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Ruffino, profili linguistici sicilia.

Linguistica italiana (Università degli Studi di Palermo)

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CAPITOLO 1 LA REGIONE E LA SUA STORIA

Il siciliano è un dialetto o una lingua? Il siciliano è un dialetto, ma non un dialetto unitario,


esso è infatti costituito dalle singole varietà locali che spesso sono assai diverse l’una
dall’altra. Il Ruffino fa riferimento alla metafora degli strati geologici per spiegare la genesi
del siciliano: vari strati linguistici si sono sovrapposti uno sull’altro.
Parole e cose che scompaiono: Questa sovrapposizione ha portato alla scomparsa di
molte parole; in realtà oggi molti termini scompaiono anche perché ad essi vengono
attribuiti connotazioni negative; appaiono infatti troppo marcati e quindi volgari (ad
esempio non troviamo più burcetta per forchetta o muccaturi per fazzoletto). Un altro
motivo per cui le parole scompaiono è dovuto al fatto che le parole seguono la sorte delle
cose, quindi, sparita la cosa spariscono i termini (caddiari, fare la pasta con le mani).
La lingua tra storia e geografia: La lingua è una delle testimonianze più dirette della storia,
e nel nostro caso, il dialetto siciliano narra la nostra storia. La Sicilia, data la sua
lunghissima storia e la sua centralità nel Mediterraneo, rappresenta una mirabile sintesi e
un luogo privilegiato per gli studi linguistici 1. Se per assurdo si smarrissero tutti i
documenti, attraverso lo studio della lingua si potrebbe comunque ricostruire a grandi
linee la storia millenaria dell’isola. Così ad esempio, se prendiamo tutti i termini siciliani
che indicano i gemelli, abbiamo: jemiddi (dal greco ghiemellos); minzuddi ed emmuli (dal
latino medius e gemulus); bizzuni (dal francese bessòn); giamelli (dall’italiano gemelli). E’
questo un autentico caso di stratigrafia linguistica che mostra, oltre ad un’evoluzione
linguistica, anche e soprattutto un’evoluzione storica.
La Sicilia prima della colonizzazione greca: prendendo in considerazione un testo di
Tucidide del V secolo a.C., e tenendo conto di alcune sue fantasiose tradizioni, siamo in
grado di ricostruire la carta etnica della Sicilia, che vede i Sicani (autoctoni) in Sicilia
centrale, i Siculi (di origine italica e calabrese) in Sicilia orientale, gli elmi (origine incerta)
nella Sicilia nord-occidentale e i Fenici (Africa del Nord) in Sicilia occidentale. Senza dubbio
queste popolazioni pre-elleniche hanno lasciato traccia (pronuncia dd e tr in parole come

1 Nome della Sicilia: gli antichi nomi di Trinacria e Triquetra vanno ricollegati alla sua forma triangolare, i cui vertici
sono: Capo Passero, Peloro e Marsala (Lilibeo). Agli antichi nomi dei suoi abitanti si riferiscono gli altri due nomi
(Sicania e Sicilia).

