole, poi la rimette sulle uova
Il "Ploceus cucullatus", un tessitore africano, inizia unendo due rami e formando poi un anello che servirà da
armatura per il nido di forma sferica. L'entrata É rivolta verso il basso
L'uccello fornaio costruisce il nido con argilla bagnata che si indurirà al sole.

19. LE MIGRAZIONI.

PERCHE' MIGRANO
Che cosa induce gli uccelli alla migrazione e come ebbe origine questo fenomeno? Per la risposta alla
seconda domanda, non avendo prove dirette, dobbiamo ricorrere a supposizioni. Se seguiamo il merlo dal
collare, che vive in montagna e non compie migrazioni, vediamo che al sopraggiungere dell'inverno si sposta in
pianura e ritorna in primavera nei suoi territori abituali
Questo semplice comportamento può essere all'origine delle migrazioni - prima brevi, poi a distanze sempre
maggiori - durante le quali i volatili imparano a orientarsi per ritrovare i luoghi d'origine. Un altro esempio É
quello degli uccelli insettivori che dalle foreste tropicali ricche di insetti si diffusero anche ad altre latitudini in
cerca di cibo, per tornare al punto di partenza con il sopraggiungere dell'inverno e la conseguente scomparsa degli
insetti. Forse anche le grandi glaciazioni periodiche che si susseguirono sulla Terra nell'ultimo milione di
anni avrebbero causato imponenti spostamenti di animali - uccelli compresi - in una direzione e spostamenti
inversi durante l'interglaciale
Più facile É capire che cosa oggi induce fisiologicamente gli uccelli a migrare. Dopo il periodo riproduttivo le
ghiandole endocrine dell'animale subiscono una drastica regressione; cambiano le penne e si accumula
grasso sotto l'epidermide, soprattutto nelle specie che non si alimentano durante il viaggio. Questi preparativi
fisiologici sono disposti da una ghiandola alla base del cervello, l'ipofisi, che regola quasi tutte le attività
dell'organismo. Probabilmente a far scattare l'interruttore che prepara alla migrazione É il
fotoperiodismo, cioÉ la diversa lunghezza del giorno e della notte.

LO STUDIO DELLE MIGRAZIONI


Le dettagliate conoscenze che oggi abbiamo sul fenomeno della migrazione non sono dovute a pochi
scienziati illustri, ma al lavoro instancabile di migliaia di sconosciuti appassionati, il cui nome non entrerà mai
nella storia della scienza. Questi ornitologi disseminati nel mondo compongono una fitta rete di stazioni di raccolta
dove i migratori, catturati integri, vengono classificati e inanellati a una zampa. L'anello porta delle sigle in
codice con il luogo, la data e l'ora della cattura. Gli uccelli vengono liberati e, se ricatturati, saranno registrati i
dati dell'anello e rilasciati subito dopo. Tutti i dati convergono nei centri di raccolta dove il percorso della
migrazione viene così ricostruito.

COSA LI GUIDA
Una ricerca speciale É quella tesa a stabilire cosa guida il volatile verso la sua destinazione senza smarrirsi.
Sembra che ogni specie abbia diversi metodi per orientarsi. Alcune di quelle che si spostano di giorno basano il
loro orientamento sulla posizione del sole o, in assenza di questo, sulla luce polarizzata emessa dai suoi raggi.
Le stelle guidano i migratori che volano anche di notte; questa sorprendente scoperta É emersa da studi
compiuti in un planetario
Recentemente É stata dimostrata la capacità di alcuni uccelli di percepire le linee del campo magnetico
terrestre. Sappiamo che la bussola indica sempre il nord perché il suo ago magnetizzato si orienta lungo le
linee magnetiche terrestri. Ebbene, sembra che questi uccelli abbiano una sorta di bussola interna - grazie alla
presenza nel loro corpo, non si sa esattamente dove, di microscopici cristalli di magnetite - che li guida nella
migrazione.

IL RITORNO AL NIDO
Da millenni l'uomo conosce la straordinaria capacità dei colombi viaggiatori di ritornare al nido, e nel
passato l'ha sfruttata largamente. Oggi il colombo viene usato soprattutto a fini di studio, per capire quali segnali
lo riconducano sempre a casa e si É accertato che esso si aiuta in vari modi. Da 1000 a 100 chilometri di distanza
É guidato dalla sua bussola interna e dal sole; da 100 a 10 chilometri agisce invece l'olfatto, cioÉ l'odore del suo
territorio gli indica la strada; a meno di 10 chilometri riconosce a vista le caratteristiche del suo ambiente e
raggiunge definitivamente il nido.

NOTA. La specie della colomba migratrice del Nord America si É estinta agli inizi del 1900 per mano dell'uomo
cacciatore
Anche il Dodo delle isole Mauritius, che deriva da sconosciuti columbiformi migratori, si É estinto nel
diciassettesimo secolo per l'invasione del suo habitat da parte degli europei.

