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Il coinvolgimento degli stranieri nella criminalità è una questione che da circa vent’anni ha

assunto in Italia sempre maggiore importanza, è un tema di cui parlano I Mass media, su
cui interviene l’opinione pubblica. È infine anche un argomento discusso tra coloro che
studiano la criminalità straniera. Si tratta di un tema delicato e sensibile. Spesso il binomio
immigrazione criminalità è stato un catalizzatore di paure e ansie sociali, un facile capro
espiatorio per problemi di grande complessità. È certamente vero che la migrazione ha
portato con sé anche i nuovi fenomeni criminali o ha visto nuovi attori diventare
protagonisti di vecchi fenomeni criminali. Ma la criminalità è solo uno degli aspetti del
mutamento sociale che la migrazione ha provocato. Sono molti gli ambiti in cui la
migrazione ha costituito una rivoluzione: la scuola, l’organizzazione dei servizi pubblici. Gli
interrogativi che riguardano il fenomeno migratorio e i suoi rapporti con la criminalità sono
numerosi.

CAPITOLO 1 “La legge: tra regolarizzazione e criminalizzazione”


La legislazione è da sempre, per ragioni storiche e tradizione giuridica, elemento di
indirizzo e definizione delle politiche. L’immigrazione non fa eccezione. Anzi, la
legislazione in materia di immigrazione ha fortemente influenzato di tipo di migrazione che
ha caratterizzato diversi paesi, e dunque anche l’Italia. La legislazione determina
legalmente chi è residente e chi no, chi può essere o non essere cittadino di un paese. Le
regole cambiano nel tempo.

È importante chiarire il significato di alcuni termini usati quando si parla di immigrazione:


Immigrato: sottolinea la condizione di chi si trova in un paese diverso da quello di origine
perché viene vi si è trasferito per ragioni prevalentemente di studio o lavoro;
Straniero, indica il cittadino di un paese estero: è il termine utilizzato dalla legislazione
italiana;
Extracomunitario, indica i cittadini non appartenenti all’Unione Europea. È un termine che
ha assunto oggi nel senso comune e nel discorso pubblico, un’accezione negativa. Infatti
è utilizzato per indicare il soggetto straniero marginale, fonte di problemi;
Illegale: indica qualcosa o qualcuno al di fuori della legge;
Clandestino: è chi è entrato nel paese di destinazione violando le regole che ne
disciplinano l’ingresso;
Straniero irregolare: indica colui che, entrando regolarmente in un paese, viver male senza
un valido titolo giuridico;
Rifugiato: fa riferimento unicamente a coloro che hanno ottenuto la protezione prevista
dalla convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951;
Richiedente asilo: è colui che si trova in un paese verso cui ha promosso una richiesta di
asilo;
Profugo: è un termine che non ha alcun significato giuridico specifico, ma è entrato nel
lessico corrente durante gli arrivi a Lampedusa dalla Tunisia e dalla Libia nel 2011.

La nascita della normativa:


Si possono identificare gli inizi della legislazione italiana in materia di migrazione della
legge 30 dicembre 1986 numero 943. Precedentemente, infatti, non esisteva alcun testo
legislativo dedicato. Ciò dava agli stranieri ampie possibilità di ingresso in Italia, vista la
pressoché totale assenza di controlli. Pochi però erano gli stranieri presenti in Italia. La
legge del 1986 emanata al fine di attuare in Italia la convenzione OIL (organizzazione
internazionale del lavoro) sulle migrazioni in condizioni abusive e sulla promozione della parità di
opportunità e di trattamento dei lavori migranti. Sebbene la convenzione fosse
stata accettata nel 1981, furono necessari cinque anni per l'emanazione della legge di
riforma della normativa italiana, a causa dei contrasti e difficoltà di coordinamento tra i
diversi ministri coinvolti. La legge 943 introduce un primo sistema di garanzia dei diritti dei
lavoratori stranieri, nonché la possibilità di accedere a servizi sociali e solitari. Queste
garanzie sono però fruibili da pochi, perché il sistema di reclutamento dei lavoratori
stranieri si rivela complesso, e quindi difficilmente attuabile. Si basa sulla chiamata da
parte del datore di lavoro all’interno di liste disponibilità a cui lo straniero deve iscriversi,
previa verifica dell’indisponibilità dei lavoratori italiani. Tale difficoltà di ingresso e
soggiorno legale, sarà uno dei problemi caratterizzanti l’immigrazione in Italia. La
successiva legge, viene considerata il primo testo legislativo di riferimento, del 28 febbraio
1990 numero 39, rappresenta un salto di qualità della disciplina in materia di
immigrazione; la sua emanazione infatti anticipa di pochi mesi l’adesione italiana agli
accordi di Schengen del 1985. La volontà delle aderire allo spazio Schengen non è però
l’unica ragione della emanazione della legge Martelli, così chiamata dal nome dell’allora
vicepresidente del consiglio dei ministri Claudio Martelli. La fine degli anni 80 vede I primi
episodi di intolleranza razziale conosciuti dall’Italia I quali finiscono nell’omicidio. La legge
Martelli sancisce molti principi (la necessità di visto per fare ingresso nel paese, i controlli
alle frontiere) che rimarranno i cardini della normativa italiana. Questa legge è
accompagnata da un provvedimento di regolarizzazione aperto a tutti gli stranieri presenti
in Italia a prescindere dalla loro condizione lavorativa, con la sola esclusione delle persone
condannate per uno dei delitti previsti dall’articolo 380. Per la prima volta si introduce nel
provvedimento di regolarizzazione una norma di esclusione, elemento che diverrà
caratterizzante di tutti I successivi provvedimenti. Il decennio inaugurato dalla legge
Martelli si caratterizza per una forte instabilità politica. Gli anni 90 sono decisivi anche per
la trasformazione del tema immigrazione in terreno privilegiato di scontro e polemica
politica, caratteristica che, carsicamente, si riproporrà negli anni successivi.