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cavaddu e strata) dal punto di vista linguistico. Tuttavia è un campo molto difficile per via
dell’assenza di testimonianze scritte.
La Sicilia greca: I greci giunsero in Sicilia nel 750 a.C., fondando prima Nasso, poi Siracusa,
Lentini, Catania, Megara Iblea; poi si spostarono ad Occidente, fondando Gela, Selinunte,
Akragas. L’arrivo dei greci spinse i siculi nell’entroterra e i sicani e gli elimi nella parte
occidentale, e i fenici nelle coste Nord dell’isola. Col loro arrivo i greci rivoluzionarono
l’isola, con la creazione delle poleis e una progressiva ellenizzazione che comportò una
profonda penetrazione linguistica, anche se questa si realizzò soprattutto nella Sicilia
orientale (dove rimase fino al Medioevo, poiché dal 535 all’ 827 d.C. vi furono i bizantini,
che rafforzarono la precedente ellenizzazione e introdussero nuovi termini). Inoltre molti
termini giunsero al Siciliano non direttamente dal greco, ma attraverso il latino. Al periodo
greco appartengono molti toponimi, tra cui Palermo, Siracusa, Catania, Gela e Lentini.
La Sicilia latina: I romani dunque trovarono un’isola profondamente ellenizzata, ma non
omogenea. Il loro arrivo si deve alla richiesta di aiuto dei mamertini, assediati a Messina,
da Cartaginesi e Siracusani. Il console Appio Claudio sconfisse il siracusano Gerone II e
insieme a lui espugnò Messina nel 264 a.C.. Nel 241 a.C. la vittoria della prima guerra
punica scacciò i Carteginesi dall’isola; tra il 219 e il 209 a.C. anche l’ultimo baluardo
Siracusa (con Archimede), che dopo la morte di Gerone si era alleata con Agrigento e
Cartagine, fu conquistata al termine della seconda guerra punica (Zama 202 a.C.).
Nonostante la Sicilia fosse la prima provincia, il latino s’impose pienamente nell’isola
solamente con l’impero ai tempi di Augusto (I secolo d.C.).
La romanizzazione è fondamentale poiché è indubbio che il siciliano sia un dialetto
neolatino: ne sono esempi la conservazione del dittongo “au”(tauru), della desinenza
“-imu” (finimu, sintimu) e una serie di toponimi formati col suffisso “-anum (Favignana,
Giuliana).
La diffusione del cristianesimo: Fu Siracusa la prima città dell’isola e forse d’Europa ad
ospitare il Cristianesimo. Originariamente la lingua dei riti cristiani fu il greco che, tra il IV e
il V secolo, lascia spazio al latino.
La conquista bizantina e la nuova grecità: La fine dell’Impero Romano d’Occidente
trascinò la Sicilia nell’instabilità. Nel 440 vennero dall’Africa i vandali di Genserico, nel 476

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la consegnarono ad Odoacre (che depose l’ultimo imperatore legittimo Romolo Augusto


nel 395) e successivamente ai goti di Teodorico. Alla morte di questi la Sicilia passò a
Giustiniano, che prese Catania nel 535. Si apre così la fase della dominazione bizantina, che
durò al 827 con una nuova ondata di grecità linguistica, soprattutto a Messina e Catania, e
che recuperò i termini della prima ellenizzazione.
La Sicilia araba: Dopo la presa di Pantelleria gli arabi sbarcano a Mazara nel 827,
prendendo Palermo nell’ 831 e siglando la pace coi bizantini nel 895. L’isola fu ben presto
islamizzata. Anche se l’arabizzazione riguardò soprattutto la zona centro-occidentale.
Toponimi arabi sono quelli con cala, calt/castello (Calatafimi e Caltagirone), gebel/monte
(Gibilmanna), ral/casale (Ragalmuto), manzil/luogo di sosta (Misilmeri, Mezzojuso). Anche
a Palermo molti quartieri devono il loro nome agli arabi (Latterini via dei droghieri, attarin,
la Kalsa (l’eletta), il Cassero, la Zisa da aziz (splendido). Molti sono anche i cognomi di
origine araba (Zarcone da Zarcun, colorito in viso, Garufi crudele).
Oltre ai nomi di città e di persona, i vocaboli accolti nel siciliano, riguardano numerosi
settori della vita siciliana: terminologia geografica (sciara, zona lavica), unità di misure
(tummino), utensili (burnia, barattolo, tabutu, cassa da morto), botanica, animali (giurana,
la rana), alimentazione (giuggiulena, calia, ceci abbrustoliti). Molti termini in c iniziale, ad
esempio carruba, originariamente avevano il colpo di glottide a inizio parola.
Normanni, svevi e angioini: i contrasti interni al mondo arabo portarono i normanni a
conquistare Messina nel 1061. Il papa conferì una sorta di investitura a Roberto il
Guiscardo, il quale insieme a Ruggero d’Altavilla e al successore Ruggero II, conquistò
l’intera isola, fondendo lo stile normanno con quello arabo in una perfetta sintesi. I
successori di Ruggero, Guglielmo I il Malo e Guglielmo II il Buono, arricchirono l’isola e in
particolare Palermo (Zisa, Cuba, Monreale). Alla morte di Guglielmo II il regno passò alla zia
Costanza, la quale sposò l’imperatore Enrico VI, segnando l’inizio del periodo svevo. Morto
a soli 32 anni, il regno di Sicilia passò al piccolo Federico II di Svevia (1197-1250). Durante il
suo regno Palermo raggiunse il massimo splendore e rifiorì la scuola siciliana. Alla sua
morte il papa passò il regno a Carlo d’Angiò, che, dopo aver sconfitto il figlio di Federico II
Manfredi, dominò per 20 anni l’isola, fino alla rivolta del Vespro del 1282. Durante la
rivolta per scovare i francesi fu ideato un escamotage linguistico: a tutti coloro che