20. UCCELLI CORRIDORI ESTINTI.

65 milioni di anni fa, come già sappiamo, scomparvero dalla terra i dinosauri con altri rettili che avevano
dominato per tutta l'Era Secondaria. Per alcuni l'ecatombe avvenne nell'arco di pochi anni, per altri ne occorse
quasi un milione; da quella data fatale le diverse aree della terra risultarono sgombre di forme dominanti e
quindi disponibili a essere occupate da altri animali senza colpo ferire. In quel periodo erano in piena espansione
gli uccelli, mentre i mammiferi erano ancora rappresentati da animali di piccola taglia, poco specializzati.
IL BREVE DOMINIO DEGLI UCCELLI CORRIDORI
I primi a scattare per prendere possesso delle aree lasciate libere dai rettili furono gli uccelli che rinunciando al
volo cercarono di insediarsi stabilmente su tutti i territori. Vi fu cioÉ un momento storico, tra i 65 e i 55 milioni
di anni fa, in cui i vertebrati dominanti sulla terra furono gli uccelli non volatori. Ma il loro dominio durò
poco: l'evoluzione improvvisa dei mammiferi, con la comparsa dei numerosi ordini che conosciamo, portò alla
progressiva affermazione della nostra classe con la conseguente e progressiva scomparsa dei grandi uccelli
corridori. Alcuni sparirono dalla scena già 20-30 milioni di anni fa, altri invece che erano riusciti a giungere
fino a noi furono sterminati dall'uomo. Ancora oggi però sopravvivono in molti continenti, anche se
stentatamente, degli uccelli strettamente legati alla vita sulla terra.

"DIATRYMA"
Questo possente uccello, che aveva un becco lungo oltre 40 centimetri e due zampe posteriori robuste e
armate di unghioni, dominava 50 milioni di anni fa tutto il Nordamerica e l'Europa. Forse era l'animale più
grande presente sulla terra in quel periodo per cui non doveva avere dei nemici pericolosi e poté così
sviluppare il gigantismo. Dalle caratteristiche dello scheletro del cranio questo antico gigante sembra
imparentato con l'elegante seriema crestato che vive in Brasile.

"PHORORHACOS"
Forse anche questo gigante É imparentato con il seriema, anche se l'aspetto esterno É completamente
diverso. Il "Phororhacos inflatus", alto fino a metri 1,5, viveva da 40 a 20 milioni di anni fa nel Sud America ove
rappresentava un pericoloso predatore. Il grande becco con la foggia tipica del cacciatore e le zampe con le dita
armate di forti unghie indicano una eccezionale capacità di predare e di dilaniare la vittima. Anche il
"Phororhacos" non sa volare, le ali sono ancora presenti ma ridotte a moncherini utili forse solo per equilibrare il
corpo durante la corsa
Il dominio di questi giganti terminò forse con la comparsa dei carnivori di taglia media e grande che si
inserirono stabilmente nella nicchia ecologica riservata ai predatori.

"DINORNIS"
Nella Nuova Zelanda, dove non erano giunti i mammiferi placentati con i loro grandi carnivori, viveva quello che
forse fu il più grande uccello che sia mai esistito, il "Dinornis maximus", alto fino a metri 4,5. Questo gigante
possedeva delle zampe tozze e forti come quelle di un elefante, ma provviste di robuste dita. Dalle caratteristiche
del becco É presumibile che l'animale avesse delle abitudini alimentari simili a quelle dell'attuale struzzo,
cioÉ, non disdegnando delle piccole prede, il cibo preferito doveva essere vegetariano. Anche le uova erano
gigantesche, lunghe oltre 30 centimetri
Questo uccello non volatore riuscì a coesistere con l'uomo fino alla comparsa dei colonizzatori con i loro
fucili che vedendo nel gigantesco animale una fonte preziosa di alimento ne decretarono
inconsapevolmente la fine. L'ultimo colpo di fucile sparato su di un "Dinornis", che gli indigeni Maori chiamavano
"Moa", esplose nel 1770 e da allora in poi di quello stupendo animale ci rimangono solo molte ossa, qualche
uovo e qualche rara penna. Quella che vediamo in questa pagina É solo una ricostruzione basata sui resti
scheletrici.

"AEPYORNIS"
Nell'Africa durante l'Era Terziaria, e in tempi più vicini a noi anche nel Madagascar, viveva un altro gigante di
oltre due metri di altezza, l'"Aepyornis maximus". Probabilmente questo uccello dominava nel continente
africano prima dell'arrivo dei grandi carnivori
Nel Madagascar invece l'uccello, protetto dal tratto di mare che separa l'isola dall'Africa, É riuscito a giungere
fino a noi, per poi soccombere ignobilmente di fronte alla potenza dei cacciatori nel 1650.
21. UCCELLI CORRIDORI VIVENTI (RATITI).

Tra gli uccelli viventi i ratiti, o uccelli corridori, sono i più primitivi (paleognati), tutti caratterizzati
dall'incapacità di volare, con la conseguente più o meno forte riduzione dell'arto anteriore. Pur essendo
distribuiti su quasi tutti i continenti, sono in continua diminuzione, alcune specie corrono addirittura il rischio
dell'estinzione.

TINAMIFORMI
All'aspetto sembrano pernici o quaglie dalle dimensioni di una gallina; hanno le ali e una discreta
muscolatura per il volo, ma le caratteristiche scheletriche denunciano la loro appartenenza agli uccelli
corridori. Molti paleontologi considerano questo ordine quasi all'origine di tutti gli uccelli e sicuramente il primo
passo per rinunciare al volo. I tinami, presenti nell'America centrale e meridionale (ad esempio la
martinetta dal ciuffo), amano camminare saltellando sul terreno, solo se spaventati spiccano un breve e
scomposto volo che a volte termina con indecorose cadute.

APTERIGIFORMI
Il nome significherebbe "uccelli senza ali", in realtà le ali ci sono, ma ridotte a moncherini privi di penne. Il
rappresentante più tipico É il kiwi, il cui nome ricorda il suo richiamo notturno. Non É visibile di giorno, poiché
rimane nascosto nel fitto delle boscaglie; solo di notte esce per iniziare la caccia di insetti o vermi che scova con il
raffinato olfatto, unico uccello ad affidare a questo senso il problema di reperire il cibo. Vive nelle foreste della
Nuova Zelanda e forse É imparentato con il gigantesco "Dinornis". Le piccole dimensioni, simili a quelle di
un gallo, e il carattere timido e pauroso lo ha protetto dalla distruzione operata dai colonizzatori: ma
l'introduzione nel suo habitat di cani e gatti, poi inselvatichiti, lo ha rapidamente decimato. Oggi rigide disposizioni
protezionistiche sembrano aver fermato il pericolo della sua estinzione.

