PSICOBIOLOGIA E PSICOLOGIA FISIOLOGICA Appunti Studio

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N. R.

CARLSON e SLIDE
Rovelli Katia
1. INTRODUZIONE (Slide 1 + pagg. 2-25 libro)
Slide: Introduzione alla psicobiologia e psicofisiologia
Comprendere la coscienza umana: un approccio fisiologico
Visione cieca
Cervelli divisi
Neglect unilaterale
Percezione del Sé
La natura delle neuroscienze comportamentali
Gli scopi della ricerca
Le radici biologiche delle neuroscienze comportamentali
Selezione naturale ed evoluzione
Il funzionalismo e l’ereditarietà dei tratti (o caratteri)
L’evoluzione della specie umana
L’evoluzione di cervelli voluminosi
Gli anni ’50 e la psicobiologia moderna (Slide 1)
Il contributo di Laborit, Ebbinghaus, Pavlov e Hebb
La psicobiologia oggi
Psicobiologia applicata (slide)
Psicobiologia e terapia (slide)
Psicobiologia e ricerca (slide)
Problemi etici della ricerca su animali
Specializzarsi nelle neuroscienze
PSICOBIOLOGIA, PSICOFISIOLOGIA e SCIENZE AFFINI (appunti slide 1)
…………….
Il termine psicobiologia deriva dal greco, è una fusione tra varie parole che indicano il senso stesso della
disciplina e cioè psyché = anima, bios= vita e logos = scienza, è una branca delle neuroscienze che studia il
comportamento, ovvero l’insieme di tutte le attività manifeste dell’organismo, così come tutti i processi mentali
(siano essi di percezione, attenzione, memoria, apprendimento…), in relazione alle sue basi biologiche, strutture
e processi corporei appartenenti in particolar modo al SN.
Poiché lo studio del cervello è conosciuto come neuroscienze (la radice neuro- deriva dalla parola greca che
significa “nervo” o “coda”), la psicologia biologica è nota anche come “neuroscienze comportamentali”.
Qualsiasi terminologia si utilizzi, l’obiettivo principale di quest’area di studio è la comprensione delle relazioni
che legano il comportamento e l’esperienza ai rispettivi substrati biologici.
Gli esperimenti degli psicobiologi vengono effettuati sia su animali (malati e sani), sia su esseri umani (sani o
con lesioni a carico del sistema nervoso).
La psicobiologia deve confrontarsi con processi complessi, per la comprensione dei quali è necessario un
approccio a diversi livelli: osservazione diretta del comportamento, misurazione dell’attività cerebrale,
determinazione dell’attività delle singole cellule nervoso e misurazione di parametri biochimico-clino
molecolari.

Vi sono almeno tre scienze affini alla psicobiologia. La neuropsicologia che studia processi comportamentali
e cognitivi, la psicologia cognitiva che studia i processi cognitivi cerebrali e la psicofisiologia che studia le
connessioni tra cervello e comportamento.
Attenzione a non confondere psicobiologia con psicofisiologia! La psicobiologia studia le basi biologiche del
comportamento e dei processi cognitivi. La psicofisiologia studia invece le basi fisiologiche che sottendono i
processi mentali e tende a fornire una spiegazione fisiologica anche del comportamento.
Il campo della psicologia fisiologia, inoltre, deriva dalla psicologia, infatti il primo manuale di psicologia, scritto
da Wundt alla fine del 19esimo secolo, era intitolato “Principi di Psicologia Fisiologica”.
La storia attuale della fisiologia del comportamento è stata scritta da psicologi che hanno combinato i metodi
sperimentali della psicologia con quelli della fisiologia e li hanno applicati a tutte le problematiche psicologiche.
Negli ultimi anni, anche grazie all’avvento di apparecchiature di diagnostica di alta tecnologia, si è posta
l’attenzione anche sulla fisiologia delle condizioni patologiche come la dipendenza da sostanze stupefacenti
ed i disturbi mentali.

COMPRENDERE LA COSCIENZA UMANA: UN APPROCCIO FISIOLOGICO (Carlson, pagg. 2-9)


Visione cieca, cervelli divisi, Neglect unilaterale, Percezione del sé
…………….

Il problema mente-cervello ha turbato i filosofi per molti secoli. La scienza moderna ha adottato una posizione
monistica, l’opinione secondo cui il mondo è composto di materia ed energia e la mente è una manifestazione
del cervello umano. Lo studio del S.N sembra confermare questa posizione com’è dimostrato da tre esempi
specifici: la visione cieca, i cervelli divisi e i neglect unilaterale. Essi sono strettamente correlati al concetto di
coscienza.

La visione cieca

La visione cieca è un fenomeno causato dal danneggiamento di una particolare area cerebrale e rende inconfutabile il
fatto che il nostro comportamento possa essere guidato da informazioni sensoriali di cui siamo inconsapevoli. La visione
cieca è la capacità di raggiungere con la mano degli oggetti mostrata da una persona che però non riesce a vederli nel
proprio campo visivo.
Come si spiega? Banalizzando, l’occhio è formato da due sistemi distinti: il sistema visivo primitivo e il sistema visivo dei
mammiferi. Il primo è adibito al controllo dei movimenti oculari anche improvvisi e scinde dalla consapevolezza; il
secondo è responsabile della percezione di ciò che ci circonda e una lesione di quest’area abolisce la percezione
cosciente degli stimoli. Nel caso riportato dal libro (pag. 4) il nonno di Natalie J. Ha subito un danneggiamento del sistema
visivo mammifero a causa di un ictus quindi pur non riuscendo a vedere gli oggetti è in grado di afferrarli.

L’informazione visiva può controllare il comportamento senza produrre una sensazione conscia e dunque
la coscienza non è una proprietà generale di tutte le parti del cervello (come quella del sistema primitivo).
I cervelli divisi

La procedura chirurgica di divisione del cervello è stata impiegata su individui affetti da gravi forme di epilessia, non
trattabili farmacologicamente. In questo intervento il neurochirurgo divide il corpo calloso, la più cospicua commisura del
cervello che interconnette le aree della neocorteccia su ciascun lato del cervello. Così facendo vede fortemente ridotta la
frequenza delle crisi.
Poiché solo un lato del cervello è in grado di definire verbalmente ciò che sta percependo, parlare con una persona con il
cervello diviso significa parlare solo con uno dei suoi emisferi: quello sinistro.
Gli effetti del taglio del corpo calloso rafforzano la conclusione che diventiamo consapevoli di qualcosa soltanto se
l’informazione può raggiungere le regioni del cervello responsabili della comunicazione verbale, localizzate nell’emisfero
sinistro. Se l’informazione non raggiunge queste regioni cerebrali, essa non può emergere alla coscienza (esempio del
libro: i pazienti possono posare un libro con la mano sinistra, anche se lo stavano leggendo con grande interesse. Questo
conflitto si verifica perché l’emisfero destro, che controlla la mano sinistra, non sa leggere, e quindi trova il libro noioso).

L’esperimento dei cervelli divisi condotto sugli umani ha dimostrato che la sconnessione di certe porzioni
del cervello implicate nella percezione da altre porzioni implicate nel comportamento verbale, sconnetta le
prima dalla coscienza.

Il neglect unilaterale

Il neglect unilaterale è una sindrome in cui le persone ignorano gli oggetti localizzati alla loro sinistra e il
lato sinistro degli oggetti, ovunque si trovino; il più delle volte è causata dal danneggiamento del lobo
parietale destro.

I pazienti che soffrono di questa sindrome sono in grado di vedere gli oggetti alla loro sinistra, o di percepire che la parte
sinistra del loro corpo viene toccata, ma generalmente ignorano questi stimoli e agiscono come se la parte sinistra del
mondo e del loro corpo non esistesse. Questo meccanismo coinvolge anche il disegno e l’immaginazione visiva.

La percezione del sé

Un fenomeno interessante osservato in individui con cervello integro conferma l’importanza del lobo parietale nel senso
di appartenenza al proprio corpo.

Quando proviamo l’illusione della mano di gomma, noi riconosciamo una mano finta realistica come se
fosse la nostra mano reale. Ciò implica che possiamo riconoscere un oggetto fuori dal corpo come se fosse
parte di noi.

L’illusione della mano di gomma (vedi immagine) dimostra che se la


corteccia parietale rileva congruenza con due stimoli, visivo e sensoriale,
l’informazione è trasmessa alla corteccia premotoria, da cui origina la
sensazione di appartenenza della mano di gomma.
Un altro studio effettuato nello stesso modo ha dimostrato che le persone
possono sviluppare una genuina sensazione di appartenenza della mano di
gomma. I ricercatori hanno utilizzato la stessa procedura per stabilire la
sensazione di appartenenza e poi hanno minacciato la mano di gomma,
fingendo di infilzarla con un ago. Le scansioni cerebrali hanno mostrato un
aumento dell’attività in una regione del cervello che si attiva normalmente quando una persona anticipa il dolore
(corteccia cingolata anteriore), e anche in una regione che si attiva normalmente quando una persona sente l’urgenza di
muovere il braccio (area motoria supplementare).

