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Storia Di Israele Mazzinghi PDF
Storia Di Israele Mazzinghi PDF
1
continue citazioni, anche estese, del testo biblico. Per lo stesso motivo, visto
1
Questa nuova edizione della mia Storia di Israele esce a quindici anni di
distanza dalla prima edizione, pubblicata nel 1991. Durante tutti questi anni il
libro è stato più volte ristampato - fino al 2005 - e largamente utilizzato sia
nelle Facoltà Teologiche che, in particolare, negli Istituti di Scienze Religiose,
con un’accoglienza in genere molto favorevole. D’altra parte, il testo è ormai
invecchiato, sia per le nuove scoperte (si pensi ad esempio alla stele di Tell
Dan), sia per l’uscita di nuovi studi, come le importanti opere di M. Liverani e di
I. Finkelstein – N. A. Silberman; ma cf. già la seconda edizione (2002) della
Storia di Israele di J.A. Soggin, oltre al notevole sviluppo degli studi sulla
possibilità stessa di scrivere una “storia di Israele”. Non erano poi assenti dalla
2
mia prima edizione del 1991 sia qualche errore di stampa di troppo sia qualche
“peccato di gioventù” che mi aveva portato a più di una imprecisione.
Confesso che sono indirettamente debitore di questa revisione al prof. Paolo
Sacchi, la cui frequentazione e l’ormai lunga amicizia mi hanno spinto a un
ulteriore approfondimento, oltre ad offrire una presentazione anche del
pensiero di Israele alla luce del suo sviluppo storico; una storia delle idee e non
solo dei fatti.
L’impostazione generale del libro non è tuttavia mutata; mi rendo ben conto
di rimanere nel solco piuttosto tradizionale di tante “storie di Israele” che
scorrono in parallelo al testo biblico e che pure hanno la pretesa di essere
scientifiche. Per questo motivo, la dimensione critica non verrà mai trascurata,
anche a costo di creare più di uno sconcerto in lettori cristiani non di rado
realmente ignari di problematiche storiche. D’altra parte, ho in mente un
pubblico che per lo più si accosta alla storia di Israele come strumento per una
più profonda conoscenza del testo biblico di entrambi i Testamenti. Spero così
che il comprendere l’assoluta necessità di una solida conoscenza storica
divenga un antidoto alla tentazione, ormai sin troppo diffusa, di concepire il
cristianesimo e magari la stessa figura di Cristo come una dottrina teologica e
morale che sussisterebbe indipendentemente dai suoi connaturali legami - e
quindi anche dai suoi necessari condizionamenti! - con la storia.
Questa nuova edizione esce adesso anche in italiano, sulla scia dell’edizione
francese pubblicata da Lumen Vitae … Devo infatti alla grande cortesia e alla
notevole competenza di Guy Vanhoomissen l’impulso che mi ha portato a
rielaborare a fondo l’edizione italiana del 1991 e a pubblicarne una nuova
edizione in francese, interamente riveduta; al prof. Vanhoomissen si deve tra
1 Tutte le citazioni sono tratte dalla Bibbia di Gerusalemme.
2 Cf. l’importante raccolta di studi a c. di L.L. GRABBE, Can a “History of Israel” be written?,
London-New York 20042..
2
l’altro il glossario che chiude il libro, nonché molti utili suggerimenti sparsi qua
e là nel testo. La bibliografia è stata completamente aggiornata, ma resta per
lo più in italiano e limitata ai testi più significativi o comunque maggiormente
accessibili a un pubblico più vasto. Le Edizioni Dehoniane di Bologna hanno
accolto la versione italiana di questo testo, già edito in precedenza da Piemme.
Nonostante la profonda revisione, questa Storia di Israele resta quel che era
sin dall’inizio, ovvero un “manuale di base” pensato per un pubblico non
specialistico che cerca un primo approccio a un argomento che non manca
ancora di appassionare.
***
INTRODUZIONE
3
giudaica del 135 d.C. Il nome Palestina ricorda uno dei popoli che anticamente
abitavano la regione, i Filistei.
***
CAPITOLO I
5
limiteremo qui ad indicare un metodo che ci permetta poi di presentare, in
modo speriamo adeguato, i tratti fondamentali della storia di Israele.
Nel 1932 apparve in Italia la Storia di Israele dell’abate Ricciotti, nota ben 4
forse l’esempio migliore. Posizioni simili sono ben note al grande pubblico
attraverso testi come il libro di W. Keller, apparso in prima edizione nel 1955
con il titolo tedesco Und die Bibel hat doch recht, noto in italiano come La
Bibbia aveva ragione, ancora oggi molto diffuso.
Negli ultimi anni sono venute sviluppandosi posizioni molto meno ottimistiche,
come quelle diffuse in alcuni libri recenti (G. Garbini, M. Liverani, I. Finkelstein -
N.A. Silberman), posizioni che minano le fondamenta, ritenute così sicure, delle
scuole precedenti. Così scrive ad esempio G. Garbini: «I racconti che si trovano
nella Bibbia ebraica tutto sono meno che storici, ed è pertanto ozioso cercare
in essa una “idea storica”…» . L’orientalista italiano M. Liverani e l’archeologo
6
Soggin, accertare quello che Israele confessava della propria fede molti secoli
dopo i fatti narrati.
7 Si veda al riguardo la mia recensione a Finkelstein e Silberman: «La Bibbia fra storia e mito. A
proposito di un recente libro di Israel Finkelstein e Neil Asher Silberman», Vivens Homo 14/1
(2003) 125-140.
8 Si veda SOGGIN, Storia di Israele, 86 (prima citazione) e «La storiografia israelitica più
antica», in La storiografia nella Bibbia, Atti della XXVIII Settimana Biblica, Bologna 1986, 26
(seconda citazione): quest’ultimo testo è un’interessante raccolta di saggi relativi a questo tipo
di problemi.
6
Da un estremo all’altro, dunque; oggi non è più possibile scrivere una Storia
di Israele rileggendo semplicemente la Bibbia: per tentare di uscire da questo
vicolo cieco sottolineiamo adesso tre punti importanti da tenere sempre ben
presenti.
che, se noi non avessimo il testo della Bibbia, conosceremmo ben poco di
Israele, almeno fino all’epoca monarchica. D’altra parte, quel che conosciamo
dai testi biblici non è verificabile tramite altre fonti. La domanda che può
venire spontanea a questo punto è “perchè allora non fidarsi semplicemente di
ciò che la Bibbia dice?”. Il secondo aspetto che adesso consideriamo, i dati
dell’archeologia, ci offre una prima risposta.
2. I dati dell’archeologia.
10 Non ci occuperemo, in questa sede,dei problemi - spesso molto complessi - legati alla
composizione e alla datazione dei testi biblici, per i quali si rimanda alla lettura di opere di
introduzione generale alla Bibbia ed ai singoli libri biblici.
7
cronologia più tradizionale, ad esempio, i patriarchi si collocavano nel XVIII-XVII
sec. a.C., appunto almeno nove/dieci secoli prima della stesura dei primi testi
scritti che ne parlano. L’esempio classico è il testo di Gen 12,6, dove si ricorda
che i Cananei abitavano ‘allora’ il paese, ma che evidentemente non ci
abitavano più quando, molti secoli dopo i fatti narrati, il testo fu scritto. Questa
distanza tra i fatti narrati e i fatti avvenuti rende spesso del tutto impossibile
una vera ricostruzione storica degli avvenimenti. A ciò si aggiunga che l’autore
biblico rilegge tali avvenimenti alla luce delle condizioni sociali, politiche,
religiose del suo tempo; inoltre, egli è interessato al messaggio teologico in
essi contenuto, appunto alla “Parola di Dio” che quel fatto rappresenta. Siamo
dunque di fronte a testi che si occupano di storia, ma si tratta di storia
interpretata e non ci deve dunque meravigliare il fatto che l’interpretazione
non corrisponda spesso alla realtà dei fatti.
edizione della sua Storia di Israele, Soggin situa invece i regni di David e di
Salomone nella parte intitolata “Tradizioni sulla preistoria del popolo”. Per
Soggin, in effetti, l’impero di David e Salomone “presenta più problemi di
quanti ne potremo mai risolvere. Le fonti che riferiscono su di esso sono tutte
di origine tarda e riflettono quindi problematiche di epoche posteriori di molti
secoli, quando il popolo, ormai ridotto al solo Giuda, stava passando per
esperienze molto spiacevoli”.13
Tutto ciò basta a far capire come le origini di Israele siano realmente il punto
più difficile e il più discusso della storia di Israele. Come già si è accennato, il
grande problema che lo storico deve affrontare è la pressoché totale mancanza
di fonti extrabibliche e di dati per il periodo precedente la monarchia: l’unica
11 SOGGIN, Storia di Israele (prima edizione, Brescia 1984), 54.
8
fonte a nostra disposizione è spesso poco più che la Bibbia stessa, e talvolta
neppure quella! Il nostro punto di partenza sarà dunque una breve panoramica
su questo spinoso problema delle origini di Israele, tenendo sempre presente
che dobbiamo confrontarci con testi biblici ai quali non possiamo chiedere una
risposta di ordine puramente storico.
Gli autori biblici sono senz’altro mossi anche da un interesse storico e talora
persino ideologico, ma il loro obiettivo primario è prima di tutto teologico: ci
troviamo di fronte a una “storia sacra”, per cui la storia di Israele non può
coincidere con una semplice parafrasi dei testi biblici, pur se arricchita con dati
storico-archeologici. Gli autori antichi, del resto, non riescono a concepire una
“storia” in senso moderno, ove la presentazione dei fatti sia il più possibile
sganciata dall’elemento religioso. Per la Bibbia, inoltre, a partire dall’opera dei
profeti (più o meno intorno all’VIII sec. a.C.) un ulteriore problema è cercare di
comprendere il senso dell’agire del Dio di Israele all’interno della storia.
Ciascuno di questi elementi dovrà essere tenuto sempre presente se si vuole
in qualche modo arrivare a ricostruire un quadro soddisfacente della storia di
Israele: in tal modo, il lettore della Bibbia potrà collocare ciò che legge non su
uno sfondo astratto, ma concreto: la storia di un popolo, Israele.
***
CAPITOLO II
LE ORIGINI DI ISRAELE
a. I Patriarchi.
14Per una panoramica della storia del Medio Oriente Antico si veda l’interessante e ricchissima
opera di M. LIVERANI, Antico Oriente. Storia, Società, Economia, Bari 1988,in particolare le
pagine 661-692 su Israele.
9
dell’epoca. I primi documenti che parlano della terra di Canaan risalgono
all’inizio del II millennio e sono i cosiddetti “testi di esecrazione” egiziani,
figurine d’argilla rappresentanti i nemici fatti prigionieri sulle quali venivano
scritti i nomi dei nemici stessi, accompagnati da maledizioni, insieme ai nomi
delle città e dei re controllati dall’Egitto. I Cananei costituivano un popolo per
lo più sedentario, la cui principale occupazione era l’agricoltura; i patriarchi,
invece, ci vengono presentati come seminomadi, pastori di bestiame minuto e,
occasionalmente, come piccoli agricoltori, senza dimora stabile: va comunque
sfatata l’immagine tradizionale che accosta i patriarchi ai grandi nomadi del
deserto, come i beduini che del resto appariranno sulla scena del Vicino
Oriente Antico solo molto più tardi.
Al di fuori dei testi biblici non possediamo alcuna altra testimonianza
sull’esistenza dei patriarchi e questo non deve sorprenderci, vista la scarsa
rilevanza storica che essi potevano avere. Proprio a causa di tale assoluta
mancanza di dati, i patriarchi sono stati considerati da alcuni storici come
figure mitiche, invenzioni di un’epoca molto tardiva, come quella dell’esilio.
La situazione in cui ci troviamo non ci permette neppure di stabilire l’origine
dei patriarchi: si è pensato che essi facessero parte di gruppi semitici emigrati
verso ovest all’inizio del II millennio (si è parlato di migrazioni aramee o
amorree), ma la questione è ben lontana dall’esser risolta. Una ipotesi molto
suggestiva, ripresa oggi da molti studiosi, è quella di collegare le migrazioni
patriarcali con i cosiddetti Hapirû, gruppi nomadi e banditeschi conosciuto da
testi egiziani, bande che scorrazzavano per il Medio Oriente verso la metà del II
millennio a.C. Ma ogni tentativo di identificare con gli ebrei (‘ibrim) questi
Hapirû non è stato finora convincente. Allo stesso modo, si è tentato di
identificare gli ebrei con un gruppo di seminomadi di origine semitica, gli
Shashu, attestati in Egitto tra il XV e il XIII sec. a.C., ma siamo ancora nel
campo delle ipotesi.
Si è anche tentato, vista l’impossibilità di risolvere questo problema, di
trovare qualche corrispondenza tra le narrazioni patriarcali e il periodo storico
a cui esse si riferirebbero (il già ricordato XVIII sec. a.C.). Alcune delle usanze
che la Genesi attribuisce ai patriarchi potrebbero effettivamente essere poste
in relazione con usanze analoghe note, all’inizio del II millennio, dai testi trovati
negli archivi delle città-stato medio-orientali di Mari, Nuzi ed Ebla, archivi
recentemente scoperti e ricchissimi di testi. Si citano a questo proposito l’uso
di adottare il figlio avuto da una schiava (come fa Abramo con Ismaele), l’uso
di avere una schiava come concubina (Abramo e Agar), oppure la cosiddetta
“legge del levirato”, per cui si era tenuti a sposare la moglie del fratello morto
senza figli. Queste ed altre usanze relative allo stile di vita dei patriarchi così
come ci appare dai testi biblici possono trovare qualche corrispondenza con i
costumi delle tribù seminomadi che vivevano, all’inizio del secondo millennio
a.C., nell’ambito delle città-stato sopra ricordate, anche se questo tipo di
parallelismo è tutt’altro che sicuro . 15
15 Per quanto riguarda il nomadismo e lo stile di vita dei patriarchi quale ci è narrato dai testi
biblici, ha ancora valore l’opera classica di DE VAUX, Istituzioni dell’Antico Testamento, 13-26.
Sullo stato della questione relativa alla storicità dei racconti patriarcali cf. G. COUTURIER (ed.),
Les Patriarches et l’histoire. Autour d’une article inédit du pére J.M. Lagrange o.p., Cerf-Fides,
Paris-Montréal 1998.
10
Secondo i racconti genesiaci la religione dei patriarchi è la stessa che avrà poi
Israele: la fede in YHWH. Ma altri testi del Pentateuco suggeriscono un quadro
16
Lo storico, vista la povertà di dati a sua disposizione, non può dire molto più
di questo: la storia patriarcale contenuta in Gen 12-50 è essenzialmente una
storia di famiglie; appena tre generazioni (Abramo-Isacco-Giacobbe) nello
spazio di ben tre secoli! E’ chiaro che ci troviamo in ogni caso davanti alla
semplificazione di una storia molto più complessa.
Un elemento importante che non va mai dimenticato è il fatto che il testo
biblico rilegge e attualizza la storia patriarcale: nel libro della Genesi, il celebre
testo di 12,1-4a è in realtà, molto probabilmente, un testo tardivo che intende
rileggere l’intera vicenda di Abramo come incoraggiamento per gli esuli ebrei a
Babilonia. Così non deve stupirci il fatto che l’itinerario che porta Abramo da Ur
dei Caldei (popolo che nel XVIII sec. non esisteva ma che, significativamente, è
presente quando il narratore scriveva, nel VI sec. a.C.) sino alla terra di
Canaan è lo stesso itinerario percorso dagli esuli di Babilonia durante il loro
ritorno in patria: in tal modo la storia patriarcale acquista, nel testo biblico, un
valore simbolico ed educativo che va molto al di là della sua storicità.
16 Indichiamo con YHWH (il “tetragramma”) il nome di Dio connesso molto probabilmente con
un forma del verbo ebraico hyh, “esserci” ed anche “divenire”; la sua pronuncia poteva essere
forse Yahweh e il senso sembra essere “colui che c’è”, “che esiste”, ovvero colui che è
presente. L’ebraismo successivo, come il primo cristianesimo, sostituì questo nome con
Adonai, ovvero “Signore” (Kyrios, in greco). Cf. la bibliografia citata nella nota successiva.
11
b. Israele in Egitto
Nel libro dell’Esodo si narra, come tutti ben sanno, l’uscita degli Israeliti
dall’Egitto; il libro della Genesi termina a sua volta con i capitoli 37-50 (la
cosiddetta “Storia di Giuseppe”) che hanno evidentemente la funzione di
introdurre la narrazione dell’Esodo, riferendo la discesa degli Ebrei in Egitto. La
“Storia di Giuseppe” sembra presentarsi, a prima vista, come ben informata
relativamente all’ambiente egiziano: in Gen 41,43. 45 si usano parole e nomi
egiziani abbastanza comuni (ad eccezione della misteriosa parola abrek del v.
43). La posizione assunta da Giuseppe – “maestro di palazzo” o “gran vizir” del
faraone non è insolita, visto che nell’Egitto del II millennio poteva accadere che
uno straniero si trovasse in posizione di grande potere. Ma il riferimento storico
forse più attendibile si ritrova in Es 1,11, dove si legge che gli Israeliti furono
addetti alla costruzione delle città di Pitom e Ramses: Ramses è una città del
delta del Nilo ricostruita con tal nome probabilmente sotto il faraone Seti I o
sotto il suo successore, Ramsete II, verso il XIII sec. a.C. Della stessa epoca
possediamo alcune testimonianze - contenute nelle relazioni di guardie di
frontiera egiziane - relative all’ingresso in Egitto di gruppi di pastori provenienti
dal Medio Oriente, gruppi ai quali venivano concesse in uso terre egiziane
come pascoli per i loro greggi. L’ingresso degli Israeliti potrebbe rientrare in
questo tipo di migrazioni.
Tutto questo, però, non ci dice nulla sulla reale storicità di Gen 37-50: le fonti
egiziane non dicono niente circa una venuta di “Israele” in Egitto e gli elementi
sopra accennati possono far concludere al massimo che la presenza di gruppi
semitici in Egitto, nel corso del XIII sec., è un fatto verosimile; tra questi gruppi
potrebbe trovarsi allora la “casa di Giacobbe” cui la Genesi e l’Esodo fanno
riferimento. La “storia di Giuseppe” sarebbe dunque da collocarsi non nel XVIII
o XVII sec., secondo la cronologia tradizionale sui patriarchi, ma almeno
quattro secoli più tardi. Il testo di Gen 37-50 è in ogni caso non tanto una
narrazione a sfondo storico, ma piuttosto un’opera scritta con intenti ben
precisi, per mettere cioè in luce i temi della fraternità, della paternità, del buon
governo e, soprattutto, l’immagine di un Dio che guida la storia rovesciando le
prospettive umane (si veda ad esempio Gen 45,5-8 e 50,24). Ciò che Gen 37-
50 ci dice sull’Egitto è in realtà quel che poteva sapere uno scriba ebreo bene
informato durante l’epoca monarchica.
Secondo il racconto di Es 1,8 l’oppressione nasce da un cambio di dinastia:
“un nuovo re che non aveva conosciuto Giuseppe”, dove il riferimento
potrebbe essere relativo all’avvento al trono del grande faraone Ramsete II
(l290-1224 a.C., secondo una delle possibili cronologie) o forse al passaggio tra
la XVIII e la XIX dinastia avvenuto con Seti I, predecessore di Ramsete II.
Anche in questo caso, tuttavia, le fonti egiziane tacciono e la stessa tradizione
biblica è divisa tra il ricordo dei lavori forzati (Es l,8-14), storicamente più
verosimile, e il decreto del faraone che prevede la morte per tutti i figli maschi
(Es l,l5-22); è evidente, in Es 1, la coesistenza di tradizioni letterarie diverse.
Sia i motivi sia la vera natura dell’oppressione ci sfuggono: sappiamo però
che i lavori forzati cui stranieri, prigionieri di guerra e schiavi erano obbligati in
Egitto sono realtà ben note allo storico. Possediamo documenti su papiro
risalenti alla XIX dinastia relativi all’impiego di schiavi e di prigionieri di guerra,
dei quali si fissa, per esempio, la razione giornaliera di cibo.
12
Nel racconto dell’Esodo l’uscita dall’Egitto è strettamente legata al nome di
Mosè. Il significato stesso di questo nome rimanda ancora una volta a un
contesto egiziano, in questo caso molto verosimile: mosis è un suffisso
egiziano che significa “figlio di”, legato frequentemente al nome di qualche
divinità egiziana, come ad esempio Tut-mosis, “figlio del dio Tut”. Il testo di Es
2,l0 dà del nome ebraico Mosheh una etimologia popolare, facendolo derivare
dall’ebraico mashah, cioè “trarre fuori”, in relazione ovviamente all’evento
miracoloso del suo salvataggio dalle acque del Nilo. La nascita di Mosè è
narrata secondo uno schema ben noto nell’antichità, schema che ritroviamo
nella leggenda di Sargon I re di Akkad (vissuto nel 2334-2280 a.C. circa, ma i
testi scritti della sua leggenda che sono a nostra disposizione sono molto più
recenti): già nel caso di Sargon abbiamo un bambino (il re Sargon, appunto)
nato in segreto e salvato dalla madre in un cestello di giunchi abbandonato sul
fiume e ritrovato da un personaggio (un portatore d’acqua, nella storia di
Sargon) che alleva poi il bambino, destinato a grandi imprese. Questo
probabile parallelo fa pensare che al nucleo storico relativo al personaggio-
Mosè si siano poi aggiunte tradizioni e riletture successive che rendono difficile
metterne a fuoco il valore storico preciso.
Mosè appare, in ogni caso, come una figura chiave del Pentateuco, anche se
nel resto della Bibbia ebraica è relativamente poco ricordato, almeno in
proporzione all’importanza che egli ha nei primi cinque libri della Bibbia: in essi
invece, oltre alla parte avuta nell’uscita dall’Egitto, Mosè appare anche come il
fondatore dello yahwismo, il mediatore tra Dio e il popolo, colui al quale -
secondo il racconto di Es 3,l3-l5 - Dio ha rivelato il suo nome, YHWH, e ha
donato la sua Legge, la Tôrah (cf. Es l9-24).
c. Esodo e Sinai.
ormai superato e il motivo di questo superamento sta nello stesso testo biblico.
