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LA RADIO
E L’ARTE RADIOFONICA
Percorsi e collegamenti intorno al nuovo Medium del XX secolo
Luca Medioli
LA RADIO E L’ARTE RADIOFONICA
INTRODUZIONE
………………….……………………………………………………………………………………………………………… Samuel
Beckett
MORTON FELDMAN
Introduzione
Il presente lavoro vuole porsi come un percorso attraverso autori e opere che sono passati attraverso la
Radio. Una breve introduzione storica si è dimostrata necessaria per poter meglio comprendere la
diffusione del fenomeno radiofonico. Si è dato più peso al fenomeno radiofonico in quanto nuovo
strumento di produzione artistica, rispetto alla funzione mediatica che la radio ha svolto negli anni. L’idea è
quella di partire dalla situazione italiana, con la produzione Radiofonica degli anni 40-50, relazionandola
con la realtà estera, cercando di creare le condizioni tali da rendere possibile un confronto musicale e
poetico.
Si entrò in una nuova era, l’era della comunicazione senza fili. L’importanza di tale invenzione venne subito
intuita dal Governo Usa e da alcuni governi europei che si mobilitarono immediatamente per dar vita a
corporazioni nazionali per l a gestione del traffico telegrafico-radiofonico. Il limite delle trasmissioni
radiofoniche era che in quanto il mezzo di diffusione era l’aria, l’etere, non poteva in alcun modo essere
controllato o privatizzato. Il rischio era quindi di creare un traffico radiofonico incontrollato e caotico che
vanificava l’utilità delle comunicazioni. Inoltre, il vantaggio strategico che in ambito geopolitico poteva
derivare dalla comunicazione senza fili era enorme, troppo grande per rimanere pubblico e incontrollato.
Anche lo stesso Marconi individuò un difetto nella dimensione pubblica entro la quale si muoveva il
fenomeno Radio-telegrafico, in quanto l’interferenza amatoriale di comunicazioni Militari e Commerciali,
rappresentava un pericolo per la comunità. Con l’entrata in Guerra degli USA nel 1917, vennero proibite le
attività radiofoniche amatoriali. Nel 1923, la RCA ( Radio Corporation of America) controllava un terzo del
traffico transatlantico e la metà di quello Transpacifico.
Ma la vera rivoluzione avvenne quando la radio entrò nelle case dei cittadini. Incominciò una divisione tra la
radio destinata al pubblico e una radio destinata a funzioni militari, quindi riservata. Fu grazie ad un
intuizione di un dipendente dell’azienda di Marconi che 1916 venne creata la prima radio da salotto. Una
“scatola musicale” da tenere in casa come un grammofono o un pianoforte, attraverso la quale ascoltare
concerti, conferenze ecc... la geniale intuizione, verrà messa in pratica solo qualche anno più tardi. Verso la
fine degli anni ’20 la radio entra ufficialmente nelle case di tantissimi cittadini in Europa e negli stati Uniti.
Gli stati uniti contavano già nel 1922 innumerevoli stazioni radio autonome o statali, la cui ampia
proliferazione fu favorita dal felice clima economico e dalla passione per la musica Jazz che divampava
proprio in quegli anni. Gli stati uniti furono pionieri anche dell’utilizzo commerciale della radio. Numerose
furono le emittenti che si arricchirono tramite la pubblicità di prodotti commerciali, e che “rimpicciolirono il
mondo” portando suoni e voci del pianeta nelle case dei cittadini. Diversa era la situazione italiana. negli
anni ’30 in Italia i cittadini possessori di un apparecchio radiofonico non arrivavano allo 0.50% con circa
30.000 unità, mentre in Inghilterra se ne contavano circa 4.300.000 e in Germania circa 3.900.000. nel 1921
superò la soglia delle 200.000 unità, sintomo di un progressivo avvicinamento della popolazione al nuovo
Mass-Media.