Il processo avviato dalla legge Martelli è portato a termine dalla legge 6 marzo 1998
numero 40, la cosiddetta legge Turco-Napolitano dai nomi degli allora ministri delle
politiche sociali e dell’interno. Questo testo legislativo rappresentava il tentativo più
organico e più ambizioso di ristrutturare sistematicamente la legislazione migratoria
italiana e disciplinare I diversi aspetti della vita di uno straniero in Italia. I principali obiettivi
della legge sono: la definizione di una politica di ingressi limitati e programmati, il contrasto
all’immigrazione clandestina e allo sfruttamento criminale, l’avvio di una politica di
integrazione per i nuovi immigrati e gli stranieri già presenti. Si dà una forte spinta agli
accordi con i paesi di origine, garantendo quote riservate di ingresso a fronte di una
collaborazione sul versante delle espulsione. L’ ingresso per lavoro subordinato continua a
basarsi sulla chiamata nominativa, vale a dire sulla richiesta del datore di lavoro di impiego
di un lavoratore straniero residente all’estero. Rispetto al 1986 non è però più necessario
provare l’indisponibilità dei lavoratori italiani e non esistono più le liste di iscrizione per i
lavoratori stranieri. La logica di ricerca del lavoro internazionale è il perno del sistema di
ingresso per lavoro in Italia. Al momento della scadenza, I permessi di soggiorno sono
rinnovati per un periodo pari al doppio della durata iniziale. Sempre sul piano della stabilità
di soggiorno, l’obiettivo dell’integrazione si persegue anche con la previsione della carta di
soggiorno (un permesso di soggiorno permanente che può essere emanato dopo cinque
anni di soggiorno regolare) le ampie possibilità di ricongiungimento familiare con il
coniuge, I figli, genitori e I parenti entro il terzo grado. Sono messi in funzione i centri di
permanenza temporanea strutture di detenzione amministrativa dove gli stranieri in attesa
di espulsione posso possono essere trattenuti per 30 giorni. Vengono aumentate le pene
per i reati di smuggling (contrabbando di stranieri clandestini) e trafficking (tratta degli esseri umani),
concede un permesso di soggiorno allo straniero che denunci situazioni di
sfruttamento legate all’operato di organizzazioni criminali. Dopo alcune vicessitudini, si
garantisce la regolarizzazione a tutti coloro che dimostrano di avere i requisiti, senza alcun
limite numerico. Con la fine degli anni 90 si supera così il milione di persone regolarmente
soggiornanti. La legge non a vita lunga. Tutti questi elementi non hanno permesso di
raggiungere l’obiettivo della politica attiva da rendere l’espulsione la detenzione ad essa
collegata una extrema ratio, riguardante un numero limitato di soggetti. La possibilità di
raggiungere quell’obiettivo tramonta con le modifiche contenute nella legge 30 luglio 2002
numero 189, la cosiddetta legge Bossi-Fini che, della relazione di accompagnamento,
dichiara di porsi gli obiettivi di fermare l’invasione e aumentare l’efficacia delle misure
contro l’immigrazione illegale. La legge introduce il contratto di soggiorno da firmarsi al
rilascio del permesso di soggiorno che viene ad essere strettamente legato, anche in
termini di durata, al contratto di lavoro. Accanto a questa disposizione ve ne sono altre che
suggeriscono la volontà del legislatore di scoraggiare la stabilizzazione degli stranieri in
possesso di permesso di soggiorno: la sua durata ridotta, con maggiori rischi di perdita del
lavoro e del soggiorno; si aumenta di un anno il periodo necessario per ottenere la carta di
soggiorno; infine si riducono le possibilità di ricongiungimento familiare. Sono altre però le
disposizioni per cui si ricorda la legge Bossi-Fini. Ci si riferisce alle politiche di controllo
volte al contrasto dell’immigrazione clandestina. Il legislatore introduce l’obbligo di rilascio
dell’impronta digitale per ogni straniero che fa richiesta di permesso di soggiorno. Si
generalizza l’impiego dell’espulsione con accompagnamento alla frontiera da parte delle
forze dell’ordine il nome di una maggiore efficienza. Anche la detenzione presso l’istituto di
pena assume ruolo nuovo e importante. La legge Bossi-Fini segna, l’inizio della storia
delle sanzioni penali applicate alla condizione di irregolarità. Aumentano le pene per la
violazione del divieto di reingresso a seguito dell’espulsione. Nel primo periodo di
applicazione della legge Bossi-Fini il numero di espulsioni effettivamente eseguite
aumenta.

Con la legge Bossi-Fni si chiude il ciclo dei provvedimenti organici di modifica della
legislazione in materia di immigrazione e si apre un lungo periodo caratterizzato da
modifiche legislative parziali, ma continue, che nel complesso incidono pesantemente
sulla condizione giuridica dello straniero. Si comincia con le novità introdotte all’interno
della legislazione contro il terrorismo internazionale (legge 31 luglio 2005 numero 155),
che modifica in senso restrittivo la disciplina delle espulsioni. Segue un primo gruppo di
modifiche dovute (relative al ricongiungimento familiare) che in parte cancellano alcune
modifiche restrittive interrotte dalla legge Bossi-Fini. Infine, nel biennio 2008-2009 un
ultimo gruppo di modifiche inserite in provvedimenti legislativi volti all’introduzione delle
norme di garanzia della sicurezza dei cittadini. Il 2003 trascorre senza rilevanti novità
normative. Il 2006 è un anno di svolta. La procedura per l’assunzione di lavoratori stranieri
diventa di competenza di un nuovo ufficio, Lo sportello unico per l’immigrazione. La nuova
modalità di presentazione, con moduli a lettura ottica presso gli uffici postali, manda in crisi
l’intero sistema. Gli sportelli unici risultano sottodimensionati per esaminare le domande in
un tempo congruo. L’intero sistema è duramente censurato dalla corte dei conti che
sottolinea come l’effetto principale sei un amento della clandestinità. La ferma critica della
corte dei conti è la più efficace sintesi delle accuse mosse alla regolazione del sistema di
ingresso e soggiorno. Dal decreto flussi 2007 in avanti le quote cessano di essere un tema
caldo per diverse ragioni. Il legislatore, interviene sul funzionamento della macchina
amministrativa, introducendo una nuova procedura di inoltro delle domande via Internet
che sembra capace di garantire tempi ragionevoli di smaltimento delle pratiche. Il
legislatore ritiene la condizione giuridica dello straniero una questione di sicurezza. Lo
stato di modifiche all’insegna della sicurezza trova la sua sintesi nelle previsioni legislative che
sanzionano una condizione di clandestinità in quanto tale. In primis la legge 125 del
2008 introduce una nuova circostanza aggravante per la persona che commette un fatto di
reato mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale. Ciò significa, ad esempio, che di
fronte a una rapina in banca commessa da un italiano e da uno straniero il reato dello
straniero verrà considerato più grave solo per il fatto di non essere cittadino italiano e non
essere in regola con la con normativa riguardante l’ingresso e il soggiorno in Italia. Il
legislatore introduce, inoltre, la legge 94/2009 la contravvenzione di ingresso soggiorno in
violazione delle norme che disciplinano l’ingresso il soggiorno in Italia.

