PROLOGO
Chi è?
Sono io.
Mostrami il tuo volto, scellerata! In modo che, incontrandoti, possa riconoscerti e deviare dal
tuo cammino.
Io sarei questo!?
Così insegnano.
Chi?
Io sono la navicella del piacere, posta sulla rampa di lancio del gusto di vivere!
(incursioni)
Il maschio, proiettato da un impulso di lussuria, aggredì la donna.
Ella, poiché oltre che donna era, guarda caso, anche femmina vera, lottò con tutte le sue forze
per prolungare la pulsione ed ingigantire il desiderio.
Maialine da latte appena estratte dalle pietre fumiganti, capretti allo spiedo ingentiliti da spen-
nellate di olio aromatizzato, faraone ripiene di frattaglie, fegatini, fringuelli, passerotti, tordi di-
sossati, il tutto infagottato in cinghie di ventresca salata e stagionata; e quaglie e piccioncini
bolliti in latte di cammella e stufati su un letto di timo e di alloro, e salse di ogni genere, di po-
modoro, di basilico, di prezzemolo, di sedano, di maggiorana, di origano, di peperone, di me-
lanzana, di cetriolo, ingentilite con un vago aroma di aceto balsamico; e pesce! Spigole, orate,
branzini, cernie, storioni, bistecche di pesce spada; e molluschi, crostacei, polpa di granchio,
ricci di mare, gamberoni, mazzancolle, ostriche, cozze, vongole veraci; e dolci! Al miele, alla
mandorla, alla nocciola, al sesamo, al mosto mussante; e zuppa inglese, torta mimosa, bignè di
san Giuseppe, diplomatici, cassate, granite, cannoli, caffè, ammazzacaffè e il resto che continua
a sarabandare tutto attorno ma che, ormai satollo, non riesco più a vedere.
La bocca molinò nel grasso piatto, l’ingordo, senza accenno di pudore, finché non ebbe il ven-
tre soddisfatto.
Gola, sinonimo di avidità, bramosia, ingordigia, fame, voglia. Peccato di gola, peccato di gola!
Qualche lustro fa, desiderare qualcosa di diverso dalle solite patate, rape, ravanelli, fave, ceci, fa-
gioli, lenticchie, cicerchie, agli, cipolle era un abominevole… peccato di gola.
Gola beata che inghiotti ed ingurgiti senza curarti di quel che viene dopo!
E poi?
Morfeeeooo….
(incursioni)
La femmina vera percepì il punto limite della vibrazione del maschio, sentì il proprio deside-
rio salire dalle viscere ad aprirle la gola ed affidò il suo grido di piacere alle onde sonore per
avvolgere l’universo intero nella spirale del proprio godere.
Eccolo, il povero avaro primitivo, seduto sul suo mucchietto di conchiglie, con un randellone
in mano, digrignando i denti, ruotando attorno le orbite degli occhi, in difesa del tesoro concu-
pito dal resto della tribù.
L’avaro, raffigurato con le orecchie a punta, il naso adunco, le dita smisurate, le unghie ad ar-
tiglio, un paio di zoccoli caprini, lo chiamiamo Belzebù e non ce ne curiamo più.
Io non ci sto, voglio invece curarmene. Lo guardo con i miei occhi e lo vedo come guardassi un
gattino inzuppato di pioggia. La tenerezza mi sommerge come rugiada di giugno e gocciola giù…
giù… giù fin sulla cervice di questo povero sofferente, perennemente agitato, sospettoso, impau-
rito, concupito, nella sua psiche avvelenata, da stormi di rapaci pronti ad approfittare di un suo
minimo attimo di distrazione.
Giorno dopo giorno, sera dopo sera, mattina dopo mattina, uno stillicidio di angosce. E’ giu-
sto, dico io, è giusto che diventi un martirio la vita di un benefattore!?
(incursioni)
Il maschio incamerò il suo piacere e se ne andò senza voltarsi. Alla prima svolta aveva già di-
menticato il viso della femmina.
La storia umana è permeata di ira: ira di Divinità, ira di eroi, ira di popoli.
Neppure Dio sfuggì al potere dell’ira, allorché scacciò la sua creatura prediletta, l’essere uma-
no, da un luogo di felicità per gettarlo, nei secoli dei secoli, tra le braccia della sofferenza.
Edipo, nell’ira di non poter prendere per il collo il Fato beffardo, si cavò gli occhi per cancellare
la visione degli effetti materiali della perfidia del cinico Dio.
L’infelice Medea, lasciata dal marito, pagò il suo pegno all’ira, sgozzando e cucinando i pro-
pri figli per servirli come pasto al padre loro.
L’ira di ciascuno di noi allorché ci spegne il lume della ragione, lasciandoci nel travaglio delle
relative conseguenze, talvolta tragiche, spesso umilianti, ma sempre e comunque dolorose. Ira e
dolore sono uniti indissolubilmente.