Nel lungo racconto sulle piaghe emergono infatti almeno tre tradizioni diverse,
con numerose contraddizioni interne. Le piaghe sono poi menzionate in due
altri testi della Bibbia ebraica, con numeri diversi: sono infatti nove in Sal
78,43-51 e otto in Sal 105,27-36. Inoltre, si può facilmente notare come ogni
piaga viene narrata secondo uno schema letterario ben preciso che, andando
al di là del semplice fatto storico, ne mette in risalto piuttosto il valore
teologico di “segno”. Nel preludio al racconto delle piaghe (Es 7,l-5) esse sono
19
18 In questo modo, ad esempio, la prima piaga, le acque del Nilo cambiate in sangue farebbe
riferimento al fenomeno naturale che durante la grande piena di Luglio-Agosto colorerebbe di
rosso l’acqua del fiume a causa della presenza di un micro-organismo chiamato Euglana
sanguinea. Il più completo tentativo di ricostruzione scientifica in tal senso resta quello di
G.HORT, «The Plagues of Egypt», ZAW 69 (1957) 84-103; 70 (1958) 48-59, studio ripreso in
molti commenti successivi.
13
chiamate proprio “segni e prodigi” (v. 3) mediante i quali gli Egiziani “sapranno
che io sono il Signore” (v. 5). Così, dietro il ricordo di fatti che, ancora una
volta, non ci è più possibile precisare, si colloca il chiaro intento teologico dei
narratori, che scoprono in quei lontani eventi la presenza di Dio nella storia del
popolo e a questa luce li trasmettono agli uomini del loro tempo.
La stessa cosa avviene anche per il passaggio del Mar Rosso (il celebre e
bellissimo testo di Es 14): bisogna intanto ricordare che il testo dell’Esodo non
parla in realtà di “mar Rosso”, ma piuttosto di “mare delle Canne” o “dei
Giunchi”, che non corrisponde al Mar Rosso che noi conosciamo oggi. I tentativi
di identificare il punto esatto del passaggio degli Israeliti si sono moltiplicati: si
è pensato ai Laghi Amari, nella zona a est del Delta, dove oggi passa il Canale
di Suez; si è pensato anche alla zona costiera presso il Mediterraneo, zona
paludosa che ben spiegherebbe l’espressione “Mare delle Canne”. Ma ancora
una volta siamo nel campo delle ipotesi, più o meno discutibili.
La redazione sacerdotale dell’Esodo fa del passaggio del mare un corteo
trionfale tra due muraglie d’acqua (cf. Es 14,22), mentre in una tradizione
parallela, forse più antica, il “miracolo” è, più semplicemente, il vento d’oriente
che prosciuga l’acqua del mare permettendone il guado (cf. Es l4,21). Esiste
almeno un’altra versione dell’accaduto, in Es 14,24-25, che parla più
semplicemente della fuga degli Egiziani, bloccati dal Signore nel loro campo e
impossibilitati a inseguire gli Israeliti. Per spiegare questo tipo di
contraddizioni, dovute all’esistenza di versioni divergenti e spesso
contraddittorie, è nata la nota teoria di R. De Vaux secondo il quale non siamo
20
20 R. De Vaux, celebre domenicano, biblista e archeologo francese morto nel 1971, membro
dell’Ecole Biblique di Gerusalemme, è stato il direttore della traduzione biblica a tutti nota
come la Bibbia di Gerusalemme, uscita nella sua prima edizione francese nel 1955 (l’ultima
edizione è del 1998). Per la teoria del doppio esodo, si vedano ancora le note a Es 11,1 e 13,17
nell’ultima edizione francese della Bible de Jérusalem.
21Con ciò la teoria di De Vaux servirebbe molto bene a spiegare anche la diversità di itinerari
che il testo biblico attribuisce agli Israeliti in fuga: mentre in Es 14,2-9 gli Israeliti sembrano
passare dal nord, la strada “dei Filistei”, sulla costa mediterranea, il testo di Es 13,l7 afferma
esplicitamente che tale strada fu evitata.
14
19, attraverso il libro del Levitico, fino a Nm 10,33, quando gli Israeliti ripartono
dal Sinai.
Tradizionalmente si identifica il monte Sinai con l’attuale Jebel Mussa (2244
mt. di altezza, nella parte meridionale della penisola sinaitica) ove oggi si trova
il celebre monastero greco-ortodosso di Santa Caterina. L’identificazione è
stata più volte messa in dubbio, esattamente come nel caso del passaggio del
mare e si è pensato addirittura ai monti dell’Arabia : anche in questo caso il
22
lettore moderno non vedrà soddisfatta la sua curiosità. Sul monte Sinai/Horeb il
testo di Es 20,1-17 colloca la celebre tradizione sul “decalogo” che il Signore
avrebbe donato a Mosè; gli studi attuali hanno ormai messo in luce come il
testo del decalogo vada considerato parte di una tradizione di epoca
monarchica la cui origine è senz’altro indipendente da quella sinaitica (v. la
chiara frattura tra la fine del c. 19 e Es 20,1).
Il periodo passato dagli Israeliti nel deserto è calcolato secondo la cifra
convenzionale di 40 anni (cf. Num 14,34): si tratta in realtà di un periodo di
tempo molto indefinito in cui quel gruppo (o quei gruppi, se volessimo
accettare la teoria di De Vaux) di Israeliti usciti dall’Egitto inizia ad avere una
fisionomia più precisa e comincia ad esistere come popolo. Ma tutto ciò ci
rimanda ad un problema ben più complesso, quello cioè delle origini di Israele
come popolo e della sua presenza nella terra di Canaan.
Al Museo Egiziano del Cairo è ben visibile la stele del faraone Merneptah,
scoperta dall’archeologo inglese Flinders Petrie nel 1895 e databile, seppur con
una certa approssimazione, intorno al 1220 a.C.. La stele riporta un’iscrizione
di 28 righe con l’elenco delle vittorie ottenute dal faraone. Alle righe 26 e 27 il
testo parla della sottomissione delle popolazioni dell’Asia: si nominano gli
Hittiti, i Cananei, le città di Ascalon, Ghezer e Yanoam e si aggiunge - almeno
secondo l’interpretazione corrente - “Israele è annientato, non ha più seme”. 23
22 L’archeologo E. Anati ha proposto di identificare il Sinai con lo Har Kharkom, un monte nel
deserto del Neghev, presso l’oasi di Qadesh, una delle tappe del cammino nel deserto: oltre
alla fragilità delle prove archeologiche riportate da Anati, resta del tutto discutibile la sua
pretesa di voler datare l’esodo addirittura nel III° millennio a.C. Cf. E. ANATI, Har Kharkom.
Montagna sacra nel deserto dell’Esodo, Milano 1984.
23 Una parte del testo della stele è disponibile in traduzione italiana in L’Antico Testamento e
le culture del tempo, 151.
15
conquista militare, una città dopo l’altra. Secondo il racconto biblico, il popolo
di Israele, dopo la morte di Mosè, sotto la guida del suo successore Giosuè,
passa il Giordano che miracolosamente arresta il suo corso (Gs 3,14-17),
entrando in Canaan e conquistando tutto il paese a partire dalla città di Gerico,
dove avviene il celebre prodigio del crollo delle mura al suono delle trombe (Gs
6). In questa azione, tutte e dodici le tribù agiscono concordi, come un vero e
proprio esercito, con l’accompagnamento di altri prodigi e miracoli: si ricordi
ancora un altro episodio, il sole che si arresta su Gabaon (Gs 10,10-15), testo
che per molto tempo verrà preso alla lettera, quasi come un’affermazione
scientifica circa il sole che gira attorno alla terra. 24
L’inizio del libro dei Giudici ci presenta invece una versione della conquista
piuttosto diversa: il testo di Gdc 1,1-2,5 mostra le singole tribù in azione l’una
indipendentemente dall’altra, non tutte unite come nel racconto del libro di
Giosuè. Inoltre Gdc 3,l-6 è un lungo elenco di popolazioni locali che Israele non
avrebbe scacciato: a ben guardare, la “conquista” si sarebbe limitata a zone
scarsamente popolate, mentre le potenti città-stato della pianura sarebbero
rimaste intatte: «Il Signore fu con Giuda, che scacciò gli abitanti delle
montagne, ma non potè espellere gli abitanti della pianura, perchè muniti di
carri di ferro» (Gdc 1,19). L’inizio del cap. 2 del libro dei Giudici legge questa
mancata conquista in chiave teologica: Israele non ha ascoltato la voce di Dio,
perciò Dio non ha scacciato del tutto i popoli di Canaan dalla loro terra (Gdc 2,l-
5). E’ interessante vedere, infine, come in almeno un caso lo stesso libro di
Giosuè sia testimone del fatto che la conquista avvenne in realtà in modo
pacifico (v. Gs 8,30-35, a proposito della presa di Sichem). A proposito delle
tribù, il libro dei Giudici fa comprendere come esse fossero ben lontane
dall’essere unite: le tribù del nord agiscono sempre in modo indipendente
(l’antico “canto di Debora” in Gdc 5 ne nomina soltanto sei); Beniamino appare
escluso e addirittura nemico delle altre tribù (Gdc 19-21), mentre le tribù
transgiordaniche (Gad e Manasse) e quelle del sud (Giuda) appaiono del tutto
autonome dalle altre.
Il testo biblico ci presenta dunque un evidente contrasto tra la descrizione di
una conquista unitaria e militare del paese (Gs) e una conquista più lenta e
frammentaria (Gdc): è uno degli scogli che lo storico deve affrontare, se vuole
dare una risposta plausibile al problema delle origini di Israele. Si tratta di una
questione che è stata molto studiata in questi ultimi anni, dando vita a diverse
teorie in proposito; dobbiamo subito confessare che una soluzione accolta da
tutti è ancora lontana e la discussione resta aperta.
posizione viene dai risultati della archeologia: è senz’altro vero che diverse
città che Giosuè avrebbe distrutto intorno al 1250-1200 a.C. risultano in rovina,
ma è altrettanto vero che i motivi di tali distruzioni possono essere fatti risalire
24 Si ricordi l’opposizione che la chiesa fece all’ipotesi eliocentrica di Galileo Galilei 1564-
1642), che sembrava negare tali supposte verità bibliche!
25 La teoria della singola invasione militare è sostenuta in particolare da quella che possiamo
chiamare la “scuola americana”, a partire dagli scavi di W.F. Albright (1920-1930) in poi (cf. p.
…).
16
a incursioni filistee, a campagne militari egiziane, tutt’altro che infrequenti, o
perfino a cause naturali come incendi o terremoti. Inoltre, alcune delle città
che Giosuè avrebbe conquistato e distrutto risultano semplicemente disabitate,
durante quel periodo: è il caso di Arad, Ai e, più noto, il caso di Gerico.
Quest’ultimo è per noi un esempio molto istruttivo: una campagna di scavi,
condotta a Gerico nel 1930-1936, fece pensare - con grande entusiasmo degli
archeologi - di aver ritrovato quelle mura in rovina che sarebbero crollate al
suono delle trombe israelite. Gli scavi successivi, a vent’anni di distanza,
dimostrarono che tali mura, ancora oggi ben visibili, risalgono in realtà al
periodo del Bronzo Antico, ovvero più di un millennio prima della usuale
datazione della conquista; intorno al 1250-1200 a.C. la città appare, almeno
allo stato attuale delle ricerche, semplicemente abbandonata; non vi sono
tracce di mura né di una loro eventuale distruzione. 26
costituito da una serie di tribù seminomadi che, all’inizio dell’età del ferro
(1200-1150), si sarebbero insediate, prima pacificamente e, solo in seguito,
anche con la forza, sulle montagne della regione centrale, cioè nelle regioni
meno popolate.
Un tentativo di accordare questa teoria con la precedente, operato ancora
una volta da R. De Vaux, parla piuttosto di “insediamento”, cercando di
mostrare come l’installazione degli Israeliti in Canaan sarebbe avvenuta in
parte in modo graduale (delle enclaves cananaiche sarebbero esistite sino al
tempo di David) e pacifica, almeno in un primo tempo, per conoscere poi lotte
durante il periodo dei Giudici.
27 La teoria nasce in ambito tedesco con gli studi di A. Alt alla fine degli anni Trenta, studi
ripresi poi da M. Noth (+1968): quest’ultimo elaborò l’idea della “lega delle dodici tribù” (da lui
chiamata con termine greco di anfizonia). Israele sarebbe nato, secondo Noth, come unione
delle dodici tribù attorno a un unico luogo di culto, scelto per la presenza dell’Arca della
Alleanza. Benché la teoria, senz’altro suggestiva, abbia trovato in partenza molti sostenitori, è
stata successivamente messa in discussione: in particolare non esistono prove certe relative
all’esistenza di dodici tribù unite in una simile lega sacra.
17
N.K. Gottwald) hanno proposto una visione del tutto nuova, circa la nascita di
Israele. Non ci sarebbe stata alcuna conquista, né alcuna infiltrazione o
insediamento: Israele sarebbe sempre stato in Canaan e si sarebbe formato
come popolo soltanto in seguito alla rivolta delle classi contadine contro la
potenza delle città-stato cananee. Sotto l’influsso di gruppi di leviti provenienti
dall’Egitto si sarebbe anche sviluppato il culto di YHWH, da quei gruppi
sperimentato nel deserto.
L’idea di una rivolta contadina chiarisce come mai questa teoria abbia avuto
fortuna nell’epoca in cui è apparsa: si tratta purtroppo di un presupposto finora
non suffragato da prove sufficienti, che ha tuttavia il pregio di sottolineare
l’aspetto sociale, fino ad allora poco considerato, delle origini di Israele. Inoltre,
secondo questa teoria, non ci sarebbe stato alcun arrivo di Israele “da fuori”;
gli israeliti nascono dall’interno stesso della terra di Canaan. Su questo punto
dobbiamo ancora riflettere alla luce di una teoria ancora più recente.
18
presenza di una nuova popolazione: gli abitanti di queste località non
sembrano differenziarsi dalle locali popolazioni cananaiche né per le tecniche
edilizie o agricole usate né per la ceramica né, più in generale, per la cultura.
Ciò si spiega solo affermando che tra Israeliti e popolazioni cananaiche non vi
sarebbero vere e proprie differenze etniche: Israele non avrebbe soppiantato
d’un colpo le altre popolazioni cananaiche, anch’esse di origine semitica, ma si
sarebbe gradualmente affiancato ad esse, differenziandosi da loro soprattutto
sul piano religioso. Se ciò fosse vero, gli Israeliti sarebbero il prodotto, e non la
causa del collasso delle città-stato cananaiche.
Già su questo piano tuttavia, si possono osservare notevoli parentele tra gli
Israeliti e le altre popolazioni cananaiche: per esempio, il Dio El, adorato dai
patriarchi (cf. Gen 33,20), porta lo stesso nome del capo degli dei cananaici.
Portando all’estremo le conseguenze di simili affermazioni si è oggi arrivati a
sostenere la tesi di un “Israele cananeo” . Solo dopo molto tempo YHWH si
29
imporrà su Baal, uno dei più importanti dèi del paese di Canaan (si ricordi la
sfida di Elia con i sacerdoti di Baal narrata in 1 Re l8), un processo che si
completerà finalmente in epoca esilica (VI sec. a.C.).
Quella che noi chiamiamo “conquista” va dunque riconsiderata come un
processo molto più complesso che i testi biblici, sia il libro di Giosuè che quello
dei Giudici, hanno successivamente riletto alla luce della loro peculiare visione
religiosa: si ritiene oggi, ad esempio, che la concezione relativa all’esistenza
delle dodici tribù unite nasca solo dopo l’istituzione della monarchia. Il libro di
Giosuè ha conservato e amplificato una tradizione militare che deve essere
stata minima, mentre la versione del libro dei Giudici appare storicamente più
verosimile; i singoli gruppi tribali vivono separati tra loro e si uniscono per
ragioni di difesa o in base a una fede religiosa comune.
Nella varietà delle teorie proposte, e a proposito di quest’ultima in modo
particolare, resta da risolvere la contraddizione esistente tra questi elementi:
la coscienza biblica di un Israele “straniero” (il soggiorno in Egitto e il cammino
nel deserto), che appare difficilmente conciliabile con la teoria della rivolta
contadina; la presenza dell’influsso cananaico (si potrebbe più esattamente
parlare di identità etnica con i Cananei); il sorgere di una forma di monoteismo
del tutto diversa dalla religione cananaica; i dati archeologici, infine, spesso
essi stessi contraddittori. Il problema resta più che mai aperto: l’unico
elemento oggi acquisito sembra essere soltanto il rifiuto della visione
tradizionale della “conquista”, almeno quella narrata da Giosuè in una chiave
che in ogni caso indulge senza alcun dubbio più al genere epico che alla storia.
Tutto ciò ci conduce a rivalutare almeno in parte il racconto dei Giudici e a
vedere le origini di Israele come un fenomeno lento e complesso nel quale non
possiamo escludere azioni militari su scala ridotta, infiltrazioni graduali,
parentele strette tra “israeliti” e “cananei”. Queste considerazioni hanno infine
una grande importanza sul nostro modo di leggere i racconti biblici, più che
come cronaca di fatti, come ciò che Israele pensava, teologicamente e persino
politicamente, riguardo a questi eventi.
29 Si vedano a questo proposito gli studi di P. A RATA MANTOVANI, «La conquista di Israele»,
Rivista Biblica Italiana, 36 (1988) 47-60. «Israele, come entità religiosa distinta dal circondario
non emerge fino all’età persiana ed è addirittura molto difficile da scorgere fino a quella
ellenistica» (p. 58). L’affermazione, se potrebbe trovare qualche appoggio su un piano
rigidamente archeologico, appare una proclamazione di principio che non tiene conto,tra
l’altro, della tradizione biblica che risale certamente al di là dell’epoca persiana.
19
e. Verso la monarchia: i Giudici.
«In quel tempo non c’era un re in Israele: ognuno faceva quello che gli pareva
meglio» (Gdc l7,6): così il libro dei Giudici presenta il periodo che segue
l’ingresso in Canaan, periodo noto appunto con questo termine, i “Giudici”.
Tradizionalmente lo si è fatto estendere dal 1200 sino al 1050 a.C. circa.
Con la parola “giudice” non si deve pensare al giudice di un tribunale quanto
piuttosto a un leader carismatico, un capo militare con poteri precisi nel
momento del bisogno. Il “giudice” israelita ha qualche analogia con i magistrati
fenici che a Cartagine venivano chiamati “suffeti”: in ebraico “giudice” si dice
appunto shophet, dal verbo shaphat che indica sia “esercitare un potere” che
“giudicare” in senso giudiziario. Di questi giudici il testo biblico ne ricorda
dodici, numero chiaramente simbolico: ben noti sono i nomi di Gedeone e
Sansone le cui gesta occupano una larga parte del libro dei Giudici (Gedeone,
da Gdc 6,l fino a 8,35; Sansone, da 13,l fino a 16,31).
Le tribù di Israele appaiono, in questo periodo, ancora slegate tra loro (v. il
paragrafo precedente) e circondate da popolazioni ostili: il libro dei Giudici
interpreta in chiave teologica ogni guerra o semplice scaramuccia sostenuta
dalle varie tribù. La storia di Gedeone inizia con un’affermazione che, nel libro
dei Giudici, è come un ritornello: «gli Israeliti fecero ciò che è male agli occhi
del Signore e il Signore li mise nelle mani di Madian per sette anni» (Gdc 6,l).
La chiamata di Gedeone e la sua vittoriosa campagna militare sono il segno
della salvezza che Dio nonostante tutto continua ad accordare al popolo
servendosi di un uomo appositamente scelto e chiamato, il giudice, appunto:
Ogni giudice dunque, è una figura animata dallo Spirito del Signore mandata
da Dio a liberare il suo popolo, secondo un ben preciso schema ancora una
volta chiaramente teologico piuttosto che storico, che mette in luce la precisa
finalità dell’autore. Oltre ai nemici materiali i giudici sono presentati anche
nell’atto di combattere i culti cananaici, culti agricoli legati alla fertilità: chi ha
letto il libro dei Giudici si ricorderà come si nominano spesso gli dei di Canaan,
Baal e Ashera, e i luoghi di culto legati ai ‘pali sacri’ e alle colline sacre, gli “alti
luoghi”. C’è da chiedersi quanto questa polemica anti-idolatrica sia realmente
una eco del tempo dei giudici o piuttosto una proiezione nel passato di
problemi molto più vivi al tempo in cui il libro dei Giudici è stato scritto.
Da un punto di vista sociale, la base della società del tempo sembra essere la
famiglia, la bet-’ab, cioè in ebraico la “casa del padre”, intesa come famiglia
patriarcale, composta dal nonno, dai figli, dai nipoti, tutti a loro volta con le
rispettive famiglie, cui si devono ancora aggiungere gli altri parenti stretti e i
servi. Questa famiglia allargata, unita ad altre famiglie, spesso imparentate fra
loro, forma un clan, cui si può far corrispondere, con qualche approssimazione,
un intero villaggio. I clan viventi in un dato territorio, legati tra loro da
tradizioni comuni, si considerano una “tribù”, un’entità indipendente, legata
20
solo occasionalmente, come già si è accennato, ad altre tribù, spesso per
motivi religiosi (pellegrinaggi ad un unico santuario) o militari (difesa contro un
nemico comune). Le tribù che si troveranno riunite, oltre che da legami etnici,
economici e politici, dalla fede in uno stesso Dio, YHWH, formeranno quello che
poi diventerà il popolo di Israele.
Del periodo dei giudici, al di là delle tradizioni popolari su personaggi come
Gedeone e Sansone, resta l’immagine di un Israele in corso di
sedentarizzazione, ancora non unito come un solo popolo e insediato soltanto
in alcune zone del paese di Canaan. Le battaglie di cui anche il libro dei Giudici,
come già quello di Giosuè, è costellato, conservano il ricordo delle tensioni con
le popolazioni locali e confinanti, generate verosimilmente in scontri di varia
entità che, come vedremo, porteranno le tribù a unirsi e saranno una delle
cause principali della nascita della monarchia.
***
CAPITOLO III
30 L’introduzione del ferro nel panorama del Vicino Oriente Antico è uno dei principali fattori
del mutamento politico e culturale che caratterizza il XII sec.; sull’importanza di questa
21
tratta infatti di una popolazione appena arrivata e dunque in fase di
espansione, in conflitto con le popolazioni locali e, tra queste, gli Israeliti. Ben
noti alla Bibbia, i Filistei diventeranno il nemico di Israele per eccellenza,
almeno per tutta la prima parte dell’epoca monarchica.
22
è il re malvagio, presentato quasi come un uomo afflitto da turbe mentali che
insidia la vita del suo giovane e valoroso scudiero David, del quale è follemente
geloso:
volte, secondo solo ad altri due nomi propri, significativamente YHWH e Israele.
Nel 1993 è stata scoperta a Tel Dan, nel nord d’Israele, una stele in aramaico
che riporta un’iscrizione attribuita a Cazaèl, re di Damasco (cf. 1Re 19,15) e
databile circa nell’anno 853 a.C., dove Cazaèl si vanta di aver ucciso dei re
della “casa di David”: questo discusso testo potrebbe essere forse la prima
conferma storica, fuori dai testi biblici, dell’esistenza di David qui ricordato a
poco più di un secolo dalla morte.