In epoca fascista la radio svolse un ruolo strategico nella costituzione propagandistica del mito dell’impero
e della figura di Mussolini, abile comunicatore, che attraverso di essa, entrò direttamente nelle casse dei
cittadini. La radio contemporaneamente alla funzione propagandistica, e all’insaputa del regime (tornando
al “problema” della dimensione pubblica della radio di cui sopra) , aggiunse la funzione di portare voci e
informazioni dall’estero. Molti italiani, infatti, nel periodo fascista, sentivano la necessità di rimanere
collegati con il mondo estero, attraverso le trasmissioni della Bbc che nella seconda guerra mondiale
diventò la voce simbolo del mondo libero. Dal punto di vista artistico, la radio negli anni fascisti in Italia
non attirava una grande quantità di seguaci. Ma se l’indifferenza del pubblico aveva silenziato i primi
dibattici culturali sull’effettiva esistenza di arte radiofonica, fu proprio lo scarso seguito a stimolare la
produzione artistica radiofonica, che sentiva il dovere di stimolare gli ascoltatori, eccitarne l’interesse e di
moltiplicarne le schiere. Si andò così via via definendo, una netta distinzione tra radio divulgativa e radio
creativa.
L’intenzione di creare a Milano uno studio che potesse competere con i principali centri di sperimentazioni
esteri, portarono Berio, Maderna e tante altre personalità, alla stesura di vari progetti nei quali si andavano
definendo i tutti gli aspetti che avrebbero permesso la costruzione di un “centro sperimentale di ricerche
radiofoniche”. Negli Ultimi mesi del 1954, questi progetti sembravano preludere ad un imminente realtà.
L’istituto di Fonologia della RAI di Milano stava per prendere vita. In attesa del responso dall’alto dirigente
della Rai, Berio e Maderna vollero subito offrire un primo saggio delle possibilità espressive concesse dai
nuovi messi elettroacustici mediante la creazione di: “ritratto di Città”.
Funzione del testo e del radiodramma: il testo nell’opera, è un appiglio, un pretesto per cimentarsi con la
nuova produzione e, contemporaneamente, giungere a creare un bisogno “funzionale” all’interno
dell’azienda RAI, dimostrando le potenzialità e le necessità delle nuove realtà sonore.
Per questi motivi, ogni tentativo di collegare a livello poetico, questo primo lavoro radiofonico a future
composizioni di Berio e Maderna, risultata vano oltre che fuorviante per una corretta interpretazione e
comprensione di ritratto di città che rimane quindi la prova di un esordio dove la libertà creativa, sottostà
a finalità dimostrative.
Dal punto di vista tecnico, è interessante notare come fin da questa opera prima, sia evidente quella che
risulta ancora oggi la caratteristica distintiva dell’istituto di Fonologia della RAI: la sintesi di esperienze
concrete ed elettroniche. Questo permette ai compositori di focalizzare la propria attenzione sul risultato
uditivo finale, senza occuparsi di attenersi a precise impostazioni tecnico-poetiche. Per quanto riguarda la
genesi di Ritratto di città, notiamo come le tendenze operative vengono miscelate fino a dimostrare un
ampio ventaglio di possibilità espressive e funzionali. Le sequenze a maggior valenza concreta sono mirate
a una diretta illustrazione delle “voci” della città, mentre quelle a maggior contenuto di suoni di sintesi
creano distacco e straniamento. Dopo l’esperienza di Ritratto di città che ricordiamo essere del dicembre
1954, bisognerà però aspettare il ’58 per poter rivedere opere di sintesi concreta-elettronica,o soltanto di
musica concreta. Questa ricerca in ambito principalmente elettronico all’inizio dell’esperienza dell’istituto
di Fonologia, da parte dei 2 compositori, potrebbe essere frutto di una decisione dettata dal doppio
impiego che per doveri contrattuali Berio e Maderna dovevano assolvere. Accanto al percorso di
sperimentazione infatti, i due compositori dovevano “sfornare” musica d’uso, pensata come commenti
sonori e “colonne sonore” di radiodrammi più o meno semplici. Con l’esperienza di Ritratto di città, si era
infatti evidenziata una propensione per la musica concreta al più “grafico” e diretto “setting acustico”, con
il quale provocare nell’ascoltatore evocazioni e immagini intersoggettive ed efficaci. La produzione in
ambito di musica concreta risulta quindi nei primi anni “relegata” alle numerose sonorizzazioni realizzate
per drammi radiofonici. Questo differente impiego delle possibilità insite nel nuovo linguaggio
elettroacustico sembra evidenziare un iniziale distinzione tra una ricerca autonoma che prende le mosse a
partire dallo strumento elettronico, e una ricerca ( magari meno esplicita, ma comunque sperimentale)
mirata alla destinazione funzionale del risultato sonoro. Ritratto di Città risulta ancora una volta essere
un’opera innovativa in cui ‘mezzo’ e ‘fine’ convergono.