Gli ultimi anni si caratterizzano per l’importante decisioni della corte costituzionale e della
corte di giustizia europea. Il 2011 è un anno rilevante anche per gli accadimenti politici che
hanno interessato il Nord Africa, in particolare i rivolgimenti politico sociali in Tunisia ed
Egitto e la situazione di guerra civile in Libia. Ciò ha determinato l’arrivo dei cittadini
provenienti da questi paesi, che sono approdati sulle cose siciliane dell’Italia, in particolare
sull’isola di Lampedusa. Momenti di tensione si sono avuti tra l’Italia e l’Unione Europea
nella primavera del 2011 rispetto alla necessità di considerare le persone in arrivo sulle
coste italiane come una questione europea e non esclusivamente italiana. A seguito degli
arrivi di circa 24.000 cittadini tunisini il presidente del consiglio dei ministri il 5 aprile emana
un decreto che stabilisce la concessione di un permesso di soggiorno per motivi umanitari
della durata di sei mesi a tutti cittadini appartenenti ai paesi del Nord Africa. Saranno circa
10.600 I cittadini tunisini che beneficiano del permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Quella che è stata denominata emergenza Nordafrica non fa che confermare le
insufficienze del legislatore italiano e la mancanza di una politica e di una legislazione
adeguate in materia di asilo.

Le procedure di acquisizione della cittadinanza sono possibilità di integrazione degli


stranieri. La normativa in materia di cittadinanza fu riformata in Italia con la legge 5
febbraio 1992 numero 91. Nonostante la migrazione verso il nostro paese fosse già una
realtà, la normativa del 1992 non tenne in alcuna considerazione il futuro degli stranieri
che si venivano a stabilire in Italia. Le uniche modifiche introdotte sono state dirette a
permettere l’acquisizione di una cittadinanza italiana a discendenti italiani in territori un
tempo italiani e ora esteri. Il criterio dello ius sanguinis è infatti il criterio principale di
acquisizione della cittadinanza, permettendo così ai discendenti fino al secondo grado di
un cittadino italiano di acquisirla. Sono invece molto limitate le possibilità per lo straniero di
divenire cittadino italiano. Ciò è possibile in tre situazioni principali:
- Nascita in Italia e residenza continuativa senza interruzioni fino ai 18 anni;
- Matrimonio con un cittadino italiano unito alla comune residenza per almeno due anni;
- Residenza in Italia per almeno 10 anni.
Soltanto nel caso di matrimonio l’acquisto è automatico.
La legislazione italiana in materia di immigrazione è stata fortemente influenzata da
avvenimenti politici e sociali, interni ed esterni. Si può affermare che la registrazione
attraversa tre fasi principali:
- Una prima in cui lo straniero esiste solo in qualità di lavoratore e a un’ampia
possibilità di movimento;
- Una seconda fase degli anni 90 in cui si afferma la figura del residente straniero
che non è solo lavoratore, ma anche cittadino che vive nel paese di immigrazione;
- Una terza fase in cui la legislazione italiana inverte la rotta, orientandosi verso una
maggiore precarizzazione della stabilità di soggiorno, cosa che produce maggiori rischi per i regolari
di perdere il permesso di soggiorno, modificato la situazione di
permeabilità.
La normativa in materia di migrazione continua essere ostaggio di logiche che poco hanno
a che fare con l’obiettivo di definire una legislazione in grado di governare un fenomeno
complesso come l’immigrazione.

CAPITOLO 2 “ La criminalità: I dati statistici e il loro significato”


La quantificazione della rilevanza e dell’incidenza della criminalità straniera è uno dei nodi
più problematici dello studio sul coinvolgimento degli stranieri nella commissione di reati.
Da sempre e in tutti i paesi i dati ufficiali sono il principale elemento usato da politici e
Mass media per misurare la criminalità.

La criminalità, come altri fenomeni sociali, è oggetto di rilevazione da parte dell’istituzioni,


al fine di misurare la consistenza e le variazioni nel tempo. In Italia le principali statistiche
legate al tema criminalità sono cinque:
- Le statistiche della delittuosità e quella della criminalità;
- Le statistiche processuali penali;
- Le statistiche sugli imputati condannati;
- Le statistiche penitenziarie;
Le statistiche penitenziarie si riferiscono ai detenuti e alle persone sottoposte a misure
alternative alla detenzione, forniscono informazioni sui movimenti della popolazione
detenuta, sulle strutture e sulla vita all’interno degli istituti di pena. Le statistiche sugli
imputati condannati raccolti dall’ISTAT riguardano coloro che sono stati riconosciuti
responsabili di un reato. Le statistiche processuali penali riguardano l’attività dei tribunali
penali e contengono numerose informazioni relative ai procedimenti penali. Delittuosità e
criminalità sono i dati normalmente ritenuti utili per misurare la criminalità. Le statistiche
della delittuosità riguardano I reati denunciati all’autorità giudiziaria, a seguito di indagini
delle forze dell’ordine o denunce presentate alle stesse dei cittadini. Lo statistiche sulla
criminalità trattano i reati per i quali l’autorità giudiziaria ha iniziato l’azione penale. Il
sistema di rilevazione dei dati sulla delittuosità è stato di recente oggetto di importanti
innovazioni. Fino al 2004 ogni mese la polizia di Stato, I carabinieri la Guardia di Finanza
trasmettevano all’ISTAT I dati relativi ai reati denunciati dell’area di loro competenza. A
partire dal 2004 il ministro dell’interno ha innovato le modalità di relazione introducendo il
sistema di indagine. In primo luogo la banca dati SDI raccoglie informazioni provenienti da
tutte le forze dell’ordine, non più unicamente dalla polizia di Stato, carabinieri, Guardia di
Finanza, ma anche dalla polizia municipale, polizia penitenziaria, corpo forestale dello
Stato e capitaneria di porto. In essa non sono registrati unicamente i reati, ma ogni fatto di
cui le forze dell’ordine siano venuti a conoscenza. Le potenzialità della banca dati sono
tali da permettere di registrare, per ogni fatto SDI, l’orario e il luogo in cui è stato
commesso, una descrizione dell’evento, gli oggetti del reato, se presenti. Le statistiche
sulla delittuosità e sulla criminalità si riferiscono entrambi a fatti di cui sono venuto a
conoscenza le forze dell’ordine e/o la magistratura. Per tale ragione si parla di criminalità
ufficiale o legale. Com’è noto, una parte dei reati commessi rimane sconosciuta per
numerose ragioni: perché la vittima non denuncia, perché il reato è difficile da percepire o
gli autori sono più capace di altri a nascondere il comportamento tenuto. Due tecniche di
indagine: le inchieste di vittimizzazione (basate sull’invito alle persone a rivelare i casi in
cui sono state vittime di reato) e le indagini di autoconfessione (basate sull’invito alle
persone a rivelare in forma anonima la commissione di reati). Ovviamente si tratta di
strumenti che presentano alcuni limiti, soprattutto legati alla possibilità di utilizzo solo per
alcuni reati.
Le statistiche ufficiali non possono essere una esaustiva di tutti reati commessi.
In merito all’interpretazione dei dati sulla criminalità si possono distinguere due approcci
principali un primo definibile come realista e un secondo come costruzionista. L’approccio
realista ritiene le statistiche ufficiali un efficace indicatore per misurare la criminalità.
Questa prospettiva si interessa del reato in quanto definito tale dalla legge. Ovviamente
non la ritiene valida per tutti i reati allo stesso modo. L’approccio costruzionista, parte dalla
considerazione che le statistiche ufficiali vanno utilizzate più come oggetto di studio in sé
che come misurazione della criminalità. Le statistiche sono il prodotto di decisioni
complesse delle autorità di controllo a vari livelli. Si possono considerare come punto di
partenza le affermazioni dei due studiosi americani Merton e Sellin. Merton sottolinea nei
suoi lavori sulla delinquenza giovanile che la statistiche ufficiali raramente potevano
essere di interesse per la ricerca sui comportamenti criminali. Pochi anni prima Sellin ebbe
ad affermare che la validità delle statistiche criminali diminuisce man mano che le
procedure ci portano lontano dal reato stesso. Con questo Sellin sottolineava che il dato in
grado di descrivere in modo più verosimile la criminalità di un determinato territorio è
quello più vicino alla commissione del fatto stesso, quello che ha subito meno incursioni
da parte di agenti esterni.