Di fronte al grande spazio che David ha nel testo biblico, nell’Antico ma anche
nel Nuovo Testamento, le fonti extrabibliche e l’archeologia
sorprendentemente tacciono. Ancora una volta, se noi non avessimo il testo
biblico a disposizione, di David sapremmo ben poco. Su di lui possiamo leggere
nella Bibbia due cicli importanti di narrazioni: la cosiddetta “storia dell’ascesa
di David al trono” (1Sam 16 - 2Sam 4) e la “storia della successione al trono di
David” (2Sam 9 - 1Re 2) . La prima raccolta narra come David sia riuscito a
33
diventare re, attraverso il conflitto con Saul, fino alla morte di lui in battaglia
contro i Filistei. Il secondo testo è centrato sulla rivolta del figlio Assalonne e,
nella parte finale, sugli intrighi che portano al potere l’altro figlio, Salomone.
31 SOGGIN, Storia di Israele, 201.
32 Per Bibbia Ebraica si intende quella parte dell’Antico Testamento scritta in ebraico che
forma il canone delle Scritture Sacre per l’ebraismo. La Chiesa cattolica aggiunge al canone
dell’Antico Testamento altri testi, per lo più scritti in greco, noti come ‘deuterocanonici’. Si
veda anche la nota ….
33 L’esistenza di una tale “storia della successione” è in realtà oggi molto discussa; si può
pensare all’unità narrativa di 2Sam 10-20 come a una sorta di “biografia teologica” relativa
alla storia del re David e delle conseguenze del suo peccato (2Sam 11-12).
23
Nel mezzo alle due serie di racconti, una sezione più piccola con storie legate
all’Arca della Alleanza (in particolare 2Sam 6) e, in 2Sam 7, la ben nota
profezia fatta a David da Natan concernente il futuro della dinastia davidica.
Questi capitoli sono come piccoli “romanzi storici” che incorporano tuttavia
elementi provenienti probabilmente da annali ed archivi regali e, da questo
punto di vista, costituiscono un vero e proprio testo di propaganda politica. A
più riprese si nota l’interesse teologico del redattore, interesse ancora più
evidente nella storia di David contenuta in 1 Cr 10-29, testo composto
tardivamente, in epoca postesilica. E’ interessante vedere come la figura di
David nei racconti di 1 e 2 Samuele non venga affatto idealizzata; i suoi difetti
e le sue colpe vengono narrate con grande chiarezza (ad es. la storia di
Betsabea in 2Sam 11–12 e il racconto del censimento in 2Sam 24), senza che
vi sia alcuna esaltazione del personaggio.
Una delle prime imprese di David, verso l’anno 1000 a.C., è la conquista di
Gerusalemme, una delle tante città-stato cananee, che David crea subito
capitale del suo nuovo regno (2Sam 5). L’arrivo dell’Arca dell’Alleanza, segno
della presenza del Dio di Israele, (2Sam 6) è il segno più chiaro della
consacrazione di Gerusalemme a capitale del regno. Il motivo è evidente:
Gerusalemme è una città in posizione neutrale, a metà strada tra il nord e il
sud, una chiara scelta di compromesso, cui si aggiunge la favorevole posizione
strategica di cui la città gode. L’archeologia non rivela nessun particolare
ampliamento della città in questo periodo: Gerusalemme aveva dimensioni
estremamente ridotte, limitate alla parte meridionale della collina dell’Ofel (v.
cartina n°2).
L’ascesa di David crea, com’è naturale, un forte contrasto con i vecchi
sostenitori, i Filistei, che tuttavia vengono battuti nelle due campagne narrate
24
in 2 Sam 5,l7-21.23-25. Altre campagne militari condotte da David dentro e
fuori il suo piccolo regno ne consolidano la posizione e gli permettono di
assumere posizioni di forza anche nei confronti degli stati vicini (moabiti,
ammoniti, edomiti, aramei…). E’ molto dubbio che il regno davidico si sia
realmente esteso a spese di tali regni confinanti: in ogni caso non ne abbiamo
nessuna traccia. E’ molto più probabile invece pensare a campagne mirate alla
sicurezza delle frontiere, che non si estendevano al di là della Galilea a nord,
dell’altopiano transgiordanico a est e del deserto del Neghev a sud.
L’estensione reale del regno di David non superava probabilmente di molto i
confini della montuosa Giudea.
25
visione di un David rigorosamente monoteista è frutto della teologia
deuteronomista nata durante il VII sec. a.C. (v. oltre, a proposito di Giosia).
L’importanza della figura di David va in ogni caso molto al di là della sua
portata storica: a lui saranno attribuiti molti salmi, così da farne un modello di
fede; egli diventa poi il fondatore di una dinastia cui la Bibbia vede legata la
promessa divina di fedeltà contenuta in 2Sam 7,l6: «la tua casa e il tuo regno
dureranno per sempre alla mia presenza. Il tuo trono sarà saldo in eterno».
David diventa così una figura messianica (cf. Sal 2; 110), così che Gesù stesso
potrà essere definito “Figlio di David” (Mt 9,27; Rom 1,3).
Il regno di Salomone si sarebbe esteso addirittura dal fiume Eufrate sino alla
frontiera egiziana, almeno secondo il testo di 1Re 5,1-4 che tuttavia riferisce
confini ideali, che Israele non ha mai avuto, in alcun momento della sua storia.
Per quanto riguarda la fama relativa alla sua sapienza, infine, al re Salomone
sono stati attribuiti dall’antica tradizione ebraica i libri biblici del Cantico dei
Cantici, del Qohelet, dei Proverbi e persino della Sapienza, benché in ogni caso
si tratti di opere scritte da autori diversi in epoche molto posteriori (il libro della
Sapienza addirittura alla fine del I° sec. a.C.).
Tutti questi dati assumono nel testo del Primo libro dei Re una veste
autorevole, dato che in 1Re 11,41 viene menzionato un “Libro delle gesta di
Salomone” che, se è davvero esistito, doveva essere una sorta di cronaca uffi-
ciale del suo regno, probabilmente una delle fonti primarie del testo biblico
attuale. In realtà, tale presentazione di Salomone non sembra corrispondere
molto alla realtà storica; i dati reali sono stati notevolmente amplificati e
teologizzati dal narratore e molti indizi ci portano a ridimensionare parecchio
l’immagine di un Salomone “ideale”.
Salomone non era il vero erede al trono, figlio per di più della relazione
illegittima di David con Betsabea, decimo figlio del re: l’inizio della sua storia,
in 1Re 1-2, ce lo mostra intento all’eliminazione progressiva e sanguinosa di
tutti i possibili pretendenti al trono del padre. Il testo biblico cerca di
giustificare moralmente una serie di assassinii politici (Adonia, Ioab, Simei) al
termine dei quali, in 1Re 3, Salomone riceve addirittura l’approvazione divina,
26
durante la notte passata nel santuario di Gabaon. Si tratta dunque di una
legittimazione teologica dell’ascesa al trono di Salomone, nata, com’è facile
pensare, solo a cose fatte.
Il testo biblico è già abbastanza chiaro: anche in questo caso non si deve
tanto pensare, storicamente parlando, a una deviazione morale del vecchio
Salomone, trascinato all’idolatria dalle sue molte mogli, quasi tutte pagane:
Salomone rispecchia in realtà la situazione religiosa tutt’altro che stabile del
suo tempo.
27
comunque del tutto certa, nasceranno più avanti le prime opere sapienziali di
Israele, come ad esempio le parti più antiche del libro dei Proverbi. 36
36 Oggi si tende sempre più pensare che una vera e propria attività letteraria in Israele sia
impensabile prima dell’VIII sec. a.C.; d’altra parte, scoperte recenti come l’abecedario di Tel
Zayit (ostracon del X sec. a.C.) attestano che una qualche attività scrittoria era diffusa in
Israele anche a livelli più popolari, fin dall’epoca salomonica. Cf. R.H. HESS, «Literacy in Iron
Age Israel», in V.P. LONG, D.W. BAKER, G.J. WENHAM (edd.), Windows in Old Testament History.
Evidence, Argument, and the Crisis of “Biblical Israel”, Grand Rapids – Cambridge 2002. 82-
102.
28
sapienza di altri popoli ed altre culture, in particolare Babilonia e l’Egitto. Tale
contatto è amplificato dal testo biblico nell’episodio del matrimonio di
Salomone con la figlia di un non meglio identificato faraone (1Re 3,1). Questo
episodio appare davvero molto strano, specialmente per chi si interessa di
storia egiziana: nessuna altra fonte ne parla, tacciono in special modo le fonti
egiziane e una tale prassi appare del tutto estranea alle usanze faraoniche.
Comunque sia, il racconto vuole mostrare come Salomone si sia costruito una
posizione di potere e relativo prestigio, al contrario di David, più con la
diplomazia ed i contatti commerciali che con le guerre; le narrazioni di episodi
militari infatti, nel testo di 1Re 1-11 hanno una parte insignificante.
Gli ultimi anni del regno ci presentano un quadro molto meno idilliaco: il testo
di 1Re 9,10-14 parla di un Salomone in difficoltà economiche, costretto a
cedere al re di Tiro ben venti città della Galilea settentrionale, come
pagamento di debiti insoluti. I confini del regno appaiono sempre più insicuri,
mentre gli Stati prima amici e alleati iniziano a ribellarsi. Anche l’ascesa della
potenza egiziana, a partire dal faraone Sheshonq I (945-921 ca.) va annoverata
tra le cause del declino del regno. Un ultimo motivo è rappresentato dalle
tensioni interne, causate dalla tassazione eccessiva e dall’obbligo delle
corvées, tensioni che sfoceranno, subito dopo la morte del re, nella rivolta
delle tribù del nord, guidate da Geroboamo (1Re 11,26-40) e nello sfaldamento
del regno, che da allora, fino all’epoca maccabaica, non sarà più unito.
durata poco più di un secolo (Saul - David - Salomone); il regno del nord ha
resistito circa due secoli (fino al 721 a.C.) mentre quello del sud è durato per
un altro secolo e mezzo, sino all’esilio babilonese del 586 a.C.. In tutto il
Pentateuco un solo testo, nell’insieme di tutte le leggi che regolano la vita di
Israele, si riferisce al re: si tratta di Dt 17,14-20 che, significativamente, non
prescrive i doveri dei sudditi nei confronti del loro re quanto piuttosto quelli del
re nei confronti dei suoi sudditi. Il potere dei re di Israele e Giuda è inoltre poca
cosa in paragone alle altre monarchie del tempo.
I caratteri della monarchia israelita non differiscono molto, almeno da un
punto di vista esteriore, da quelli delle altre monarchie del Vicino Oriente
Antico, dove da un lato il re è il vertice di una spesso complessa organizzazione
statale, dall’altro è considerato come una figura divina o semidivina, il “padre”
scelto da Dio per il popolo. Questo carattere sacrale della monarchia è comune
in tutto il Medio Oriente antico: più che evidente per i faraoni egiziani, lo è un
po’ meno nel mondo babilonese, dove il re è il “re dell’intero mondo” scelto da
Dio. Così il re di Israele è anch’egli scelto dalla divinità: ciò vale esplicitamente
per Saul e David, entrambi scelti da un profeta, Samuele, e anche per
37 Una buona descrizione dei compiti del re si trova in DE VAUX, Istituzioni dell’Antico
Testamento, 107-149. Cf., sulla più complessa questione del potere politico in Israele, E.
MANICARDI – L. MAZZINGHI (edd.), Il potere politico: bisogno e rifiuto dell’autorità. Atti della
XXXVIII Settimana Biblica Nazionale, Ricerche Storico Bibliche XVII (2006).
29
Salomone, che prende il potere solo dopo la legittimazione divina a Gabaon
(1Re 3).
Il carattere sacrale dei re israeliti sarà più evidente per il regno di Giuda,
piuttosto che per il regno del nord. Ciò si può spiegare più semplicemente
pensando alla instabilità politica che caratterizzerà il nord, in confronto al
principio dinastico che sembra regolare la successione al trono di Giuda. Nel
testo che sta alla base della ideologia monarchica, la profezia di Natan (2Sam
7), il re è considerato “figlio adottivo” di Dio (si vedano anche Sal 2,7 e 89,27),
pur non venendo mai deificato, come nel caso del faraone. Il re è dunque il
“servo” del Signore (2Sam 7,4.8; Sal 18,1; 36,1 etc.), il “consacrato” di Dio,
che viene unto con olio in segno di tale consacrazione (cf. 1Re 1,39): la parola
ebraica mashiach significa appunto “unto”, cioè “consacrato”; riferita in origine
al re indicherà poi il re futuro, il Messia appunto; in Sal 45,7 il termine “Dio” è
addirittura accostato al re.
La sacralità della monarchia israelita è qualcosa di ancora più profondo: il re è
scelto da Dio come garante del benessere del popolo (v. anche sotto); perciò
era ritenuto molto importante il legame che il re doveva avere con Dio e
soprattutto il fatto che egli ubbidisse per primo alla parola divina. Per questo
motivo in Israele acquista grande valore la parola del profeta, inteso proprio
come il “portavoce” di Dio prima di tutto presso il re. Questo dualismo tra il
potere regale e la sua coscienza critica, il profeta, pur non essendo esclusivo di
Israele ne costituisce una delle caratteristiche più significative.
Va ricordato che quando il movimento profetico attaccherà con forza la
monarchia, la sua critica non sarà rivolta all’istituzione in quanto tale, ma in
quanto essa si è distaccata da questo ideale religioso, anche se profeti come
Osea sembrano guardare al re come a una figura negativa, quasi voluta da Dio
per la punizione del popolo (cf. Os 13,11). In realtà, la storia del re David in
2Sam 10-20, nonostante non cerchi mai di nascondere difetti e peccati del re,
anche molto gravi, non mette mai in questione l’esistenza dell’istituzione
monarchica.
La figura del re israelita è in buona parte simile alle immagini regali che ben
conosciamo nel Medio Oriente antico. Il principio dinastico, l’intronizzazione del
nuovo re hanno buoni paralleli tra i popoli confinanti: il “protocollo” regale, il
documento ufficiale della intronizzazione del faraone Tutmosi III (1468-1436
a.C. ca.) presenta somiglianze con il rituale israelita di incoronazione (cf. 2Re
11,12) e con un testo analogo come il noto Sal 110, salmo di intronizzazione.
Le caratteristiche sacrali sopra accennate, per cui il re è in un rapporto
particolare con Dio, ne fanno il tramite della salvezza tra Dio e il popolo. Il re è
garante “del diritto e della giustizia”, cioè di quella situazione di amicizia tra
Dio e Israele che permette di vivere nello shalom, parola dal significato molto
ampio, che richiama la pace, il benessere, la tranquillità, l’ordine, uno stato di
corrette relazioni tra l’uomo e l’uomo e tra questi e Dio. Il re è visto allora
come il difensore e il salvatore del popolo, il garante della giustizia (si vedano i
Sal 72 e 101).
Il re è poi capo militare, come ci appare già Saul. David e Salomone creeranno
un vero esercito, introducendo il primo i mercenari, il secondo la forza d’urto
dell’epoca, i carri da guerra. Tutte le altre prerogative regali, la corte, l’harem
(noto quello di Salomone, 1Re 11,1), l’amministrazione del regno… non sono
realtà diverse da quelle che conosciamo fuori da Israele. Così anche il fatto che
30
le scuole di sapienza nascano in ambito monarchico è perfettamente in linea
con gli usi che conosciamo relativi alla formazione di nuovi funzionari di corte.
31
11,9-10; Lc 19,38). Se esiste un aspetto che caratterizza i re di Israele rispetto
alle altre monarchie, esso non si colloca sul piano politico, ma piuttosto su
quello religioso.
***
CAPITOLO IV
La principale fonte sulla storia della monarchia israelita dopo Salomone e fino
all’esilio a Babilonia è il racconto che si estende da 1Re 12 fino a 2Re 25. Ad
esso si possono aggiungere le molte notizie contenute nei testi profetici, in
particolare quelli di Isaia, Geremia, in parte anche Ezechiele, nonché il testo
parallelo, ma tardivo, di 2Cr 10-36. Si è già potuto osservare come la
prospettiva del testo di 1-2Re sia senz’altro più teologica che storica: tra i tanti
esempi che si potrebbero portare, si pensi al breve spazio dedicato a re
politicamente importanti sul piano internazionale, come Omri, re di Israele, al
quale il testo biblico dedica appena cinque versetti (1Re 16,23-28). Al
contrario, a un re come Giosia, molto meno importante sul piano politico,
morto giovane in seguito ad una folle campagna contro l’Egitto, il testo di 2Re
dedica ben cinquanta versetti (2Re 22,1-23,30), perchè Giosia fu l’autore di
una importante riforma religiosa che al narratore deuteronomista interessava
molto più delle grandi imprese di Omri.
Rispetto al periodo finora considerato siamo tuttavia in una situazione
migliore: le fonti extrabibliche ed archeologiche iniziano a parlarci di Israele e
ci permettono un confronto con il dato biblico.
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Salomone , si separano dalla tribù di Giuda, dando vita al regno di Israele (che
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Il regno del nord appare in ogni caso molto diverso da quello di Giuda.
Territorialmente si tratta di un regno molto più vasto (v. cartina n°4),
comprendente la Samaria, la Galilea, parte delle regioni transgiordaniche, zone
nel complesso molto più fertili e ricche della montagna di Giuda che costituisce
la maggior parte del territorio del regno del sud. Inoltre, il nord è collocato sulle
principali vie di comunicazione internazionali, tra le quali l’importantissima “via
del mare”, frequentata arteria di collegamento tra l’Egitto e la Siria. Tale via
garantiva anche, attraverso la pianura di Izreel l’accesso al mare che mancava
al regno di Giuda, bloccato sulla costa dal territorio filisteo. Questa posizione
geografica, da un lato davvero vantaggiosa, si trasformerà presto in uno svan-
taggio, esponendo il nord a continue minacce da parte dei popoli vicini, sino
all’invasione assira.
Il regno del sud invece risulta costituito da un territorio molto più ridotto,
montuoso, economicamente povero e isolato sul piano internazionale. La
differenza sul piano territoriale si traduce, com’è comprensibile, in una
differenza anche sul piano economico e quindi su quello militare. Il tentativo
che avrebbe effettuato Roboamo per riportare il nord all’obbedienza, tentativo
effettuato “a caldo”, per stroncare sul nascere ogni velleità di rivolta, si scontra
subito con l’insuccesso: il nord ha un esercito già abbastanza forte per imporsi
sul piccolo staterello di Giuda.
Altra differenza tra i due regni, forse la sola che realmente interessa al testo
biblico, è quella sul piano etnico e religioso. La popolazione del sud è più
omogenea, mentre al nord vi sono ancora nuclei di abitanti di origine e di
religione cananaica e l’influsso delle popolazioni circostanti (fenici, aramei,
assiri) è molto forte. Ciò spiega perché Geroboamo si preoccupi di istituire un
culto parallelo, alternativo a quello di Gerusalemme: il testo di 1Re 12,26 -33
narra la costruzione dei vitelli d’oro nei santuari di Dan e di Betel, vitelli rappre-
39 La rivolta di Geroboamo è già stata preparata dal testo di 1Re 11,26-43, che ne dà allo
stesso tempo un’interpretazione religiosa: Geroboamo riceve la sua missione dal profeta Achia
di Silo. La divisione del regno è interpretata come punizione per i peccati commessi da
Salomone. Geroboamo era, secondo il testo biblico, uno degli alti ufficiali al servizio del re,
probabilmente membro di una famiglia molto in vista, personaggio intorno al quale si
cristallizza l’opposizione antisalomonica.
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sentanti il piedistallo della divinità, anche se non necessariamente Baal, il dio
cananaico che comunque avrà molto spazio nella religione di Israele. Questo è
il motivo per cui l’opera già ricordata del Cronista non si occupa del regno del
nord, se non nei casi in cui le vicende si intrecciano con quelle del sud, il regno
considerato “fedele” a YHWH.
Il primo quarantennio di vita dei due regni è un periodo piuttosto caotico che
vede un continuo scontro tra i due stati. Si tratta di frequenti scaramucce di
frontiera, che spesso assumono il carattere di piccole guerre, dall’esito incerto,
che tuttavia non riescono a modificare il quadro politico che si era ormai
creato.
I primi quattro re di Israele (Geroboamo, Nadab, Baasa ed Elah), che regnano
dal 931 all’885 a.C. circa, dimostrano un altro dei caratteri distintivi del nord: la
sua cronica instabilità politica. Geroboamo e Baasa divengono entrambi re con
due diversi colpi di stato, mentre i loro rispettivi figli, Nadab ed Elah, vengono
subito assassinati, dopo neppure due anni di regno. Tale instabilità viene
aggravata, nei primi anni di Geroboamo, dalla minaccia egiziana. Una
iscrizione in un tempio di Karnak ci ricorda la lista delle città conquistate dal
faraone Sheshonq (925 a.C.), episodio narrato anche in 1 Re 14,25-27. La
42
un certo predominio da parte del nord, fino a che, durante le guerre tra Baasa
di Israele e Asa re di Giuda, quest’ultimo si alleò con Ben-Hadad re degli
aramei residente a Damasco, costringendo il nord a ritornare su posizioni più
pacifiche (si veda 1Re 15,16-22). Il gesto di Asa è l’inizio di una nuova linea
politica, quella delle alleanze di comodo ai danni di un terzo, linea che
ritroveremo spesso, sia al nord come al sud, ma che non sarà senza
conseguenze negative, talora tragiche.
Dopo l’assassinio di Elah sale al trono, nel regno del nord, il re Omri (885-874
a.C. ca.) con il quale abbiamo il primo concreto tentativo di fondare una
dinastia. Cinquant’anni dopo la sua morte, la “casa di Omri” sarà ancora
ricordata negli annali del re di Assiria. Il regno di Omri è narrato, nel testo
biblico, in 1 Re 16,23-28: il brevissimo racconto preferisce soffermarsi piuttosto
sul figlio di Omri, il re Acab, strettamente legato alle vicende del profeta Elia.
42 Chiamato Shishaq in ebraico, il primo faraone esplicitamente ricordato per nome nella
Scrittura (1Re 11,40).
43 La cronologia dei re di Israele e Giuda è tutt’altro che sicura; i diversi autori forniscono date
diverse. Si veda comunque la tabella finale per una visione d’insieme.