Da quanto ci dice Piovesan nella lettera del 15 febbraio 1949 “la storia si svolge in una qualsiasi città del
sud, che può essere Napoli, come Marsiglia, come New Orleans, ed è una storia banale, solita, di ambiente
di miseria, che si svolge tra ladri e donne innocenti e allo stesso tempo perdute.” È in questa città che si
svolge il dramma di Dolores, giovane sposa e madre, ammaliata dal fischio di un invisibile carcerato
proveniente dal penitenziario vicino casa. Un fischio, monotono e lento che perr la donna diviene l’ipnotico
rifugio da una misera realtà A nulla valgono le semplici parole sincere di ravvedimento della sorella e le
minacce del marito. Geloso per un tradimento mai consumato con un uomo “sognato in mille modi”, questi
porrà fine alla vita del rivale nello stesso momento in cui Dolores sarà vittima di una visione di Sangue.
Questo radiodramma, (forse sarebbe più consono chiamarlo ballata) è rappresentativo della produzione
d’uso che Berio e Maderna produrranno poi nell’istituto di Fonologia della Rai. Da ciò che si deduce dal
resoconto epistolare è una limitazione parziale da parte dell’autore riguardo le scelte musicali di Maderna
che proprio in questi anni veniva incontro a ciò che stava succedendo nel resto d’Europa. L’ecletticità del
compositore è esplicitata nella commistione di generi che troviamo nella sua partitura. Il lavoro si apre con
un Blues, lento e quasi inquietante, sul cui procedere ritmico lento e swingato, entra il narratore che subito
ci mostra una “qualsiasi città del Sud”, povera, sporca e misera, attraverso un linguaggio semplice. Dopo
questa introduzione, una leggera e non invasiva sonorizzazione fa da sfondo al canto di una “ragazza di
facili costumi”. L’utilizzo di elementi dell’every day listening (nello specifico si sente un’ambientazione
sonora tipica di un mercato popolare) e l’assenza della musica in questa sezione della composizione
identifica questa parte come una fotografia di un’ambientazione abbastanza esplicita, dentro la quale
l’ascoltatore dovrà “mettere in Scena” la sua rappresentazione. Un breve silenzio introduce un nuovo
capitolo, la presentazione implicita, attraverso la descrizione del lavoro dei netturbini notturni, di Ciro
Marito violento di Dolores, che appunto fa il netturbino. Riprende il Blues. Piccola divagazione. Dal
rapporto epistolare si capisce che la scelta di un impianto jazzistico, fu quasi imposta dal giovane scrittore
Petroni Griffi. Il soggetto imponeva un particolare clima che un’orchestra jazz poteva dare. Ma per
completezza timbrica e effettistica, Maderna aggiunse archi e percussioni insolite nei complessi jazzistici.