LA NATURA DELLE SCIENZE COMPORTAMENTALI (Carlson pagg. 9-14 + slide 1)


Gli scopi della ricerca e le radici biologiche delle neuroscienze comportamentali
………………..
Gli scopi della ricerca

Le neuroscienze comportamentali erano denominate in precedenza “psicologia fisiologica”. Il primo manuale


di psicologia, scritto da Wundt, era intitolato Principi di Psicologia Fisiologica. Negli ultimi anni, grazie
all’aumento delle conoscenze in biologia sperimentale, scienziati di altre discipline hanno dato contributi
importanti allo studio della fisiologia del comportamento. La storia moderna della fisiologia del
comportamento è stata scritta da psicologi che hanno combinato i metodi sperimentali della psicologia con
quelli della fisiologia e li hanno applicati a problemi che interessano i ricercatori in molti campi diversi.
Tutti gli scienziati sperano di spiegare i fenomeni naturali. In questo ambito, il termine spiegazione assume
due significati fondamentali:
 Generalizzazione: si riferisce alla classificazione dei fenomeni secondo le loro caratteristiche
fondamentali e alla formulazione di leggi generali (es. osservare che l’attrazione gravitazionale è
correlata alla massa di due corpi e alla distanza tra loro aiuta a spiegare il movimento dei pianeti;
 Riduzione: si riferisce alla descrizione dei fenomeni in termini dei processi fisici di base (es. la
gravitazione può essere spiegata in termini di forze e particelle subatomiche)

Gli psicofisiologi usano sia la generalizzazione sia la riduzione per spiegare il comportamento. In gran parte,
le generalizzazioni si avvalgono dei metodi tradizionali della psicologia; la riduzione spiega il comportamento
in termini di eventi fisiologici all’interno del corpo, e principalmente all’interno del SNC. Così la psicologia
fisiologica è costruita sulle fondamenta della psicologia e della fisiologia sperimentali.

Le radici biologiche delle neuroscienze comportamentali

Lo studio della fisiologia del comportamento affonda le sue radici nell’antichità: molte antiche civiltà, come gli
egizi, gli indiani o i cinesi, erano convinte che il cuore fosse la sede del pensiero e delle emozioni. Anche gli
antichi Greci la pensavano così.

Tuttavia, Ippocrate, arrivò alla conclusione che la funzione del controllo delle emozioni e dei pensieri dovesse
essere assegnata al cervello. Non tutti i filosofi greci concordavano con Ippocrate, ma Galeno si appassionò
tanto allo studio del cervello da sezionare e studiare cervelli di gatti, pecore, scimmie inferiori e scimmie
antropomorfe.

Secondo Cartesio, invece, gli animali sono organismi meccanici: il loro comportamento sarebbe controllato
dagli stimoli ambientali di tipo riflesso. Egli fu il primo a suggerire l’esistenza di un legame tra la mente umana
e la sua dimora puramente fisica, il cervello.
Questa nozione di dualismo si diffuse molto e lasciò agli altri filosofi il compito di scoprire come un’anima
immateriale potesse influenzare un corpo ed un cervello fatti di materia. Gli psicobiologici rigettarono il
dualismo e sostengono che tutti i processi della mente, possano, in teoria, essere compresi come puri processi
fisici nel mondo materiale, nello specifico nel cervello.

Luigi Galvani scoprì, successivamente, che la stimolazione elettrica del nervo di una rana produceva la
contrazione del muscolo al quale era attaccato; la contrazione avveniva anche se nervo e muscolo erano
staccati dal corpo. I risultati degli esperimenti portarono alla comprensione della natura del messaggio
trasmesso per mezzo dei nervi dal cervello, agli organi sensoriali ed ai muscoli.

Nella seconda metà del XVII secolo, il filosofo inglese Willis, con la sua dettagliata descrizione del cervello
umano ed il suo accurato studio sui disturbi mentali, convinse le persone istruite del mondo occidentale che il
cervello sia l’organo che coordina e controlla il comportamento.

Una teoria popolare del XIX secolo, la frenologia, sosteneva che la corteccia cerebrale fosse costituita da aree,
od “organi”, funzionalmente separate e che ognuna di esse fosse responsabile di una determinata competenza
comportamentale (es. amore per la famiglia, curiosità, percezione dei colori ecc.).

Il filoso tedesco Muller del XIX secolo, sostenne l’applicazione delle tecniche sperimentali alla fisiologia;
introdusse la dottrina delle energie nervose specifiche: egli osservò che tutte le fibre nervose veicolano lo
stesso tipo di messaggio e concluse che l’informazione sensoriale doveva essere specificata dalle particolari
fibre nervose attive.
Flourens, filosofo francese del XIX secolo, fu il primo ad eseguire degli studi direttamente sul cervello: egli
rimuoveva varie parti del cervello di animali e ne osservava il comportamento, inferendo la funzione della parte
cerebrale mancante. Introdusse dunque il concetto che attualmente è definito come ablazione sperimentale.

Negli anni sessanta del XIX secolo, il chirurgo francese Paul Broca si impegnò in accese discussioni sulla
relazione esistente tra linguaggio e cervello (con lui nasce la neuropsicologia moderna)
Egli sosteneva che l’abilità linguistica non fosse una proprietà dell’intero cervello ma fosse invece localizzata
in una ristretta area cerebrale. Questa ipotesi acquisì importanza quando il chirurgo presentò l’analisi post
mortem di un paziente che in vita aveva perso la capacità di parlare per molti anni.
L’autopsia del cervello eseguita da Broca mostrò la distruzione di un’area del lobo frontale del cervello,
nell’emisfero sinistro, un’area ora nota come area di Borca (chiamata anche “discorso area della produzione
verbale”). L’effetto di una lesione di questa area viene definita afasia di Broca.

Hermann Von Helmholtz, contrariando il Maestro Muller, era convinto che tutti gli aspetti della fisiologia
fossero soggetti ad una spiegazione meccanicistica e alla investigazione sperimentale. Infatti, fu il primo a
cercare di misurare la conduzione lungo i nervi: scoprì che la conduzione attraverso i nervi è più lenta di quella
dell’elettricità, il che significa che essa è un fenomeno fisiologico.

SELEZIONE NATURALE ED EVOLUZIONE (Carlson pagg. 14-21)


Il funzionalismo e l’ereditarietà dei tratti, l’evoluzione della specie umana e dei cervelli voluminosi
……………

Charles Darwin ha formulato i principi di selezione naturale ed evoluzione della specie, che rivoluzionarono il
campo della biologia.

Il funzionamento dell’ereditarietà dei tratti

La teoria di Darwin sottolineò che qualunque caratteristica degli organismi racchiude un significato funzionale.
Il comportamento in sé non è ereditario; ciò che è effettivamente ereditario è un dato cervello, che fa sì che un
dato comportamento si verifichi. La teoria di Darwin ha dato origine al funzionalismo, il principio secondo cui
il miglior modo per comprendere un fenomeno biologico è tentare di capire quale funzione utile svolge per
l’organismo (es. alcuni tratti delle farfalle  mimetismo).
Darwin propose la teoria dell’evoluzione per spiegare il modo in cui le specie acquisiscono le loro
caratteristiche adattive. Il fulcro della sua teoria è il principio della selezione naturale, un processo tramite il
quale i tratti ereditari che conferiscono un vantaggio selettivo, cioè un aumento della probabilità dell’animale
di sopravvivere e riprodursi, diventano più frequenti in una data popolazione.
Le mutazioni, invece, sono cambiamenti nell’informazione genetica contenuta nei cromosomi che può essere
sviluppata alla prole di un individuo; la mutazione fornisce la base della variabilità genetica. La maggior parte
delle mutazioni è deleteria, mentre in altri casi, se vantaggiosa, conferisce un vantaggio selettivo. Dopo migliaia
e migliaia di simili mutazioni, i membri di una specie possiederanno una certa varietà di geni e saranno almeno
in parte diversi gli uni dagli altri e discretamente vantaggiosa.

L’evoluzione della specie umana e dei cervelli voluminosi

Evolversi significa svilupparsi gradualmente. Il processo dell’evoluzione è un cambiamento graduale nella


struttura e nella fisiologia delle specie vegetali e animali, che generalmente porta a organismi più complessi,
in conseguenza alla selezione naturale. I primi ominidi apparvero in Africa. Essi divennero capaci di costruire
strumenti che potevano essere usati per la caccia, per la produzione di indumenti e per la costruzione di rifugi;
scoprirono i molteplici impieghi del fuoco e addomesticarono il cane, cosa che aumentò l’efficienza delle
tecniche di caccia e costituì un aiuto nella difesa dai predatori. La nostra specie, Homo Sapiens, si è evoluta in
Africa orientale; i membri di questa specie migrarono verso altre regioni dell’Africa, e dall’Africa si spostarono
in Asia, in Polinesia, Australia, Europa e Americhe.
I primi esseri umani possedevano caratteristiche utili per competere con le altre specie: le loro mani
permettevano di costruire e usare strumenti; la loro visione a colori li aiutava a individuare frutti maturi; la
padronanza del fuoco consentiva loro di cuocere i cibi e di spaventare i predatori notturni; la postura eretta e
l’andatura bipede rendevano possibile percorrere lunghe distanze, e con i loro occhi ben sollevati dal terreno
potevano scrutare lontano nelle pianure. Tutte queste caratteristiche richiedevano cervelli più voluminosi.
Un grosso cervello ha bisogno di un grosso cranio, e la postura eretta dei bipedi pone dei limiti alle dimensioni
del canale del parto di una donna. La testa di un bambino alla nascita è già molto grossa, e quindi il parto per
gli esseri umani è molto più difficoltoso che per qualunque altro mammifero. Poiché il cervello di un bambino
non è sufficientemente voluminoso o complesso per eseguire le funzioni fisiche e intellettuali tipiche
dell’adulto, esso deve continuare a crescere dopo la nascita dando spazio ai circuiti neuronali, suscettibili alle
modificazioni dell’esperienza.
Oltre alle dimensioni, una caratteristica importantissima è la presenza di cellule finalizzate all’apprendimento,
alla memoria, all’intelletto, alla progettazione etc.
Oltre a questo i cervelli variano per numero di neuroni in ciascun grammo di tessuto. I ricercatori hanno rilevato
che il cervello dei primati contiene molti più neuroni per grammo rispetto a quello dei roditori.
Dopo la nascita, il cervello continua a crescere; la produzione di nuovi neuroni cessa quasi del tutto, ma quelli
già esistenti crescono e cominciano a stabilire connessioni tra loro, proliferando altre cellule cerebrali, che
proteggono e sostengono i neuroni. Questo rallentamento del processo di maturazione, che allunga il tempo
di crescita di un individuo, è noto come neotenia.