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Omri appare sulla scena come un capo militare che riesce a prendere il potere
con il sostegno delle sue truppe, alla morte di Zimri - re per sette giorni! -
sconfiggendo il rivale Tibni: il testo di 1Re 16,16 lo definisce esplicitamente
“capo dell’esercito” ed è tutto quanto sappiamo di lui. Il suo primo atto
importante è la fondazione di una nuova capitale: dalla città di Tirza
l’amministrazione del regno si trasferisce nella nuova città di Samaria, da lui
stesso fondata. La scelta di Omri si spiega facilmente: isolata, al centro di fertili
colline, all’incrocio di strade importanti, Samaria occupa una posizione
strategica. Dodici km a nord di Nablus, Samaria fu più volte distrutta e
ricostruita in epoca romana con il nome di Sebaste; ancora oggi nelle rovine
sono visibili i resti del muro di cinta di epoca israelita. Samaria diventa così
un’importante e grande città, nonostante la Bibbia la liquidi in un solo versetto
(1Re 16,24).
Per controbilanciare l’alleanza fatta dal re di Giuda con la potenza sempre
più crescente degli aramei di Damasco (si ricordi la già citata stele di Tel Dan),
Omri si allea a sua volta con i Fenici di Tiro: tale alleanza sarà sigillata dal
matrimonio del figlio di Omri, Acab, con Gezabele, figlia del re di Tiro (cf. 1Re
16,31). Omri raggiunse una potenza ragguardevole anche in campo militare,
almeno in paragone alla scarsa rilevanza di Israele sul piano internazionale.
Assedia la città filistea di Ghibbethon e annette parte del territorio moabita in
Transgiordania. Di questo fatto abbiamo per la prima volta una conferma
sicura proveniente da una fonte estranea alla Bibbia. Nel 1868 fu casualmente
scoperta in Giordania una stele in basalto nero che, pur semidistrutta dai
beduini che l’avevano trovata (i quali pensavano di trovarvi all’interno un
tesoro!) fu ricostruita e decifrata. L’iscrizione comprende 34 righe, risale agli
anni 842-840 a.C. ed è attribuita a Mesha, re di Moab, contemporaneo di Acab.
E’ molto interessante vederne, almeno in parte, il contenuto:
44 Il testo della stele di Mesha si può leggere in traduzione italiana CIMOSA, L’ambiente storico-
culturale delle Scritture ebraiche, 286-290 (qui riportata con piccole modifiche). Le aggiunte tra
parentesi quadre sono ricostruzioni di un testo perduto; quelle tra parentesi tonde sono invece
esplicative: Camos (Kemosh) è il dio principale dei Moabiti; Madaba e Nebo sono due città della
Transgiordania che Omri aveva conquistato. L’alto luogo di cui si parla all’inizio dell’iscrizione è
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La stele testimonia la realtà delle conquiste fatte da Omri e, allo stesso
tempo, la sconfitta patita, qualche anno più tardi, da Acab, che vide Moab
riguadagnare la sua indipendenza. Il testo biblico di 2Re 3 narra in modo
oscuro e imbarazzato la sconfitta finale di Yoram, figlio di Acab (si veda in
particolare il v. 27). La stele di Mesha si sofferma, com’è da aspettarsi, non
sulle sconfitte patite dai moabiti nel passato (delle quali parla invece il testo
biblico, dal punto di vista di Israele), ma sulla vittoria decisiva e sulla
riconquista dell’indipendenza. Inoltre, mentre nella stele si parla della vittoria
di Moab sul “figlio di Omri” che non è però Acab, ma suo figlio Yoram; ma forse
“figlio” va qui inteso nel senso di “discendente”. La stele è tuttavia altrettanto
importante da un punto di vista religioso perchè è una esplicita testimonianza
del culto di YHWH, Dio di Israele, qui contrapposto al dio nazionale moabita,
Camos.
Sotto la dinastia di Omri la stabilità politica porta, insieme alle vittorie militari,
anche un miglioramento delle condizioni economiche e sociali. Nascono
tuttavia in Israele i primi contrasti dovuti a disparità sociali e soprusi della
classe dirigente, contrasti che col passar del tempo si faranno sempre più
acuti. La storia della vigna di Nabot, fatto assassinare con l’inganno dal re Acab
che voleva impadronirsi della sua proprietà (episodio narrato in 1Re 21) è forse
un’eco di questo tipo di problemi.
Da un punto di vista religioso il testo biblico dà un giudizio estremamente
negativo sul regno del nord e in modo particolare su Acab:
«Acab, figlio di Omri, fece ciò che è male agli occhi del Signore,
peggio di tutti i suoi predecessori (…) Eresse un altare a Baal nel
un luogo di culto della religione moabita. I ‘vasi’ sacri di YHWH non sono ancora qualcosa di
pienamente identificato.
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tempio di Baal che aveva costruito in Samaria. Acab eresse anche un
palo sacro e compì ancora altre cose irritando il Signore Dio di Israele
più di tutti i suoi predecessori» (1Re 16,30-33).
Durante il periodo della dinastia di Omri, il regno del sud è eclissato dalla
potenza del nord. I rapporti tra i due regni dovevano essere comunque
migliorati, se in 2Re 3,4 vediamo Giuda combattere accanto a Israele.
Dei successori di Asa, Giosafat e Yoram, sappiamo ben poco. Di Giosafat, il
testo di 1 Re 22,48-50 riferisce un tentativo di spedizione marittima andato a
vuoto, tentativo la cui reale storicità ci sfugge. Secondo 2Cr 17,1-9 e 2Cr19,1-
11, Giosafat appartiene a quei pochi re “giusti” che intrapresero riforme,
soprattutto di tipo religioso: di tentativi del genere non rimangono tuttavia
tracce, al di là del testo tardivo del Secondo Libro delle Cronache.
Alla morte del successore di Giosafat, Yoram (842), sale al trono Ahazia, che
viene subito ucciso, dopo neppure un anno di regno, mentre la regina-madre
Atalia, figlia di Acab e Gezabele (84 -835 a.C.), che aveva assunto la reggenza
dopo aver ucciso tutti i possibili pretendenti, viene a sua volta detronizzata da
un colpo di stato, probabilmente ad opera delle classi sacerdotali e nobiliari,
che porta al potere il giovane Yoash, figlio di Ahazia.
Un sanguinoso colpo di stato mette fine alla dinastia degli Omridi: con
l’appoggio dei circoli profetici - il testo biblico parla di Eliseo - un alto ufficiale
dell’esercito, di nome Yehu (841-814 a.C.), stermina tutta la famiglia di Acab, a
cominciare dalla moglie Gezabele e, allo stesso tempo, restaura con la forza il
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culto di YHWH, facendo massacrare tutti i profeti di Baal (l’episodio è narrato in
2Re 10,18 -28). E’ molto interessante osservare come il testo di Os 1,4 offra
una visione del tutto negativa dell’opera di Yehu. Si tratta in realtà di due punti
di vista diversi; mentre il testo deuteronomista esalta la riforma religiosa del
nuovo re, il profeta Osea ne condanna i metodi violenti. Si comprende bene
come la storiografia biblica è in ogni caso sempre guidata da intenti teologici.
La rivolta di Yehu si inserisce in un movimento più vasto di destabilizzazione
che coinvolge l’intera regione; nello stesso periodo, infatti, un analogo colpo di
stato ha luogo tra gli aramei di Damasco, dove un certo Cazael prende il po-
tere, assassinando il re legittimo. E’ interessante notare come anche in questo
caso ciò sembra avvenire con l’appoggio indiretto di Eliseo, almeno secondo il
testo di 2 Re 8,7-15.
A partire da questa data tuttavia (841 a.C.) la potenza di Israele comincia a
declinare: il cosiddetto obelisco nero, un’iscrizione assira del tempo di
Salmanassar III, ricorda il tributo pagato da “Yehu, figlio di Omri” al re assiro; si
tratta della prima raffigurazione di un re d’Israele che noi possediamo. In realtà
Yehu non era affatto figlio di Omri, ma questa è un’ulteriore testimonianza
della notorietà della dinastia omride in campo internazionale. Ciò ci fa poi
sospettare che il colpo di stato di Yehu non fosse avvenuto senza l’appoggio o
quanto meno l’approvazione dell’Assiria: in questo caso, le motivazioni
religiose passerebbero in secondo piano. Pochi anni più tardi, il re di Israele
Yoash (tra il 798 e il 783 a.C. ca.) appare ormai come semplice vassallo
dell’Assiria, come ci testimonia un altro documento, la stele assira di Adad-
Nidari trovata a Tell Rimah, risalente a circa il 797 a.C. E’ significativo che il
testo biblico non menzioni né la sottomissione di Yehu né quella di Yoash;
mentre gli assiri ci hanno comprensibilmente tramandato le loro vittorie, i
narratori biblici hanno evitato di raccontarci episodi meno favorevoli a Israele.
Con il successore di Yoash, il regno del nord gode del suo ultimo periodo di
splendore. Il re Geroboamo II, infatti,) riesce a restaurare la situazione di
relativa pace e sicurezza del tempo di Omri. Geroboamo (783-743 a.C. circa,
tra l’altro, è il primo re israelita di cui esista un reperto archeologico sicuro: si
tratta di un sigillo ritrovato a Meghiddo, importante città in posizione
strategica, lungo la via del mare, alle pendici del monte Carmelo, sigillo che
porta la firma di “Shema, servo (cioè probabilmente ‘ministro’) di Geroboamo”.
In questo periodo, molto vitale come si è visto, abbiamo altre testimonianze
scritte: negli scavi di Samaria furono trovati, nel 1910 numerosi ostraka, parola
greca con la quale gli archeologi chiamano i “cocci” usati come tavolette per
scrivere. Si tratta di bollette di accompagnamento per olio e vino destinati al
palazzo reale di Samaria, databili tra il 778 e il 770 a.C.. Questi preziosi reperti
testimoniano tra l’altro la prosperità e il benessere del regno di Geroboamo, o
almeno quello della sua corte. L’ascesa di Geroboamo è senz’altro favorita da
una causa esterna, il crollo del regno arameo di Damasco, distrutto dagli assiri,
ormai in costante espansione. Il testo di 2Re 14,25 (v. anche Am 6,13) ci
ricorda anche come Geroboamo sia riuscito a riconquistare una parte della
Transgiordania, cioè quelle regioni già sottomesse da Omri.
Il regno di Geroboamo è per noi importante perchè è proprio in questo
periodo che si colloca l’opera dei primi due profeti scrittori, Amos e Osea (cf.
Am 1,1 e Os 1,1). Questa coincidenza ci spinge a soffermarci sulle condizioni
sociali allora esistenti. Alcuni testi di Osea sembrano far riferimento
all’anarchia politica precedente il regno di Geroboamo: si vedano ad esempio
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Os 7,6-7 e 13,10-11. Ancora sul piano politico, Osea denunzia la politica di
compromesso dei sovrani Israeliti, che concludono alleanze ora con l’Egitto, ora
con l’Assiria, a seconda delle circostanze:
Durante questo periodo il regno del sud si trova ancora una volta oscurato
dall’influsso del nord, in particolare durante il regno di Geroboamo. Suo
contemporaneo fu il re Azaria chiamato anche Ozia o Uzzia (781-740 a.C., ma
in questo caso la datazione è molto incerta), personaggio poco conosciuto, del
quale il testo di 2 Re 15,5 afferma che era lebbroso. Sotto Azaria-Ozia il regno
del sud sembra godere di una relativa prosperità, anche se non nella misura di
quella che abbiamo visto a proposito del nord: il testo di 2Cr26-27 parla a
lungo di questo re, in termini piuttosto entusiastici, che contrastano con le
stringate notizie forniteci dal racconto più antico di 2Re 15,l-7. La situazione
descrittaci da Isaia nel capitolo 2 rispecchia, sembra, la ricchezza, ma anche
l’ingiustizia sociale, dell’epoca di Ozia:
E’ nell’anno della morte del re Ozia che Isaia colloca l’inizio della sua missione
(Is 6,l). Durante il regno di Ozia le relazioni con il nord dovevano essere state
buone; i confini dei due regni messi insieme non sono diversi da quelli
raggiunti molto tempo prima in epoca salomonica. Questo periodo vede
dunque i momenti migliori sia per Israele che per Giuda - pur ricordando la
denunzia profetica. Si tratta tuttavia di una prosperità molto più apparente che
reale, che prelude infatti a un veloce declino.
Dopo la morte di Geroboamo II, il regno del nord piomba ben presto in un
nuovo e ben più grave periodo di anarchia. Due re vengono assassinati uno
dopo l’altro: si tratta di Zaccaria e Sallum, uccisi nello stesso anno (743 a.C.). Il
fattore decisivo per la caduta di Israele viene tuttavia dalla nuova ondata
assira. Probabilmente intorno al 745 a.C. sale al trono dell’Assiria il re Tiglat-
Pileser III che mette in atto un ambizioso programma di conquiste e di
espansionismo che lo conduce a una politica estremamente aggressiva. In
breve tempo, la potenza assira si estenderà dal Tigri e dall’Eufrate, sino al
Mediterraneo; dai confini dell’Asia Minore sino al deserto del Neghev,
giungendo a minacciare lo stesso Egitto. La forza dell’Assiria è prima di tutto
sul piano militare: per la prima volta viene usata la cavalleria come forza
d’assalto, accanto all’uso, ormai diffuso, dei carri da guerra. La ferocia e la
crudeltà dell’esercito assiro erano ben note nell’antichità tanto che un testo di
Isaia può descrivere gli assiri come bestie feroci lanciate all’assalto:
***
CAPITOLO V
Dopo il crollo del regno del nord, Giuda è ridotto a un piccolissimo Stato, del
tutto insignificante nel panorama storico internazionale, uno dei pochi regni
rimasti ancora indipendenti e non soggetti direttamente all’Assiria, di cui
tuttavia è vassallo, in seguito al tributo pagato da Acaz a Tiglat Pileser. La
Giudea costituisce in questo periodo una sorta di stato cuscinetto tra l’Assiria e
l’Egitto. Unico erede poi delle tradizioni religiose israelite, il regno del sud
diviene il centro di elaborazione di testi biblici come probabilmente già quelli
della scuola deuteronomista e dei profeti “scrittori” come Isaia e Michea.
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potenza delle truppe assire in un celebre bassorilievo, ritrovato nel palazzo di
Ninive, oggi al British Museum di Londra. In quest’opera stupenda, che occupa
una intera parete, possiamo osservare la presa da parte dell’esercito assiro
della città di Lakish, una delle roccaforti di Giuda (2Re 19,8). Sennacherib pose
l’assedio a Gerusalemme, fatto del quale si vanterà poi nei suoi annali,
affermando di avervi rinchiuso Ezechia “come un uccello in gabbia”.
Improvvisamente però, Sennacherib tolse l’assedio, facendo ritorno a Ninive.
Non conosciamo i motivi reali di questo gesto: si può pensare ad una epidemia
scoppiata nell’esercito assiro, all’arrivo di un forte contingente egiziano in
soccorso di Ezechia, oppure a motivi politici interni (poco tempo dopo
Sennacherib finirà assassinato da parte dei suoi stessi figli); si può anche
pensare alla riuscita di trattative che prevedevano un atto di sottomissione da
parte di Ezechia il quale, ad ogni buon conto, invia a Ninive una grande
quantità d’oro e d’argento come tributo. Comunque sia, il testo di 2Re 18,13-
19,36 (cf. anche Is 36-39) interpreta l’avvenimento come un chiaro segno
dell’aiuto divino per Ezechia: ancora una volta la Bibbia legge i fatti in chiave
teologica, dando in tal modo un giudizio positivo su Ezechia. Egli, in realtà,
lasciò un regno ancor più indebolito, semidistrutto, come anche l’archeologia ci
testimonia, territorialmente ridotto quasi soltanto a Gerusalemme e i suoi
immediati dintorni:
Con Manasse, figlio di Ezechia, siamo di fronte al regno più lungo di tutta la
storia di Israele: ben 45 anni (dal 687 al 642 a.C. circa), secondo le fonti
bibliche, ancora una volta le uniche disponibili a questo riguardo.
Il regno di Manasse coincide con il periodo di massima potenza dell’impero
assiro: gli Assiri controllano ormai tutta la regione che va dalla Siria fino al
Sinai, dall’Anatolia sino all’Arabia. A partire dal 671 a.C. il re Asshardon e il suo
successore Assurbanipal arrivano persino a conquistare l’Egitto, raggiungendo
così l’apogeo dell’impero. Della conquista assira dell’Egitto abbiamo una eco in
Na 3,8-10: qui il profeta ricorda con sarcasmo le vittorie passate degli assiri -
ormai in decadenza, al tempo in cui Nahum scriveva, ovvero nella seconda
metà del VII sec. a.C.:
46 Tebe, nel delta del Nilo, fu saccheggiata dalle armate di Assurbanipal nel 663 a.C.
44
seduta tra i canali del Nilo,
circondata dalle acque ?
Per baluardo aveva il mare,
per bastione le acque.
L’Etiopia e l’Egitto erano la sua forza,
che non aveva limiti (…).
Eppure anch’essa fu deportata,
andò schiava in esilio.
Anche i suoi bambini furono sfracellati
ai crocicchi di tutte le strade.
Sopra i suoi nobili si gettarono le sorti
e tutti i suoi grandi furono messi in catene».
(Na 3,8-10).
46
grande “storia deuteronomistica”, che dal libro di Giosuè si estende attraverso
il libro dei Giudici, i due libri di Samuele e i due libri dei Re.
La riforma religiosa di Giosia ricorda quella già vista a proposito di Ezechia,
ma è senz’altro molto più radicale. Il re si dedica, secondo il testo biblico, a una
eliminazione sistematica dei culti non yahwisti: fa bruciare statue e altari,
distrugge santuari e accentua ancora di più il carattere di centralità che già il
Tempio di Gerusalemme aveva: un solo Dio, YHWH, un solo popolo, un solo
Tempio. Il testo di Dt 12-26 riflette questa situazione; il testo di 2Re 23,21-23 ci
ricorda l’importanza della celebrazione pasquale nel quadro della riforma
giosiana. Il primo periodo di predicazione di Geremia presenta qualche
relazione con questa riforma, anche se la portata dei rapporti tra Geremia e
Giosia resta a ancor oggi un problema aperto. La riforma deve aver incontrato
notevoli resistenze e ancora molto tempo dopo Giosia vediamo il permanere di
luoghi di culto israeliti all’interno della Giudea, segno che almeno parte della
popolazione non era molto sensibile alle esigenze di una assoluta fedeltà allo
yahwismo, così come voleva la riforma di Giosia.
Il regno di Giosia ebbe una fine improvvisa: dopo il 612, sparita dalla scena
l’Assiria, il faraone Necao intraprende una campagna verso il nord di Israele,
forse nel tentativo di contrastare l’avanzata babilonese. Giosia tentò forse di
disturbarne i piani, oppure si illuse, nel mutato panorama internazionale, di
riconquistare un minimo di indipendenza, giocando sul contrasto tra Egitto e
Babilonia in seguito al crollo assiro. Il tentativo sfocerà in un fallimento: il
faraone Necao fece uccidere Giosia nel 609, nella città di Meghiddo, in
circostanze oscure. In 2 Re 23,29 si legge solo che Giosia andò incontro a
Necao a Meghiddo, ma questi “lo uccise appena lo vide”. La reticenza di questo
testo si può forse spiegare col fatto che la morte di Giosia fu certamente un
evento tragico per i promotori della riforma, che vedevano in lui il difensore
della fede yahwista; l’opera del re, di cui la scuola deuteronomista si farà
portavoce, tuttavia sopravviverà alla sua morte e troverà un proseguimento
ideale nel periodo dell’esilio e subito dopo il ritorno.
Gli ultimi anni del regno di Giuda si caratterizzano come un periodo di crisi e
di grande confusione. Alla morte di Giosia, il partito riformatore tentò di
proseguire la politica del re defunto, nominando come successore il figlio
maggiore di Giosia, Yoachaz. Questi si presentò a Necao, di ritorno dalla
campagna condotta nel nord della terra di Israele, facendo atto di
sottomissione, ma il faraone lo depose e lo esiliò in Egitto, nominando un re di
suo gradimento, un altro figlio di Giosia, Eliakim, cambiandogli il nome in
Yoaqim.
Yoaqim (609-598 a.C.) fu, secondo il racconto di 2Re 23,36-24,7, un
personaggio debole e tirannico, legato al faraone che lo aveva messo al
potere. Una delle sue imprese fu l’istituzione di nuove forme di tassazione in
un paese già duramente provato dalla povertà (cf. 2Re 23,35). Il libro di
Geremia insiste sugli scontri che il profeta avrebbe avuto con questo re: è
all’inizio del regno di Yoaqim che Geremia avrebbe tenuto il suo noto discorso
contro la fiducia quasi magica riposta dagli Israeliti nel loro Tempio, simbolo
della protezione divina sulla città (Ger 7 e 26). Dietro queste prese di posizione
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occorre vedere anche la critica di Geremia alla politica filoegiziana del re,
critica che raggiunge toni molto espliciti in testi come Ger 22,13-17 e so-
prattutto 36,27-31:
La reazione del re, che fa arrestare il profeta, alla luce di queste parole è
certamente ben comprensibile. Un caso analogo è quello dell’uccisione del
profeta Uria, ricordato in Ger 26,20-23.
La posizione di Geremia è dettata da motivi religiosi, ma anche politici. Il
profeta si fa portavoce di un partito non propriamente filobabilonese, ma
piuttosto attento a un realismo politico che vedeva la sottomissione a
Babilonia come il minore dei mali per il piccolo regno di Giuda e la ribellione
come preludio ad una inevitabile distruzione. E’ chiaro tuttavia come una tale
posizione può essere facilmente intesa come collaborazionismo; in effetti,
dopo la morte di Sedecia, Geremia sarà trattato dai Babilonesi come un loro
amico (Ger 39,11-14; 40,1-6).
Nel 605 a.C. il faraone Necao subì come si è detto una pesante disfatta nella
battaglia di Karkhemish, presso l’Eufrate, ad opera del re babilonese
Nabucodonosor. Tutta la regione siro-palestinese, e quindi anche il regno di
Giuda, cadono sotto la dominazione babilonese. Il re Nabucodonosor non riuscì
tuttavia a sfruttare sino in fondo il successo ottenuto, a causa di disordini
interni al suo regno e si accontentò di ricevere da Yoaqim, che nel frattempo
aveva prontamente cambiato bandiera, il solito tributo. Nel 601, però, l’Egitto
riesce a riprendersi e a sconfiggere o quanto meno a contenere, l’avanzata
dell’esercito babilonese. Yoaqim cercò nuovamente di approfittare della
situazione e di ritornare alla precedente alleanza con l’Egitto, ma questa volta
Giuda è ormai soltanto una pedina di un gioco molto più vasto.