Le statistiche penitenziarie forniscono informazioni su alcuni aspetti organizzativi del


carcere e sui suoi ospiti. Le statistiche relative agli imputati condannati riguardano una
popolazione specifica che non corrisponde per intero all’insieme di coloro che hanno
commesso un reato. Le statistiche processuali penali permettono di analizzare altri aspetti
del sistema giustizia, quale l’efficienza nello smaltimento dei processi pendenti, il numero
di persone sottoposte a procedimento eccetera. Queste tre fonti statistiche si possono
quindi considerare utili per analizzare I diversi aspetti del funzionamento della giustizia
penale e dell’esecuzione della pena, ma non forniscono informazioni utili per descrivere la
criminalità il suo andamento. Per questo obiettivo occorre fare riferimento alle statistiche
della delittuosità e della criminalità che sono quelle normalmente usate. Entrambe sono
influenzate da diversi fattori, in primo luogo la propensione della denuncia della vittima e/o
la capacità di indagine delle forze dell’ordine e della magistratura. Nel dopoguerra in avanti
la propensione a denunciare un reato da parte dei cittadini è aumentata come risultato di
molteplici fattori quali il miglioramento delle condizioni di vita. Tutti gli studi sottolineano
come la propensione alla denuncia cambi in base alla tipologia di reato. Arduo è
quantificare l’efficacia dell’azione delle forze dell’ordine e della magistratura
nell’individuazione dei reati. Si deve tener conto della discrezionalità delle forze dell’ordine
e della magistratura nella registrazione dei reati. Non esiste a priori una fonte più
attendibile, ma occorre valutare l’attendibilità di ciascun dato in base alla tipologia di reato.
In cosa le statistiche possono essere di ausilio nella misurazione della criminalità? È
ragionevole ritenere che esse forniscono informazioni utili per analisi longitudinali
sull’andamento dei crimini, infatti, la statistica ufficiale offre un’indicazione sull’andamento
generale della criminalità. Con alcune cautele. Innanzitutto è opportuno utilizzare una serie
storica relativamente ampia, con intervalli regolari. Le statistiche non potranno mai
rappresentare il numero esatto di reati, potranno dare indicazioni sul suo andamento. È
opportuno verificare l’assenza di modifiche nelle modalità di rilevazione del dato. La
corretta valutazione delle modalità di rilevazione del dato è di grado rilevanza. Va sempre
tenuto conto di modifiche legislative che possono fortemente perturbare il dato, così come
dell’evoluzione della società: il furto o la truffa esiste giuridicamente da decine di anni, ma
la forma attraverso cui si può mettere in atto si sono nei decenni moltiplicati. Di
conseguenza molti comportamenti che oggi integrano questi reati non erano anni addietro
nemmeno pensabile. Numerosi sforzi fatti a livello europeo per raggiungere
l’armonizzazione relativamente ad alcune tipologie di dati, al fine di poter operare confronti
a livello internazionale. Al momento però è difficile affermare che un’analisi comparativa
sia possibile sul larga scala. L’analisi dei dati a livello territoriale si scontra con la difficoltà
di comparare aree territoriali che potrebbero essere dissimili quanto a propensione alla
denuncia, percentuali di delitti di attori noti, fenomenologia criminale.

Non esiste una statistica della criminalità straniera. Quando si parla di stranieri si fa
semplicemente riferimento ai dati relativi alle persone denunciate, sottoposte a giudizio,
condannate o detenuti straniere che sono presenti nelle rispettive statistiche.

Quando ci si accinge a descrivere la criminalità degli stranieri mediante le statistiche


ufficiali si hanno di fronte due ostacoli. Il primo riguarda la scelta della statistica più
attendibile; il secondo attiene al problema degli autori noti. È opportuno evitare
considerazioni generali su reati che presentano numeri bassi nella statistica ufficiale e/o
viziati da un numero oscuro poco controllabile.

La scelta degli indicatori per rappresentare la criminalità degli stranieri è l’ultimo nodo da
sciogliere. L’indicatore non rappresenta interamente il concetto che si vuole rappresentare,
ma è legato ad esso da un’affinità di significato e ha il vantaggio di essere misurabile. Il
rapporto tra concetto e indicatore è un rapporto parziale. Come noto la maggior parte degli
stranieri denunciati sono persone non in regola con le norme che disciplinano l’ingresso e
il soggiorno in Italia. Ciò rende la popolazione irregolare particolarmente importante
nell’analisi della criminalità. I dati pubblicati, infatti, riporta il numero assoluto delle persone
denunciate per le quali è iniziata l’azione penale, divise in italiani e stranieri. Non esistono
dati ufficiali pubblicati, suddivisi in italiani e stranieri, in merito le persone denunciate dalle
forze dell’ordine e all’autorità giudiziaria. Ne è possibile individuare un indicatore migliore
di altri nel momento in cui si vuole analizzare la criminalità di una popolazione in parte
sconosciuta, gli stranieri, rispetto a quella di una popolazione conosciuta, gli italiani in
questo caso. Affinché il dato abbia un maggiore significato occorrere rapportarlo alla
popolazione di riferimento. Non essendo nota popolazione straniera irregolare, l’unica
possibilità per un’analisi efficace è utilizzare più indicatori confrontati tra loro.