GLI ANNI ’50 E LA PSICBIOLOGIA MODERNA (Slide 1)


Il contributo di Laborit, Ebbinghaus, Pavlov e Hebb
……………

Il contributo di Laborit

Un importante contributo alla psicobiologia viene fornito da Laborit negli anni 50: biologo, filosofo ed etologo
francese. Eseguì numerosi esperimenti su cavie da laboratorio.

ESPERIMENTO 1: delle cavie da laboratorio vengono messe dentro delle gabbie con due compartimenti e una griglia
attraverso la quale passa dell’elettricità. Un piccolo segnale luminoso ed acustico si attiva 5 secondi prima del passaggio
dell’elettricità. Quest’ultima viene scaricata per una decina di secondi ogni 30 minuti per 12 ore in uno dei due
scompartimenti. La cavia è un animale che impara velocemente (7 volte più velocemente di un cane) e capisce fin
dall’inizio che ogni qual volta ci sarà un segnale arriverà dell’elettricità. Per cui, già dalla seconda volta, al momento del
segnale, passerà dall’altra parte della gabbia dove non c’è elettricità e lo farà per tutta la giornata risultando perfettamente
sane.

ESPERIMENTO 2: in un secondo esperimento si mettono nella gabbia due cavie e si chiude la parete che separa i due
compartimenti e si fa passare l’elettricità allo stesso ritmo. Le cavie sono dunque obbligate e subire l’elettricità perché
non possono passare dall’altra parte. Allora, al momento del segnale, si raddrizzano su due zampe ed iniziano a
combattere. Ogni qualvolta arriva la scossa elettrica esse combattono tra di loro. A fine giornata, quando vengono
effettuate le analisi, le cavie, entrambe, risultano in piena salute, sia fisica che psicologica.

ESPERIMETO 3: in un terzo esperimento una sola cavia viene messa nella gabbia, la porta che separa i due
scompartimenti è chiusa ed è dunque costretta a subire l’elettricità senza poter fare nulla. Alla fine della giornata, dalle
analisi, risulta che ci sono dei tassi fuori posto: la cavia è malata ed ha subito un’alterazione sia fisica che psicologica.

Da questi esperimenti possiamo concludere che quando si ha un problema importante:


1- Se possiamo fuggire non ci ammaliamo
2- Se possiamo combattere non ci ammaliamo
3- Se non possiamo né fuggire e né combattere, ci ammaliamo
Dunque quando si è nell’inibizione dell’azione ci ammaliano (reazione di stress): se non diamo una risposta
siamo in condizioni di stress grave; il cervello deve dare una risposta e se non può delega la gestione del
conflitto ad un gruppo di neuroni.

Ebbinghaus, Pavlov e Hebb

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo si ebbero molti importanti sviluppi della psicologia biologica:
‐ Lo psicologo tedesco Ebbinghaus nel 1885 indicò come misurare l’apprendimento e la memoria
nell’uomo
‐ Agli inizi del XX secolo, Pavlov rese pubbliche le ricerche condotte nel suo laboratorio sui riflessi
condizionati degli animali

Attualmente la psicologia biologica è fortemente influenzata dall’impostazione impressa dallo psicologo


canadese Donald O. Hebb, che dal 1940 iniziò a fare uso di studi elettrofisiologici del sistema nervoso, che
permisero di avere interessanti tracciati di un cervello costantemente attivo. Nel suo libro, l’organizzazione del
comportamento, Hebb indicò, teoricamente, come un comportamento cognitivo complesso potrebbe essere
realizzato da reti di neuroni attivi. Egli propose che connessioni inizialmente più o meno casuali tra le cellule
del cervello potessero successivamente organizzarsi, ad opera di input e stimolazioni sensoriali, in gruppi di
cellule strettamente interconnessi che egli chiamò assembramento cellulare. La sua ipotesi su come i neuroni
rafforzerebbero le loro connessioni mediante l’uso divenne nota come sinapsi di Hebb, un argomento molto
studiato dagli attuali neuroscienziati.

LA PSICOBIOLOGIA OGGI (Slide 1 e Carlson pagg. 22-26)


psicobiologia applicata, utilizzo nella terapia e nella ricerca, problemi etici e specializzarsi in neuroscienze
…………..

Principi di psicobiologia applicata

Quando si lavora in psicobiologia ci sono 3 aspetti molto importanti da tenere presenti:


1- Il cervello biologico non conosce che noi: conoscendoci ha sempre la buona risposta per la nostra
sopravvivenza. Ogni qualvolta non riusciamo a risolvere un conflitto attraverso il pensiero o sul
piano dell’azione pratica, il cervello fornisce la sua soluzione, perché la necessità di sopravvivenza
gli impone di abbassare il livello di stress. Ma da una risposta biologica: conosce noi, non gli altri,
quindi può agire solo su di noi
2- Poiché il mio cervello non conosce che me, quando parlo dell’atro, parlo di me stesso: ciò che ci
perturba all’esterno appartiene alle nostre memorie; le affermazioni, le considerazioni e le critiche
che facciamo a proposito degli altri, quello che disturba o orrita di loro, corrisponde ai nostri conflitti.
3- Giustificare l’inverso della realtà: quando devo giustificare qualcosa di me stesso, giustifico il
contrario di ciò che è realmente; quando si giustifica qualcosa, si giustifica l’inverso della realtà:
non affermiamo qualcosa di diverso, ma ciò che è diametralmente opposto, l’inverso di quello che
vogliamo giustificare.
La psicobiologia applicata consiglia che quando si considerano queste tre regole fondamentali, si può capire
meglio quanto ci viene raccontato, ad esempio da un paziente, ma anche quello che raccontiamo a noi stessi.

L’utilità della psicobiologia in terapia

Con la psicobiologia abbiamo diverse possibilità di lavorare, di affrontare una terapia:


1- Ci permette di stabilire la carta dei bisogni di una persona, per aiutarla a soddisfarli lavorando sulle sue
credenze;
2- Ci permette, inoltre, di lavorare direttamente sulla genealogia e conosce e agire sulla memoria.
Modalità di indagine in psicobiologia

Il principale strumento di indagine della psicobiologia e della neuropsicologia cognitiva è la dissociazione: si


ha dissociazione quando un paziente mostra un danno selettivo ad una particolare componente del sistema
cognitivo. L’esistenza di una dissociazione è interpretata come dimostrazione dell’esistenza di un modulo
(cioè un sistema specifico che risponde solo a stimoli di una particolare classe). Questa teoria si chiama: teoria
modulare sulla funzionalità cerebrale.

Metodi di ricerca utilizzati in psicobiologia

‐ Metodi istologici
‐ Tecniche di neurovisualizzazione (attraverso il neuroimaging)
‐ Registrazione di segnali elettrici e magnetici (elettroencefalografia, elettroneurografia, ecc…)
‐ Tecniche di stimolazione
‐ Tecniche di lesione
‐ Metodi farmacologici
‐ Metodi genetici (quello che attualmente viene definito come “ingegneria genomica” e cioè la possibilità
di poter tagliare alcune parti di DNA intercambiandole poi con altre, per andare a vedere cosa accade
quando viene reimpiantato nella cavia.

Problemi etici sulla ricerca umana

La ricerca in psicologia fisiologia richiede necessariamente l’uso di animali da laboratorio. È un dovere morale
osservato da tutti gli scienziati che usano questi animali assicurarsi che essi siano ospitati in modo
confortevole e trattati umanamente; inoltre, sono state approvate leggi che garantiscono questo rispetto.
Tali ricerche hanno già prodotto molti benefici per l’umanità, e ci sono le premesse perché continuino a farlo.

Specializzarsi in neuroscienze

La psicologia fisiologica (chiamata anche psicobiologia, psicologia biologica) è un settore che mira alla
comprensione della fisiologia del comportamento. Gli psicofisiologi sono affiancati da altri scienziati nel
settore più vasto delle neuroscienze.
Per intraprendere una Carriera in psicologia fisiologica bisogna conseguire un diploma universitario superiore
e lavorare almeno due anni come scienziato giovane.
2. STRUTTURA E FUNZIONI DELLE CELLULE DEL SISTEMA NERVOSO
Le cellule del sistema nervoso
I neuroni + classificazione (Carlson + slide 4)
Le cellule di sostegno
La barriera ematoencefalica
La comunicazione all’interno del neurone
La comunicazione neuronale: una visione generale
La misurazione dei potenziali elettrici dell’assone
Il potenziale di membrana: un equilibrio tra due forze
Il potenziale d’azione
La conduzione del potenziale d’azione
La comunicazione tra i neuroni
La struttura delle sinapsi
Il rilascio dei neurotrasmettitori
L’attivazione dei recettori
I potenziali postsinaptici
La cessazione dei potenziali postsinaptici
Gli effetti dei potenziali postsinaptici: l’integrazione neuronale
Gli autorecettori
Altri tipi di sinapsi
La comunicazione chimica non sinaptica
LE CELLULE DEL SISTEMA NERVOSO (Carlson pagg. 28-40 + slide 4)
I neuroni, le cellule di sostegno e la barriera ematoencefalica
…………….
I neuroni

Tutto quello che siamo in grado di fare – percepire, pensare, imparare, ricordare, agire – è reso possibile
dall’attività integrata delle cellule del sistema nervoso. Il sistema nervoso umano è costituito da oltre 100
miliardi di queste cellule, chiamate neuroni. Vi sono tre tipi fondamentali di cellule altamente specializzate: il
neurone sensoriale, il motoneurone e l’interneurone.
Il neurone sensoriale è un neurone che rileva i cambiamenti nell’ambiente interno o esterno e invia al sistema
nervoso centrale le informazioni riguardo questi cambiamenti.
Il motoneurone è un neurone collocato all’interno del sistema nervoso centrale che controlla la condizione e la
contrazione di un muscolo o la secrezione di una ghiandola.
L’interneurone è un neurone che si interpone tra neuroni sensoriali e motori ed è collocato interamente
all’interno del sistema nervoso centrale. Gli interneuroni locali formano circuiti con i neuroni circostanti e
analizzano piccoli pezzi di informazione; gli interneuroni di relay connettono i circuiti di interneuroni locali di
una regione cerebrale con quelli di altre regioni.