Per reprimere quella che considera la rivolta di un modesto vassallo,
Nabucodonosor, nel 598 a.C., marcia su Gerusalemme e la assedia. L’episodio,
riportato in 2Re 24,10-17 ci è noto anche dalle Cronache Babilonesi:
48Possediamo le cosiddette “tavolette Weidner”, testi babilonesi uno dei quali è databile nel
592, che menzionano Yoakhin alla corte di Babilonia come “re di Giuda”, oppure come “figlio
48
persone, membri in gran parte della classe dirigente, nobili e sacerdoti, tra i
quali anche il profeta Ezechiele: si tratta della prima deportazione. Come le
Cronache Babilonesi ci riferiscono, insieme al testo di 2Re 24,17,
Nabucodonosor nominò un re di suo gradimento, un altro figlio di Giosia, cui
diede il nome di Sedecia, che sarà l’ultimo re di un regno di Giuda
indipendente.
La politica vacillante e compromissoria di Sedecia ci è nota dai capitoli 32-38
di Geremia. La Giudea si trova ormai a un passo dalla rovina e Geremia
denuncia la irresponsabilità di coloro che ancora vorrebbero migliorare la
situazione alleandosi ora con l’Egitto ora con Babilonia, secondo un uso ormai
consolidato ma, come si è visto, fallimentare. Spinto forse dall’Egitto che, con
il successore di Necao, Psammettico II, cercava un’ulteriore rivincita sui
Babilonesi, Sedecia si ribella in due occasioni contro Nabucodonosor; nel 594/3
tenta di formare una prima coalizione antibabilonese, nel 589/588 un’illusoria
alleanza con l’Egitto.
Nabucodonosor, nel 587 a.C., torna nuovamente in Giudea per reprimere la
nuova rivolta e assedia per la seconda volta Gerusalemme. Nei resti bruciati di
Lakish, una delle ultime città israelite a cadere (cf. Ger 34,7), sono state ritro-
vate alcune lettere, scritte su frammenti di coccio, reperti emozionanti che
testimoniano in modo drammatico dell’avanzata inarrestabile dell’esercito
babilonese. Dopo due anni di assedio, Gerusalemme viene costretta alla fame
e quindi conquistata; siamo nel giugno/luglio del 587: «nel quarto mese, il
nove del mese, mentre la fame dominava nella città e non c’era più pane per
la popolazione, fu aperta una breccia nella città» (Ger 52,6-7). Tutto questo
accade senza che nel frattempo si sia visto nessun tipo d’intervento da parte
dell’alleato egiziano (Ger 37,5.11 e Lam 4,17). Sedecia cercò di fuggire dalla
città assediata, ma venne catturato e gli fu riservata la sorte dei vassalli ribelli:
Nabucodonosor ne fa massacrare l’intera famiglia, lo fa accecare e lo conduce
in catene a Babilonia (Ger 39,1-10; 2Re 25, 1-7). La città viene saccheggiata,
il tempio di Salomone distrutto e gran parte della popolazione esiliata: «Giuda
va in esilio, è deportata, soffre per la sua schiavitù e la sua miseria» (Lam
1,3) .
49
e. Sacerdozio e profetismo.
49 Il libro delle Lamentazioni è costituito da 5 poemi che hanno al centro il dolore per la
distruzione di Gerusalemme, dovuta, secondo l’autore, al peccato del popolo cui si
contrappone però la speranza nel perdono divino (si veda ad esempio Lam 5). Il testo,
composto poco tempo dopo i fatti, probabilmente da qualcuno che ne era stato diretto
testimone, fa ben comprendere lo stato d’animo degli abitanti della Giudea di fronte a questa
terribile catastrofe nazionale.
49
Prima dell’avvento della monarchia non esisteva in Israele un’istituzione
sacerdotale ben delineata. Nel libro della Genesi le tradizioni patriarcali ci
presentano i diversi personaggi, Abramo, Isacco, Giacobbe, esercitare uffici
cultuali come ad esempio offrire un sacrificio (Gen 22; 31,54; 46,1). Ancora nel
periodo dei Giudici solo occasionalmente si parla di sacerdoti in relazione a
santuari locali (Gdc 17,5-12) né sembra esistesse un particolare rito religioso
di “ordinazione”. Il sacerdote era dunque una persona scelta per il servizio in
un determinato santuario, del quale diventava il custode. Una delle sue
funzioni principali sembra essere in questo primo periodo della storia di
Israele, quella di pronunciare oracoli in nome del Signore. Le tradizioni del
Pentateuco parlano di una usanza descritta come “cercare” il Signore (Es
33,7), cioè consultare il sacerdote per conoscere la volontà di Dio. Dt 33,8 e
altri testi riferiscono che il sacerdote proclamava la decisione divina tirando a
sorte per mezzo di due oggetti sacri, chiamati gli Urim e i Tummim, i cui
particolari ci restano sconosciuti.
A partire dall’epoca monarchica la funzione oracolare dei sacerdoti viene
sempre più messa in ombra, a vantaggio di quella dell’insegnamento. Ancora il
testo di Dt 33,10 affida ai sacerdoti l’incarico di “insegnare” le tôrôt (plurale di
tôrah, la Legge), ossia le “istruzioni” al popolo (cf. Mi 3,11; Ger 18,18; Ez 7,26).
L’accusa profetica contro i sacerdoti, che hanno tradito la Legge che dovevano
insegnare, riflette bene l’importanza di questo compito che, dopo l’esilio,
passerà, sembra, ai leviti e in seguito agli scribi e ai dottori della Legge (v.
oltre).
In epoca monarchica il compito primario dei sacerdoti diventa offrire i
sacrifici: Saul, David e Salomone esercitavano questa funzione, che come si è
detto, almeno in un primo tempo, non era una prerogativa strettamente
sacerdotale. Così l’uccisione della vittima, nel caso di sacrifici cruenti, veniva
fatta, anche in epoche successive, dallo stesso offerente o dal clero inferiore.
Al sacerdote spetterà invece, almeno a partire dall’VIII secolo a.C., il privilegio
dell’offerta della vittima, in particolare l’offerta del sangue e quella
dell’incenso, gesti che mettono in diretto contatto con l’altare. In tal senso il
sacerdote è considerato come un mediatore tra Dio e l’uomo.
Verso la fine dell’epoca monarchica, iniziando dai testi di Ezechiele, diviene
sempre più esplicita la distinzione tra sacerdoti e leviti (Ez 44,6-31), che dopo
l’esilio verranno a costituire un vero e proprio secondo grado sacerdotale.
Caratteristica fondamentale del sacerdozio in epoca monarchica è la sua
subordinazione al potere regale. Sia il Tempio di Gerusalemme che i santuari
del nord erano santuari del re e il sacerdote ne era il funzionario. In Am 7,10-
13 il sacerdote Amazia contesta al profeta Amos il diritto di parlare nel
“santuario del re e nel tempio del regno”. In 1Re 4,2 e 2Re 12,5-17 si possono
vedere esempi relativi al controllo esercitato dal re sui sacerdoti. La stessa
figura del “sommo sacerdote” o “sacerdote capo”, per quanto riguarda il regno
di Giuda, non doveva avere gran peso e appare comunque di gran lunga
inferiore al re, almeno sino all’epoca dell’esilio.
50
radicale. In realtà abbiamo testi, come il vivace capitolo 22 di 1Re, che
testimoniano l’esistenza di gruppi profetici legati alla monarchia, i “profeti
cultuali”, che il re consultava prima di compiere qualche passo importante.
Sembra allora che ai profeti sia passato il compito oracolare proprio dei
sacerdoti in epoca premonarchica.
E’ estremamente difficile descrivere i rapporti esistenti tra questi profeti di
corte e i profeti dei quali conserviamo gli scritti. I testi di Mi 3,5.11, Ger 23,16-
17.25.28 e altri testi ancora lanciano accuse contro queste persone,
considerate “falsi profeti”, professionisti che agivano per denaro.
Ciò che accomuna i profeti scrittori, invece, è la coscienza della propria
vocazione, la consapevolezza di annunziare un messaggio che non è proprio,
ma divino, ricevuto e proclamato anche contro la propria volontà (cf. Ger 20,7-
9). Inoltre, i profeti del preesilio sono caratterizzati dalla fede incrollabile in
YHWH e nel rapporto privilegiato che Egli ha con Israele; i profeti si
propongono come interpreti autentici della parola di YHWH nella storia degli
uomini, annunziatori allo stesso tempo di condanna e di speranza. L’infedeltà
del popolo, in modo particolare, trasforma il messaggio profetico nell’annunzio
del giudizio divino sulla storia.
I profeti non sono di per sé ostili alla monarchia in quanto tale (è il caso di
Amos e Osea), ma solo in quanto il re è venuto meno alla fedeltà a Dio. Non si
può dunque parlare dei profeti come di semplici agitatori politici, come talora
si è fatto in passato. Si deve pensare piuttosto ad uomini profondamente
interessati alla storia del loro tempo, che essi giudicano in base a quella
“parola di Dio” che affermano di aver ricevuto; in tal senso i profeti
costituiscono una sorta di “coscienza critica” della monarchia e dell’intero
popolo d’Israele.
***
CAPITOLO VI
52 Per alcuni degli interessantissimi ostraka trovati negli scavi di Lakish cf. CIMOSA, L’ambiente
storico-culturale, 322-323.
51
Nella Giudea restarono, dopo le due deportazioni, solo le classi più povere
della popolazione: se possiamo dar credito al testo di 2Re 25,12 si trattava
soltanto “vignaioli e contadini”, cioè le classi sociali più basse. L’economia è in
ogni caso ridotta a pura e semplice economia di sussistenza. Il comportamento
dei Babilonesi fu comunque diverso da quello, ben più duro, che gli Assiri
avevano tenuto nei confronti del regno del nord, un secolo e mezzo prima. Non
tutta la popolazione, infatti, fu deportata e soprattutto non sembra che i
Babilonesi abbiano favorito nuovi insediamenti di popolazioni straniere
all’interno del regno di Giuda, così come era stato fatto dagli Assiri nel caso di
Samaria.
Le autorità di Babilonia, appoggiandosi al partito filobabilonese, del quale,
come si è visto, lo stesso profeta Geremia era un rappresentante, nominano
una specie di vicerè del deportato Yohakin, un certo Godolia. In realtà non
sappiamo quale esattamente fosse la posizione di questo Godolia: un sigillo
trovato con il suo nome lo definisce come “colui che (è) sul palazzo”, qualcosa
che ci fa pensare ad una specie di governatore generale, rappresentante di
Nabucodonosor in Giudea o forse facente funzioni di Yohakin, al quale, benché
in esilio, i babilonesi riconoscevano ancora il ruolo di re della Giudea. In ogni
caso, Godolia si preoccupa subito di attuare un programma di ricostruzione e
di normalizzazione, un tentativo di salvare il salvabile, appoggiato ancora una
volta dal profeta Geremia che, a più riprese, invita gli abitanti di Gerusalemme
a sottomettersi al re di Babilonia, riconoscendo così l’autorità di Godolia (Ger
40,10-12).
Il tentativo di Godolia fu tuttavia frustrato dalla rivolta di un ufficiale israelita,
un certo Ismaele, discendente della famiglia di David, comandante di qualche
contingente militare sbandato, sopravvissuto in qualche modo all’invasione
babilonese. Egli pensava forse di poter restaurare la monarchia e fece
assassinare Godolia. Ma la situazione era ormai troppo compromessa per un
simile tentativo. Babilonia prese ulteriori misure repressive (il testo di Ger
52,30 sembra parlare di una terza deportazione di 745 persone) che
costrinsero i ribelli alla fuga. Con essi, molti altri capi militari, temendo la
reazione babilonese, fuggono in Egitto, portando con sé il profeta Geremia,
che si era rifiutato di appoggiare il tentativo di ribellione, riconoscendone,
forse l’inutilità (Ger 42-43). Con la morte di Godolia, la Giudea diventa una
semplice provincia dell’impero babilonese, amministrata dalle autorità
residenti in Samaria e progressivamente occupata dagli edomiti nella sua
parte meridionale, perdendo anche l’ultima parvenza di autonomia.
52
abitanti, a causa delle iniquità che commisero per provocarmi (…)
Perciò la mia ira e il mio furore divamparono come fuoco nelle città di
Giuda e nelle strade di Gerusalemme ed esse divennero un deserto
ed una desolazione, come sono ancor oggi». (Ger 44,2-6).
Il sesto secolo costituisce quella che M. Liverani definisce “età assiale”, secolo
di svolta non solo per Israele, ma per gran parte del mondo antico (cf.
Confucio, Budda, Zoroastro, la nascita della filosofia greca). In particolare
53
53
per Israele con l’esilio babilonese, che invece di distruggere il popolo lo porta a
inattesi sviluppi di pensiero.
Negli anni dell’esilio, tra il 593 e il 571 a.C, si colloca l’opera del profeta
Ezechiele, sacerdote di Gerusalemme arrivato con la prima ondata di deportati.
Come Geremia già si era posto con lucidità il problema della sofferenza e della
giustizia di Dio (cf. Ger 12,1-6), così anche Ezechiele affronta il problema della
responsabilità personale davanti a Dio (cf. Ez 18,1-4), aprendo in tal modo
un’importante riflessione sullo spinoso problema della retribuzione. L’esilio è
stato provocato dall’infedeltà degli israeliti, in particolare dalla loro infedeltà
religiosa; allo stesso tempo Ezechiele annunzia un messaggio di speranza.
Nella prospettiva di Ezechiele, il ritorno è condizionato da una rinnovata fedeltà
a YHWH che, vista la precedente infedeltà del popolo, non potrà essere altro
che un dono di Dio stesso:
Il libro di Ezechiele si apre con la visione della Gloria di Dio (Ez 1) e si chiude
con la visione ideale della nuova Gerusalemme e del nuovo Tempio, come esso
dovrà essere dopo l’esilio (Ez 40-48). La storia è ormai vista con gli occhi del
veggente e il futuro non potrà più essere semplicemente una restaurazione del
passato.
54Anche in questo caso non entriamo in merito ai dettagli relativi agli aspetti storico-letterari
della tradizione sacerdotale, comunemente indicata con la lettera P (dal tedesco
Priesterkodex, “codice sacerdotale”). Si ritiene che vi sia stata una prima redazione
sacerdotale durante l’esilio e almeno una successiva rilettura dopo il ritorno; rinvio al testo di
J.L. SKA, Introduzione alla lettura del Pentateuco. Chiavi per l’interpretazione dei primi cinque
libri della Bibbia, Edizioni Dehoniane, Roma 20002.
55
dio: «Così dice il re di Israele, il suo redentore, il Signore degli eserciti: Io sono
il primo ed io l’ultimo; fuori di me non vi sono altri dei!» (Is 44,6; cf. anche
43,10-12; 45,5). Anche in questo caso l’esilio segna una tappa fondamentale
nella storia di Israele.
d. Il ritorno a Gerusalemme.
Negli anni compresi tra il 559 e il 539 a.C. avviene un nuovo, importante
mutamento nel panorama internazionale. Re di Babilonia diventa Nabonedo,
un sovrano piuttosto indifferente verso i problemi legati al governo della
nazione.
La nostra storia ha origine, probabilmente, da un problema di carattere
religioso: Nabonedo preferisce dedicarsi al culto della dea lunare Sin,
inimicandosi i potenti sacerdoti di Marduk, il dio nazionale di Babilonia.
Nabonedo rinuncia anche al governo effettivo della città, dove lascia il figlio
Belshazzar, il Baltassar protagonista dei racconti di Dan 5.
Nasce nel frattempo una nuova potenza, quella dei Medi, che inizia a
minacciare Babilonia. I Medi vivevano a est dell’Eufrate, più o meno
nell’attuale parte occidentale dell’Iran, ed erano stati un tempo alleati di
Babilonia nelle campagne contro l’Assiria. Il re Nabonedo credette di poter
fermare l’ascesa della Media alleandosi con il re persiano Ciro II, detto il
Grande. Quest’ultimo rovesciò effettivamente Astiage, re dei Medi,
impadronendosi del suo regno (550 a.C.). Forte di questa vittoria, tuttavia, Ciro
continuò la sua politica espansionistica, conquistando, quattro anni più tardi,
anche il regno della Lidia, del celebre re Creso e minacciando da vicino le città
greche dell’Asia Minore. Ciro diventò così, da alleato che era, una minaccia
costante per Babilonia: nel 539 sconfigge Nabonedo che è costretto a fuggire e
può così entrare nella città di Babilonia. Sorprendentemente, Ciro non si
considera un conquistatore, ma un liberatore. Il governo di Nabonedo, infatti,
aveva trovato forti opposizioni interne, non ultime quella fortissima dei
sacerdoti di Marduk. Ciro può così autoproclamarsi l’inviato di Marduk, per
restaurarne il culto. Allo stesso modo, il Secondo Isaia descrive arditamente
Ciro come il liberatore, il “Messia”, il consacrato mandato da Dio a salvare il
popolo d’Israele in esilio:
56 Il secondo dei testi citati sarebbe una copia della lettera di Ciro che autorizza esplicitamente
gli esuli a ricostruire il Tempio di Gerusalemme. La lettera è riportata in aramaico, la lingua
internazionale dell’epoca nella quale è stata scritta una parte del libro di Esdra. L’autenticità di
questi testi è molto discussa: in particolare sembra strano che Ciro si sia occupato dei giudei
addirittura nel primo anno del suo regno,come ricorda Esd l,1. Si può tuttavia pensare
all’esistenza di formulari già pronti per i vari decreti promulgati da Ciro per diversi gruppi
etnici, decreti che l’autore di Esdra potrebbe aver conosciuto e riadattato alla situazione degli
ebrei. I testi di Esd 1,2-4 e 6,3-5 non sono perciò da considerarsi del tutto inventati, anche se
evidentemente la loro redazione è da collocarsi almeno un secolo e mezzo dopo i fatti.
57
In seguito a questo mutamento di situazione, un piccolo gruppo di esuli
ritorna in patria, dopo il 538 a.C., sotto la guida di un certo Sheshbassar (Esd
1,8). Chi fosse realmente questo personaggio e quale carica avesse non ci è
del tutto chiaro: si può pensare a un israelita, membro della famiglia regale,
incaricato da Ciro di guidare un piccolo gruppo di esuli con il compito di
ricostruire il Tempio di Gerusalemme, secondo la politica da lui intrapresa. Il
numero dei rimpatriati non doveva essere molto grande, almeno stando alle
liste di Esd 2 e di Ne 7, benché si tratti di due fonti discordanti. Lo storico
ebreo Giuseppe Flavio affermerà in seguito che gran parte degli ebrei preferì
restare a Babilonia, per non dover lasciare la posizione che si era ormai fatta.
I rimpatriati intrapresero, tra molte difficoltà, l’opera di ricostruzione del
Tempio, incontrando in particolare l’opposizione delle popolazioni locali, quella
parte di israeliti che non aveva conosciuto l’esilio, forse sconcertati dal
radicalismo religioso dei nuovi arrivati e certamente non molto propensi a
dividere il poco che avevano con gente che evidentemente accampava diritti
su precedenti proprietà.
Teologicamente, i rimpatriati considerano se stessi come il “resto di Israele”,
i reali depositari dei veri valori dell’ebraismo. Alcuni autori recenti (M. Liverani,
I. Finkelstein) arrivano a parlare di questo “resto” come del responsabile
dell’invenzione delle grandi storie relative al passato di Israele, le cui radici,
contrariamente a ciò che pensano tali autori, esistevano già ben prima
dell’esilio. Solo nel 515 a.C., in seguito anche alla predicazione congiunta dei
57
58
inizia ad essere sempre più importante, caratterizzando la vita della comunità
giudaica, sempre più stretta intorno alla sua fede e alle sue osservanze
cultuali.
Il problema cronologico.
Il periodo che va dagli inizi del regno di Dario sino alla metà del regno di
Artaserse è un periodo oscuro sul quale sappiamo in realtà molto poco. Le due
missioni riformatrici di Esdra e di Neemia ci fanno intuire che doveva trattarsi
di un periodo di difficoltà, sia sul piano politico-sociale che su quello religioso.
Il libro del profeta Malachia, composto probabilmente proprio verso la fine di
questo periodo, parla di gravi carenze nel comportamento dei sacerdoti, di
prevaricazioni in campo morale, esprimendo allo stesso tempo l’attesa di un
mutamento radicale.
L’impero persiano, intanto, è riuscito, almeno in parte, a riprendersi dalla sua
crisi; l’opposizione esistente tra le città greche di Sparta e Atene, infatti, fa-
vorisce Artaserse, il successore di Serse (465-424 a.C.) che riesce ad assorbire
le precedenti sconfitte patite contro i greci. Ulteriori segni di cedimento
dell’impero si avranno comunque qualche anno più tardi, sotto Artaserse II
(405-359 a.C. ca.) quando l’Egitto riuscirà a recuperare la sua indipendenza. E’
in questo contesto storico che si colloca la missione di due personaggi, Esdra e
Neemia, ricordati nei due libri che ne portano il nome.
59
Secondo la cronologia tradizionale, quella cioè riportata dai testi biblici in
questione, Esdra, un giudeo anch’egli esule a Babilonia, si reca nel 458 a
Gerusalemme, come incaricato del re Artaserse I (Esd 7,7). Nel 445 verrà
seguito da un secondo personaggio, il governatore Neemia, anch’egli un
incaricato del re (Ne 2,1). Il vero riformatore della vita sociale, politica e
soprattutto religiosa dei giudei appare, come vedremo, Esdra. La missione di
Neemia sembra inoltre ignorare l’opera da lui compiuta. Inoltre, la missione di
Esdra sembra presupporre una Gerusalemme già ricostruita, cosa che di fatto
non avviene se non sotto Neemia.
Queste difficoltà sono state risolte in vari modi: c’è chi ha tentato di
difendere in vari modi la cronologia biblica tradizionale e c’è chi è arrivato sino
a negare ogni fondamento storico all’esistenza stessa di un personaggio di
nome Esdra. La soluzione forse più semplice, oggi seguita da molti storici, sta
nell’ammettere che l’Artaserse di cui si parla a proposito di Esdra sia in realtà
Artaserse II. Così la missione di Esdra viene a collocarsi dopo quella di Neemia,
di cui costituisce il logico completamento. Avremmo allora una cronologia
rovesciata, rispetto all’ordine biblico: non dunque Esdra – Neemia, ma Neemia
- Esdra. Nel 445, sotto Artaserse I, si colloca l’arrivo di Neemia a
Gerusalemme, che si trova di fronte a una situazione di crisi e ad una città
ancora non completamente ricostruita. Questa missione sarà seguita, nel 398,
da quella di Esdra, sotto il regno di Artaserse II.
Neemia.
60
confini con l’Egitto, in vista di tempi difficili. Tutti questi motivi possono servire
a spiegare le difficoltà incontrate da Neemia soprattutto da parte delle autorità
locali residenti in Samaria che vedevano nella sua missione un attentato al
loro potere.