L’alternanza di Musica - che nello svolgimento della vicenda, ovviamente, supera anche il linguaggio
jazzistico - e silenzi/sonorizzazioni, continua in progressivo rapporto con l’ascensione verso il climax finale
del lavoro, si mostrano come elementi volontari degli autori che vedevano nella frammentarietà del lavoro
un ulteriore elemento di rappresentazione del dramma narrato. I vari quadri che si susseguono, sono resi
coerenti dall’incedere semplice ed intuitivo della vicenda. La finale ripresa del Blues, si dimostra necessaria
(come dice Patroni Griffi) affinché la calma disperazione conclusiva rappresenti l’elemento chiave che
rende questo radiodramma una sorta di Ballata. Il “leitmotiv” della descrizione iniziale della città torna alla
fine per dare coerenza formale all’opera: il vero centro del lavoro è la rappresentazione di spaccati
quotidiani tipici di paesaggi cittadini poveri, ed esso viene esposto fin da subito, fin dalla prima battuta del
narratore. Citando Patroni Griffi nella lettere indirizzata a Maderna del 15 dicembre 1949: “ il nostro
lavoro non è drammatico, imperniato su una situazione; è uno squarcio di un ambiente, e la storia di Ciro e
Dolores, direi, non è importante. È la città che conta e la sua atmosfera, creata dalle parole e dalla
Musica. (…)”
Samuel Beckett
Nato il 13 aprile 1906 in un paese nei pressi di Dublino, dove vive un infanzia tranquilla. Ottimo studente,
con una forte attitudine per lo sport, dimostrò una personalità introversa fin dalla sua giovinezza. Durante
tutta la sua vita, ricercherà ossessivamente la solitudine . questa suo
malessere, condito da un atteggiamento ipercritico, lo condannerà ad
un’esistenza caratterizzata da un profondo malessere, che sederà parzialmente
conducendo una vita quasi eremitica (nei limiti concessi dalla società della
prima metà novecento nella quale visse). Ma proprio questo malessere lo
avvicina alla letteratura e alla poesia. Nel 1928, con la vincita di una borsa di
studio, si decida a trasferirsi a Parigi, dove studierà Francese e Italiano. In poco
tempo sembra rinascere: frequenta circoli letterari dove incontra James Joyce
che gli farà da maestro. L’interessa attivo per la cultura, e l’esercizio pratico
della scrittura hanno effetti rapidi e efficaci sulla sua condizione. La qualità dei
numerosi testi da lui prodotti, in poco tempo gli assicurano notorietà e
affermazione. un improvviso entusiasmo lo accompagna nei viaggi in giro per l’europa che decide di
intraprendere. Concluso il periodo “peregrinante” decide di stabilirsi definitivamente a Parigi. Qui negli anni
troverà moglie e parteciperà alla seconda guerra mondiale. dopo un periodo di difficoltà economiche, dal
45 in poi incomincia l’ascesa. Vasta produzione in ambito teatrale (che lo pone come uno dei principali
autori della seconda metà del ‘900) e diverse opere pensate per il teatro e per il cinema, oltre che ha
romanzi e poesie. Nel 1969 vinse il Nobel per la Letteratura. Morirà di Parkinson il 22 Dicembre 1989.
“Parole e Musica” 1961
Beckett seppe raggiungere risultati di grandissima originalità anche in lavori pensati per i nuovi Medium,
quali la radio e la televisione. Il primo incontro di Beckett con la radio, avviene nel 1956 con il radiodramma
commissionato dalla Bbc, tutti quelli che cadono. Beckett, studiando le capacità espressive della radio,
concepì un testo in cui non ci fosse niente da vedere, ma ci sono soltanto parole e suoni da ascoltare. La
ricerca sul medium radiofonico raggiunse con Parole e Musica il suo risultato più radicale.