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sembravano stranieri veniva fatta pronunciare la parola ciciri, e da qui l’antica poesia
popolare che recita così: “oggi cu dici chichiri in Sicilia, ci si tagghia lu coddu pi sso gloria”.
I normanni, i lombardi e la formazione del siciliano moderno
Al tempo dei Normanni e degli Svevi, vivevano in Sicilia molti italiani settentrionali,
chiamati genericamente Lombardi e provenienti per lo più da una zona ligure-piemontese
(molti da Monferrato); furono portati dagli Altavilla a ripopolare soprattutto alcune zone
della Sicilia centro-orientale. Giunti in Sicilia questi Lombardi fondarono molti centri tra cui
Sperlinga, Piazza Armerina, Novara di Sicilia ecc. Al loro arrivo la situazione linguistica della
Sicilia era frammentata: l'arabo era di uso molto esteso, il greco sopravviveva nella zona di
Messina e il latino era quasi del tutto sparito. Infatti, almeno secondo Rohlfs, i dialetti che
oggi si parlano in Sicilia non sono diretti discendenti del latino portato dai romani, ma
hanno origine più recente. Mentre nel resto del sud il processo di latinizzazione si sviluppò
senza interruzioni, in Sicilia questo processo fu interrotto dalla dominazione araba che
diffuse l'arabo come lingua del popolo. Fu con l'arrivo dei Normanni, di lingua francese e
quindi neolatina, che il s'iniziò una nuova romanizzazione (seconda) che portò al declino
dell'arabo e alla nascita del siciliano moderno. L'ipotesi di Rohlfs lascia non pochi dubbi,
tuttavia, è accertato che alcuni termini che non corrispondono all'antica forma latina che
invece è sopravvissuta in altre parti del sud. In definitiva, l'origine francese di molte parole
e la non corrispondenze con forme latine arcaiche che troviamo in altre regioni del sud non
basta ad avvalorare la tesi di Rohlfs; ciò che è certo però è che moltissime parole del
siciliano moderno sono di origine francese o, cmq, settentrionale (accattari, racina,
parrinu, munzeddu, fumeri ecc). E' dunque nel periodo normanno che si compie la
formazione del siciliano moderno.
Il lungo periodo spagnolo: aragonesi, catalani e castigliani.

Dopo la rivolta del Vespro, i nobili siciliani offrirono la corona a Pietro III d'Aragona che
aveva sposato la figlia di Manfredi. La Sicilia passa così in mano spagnola e vi rimarrà fino al
Trattato di Utrecht nel 1713-14. A differenza delle epoche precedenti, il periodo spagnolo
non porterà grandi trasformazioni linguistiche, ma solo l'ingresso di termini spagnoli nel

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dialetto siciliano: nzirtari, addunarisi, anciova, sgarrari, meusa, taliari, nzaiari ammuinarisi,
accanzari.

Cap. 2: "Lingue, dialetti e culture".

Dialetto siciliano o dialetti siciliani?: esistono tante varietà concrete di siciliano quante
sono le varietà locali; varietà che presentano forti ed estese somiglianze ma anche
profonde differenze. Questa frammentazione è dovuta essenzialmente alla storia della
Sicilia, che presenta un patrimonio linguistico che è andato arricchendosi nei secoli di nuovi
termini stranieri, che generalmente si sono diffusi maggiormente nelle zone costiere e
meno nell'entroterra. Ad esempio, la parola solleticare ha due basi: una latina titillare (da
cui tiddicari, ziddicari, pizziddicari) mantenutasi nell'entroterra; un'altra francese gathilar
(da cui attigghiari, gattigghiari) diffusasi nel resto dell'isola. Inoltre, in ogni singola varietà il
dialetto presenta differenze legate all'età del parlante, all'istruzione, al sesso ecc.