Il libro di Neemia contiene il racconto, non sappiamo quanto amplificato ed
epicizzato, della ricostruzione delle mura di Gerusalemme che, superando le
varie difficoltà, vengono ultimate nel 444 a.C.
Esdra.
61
Il periodo che va dalla seconda missione di Neemia a quella di Esdra ci è del
tutto ignoto.
Esdra (forma greca dell’ebraico Ezra, “Dio aiuta”) viene presentato, nel libro
omonimo, che del resto è anche l’unica fonte a nostra disposizione, come un
sacerdote, esperto nella “legge di Mosè” (Esd 7,1-6) che si sarebbe recato a
Gerusalemme, nel 398 a.C., alla testa di un nuovo gruppo di esuli, come una
sorta di incaricato del re per gli affari religiosi.
Esdra riprende alcuni elementi dell’opera di Neemia, come le leggi relative al
culto e la proibizione dei matrimoni misti. Quest’ultimo problema doveva
essere molto forte: le prescrizioni di Esdra (Esd 9-10) sono molto radicali e
vanno nel senso di una separazione totale nei confronti degli stranieri. Tali
prescrizioni, tuttavia, non vanno intese esclusivamente in senso xenofobo, un
divieto quasi razzista di mescolarsi con altre popolazioni, ma occorre vedervi
dietro una preoccupazione di ordine religioso, già presente nel libro del
Deuteronomio (Dt 31,16). I matrimoni con donne straniere possono essere un
pericolo per la purezza della fede yahwista, elemento, che come si è visto,
caratterizza in modo particolare coloro che sono tornati dall’esilio. Inoltre, si59
Con la riforma di Esdra nasce una realtà nuova, il giudaismo: una comunità
basata non più su fattori unicamente politici, una comunità sempre più
separata rispetto agli altri popoli. Alcuni storici hanno valutato molto
negativamente questo periodo; secondo Liverani ci troviamo di fronte a “una
comunità diventata chiusa non solo per religione, ma anche per razza”. Ciò
sarebbe il risultato della preminenza del sacerdozio instauratasi dopo Esdra: “il
59 Alcuni studi tendono oggi a reintepretare questi testi di Esd-Ne relativi ai matrimoni misti
piuttosto come un riflesso di problemi dell’epoca maccabaica; cf. F. BIANCHI, La donna del tuo
popolo, Roma 2005.
62
sacerdozio sosteneva la strategia della chiusura, preoccupato com’era di
mantenere il nuovo Israele incontaminato rispetto all’ambiente circostante”. 60
asmonea, dove il sommo sacerdote è allo stesso tempo il re; solo a questo
punto sarebbe forse possibile parlare di “teocrazia”, ma l’accento sarà posto
così fortemente sull’aspetto politico che i giudei più fedeli vedranno negli
asmonei piuttosto un tradimento dell’ideale teocratico. In epoca romana,
mentre i farisei si rifugeranno nell’obbedienza della Legge, espressione della
volontà di YHWH-Re, gruppi più estremisti come gli zeloti cercheranno di
instaurare una teocrazia effettiva, attraverso la rivolta e la lotta armata contro
i romani e la proclamazione della regalità di YHWH, unico Signore di Israele.
In conclusione, la comunità giudaica che emerge dalle riforme di Neemia e
Esdra non è tanto uno Stato retto da principi religiosi (uno Stato governato
dalla religione) quanto piuttosto una comunità unita da legami religiosi. Non
esiste più una nazione giudaica, ma esiste un popolo, radunato attorno alla
sua fede. La Legge e il culto, prima ancora che le preoccupazioni razziali (cf.
l’importante libro di Rut!), divengono infatti i pilastri su cui si costruisce la vita
di Israele, mentre senza dubbio aumenta sempre più l’autorità del sacerdozio,
tanto che fin dal secolo scorso si è spesso parlato a questo proposito di
governo teocratico o anche ierocratico, cioè un governo di sacerdoti (v. su
questo aspetto il precedente paragrafo). La Legge è considerata la diretta
60 Cf. LIVERANI, Oltre la Bibbia, pp. 391 (prima citazione) e 341 (seconda citazione). Quella che
Liverani descrive come la “invenzione della Legge” sarebbe perciò il frutto di queste posizioni
intransigenti.
63
espressione della volontà di Dio che regola la vita quotidiana dell’uomo, in
ogni suo aspetto; il culto diventa l’aspetto più elevato della vita religiosa, il
mezzo per entrare in rapporto con Dio. Ma la chiusura di fronte all’ambiente
circostante non è totale; Rut e Giona, ad esempio, suggeriscono la possibilità
dell’accoglienza e della conversione.
I Samaritani.
Nel periodo che abbiamo considerato, la Giudea è ormai ridotta a una piccola
regione sottoposta al grande impero persiano. Paradossalmente la maggior
parte degli israeliti si trova ormai a vivere fuori dai confini di Giuda: molti
giudei sono a Babilonia, molti altri in Egitto; altri ancora dispersi un po’ in tutto
il Medio Oriente. Forse anche a causa di questa dispersione (talora nota come
diàspora) le riforme operate da Neemia e Esdra insistono sulla centralità del
culto, sul Tempio di Gerusalemme, sulla purezza della razza, proprio per
conservare un’unità culturale e religiosa, visto che quella politica e nazionale
era ormai irrimediabilmente distrutta.
Nelle comunità della diaspora il centro dell’unità del popolo giudaico diventa,
proprio a partire da questo periodo, una istituzione ben nota al lettore del
Nuovo Testamento, la synagoghé, la sinagoga, termine greco che indica una
‘assemblea’, una ‘riunione’. Per i giudei viventi all’estero, lontani dal Tempio,
era necessario avere un luogo ove riunirsi a pregare e a studiare la legge:
questa è appunto la sinagoga, in ebraico bet knesset, cioè “casa di riunione”,
centro di aggregazione non solo religiosa ma anche sociale, come lo è ancora
oggi. 62
65
sconfigge nella celebre battaglia di Isso l’esercito persiano di Dario III ed
estende il suo regno dalla Macedonia sino al fiume Indo. Nel 332 Alessandro
Magno invade anche l’Egitto, passando per la Galilea, la Samaria e la Giudea,
che vengono annesse quasi senza colpo ferire: inizia così un’epoca del tutto
nuova, l’epoca ellenistica.
Ancora una volta le sorti di Israele dipendono dal mutamento del quadro
internazionale e dal sorgere di una nuova potenza. Ma mentre in precedenza
assiri, egiziani, babilonesi e persiani erano tutti popoli spesso relativamente
vicini a Israele per lingua, per cultura, per usi e costumi, questa volta il
giudaismo viene a contatto con un mondo totalmente nuovo, quello greco. Ne
parleremo nel prossimo capitolo.
***
CAPITOLO VII
L’EPOCA ELLENISTICA.
66
possibilità per l’uomo di essere felice in un mondo divenuto improvvisamente
troppo vasto e cosmopolita.
Prima di Alessandro c’erano stati pochi contatti tra greci ed ebrei, soprattutto
di carattere commerciale; l’interesse dei greci verso il mondo ebraico era
senz’altro minimo: si può tranquillamente affermare che «i Greci vissero
felicemente, nel loro periodo classico, senza riconoscere l’esistenza degli
Ebrei» . Con il periodo ellenistico, i greci scoprono questo mondo così diverso
63
63 MOMIGLIANO, Saggezza straniera, 82. Sui problemi legati alla portata e al significato
dell’ellenizzazione nell’oriente antico si veda l’opera divulgativa di M. HENGEL, Ebrei, Greci e
Barbari, in particolare pp. 87-135, e ancora E. BICKERMANN, Gli ebrei in età greca, Il Mulino,
Bologna 1990.
67
Alessandro non ebbe il tempo necessario per consolidare le sue conquiste:
morì infatti improvvisamente nel 323 a.C. a soli 33 anni lasciando il suo regno
nel caos. I suoi generali (i cosiddetti diadochi, parola greca che significa
‘successori’) si spartirono i vari territori conquistati, frammentando
irrimediabilmente il vasto impero. Tolomeo, figlio di Lago, si impossessò
dell’Egitto; Antigono della Macedonia e della Grecia, mentre l’Asia Minore e la
regione siro-babilonese passarono a Seleuco.
Il governatore d’Egitto, Tolomeo, che fondò la dinastia dei Lagidi, dopo al-
terne vicende, riesce, nel 312 a.C., a occupare la Giudea e Gerusalemme,
strappandola alla famiglia dei Seleucidi, che nel frattempo avevano preso il
potere in Siria. La Giudea resterà sotto il dominio tolemaico per più di un
secolo. Si deve notare come gli storici greci dell’epoca che si occupano di
questo periodo non dicono praticamente nulla sulla Giudea e i suoi abitanti,
segno che si trattava di una regione geograficamente isolata, politicamente ed
economicamente piuttosto insignificante agli occhi dei sovrani ellenistici.
La situazione della Giudea fu all’inizio difficile: tutta la regione era stata il
teatro delle guerre tra Tolomei e Seleucidi, durate molti anni. Almeno in un
primo momento, il re Tolomeo I, dopo aver conquistato Gerusalemme, ne
trattò la popolazione con durezza, deportandone anche una parte in Egitto. Ma
con il passare del tempo, il dominio tolemaico si rivelerà un periodo di pace e
relativa prosperità. A questo proposito abbiamo informazioni dirette, le uniche
relative direttamente alla Giudea, attraverso i diari di viaggio di un certo
Zenone, funzionario del fisco tolemaico, che visitò la regione palestinese tra il
260 e il 258 a.C. Questi diari testimoniano l’esistenza di una situazione
economica piuttosto fiorente e soprattutto di un commercio molto vivo, diretto
ovviamente verso l’Egitto, basato soprattutto sull’olio, il vino, i cereali, il
balsamo delle piantagioni di Gerico, la vendita degli schiavi. Il rapporto dei
Giudei con la monarchia tolemaica doveva essere nel complesso piuttosto
buono, sia in Giudea sia nella diaspora d’Egitto, dove molti ebrei serviranno
come mercenari nell’esercito tolemaico.
La Giudea è una delle tante province del regno tolemaico, la cui
amministrazione fa capo ad un governatore civile, che per lungo tempo è
scelto dalla potente famiglia giudaica dei Tobiadi, mentre tutto ciò che
riguarda l’ordinamento interno il sommo sacerdote gode di ampia autonomia.
E’ in questo ambiente che nasce il libro del Qohelet (o l’Ecclesiaste), che
presenta una società opulenta, governata da una burocrazia fortemente
gerarchizzata e avida di denaro . Allo stesso tempo, il saggio autore del libro
64
apre un primo confronto con il pensiero greco che metteva in crisi le certezze
tradizionali di Israele.
68
Il dominio tolemaico durò sino al 200 a.C. Tra il 201 e il 200 a.C. il re Antioco
III, della famiglia dei Seleucidi, i sovrani della Siria, riesce a strappare ai
Tolomei l’intera regione palestinese, Giudea compresa: ancora una volta
Israele si trova a dover cambiare padrone. Le relazioni dei Giudei con il nuovo
sovrano sembrano essere state inizialmente molto buone. Secondo Flavio
Giuseppe, gli ebrei avrebbero addirittura aiutato Antioco III a sopraffare la
guarnigione tolemaica presente a Gerusalemme. In ogni caso, la Giudea fece
prontamente un completo atto di sottomissione e i Seleucidi ne mantennero in
cambio lo statuto di autonomia interna, già goduto sotto i Tolomei, oltre ad una
serie di non trascurabili privilegi fiscali. Flavio Giuseppe riferisce ancora di una
lettera che Antioco III avrebbe indirizzato agli ebrei di Gerusalemme per
ringraziarli dell’aiuto prestato e garantirne tali privilegi. 65
Il successore di Antioco, ucciso nel 187, il figlio Seleuco IV, pensò di ovviare
alle disastrose condizioni economiche in cui versava oramai il suo regno
saccheggiandone i templi più ricchi e, tra questi, anche quello di
Gerusalemme. Il gesto da lui compiuto, sottrarre oro alle casse ben fornite del
Tempio, era visto, nell’ottica del re, come un suo ovvio diritto, ma fu
considerato dai Giudei come un autentico sacrilegio, andato a vuoto, secondo il
racconto di 2Mac 3, in seguito a un intervento miracoloso di Dio.
A Seleuco IV succede Antioco IV (175-164 a.C.) che si autoimpone il nome di
Epifanès, che in greco significa «(dio) rivelato», nome che il popolo muterà
ironicamente in Epimanès, «pazzo», soprannome che già ci dice qualcosa sulla
personalità di Antioco, o almeno su come era considerato dai suoi sudditi.
69
Nei primi anni del suo regno, o forse negli ultimi di quello di Seleuco IV, viene
composto il libro del Siracide (noto alla tradizione latina come Ecclesiastico),
opera di Gesù figlio di Sirach (in ebraico Ben Sira), scriba di Gerusalemme . La 66
bella preghiera di Sir 36,1-17 può essere anche interpretata come una supplica
a Dio per la liberazione di Israele dal dominio straniero: “alza la tua mano sulle
nazioni straniere, perchè vedano la tua potenza!”.
Sotto Antioco IV, la situazione dei Giudei muta decisamente in peggio. Nella
letteratura apocalittica, che trova proprio in quest’epoca uno dei suoi periodi
più fiorenti (v. oltre), Antioco diventa il modello delle potenze del male; così ad
esempio in Dan 7,25 e 11,36-39:
70
riferisce il testo di Dan 9,26: “un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui”.
In questa situazione intricata e corrotta si collocano le due campagne
intraprese da Antioco IV contro l’Egitto, campagne bruscamente interrotte per
l’ultimatum posto da Roma al re seleucida. E’ in questi anni (169-168 a.C.) che
il rapporto di Antioco con i Giudei precipita in modo irreparabile.
71
degli ebrei “cambiandoli in meglio”, abolendo il loro fanatismo e trasmettendo
loro costumi greci. 67
d. La rivolta maccabaica.
72
favorivano naturalmente le classi ricche, nobili, sacerdoti, proprietari terrieri, a
scapito della grande massa del popolo.
Contrasti esistenti con le classi più povere sono già testimoniati, come si è
visto, fin dai tempi di Neemia e Esdra. Il libro del Siracide, testimone
privilegiato di questo periodo, permette di comprendere come le disparità
sociali fossero tutt’altro che marginali in Israele: Ben Sira scrive stando dalla
parte dei benestanti e il suo pubblico è composto di gente di condizione
economica florida e di classe sociale elevata. Sir 38,24-34 presenta una
visione negativa dei lavori manuali, contrapposta all’esaltazione del saggio
scriba (39,1-11) e all’elogio della figura del sommo sacerdote Simone (50,1-
68
21). Ben Sira ammonisce tuttavia contro l’eccessiva fiducia posta nella
ricchezza (Sir 5,1-3; 8,2 etc.) ed esorta ripetutamente alla pratica
dell’elemosina (Sir 4,1-10; 7,32; 29,8-13).
Questo stato di cose può aiutarci a comprendere meglio l’appoggio popolare
dato alla rivolta antiseleucida. L’occasione propizia, stando al racconto biblico
(1Mac 2,1-28), giunse con il sacerdote Mattatia, esiliato probabilmente per le
sue precedenti tendenze antimonarchiche nel piccolo villaggio di Modiin, nella
zona della Shefela, circa 25 km a ovest di Gerusalemme. Qui egli si ribellò ai
messi regali che imponevano alla popolazione un atto pubblico di culto agli dèi
greci e si dette alla macchia con i suoi figli e con coloro che già covavano
concreti desideri di rivolta. Uno dei figli, Giuda, soprannominato Maccabeo
(cioè ‘martello’) divenne subito il capo carismatico di questi gruppi di
resistenza.
Non è possibile seguire qui in dettaglio le alterne vicende di questo periodo,
narrate in tono epico dagli autori di 1-2 Maccabei. Il successo di Giuda
Maccabeo sta soprattutto nel fatto che egli evitò uno scontro frontale con gli
eserciti seleucidi, dai quali sarebbe stato subito schiacciato, dandosi invece ad
azioni di guerriglia nelle quali era certamente superiore: i Seleucidi infatti
erano stati colti di sorpresa - Antioco IV si trovava impegnato in una
campagna in Oriente - e le tattiche di combattimento adottate dai ribelli,
insieme alle motivazioni che li animavano, li portarono subito a conseguire
notevoli successi. In tal modo, nel dicembre del 164 a.C. Giuda Maccabeo
riuscì a riconquistare Gerusalemme, ad eccezione della fortezza dell’Akra.
Come primo atto, il 25 di Kislew (18 dicembre) del 164 Giuda fece riconsacrare
il Tempio profanato e riprendere il culto interrotto (1Mac 4,36-61). Ancora oggi
gli ebrei celebrano la festa della Hanukkah, della ‘dedicazione’, a ricordo di
questo evento, festa cui anche Gesù deve aver partecipato, come è ricordato
in Gv 10,22. Nello stesso anno Antioco IV muore, nel corso della campagna in
cui era impegnato e Giuda riesce ad ottenere dal suo successore, Antioco V,
69
68 Per Ben Sira, che scrive tra il 195 e il 175 a.C., il prestigio e la posizione sociale non
dipendono tuttavia dalla ricchezza quanto piuttosto dalla saggezza: il testo di Sir 39,1-11 è
certamente autobiografico, un’esaltazione del proprio stato, quello dello scriba, maestro di
sapienza e interprete della Tôrah. In questo senso egli può considerare come inferiore ogni altri
tipo di lavoro manuale. Ben Sira mostra una delle caratteristiche della società israelita, dove, a
partire da questo periodo, questo tipo di personaggi acquisterà un potere e una influenza pari,
se non superiore, a quello dei nobili e dei ricchi. Cf. M. GILBERT, “La sapienza di Ben Sira”, in I
cinque libri dei saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2005, 136-208.
69 Nel testo di 2Mac 9 la morte di Antioco viene vista come il giusto castigo di Dio per il re
empio che finisce tra atroci dolori, divorato vivo dai vermi, solo, in terra straniera. In 2Mac 9,19
si attribuisce addirittura ad Antioco una lettera quasi di scuse che egli avrebbe scritto ai giudei
e che in realtà è probabilmente una specie di testamento scritto agli abitanti di Antiochia.
73
impegnato nei problemi legati alla successione, un editto di tolleranza per i
Giudei.
Nel frattempo a Gerusalemme si erano riaccesi i contrasti già visti a
proposito della carica del sommo sacerdote, detenuta sino ad allora dal filo-
ellenista Menelao. La fazione ellenista fece appello a Demetrio I, successore di
Antioco V, il quale, nel 161, inviò come sommo sacerdote un certo Alcimo, di
tendenze ellenizzanti ma anche della stirpe di Aronne: una figura di
compromesso che riuscì in effetti a dividere i Giudei, come Demetrio voleva.
La parte più conciliante e pacifista del movimento maccabeo accettò Alcimo
come nuovo sommo sacerdote, mentre l’ala più intransigente lo rifiutò,
vedendolo come una imposizione del re Demetrio. Approfittando di questi
contrasti Demetrio riprese la politica repressiva di Antioco IV, questa volta con
una campagna militare condotta su larga scala. Nel corso di questa
campagna, Giuda Maccabeo muore, nel 161 a.C., in uno scontro con le truppe
di Bacchide, generale di Demetrio (1Mac 7,1-9,22).
Alla guida del movimento di resistenza succede Gionata (161-143 a.C.), uno
dei fratelli di Giuda. Egli, approfittando delle continue lotte tra i vari
pretendenti al trono di Siria, riesce, nel 152, ad ottenere da Alessandro Balas,
uno dei pretendenti di turno al trono seleucide, la carica di sommo sacerdote,
oltre ad una dichiarazione di autonomia pressoché totale per la Giudea (1Mac
10,15-21); Gionata fu poi il primo a far coniare monete con il suo nome, segno
di una indipendenza ormai quasi effettiva. Va ricordato che Gionata non era di
famiglia sadocita, la famiglia dalla quale veniva normalmente scelto il sommo
sacerdote, cosa che alienò ai Maccabei gran parte delle simpatie che essi
godevano presso il gruppo dei ‘pii’. Vittima delle sue stesse macchinazioni,
Gionata, nel tentativo di concludere una alleanza con l’ennesimo pretendente
al trono seleucida, viene ucciso a tradimento nel 143 a.C. (cf. 1Mac 12,39-53),
dopo essere riuscito a concludere alleanze con Sparta e, soprattutto, con i
Romani (1Mac 8,17-18).
74
deve essere stato scritto, come un’età pacifica e felice: l’elogio di Simone
contenuto in 1Mac 14,4-15 ci presenta un quadro idilliaco, nel quale però i più
fedeli sostenitori delle tradizioni di Israele non dovevano rispecchiarsi molto,
come si vedrà dai successivi esiti del regno asmoneo, certamente sempre più
lontano dagli ideali di fedeltà alla Legge che avevano dato vita al movimento
maccabaico. Le ripetute guerre e gli intrighi interni non avevano certo
contribuito a migliorare la situazione economica e sociale del paese. Forse
proprio in questo periodo nascono le radici dei movimenti farisaici e sadducei
e, in particolare, quel movimento rigorista, separato dal giudaismo ufficiale,
noto come gli Esseni, di cui avremo occasione di parlare.
e. La dinastia asmonea.
Il periodo che va dall’inizio del regno di Giovanni Ircano I fino alla conquista
romana, operata da Pompeo nel 63 a.C., non ha riscontro nei testi biblici, ma è
ugualmente importante perchè ci permette di capire lo sfondo immediato
delle vicende in cui si muoverà la storia di Israele al tempo di Cristo.
Giovanni Ircano I (134-104 a.C.) si dedicò soprattutto a campagne militari di
espansione, servendosi di un esercito di professione composto da mercenari.
‘Convertì’ a forza i Samaritani, distruggendone il tempio sul monte Garizim e
rendendo definitiva la separazione con i Giudei; sottomise poi gli Idumei,
popolazione della Transgiordania (gli antichi Edomiti) emigrata all’epoca nella
parte meridionale della Giudea, tra Hebron e Bersabea, obbligandoli alla
circoncisione.
I confini del regno di Ircano I, negli anni 106-107 a.C, al termine delle sue
campagne di espansione, corrispondono a quelli ricordati dal libro di Giuditta.
Il libro è ambientato all’epoca di Nabucodonosor, ma è stato scritto in realtà in
questi anni e riflette la lotta del popolo ebraico contro l’invasore straniero.