Concepito e composto insieme a Radio I e Cascando nell’autunno 1961, i 3 lavori sono collegati da una
caratteristica comune: la presenza della Voce umana e della musica come entità partecipanti attivamente
all’azione drammatica. In Parole e Musica abbiamo 3 personaggi: Parole (detto anche Joe), Musica (detto
anche Bob) e Croak. Croak è un vecchio signore dall’indole poetica, che si reca periodicamente a trovare i
suoi due servitori Parole e Musica. Ad essi Croak affida dei temi che i due devono sviluppare insieme:
L’amore, la vecchiaia e un volto di donna. I 2 personaggi discutono e si trovano discordi circa l’argomento
(Joe/Parole all’inizio, vorrebbe parlare dell’Accidia) e il risultato da raggiungere. I tentativi di soddisfare la
richiesta del “padrone” di creare un poema musicale (con il suono verbale l’uno e con il suono musicale
l’altro), sono vani e Croak alla fine, avvilito e insoddisfatto, abbandona i due.
Il lavoro è stato interpretato come una drammatizzazione del processo creativo, del rapporto
contraddittorio tra il poeta, il suo mondo fantastico e le sue capacità espressive. È evidente anche
rapporto servo-padrone che scopriamo ricorrente nella produzione di Beckett.
Ciò che ancora di più ci interessa di Parole e Musica, è il modo assolutamente nuovo con cui viene trattato il
mezzo radiofonico, creando una situazione di pura astrazione, dove le parole e la musica (attraverso cui
prende forma la visione poetica) assumono il loro valore essenziale di Suono. Anche nei successivi lavori di
Radio I e cascando, quello che rimane esplicito è la completa assenza di evocazioni di immagini. Nello
stesso modo in cui nella produzione cinematografica ( ad esempio) Beckett arriverà a eliminare
completamente il sonoro in quanto non fondante del mezzo cinematografico, nella sua produzione
radiofonica, Beckett si concentra nello sviluppo dell’area sensoriale tipica del medium radiofonico, ossia
l’udibile. Anche la sola evocazione di immagini e rappresentazioni visive andrebbe in qualche modo “fuori
tema” e rappresenterebbe una commistione di generi che Beckett non ricerca.
Quello che a questo punto ci interessa è sviscerare il personaggio Bob, ossia la Musica. La maggior parte
della produzione Radiodrammatica del ‘900, vede la musica come una necessaria componente dell’opera
che però non partecipa così tanto attivamente alla vicenda. A diversi livelli di importanza e qualità, la
Musica nel radiodramma contestualizza e accompagna un testo che nella stragrande maggioranza di casi è
drammaturgicamente autonomo. Con questo lavoro Beckettiano cambiano completamente le carte in
tavola. Il drammaturgo delega la genesi del personaggio Bob a un terzo, al compositore, che ha la libertà (si
fa per dire…) di immaginarsi un proprio personaggio. Come una rappresentazione teatrale, il compositore
deve immedesimarsi nell’interprete di una messa in scena teatrale. Attraverso la comprensione del testo,
deve creare il suo personaggio, con una precisa delineazione emotiva e caratteriale. Il primo compositore a
cui venne commissionata la musica del radiodramma è John Beckett, cugino del drammaturgo, la cui
ideazione musicale, risulta anche oggi di difficile reperibilità. tra i molti compositori che msuciarono questo
radiodramma ricordiamo Morton Feldman, con il Suo “words and music” del 1987.
Morton Feldman
Morton Fedlman è stato un compositore statunitense, nato nel 1926 a New York e morto Nel 1987 a
Buffalo. Studiò pianoforte con Ferruccio Busoni e in seguito composizione con Stefan Wolpe, il quale
rappresenterà una figura molto importante per Feldman. Artista a tuttotondo, si interessò molto a tutta
l’arte a lui contemporanea, frequentando e stimando poeti
e letterati come Samuel Beckett e musicisti come John
Cage e Cristhian Wolff. un’attenzione particolare fu
riservata nei confronti delle arti figurative. Dal libro scritto
da Morton Feldman stesso, si delinea il profilo di un
compositore profondamente interessato e influenzato da
artisti dell’epoca come Philip Guston, Jackson Pollock,
Robert Rauschenberg e Mark Rothko. Nel libro si parla
quasi più di pittura che di musica. I collegamenti tra
composizioni e quadri dei suoi amici pittori è presente nella
stragrande maggioranza dei lavori di Feldman.