I neuroni: struttura fondamentale

Il neurone è l’elemento di elaborazione e trasmissione dell’informazione del sistema nervoso. Esso ha un


diametro di 5-150 μm e conduce le informazioni elettriche sotto forma di impulso nervoso. I neuroni
comunicano chimicamente ed elettricamente tra loro attraverso una struttura altamente specializzata
chiamata sinapsi (giunzione tra bottoni terminali) la quale trasduce il segnale in messaggio chimico.
La comunicazione a livello della sinapsi procede in una sola direzione: dal bottone terminale alla membrana
dell’altra cellule (tuttavia ci sono delle eccezioni).

I neuroni si presentano in numerose forme e varietà, secondo i compiti specializzati che svolgono, tuttavia tutti
possiedono di solito, in una forma o nell’altra, le seguenti quattro strutture: il soma, il dendrite, l’assone e i
bottoni terminali. Il soma (o corpo cellulare) contiene il nucleo e gran parte degli organelli necessari per i
processi vitali della cellula. I dendriti sono strutture ramificate attaccate al soma di un neurone; ricevono
informazioni dai bottoni terminali di altri neuroni.
L’assone è una lunga e sottile struttura cilindrica spesso ricoperta da una guaina mielinica che trasporta
informazione dal corpo cellulare ai bottoni terminali. Il messaggio fondamentale trasportato dall’assone è
chiamato potenziale d’azione (breve evento elettrochimico che inizia all’estremità dell’assone più prossima al
corpo cellulare e viaggia in direzione dei bottoni terminali). Quando il potenziale di azione raggiunge un punto
in cui l’assone si ramifica anch’esso si divide ma non diminuisce di ampiezza; ciascuna ramificazione riceve
un potenziale d’azione di massima intensità.
I bottoni terminali sono rigonfiamenti finali della ramificazione di un neurone. I bottoni terminali svolgono una
funzione davvero importante: quando un potenziale d’azione che viaggia lungo l’assone raggiunge un bottone
terminale, questo secerne una sostanza chimica chiamata neurotrasmettitore. Questo agente chimico può
eccitare oppure inibire la cellula ricevente, e quindi aiuta a fare in modo che nell’assone di quest’ultima
scaturisca un potenziale d’azione.

I neuroni: classificazione

Come nel caso dei dendriti gli assoni delle loro modificazioni possono presentarsi in varie forme. Infatti, i tre
principali tipi di neuroni si classificano secondo come i loro assoni e dendriti si dipartono dal soma: il neurone
multipolare, il neurone bipolare e quello unipolare.
Nel neurone multipolare la membrana cellulare del soma da origine ad un solo assone ma,
contemporaneamente, alle radici di svariati rami dendriti (vedi immagine pag.29).
I neuroni bipolari danno origine ad un solo assone ed a un unico albero dendritico, situati ai lati opposti del
corpo cellulare; I neuroni bipolari sono di solito sensoriali (vedi immagine pag. 30).
Il terzo tipo di cellula nervosa è il neurone pseudo-unipolare: esso possiede un solo prolungamento, il quale
parte dal soma e si suddivide in due ramificazioni, a poca distanza dal corpo cellulare; sono localizzati
principalmente entro i gangli sensitivi dei nervi cranici spinali (vedi immagine pag. 30).

(Slide 4) In base alla lunghezza dell’assone i neuroni possono essere classificati in: neuroni del primo tipo di
Golgi e neuroni del secondo tipo di Golgi. I primi fungono da interneuroni di relay mentre i secondi da
interneuroni locali. La denominazione “Golgi” deriva dalle colorazioni a base di metalli pesanti che impregnano
una particolare popolazione di neuroni che furono scoperti da Camillo Golgi, uno scienziato e medico italiano
nato nel 1843; egli ideò dunque la rivoluzionaria “reazione nera” o “metodo di Golgi”, la quale permetteva di
colorare selettivamente le cellule nervose e la loro struttura organizzata.

(Slide 4) Possiamo inoltre distinguere i neuroni di Purkinje e le cellule stellate. I neuroni di Purkinje sono una
classe di neuroni GABAergici situati nella corteccia cerebellare. Le cellule di Purkinje possiedono un albero di
dendritico alquanto elaborato ed un unico assone che si proietta ai nuclei del cervelletto. Le piccole cellule
stellate hanno degli assoni brevi che terminano nelle vicinanze immediate del soma.

I neuroni: struttura interna

La membrana definisce i confini della cellula ed è composta da un doppio strato di molecole di lipidi; definisce
altresì molti degli organelli cellulari, come l’apparato del Golgi. Incastrate nella membrana ci sono molte
proteine, che svolgono importanti funzioni: alcune di esse rilevano la presenza di certe sostanze al di fuori della
cellula (come gli ormoni) e ne passano l’informazione all’interno di questa; altre proteine controllano l’ingresso
delle sostanze all’interno della cellula, lasciandone passare alcune ma tenendone fuori altre. Infine, esistono
proteine che agiscono come trasportatori, spostando certe molecole dentro o fuori la cellula.
Le proteine sono importanti per il corretto funzionamento della cellula. Oltre a fornire struttura, le proteine
servono da enzimi, molecole che regolano i processi chimici di una cellula controllandone le reazioni chimiche
e agiscono come catalizzatori combinando due sostanze oppure rompendo una sostanza in due parti.

Il nucleo (a.k.a “nocciolo”) nella cellula è sferico od ovoidale ed è ricoperto dalla membrana nucleare. Al suo
interno sono contenuti: il nucleolo e i cromosomi. Il nucleolo è responsabile della produzione dei ribosomi
(piccole strutture implicate nella sintesi delle proteine). I cromosomi, consistenti in lunghe catene di DNA
(acido desossiribonucleico), contengono l’informazione genetica dell’organismo e i geni. I geni, se attivati,
trasmettono parte delle informazioni contenute al loro interno all’mRNA (l’acido ribonucleico messaggero) il
quale, lasciando il nucleo, si aggancia ad un ribosoma che, come detto, implica la sintesi proteica.
Curiosità: Solo l’1,5% del genoma umano codifica le proteine; la restante percentuale fu ritenuta negli anni come DNA
“spazzatura”. Ultimamente, tuttavia, si è scoperto che la restante parte è implicata nella complessità dell’organismo e
persiste da milioni di anni.

La cellula è composta in gran parte di citoplasma, una sostanza complessa che può essere utilmente
rappresentata come una sostanza gelatinosa semiliquida che riempie lo spazio delimitato dalla membrana.
Esso contiene minuscole strutture specializzate chiamate “organelli”. Gli organelli principali sono: i mitocondri,
il reticolo endoplasmatico e l’apparato del Golgi.
I mitocondri sono costituiti da una doppia membrana nelle cui pieghe si svolge l’estrazione dell’energia dagli
elementi nutritivi: la cellula fornisce ai mitocondri gli elementi nutritivi e i mitocondri restituiscono alla cellula
l’ATP (molecola di adenosin trifosfato) la quale viene usata come principale fonte energetica.
Il reticolo endoplasmatico costituisce gli strati paralleli di membrana che si trovano all’interno del citoplasma
di una cellula. Il reticolo endoplasmatico rugoso contiene ribosomi ed è implicato nella produzione delle
proteine secrete dalla cellula. Il reticolo endoplasmatico liscio è il sito di sintesi dei lipidi e produce i canali per
la segregazione delle molecole implicate in vari processi cellulari.
L’apparato di Golgi è una particolare forma di reticolo endoplasmatico liscio. Qui sono assemblate alcune
molecole complesse, composte cioè da molecole più semplici. L’adG produce anche i lisosomi, piccole sacche
contenenti gli enzimi che demoliscono le sostanze non più utili alla cellula.
La forma al neurone è conferita dal citoscheletro, formato da tre tipi di filamenti proteici connessi gli uni agli
altri che formano una massa compatta. I filamenti più spessi, i microtubuli, sono costituiti da fasci di 13
filamenti proteici, disposti intorno ad una cavità centrale; un sistema noto come trasporto assoplasmatico è
un processo attivo tramite il quale varie sostanze sono trasportate lungo i microtubuli che si estendono per
tutta la lunghezza dell’assone. I movimenti che si svolgono dal soma verso i bottoni terminali sono chiamati
trasporti assoplasmatici anterogradi e sono realizzati da molecole di una proteina chiamata chinesina.
Le cellule di sostegno: la glia e le cellule di Schwann

I neuroni costituiscono solo la metà del volume del SNC, il resto consiste in una vasta gamma di cellule di
sostegno.