CASUARIIFORMI
Sono i grandi corridori dell'Australia: l'emù, il rappresentante più tipico, raggiunge quasi due metri di altezza. Il
loro corpo É coperto da penne lanuginose presenti anche nelle piccole ali. Sono ottimi corridori e toccano la
velocità di 50 chilometri all'ora. Alcuni casuari hanno un'escrescenza ossea sul capo simile a un elmo, forse
una protezione al cranio per le eventuali collisioni contro gli ostacoli naturali durante la corsa. Un tempo erano
numerosi e capitava di incontrarne grandi branchi all'abbeverata. Oggi, dopo la solita strage operata per puro
divertimento dall'uomo bianco, sono molto ridotti di numero e non si lasciano avvicinare.

REIFORMI
Il nandù, o struzzo americano, É chiamato così perché assomiglia molto al noto corridore africano, anche se É
più piccolo. Vive solo nelle ampie distese delle pampas sudamericane. E' molto veloce nella corsa, potendo
anche gareggiare vittoriosamente con il cavallo. La carne nel nandù É apprezzabile, mentre non hanno alcun
valore le penne. I reiformi, pur in diminuzione, non corrono alcun pericolo di estinzione.

STRUZIONIFORMI
Lo struzzo con i suoi due metri e mezzo di altezza É il più grande uccello vivente. L'area di diffusione degli
struzzi era molto ampia comprendendo non solo l'Africa ma anche l'Europa meridionale e l'Asia fino ai deserti
della Mongolia. Oggi vive solo in limitati territori dell'Africa
L'ambiente tipico dello struzzo É l'ampia distesa della savana con erbe alte e rari gruppi di alberi. Non É raro
vedere delle mandrie di erbivori (zebre, giraffe, gnù) pascolare insieme agli struzzi. Questi uccelli sono riusciti a
sopravvivere alla caccia dei grandi predatori grazie ai loro sensi, sempre all'erta, e alla difesa affidata al
robusto becco e alle poderose zampe munite di due dita con grosse unghie
Gli struzzi godono la fama di essere timorosi al punto da nascondere la testa nella sabbia al più piccolo
allarme; questa credenza É assolutamente falsa, mentre É vero che l'animale inghiotte qualsiasi oggetto, di
legno, metallo, plastica che sia
Nell'altro secolo gli struzzi corsero il rischio dell'estinzione a causa della moda allora in voga di utilizzarne le
penne. L'altissimo prezzo che queste avevano raggiunto provocò una caccia spietata agli uccelli, attenuata solo
con l'introduzione di allevamenti. Poi la moda passò e gli uccelli ripresero a vagare indisturbati nelle savane. Oggi
infatti gli struzzi non corrono alcun pericolo specifico, se non la progressiva riduzione dei loro territori.

22. PINGUINI E ALCHE (SFENISCIFORMI E CARADRIIFORMI).

L'origine di questi singolari uccelli nuotatori, abitanti esclusivi dell'emisfero sud, É molto antica, erano infatti
già presenti sulla terra circa 50 milioni di anni fa, quando gli uccelli moderni dovevano ancora comparire o erano
all'inizio della loro evoluzione.

COME NUOTANO
La struttura dello scheletro É sconvolta rispetto allo schema generale di un uccello. Gli arti anteriori sono
trasformati in robuste e ampie pinne, che forniscono la spinta per il nuoto. Gli arti posteriori sono utilizzati in
acqua come timoni direzionali, perdendo così in mobilità. Questo adattamento rende il pinguino un abile e
velocissimo nuotatore, capace di inseguire e catturare qualsiasi pesce, o di sfuggire con rapidi e veloci
cambiamenti di direzione ai numerosi nemici che gli insidiano la vita sott'acqua. Orche, delfini, squali e foche
cacciano i pinguini, soprattutto quando sono riuniti in grandi branchi durante l'epoca della riproduzione.

COME CAMMINANO
L'abilità nel nuoto É compensata da un'estrema goffaggine quando il pinguino si muove sulla terra. Con gli
arti posteriori spinti all'indietro e quasi rigidi non si può camminare, tutt'al più saltellare, spesso a piedi
uniti. E' sempre uno spettacolo comico vedere dei pinguini muoversi sul terreno o sul ghiaccio, ma il grave
impaccio non li espone a pericoli perché fuori dall'acqua non hanno nemici.

IL FREDDO
Il pinguino deve difendersi dal freddo intenso delle acque del Polo Sud e dalle ancor più basse temperature
dell'aria. Le penne, profondamente cambiate, si sono fatte più tozze e corte, più simili a squame, e sporgendo
le une sulle altre, formano un involucro continuo che intrappola uno strato d'aria e isola la sottostante pelle.
Questo sistema di protezione dal freddo funziona molto meglio del pelo dei mammiferi, che É inefficace nelle
acque gelide, al punto che le balene ne sono prive. Balene e pinguini, però, hanno uno strato di grasso sotto
la pelle che isola ulteriormente i muscoli e i visceri sottostanti.