Il suo stile compositivo, derivato, nella primissima produzione, dallo stile di A. Scrjiabin, andrà via via
definendosi nel corso della sua carriera. Quel che è certo, è che rimase nell’ambito della musica
strumentale “tradizionale”. Ricordiamo infatti che negli stessi anni, in Europa le sperimentazioni in ambito
concreto e elettronico avanzavano rapidamente. Il compositore statunitense conobbe questi centri,
partecipò agli incontri di Darmstad e entrò in contatto con compositori come Boulez. Ma la sua poetica
compositiva si discostava dal gusto che andava affermandosi in Europa. In “Pensieri verticali” leggiamo
aperte critiche allo stile compositivo di Boulez, che viene definito privo di eleganza e di fisicità. Ne
rimprovera l’eccesiva componente studiosa, teorica, (“boulez incarna tutto quello che non voglio che l’arte
sia” M.F.) ma contemporaneamente riconosce l’importanza storica che il suo “magnifico accademismo”
avrà.
La concezione musicale di Feldman ( e di altri compositori affini alla sua poetica) è esplicata, a mio parere,
in un particolare capitolo di “Pensieri Verticali”. Rapportando la propria concezione compositiva con quella
in “voga” nell’Europa degli anni 50-60, Feldman traccia la base della sua poetica musicale.
PREDETERMINATO/INDETERMINATO
(1967)
“ (…) (parlando di Boulez) è stato lui, più di ogni altro musicista contemporaneo, a conferire nuovo prestigio
al sistema, lui che in un articolo aveva scritto di non essere interessato a come u pezzo è all’ascolto ma solo
a come è costruito. Nessun pittore parlerebbe mai così. Philip Guston mi disse una volta che quando gli
risulta evidente come è stato fatto un quadro, incomincia a trovarlo noioso. Questa attenzione per la
“fattura” di un’opera, per i sistemi e la costruzione, sembra essere una caratteristica della musica di oggi. È
diventata in molti casi, il soggetto della composizione musicale. (…) L’idea della costruzione come
“soggetto” della musica in gran parte fu prodotta dalla ventata innovativa degli ultimi cinquant’anni. Si
pensò che tutte quelle nuove idee potessero essere riportate entro l’ordine logico esistente. E nella prima
metà del secolo questo processo funzionò. Non si colse la rilevanza compositiva delle nuove possibilità
sonore suggerite dall’innovazione. L’accento fu posto sull’unificazione di tutti quei nuovi elementi musicali in
una forma significativa, perché il porre l’attenzione sul suono, questo elemento elusivo, avrebbe sconvolto
l’equilibrio instabile della “composizione Ideale”. ( con il complicarsi progressivo della musica nel secondo
dopoguerra, il suono prendeva mano a mano importanza. Diventò troppo ingombrante per essere ignorato,
e con il tentativo di sistematizzarlo, il suono tanto poco interessante per Boulez, diventò centrale). Tra il
1950 e il 1951, un gruppo di quattro compositori – John Cage, Earle Brown, Christian Wolff e io- diventarono
amici e presero a frequentarsi assiduamente. Accadde qualcosa. Ciascuno di noi a suo modo contribuì a
proporre una concezione della musica in cui i vari elementi ( ritmo, altezza,dinamica, ecc…) venivano
sottratti al controllo. Poiché non era fissa la mia musica, non poteva usare la vecchia notazione. Ciascun
pensiero nuovo, ciascuna nuova idea all’interno di questo pensiero, suggeriva una propria notazione. (…)
abbandonando i controlli, si scopre che quegli elementi perdono la loro iniziale intrinseca identità. Ma è solo
in virtù di tale identità che essi possono essere unificati nell’ambito della composizione. Ne consegue che
una musica indeterminata può solo portare alla catastrofe. Ebbene, noi lasciamo che la catastrofe abbia
luogo. Dietro di essa c’era il suono, il quale unificava tutto. (…)”
Da questo ragionamento deriva l’attenzione per il suono tipico della musica di Morton Feldman. Esso risulta
fondamentale e unico apparente soggetto della composizione musicale. Da questo preconcetto “ poetico”
si può arrivare a intendere maggiormente lo stile compositivo di Feldman generalmente caratterizzato da
un incedere lento e mai imponente. L’attenzione per il suono, causa una necessaria condizione per il “non-
suono” ossia per il silenzio. Particolare nella sua musica è la presenza cospicua di silenzi alternati a tappeti
sonori, tele di suono giustapposto a silenzi sfumati, che possono ricordare le tele di Mark Rothko.