Il siciliano nell'Italia dialettale: i dialetti siciliani hanno in comune con gli altri dialetti
nazionali l'origine latina. In base alle somiglianze e alle diversità, i dialetti sono stati divisi in
grandi gruppi. Il siciliano, in virtù di alcune somiglianze di pronuncia, rientra tra i dialetti
centromeridionali e nello specifico nei dialetti meridionali estremi (insieme al calabrese
meridionale e al salentino.)

Una classificazione: alcuni linguisti, in base ad affinità fonetiche, hanno provato anche a
classificare i vari dialetti dell'isola. Il più antico tentativo risale al 1888 e fu compiuto dal
tedesco Schneegans, il quale distinse: dialetti delle coste (divisi in occidentali e orientali);
dialetti dell'interno; dialetti sud-orientali (due varietà Noto e Modica). Ma la classificazione
attuale ancora oggi risale a 50 anni fa e fu compiuta dal dialettologo ragusano Piccitto:

• Siciliano occidentale: Palermitano/Trapanese/Agrigentino centro occidentale.


• Siciliano centro (Madonie/nisseno/agrigentino orientale)-orientale (sud-est/nord-
est/catanese-siracusano/Messinese):

I dialetti non siciliani: in Sicilia sono presenti comunità dette alloglotte che parlano lingue
o dialetti di ceppo diverso rispetto a quelli della regione. Si tratta di 2 comunità: quella

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galloitalica (giunta in Sicilia con i normanni e insediatasi in vari comuni) che mantiene
dialetti vitali in vari centri (P. Armerina, Nicosia, S. Fratello, Novara di Sicilia, Sperlinga); e
quella albanese (giunta nel 1400 a seguito dell'occupazione turca dell'Albania), che ha
conservato il rito bizantino e in alcuni casi un dialetto albanese (Piana, S. Cristina, Contessa
Entellina), che cmq si è mischiato con il dialetto locale.

La fonetica:
Complicate trasformazioni di vocali: nella Sicilia centrale e sud-orientale si verifica un
fenomeno chiamato metafonia: e/o toniche subiscono variazioni se la parola termina in i
oppure in u, ciò non accade se la parola termina in a (bieddu-bieddi-bedda/ puortu-puorti-
porta). Al di fuori di queste aree ciò non avviene oppure avviene anche quando la parola
termina in a (palermitano: bieddu-bieddi-biedda/puortu-puorti-puorta).
La propagginazione di u: la propagginazione consiste nella riproduzione di un elemento
linguistico, cioè la u della prima sillaba si ripete anche in quella successiva così ad esempio
in alcune zone della Sicilia centrale abbiamo purtuari, anzicché purtari.
Le consonanti dal latino al siciliano: nel passaggio dal latino al siciliano alcune consonanti
hanno cambiato la loro fonetica. La B iniziale quasi sempre passa a V (bibere/viviri;
bucca/vucca). La D passa a R (dare/rari; dulce/ruci) oppure a T quando la parola è
accentata sulla terzultima e la D è nell'ultima sillaba (acidu/acitu; humidu/umitu). I nessi
consonantici PL e CL spesso passano a CH (plumbum/chiummu; clovum/chiovu). Il nesso FL
passa a CI (flumen/ciumi). Il nesso RL, nel trapanese, perde il primo elemento e rafforza il
secondo (parlare/pallari), mentre nel resto dell'isola accade in contrario (parlare/parrari;
Carlo/ Carru), in entrambi i casi si tratta di assimilazione. L'assimilazione si ha anche nei
casi di MB e ND (gambaru/ammaru; quando/quannu).
Morfologia e sintassi:
Arcaismi e innovazioni: morfologia e sintassi, a differenza di lessico e fonetica, sono più
uniformi; tra i pochi esempi si segnalano l’uso abbondante del passato remoto, il costrutto
verbo avere + a + infinito (amo a gghiucare?) e la “a” tra verbo e oggetto. Per quanto
riguarda i pronomi, si segnalano varie forme che possono essere ricondotte o al tipo
arcaico eo, dal latino ego (eu, ieu, e, ie), o al tipo italiano io (i, iu, ia, iò).