La Glia - Le cellule di sostegno più importanti del sistema nervoso centrale sono chiamate neuroglia, ovvero
“collante dei nervi”. Le cellule gliali tengono insieme il sistema nervoso centrale ma fanno anche molto altro:
prendono contatto con i neuroni, circondano le sinapsi, sono in stretto contatto con i vasi sanguigni e gli altri
astrociti, regolano gli impulsi nervosi, formano la barriera ematoencefalica e guidano la migrazione dei neuroni
durante lo sviluppo embrionale (Slide 4).
Queste cellule regolano l’approvvigionamento di energia e di alcune sostanze chimiche che i neuroni
richiedono per scambiare messaggi con altri neuroni; inoltre li isolano gli uni dagli altri facendo in modo che i
messaggi nervosi non siano mischiati. Hanno anche la funzione di rimuovere gli scheletri dei neuroni morti per
una qualche malattia o per vecchiaia.
Esistono molti tipi diversi di cellule gliali. I 3 più importanti sono: gli astrociti, gli oligodendrociti e le microglia.
Gli astrociti forniscono il supporto fisico ai neuroni e ripuliscono il cervello dai detriti. Essi producono alcuni
agenti chimici che servono ai neuroni per adempiere le loro funzioni. Aiutano a controllare la composizione
chimica del fluido che circonda i neuroni (assorbendo o rilasciando sostanze chimiche). Inoltre, quando
entrano in contatto con i resti di un neurone morto gli astrociti lo circondano lo inglobalo e lo digeriscono con
un processo chiamato fagocitosi.
Gli oligodendrociti hanno la funzione di fornire sostegno agli assoni e produrre la guaina mielinica la quale
isola di assoni gli uni dagli altri. La mielina, costituita dall’80% di lipidi e dal 20% di proteine, è prodotta dagli
oligodendrociti sotto forma di un tubo che contiene l’assone. La porzione di assone senza guaina e chiamata
nodo di Ranvier (fondamentali per la trasmissione saltatoria).
La microglia è la categoria più piccola delle cellule gliali. Queste cellule agiscono da fagociti inglobando e
digerendo neuroni morti o danneggiati. Inoltre svolgono una funzione immunitaria all’interno del cervello
proteggendolo dall’invasione di microrganismi: queste cellule, infatti, sono le principali responsabili delle
reazioni infiammatorie conseguenti alle lesioni cerebrali.

Le cellule di Schwann - Le cellule di Schwann svolgono la stessa funzione degli oligodendrociti: sostengono
gli assoni e producono la mielina, ma, mentre gli oligodendrociti svolgono tale funzione nel sistema nervoso
centrale, le cellule di Schwann la svolgono nel sistema nervoso periferico. Le cellule di Schwann differiscono
per un altro aspetto importante rispetto agli oligodendrociti. Se un nervo subisce qualche danno, le cellule di
Schwann contribuiscono alla digestione degli assoni danneggiati o morti, dopodiché si dispongono in una serie
di cilindri che guidano la ricrescita di nuovi assoni. Infine, gli oligodendrociti del sistema nervoso centrale e le
cellule di Schwann del sistema nervoso periferico differiscono anche per la composizione chimica della
proteina mielinica che producono. Il sistema immunitario delle persone affette da sclerosi multipla attacca
solo la proteina mielinica prodotta dagli oligodendrociti, perciò la mielina del sistema nervoso periferico è
risparmiata.

La barriera ematoencefalica

Tra il sangue e il fluido extracellulare del cervello si trova uno sbarramento: la barriera ematoencefalica. Alcune
sostanze possono passare la barriera ematoencefalica, mentre altre no; quindi si può dire che essa è
selettivamente permeabile.
In gran parte del corpo, le cellule che rivestono i capillari non aderiscono fra loro in modo eccessivamente
stretto. Infatti, rimangono aperte delle piccole fessure tra di esse, attraverso le quali può verificarsi un libero
scambio di sostanze fra il plasma ematico e il fluido all’esterno dei capillari, che circonda le cellule del corpo.
Nel sistema nervoso centrale i capillari sono privi di queste fenditure, così molte sostanze non possono
passare direttamente dal sangue alle cellule; perciò, le pareti di capillari del cervello formano la barriera
ematoencefalica.
LA COMUNICAZIONE ALL’INTERNO DEL NEURONE (Carlson pagg.41-51)
La comunicazione neuronale: potenziali elettrici dell’assone, potenziale di membrana,
potenziale di azione e la sua conduzione
……………

La comunicazione neuronale: potenziali elettrici dell’assone e il potenziale di membrana

Per trasmissione nervosa si intende la trasmissione di un segnale nervoso sia fra neuroni, sia entro il neurone
stesso. I primi studi sono stati condotti su neuroni semplici, una classe di neuroni detti motoneuroni. Uno degli
aspetti chiave per la comprensione delle funzioni nervose è il potenziale di membrana di un neurone, cioè la
differenza di carica elettrica tra l'esterno e l'interno della cellula.

Il potenziale di membrana è dato dall’equilibrio tra due forze contrastanti: la diffusione e la pressione
elettrostatica. La diffusione è il movimento delle molecole che si verifica da regioni ad alta concentrazione a
regioni a bassa concentrazione. La pressione elettrostatica, invece, è la forza di attrazione tra particelle
atomiche dotate di segno opposto, oppure la forza di repulsione tra particelle anatomiche dotate di segno
uguale. Queste particelle molecolari dotate di carica elettrica vengono chiamate ioni. Essi possono essere di
due tipi: cationi (+) e anioni (-). Il fluido che si trova all’interno delle cellule, il fluido intracellulare, e quello che
le circonda, fluido extracellulare, contengono ioni diversi. Possono essere distinti 4 tipi di ioni:

 Lo ione organico 𝐴 , non può passare attraverso la membrana dell’assone perché essa non è permeabile
ad esso, per questo motivo è collocato esclusivamente nel fluido intracellulare.
 Lo ione cloro 𝐶𝐿 si concentra maggiormente nel fluido extracellulare. La forza di diffusione spinge questo
ione all’interno; tuttavia, poiché interno dell’assone è carico negativamente, la pressione elettrostatica lo
respinge fuori mantenendo stabile la situazione.
 Lo ione potassio 𝐾 , si concentra nel fluido intracellulare. Dunque, la forza di diffusione tende a spingerlo
all’esterno della cellula. Tuttavia, l’esterno della cellula caricato positivamente rispetto all’interno, dunque
la pressione elettrostatica tende a mantenere questo catione all’interno (funzionamento inverso allo ione
cloro, ma analogo)
 Lo ione sodio 𝑁𝑎 è più concentrato nel fluido extracellulare. La forza di diffusione spinge questo ione
all’interno; essendo carico positivamente anche la pressione elettrostatica tende a mantenerlo all’interno
della cellula. La spiegazione per cui lo ione sodio mantiene una concentrazione maggiore nel fluido
extracellulare nonostante il fatto che entrambe le forze tendono a spingerlo all’interno della cellula, è da
ritrovare in un’altra forza, fornita attivamente dalla pompa sodio-potassio ATP-dipendente: questa fa sì
che vengono trasportati all’esterno della membrana plasmatica 3 ioni sodio, mentre 2 ioni potassio
vengono trasportati nel fluido intracellulare (quindi rafforza la presenza superiore di 𝐾 nel liquido
intracellulare.

Per misurare il potenziale di membrana è necessario inserire la punta di due elettrodi rispettivamente dentro
la cellula e fuori di essa, nel liquido extracellulare. È importante però che la punta dell'elettrodo intracellulare
sia abbastanza sottile da perforare la membrana senza danneggiarla (si utilizzerà quindi un microelettrodo).
Generalmente tali dimensioni sono dell'ordine dei millesimi di millimetro. Per registrare il potenziale di
membrana di un neurone i cavetti degli elettrodi intra ed extra cellulari vengono collegati ad un oscilloscopio
che è uno strumento che mostra le variazioni di potenziale elettrico nel tempo. Quando entrambi gli elettrodi
sono nel liquido extracellulare la differenza di potenziale fra loro è zero. Quando invece la punta dell'elettrodo
intracellulare è inserita all'interno di un neurone il potenziale misurato è di circa -70mV, ovvero il potenziale
all'interno della cellula a riposo è di circa 70 mV inferiore a quello del liquido extracellulare (=0). Questo
potenziale si chiama potenziale di riposo del neurone. Allo stato di riposo con una differenza di potenziale tra
i due lati della membrana (positiva esternamente, negativa internamente) di circa 70mV si dice che il neurone
è polarizzato.
Con uno stimolatore elettrico è possibile perturbare il potenziale di riposo della membrana di un neurone in un
punto specifico dell’assone. Poiché l’interno dell’assone è negativo, una carica positiva applicata all’interno
della membrana produce una depolarizzazione (sottrae carica elettrica e riduce il potenziale di membrana).
Inviando una serie di stimoli depolarizzanti aumentandone mano a mano l’intensità, si può notare che ad un
certo dosaggio (chiamato “soglia di attivazione”) il potenziale di membrana improvvisamente si inverte in
modo tale che l’interno della membrana diventi elettricamente positivo mentre l’esterno negativo. Il potenziale
di membrana ritorna normale in pochi istanti ma dapprima supera il potenziale di riposo diventando
iperpolarizzato, ovvero più polarizzato del normale, per un breve periodo di tempo.
Questo fenomeno che consiste in una rapida inversione del potenziale di membrana è chiamato potenziale
d’azione: esso costituisce il messaggio veicolato dall’assone, dal corpo cellulare fine bottoni terminali.