Si sviluppano poi definitivamente in questo periodo i gruppi dei sadducei, dei
farisei e probilmente anche degli esseni. I farisei si dimostrano molto critici
verso la politica di Giovanni, che accusavano soprattutto di aver voluto
concentrare nelle sue mani il potere civile e quello religioso, di comportarsi in
maniera tirannica e soprattutto di essere più incline all’ellenismo che fedele al
giudaismo. E’ certo che Giovanni perse poco per volta il consenso popolare,
giungendo a governare come gli altri sovrani ellenistici con la forza di un
esercito mercenario e la ricchezza di un esoso sistema fiscale.
Un aspetto illuminante di questo atteggiamento di Ircano I si riflette
all’interno dei due libri dei Maccabei, la cui composizione potrebbe esser fatta
risalire proprio a questo periodo. In 1Mac 12,6-23 e 14,20-23 sono riportati
scambi epistolari che sarebbero avvenuti tra i Maccabei e gli Spartani e in
12,21 si arriva ad ipotizzare un’improbabile parentela comune tra i due popoli,
entrambi della “stirpe di Abramo”. Quale segno migliore dell’ammirazione
provata dagli ebrei nei confronti dei greci? A ciò si aggiunga il già ricordato
passo di 1Mac, che contiene uno straordinario elogio dei romani, il quale non
può che stupire posto com’è in bocca a un autore giudeo (1Mac 8,1-16).
75
agli Asmonei. Durante il suo regno riuscì ad impadronirsi della Galilea,
ampliando ancor più i confini di Israele.
Il successore di Aristobulo fu il fratello Alessandro Janneo (103-76 a.C.), sotto
il cui regno la dinastia asmonea raggiunge il suo periodo di splendore, ma allo
stesso tempo il culmine del contrasto già esistente con i gruppi farisaici.
Alessandro arrivò a compiere gesti di inaudita crudeltà, quando, per reprimere
l’opposizione dei farisei ne fece crocifiggere qualche centinaio attorno alle
mura di Gerusalemme, facendone poi massacrare mogli e figli davanti ai loro
occhi. Questo fatto causò un profondo turbamento nel popolo - tra l’altro la
pena della crocifissione era del tutto sconosciuta al diritto israelita - e gli echi
di questo avvenimento si possono leggere negli scritti di Qumran (Pesher di
Nahum).
E’ chiaro ormai che la monarchia asmonea si è trasformata in una delle tante
piccole monarchie orientali di stampo ellenistico presenti nel Medio Oriente,
del tutto simile a quella dei Seleucidi, in opposizione alla quale era parados-
salmente nata: un paradossale rovesciamento di prospettiva per come le cose
erano iniziate, sessanta anni prima.
76
f. Il giudaismo di lingua greca in Israele e nella diaspora.
77
nella quale sosteneva che i Fenici e i Greci avevano appreso la scrittura da
Mosè.
La grande forza morale del giudaismo esercitava effettivamente un certo
influsso sul paganesimo. Molti pagani chiedevano di entrare nel giudaismo:
benché non circoncisi e quindi non del tutto incorporati al popolo ebraico
come lo erano invece i rari “proseliti”; questi “timorati di Dio” osservavano i
precetti fondamentali della Tôrah e partecipavano alla vita della sinagoga. Il
centurione Cornelio, protagonista di At 10, è certamente uno di essi.
Il singolare modo di vivere giudaico, tuttavia, provocava spesso tensioni e
scontri, che potevano anche risolversi in vere persecuzioni. Il fatto di
considerarsi in qualche modo separati dal resto della società, di proclamare
una fede superiore alle altre, di vivere secondo leggi rigidamente osservate e
in fondo strane, almeno agli occhi di un pagano, facevano nascere non di rado
sentimenti di sospetto e di ostilità, fino a poter parlare di un vero e proprio
antisemitismo. Specialmente ad Alessandria d’Egitto, ove esisteva una delle
più fiorenti comunità giudaiche della diaspora (si parla di almeno 40.000
giudei, forse un quinto dell’intera popolazione), la lotta dei giudei per ottenere
il pieno godimento dei diritti civili ha caratterizzato il periodo a cavallo tra il I°
sec. a.C. e il I° sec. d.C.; ne fa fede il libro della Sapienza, composto proprio
durante l’impero di Ottaviano Augusto (v. oltre). Sotto l’impero romano, i
72
Presenze giudaiche in Egitto sono ben documentate fin dal V° sec. a.C., come
si è visto a proposito della colonia giudaica di Elefantina. A partire dalla metà
del II° secolo a.C. in poi il giudaismo alessandrino è caratterizzato da
un’intensa produzione letteraria, che interessa anche la Bibbia. E’ in questo
periodo che, proprio ad Alessandria, giudaismo ed ellenismo iniziano ad
incontrarsi in maniera feconda.
Dobbiamo qui ricordare, allargando lo sguardo anche fuori dal giudaismo di
lingua greca, come non manchino correnti di pensiero interne al giudaismo
stesso che considerano il processo di ellenizzazione in modo del tutto
negativo; ne fanno fede nel II sec. a.C. testi come il libro dei Sogni, composto
intorno all’epoca della rivolta maccabaica e che entrerà a far parte del libro di
Enoc (i capitoli 83-90; cf. p. ...) e il libro dei Giubilei, composto forse all’epoca
di Giovanni Ircano I (cf. nota 82).
78
afferma di aver compiuto il suo lavoro pensando a coloro che, vivendo
all’estero, intendono vivere conformemente alla Legge. L’opera di Ben Sira
dimostra come l’ellenizzazione del giudaismo, di cui spesso si è parlato e che
fu molto forte soprattutto con la dinastia asmonea, non fu mai realmente
profonda. Se Ben Sira adotta idee provenienti dal mondo greco il suo pensiero
resta nondimeno giudaico e al centro del suo libro, al capitolo 24, troviamo
l’esaltazione della Tôrah, la Legge divina accostata, pur se non del tutto
identificata, alla sapienza, della quale costituisce l’espressione concreta.
Anche nel caso dell’ellenismo, come già era successo durante l’esilio
babilonese e come succederà ancora dopo la conquista romana, l’ebraismo si
coagulerà intorno alla propria fede e sarà proprio questo fatto a garantirne la
sopravvivenza. Alla fine del I° sec. a.C., durante l’impero di Augusto (31 a.C. -
14 d.C.), nascerà un’altra opera analoga, il libro della Sapienza, che entrerà
poi nel canone cattolico delle Scritture, libro destinato alla formazione dei
giovani giudei di Alessandria, spesso tentati di abbandonare la fede giudaica.
Il libro della Sapienza tenterà arditamente di annunziare al suo tempo il
messaggio biblico usando categorie persino filosofiche e linguaggio mutuati
dalla cultura ellenistica, una operazione dialogica e coraggiosa che segnerà di
lì a poco anche gli inizi del cristianesimo. 73
73 Cf. L. MAZZINGHI, «Il libro della Sapienza: elementi culturali», Il confronto tra le diverse
culture nella Bibbia da Esdra a Paolo, XXXIV Settimana Biblica Nazionale (Roma 9-13
Settembre 1996), ed. R. FABRIS, Ricerche Storico Bibliche, 1-2 (1998) 179-198.
74 Sulla versione dei Lxx cf. una buona introduzione in N. FERNÁNDEZ MARCOS, La Bibbia dei
Settanta, Paideia, Brescia 1998.
75 L’ebraismo si rifiuterà di riconoscere la canonicità dei libri contenuti solo nella Settanta,
limitando l’elenco dei testi ispirati solo a quelli contenuti nella Bibbia ebraica, eliminando cioè
1-2 Mac, Gdt, Tb, Sap, Sir, Bar più alcune addizioni a Est e a Dan. Il canone cattolico accoglierà
tutti questi testi, rifiutando però riconoscere l’ispirazione di altri testi presenti nella Settanta
come i Salmi di Salomone, le Odi di Salomone e il Terzo e Quarto libro dei Maccabei.
79
A lato della Settanta esistono anche altre traduzioni greche fatte in seguito
da giudei, intorno al II sec. d.C., ovvero le traduzioni di Aquila, Simmaco e
Teodozione, rispetto alle quali però resta enorme l’importanza della Settanta:
oltre ad averci conservato libri assenti dalla Bibbia ebraica vi si trovano molto
spesso varianti diverse dal testo masoretico, cioè il testo ebraico dell’Antico
Testamento codificato dai cosiddetti masoreti, i dotti ebrei dell’VIII-IX sec.
d.C.). Il traduttore greco aveva probabilmente di fronte un testo ebraico
diverso dal nostro; da esso comunque si distacca di frequente per numerose
ragioni, comprese motivazioni di carattere teologico. La versione greca dei Lxx
è poi quella che gli autori del Nuovo Testamento utilizzano quando citano testi
dell’Antico. La Settanta costituì così il testo biblico usato nella prima
predicazione cristiana nel momento in cui si rivolgeva al mondo greco.
80
uniche al mondo (si parla di 200.000 volumi) e con il suo museo, centro
educativo paragonabile ai nostri centri universitari. La ricerca di una
integrazione con il mondo greco non è tuttavia pacifica: il giudaismo
alessandrino oscilla infatti tra la tentazione dell’apostasia, la ricerca di un
dialogo con la cultura ellenistica e il desiderio di difendere e conservare la
propria identità. La letteratura alessandrina, e, per certi aspetti, lo stesso libro
della Sapienza, sono testimoni di questa tensione certamente feconda, ma mai
del tutto risolta.
***
CAPITOLO VIII
Pompeo non perse molto tempo per regolare la situazione interna del regno
asmoneo: Aristobulo fu fatto prigioniero ed esiliato a Roma, mentre Ircano II fu
confermato nella carica di sommo sacerdote. Pompeo si preoccupò poi di
ridimensionare il potere della dinastia asmonea: la Samaria divenne
indipendente, mentre le città ellenistiche della Transgiordania furono
raggruppate in una confederazione detta la Decapoli (in greco le “dieci città”),
nome ricordato anche nel Nuovo Testamento (cf. Mt 4,25). Al sommo sacerdote
Ircano II non restò che la Giudea con l’Idumea e la Perea e parte della Galilea e il
regno asmoneo fu così ridotto di fatto a uno dei tanti stati vassalli di Roma.
In questi anni le vicende della Palestina sono strettamente legate a quelle di
Roma, in particolare alla lotta di potere tra Pompeo, ucciso in Egitto nel 48
a.C., e Giulio Cesare e, dopo la morte di quest’ultimo nel 44 a.C., alla lotta tra
Ottaviano e Antonio, che si concluderà con la battaglia di Azio nel 31 a.C. e con
la vittoria di Ottaviano che diventerà così il primo imperatore, assumendo nel
27 a.C. il titolo divino di Augusto.
Ircano II riuscì a conservare il potere e in piccola parte anche ad accrescerlo
schierandosi dalla parte di Cesare, mentre questi era impegnato nella guerra
contro Pompeo in Egitto. Alleato di Ircano II appare un certo Antipatro, in
precedenza governatore dell’Idumea, che ottiene da Cesare la nomina a
governatore della Giudea mentre Ircano rimane etnarca e sommo sacerdote.
Uno dei figli di Antipatro, Erode, proseguendo questa politica di equilibrio tra le
opposte fazioni romane, riesce, nel 37 a.C., ad ottenere da Antonio la nomina a
re dei Giudei.
La situazione in questi anni è estremamente confusa, peggiorata anche
dall’invasione della Palestina ad opera dei Parti, popolo proveniente da
81
Oriente, e dal tentativo di Antigono, figlio di Aristobulo, di riprendere il potere.
Antigono riesce a conquistare Gerusalemme e a prendere prigioniero Ircano II,
al quale fa tagliare un orecchio, rendendolo così inabile ad esercitare la sua
carica di sommo sacerdote, che richiedeva tra l’altro l’integrità fisica (cf. Lev
21,16-23). Erode, appoggiato a sua volta da Roma, riesce a sconfiggere i Parti
e fa uccidere Antigono, l’ultimo degli Asmonei. Con grande abilità, dopo la
sconfitta di Antonio, Erode fa atto di sottomissione a Ottaviano, il quale lo
conferma nella regalità, concedendogli anche privilegi ed ampliamenti
territoriali. Il regno di Erode riuscirà così a raggiungere dimensioni
considerevoli (v. cartina n° 7).
Nei primi anni del suo regno Erode, che sarà poi detto il Grande, è 77
82
cercava un appoggio che non trovava tra i giudei legati alla vecchia dinastia
asmonea. In realtà, Erode abolì il principio di successione nella carica di
sommo sacerdote, che subordinò alla sua nomina, comportandosi anche in
questo campo come un despota assoluto. Inoltre Erode favorì molto il processo
di ellenizzazione, inviando due suoi figli a studiare a Roma, costruendo a
Gerusalemme un teatro e un anfiteatro e altrove perfino templi pagani, dando
alle nuove città da lui fondate una impronta tipicamente greca, dimostrandosi
grande amico dei Romani. Erode si conformava in realtà alle usanze politico-
religiose tipiche dell’impero romano, ma questi fatti non mancarono di
scandalizzare i giudei più pii che lo considerarono sempre come uno straniero.
Due o tre anni prima della sua morte (4 a.C.) si colloca la nascita di Gesù
Cristo .
78
I Farisei.
78 Oggi è ben noto come la data della nascita di Gesù non coincida con il nostro calendario.
Esso fu fissato infatti dal monaco Dionigi il Piccolo (VI sec. d.C.) sulla base di un’interpretazione
errata dei dati cronologici forniti in Lc 3,1.23. Luca afferma in realtà che nel 15° anno di Tiberio
(una data che può andare dal 27 al 29 d.C., a seconda dei vari calendari allora in uso) Gesù
aveva circa trent’anni (Lc 3,23). Matteo, da parte sua, colloca la nascita di Gesù prima della
morte di Erode che avvenne il 4 a.C. e d’altra parte Luca menziona Erode a proposito della
nascita del Battista (Lc 1,5), il che fa pensare che Gesù sia nato quando Erode era ancora vivo.
Tutto questo porta normalmente a collocare la nascita di Gesù intorno al 6-7 a.C.
79 Per una trattazione più esauriente di questo argomento rimando a testi specializzati come
LOHSE, L’ambiente del Nuovo Testamento; PENNA, L’ambiente storico-culturale delle origini
cristiane, e soprattutto all’opera fondamentale di SCHÜRER, la Storia del popolo giudaico (v. la
bibliografia conclusiva). Molto più semplice, ma di grandissimo interesse, è invece il bel testo
di P. SACCHI, Gesù e la sua gente, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2003.
83
gruppi chiusi in se stessi; Giuseppe usa il termine greco hairesis che solo
impropriamente si può tradurre con “sette” (cf. At 5,17; 15,5 etc.).
Giuseppe - che apparteneva proprio al gruppo dei farisei - parla di essi come
di coloro che cercavano di vivere in piena conformità con la Tôrah, cioè coloro
che erano più fedeli alle tradizioni del giudaismo codificate nella Legge
mosaica. Il nome stesso di ‘farisei’ viene forse (ma su questo punto c’è ancora
molta incertezza) dall’ebraico pherushim, in aramaico pherisshayya, da una
radice che significa ‘separare’, espressione di un aspetto caratteristico del
movimento farisaico. Tra loro si chiamavano piuttosto haberim, cioè
‘compagni’, o anche hakhamim, ‘saggi’, espressioni che ricordano la
compattezza e l’unità del gruppo che essi formavano. 80
84
«Ti ringrazio, Signore mio Dio, perché mi hai dato la mia parte fra
coloro che siedono nella casa dell’insegnamento (= la scuola
sinagogale) e non tra coloro che siedono agli angoli delle strade. Io
infatti mi alzo di buon’ora; anch’essi si alzano di buon’ora. Io mi alzo
di buon’ora per le parole della Legge; essi si alzano di buon’ora per
cose futili. Io mi affatico e ricevo ricompensa; anch’essi si affaticano,
ma non ricevono nessuna ricompensa. Io corro; anch’essi corrono; io
corro verso la vita del mondo futuro, ma essi corrono verso la fossa
della perdizione» (Talmud bab., Ber. 28b).
Il gruppo dei farisei assume all’interno del Nuovo Testamento, e dei Vangeli in
particolare, una connotazione del tutto negativa, così che ‘fariseo’ diventa
molto semplicemente sinonimo di ‘ipocrita’. Le accuse lanciate da Gesù ai
farisei sono molto decise:
«Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli
davanti agli uomini; perchè così voi non vi entrate e non lasciate
entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci. (…)
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri
imbiancati: essi all’esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni
di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti
all’esterno davanti agli uomini ma dentro siete pieni di ipocrisia e di
iniquità. (…) Serpenti, razza di vipere, come potrete scampare alla
condanna della Geenna?» (Mt 23,13. 27-28. 33).
A lato dei farisei è necessario ricordare un gruppo più ristretto che non può
essere considerato un vero movimento al pari di quello farisaico, ma che
nondimeno costituiva un gruppo di grande influenza: quello degli scribi. Gli
scribi, noti nel Nuovo Testamento anche con l’appellativo di “maestri” (Lc 2,46;
Gv 3,10) o “dottori della Legge” (Lc 5,17; At 5,34), non erano normalmente
sacerdoti e avevano come compito primario lo studio, l’interpretazione e
l’insegnamento della Legge mosaica.
Nel giudaismo postesilico l’osservanza della Tôrah diventa sempre più
importante nella vita del popolo, a partire soprattutto dalle riforme di Neemia e
Esdra. La Tôrah indica, strettamente parlando, l’insieme dei primi cinque libri
della Bibbia ebraica, chiamato dai cristiani con il termine greco di
“Pentateuco”. In senso più largo, il termine ebraico Tôrah esprime la Legge,
intesa come volontà e rivelazione di Dio, nella sua duplice espressione scritta -
la Sacra Scrittura - e orale - la Tradizione. I farisei, come si è visto, difendevano
la fedeltà alla Tôrah e alla tradizione non scritta dei Padri come criterio basilare
per il fedele giudeo. Gli scribi sono allora necessari prima di tutto come
interpreti autorevoli della Legge. Essi nascono già in epoca ellenistica ed erano
senz’altro una classe molto influente al tempo di Ben Sira, probabilmente già
egli stesso uno scriba. Si diventava scribi non per nascita, ma in seguito allo
studio in scuole tenute da maestri famosi, scuole al termine delle quali si
diventava “dottori della Legge”, personaggi illustri e influenti ai quali il popolo
si rivolgeva con il titolo di Rabbi, “mio signore”. Furono proprio i rabbini,
durante l’epoca ellenistica, a salvare il giudaismo da una possibile scomparsa,
preservandone le tradizioni nel momento di maggior influsso della cultura
greca.
I rabbini costituivano all’epoca di Gesù le vere guide spirituali del popolo, le
persone più considerate nella società giudaica, spesso con il ruolo di giudice o
di insegnante: Gesù stesso viene spesso chiamato Rabbi nei testi evangelici (si
vedano le osservazioni polemiche contenute in testi come Mt 23,6-7, Mc 12,38-
39; Lc 11,43). Molti dibattiti riportati nei testi evangelici sono delle vere dispute
rabbiniche, quali si potevano udire nelle due grandi scuole dell’epoca, quelle
dei celebri Rabbi Hillel e Rabbi Shammay. Paolo afferma da parte sua di essere
stato educato alla scuola del notissimo Rabbi Gamaliel (At 22,3; cf. At 5,34).
Dai rabbini, a partire dall’inizio dell’era cristiana, nasceranno in seguito i grandi
testi che ancora oggi regolano la vita degli ebrei, la Mishnà e il Talmud. In
queste opere si raccolgono le tradizioni rabbiniche precedenti, le decisioni
giuridiche, morali, religiose che regolano la vita degli ebrei e soprattutto i
commenti e le interpretazioni rabbiniche della Scrittura che avranno un
notevole influsso anche nel cristianesimo.
I sadducei.
88
libro di Gioele. Gioele, con toni drammatici, annunzia l’arrivo del “giorno del
Signore”, giorno insieme di giudizio e di salvezza:
89
un linguaggio allegorico, da una fortissima tensione escatologica. Questi testi
si presentano inoltre come destinati a gruppi di eletti ai quali viene rivelato un
“mistero” che solo il veggente è in grado di decifrare (cf. ad esempio Ap
10,7). 83
L’apocalittica conosce il suo primo, importante sviluppo, a partire dal II° sec.
a.C., in seguito alla persecuzione religiosa di Antioco IV. Questo evento viene
interpretato come un elemento della crisi che precede la fine di questo mondo:
l’apocalittica diventa così il tentativo di dare una risposta a questi momenti
sconvolgenti della storia di Israele, una risposta che, visto il radicale
pessimismo sul momento presente, non può che essere attesa per un futuro
diverso. L’apocalittica è stata quindi a buon diritto definita una letteratura per
un tempo di crisi. Può essere questo il caso del libro di Daniele, composto
probabilmente proprio alla fine dell’epoca maccabaica, un testo nel quale,
tuttavia, il pessimismo tipico del Libro di Enoc è assente, nonché la visione
deterministica della storia. Il libro di Daniele offre comunque una visione della
storia del tutto opposta al pragmatismo e al realismo politico dei Maccabei:
nell’ideologia maccabaica la salvezza viene da Dio, attraverso però l’azione
eroica degli Israeliti fedeli e mediante la forza delle loro armi; in Daniele,
invece, si attende con fiducia l’intervento finale di Dio che non può tardare. Si
vedano come esempi il celebre sogno della statua contenuto nel secondo
capitolo e i calcoli accurati sulla cronologia relativa agli eventi futuri (Dan 7,25;
12,7), elementi, questi ultimi, tipici dell’apocalittica.
A partire da questo periodo le opere di carattere apocalittico si moltiplicano
(v. sopra), dando vita a una corrente molto ricca e variegata. Tra le molte
caratteristiche che questi testi hanno in comune, la più importante è quella di
essere portatori di una certezza assoluta: la fine di questo mondo
radicalmente corrotto e la nascita di un mondo nuovo. A lato di questa idea
occorre ricordare la fede nell’immortalità dell’anima, la resurrezione dei morti,
il giudizio di Dio e, in molti casi, la venuta del Messia, quello che già Daniele
(cf. 7,13-14) definisce il “Figlio dell’uomo”.
Il giudaismo ufficiale cercherà di sopprimere queste tendenze apocalittiche,
che invece entreranno, almeno in parte, nel cristianesimo: il libro
dell’Apocalisse, che per molti aspetti si distacca dal pensiero enochico - manca
ad esempio l’idea di una origine preterumana del male ed è assente la visione
deterministica della storia - è la prova più evidente di questo influsso.
L’apocalittica non è, come talvolta è stato detto, un movimento di pensiero
che incita gli uomini al disimpegno nei confronti della storia, lasciata al
giudizio di Dio. L’attesa del Regno di Dio ha piuttosto costituito una spinta
importante all’interno del cristianesimo, una tensione attiva verso il futuro che
ha caratterizzato gran parte della storia dell’Occidente.