Come si è detto in precedenza, Morton Feldman frequentò molto gli ambienti artistici del suo periodo,
stringendo amicizie con molto pittori dell’epoca. Tra i suoi più cari amici, sappiamo esserci Jackson Pollock,
Philip Guston, Haward Kanovitz e molti altri pittori. Vedeva uno stretto collegamento tra la sua musica e la
pittura. In particolare individua analogie tra gli elementi fondamentali della pittura e quelli della musica. I
Colori ad esempio. Ritiene che i colori pretendano di avere una certa dimensione, indipendentemente dai
desideri del pittore stesso, il quale si ritrova davanti a due possibilità: poù sfruttare gli elementi illusionistici
del colore per integrarlo poniamo con il disegno o con altri mezzi di differenziazione, o può semplicemente
lasciarlo “essere”. Allo stesso modo il compositore con il suono. Per far si che il suono “sia” occorre che si
abbandoni ogni desiderio di differenziazione. Il risultato sarà l’apparire di tutti gli elementi di
differenziazione che esistevano già nel suono stesso.
Il nuovo Medium Radiofonico implicava un problema non indifferente: la necessaria ricerca di un nuovo
linguaggio, che riuscisse a trattare tutti i temi politico-culturali che si stavano verificando nel secolo breve,
ma che allo stesso tempo potesse essere compreso da una larga quantità di persone. In Italia il dibatto
riguardo le caratteristiche dello specifico linguaggio radiofonico, raggiunse molti letterati ed intellettuali,
tra cui anche Carlo Emilio Gadda.
Gadda lavorerà alla Rai dal ’50 al ’55. Il suo ingresso nella nuova azienda radiotelevisiva, avviene in un
periodo di difficoltà economica. Il ruolo di redattore radiofonico, prima e di responsabile del terzo canale,
poi insieme agli antici arrivati da Einaudi per alcune pubblicazioni future, gli consentirono una maggiore
serenità a partire dal ’55. Il rapporto con la Rai è controverso. Spesso Gadda definì i cinque anni a Roma
come “ 5 anni persi”, ma ad una visione più possibilista possiamo individuarli come anni di transizione.
Gadda si avvicina alla Radio nel ’47 quando viene trasmessa nell’etere una sua recensione ad una mostra di
dipinti. È questo il primo episodio del Gadda Radiofonico e del Gadda esploratore delle insondate
possibilità dei nuovi media. Ma con l’assunzione in Rai, Gadda definisce la sua posizione nei confronti della
Radio: non si limita a partecipare, bensì mira ad attraversare il medium.
Il ruolo di Gadda alla Rai come si è detto all’inizio era quello di redattore. Il suo ruolo in pratica consisteva
nel rivisitare, rielaborare, correggere e ridurre radiofonicamente, dei testi destinati alla messa in onda.
Concettualmente si trattava quindi di un’operazione sul linguaggio e sulla sintassi per riadattare i testi
secondo le esigenze di semplificazione della comunicazione. Risultato di queste sue ricerche è individuabile
nella stesura di “Norme per la redazione di un testo radiofonico”.