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Differenze nel territorio: un caso straordinario di arcaismo è la permanenza del latino est,
mantenutasi ai 2 estremi dell’isola (Marsala e Messina). Nella Sicilia orientale invece
particolare è l’uso del suffisso diminutivo –ittu, invece di –iddu o –uzzo. Anche l’uso
dell’articolo determinativo, davanti a consonante, mantiene nella Sicilia Occidentale la
forma arcaica (lu, la, li). Davanti a vocale invece si usa la “elle apostrofata”, e in alcuni casi,
l’articolo si salda al nome, e in alcuni casi la vocale iniziale si salda con l’articolo (la state, la
mierica). Una differenza molto marcata a livello territoriale riguarda il verbo andare:
nell’entroterra si recupera la forma latina –imus, da cui –imu, mentre in gran parte della
Sicilia è utilizzata la forma –emu o –iemu, con influsso normanno. A Palermo infine si usa la
forma –iamu, introdotta dai napoletani, e che si rifà al congiuntivo latino.
Alcune caratteristiche generali:
I nomi: i nomi maschili escono tutti in –u o in –i; i femminili in –a o in –i; i plurali sempre in
–i. Alcuni femminili insoliti escono in –u sia al maschile che al plurale. Vi sono alcuni
interessanti casi di differenze di genere rispetto all’italiano (U ciure, dente, ventre, sale).
Tra gli aggettivi hanno una desinenza –u, -a, -i al singolare; sempre in –i al plurale. Nel
comparativo si usa più di, anche nella forma negativa (chiù di, chiù picca di). Nel
superlativo manca il suffisso issimo, che può essere sostituito col raddoppiamento.
I pronomi: Il pronome relativo “che” è reso con “chi” o “ca”; “colui” con “cu”. I dimostrativi
sono “chistu” e “chiddu”; gli indefiniti “quaicchi”, “quaccuno/quaccheruno”, “ogneruno”,
qualsiasi cosa “zzoccheggè”.
Il periodo ipotetico: congiuntivo imperfetto + congiuntivo imperfetto (si putissi vinissi).
Congiunzioni e preposizioni: tra le congiunzioni molto diffuso è il quanto, sia con valore
temporale (aspetta quanto vegnu), sia finale (pigghialu quanto ci rugnu ru timpuluna). La
congiunzione “se” si lega spesso al pronome lui “si iddu”. Per quanto riguarda le
preposizioni, diverso è l’uso nei complenti di luogo: moto da luogo= di e non da (vengo di
Roma); moto a luogo= in e non a (vaio in paliermo); stato in luogo= in o nta (in terra, ‘nta
casa); moto per luogo= non c’è preposizione ma la ripetizione del termine (sinni scappò
muntagne muntagna; strata strata).
Il lessico: parole nel tempo e nello spazio

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In linea generale possiamo dire che nella Sicilia centro-occidentale abbondano gli arabismi,
in quella centro orientale le parole di origine gallo italica, e nella parta nord orientale, i
grecismi di epoca bizantina. Tuttavia il vocabolario siciliano è da intendersi come un
universo e le parole come delle stelle, che nascono, si espandono, cambiano e muoiono.
Le parole nel tempo: esistono parole preistoriche, già esistenti nel pre-latino, che sono
tutt’ora in vita (allavancarisi), e parole recenti (francesismi) già sparite (amuarro, armadio).
Le parole siciliane hanno una storia imprevedibile, perché ricca e ingarbugliata è la storia
della nostra isola e quindi molte parole si sono trasformate. Ad esempio la parola siciliana
dunniarisi risale al provenzale amoreggiare; questo significato si è tramutato dapprima in
conversare amorevolmente, poi in svagarsi, infine in perder tempo.
Parole defunte: le parole, oltre a trasformarsi, muoiono anche (ciraulu, suonatore di
corno; schina, milza; inga, inchiostro).
Parole morenti: prima di morire le parole attraversano un periodo di indebolimento; si
tratta spesso di parole legate a mestieri (curdaru, stagnataru, ammolacutieddi, gnuri) o a
oggetti in disuso (marruggio, aggiochi). Molte parole (muccaturi, cicara) pur indicando cose
tuttora esistenti, stanno sparendo perché considerate rustiche, e quindi si preferisce il
sinonimo italiano.
Parole migranti: molte parole sono giunte in Sicilia dopo lunghi viaggi, durante i quali
hanno assunto forme tanto strane da essere irriconoscibili, cambiando a volte il loro
significato. Ad esempio il pipistrello è chiamato in Sicilia surcivecchio, dal ligure topo che
veglia. Questa parola, passando di bocca in bocca, ha finito per essere reinterpretata col
significato di topo vecchio. Altro tortuoso itinerario è quello di varcocu: la parola originaria
praecocum, portata dai romani in Africa, si è trasformata in barcùc, ed è tornato in Sicilia
con gli arabi con la forma di barcocu. Quindi oggi in Sicilia abbiamo il latinismo originario
Bircocu e l’arabismo varcocu.
Le parole nello spazio: l’evoluzione storica delle parole non è tuttavia uniforme nello
spazio. Alcune parole infatti sopravvivono in determinate aree, così ad esempio l’origine
normanna vugghiri ha soppiantato la forma bullire, che però è sopravvissuta nell’area
centro-meridionale. Inoltre alcune parole latine sono sopravvissute in aree diverse con
significati nuovi