Perché l’ira è sempre improvvisa, esplosiva e irresponsabile? Forse essa è proprio un dono
della natura: la difesa che Natura predispone per i nostri intelletti mediocri, affinché il vano
sfrigolare dei neuroni non produca danni irreversibili alle menti, problemi irrisolvibili ai parenti,
capitoli di spesa insostenibili per i C.I.M. di qualsiasi, pur ricchissima nazione.
(incursioni)
La femmina soffrì l’assenza del maschio allorché si sentì invadere da rinnovato ardore. L’ira
le gonfiò il cuore che esplose dalla sua bocca oltraggiando, con maledizioni, l’indifeso etere.
Accidia,indolenza, apatia, poltroneria, inerzia; bei paroloni per un concetto che è possibile
esprimere con un semplice suono di due sillabe: fiacca.
La fiacca, madre naturale dell’ozio il quale, a sua volta, diventa il genitore di tutti i vizi se, sog-
giacendo al detto comune, ci si dimentica che, l’individuo, non è soltanto un corpo. E’ nell’ozio
più concreto che, spesso, la mente si illumina di un concetto.
Ed è proprio grazie all’ozio che, la veneranda madre accidia, può essere così sintetizzata: trat-
tasi di nettare per il corpo, ambrosia per l’intelletto.
Essa è la pazienza elevata al quadrato, il beato dissolvimento delle possibilità psicomotorie, l’e-
quilibrio statico. A questo punto non ho alcun timore di affermare: beato colui che prospera nel-
l’accidia poiché è, di certo, asceso al Nirvana.
Sotto la grande quercia, cercando di sfuggire all’abbraccio vischioso di quella accesa estate,
grassa baldracca sudata con le mammelle a tentacolo, e le labbra pendule, asfissianti, se ne
stava, magicamente isolato da rumori e vocii, come in una dimensione di estatica indifferenza.
(1)
(incursioni)
Il maschio, svuotato dalla soddisfazione ed adagiato nel proprio compiacimento, poltriva, soave-
mente accarezzato dal ristorante abbraccio di Morfeo.
La femmina, avviluppata dalle spire delle Furie, giaceva snervata, cercando, dalle sue dita im-
potenti, l’adempimento, il ristoro, la pace.
Non fosti tu, superbia, ad innalzare, sopra tutti gli eroi, quel Capanèo che osò sfidare Zeus?
(quanto poteva essere divina la natura di un Dio che non poteva permettersi di ignorare la sfida
di un umano?) Benché colpito dalla folgore divina, con il corpo in fiamme, non cedette di un
passo dall’alto delle mura di Tebe e, finché ebbe fiato, continuò a proclamare la convinzione
umana di essere quel che era: sopra di lui, nessuno.
Non fosti tu, superbia, a soffocare, in uno scoppio di ilarità, il gigante che si vide sfidato, per la
vita e per la morte, da un imberbe pastorello?
Chi, se non tu, permise al lupo che beveva nel ruscello, a monte, di accusare l’agnello, a valle,
di sporcargli l’acqua?
E chi, se non tu, fa crollare dighe, ponti, grattacieli innalzati su progetti insensati?
Non sei forse tu, superbia, che hai concepito l’utopia della globalizzazione?
La fantastica visione di un pianeta senza più confini, popoli senza più identità culturale, senza
più tradizioni di folklore, di linguaggio, di abbigliamento, di cibo, di letteratura, di fantasia, di
spiritualità?
(incursioni)
Il risveglio consegnò, alla mente del maschio, il mondo intero.
Se, per quantificare la fatale attrazione dell’altro propulsore, si è scomodata l’iperbole, attribuendo ad un
solo pelo una forza superiore a quella di cento buoi, la forza di quale altro poderoso animale si potrebbe
mettere a confronto con la potenza esplosiva di un impulso di invidia?
Dal momento che siamo in un’era tecnologica, provo a buttare là che, un impulso di invidia tira più di
seicento cavalli e relativo marchio di fabbrica.
Invidia: la volpe adulatrice dell’ego sopito, lo specchio più luminoso della condizione del momento, la
dritta strada che corre verso l’orizzonte del proprio divenire.
Avevo, è morta
Stava prendendo il sole sulla nave da crociera sulla quale è caduto l’aereo della tua nonna … e quando la
nave è affondata ha colpito un sommergibile pieno di bombe atomiche … che è esploso e ha provocato un
maremoto … che ha distrutto dieci città e quando il mare si è ritirato hanno trovato il corpo di mia nonna
… seduto sulla poltrona del sindaco della città più grande e i funerali, poi …..
(incursioni)
Il maschio incontrò di nuovo la femmina. Ella non stava da sola. Un giovane maschio e una giovane fem-
mina le camminavano accanto e la chiamavano mamma.
Il maschio avvampò di invidia nei confronti della femmina e desiderò, con tutte le fibre del proprio
corpo, di sentirsi chiamare: papà.