Il potenziale di azione e la sua conduzione

Non appena si raggiunge la soglia di attivazione, i canali per il sodio della membrana voltaggio dipendenti
(canali ionici specifici chiamati così poiché i canali sono aperti dalle modificazioni del potenziale di membrana)
si aprono e il sodio (+) irrompe all’interno della cellula, spinto dentro dalla forza di diffusione e da quella della
pressione elettrostatica. L’apertura di questi canali è provocata dalla depolarizzazione del potenziale di
membrana: il sodio è positivo e entra nel fluido intracellulare che è negativo, quindi avviene una parziale
depolarizzazione del potenziale di membrana che passa da da -70 a +40 mV.

La membrana dell’assone, oltre a contenere canali per il sodio, contiene anche canali per il potassio voltaggio
dipendenti, ma questi canali, essendo meno sensibili, iniziano ad aprirsi più tardi rispetto a quelli per il sodio.
Nel momento in cui il potenziale d’azione raggiunge il suo picco, circa 1 millisecondo dopo, i canali per il sodio
diventano refrattari (si bloccano) e viene interrotto l’afflusso di sodio. A questo punto i canali per il potassio
voltaggio dipendenti sono aperti e gli ioni potassio (+) si muovono liberamente attraverso la membrana
caricando l’interno dell’assone positivamente causando una repulsione del potassio verso l’esterno data dalla
forza di diffusione e dalla forza di pressione elettrostatica. Questa fuoriuscita provoca il ritorno del potenziale
di membrana al suo valore normale. Quando il potenziale di membrana è tornato a livelli normali, i canali per il
sodio si chiudono, di modo che una nuova depolarizzazione possa provocarne la riapertura e così via.

La conduzione del potenziale di azione è regolata dalla “Legge del tutto o nulla”. Questa legge afferma che un
potenziale d’azione può rigenerarsi o no, ma una volta che si innesca si propaga fino all’estremità della fibra.
Un potenziale d’azione rimane sempre della stessa intensità senza aumentarla o diminuirla. Quando un
potenziale di azione raggiunge un punto in cui l’assone si ramifica, si divide anch’esso, ma non modifica la sua
intensità.
Se il potenziale di azione è regolato dalla legge del tutto o nulla, come può rappresentare un’informazione che
varia continuamente? La legge del tutto o nulla definisce il singolo potenziale, ma non la varietà
dell’informazione che è rappresentata dalla frequenza di scarica dell’assone (“Legge della frequenza”).

LA COMUNICAZIONE TRA NEURONI (Carlson pagg.51-64)


Sinapsi, neurotrasmettitori, recettori, potenziali postsinaptici, autorecettori, altri tipi di sinapsi,
la comunicazione chimica non sinaptica
………………

Visione d’insieme

Il tipo principale di comunicazione tra i neuroni è la trasmissione sinaptica, cioè la trasmissione di messaggi
dal neurone all’altro tramite le sinapsi. Questa trasmissione permette ai circuiti neuronali di raccogliere le
informazioni sensoriali, pianificare strategie e iniziare comportamenti. Lo strumento usato per trasmettere
questi messaggi è il neurotrasmettitore rilasciato dai bottoni terminali: questo si diffonde nello spazio, riempito
di fluido extracellulare, che si trova tra i bottoni terminali e le membrane dei neuroni con cui questi formano
sinapsi. Il neurotrasmettitore produce i potenziali post-sinaptici, cioè brevi depolarizzazioni o
iperpolarizzazioni, che aumentano o diminuiscono la frequenza di scarica degli assoni dei neuroni post
sinaptici. I neurotrasmettitori esercitano i loro effetti sulle cellule agganciandosi a una regione particolare della
molecola del recettore chiamata sito di legame (la molecola e il sito di legame sono complementari). Un
agente chimico che si aggancia a un sito di legame è chiamato ligando: i neurotrasmettitori sono ligandi
naturali, prodotti e rilasciati da neuroni.
La struttura delle sinapsi (vedi immagine pag. 53)

Le sinapsi sono giunzioni tra i terminali sinaptici, posti alla fine delle ramificazioni assonali di un neurone, e la
membrana di un altro. Le sinapsi possono stabilirsi in tre punti di una cellula: sui dendriti (asso-dendritiche),
sul soma (asso-somatiche), su altri assoni (asso-assoniche). Le sinapsi asso-dendritiche possono trovarsi
sia sulla superficie liscia del dendrite oppure sulle “spine dendritiche” (per questo anche definite asso-spinose),
piccole estroflessioni presenti sulla superficie degli stessi.
Entrando nel dettaglio della composizione strutturale, la sinapsi è formata da una membrana presinaptica,
collocata la fine del bottone terminale che si contrappone alla membrana post-sinaptica, che si trova sul
neurone che riceve il messaggio e cioè sul neurone post sinaptico. Queste due membrane si fronteggiano da
una parte all’altra della fessura sinaptica, uno spazio vuoto di dimensioni variabili contenente fluido
extracellulare attraverso il quale si diffonde il neurotrasmettitore.
Nel citoplasma del bottone terminale, si trovano due strutture di fondamentale importanza: le vescicole
sinaptiche e i mitocondri. Vi sono inoltre i microtubuli, essenziali per il trasporto di materiale tra il soma e il
bottone terminale. Le vescicole sinaptiche, piccole strutture ovoidali contenute in ciascun bottone terminale,
possono essere di due tipi: piccole e grandi. Le prime contengono i neurotrasmettitori (regolati da proteine di
trasporto e proteine di traffico). Le vescicole sinaptiche sono presenti con la massima concentrazione nelle
vicinanze della membrana presinaptica antistante alla fessura sinaptica, vicino alla zona di rilascio.

Rilascio dei neurotrasmettitori

Quando i potenziali d’azione arrivano alla fine dell’assone, nei bottoni terminali un certo numero di vescicole
sinaptiche piccole, situate appena all’interno della membrana presinaptica, si fonde con questa e si apre verso
l’esterno riversando il proprio contenuto nella fessura sinaptica.
La zona di rilascio della membrana presinaptica contiene dei canali voltaggio dipendenti per il calcio, che si
aprono quando la membrana del bottone terminale viene polarizzata all’arrivo di un potenziale d’azione.
Alcuni degli ioni calcio che entrano in bottone terminale si legano al cluster di proteine che uniscono la
membrana delle vescicole sinaptiche con quella presinaptica. Questo evento fa separare i segmenti che
compongono il cluster di proteine, aprendo un poro di fusione: un passaggio attraverso le due membrane che
consente loro di fondersi insieme. I ricercatori hanno rilevato la presenza di tre pool distinti di vescicole
sinaptiche: le vescicole pronte al rilascio del neurotrasmettitore appena arriva il potenziale d’azione (<1%), le
vescicole del pool di riciclo (10-15%) e quelle del pool di riserva (85-90%). Se l’assone scarica a bassa
frequenza, sono chiamate in causa solo le prime; se così non fosse vengono prima attivate quelle di riciclo e
poi quelle di riserva.

L’attivazione dei neurotrasmettitori

Come avviene la depolarizzazione o l’iperpolarizzazione della membrana posta sinaptica in seguito al rilascio
del neurotrasmettitore?

I neurotrasmettitori producono i loro effetti diffondendosi nella fessura sinaptica agganciandosi al sito di
legame di speciali proteine presenti nella membrana post sinaptica, chiamate recettori post sinaptici.
Una volta stabilito il legame, questi recettori aprono i canali ionici neurotrasmettitore-dipendenti, che
consentono il passaggio di ioni specifici dentro o fuori la cellula.

I neurotrasmettitori aprono i canali ionici mediante almeno due metodi: quello diretto e quello indiretto:
1. Il metodo diretto prevede la presenza di un recettore ionotropico: questo recettore è sensibile a un
neurotrasmettitore chiamato acetilcolina. Esso contiene canali per il sodio che, quando si aprono,
permettono l’ingresso di ioni sodio nella cellula che depolarizza la membrana.
2. Il metodo indiretto prevede, invece, la presenza di recettori metabotropici. Questi recettori non attivano
direttamente il canale ionico, la una sequenza chimica. Essi sono localizzati in stretta prossimità della
proteina G: quando la molecola di neurotrasmettitore (ligando) si aggancia recettore, si attiva la proteina
G situata all’interno della membrana. A questo punto, la proteina attiva a sua volta un enzima che stimola
la produzione di una sostanza chimica denominata secondo messaggero. Il neurotrasmettitore è il primo
messaggero. Le molecole di secondo messaggero si attaccano in prossimità di canali ionici e inducono
ad aprirsi. Il secondo messaggero ad essere scoperto per primo è stato l’AMP ciclico: una sostanza
chimica sintetizzata dall’ATP.
I potenziali postsinaptici (vedi immagine pag. 58)

I potenziali post sinaptici possono essere depolarizzanti (eccitatori) o iperpolarizzanti e (inibitori): ciò che
determina la natura del potenziale post sinaptico in una data sinapsi non è il neurotrasmettitore in sé, bensì le
caratteristiche dei recettori post sinaptici: soprattutto, il particolare tipo di canale ionico che aprono (canali di
sodio, potassi, cloro e calcio).
 Una depolarizzazione eccitatoria della membrana post-sinaptica di una sinapsi, provocata dalla liberazione di
un neurotrasmettitore da parte di un bottone terminale è detta “potenziale post-sinaptico eccitatorio PPSE”.
 Una iper-polarizzazione inibitoria della membrana post-sinaptica di una sinapsi, provocata dalla liberazione di
un neurotrasmettitore da parte di un bottone terminale è detta “potenziale post-sinaptico inibitorio PPSI”.