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CAPITOLO 3: L’ITALIANO REGIONALE


Il prof. Ruffino propone 3 esperimenti (testo fatto leggere a studenti universitari/dialogo
alla fermata dell’autobus/racconto di una donna catanese) per dimostrare che nelle varie
regioni d’Italia si parlano varie forme di italiano, influenzate dai vari dialetti. Da questi
esperimenti emerge che sono frequenti: passaggi dall’italiano ai vari dialetti e viceversa, le
mescolanze e le sovrapposizioni con le cosiddette forme ibride (na volta, mi aveva
comprato), l’aggiunta di una vocale finale (autobusso). La lingua italiana risente più o meno
del dialetto, sia per quanto riguarda la pronuncia, che per quanto riguarda la grammatica
ed il lessico, anche se ciò dipende molto dal livello di istruzione.
Dall’italiano al dialetto
La mescolanza italiano dialetto riscontrata in Sicilia si ha anche nelle altre regioni. È questo
un processo iniziato con l’Unificazione e che negli ultimi decenni si è molto attenuato
(aumento istruzione, burocrazia, maggiore unificazione culturale con mass media e servizio
militare); questo lungo cammino non ancora concluso è contrassegnato da alcuni fatti di
grande importanza: 1) il costante aumento degli italofoni e la diminuzione dei dialettofoni;
2) la progressiva italianizzazione dei dialetti; 3) il formarsi dei vari italiani regionali, a metà
strada tra dialetto e lingua nazionale.
Alcuni dati statistici
Confrontando i dati forniti dall’Istat e dall’Osservatorio Linguistico Siciliano che analizzano
l’uso dell’italiano e del dialetti in 8 regioni italiano e in 73 comuni siciliani, emerge che:
l’uso del dialetto diminuisce con l’età; diminuisce all’alzarsi del livello di studio; l’italiano è
più usato nelle grandi città; il dialetto è più usato in famiglia e con gli amici; non ci sono
differenze di genere.
L’italianizzazione del dialetto
Col passare degli anni il serbatoio del dialetto si annacqua e si svuota, mentre il serbatoio
dell’italiano si riempie e si consolida. Oltre al lessico (mangiuciume-pruritu, catu-secchiu,
manta-cuperta) l’italianizzazione del dialetto riguarda anche la morfologia (sostituzione
delle desinenze dialettali –au e –iu con quelle italiane: finiu-finì), e la sintassi (scomparsa
dell’imperativo negativo preceduto da “senza”: senza currere  ‘un currere).
L’italiano regionale