LA RIPRODUZIONE
I pinguini all'epoca della riproduzione escono dall'acqua per adempiere al rito nuziale. In questa occasione
le coste dei continenti e le isole da loro frequentate si animano di migliaia di esemplari intenti a deporre le uova
e a covarle. Il pinguino imperiale, uno tra i più grandi, invece preferisce le nude lastre di ghiaccio del pack
Non costruisce il nido e per evitare il congelamento dell'unico uovo lo trattiene tra le zampe riscaldandolo nelle
pieghe della pelle. Lo sviluppo É lento, il pulcino dipende dai genitori per settimane o mesi. E' questo un
periodo critico: molti uccelli, soprattutto i gabbiani, sono particolarmente ghiotti delle uova di pinguino e
infieriscono anche sui neonati. Solo quando hanno raggiunto, o addirittura superato, le dimensioni dei
genitori, i giovani si avventurano in mare per alimentarsi da soli.

I "PINGUINI" DELL'EMISFERO NORD: GLI ALCIDI


A nord dell'equatore nelle zone artiche non vi sono pinguini, ma uccelli non troppo dissimili, che
occupano la stessa nicchia ecologica: gli alcidi. Come i pinguini, questi animali sono adattati al nuoto, e si
muovono malamente a terra. A differenza però dei loro lontani parenti del Polo Sud, gli alcidi sanno anche volare,
alcuni compiono lunghi tragitti per raggiungere i luoghi di riproduzione. Le aree preferite dagli alcidi sono
soprattutto concentrate nel mare di Bering e sugli scogli bagnati dall'Oceano Artico.

L'ALCA IMPENNE
Oggi estinta, era l'unico alcide che non sapesse volare, le ali avevano perduto le lunghe penne remiganti e
somigliavano alle pinne dei pinguini. Il portamento era eretto e anche il movimento era simile a quello dei
pinguini, ma, per sua sfortuna, l'alca impenne era un uccello assolutamente privo di timori. All'epoca della
riproduzione si poteva incontrare in branchi di centinaia, intenta alla cura delle uova e della prole, e i
naviganti dell'Atlantico Settentrionale non mancavano di approdare su quelle coste per rifornirsi con estrema
facilità di carne fresca. Quando nel diciannovesimo secolo si intensificò la navigazione cominciarono a
scarseggiare le alche impenni; allora non vi era nessuna associazione protezionistica, e la caccia proseguì
indisturbata e l'ultima alca impenne fu uccisa nel 1844. Oggi di questo strano uccello rimangono un
centinaio di esemplari imbalsamati in alcuni musei.

23. AVVOLTOI, AQUILE, FALCHI (FALCONIFORMI).

Questo ordine comprende gli uccelli predatori ad abitudini diurne


Caratteri comuni sono il robusto becco adunco e le forti zampe dotate di un dito opponibile agli altri tre per una
presa più salda. Come i rapaci notturni (capitolo 24), sono abili cacciatori e ghermiscono le prede con gli artigli
per poi dilaniarle con il becco.

GLI AVVOLTOI
Per forma e dimensioni gli avvoltoi americani sono molto somiglianti agli avvoltoi del Vecchio Continente; ma
É un classico caso di convergenza determinato dalle stesse abitudini di vita, poiché le due famiglie sono
imparentate alla lontana. Il condor, l'esponente più tipico, con un'apertura alare di tre metri, É il più grande tra gli
uccelli volatori. Si ciba di animali morti, meglio se in putrefazione; il becco infatti É troppo debole per strappare
brandelli di carne fresca: ecco perché non attacca gli animali vivi. Per individuare il cibo con la vista
acutissima il condor rotea a centinaia di metri d'altezza, poi si getta in picchiata su una carogna. Il movimento non
sfugge ai compagni, anche molto lontani, che si affrettano ad accorrere in gran numero per partecipare al
banchetto. In Europa, Asia, Africa troviamo avvoltoi che occupando la stessa nicchia ecologica dei condor
ne ripetono forma e abitudini. Hanno però origini "più nobili", essendo imparentati con la possente aquila. Il modo
con cui cercano il cibo É simile a quello dei condor, anche se, più robusti di zampe e becco, non disdegnano
piccole prede vive.
I FALCONIDI
Questo gruppo eterogeneo comprende uccelli, come il falco, abilissimi nel ghermire le prede anche al volo:
possono cacciare a comando e ritornare dal loro addestratore. La falconeria É un'arte molto antica; vi sono dei
trattati in latino e in arabo. Oggi É ancora praticata in Inghilterra e in Spagna ove si usa di preferenza il falco
pellegrino.

IL SERPENTARIO
Forse É il più bello ed elegante tra i falconiformi; il nome ricorda le sue prede preferite, i serpenti
La sua tecnica di caccia É tutta volta a confondere e a stancare il serpente; l'uccello lo insegue sul terreno
fingendo degli attacchi e agitando freneticamente le ali per indurre il rettile a mordere. Il serpentario non É
immune dai veleni, ma cerca di farsi mordere solo le penne delle ali; quando il rettile É stanco viene afferrato con
le zampe e dilaniato con il becco.

L'AQUILA
Questo maestoso uccello vive in Europa, Asia, Nord Africa e Nord America, anzi in quest'ultimo paese É
diventato il simbolo stesso della nazione. L'aquila É un uccello longevo; le coppie in genere nidificano su alti
alberi o su rocce a strapiombo e inaccessibili. E' un'eccellente cacciatrice: scovata la preda dall'alto con la vista
acutissima la cattura aggredendola con un volo radente. Difende coraggiosamente il nido con i piccoli,
avventandosi, se necessario, anche sull'uomo. L'Aquila reale É purtroppo in via di estinzione anche per le
drastiche limitazioni del suo habitat.