Sodio 𝑁𝑎  ingresso - PPSE


Potassio 𝐾  uscita - PPSI
Cloro 𝐶𝑙  ingresso - PPSI
Calcio 𝐶𝑎  ingresso - PPSE, attiva un enzima che induce alterazioni biochimiche (vedi capitolo 13)

La cessazione dei potenziali postsinaptici

I potenziali post-sinaptici, come detto, consistono in brevi depolarizzazioni o iperpolarizzazioni causate


dall’attivazione dei recettori post-sinaptici da parte di molecole di neurotrasmettitore. Si tratta di eventi rapidi
per via dell’azione di due meccanismi: la ricaptazione e la disattivazione enzimatica.
La ricaptazione consiste nel recupero di un neurotrasmettitore appena rilasciato da un bottone terminale
attraverso la sua membrana, che in questo modo arresta il potenziale post-sinaptico.
La disattivazione enzimatica consiste nella distruzione di un neurotrasmettitore da parte di un enzima, dopo il
suo rilascio: per esempio, la distruzione dell’acetilcolina da parte dell’acetilcolinesterasi.

Tra gli effetti dei potenziali postsinaptici c’è l’integrazione neuronale, ovvero il processo per cui potenziali
postsinaptici eccitatori e inibitori si sommano e controllano la frequenza di scarica di un neurone.

Gli autorecettori

La membrana presinaptica, al pari della postsinaptica, contiene recettori che rilevano la presenza di un
neurotrasmettitore. I recettori presinaptici controllano la quantità di neurotrasmettitore rilasciata dal neurone
e, apparentemente, ne regolano finemente la quantità che viene sintetizzata o rilasciata.
Vi è inoltre un altro tipo di recettore denominato autorecettore: molecola recettrice posta su un neurone che
risponde al neurotrasmettitore secreto dal neurone stesso.

Altri tipi di sinapsi

Andiamo adesso a dare un’occhiata alle sinapsi asso-assoniche, in quanto funzionano in maniera differente
rispetto alle sinapsi asso-somatiche o asso-dendritiche.
Le sinapsi asso-assoniche alterano la quantità di neurotrasmettitore rilasciato dei bottoni terminali dell’assone
post sinaptico e svolgono dunque un’azione di modulazione presinaptica in senso inibitorio o facilitatorio: se
l’attività della sinapsi asso-assonica riduce il rilascio di neurotrasmettitori avverrà un’inibizione presinaptica;
se invece la sinapsi asso-assonica ne aumenta il rilascio, l’effetto sarà di facilitazione presinaptica.
Molti neuroni particolarmente piccoli possiedono delle ramificazioni estremamente ridotte sembrano mancare
completamente di assoni. Questi neuroni formano sinapsi dendro-dendritiche e cioè delle sinapsi che si
stabiliscono tra i dendriti: la maggior parte dei ricercatori sostiene che questi neuroni svolgano funzioni di
regolazione, aiutando ad organizzare l’attività di altri gruppi di neuroni.

Da un punto di vista funzionale distinguiamo una sinapsi chimica, dove la trasmissione dell’impulso nervoso
avviene tramite neurotrasmettitori, e una sinapsi elettrica dove la trasmissione dell’impulso nervoso avviene
tramite la differenza di potenziale causata dallo spostamento degli ioni. Tra questi neuroni si verifica una
“giunzione stretta”; è un tipo di sinapsi rara nei vertebrati
La fusione delle vescicole sinaptiche e promossa prima da un evento elettrico e poi da uno chimico.
Trasmissione chimica non sinaptica

La trasmissione non sinaptica è simile a quella sinaptica. I neuromodulatori e gli ormoni peptidici attivano i
recettori peptidici metabotropici localizzati sulla membrana e i loro effetti sono mediati dall’azione dei secondi
messaggeri. Gli ormoni steroidei entrano nel nucleo, dove si legano a recettori capaci di alterare la sintesi delle
proteine che regolano i processi fisiologici della cellula, Questi ormoni si legano anche a recettori collocati
altrove nella cellula, ma la loro funzione è molto meno conosciuta.
3. LA STRUTTURA DEL SISTEMA NERVOSO
Caratteristiche di base del sistema nervoso
Una visione d’insieme
Le meningi
Il sistema ventricolare e la produzione di LCS
SOMMARIO DELLA PRIMA PARTE
Il sistema nervoso centrale
Lo sviluppo del sistema nervoso centrale
Il proencefalo
Il mesencefalo
Il rombencefalo
Il midollo spinale
SOMMARIO DELLA SECONDA PARTE
Il sistema nervoso periferico
I nervi spinali
I nervi cranici
Il sistema nervoso autonomo
SOMMARIO DELLA TERZA PARTE
CARATTERISTICHE DI BASE DEL SISTEMA NERVOSO (Carlson pagg.67-74 + Slide 2/3)
Una visione d’insieme, le meningi e il sistema ventricolare e la produzione di LCS
……………..
TERMINOLOGIE UTILIZZATE: collocazione (N.B. sono in inglese, sono tutte simili all’italiano, tranne “cross section” che
sta per “sezione coronale”)  vedi pag. 68 e 69

Una visione d’insieme (Carlson + Slide 2)


Il Sistema Nervoso è costituito da un complesso di organi il cui compito è quello di mettere in relazione tutte
le parti dell’organismo tra di loro e con l’ambiente esterno. Esso è composto dal cervello e dal midollo spinale,
che insieme costituiscono il sistema nervoso centrale, e dai nervi cranici, i nervi spinali e i gangli periferici, che
insieme formano il sistema nervoso periferico. Il sistema nervoso centrale è incastrato in strutture ossee: il
cervello è contenuto nella scatola cranica e il midollo spinale nella colonna vertebrale.
Il cervello, racchiuso nella scatola cranica e ricoperto dal liquor, è composto da una grande massa di neuroni,
glia e altre cellule di sostegno. Esso riceve circa il 15-20% della gittata cardiaca ed è chimicamente protetto
dalla barriera ematoencefalica. Altre parti del corpo, come i muscoli e l’apparato digerente, ricevono quantità
sanguigne variabili, in base alle loro necessità e in relazione a quelle delle altre regioni. Il cervello può
immagazzinare piccole quantità di combustibile, e non può estrarre provvisoriamente energia in assenza di
ossigeno, come fanno i muscoli; pertanto, è essenziale un consistente afflusso di sangue (vedi importanza del
flusso ematico cerebrale in fisiologia).

(Slide) I nervi sono fasci di fibre nervose che servono per il transito degli impulsi elettrici (nel SNC si chiamano
fasci di fibre); i gangli sono agglomerati di corpi centrali di neuroni (nel SNC si chiamano nuclei).

(Slide) Il sistema nervoso ha tre funzioni principali:


1. funzione sensoriale: permette la percezione di stimoli sensoriali, i quali vengono captati dai recettori
periferici e trasmessi verso il centro attraverso le vie sensoriali o afferenti (lo stimolo viaggia in senso
ascendente). In questo caso il neurone di origine è nei gangli sensitivi.
2. funzione di integrazione: la presenza di contatti sinaptici inibitori o eccitatori, unita a fenomeni di
divergenza (ossia di smistamento dei segnali da un neurone a più neuroni) e di convergenza (ossia di
arrivo a un unico neurone di segnali provenienti da più neuroni), è alla base delle capacità di
integrazione del sistema nervoso, e cioè della capacità di elaborazione e canalizzazione dei segnali,
così da ottenere delle risposte sempre più complesse
3. funzione motoria: consente il movimento, volontario e involontario. Lo stimolo viaggia in senso
discendente dal centro verso la periferia per mezzo delle vie motorie o efferenti, originate dai
motoneuroni.

Le meningi

L’intero sistema nervoso è ricoperto da un resistente tessuto connettivo. I rivestimenti intorno al cervello e al
midollo spinale sono chiamati meningi. Le meningi consistono di tre strati: lo strato esterno è spesso,
resistente, flessibile ma non allungabile: il suo nome è dura madre. Lo strato intermedio delle meningi è
l’aracnoide, soffice e spugnosa, si trova sotto la dura madre. Strettamente attaccata al cervello e al midollo
spinale e che ne segue ogni circonvoluzione, vi è la pia madre. Questa meninge contiene i più piccoli vasi
sanguigni cerebrali e spinali di superficie. Tra la pia madre e l’aracnoide c’è uno spazio chiamato spazio
subaracnoideo, che contiene il liquor cefalorachidiano: un fluido limpido, simile al plasma sanguigno, che
riempie il sistema ventricolare cerebrale e lo spazio subaracnoideo circostante il cervello e il midollo spinale.