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L’italiano popolare è quella forma di italiano che mischia dialetto e un italiano poco
conosciuto. È la prima fase di passaggio dal dialetto all’italiano; infatti le testimonianze
riportate dal professore Ruffino riguardano spesso testi di fine ‘800- inizio ‘900, scritti da
semianalfabeti. L’evoluzione linguistica dell’italiano è la seguente: dialetto, italiano
dialettale o popolare, italiano regionale, italiano nazionale. Mentre l’italiano popolare è
parlato o scritto solo da dialettofoni poco istruiti, l’italiano regionale è parlato anche da
persone di buona istruzione o di grande cultura. L’italiano regionale risente del sottofondo
dialettale e viene comunemente parlato anche da persone che non parlano il dialetto. Il
dialetto influenza l’italiano regionale a più livelli: intonazione, pronuncia, lessico,
grammatica e fraseologia.
Intonazione: i vari dialetti presentano diverse cadenze e la diversità aumenta con la
distanza. In realtà le diversità riguardano anche la singola regione e si evidenzia sia nella
parlata dialettale che in quella italiana.
La pronunzia: i suoni ai quali corrispondono le lettere dell’alfabeto sono spesso diversi da
regione a regione; ad esempio la d, la s, la t e la r, in siciliano hanno una pronunzia diversa
da quella italiana (con arretramento della lingua, cavaddu, strata, quattru): b, d, g ed r
hanno una pronunzia forte, a tratti doppia; dopo m ed n le consonanti sorde tendono a
diventare sonore e viceversa (tempo-tembo; quanto-quando). Dal punto di vista vocalico la
diversità di pronunzia si ha nell’assenza di variazione tra e ed o aperte o chiuse.
La grammatica: morfologia e sintassi: tanto nel dialetto quanto nell’italiano regionale vi
sono delle diversità morfologiche e sintattiche (la diabete, lo scatolo, la cucchiaia), scambi
di preposizione (vado nel farmacista), l’uso di un con valore indefinito (mi servissero un
dieci chiodi), l’uso di intransitivi con il complemento oggetto (vai a passeggiare il cane).
Lessico e fraseologia: i vocaboli cosiddetti regionali hanno raramente una diffusione
strettamente regionale: il più delle volte sono comuni a più regioni (diffusione sovra
regionale) o limitate ad una piccola parte della regione (diffusione sub regionale). I
vocaboli regionali si distinguono in 3 gruppi: parole dialettali italianizzate (annervarsi da
annirvarisi); parole italiane usate col significato dialettale (giardino da iajddino, che è
l’agrumeto); parole che non hanno alcuna corrispondenza nel dialetto (stranizzarsi).
Dialetto e italiano regionale nel linguaggio giovanile

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Il linguaggio giovanile è assai mutevole, soggetto alle mode e attinge spesso dallo sport e
dallo spettacolo. In Sicilia come altrove, i giovani recuperano molti termini dialettali, li
italianizzano adattandoli alla speciale atmosfera della vita giovanile (chiantarisi o
scucchiare=lasciarsi; strurusu, lastimusu, spacchiusu, impuparisi, allicchittarisi, allazzare,
appagnare, abbullare, scantu, attasso, acchiapparisi, aggaddarrisi, cafuddare, affirrarisi,
cannavazzo i chistiano, cataprasimi, chiummo, niegghia, cato i lippu/i munnizza).
Dialetto e italiano regionale nella letteratura
Negli scrittori siciliani il dialetto è sempre presente. In Verga, Pirandello e tanti altri
convivono più registri linguistici: uno letterario, uno regionale e uno dialettale. È Verga il
primo grande scrittore a innestare la lingua locale in quella letteraria, sia a livello lessicale,
con parole come cafiso, sciara, ecc., sia a livello di locuzioni, che vengono tradotte e
parafrasate come ad esempio aviri a paci i l’ancili.

CAPITOLO 4: TESTIMONIANZE LETTERARIE E DOCUMENTI


Le prime testimonianze latino-volgari
Sino all’epoca normanna (1100) i documenti scritti erano per lo più inventari, testamenti e
atti notarili. Il latino era la lingua ufficiale dell’amministrazione, con qualche parola in
volgare spesso latinizzata.
Le prime testimonianze scritte in volgare appartengono al genere poetico e al periodo di
Federico II (XIII). I poeti della Scuola Poetica Siciliana usarono per la prima volta (Stefano
Protonotaro) il volgare siciliano per fini artistici. Purtroppo quei componimenti sono giunti
a noi attraverso le trascrizioni dei copisti toscani: si tratta quindi di un siciliano alleggerito
dagli elementi più dialettali. Tuttavia nel ‘300 e nel ‘400 la poesia siciliana cade nel
dimenticatoio, il siciliano diventa lingua scritta ufficiale accanto al latino e la prosa (in
latino) prevale sulla poesia (siciliana). Dalla seconda metà del ‘500 alla fine del ‘700 la
poesia siciliana conosce un periodo florido grazie ad Antonio Veneziano, Giovanni Meli e
Domenico Tempio. Tutti e tre ricavarono la materia dei loro versi dalla vita quotidiana,
dalla natura e dai suoi incanti, anche amorosi. Tutti e tre dedicano versi suggestivi ai baci
d’amore.

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