24. RAPACI NOTTURNI (STRIGIFORMI).

Questo ordine di uccelli neorniti comprende le forme che si sono adattate alla caccia nel buio della notte.
Caratteri comuni degli strigiformi sono la grossa testa, il collo corto e tozzo, i grandi occhi e la fitta copertura
di penne, talmente soffici e leggere da rendere il volo assolutamente silenzioso. Gli strigiformi sono diffusi in
tutto il mondo e adattati a qualsiasi clima.

L'OCCHIO: UN ORGANO Dl SENSO STRAORDINARIO


Gli uccelli in genere hanno una vista acuta, ma gli strigiformi battono in efficienza qualsiasi altro esemplare
della classe. La loro formidabile vista É basata su alcuni perfezionamenti: 1) entrambi gli occhi, posti sul piano
frontale, inquadrano la preda, rendendo più accurata la valutazione della profondità di campo; 2) il cristallino É
molto distante dalla retina perciò l'immagine della preda É come ingrandita e messa perfettamente a fuoco dal
pettine; 3) le cellule visive sono più numerose per millimetro quadrato (nell'uomo 2000 circa, negli
strigiformi fino a 10 mila): ne risulta un'acutezza cinque volte maggiore della nostra; 4) la pupilla del grande
occhio può dilatarsi molto, così da catturare il più piccolo raggio lumino so; 5) nella retina la quantità di
rodopsina, la sostanza che trasforma l'impulso luminoso in uno stimolo, É molto elevata e accresce la
sensibilità dell'occhio. Grazie a questi accorgimenti gli strigiformi riescono a scorgere e catturare le prede
anche alla debolissima luce della notte.

LE CIVETTE
Di solito la civetta É associata alla stregoneria e al malocchio, forse perché nel silenzio della notte il suo canto
sembra un gemito lugubre. Abile cacciatrice, scova la preda non solo con i grandi occhi ma anche per mezzo
degli orecchi estremamente sensibili. La strana forma della testa ampia e piatta sembra essere un accorgimento
per convogliare meglio i suoni all'orecchio. Anche il volo, estremamente silenzioso, agevola il compito
dell'orecchio, oltre che non tradire l'imminenza dell'attacco
La preda, di solito un roditore, viene trascinata al nido, o in un posto tranquillo, per essere ingoiata intera.

IL GUFO
Al contrario della civetta, il gufo ha sempre goduto di un'ottima fama e spesso É preso come simbolo di
saggezza, del vecchio savio che guarda, ascolta e tace. I gufi, più schivi delle civette, in genere non
nidificano vicino alle case, ma nel folto dei boschi, vicino ai terreni di caccia, che esplorano solo di notte. Tutti gli
strigiformi, avendo i due occhi posti sul piano frontale, hanno un campo visivo più ristretto di quello degli uccelli
con gli occhi posti lateralmente, perciò sono costretti a ruotare la testa quando vogliono guardare a destra o a
sinistra. I gufi, in particolare, possono ruotare la testa di 180 gradi, riuscendo a esplorare il campo visivo posto
alle loro spalle senza voltare il corpo
Il gufo non ha di fatto nemici naturali, solo l'uomo, nonostante il divieto, gli dà la caccia.

25. COLIBRI' E QUETZAL (APODIFORMI E TROGONIFORMI).

I COLIBRI'
I colibrì sono tra gli uccelli più evoluti e specializzati, con caratteri anatomici e funzionali veramente
sorprendenti. Sono noti per i magnifici colori del loro piumaggio. Un tempo non molto lontano erano apprezzati
e scambiati come gioielli. Tra questi uccelli vi sono specie con forme ridottissime; il "Mellisuga helenae" misura
solo 6 centimetri e pesa pochi grammi.

COME VOLANO Nell'uccello tipico l'estremità dell'ala solleva l'animale quando batte dall'alto in basso,
mentre quando ritorna nella posizione di partenza, quando cioÉ si riporta in alto, in genere non ha portanza
Nel colibrì invece entrambi i movimenti determinano una spinta verso l'alto, sia quando l'ala si abbassa, sia
quando si innalza, poiché viene ruotata all'altezza della spalla. Questo modo di volare consente non solo di stare
immobili nell'aria, ma anche di compiere spostamenti all'indietro, capacità questa esclusiva dei colibrì. Il battito
delle ali inoltre É estremamente rapido, fino a 75-80 volte per minuto, e quasi silenzioso. Per compiere questi
prodigi di volo però il colibrì ha bisogno di potenti muscoli pettorali, i più robusti, in proporzione, di tutti gli
uccelli viventi.

L'ALIMENTAZIONE
I colibrì sono gli unici uccelli in diretta concorrenza con gli insetti. Non mancano altri piccoli uccelli che si
nutrono del nettare dei fiori, ma non in modo esclusivo; molti colibrì invece sono specializzati per cibarsi
solo di nettare che succhiano con la lunga lingua a tubicino; tutti hanno il becco sottile e appuntito, a volte
ricurvo, adattato a penetrare nelle corolle dei fiori. Alcuni colibrì, proprio come gli insetti, quando succhiano il
nettare si coprono il capo di polline che, trasportato poi da un fiore all'altro, provvede all'impollinazione e alla
riproduzione della pianta. Non mancano però forme insettivore che si procurano il cibo con scatti fulminei dopo
brevi appostamenti.

LA DISPERSIONE DI CALORE
Anche il colibrì, al pari di ogni uccello, É termoregolato a 41 gradi centigradi, ma le piccole dimensioni causano
una forte dispersione di calore. Per compensare questa perdita di calore deve produrne più di ogni altro uccello
e per fare questo deve nutrirsi in continuazione
Ma il mangiare dalla mattina alla sera, in molte specie non basta ancora a produrre il calore necessario per
mantenersi in vita; allora il colibrì ricorre a un altro espediente: di notte spegne il termostato del
condizionatore e la temperatura del suo corpo può scendere fino a 18 gradi centigradi, risparmiando così
una grande quantità di energia. I colibrì sono gli unici uccelli infatti che di notte rinunciano a termoregolarsi,
proprio come facevano i lontanissimi progenitori rettili.