Due storici del I° sec. d.C., un giudeo, Flavio Giuseppe, e un romano, Plinio il
Vecchio, insieme a un loro contemporaneo, il filosofo giudeo di Alessandria
d’Egitto, Filone, ci hanno lasciato notizia dell’esistenza all’interno del
83 Cf. L. MAZZINGHI, «I misteri di Dio: dal libro della Sapienza all’Apocalisse», in Apokalypsis.
Percorsi nell’Apocalisse in onore di Ugo Vanni, edd. E. BOSETTI – A. COLACRAI, Assisi 2005, 147-
182.
90
giudaismo di un altro gruppo religioso dalle caratteristiche molto particolari
stimato da Flavio Giuseppe e Filone nell’ordine di circa 4.000 membri e
chiamato “esseni” . Tali autori ricordano lo stile di vita di questi esseni,
84
caratterizzati dalla loro vita al di fuori della società, in villaggi isolati ove
vivevano in comunità molto ben organizzate ma allo stesso tempo molto
chiuse, legate da una ferrea disciplina interna e dalla usanza della comunione
dei beni, tanto che si è parlato, benchè impropriamente, di un vero e proprio
movimento “monastico” all’interno del giudaismo.
Plinio il Vecchio, morto nel 79 d.C., ne sottolinea con forza l’ascetismo e la
forte esigenza morale, che costituiscono la prima evidente caratteristica di
questo gruppo:
«E’ un popolo unico nel suo genere e ammirevole nel mondo intero,
più di tutti gli altri: non ha donne, ha rinunziato interamente
all’amore, è senza denaro, amico delle palme. Di giorno in giorno
rinasce in ugual numero grazie alla folla dei nuovi venuti. Affluiscono
infatti in gran numero coloro che, stanchi delle vicissitudini della
fortuna, la vita indirizza all’adozione dei loro costumi». (Naturalis
historia, V,71-73).
In particolare colpisce per il romano Plinio l’uso esseno del celibato, un uso
che, anche se non così esclusivo, costituisce certamente una novità all’interno
dello stesso giudaismo. 85
84 La parola è tuttora di etimologia incerta; il nome stesso è discusso: mentre Flavio Giuseppe
parla di essènoi, Filone usa il termine essaioi. Una buona introduzione al movimento esseno e,
allo stesso tempo, ai documenti scoperti a Qumran e al loro rapporto con l’essenismo si trova
nell’innovativo studio di G. BOCCACCINI, Oltre l’ipotesi essenica. Lo scisma tra Qumran e il
giudaismo enochico, Morcelliana, Brescia 2003. Cf. anche J.A. FITZMYER, Qumran. Le domande e
le risposte essenziali sui Manoscritti del Mar Morto, GdT 30, Queriniana, Brescia 1994. Buone
presentazioni di carattere divulgativo sono quelle di F. MÉBARKI - E. PUECH, I Manoscritti del Mar
Morto, Jaca Book, Milano 2003 e ancora I manoscritti del Mar Morto. Ultime notizie, Il mondo
della Bibbia, ElleDiCi, Leumann (TO) 5/2004. Sulla teologia della comunità qumranica
segnaliamo G. IBBA, La teologia di Qumran, EDB, Bologna 2002.
91
al wadi Qumran, sono state scoperti numerosissimi manoscritti, chiusi in
anfore e nascosti forse per sottrarli all’invasione romana.
Tra i moltissimi testi ivi ritrovati figurano prima di tutto le copie di testi biblici,
come l’importantissimo rotolo di Isaia. Questi manoscritti costituiscono i testi
86
87 L’edizione completa dei testi di Qumran è adesso disponibile in The Dead Sea Scrolls Study
Edition a cura di F. GARCÍA MARTÍNEZ e E. TIGCHELAAR, Leiden, Brill, 1997-98, 2 volumi Leiden,
Brill/Grand Rapids: Eerdmans, 2000 (include sostanzialmente tutti i testi extrabiblici di Qumran
in lingua originale, con traduzione inglese a fronte). La traduzione italiana di questi testi si
trova in Testi di Qumran, a c. di Florentino GARCÌA MARTÌNEZ, ed. it. a c. di C. MARTONE, Paideia,
Brescia 1996. Per la Regola della comunità cf. P. SACCHI, Regola della comunità, Paideia,
Brescia 2006.
92
l’aspirazione escatologica e messianica, il desiderio di un nuovo tipo di
religiosità, le esigenze morali che caratterizzano il più vasto movimento esseno
sono elementi presenti anche nel cristianesimo. Inoltre alcuni aspetti del
cristianesimo primitivo, come il celibato, la comunione dei beni, la vita
comune, possono essere meglio compresi alla luce di analoghe usanze
essene. 88
Al di là dei gruppi di cui si è appena parlato, resta la gran massa del popolo,
che a tali gruppi non apparteneva. Non è possibile, in questa sede, descrivere
nei dettagli lo stile di vita, le usanze, le caratteristiche della popolazione
giudaica nel primo secolo d. C.; ci limiteremo qui a un quadro più che
generale. 89
La situazione socio-economica.
88 Cf. ad esempio H. STEGEMANN, Gli esseni, Qumran, Giovanni Battista e Gesù, Dehoniane,
Bologna 1995 e P. SACCHI, «Qumran e Gesù», in Qumran e le origini cristiane, Ricerche Storico
Bibliche 9 (1997/2) 97-115.
89 La già più volte rivista Il mondo della Bibbia offre ottimi fascicoli dedicati a questi argomenti.
Cf. P. SACCHI, Gesù e la sua gente, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2003.
93
dettaglio. Agricoltura e allevamento erano diffuse soprattutto al nord, ove si
praticava anche la pesca, sul lago di Galilea, e nella valle del Giordano, mentre
la Giudea, più arida, permetteva poco più che una semplice economia di so-
pravvivenza. Molti mestieri erano considerati impuri, perché rendevano
impossibile l’osservanza delle norme rituali, come il pastore, oppure erano
ritenuti occasione di peccato, come per gli esattori delle tasse. Nel Nuovo
Testamento tali barriere vengono abbattute: esattori delle tasse e peccatori
entrano al seguito di Gesù; Pietro dimora tranquillamente da un conciatore di
pelli, mestiere decisamente impuro (At 9,43). La barriera rituale tra puro e
impuro è decisamente infranta da Gesù; l’impurità non nasce dall’esterno, ma
dall’interno dell’uomo (Mc 7,1-23).
Gerusalemme, centro religioso del giudaismo, specialmente dopo l’opera di
ricostruzione del Tempio intrapresa da Erode, godeva di una maggior
prosperità, anche se la povertà, che spesso conduceva o all’accattonaggio o al
brigantaggio, doveva essere molto diffusa, come anche le malattie, la lebbra in
particolare, come risulta anche dal quadro presentatoci dal Nuovo Testamento.
Una delle principali cause della povertà è la forte pressione fiscale che, a
partire dalla dominazione romana, si farà sempre più dura. La riscossione delle
imposte era data in appalto a privati, i cosiddetti “pubblicani”, i quali non di
rado approfittavano della loro situazione per rubare ed opprimere ancora di più
le classi più povere. Da qui l’ostilità che i giudei nutrivano per i pubblicani, che
tuttavia appaiono tra coloro che seguono Gesù, come Matteo (Mt 9,9-13) e
vengono paradossalmente additati come esempio di conversione (Lc 18,9-14).
La vita religiosa.
94
1,9). La stanza più interna, separata da una apposita cortina , era il Santo dei
90
E’ ben noto a tutti, infine, come alla base del calendario giudaico sta
l’osservanza del sabato, giorno di assoluto riposo e di preghiera, regolato da
minuziosi precetti: contro il rischio di ridurre il sabato a un puro legalismo
sono dirette le accuse di Gesù (cf. Mc 2,27), non tanto dunque contro il sabato
in se stesso.
90 Si tratta probabilmente del “velo del Tempio” che secondo il racconto evangelico (Mc 15,38;
Mt 27,51; Lc 23,45) si sarebbe squarciato in due alla morte di Cristo dopo la quale, secondo un’
interpretazione tradizionale della teologia degli evangelisti, non esiste più separazione rituale
tra Dio e l’uomo.
91 Per approfondire l’argomento delle feste giudaiche ai tempi di Cristo si può leggere il libretto
di J.J. PETUCHOWSKI, Le feste del Signore, EDB, Napoli 1987.
95
Dal momento che l’ebraico non era più la lingua parlata, alla lettura del testo
biblico venivano affiancate parafrasi aramaiche, i cosiddetti targumîm, plurale
di targum, parola aramaica che significa appunto “traduzione”. Alcuni
targumîm sono giunti sino a noi e ci permettono di conoscere il modo in cui la
Bibbia era interpretata ai tempi di Cristo.
Alla lettura della Scrittura si aggiungevano la preghiera personale e
soprattutto l’osservanza dei precetti relativi alla purità rituale, al
comportamento morale, alle usanze alimentari che regolavano la vita
quotidiana del fedele. Questa vita di preghiera e questi atteggiamenti religiosi
spesso davvero profondi e sinceri permetteranno la sopravvivenza del
giudaismo anche dopo le grandi catastrofi nazionali sopravvenute in seguito
alla duplice rivolta antiromana. 92
Alla morte di Erode scoppiarono gravi disordini tra il popolo che non voleva
accettare un figlio di Erode come re: una delegazione giudaica si rivolse ad
Augusto, chiedendo la sottomissione ai romani in cambio dell’autonomia
interna, ma Augusto confermò sostanzialmente il testamento di Erode che
divideva il regno tra i suoi figli superstiti. Archelao ebbe la Giudea, la Samria e
l’Idumea, Filippo ricevette la regione a nord-est del lago di Tiberiade mentre il
terzo figlio, Erode Antipa, divenne tetrarca della Galilea e della Perea (v.
cartina n° 9).
In seguito alla decisione di Augusto, Archelao potè assumere il potere in
Giudea, anche se non con il titolo di re, ma con quello, inferiore, di etnarca. Il
suo carattere crudele e dispotico ricalcava quello del padre: «avendo saputo
che era re della Giudea Archelao, al posto di suo padre Erode, (Giuseppe) ebbe
paura di andarci» (Mt 2,22). Le lagnanze sul suo conto furono così gravi che
Augusto fu costretto a richiamarlo a Roma e, nel 6 d.C., ad esiliarlo in Gallia. La
Giudea diventa così parte della provincia romana di Siria, sotto
l’amministrazione diretta di un governatore militare romano con il titolo di
praefectus, talora chiamato anche procurator, con sede a Cesarea Marittima . 93
93 Lc 2,2 ricorda un certo Quirinio governatore (“legato”) della Siria al quale il governatore
romano di Cesarea doveva rivolgersi per le questioni più importanti. Sulpicio Quirinio rivestì
effettivamente questa carica, anche se il censimento che ebbe luogo sotto di lui va collocato
verso il 6 d.C., troppo tardi dunque per essere quello cui Luca si riferisce. Si è pensato che Luca
si riferisca a un censimento precedente di cui non abbiamo notizia o che abbia voluto stabilire
un sincronismo tra la nascita di Gesù e un censimento generale ordinato da Ottaviano.
96
come un censimento, l’uso di monete con l’effige imperiale, i trionfi e le
accoglienze tributate ai vari procuratori e soprattutto il culto dell’imperatore.
Per tutti questi motivi, a partire dal 6 d.C., la Giudea si troverà in una
situazione quasi costante di ribellione e di disordine, mentre il sentimento
antiromano crescerà sempre più.
Dei vari governatori romani succedutisi al governo della Giudea è ben noto ad
ogni lettore del Nuovo Testamento Ponzio Pilato (26-36 d.C.). Una lapide
rinvenuta a Cesarea, ora conservata al museo di Israele a Gerusalemme, ne
attesta l’esistenza e la carica; vi si legge infatti
97
composta di giudei e pagani. Filippo ricostruì due città: Betsaida, sulle sponde
del lago di Galilea, che chiamò Julia, in onore della figlia di Augusto, e abbellì
Panias, o Cesarea di Filippo, ai piedi del monte Hermon; entrambe sono ricor-
date nei racconti evangelici: Betsaida è la patria di Pietro, Andrea e Filippo (Gv
1,44), mentre secondo Mt 16,13 si colloca nella regione di Cesarea l’episodio
del primato di Pietro.
Il terzo figlio di Erode, Erode Antipa (4 a.C.-39 d.C.) divenne, come si è detto,
tetrarca della Galilea, facendo costruire la sua splendida capitale sulle rive del
lago, la città di Tiberiade, così chiamata in onore dell’imperatore Tiberio, del
quale Erode Antipa si mostrò sempre fedele vassallo. Si tratta di quell’Erode -
da non confondersi con il padre! - sotto la cui giurisdizione si trovava anche
Nazareth e di cui dunque lo stesso Gesù era suddito. Egli ereditò il carattere
del padre, indolente, amante del lusso ma, allo stesso tempo, violento e tiran-
nico: in Lc 13,32 Gesù lo definisce appropriatamente “quella volpe”. Il testo di
Lc 23,6-12 ce lo mostra in visita a Gerusalemme durante la Pasqua e afferma
che non era in buoni rapporti con il procuratore romano, inimicizia di cui siamo
al corrente anche da altre fonti. Nel Nuovo Testamento Erode è ricordato anche
per aver sposato Erodiade, la moglie del suo fratellastro Erode Filippo (un altro
dei figli di Erode il Grande); di questo fatto fu accusato da Giovanni il Battista,
che Erode fece poi decapitare (cf. Mc 6,17-29), secondo Flavio Giuseppe nella
fortezza di Macheronte. Spinto dalla moglie, Erode Antipa tentò, alla morte di
Filippo, di assumere il controllo del suo territorio e prendere il titolo di re.
Accusato presso l’imperatore finirà esiliato dall’imperatore Caligola in Gallia,
nel 39 d. C. dove morirà poco tempo dopo.
98
Alla morte di Erode Agrippa I la Giudea tornò ad essere provincia romana:
l’ex-territorio di Filippo venne concesso al figlio Erode Agrippa II (ricordato in At
25,13-26,32 insieme alla sorella Berenice). La serie dei procuratori romani che
si succedettero al governo della Giudea fu, se possibile, ancora peggiore di
quelli che li avevano preceduti. La loro opera di repressione e la loro rapacità
scavarono un solco sempre più grande con la popolazione, che vedeva ormai la
dominazione romana come un’oppressione intollerabile. Tutti gli incidenti e le
rivolte scoppiate in questi anni hanno per lo più matrici religiose: le insurrezioni
ricordate in At 5,36-37 nel discorso di Rabbi Gamaliel, benché di datazione
molto incerta, si possono inquadrare in questo contesto storico. Dei vari
procuratori ricordiamo soltanto Marco Antonio Felice (52-60 d.C.), sotto il quale
avvenne il primo processo di Paolo (At 24,24-26): lo storico romano Tacito dice
di lui che “con ogni crudeltà e avidità esercitò del diritto regale con la
mentalità di uno schiavo” e che “credeva di poter commettere impunenemente
ogni scelleratezza” .95
Successore di Felice fu Porcio Festo (60-62 d.C.) sotto il cui governo Paolo fu
inviato prigioniero a Roma (At 24,27-32). Sia sotto il governo di Felice che sotto
quello di Festo almeno due personaggi - uno dei quali deve essere
quell’egiziano ricordato in At 21,38 - guidarono violente rivolte antiromane,
autoproclamandosi inviati da Dio per la liberazione di Israele.
95 «Per omnem saevitiam ac libidinem ius regium servili ingenio exercuit»; «cuncta malefacta
sibi impune ratus…»; Tacito, Historiae 5,9; Annales 12,54.
99
autorità giudaiche, abbandona la città, per rifugiarsi probabilmente nella
Transgiordania, a Pella, secondo alcune fonti cristiane.
Appena l’anno dopo, le legioni romane poterono passare al contrattacco,
sbarcando a Tolemaide con circa 60.000 uomini al comando del legato
imperiale Vespasiano; la Galilea fu rapidamente sottomessa. Alla morte di
Nerone le operazioni militari furono temporaneamente sospese, il che diede
agli insorti una falsa speranza. Nel 69 le legioni orientali acclamarono
Vespasiano come imperatore, il quale affidò al figlio Tito il comando
dell’esercito.
La campagna condotta prima da Vespasiano e poi da Tito, a causa dello
strapotere militare romano, ebbe successo nonostante l’accanita resistenza
giudaica. Così, nella primavera del 70 d.C. Tito poteva iniziare l’assedio di
Gerusalemme. La città era colma di pellegrini arrivati per celebrare la Pasqua,
che rimasero là intrappolati, tanto che ben presto la città fu ridotta alla fame.
Flavio Giuseppe è testimone di una serie di atrocità avvenute durante
l’assedio, dall’una e dall’altra parte mentre all’interno della città assediata
continuavano assurdamente le lotte tra le varie fazioni giudaiche. Durante il
mese di luglio, le truppe romane riuscirono a penetrare la triplice cerchia di
mura che circondava la città e finalmente a spezzare l’ultima resistenza
concentrata attorno al Tempio, che fu interamente distrutto e che non sarà mai
più ricostruito. La città fu incendiata e saccheggiata; gli abitanti in parte furono
massacrati, in parte venduti come schiavi. I due capi della rivolta, Giovanni di
Ghiscala e Simone Bar-Ghiora furono l’uno imprigionato, l’altro usato per il
trionfo di Tito e poi giustiziato. A testimonianza del terribile assedio resta, nel
Foro di Roma, l’arco di Tito, che celebra il trionfo del futuro imperatore, seguito
dagli oggetti sacri presi nel Tempio di Gerusalemme. Le monete romane
dell’epoca portano l’iscrizione IVDAEA CAPTA, “(essendo stata) catturata la
Giudea”. Anche il testo evangelico ricorda questo evento, visto, in prospettiva
cristiana, come l’inizio di una nuova era per la Chiesa, ormai lontana dalla città
dove era nata:
Il quadro politico della Palestina, al termine della rivolta, è molto chiaro: tutta
la regione è sotto stretto controllo militare romano e, come segno dell’autorità
imperiale, l’imposta che ogni Israelita pagava annualmente per il Tempio viene
riscossa come contributo per il Tempio di Giove Capitolino, a Roma, un vero
insulto per ogni pio giudeo.
I Romani non vollero tuttavia distruggere il giudaismo limitandosi alle misure
necessarie alla soppressione di ogni tentativo di rivolta. La fede giudaica,
anche nel resto dell’impero, fu lasciata sussistere come religio licita, religione
lecita, nella speranza che potesse servire da elemento di aggregazione e
pacificazione almeno per le parti più moderate del popolo. In questi anni i
farisei ne divengono le guide spirituali e la vita religiosa dei Giudei, una volta
distrutto il Tempio ed eliminata la possibilità di offrire sacrifici, viene intera-
mente centrata sullo studio e l’osservanza della Tôrah. Nella città di Iabne (o
Iamnia) sulle sponde del Mediterraneo un gruppo di saggi riunito attorno a
Yohanan ben Zakkai proverà a definire, con successo, la nuova identità di un
giudaismo senza Tempio.
L’ostilità dei Giudei contro i romani continuò fuori dalla Palestina, nelle
comunità della diaspora. Siamo a conoscenza di rivolte degli ebrei di Cirene, di
Alessandria d’Egitto, di Cipro, avvenute durante il regno di Traiano (98-117),
rivolte presto domate con estrema durezza e legate talora a movimenti e
persecuzioni antigiudaiche.
L’occasione di una nuova ribellione giunse infine anche in Giudea;
probabilmente del 130 d.C. è la decisione dell’imperatore Adriano (117-138) di
trasformare Gerusalemme in una città romana, costruendovi un tempio
dedicato a Giove Capitolino. Capo carismatico di questa nuova rivolta, che
come intensità non ha niente da invidiare alla prima, fu un certo Simone, che
Rabbi Aqiba, uno dei maestri più prestigiosi di Israele, soprannominò Bar
Kokhba, in aramaico “Figlio della stella”, in riferimento al testo di Nm 24,17
(“Una stella si leva da Giacobbe….”); si tratta di un personaggio che molti
considerarono realmente come il Messia. Sono giunti sino a noi frammenti di
lettere scritte da Simone e monete con la sua effige e l’iscrizione “anno della
liberazione di Gerusalemme” oppure “anno I della liberazione di
Gerusalemme”.
Come nel caso della prima rivolta, i Romani furono colti di sorpresa e ciò
garantì notevoli successi iniziali. La rivolta si estese ben presto a tutta la
Palestina e fu da una gran parte dei Giudei considerata l’inizio di una nuova
era. Anche in questo caso però, la repressione romana fu immediata e
durissima. Adriano stesso sembra aver guidato le sue truppe nella riconquista
della Palestina, che fu completata, dopo ulteriori massacri, nel 135 d.C., tre
anni e mezzo dopo l’inizio della rivolta. Nel frattempo Simone Bar Kohkba fu
abbandonato dai rabbini che inizialmente lo avevano sostenuto e il suo nome
mutato in Bar Koziba, cioè il “Figlio della menzogna”. Lo stesso Rabbi Aqiba,
101
pur avendo sconfessato Simone, fu catturato, torturato e ucciso dai Romani,
morendo, come narra la leggenda, pronunciando sino all’ultimo respirto
l’ultima parola dello Shema‘ (Dt 6,4), la parola ’ehad in ebraico ‘Uno’,
diventando così un simbolo dell’israelita che proclama, nonostante tutto, la sua
fede nell’unicità di Dio.
La repressione romana fu ancor più terribile della precedente: si parla questa
volta, forse con una certa esagerazione, di ben 850.000 morti, senza contare
coloro che furono ridotti in schiavitù. Gerusalemme fu trasformata in colonia
romana, con il nome di Aelia Capitolina e l’accesso dei Giudei alla città fu
proibito. Solo nel IV secolo l’imperatore Costantino concederà ai Giudei di
recarsi a Gerusalemme una sola volta all’anno, il 9 del mese di Ab (luglio-
agosto) giorno in cui si commemora ancor oggi la rovina della città, giorno in
cui si piange sulle rovine del Tempio, in quel luogo che oggi è noto come il
Muro Occidentale, impropriamente chiamato dai cristiani “muro del pianto”. La
Giudea mutò nome e fu chiamata Palestina e quei pochi ebrei rimasti si
trovarono questa volta stranieri nella loro patria. Da allora il giudaismo conti-
nuerà a svilupparsi soprattutto nella diaspora, in particolare a Babilonia.
Il giudaismo tuttavia sopravviverà anche a questa ulteriore catastrofe,
separandosi ancor più dal mondo greco-romano e stringendosi intorno alla
Legge ed alla fede in YHWH.
102