1) Costruire il testo con periodi brevi: non superare in alcun caso, per ogni periodo, i quattro righi
dattiloscritti; attenersi, preferibilmente, alla lunghezza normale media di due righi, nobilitando il dettato
con i lucidi e auspicati gioielli dei periodi di un rigo, mezzo rigo.
3) Il tono gnomico e saccadé che può risultare da un siffatto incanalamento e governo della
piena (di idee) non dovrà sgomentare preventivamente il radiocollaboratore. Una dopo l'altra le
idee avranno esito ordinato e distintamente percepibile al radioapparecchio: una fila di persone
che porgono il biglietto, l'una dopo l'altra, al controllo del guardiasala. La consecuzione delle idee si
distende nel tempo radiofonico e deve avere il carattere di un "écoulement", di una caduta dal
contagocce. Ogni tumultuario affollamento di idee nel periodo sintattico conduce al "vuoto
radiofonico".
4) Sono perciò da evitare le parentesi, gli incisi, gli infarcimenti e le sospensioni sintattiche. La
regìa si riserva di espungere dal testo parentesi e incisi e di tradurli in una successione di frasi
coordinate. Una parentesi di più che sei parole è indicibile al microfono. L'occhio e la mente di chi
legge arrivano a superare una parentesi, mentre la voce di chi parla e l'orecchio di chi ascolta non
reggono alla impreveduta sospensione. Nel comune discorso, nel parlato abituale, nella
conversazione familiare non si aprono parentesi. Il microfono e il radioapparecchio con lui, è
parola, è discorso. Non è pagina stampata. La parentesi è un espediente grafico e soltanto grafico.
Seguendo nel parlato un'idea, non è opportuno abbandonarla a un tratto per correr dietro a
un'altra in parentesi. E meglio liquidare la prima, indi provvedere alla seconda; così il cane da
pastore azzanna l'una dopo l'altra le pecore per ricondurle al gregge: non può azzannarle a tre per
volta. Congiunzioni temporali e modali e gentilmente avversative (dunque, pertanto, in tal caso,
per tal modo, per altro, ma, tuttavia) permetteranno di agire in ogni evenienza con risultati
apprezzabili, senza ricorrere a incisi, a parentesi.
8) Evitare le rime involontarie, obbrobrio dello scritto, del discorso, ma in ogni modo del
parlato radiofonico. Una rima non voluta e inattesa travolge al ridicolo l'affermazione più pregna
di senso, il proposito più grave. La regìa si riserva la facoltà di emendare dal vezzo d'una rima il
testo che ne andasse eventualmente adorno.
10) Evitare le parole desuete, i modi nuovi o sconosciuti, e in genere un léssico e una
semantica arbitraria, tutti quei vocaboli o quelle forme del dire che non risultino prontamente e
sicuramente afferrabili. Figurano tra essi:
a) i modi e i vocaboli antiquati;
b) i modi e i vocaboli di esclusivo uso regionale, provinciale, municipale;
c) i modi e i vocaboli, talora arbitrariamente introdotti nella pagina, della supercultura (p. e.
della supercritica), del preziosismo e dello snobismo;
d) i modi e i vocaboli delle diverse tecniche; della specializzazione;
e) i modi e i vocaboli astratti.
11) Evitare le forme poco usate e però "meravigliose" della flessione, anche se provengono
da radicali (verbali) di comune impiego. Non tutti i verbi sono utilmente coniugabili in tutti i tempi,
modi e persone. È questa una superstizione grammaticale da cui dobbiamo cercare di guarirci. Il
verbo rappattumarsi genera uno sgradevole e male assaporato ti rappattumi (seconda singolare
indicativo presente), il verbo agire genera, al primo udirlo, un incomprensibile agiamo (prima
plurale indicativo presente), il verbo svellere uno svelsero (terza plurale indicativo remoto)
alquanto indigesto, il verbo dirimere e il verbo redigere degli insopportabili perfetti. Tali mostri
sono figli legittimi della coniugazione, ma la legittimità dei natali non li riscatta dalla mostruosità
congenita.