GRANDI MANGIONI
Sia per i problemi di termoregolazione, sia per fornire l'energia necessaria a battere le ali con grande
rapidità, i colibrì hanno bisogno di una notevole quantità di cibo che devono assumere continuamente.
Questi uccelli non sono assolutamente in grado di digiunare; specie le forme più piccole non resistono a un
digiuno, durante il giorno, di 4-5 ore; mentre le forme più grosse riescono ad arrivare fino a 24 ore, poi per tutti É
la morte. La quantità di calorie che assumono É elevatissima, in proporzione un uomo dovrebbe mangiare
ogni giorno circa 140 chili di patate!

LO SVILUPPO
Naturalmente anche le uova dei colibrì sono piccolissime, misurano pochi millimetri. Vengono incubate a
lungo, fino a 19-20 giorni; la tecnica con cui i genitori nutrono i figli É simile a quella con cui raccolgono il
nettare: si librano immobili nell'aria e infilano il becco nella bocca spalancata dei piccoli per introdurvi l'alimento.

LA DISTRIBUZIONE
I colibrì sono concentrati soprattutto nelle foreste tropicali dell'America del sud, dove per il caldo e l'umido
costante si possono sempre trovare fiori in abbondanza; ma si possono spostare più a nord, anche negli Stati
Uniti, o più a sud fino alla Terra del Fuoco, compiendo lunghe migrazioni quando in queste zone sbocciano i
fiori.

LE LIVREE
La bellezza di questi minuti uccelli deriva non solo dal colore delle penne ma anche dalla foggia che alcune di
queste possono assumere: così nella silfide due lunghe penne che adornano la coda sono simili a quelle
dell'uccello lira, in altri É il capo che si adorna di macchie di colore e penne dalla forma insolita. Come in quasi
tutti gli uccelli i colori e le forme più brillanti sono sfoggiati dai maschi.

L'UCCELLO DIVINITA'
Per i colori splendenti e l'imponente coda (lunga anche più di un metro) gli Aztechi e i Maya veneravano il
quetzal ("Pharomachrus mocinno") come una divinità, e solo i grandi sacerdoti e le alte personalità potevano
portare le sue piume come ornamento
Appartiene all'ordine dei trogoniformi, ed É diffuso nelle umide foreste montane del Centro America. Si nutre
di frutta e scava un nido come quello del picchio a molti metri dal suolo, nei tronchi marcescenti. Qui la
femmina depone due uova color azzurro chiaro covate da entrambi i genitori. La sopravvivenza di questa
specie É minacciata dal disboscamento e dalla caccia alle sue piume, malgrado le leggi emanate per la sua
protezione.

26. TUCANI, PICCHI, PAPPAGALLI (PICIFORMI E PSITTACIFORMI).

I TUCANI
Appartengono all'ordine dei piciformi e sono inconfondibili per il loro strano e lungo becco. Presenti nel Centro
e Sud America, sono arboricoli e si cibano di frutta, insetti e anche di piccoli uccelli
Anche oggi non si sa a cosa serva il loro lungo e leggerissimo becco; forse si É evoluto in tempi più antichi per
raccogliere un ignoto tipo di alimento, difficile da raggiungere altrimenti; forse invece potrebbe essere
un'arma per sconcertare gli eventuali aggressori con quella foggia strana. I tucani vivono in piccoli branchi nel
folto delle foreste ove si spostano con brevi e impacciati voli; il carattere sembra giocoso, quando sono in
gruppo emettono grida rauche o battono rumorosamente il becco, a volte si lanciano tra loro bacche o frutta,
forse questi sono segnali legati all'accoppiamento.

I PICCHI
Salvo l'Australia e il Madagascar, tutto il resto del mondo É popolato dai picchi, degli uccelli molto
caratteristici, appartenenti all'ordine dei piciformi. Per consentire la presa sui tronchi in verticale le quattro
dita dei picchi sono disposte in modo del tutto peculiare: due dita sono opposte alle altre due. Le abitudini dei
picchi sono uniche: spostandosi sui tronchi e battendoli con il becco, l'uccello capisce dal suono dove vi siano
cavità scavate da qualche larva divoratrice del legno; accertata la presenza di questo insetto, il picchio comincia
a scavare una galleria nel tronco per raggiungere la larva. I picchi sono anche degli avidi mangiatori di formiche; in
un esemplare furono trovate nello stomaco oltre 900 formiche appena catturate. La loro abilità come scavatori di
legno É utilizzata anche per preparare il nido: in primavera il picchio, dopo aver cercato un legno
sufficientemente morbido, comincia a scavare, martellando con il becco, una galleria lunga svariati centimetri, che
si allarga poi nel nido vero e proprio, dove verranno deposte le uova e allevati i piccoli. Il picchio può
perforare il legno grazie al robusto e aguzzo becco, e alla struttura del cranio e delle vertebre cervicali. Per
rendere efficiente il colpo di becco, infatti, la struttura del tessuto osseo del cranio É tale da poter
sopportare il trauma meccanico della vigorosa beccata. E' dubbio se il picchio sia un uccello utile o
dannoso: se infatti da un lato É un vorace divoratore di insetti, dall'altro con quella mania di scavare dei buchi e
delle tane nei tronchi provoca sicuramente dei danni al patrimonio boschivo.