I numerosi limiti mostrate nella statistica ufficiale non sono un buon motivo per ignorarla.
Le fonti possono essere anche buone o cattive. Le statistiche ufficiali sono dati raccolti da
persone impegnate per variegati scopi, e non da ricercatori allo scopo di rispondere a
domande specifiche in modo sistematico. Sono allo stato attuale una fonte che avrebbe
ampi spazi di miglioramento se intervenisse per rendere più accurata la registrazione. Le
statistiche ufficiali sono uno strumento utile per alcuni dati di contesto, ma senza adeguate
integrazioni o approfondimenti di carattere qualitativo raramente forniscono informazioni
utili. Le statistiche relative a immigrazione e criminalità hanno la particolare caratteristica di
muovere grandi scontri tra fazioni pro e contro gli stranieri.

CAPITOLO 3 “Esiste una criminalità straniera?”


Gli stranieri sono oggi protagonisti di reati molto diversi tra loro: la tratta di esseri umani, i
reati predatori, i falsi documentali, lo spaccio di stupefacenti, le frodi informatiche,
l’impiego di manodopera clandestina eccetera. Le ragioni per cui sono coinvolti in questi
reati non possono essere ricondotte a un’unica spiegazione e non esistono specificità
legate all’essere straniero tout court. L’immigrazione è un fenomeno relativamente nuovo
per l’Italia e ne ha mutato il quadro demografico e sociale, così come anche la
fenomenologia criminale. Valgono per gli stranieri le stesse spiegazioni del comportamento criminale
che possono essere date per gli autoctoni. Va però sottolineato
che, quando si parla della criminalità straniera, si fa quasi esclusivo riferimento agli Street
Crimes, che si realizzano nel luoghi pubblici: reati predatori, commercio di beni contraffatti.
Sono proprio questi comportamenti criminali a ricevere eco mediatica.

La teoria ecologica
La scuola di Chicago utilizza l’approccio della teoria ecologica. Si riferisce teoria ecologica
in quanto i rapporti tra le persone e quelle con l’ambiente circostante sono studiate avendo
come riferimento l’interdipendenza che caratterizza le relazioni delle specie vegetali e
animali con l’ambiente circostante. La devianza non viene di conseguenza considerata un
attributo individuale, ma una caratteristica della struttura sociale e, in particolare, della
struttura della città. All’interno della città è la disorganizzazione sociale, definibile come
una situazione di forte indebolimento delle relazioni sociali. Le condizioni strutturali dei
quartieri, unite alle condizioni socio economiche di coloro che inevitabilmente vengono a
popolarli, sono alla base della situazione di segregazione sociale di tali aree urbane che
diventano luoghi fertili per forme di devianza e criminalità.

I contributi empirici
Numerosi studi hanno utilizzato un approccio riconducibile alla scuola di Chicago. È il caso
degli studi sulle violenze nei quartieri periferici delle grandi città europee, caratterizzati da
segregazione residenziale, un importante presenza di famiglia di origine immigrata e di
giovani di seconda o terza generazione in situazione di disagio a causa della
disoccupazione o della condizione lavorativa precaria. Sono proprio le condizioni strutturali
dei quartieri periferici a essere poste sotto la lente di ingrandimento. Ciò che negli anni
aveva impedito il continuo ripetersi di situazioni di conflitto violento era stato una serie di
politiche volte a sostenere le reti associative, di vicinato, le istituzioni comunitarie. E, non a
caso, ciò che nel 2005 determina il riproporsi di una situazione di conflitto è proprio l’esito
di un progressivo disinvestimento delle istituzioni in quel tipo di programmi, unito a un
progressivo aumento della segregazione spaziale.

La frustrazione strutturale
La teoria della frustrazione strutturale di Merton si sviluppa tra gli anni 30 e 40 negli stati
uniti. Nel periodo storico in cui Parsons, di cui Merton fu allievo, ha sviluppato il
funzionalismo, un approccio teorico che vede la società impegnata nel mantenimento di un
equilibrio attraverso l’integrazione di tutti i membri intorno a valori e norme comuni e
condivise. La devianza è quindi sempre stata un elemento che turba una situazione di
ordine e il deviante è colui che non ha interiorizzato le norme e i valori della società. Se si
pensa al fenomeno migratorio, è evidente come esso sia sempre un elemento
potenzialmente in grado di perturbare l’ordine di una società per i cambiamenti che
determina al suo interno, ad esempio sul piano demografico e sociale. Merton ritiene che
la devianza non è una caratteristica individuale, ma il prodotto dell’influenza della strutture
sociali sui singoli. In particolare, Merton osserva che la società impone ai suoi membri il
raggiungimento di mete culturali definite e strutturate, senza però garantire loro uguali
opportunità di accesso ai mezzi istituzionalmente legittimi per raggiungere questi obiettivi. I
modi di adattamento individuale di Merton sono cinque: la conformità, l’innovazione,
ritualismo, la rinuncia, la ribellione. È proprio l’innovazione la modalità di adattamento di
coloro che pur di non raggiungere le mete sono disponibili ad utilizzare ogni opportunità,
anche quelle illegittime.

I contributi empirici
I percorsi biografici degli stranieri detenuti in carcere analizzati da Sbraccia permettono di
comprendere come il peso della mancanza di opportunità sia stato uno dei determinanti
delle scelte delinquenziali degli stranieri.

Apprendimento e conflitto culturale


La teoria dell’apprendimento e quella del conflitto culturale si sviluppano nel medesimo
periodo storico della scuola di Chicago e del modello di Merton. Anche in questo caso si
tratta di teorie che collocano la devianza all’interno della struttura sociale, dei valori e delle
opportunità che offre. L’elemento di nuovo novità di Sutherland è l’idea che la criminalità
sia risultato di condizioni di privazione, di carattere sociale o materiale. Maggiore sarà
l’esposizione a gruppi favorevoli alla violazione della legge penale e maggiore sarà la
possibilità di commettere atti devianti. La devianza non è risultato di una situazione di
anomia (assenza di norme) o di disorganizzazione sociale, ma è legata a fenomeni di
associazione differenziale con gruppi all’interno della società. A questo proposito
Sutherland afferma che il crimine è un fenomeno connotato politicamente. Con questo
intende dire che ció che è criminale e ciò che non l’ho è sono conseguenza di scelte fatte
da chi detiene il potere di classificare determinati comportamenti come devianti. Il conflitto
normativo che caratterizza la società non omogenee è alla radice dei comportamenti
criminali. Il concetto di conflitto normativo di Surherland ha ncertamente beneficiato del
concetto di conflitto culturale precedentemente elaborato da Sellin. Sellin aveva osservato
che valori alla base dei comportamenti degli esseri umani variano da cultura a cultura; nel
momento in cui una cultura è maggioritaria, coloro che sono portatori di valori diversi e
minoritari si trova necessariamente in una situazione di conflitto.