I PAPPAGALLI
Il becco ricurvo, le piume colorate e il verso rauco sono i particolari più evidenti che contraddistinguono
un altro ordine di uccelli delle zone tropicali: gli psittaciformi, meglio conosciuti come pappagalli e che
attirano la nostra simpatia essendo tra i pochi volatili ad avere il dono di imitare la voce umana e perfino di
modularla, cantando dei brani di canzoni. Solo poche specie sono adattate ai climi temperati, dato che
hanno trovato nelle foreste tropicali l'abbondanza di frutta e semi duri che rompono con il fortissimo becco.
Alcuni di loro hanno evoluto la forma della lingua per succhiare il nettare dei fiori. Più che volatori, i pappagalli
sono arrampicatori e per meglio spostarsi e aggrapparsi ai rami hanno anch'essi due dita in avanti opponibili alle
due all'indietro che usano perfino per portare il cibo al becco, un atteggiamento più unico che raro fra gli uccelli.
La loro diffusione É vasta: dal Sudamerica all'Africa, dall'Asia meridionale fino all'Australia, Nuova Zelanda e alle
sperdute isole dell'Oceano Pacifico
Oggi l'unico continente totalmente privo di pappagalli allo stato selvatico É quello europeo (nel secolo
scorso anche in America settentrionale era diffusa una specie, il parrocchetto della Carolina, sterminato dai
cacciatori) ma reperti fossili hanno dimostrato che durante l'Oligocene (40-50 milioni di anni fa) la regione francese
era popolata di questi volatili. Se non sono presenti come fauna selvatica, lo sono però come ospiti
domestici, e l'indole ad essere addomesticati li ha avvicinati all'uomo sia nei villaggi indigeni sia nei palazzi dei
potenti, fin da epoche remote. Si hanno notizie di pappagalli portati in Europa già nell'antica Grecia
Molti sovrani europei, negli scambi commerciali sempre più frequenti nel Medioevo, li ricevettero in omaggio
dagli imperatori d'Oriente, ciò significa che questi variopinti pennuti dovevano essere ritenuti doni di gran
pregio, se teniamo conto che nel 1400 il Papa di allora aveva addirittura nominato un "Custode dei Pappagalli" per
accudire ai volatili avuti in dono.

NOTA. Negli Stati Uniti speciali provvedimenti sono stati adottati per proteggere l'habitat del picchio dal becco
color avorio che si teme quasi scomparso nella sua area dl distribuzione, le selvagge boscaglie della Florida,
Louisiana e Carolina. Tutti i picchi hanno una lunga lingua che puÊ essere estroflessa fino a 10 centimetri, irta
sulla punta di setole a uncino per poter stanare meglio gli insetti nelle loro gallerie.
27. UCCELLI DI PALUDE (ANSERIFORMI, CICONIIFORMI, GRUIFORMI).

Nel corso della loro evoluzione, alcune specie di uccelli, pur conservando tutte le caratteristiche della classe
cui appartengono, ne modificano alcune per colonizzare le zone d'acqua dolce e salmastra
Essi si spingono verso l'acqua bassa per cercare cibo e rifugio dai predatori, imparando quindi a nuotare o
comunque a muoversi sopra e sott'acqua
Costruendo il loro nido sulle rive sfruttano le risorse della vegetazione circostante, sia usandola come
materiale per allestirlo sia adottando un piumaggio mimetico che li renda pressoché invisibili, come il tarabuso
(ciconiiformi). Inoltre il loro becco, come negli aironi (ciconiiformi), diventa lungo e appuntito, adatto a catturare
repentinamente prede guizzanti come pesci e rane, o si appiattisce per setacciare sul fondo acqua e fango,
come negli uccelli spatola (ciconiiformi)
Per poter procedere nell'acqua gli anseriformi ed altri acquatici hanno escogitato zampe palmate da usare
come remi, mentre gli aironi e gli altri ciconiiformi hanno zampe simili a trampoli che permettono loro di
camminare nell'acqua bassa. Così ogni specie di uccelli si É scelta un certo livello dell'acqua, occupandolo a
seconda della sua struttura fisica e delle sue esigenze alimentari.

OCHE E ANATRE
Appartengono all'ordine degli anseriformi e sono tutti degli ottimi nuotatori; le zampe infatti terminano con i
piedi ampi e palmati con cui l'uccello si muove nell'acqua. Il lungo collo e il becco appiattito, a volte
seghettato, favoriscono la cattura del cibo prelevato direttamente dall'acqua. Come sono aggraziati ed eleganti
quando nuotano, così sono impacciati quando camminano: le gambe sono in genere corte e spostate
all'indietro per cui l'andatura É dondolante. Tipico É anche il modo con cui alcune specie si innalzano in volo:
l'uccello, dato il peso del suo corpo, prima di decollare deve raggiungere una certa velocità che ottiene "correndo"
sull'acqua e battendo le ali. Dopo questa prima fase, apparentemente goffa, quando si É finalmente librato
nell'aria, il volo diviene più sicuro ed elegante. Gli anatidi in genere infatti sono degli abili volatori, capaci
durante le migrazioni di compiere lunghissimi tragitti. Il volo termina in genere con un ammaraggio, anche questo,
come il decollo, non molto elegante e sicuro.

IL CIGNO NERO
Citiamo questo cigno come rappresentante del vasto gruppo. Questo magnifico uccello (ordine degli
anseriformi), che nidifica in Australia, ed É stato scelto anche come emblema del nuovo continente, vive nelle
acque interne o nelle spiagge marine, conducendo una vita del tutto simile a quella degli altri cigni. Il cibo É
costituito da piante e germogli acquatici, e da piccoli animali, scovati nell'acqua o sul fondo. Un tempo questi
uccelli erano molto insidiati dall'uomo, specie durante il periodo della muta. Molti anseriformi infatti perdono
contemporaneamente tutte le penne remiganti e, in attesa che spuntino le nuove, non possono volare. In questo
periodo anche il cigno É particolarmente vulnerabile ed É facile catturarlo per utilizzarne la carne. Un
tempo era cacciato anche per sport, ma per fortuna oggi É rigidamente protetto. Per il suo portamento e la sua
bellezza il cigno nero É spesso ospite degli zoo.

28. PASSERIFORMI.

L'origine di questi uccelli probabilmente É molto antica; alcuni reperti fossili, poco leggibili però, farebbero
risalire questo ordine alla fine dell'Era dei dinosauri, ma il loro sviluppo ed espansione si ebbe in piena Era
Terziaria. I passeriformi da soli rappresentano oggi i tre quinti di tutti gli uccelli viventi con oltre mezzo milione di
specie. Trovare dei caratteri comuni tra i passeriformi É un'impresa ardua, a parte infatti alcuni caratteri
scheletrici molto complessi, la forma e le abitudini di vita sono quanto mai varie. Solo la zampa con le dita
particolarmente adatte ad appollaiarsi sui rami É comune a tutti: le quattro dita sono disposte in modo tale che
l'alluce, ben sviluppato, É opposto alle altre tre, e permette di afferrarsi saldamente su di un supporto.

L'USIGNOLO
Chi ha sentito la voce di questo uccello ne É rimasto sicuramente deliziato; chi poi lo ha anche visto mentre
cantava si É sicuramente stupito per come possa un uccello così piccolo emettere note così brillanti e sicure.
Gli usignoli sono diffusi in Europa e Asia, ma svernano in Africa, quindi compiono lunghe migrazioni.
L'alimentazione prevalente É costituita da insetti che cercano sul terreno, ma sono ghiotti anche di bacche di
ribes e sambuco.

IL MERLO
E' conosciutissimo in Europa poiché, come il passero, nidifica anche in città, nei parchi e nei giardini. Anche
questo uccello ha un canto melodioso, ma meno variato di quello dell'usignolo. E' curioso osservare che i
merli nati in città non temono affatto l'uomo, con un po' di addestramento possono anche prendere il cibo dalle
sue mani, mentre i merli nati lontano dalle zone urbane sono estremamente diffidenti e difficili da osservare.
Questo dice molto dei rapporti tra l'uomo e gli uccelli: i cacciatori, con la loro spietata selezione, hanno
imposto agli animali selvatici un comportamento che altrimenti non avrebbero. L'alimentazione dei merli É
quanto mai varia: insetti, vermi, bacche, frutta. E' sempre uno spettacolo curioso vedere, in autunno o in
inverno, i merli voltare le foglie secche per cercarvi sotto qualche preda. Questi uccelli infatti sopportano
bene il freddo e non compiono grandi migrazioni; solo quelli di montagna si portano in pianura o in zone con
clima più mite
I merli possono essere addomesticati e imparano anche a fischiare delle precise melodie.

IL PASSERO
Il passero domestico É senza alcuna esitazione l'uccello più comune nelle città di tutto il mondo. La sua origine
É europea e asiatica, ma si É diffuso recentemente, per importazione voluta o involontaria, anche nel
continente americano e in Australia, ove si É sostituito alle specie locali che utilizzavano la stessa nicchia
ecologica. La sua forza di espansione É basata sulla sua grande resistenza alle condizioni climatiche più
avverse, alla sua disponibilità a mangiare qualsiasi cosa, e a nidificare in qualsiasi luogo, sotto i tetti, nei
cespugli, negli alberi, negli anfratti dei muri, eccetera.

I PARADISEIDI
I passeriformi non comprendono solo uccelli dalla forma e i colori poco appariscenti, ma anche specie con
un piumaggio quanto mai vistoso. Gli uccelli del Paradiso sono tra questi; la specie più nota, la paradisea
apoda, vive nella Nuova Guinea. Invero lo splendore e le strane forme del piumaggio sono tipiche del maschio,
poiché le femmine hanno foggia normale e colori molto più dimessi. L'appellativo "apoda" con cui si definisce
questo uccello ha un'origine veramente curiosa: i primi esemplari portati in Europa nel '700, erano imbalsamati e
privi di zampe, perciò gli studiosi chiamarono la specie "apoda" che in greco significa "senza piedi".

L'UCCELLO LIRA
Non meno bello e affascinante É il maschio dell'uccello lira, diffuso soltanto nelle foreste dell'Australia orientale.
Le dimensioni del corpo sono simili a quelle di un fagiano, ma con la lunghissima coda si raggiunge la misura
di quasi un metro e mezzo. Purtroppo É raro vedere questi uccelli poiché, essendo timidissimi, al più piccolo
rumore sospetto fuggono per nascondersi nel fitto della boscaglia; questo forse li ha salvati dallo sterminio poiché
sono molto richiesti dagli zoo e dagli imbalsamatori.
I CORVI
Sono dei passeriformi robusti con un forte becco capace anche di strappare brandelli di carne da una
carogna; possono mangiare di tutto e a volte aggrediscono come i rapaci. Inoltre sono forse tra gli uccelli più
intelligenti, nei limiti sempre di quanto affermato nel capitolo dedicato a questo argomento. Il corvo imperiale,
presente in Europa, Nord America, Asia e Nord Africa, É il rappresentante più tipico della famiglia e uno dei
più grandi, con un'apertura alare di quasi un metro e mezzo. I corvi sono facilmente addomesticabili e
possono imparare parole, suoni, o voci di altri animali.

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