I empirici empirici
La teoria di Sutherland e quella del conflitto culturale di Sellin sono emerse in un’indagine
il cui obiettivo era analizzare i comportamenti conformi e devianti degli studenti italiani e
stranieri. L’indagine è stata condotta attraverso la somministrazione di questionari e una
successiva procedura di analisi statistica.
Le teorie subculturali
Le teorie della subcultura si sviluppano tra gli anni 50 e 60 degli stati uniti, in un periodo
storico in cui la delinquenza giovanile, specie di gruppo, era piuttosto diffusa. Le teorie
della sub cultura si sviluppano a partire dai contributi di Merton e della scuola di Chicago.
Due sono le principali teorie della subcultura. La prima relativa la subcultura della
delinquenza giovanile di Cohen che spiega come e per quali ragioni nasce una subcultura;
la seconda, la teoria delle opportunità differenziali di Cloward e Lloyd, si focalizza sulle
diverse forme di subcultura e sulle condizioni che ne determinano lo sviluppo. Cohen
osserva che i comportamenti devianti dei giovani maschi delle classi inferiori sono
comportamenti collettivi caratterizzati da un contenuto di prevaricazione e di volontà di
distruzione e della mancanza di un fine pratico. Questi adattamenti nascono, secondo
Cohen, dall’impossibilità per i giovani delle classi inferiori di raggiungere le mete proposte.
L’impossibilità di competere su quel terreno porta i giovani a cercare altre mete e valori a
cui fare riferimento, il cui raggiungimento sia per loro accessibile. Cloward e Ohlin
compiono un passo in più rispetto a Cohen, osservando che non solo le mete proposte
della classe media non sono raggiungibili da tutti, ma anche le opportunità illegittime,
quelle che si sviluppano nel mondo della criminalità e delle devianze, sono differenziate.
Non tutti hanno eguali opportunità di affermarsi come esponenti di una criminali, perché
queste opportunità dipendono dal contesto sociale in cui ci si trova.

I contributi empirici
Calabró affronta la criminalità di alcuni gruppi di zingari nell’ottica della subcultura
criminale. Gli elementi culturali sono certamente di grande importanza nella strutturazione
di percorsi di vita, ma le scelte delinquenziali non appartengono alla cultura tradizionale.
L’autrice distingue tre principali strategie di vita di sopravvivenza messe in atto dagli
zingari presenti nelle periferie della città di Milano. In primo luogo la scelta di acquisire la
cittadinanza conciliando elementi della cultura tradizionale e di quella maggioritaria e
percorrendo scelte di legalità spesso a costo di gravi sacrifici. In secondo luogo, i percorsi
di emarginazione e progressiva perdita di identità al cui interno si sviluppano, da un lato,
una subcultura criminale e, dall’altro, la condizione di povertà ed emarginazione di chi è al
di fuori della subcultura criminale. La subcultura criminale si specializza in alcune attività
illecite, all’interno di un contesto sociale molto coeso, che favorisce comportamenti
devianti. Chi non vuole o non può aderire a questa subcultura si trova spesso a vivere
situazioni di grave marginalità. Anche in questo caso la risposta delle istituzioni diventa un
fattore determinante nella definizione dei percorsi di vita e di azione quotidiana. Le
ricerche empiriche svolte in Italia hanno individuato un quadro molto composito in cui
l’appartenenza al gruppo è un elemento importante di riconoscimento di affermazione di
uno status, spesso negato al di fuori di esso.

Etichettamento e teorie del conflitto


Le teorie dell’etichettamenro e del conflitto sono due approcci teorici che si sviluppano
degli Stati Uniti degli anni 60 e 70. Si tratta di un momento storico in cui le diseguaglianze
sociali, la discriminazione, i diritti civili negati assumono un ruolo di primo piano nel
dibattito pubblico. L’etichettamento e teorie di conflitto sono accomunati da un approccio
critico verso la società il suo funzionamento. Focalizzando l’attenzione sulla criminalità e la
devianza straniera, è di particolare interesse il processo di criminalizzazione primaria. Con
il concetto di criminalizzazione primaria su intende il processo di individuazione da parte
del legislatore della fattispecie considerate illecite a cui è collegata una sanzione. Il
concetto di criminalizzazione secondaria, invece attiene all’applicazione delle norme, che
non discende dall’adozione di criteri oggettivi, ma è espressione di scelte e di interessi
delle agenzie preposte al controllo e al trattamento della devianza e della criminalità. La
criminalità è pertanto uno status assegnato attraverso due successivi processi di selezione
la selezione di beni protetti penalmente, operata sulla base di criteri di tutela degli interessi
e la selezione degli individui stigmatizzati tra tutti quelli che violano le norme. Becker fu il
principale esponente della teoria delitti che talento. Oggetto di grande interesse per lo
studio dei fenomeni di devianza e criminalità straniera è la devianza secondaria con
questo termine Lemert fa riferimento al comportamento del deviante a seguito della
reazione sociale. Secondo Lemert la devianza secondaria è il risultato di un’interazione tra
gli atti devianti o criminali commessi dalla persona e la relazione sociale. La devianza
secondaria è il risultato di un processo di influenza reciproca tra il deviante le agenzie di
controllo sociale che porta la persona considerare reale l’etichetta di deviante che gli è
stata attribuita. Il concetto di devianza primaria, invece, descrive l’allontanamento più o
meno temporaneo attraverso l’adozione di comportamenti che hanno implicazioni soltanto
marginali per la struttura psichica dell’individuo.
Dirà ancora più efficacemente Becker che il deviante è colui al quale quella etichetta è
stata applicata con successo nello stesso modo un comportamento è definito deviante
quando in più lo etichettano come tale.
contributi

I contributi empirici
Gli autori osservano l’esistenza di una relazione tra politiche restrittive, aumento
dell’irregolarità di soggiorno e criminalizzazione degli stranieri. In altri termini, paesi con politiche
migratorie più inclusive e trasparenti produrrebbero un minor numero di stranieri
destinatari di sanzioni. In merito al rapporto tra forze dell’ordine e stranieri si richiamano
all’approccio dell’etichettamento i contributi che si rifanno al concetto di discriminazione
istituzionale. Con questo concetto si fa riferimento alla maggiore probabilità che
l’attenzione delle forze dell’ordine si indirizzi verso gli stranieri a causa delle pratiche
organizzative degli uffici. Nel corso del processo penale, variabili quali la provenienza
geografica, la religione, la condotta processuale e soprattutto la qualità della difesa
incidono sulla decisione finale. Anche in questo caso non si ritiene esservi una giustizia
vendicativa nei confronti degli stranieri o una macchinazione a loro danno ma gli studi
rilevano come la particolare debolezza degli stranieri li renda tra i principali protagonisti
delle deficienze della giustizia di routine.

Le teorie del controllo sociale


Le teorie del controllo sociale si sviluppano nel corso di diversi decenni, a partire dallo
stesso periodo storico che vede il fiorire della teoria dell’etichettamento. Hirschi ritiene che
le ragioni dei comportamenti devianti criminali siano da ricondursi all’indebolimento dei
legami sociali. Distingue quattro elementi che compongono il legame sociale:
• L’attaccamento rappresenta il legame che si ha con i familiari, le persone
significative, le istituzioni: tanto più questo è forte e tanto meno verranno poste in
essere comportamenti che possono determinare una perdita di fiducia o causare
una delusione a questi soggetti;
• Il coinvolgimento indica il tempo, energia impiegati nello svolgimento di attività:
maggiore è il coinvolgimento in questa attività, minore sarà il tempo disponibile per
la commissione di atti devianti;
• L’impegno, si riferisce all’investimento che una persona fa in attività convenzionali
quali lo studio o lavoro. Maggiore è l’investimento, più alto è lo scotto da pagare
nell’intraprendere comportamenti devianti;
• La convinzione descrive riconoscimento di validità alle regole sociali vigenti.
È fondamentale sottolineare che questa teoria non si riferisce al ruolo che hanno le
sanzioni, le posizioni formali nello scoraggiare il compito di atti devianti, ma all’importanza
del controllo sociale informale. Molti anni dopo Sampson e Laub elaborano una teoria che
si interroga sul ruolo del controllo sociale informale dello sviluppo delle carriere devianti.
Se Hirschi attribuisce un ruolo fondamentale ai rapporti con la famiglia o la scuola e si
focalizza sulla devianza giovanile, i due studiosi americani osservano come nel corso della
vita delle persone esistano eventi significativi (lavoro, la famiglia) che hanno un peso
decisivo nell’avvicinare o allontanare da scelte devianti o criminali. Sampson e
Raudenbush definiscono il concetto di efficacia collettiva, attraverso il quale, si fa
riferimento alle condizioni di fiducia reciproca e comuni aspettative.

I contributi empirici
La teoria del controllo sociale ha ricevuto numerosi riscontri empirici nelle ricerche svolte
sulla devianza e la criminalità giovanile. L’analisi statistica effettuata individua una
correlazione fortemente negativa tra le scelte devianti e la robustezza dei legami familiari.
Quanto maggiori sono l’attaccamento e la fiducia dei minori verso i genitori e il loro
coinvolgimento positivo all’interno della scuola, tanto maggiore sarà la protezione nei
confronti di comportamenti devianti.

Appare evidente quanto la ricerca empirica su un tema controverso quale la criminalità


straniera aiuti a fare chiarezza. I contributi empirici dimostrano come la combinazione di
alcune teorie risulti particolarmente proficua in materia di devianza e criminalità straniera.

CAPITOLO 4 “Tra percezione e realtà: il dedalo delle politiche”


Le politiche migratorie e quelli di controllo della criminalità sono accomunate da un alto
livello di complessità. Si focalizza l’attenzione sulle politiche di controllo e
contenimento/repressione della criminalità legata al fenomeno migratorio, si scopre che
risulta assai difficile individuare l’oggetto di analisi.

Quando si parla di politiche migratorie si fa in realtà riferimento a un insieme composito di


politiche, distinte in politiche di immigrazione e politiche per gli immigrati. Le prime fanno
riferimento alla regolazione dell’interesse del soggiorno di uno straniero, nonché
disposizioni relative all’espulsione, al trattamento e le diverse forme di allontanamento. Le
seconde, riguardano coloro che vivono in un paese. In altri termini si tratta delle politiche di
integrazione. Indubbiamente le politiche di immigrazione sono fortemente condizionate
dalla legislazione. Certamente non mancano scostamenti tra le politiche enunciate, spesso
definita da leggi e norme, e le politiche praticate. Per quanto riguarda le politiche per gli
immigrati si attribuisce un ruolo centrale alle norme e alle pratiche definite a livello locale,
regionale e comunale in parte anche per la grande ampiezza di interventi che possono
essere compresi all’interno delle politiche di integrazione.

L’integrazione è un concetto difficile da definire. Può essere considerata il risultato di una


molteplicità di politiche che investono aspetti relativi all’inserimento sociale, occupazionale
e finanche culturale e politico degli stranieri. In generale per integrazione si intende il
processo attraverso il quale gli immigrati diventano una parte accettato della società di
accoglienza. Nel corso degli anni e nei diversi paesi europei si sono sviluppate politiche fra
loro anche molto differenti, che hanno dato all’integrazione un’accezione molto diversa.
Zincone ha efficacemente distinto tre obiettivi che le politiche di integrazione si pongono,
tre aree, tre livelli di realizzazione.
Una politica di integrazione può avere come obiettivi:
• L’impatto positivo sulla società ricevente;
• Il benessere degli stranieri;Il vasto conflitto, l’interazione positiva tra stranieri di
diversa provenienza e tra stranieri e autoctoni.
Ciascuno di questi obiettivi può interessare l’area sociale ed economica, quella culturale e
religiosa o, da ultima, quella pubblica e civile. I livelli di realizzazione dell’integrazione a cui
uno straniero può aspirare possono riguardare:
• Il riconoscimento di diritti e l’attuazione di politiche;
• Le opportunità e le condizioni reali;
• Le percezioni e l’identità, il sentirsi accettati e il vedere riconosciute le proprie specificità.
Sempre Zincone osserva come sia individuabile un’evoluzione delle politiche dei paesi
europei. Dapprima l’immigrazione è stata percepita come provvisoria, preservando
l’identità culturale e religiosa degli immigrati al fine di agevolarne un rientro in patria. È la
fase del funzionamento economico e del multiculturalismo esclusivo. In seguito subentra la
consapevolezza che l’immigrazione non è un fenomeno estemporaneo e si riconoscono
agli immigrati diritti all’interno della società ospitante. In alcuni paesi è la fase
dell’assimilazionismo inclusivo, volto alla condivisione di comuni valori a raggiungimento
dell’omogeneità culturale; in altri è il periodo del multiculturalismo inclusivo, il
riconoscimento delle culture di origine degli immigrati, ma diretto ad accoglierli come parte
della popolazione. Da ultimo, i paesi attraversano una fase di neo assimilazionismo
inclusivo, cui si accompagna una fase di neofunzionalismo economico e securitario,
caratterizzata da un forte contrasto dell’ingresso e della permanenza degli stranieri non
lavoratori, individuati come potenzialmente dannosi e improduttivi. </p></div></div><div><div><p>
Come l’evoluzione legislativa ha mostrato, il delinquente è certamente diventato uno dei
protagonisti delle politiche di immigrazione. Da un lato perché, spesso, gli episodi di
criminalità sono stati la causa scatenante di modifiche delle regole d’ingresso, soggiorno e
allontanamento. Nell’altro perché si è via via sempre più affermato l’utilizzo della sanzione
penale a presidio del dovere di allontanamento dello straniero, fino ad arrivare alla
qualificazione della condizione di clandestinità come aggravante di un reato commesso e,
infine, come reato di per sé. La criminalità è sempre indicata come un fattore che si correla
negativamente con integrazione. Dove vi è l’una, c’è la mancanza dell’altra.

A partire dagli anni 80 si possono distinguere due modelli che connotano le politiche di
prevenzione e sicurezza, uno ispirato alla sicurezza dei diritti e un altro al diritto della
sicurezza. Sono politiche che ricorrono in modo ampio a interventi di prevenzione
situazionale e che non prestano alcuna attenzione alla rieducazione della persona che
commette atti devianti o criminali, ma si preoccupa unicamente della tutela della sicurezza
e dell’ordine pubblico.
Non dobbiamo puoi dimenticare che le opinioni dei cittadini rappresentano una delle
variabili che orientano la scelta delle politiche, l’opinione pubblica ha un centrale poiché
sono i cittadini attraverso il voto a decidere chi governa e fa le scelte. I cittadini influenzano
le scelte non solo e non tanto attraverso il voto, ma anche e soprattutto nel momento in cui
riescono a qualificare le loro richieste mediante l’organizzazione in gruppi, soprattutto se
capaci di accreditarsi presso i mezzi di informazione. I mass-media sono l’ulteriore
elemento di grande influenza nella definizione dei contenuti delle politiche su immigrazione
e criminalità e rappresentano anche un elemento che indubbiamente condiziona le
opinioni dei cittadini.
Si vedrà ora il dettaglio come l’opinione pubblica e le rappresentazioni mediatiche incidono
sulle politiche in materia di criminalità e immigrazione. Il dato da cui partiamo è
un’indagine transnazionale sul tema dell’immigrazione che registra l’opinione dei cittadini,
tra cui gli italiani, su alcuni aspetti del fenomeno immigrazione. In tutti paesi europei si
registra una considerevole percezione errata in merito al numero di stranieri presenti.
L’Italia è una nazione dove tale percezione regista e maggiore scostamento. Economia e
immigrazione sono stabilmente le fonti di maggiore preoccupazione dei cittadini, ma non
c’è un generalizzato consenso sull’idea che gli stranieri determinano una riduzione del
salario dei nativi o li privino di opportunità lavorative. L’Italia si distingue per essere il
paese dove oltre il 60% dei cittadini pensa che vi siano più stranieri regolari che irregolari.
In Italia, Spagna e regno unito una parte maggioritaria dei cittadini si dichiara inoltre
preoccupata per l’immigrazione clandestina. Il quadro delineato da questi dati sembra
evidenziare che i cittadini percepiscono l’immigrazione come un fenomeno di portata molto
più ampia di quanto non sia nella realtà e lo vivono come un problema. Il dato relativo alle
preoccupazioni vede l’Italia come un paese fortemente turbato per l’immigrazione
irregolare, ma poco preoccupato di quella regolare, all’interno però di un contesto in cui si
considera gran parte l’immigrazione irregolare.

Il quadro che emerge vede un’opinione pubblica che vive in mondo problematico il
fenomeno migratorio e i Mass media allineati nel trattare il tema dell’immigrazione in
relazione alla criminalità e alla richiesta di sicurezza.

Il fenomeno delle organizzazioni criminali stranieri emerge intorno alla metà degli anni 90,
con l’aumento della presenza straniera in Italia, e si consolida tra la fine degli anni 90 e
l’inizio del 2000. Le principali organizzazioni criminali stranieri in Italia sono di provenienza
albanese, rumena, ucraina, Russa, Georgiana, nordafricana, nigeriana, cinese,
sudamericana. Va sottolineato che negli ultimi anni è aumentata la capacità dei gruppi
criminali stranieri di interesse rapporti tra di loro e con la criminalità, organizzata e non,
italiana. In particolare, il ministero dell’interno sottolinea i legami tra la criminalità
nordafricana e quella autoctona.

La presenza degli stranieri comincia a crescere progressivamente dalla metà degli anni
90. Emerge in quegli anni la domanda di sicurezza urbana come nuovo diritto sociale.
L’interesse dei cittadini e dei politici si estende dai fenomeni criminali. L’immigrazione
diventa uno degli elementi catalizzatori dell’insicurezza sociale. Emerge tra le politiche di
sicurezza urbana e l’immigrazione un rapporto circolare, che determina il focalizzarsi di
molte politiche e interventi di sicurezza urbana sul tema immigrazione. Ciò avviene non
solo per effetto della copertura mediatica del tema immigrazione, ma anche per un dato di
fatto: gli stranieri irrompono in città portando con sé un uso diverso e molto intensivo dello
spazio pubblico. Possiamo individuare due grandi modelli di politiche di prevenzione:
situazionale e sociale. La prevenzione situazionale fa riferimento alla possibilità di ridurre
la criminalità e i comportamenti che producono disordine attraverso un intervento sul
contesto ambientale, il presupposto di queste misure è che la criminalità si possa ridurre
non tanto intervenendo sugli autori di reato, quanto riducendo le opportunità criminose
attraverso una serie di tecniche che aumentano i rischi per l’autore di reato. Ne sono
esempi la sorveglianza mediante telecamere a circuito chiuso. La prevenzione sociale si
propone di intervenire sulle cause sociali della criminalità. A questo fine l’individuo che
commette reato e le condizioni sociali economiche che vive sono messe al centro
dell’intervento. Tra gli esempi, le attività di mediazione riduzione del danno, i servizi alle
vittime, gestione allo spazio pubblico.
Nell’ambito delle politiche di contrasto alla criminalità è interessante notare la criminalità
organizzata e la criminalità urbana. Le prime sono in gran parte derivate
dall’esperienza maturata nell’ambito del contrasto alla criminalità autoctona. Nel secondo
caso, si può affermare che le politiche di contrasto al disordine e alla criminalità urbana
sono nate e si sono sviluppate con l’emergere del fenomeno migratorio.

È molto alto il rischio di creare una cesura tra coloro che, ormai regolari, devono lottare
per mantenere un permesso di soggiorno e coloro che, irregolari, si vedono preclusa ogni
possibilità di divenire regolari. Fino a quando sono esistite le regolarizzazioni, il passaggio
dallo stato di regolare a quello di irregolare erano possibili. Oggi questo potrebbe non
esserlo più. Ciò che si rischia è di marginalizzare ulteriormente questi soggetti,
spalancando le porte al loro coinvolgimento nella criminalità e a percorsi detentivi senza
uscita. Gli opposti non si possono certamente integrale, ma non vi sono dubbi che una
maggiore interdisciplinarietà, così come una maggiore contaminazione metodologica,
potrebbe portare interessanti sviluppi.

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