Il sistema ventricolare e la produzione di LSC (vedi immagine pag. 72 del Carlson)

Il cervello è un organo molto delicato, gelatinoso e con un considerevole peso. Esso galleggia nel liquor
cefalorachidiano che limita il danno in caso di traumi.
Poiché il cervello è completamente immerso nel liquido, il suo peso netto si riduce approssimativamente a 80
gr e la pressione alla base del cervello è considerevolmente diminuita. Inoltre, il liquor che circonda il cervello
e il midollo spinale riduce i traumi al sistema nervoso centrale che potrebbero essere causati da movimenti
improvvisi del capo. Il cervello contiene una serie di cavità o camere interconnesse chiamate ventricoli, che
contengono il liquor. Le cavità più grandi sono i ventricoli laterali, localizzati nel centro del telencefalo,
entrambi connessi con il terzo ventricolo, localizzato nel centro del diencefalo. Un ponte di tessuto neurale
chiamato massa intermedia attraversa da una parte all’altra il centro del terzo ventricolo e serve da punto di
riferimento convenzionale. L’acquedotto cerebrale, uno stretto tubo localizzato al centro del mesencefalo,
mette in connessione il terzo ventricolo con il quarto ventricolo, localizzato tra il cervelletto e la porzione
dorsale del ponte, nel centro del mesencefalo.
Il liquor cefalorachidiano è estratto dal sangue e somiglia, nella sua composizione, al plasma sanguigno. È
prodotto da uno speciale tessuto chiamato plesso coroideo, che protrude in tutti e quattro i ventricoli. Questo
fluido è prodotto continuamente; il suo volume totale è pari approssimativamente a 125 ml e la sua emivita (il
tempo necessario per il ricambio) è di circa tre ore. Di conseguenza, il volume totale di liquor si ricambia
parecchie volte al giorno.
Il liquor cefalorachidiano è prodotto dal plesso coroideo dei ventricoli laterali e da qui defluisce verso il terzo
ventricolo. Qui è prodotta una maggiore quantità di liquor che, scorrendo attraverso l’acquedotto cerebrale,
giunge nel quarto ventricolo, dove ne viene prodotto ancora. Il liquor fuoriesce dal quarto ventricolo attraverso
piccoli forami che si connettono con lo spazio subaracnoideo, quindi circola intorno al sistema nervoso
centrale, dove è riassorbito dalla circolazione sanguigna attraverso le granulazioni aracnoidee, piccole
proiezioni della membrana aracnoide attraverso la dura madre, fino al seno sagittale superiore.
Allo scopo di studiare il liquor si pratica la puntura lombare, che consiste nell’estrazione del liquido mediante
una puntura a livello dello spazio intervertebrale, tra la terza e la quarta, o la quarta e la quinta vertebre lombari.
Se il liquido durante lo sviluppo non viene riassorbito a livello delle granulazioni aracnoidee, si verificano delle
terribili alterazioni che portano appunto a una situazione patologica chiamata idrocefalo, che si manifesta con
l’aumento della circonferenza cranica (con tutte le conseguenze associate).

IL SISTEMA NERVOSO CENTRALE S.N.C (Pagg. 74-92 + Slide 2/3)


Lo sviluppo del S.N.C, il prosencefalo, il mesencefalo e il midollo spinale

……………………

Quando si deve fare riferimento a una specifica porzione del sistema nervoso, viene utilizzata una terminologia
che torna utile nell’identificare le direzioni anatomiche. Queste direzioni sono descritte in relazione al nevrasse,
una linea mediana immaginaria tracciata attraverso il midollo spinale fino al lobo frontale del cervello.

• Rostrale = anteriore, verso il capo


• Caudale = posteriore, verso la “coda”

• Ventrale = che guarda il basso (nell’uomo, la zona del ventre)


• Dorsale = che guarda l’alto (nell’uomo, la zona del dorso)

• Laterale = verso l’esterno


• Mediale = verso la linea mediana

• Ipsilaterale = stessa direzione


• Controlaterale = direzione opposta

Inoltre, il cervello può essere sezionato secondo 3 piani:

• Piano sagittale = divide il cervello in parte destra e parte sinistra. Quando le due parti sono simmetriche
si dice “mediosagittale”
• Piano frontale = divide il lobo frontale da tutti gli altri posteriori
• Piano orizzontale = divide il cervello in parte ventrale e dorsale
Lo sviluppo del S.N.C: sviluppo prenatale e postnatale

Divisione Sottodivisioni Strutture


(3 settimane) (6 settimane) principali

Proencefalo Telencefalo Corteccia


cerebrale

Gangli della base


Sistema limbico
Diencefalo Talamo
Ipotalamo
Mesencefalo Mesencefalo Tetto
Tegmento

Proencefalo Metencefalo Cervelletto


Ponte
Mielencefalo Bulbo

Lo sviluppo del sistema nervoso ha inizio intorno al diciottesimo giorno dopo il concepimento. Parte
dell’ectoderma (il foglietto embrionale più esterno) si ispessisce e forma una placca. I bordi di questa placca
formano creste che si arricciano longitudinalmente. Dal ventunesimo giorno queste creste si toccano fino a
fondersi e formano il tubo neurale, da cui derivano il cervello e il midollo spinale. Dal ventottesimo giorno il
tubo neurale si differenzia in tre vescicole interconnesse: da tali vescicole si formano i ventricoli e dal tessuto
circostante le tre parti principali del cervello: proencefalo, mesencefalo e romboencefalo. Con il procedere dello
sviluppo, la vescicola del proencefalo si differenzia in tre parti separate, da cui derivano i ventricoli laterali e il
terzo ventricolo. La regione intorno ai ventricoli laterali va a formare il telencefalo, mentre la regione intorno al
terzo ventricolo il diencefalo. Nella sua forma finale, la vescicola al centro del mesencefalo si restringe,
formando l’acquedotto cerebrale.

Lo sviluppo cerebrale prosegue anche dopo la nascita: il cervello umano continua a svilupparsi per almeno
due decenni e alcune modificazioni sottili, come quelle conseguenti alle esperienze di apprendimento,
continuano a prodursi per tutta la vita. Differenti regioni cerebrali svolgono funzioni specializzate, pertanto,
differenti regioni corticali ricevono informazioni diverse e contengono circuiti neuronali diversi.
Quali sono i fattori che controllano questo sviluppo? Alcune forme di specializzazione sono senza dubbio
programmate geneticamente. Un altro fattore che influisce sullo sviluppo cerebrale è l’esperienza. Evidenze
sperimentali indicano che un certo grado di rimodellamento neuronale può realizzarsi anche nel cervello
adulto. Per molti anni i ricercatori hanno creduto che la neurogenesi, la produzione di nuovi neuroni attraverso
la divisione delle cellule germinative cerebrali (si verifica nell’ippocampo e nel bulbo olfattivo), non ha luogo in
cervelli completamente sviluppati. Tuttavia, studi più recenti hanno dimostrato che questa credenza è falsa: il
cervello adulto contiene alcune cellule germinative che possono dividersi e produrre nuovi neuroni. Questi studi
hanno rilevato evidenze di neurogenesi solo in due parti del cervello adulto: l’ippocampo, principalmente
coinvolto nell’apprendimento, e il bulbo olfattivo, implicato nella percezione degli odori. Le prove empiriche
indicano che l’esposizione a nuovi odori può aumentare la percentuale di sopravvivenza dei neuroni dei bulbi
olfattivi, mentre l’addestramento relativo a un compito di apprendimento può rafforzare la neurogenesi
nell’ippocampo.
L’ENCEFALO

Il prosencefalo

Il proencefalo circonda l’estremità rostrale del tubo neurale. Le sue componenti sono il telencefalo e il
diencefalo.

Il telencefalo = Il telencefalo comprende la maggior parte dei due emisferi cerebrali simmetrici che
costituiscono il cervello. Gli emisferi sono ricoperti dalla corteccia cerebrale e contengono il sistema limbico e
i gangli della base.

La corteccia cerebrale (vedi immagini pag. 82-83 Carlson) è la superficie esterna del cervello e nell’uomo
presenta numerose ripiegature: i solchi sono pieghe piccole, le scissure sono pieghe più profonde e i giri sono
i rilievi tra solchi o scissure adiacenti. Esse servono ad aumentare di molto l’area superficiale della corteccia,
in quanto 2/3 di questa sono nascosti nelle ripiegature. La corteccia cerebrale è suddivisa per comodità in 4
lobi: frontale, parietale, temporale e occipitale. Le aree corticali che ricevono informazioni dagli organi di senso
sono la corteccia visiva primaria, situata nel lobo occipitale, la corteccia uditiva primaria, in una scissura nelle
zone laterali e la corteccia somatosensitiva primaria, caudale al solco centrale. La corteccia deputata a
ricevere le informazioni gustative è chiamata corteccia insulare, contenuta nella somatosensitiva. Ad
eccezione dell’olfatto e del gusto, l’informazione sensoriale proveniente dall’esterno è trasmessa alla corteccia
sensoriale primaria dell’emisfero controlaterale. L’area corticale maggiormente coinvolta nel controllo del
movimento è la corteccia motoria primaria, situata davanti alla somatosensitiva. La corteccia prefrontale si
occupa invece solo della pianificazione delle strategie motorie. Per ogni corteccia primaria esiste la
corrispondente corteccia associativa, che a seconda del tipo di stimolo assume funzioni diverse. Ad esempio,
nelle cortecce associative sensoriali è dove avviene la percezione di uno stimolo nella sua interezza e la sua
memorizzazione. La corteccia associativa motoria invece è quella che controlla direttamente il
comportamento motorio.
Emisfero destro ed emisfero sinistro svolgono alcune funzioni in modo esclusivo. Ad esempio l’emisfero
sinistro partecipa principalmente all’analisi dei dati e al controllo e riconoscimento di eventi seriali (es. attività
verbali), mentre quello destro è specializzato nella sintesi dei singoli elementi in un tutt’uno (es. disegnare,
leggere mappe). È il corpo calloso, costituito da grandi fasci di assoni, a mettere in contatto emisfero destro e
sinistro e a farli collaborare.
La corteccia cerebrale che riveste la superficie esterna degli emisferi cerebrali è chiamata neocorteccia,
mentre quella che riveste i bordi mediali degli emisferi è chiamata corteccia limbica. Della corteccia limbica
fa parte il giro del cingolo, una striscia di corteccia che si estende lungo le pareti laterali della scissura che
separa gli emisferi cerebrali, appena sopra al corpo calloso.

Il sistema limbico (vedi immagine pag. 86) è un complesso di strutture cerebrali comprendente i nuclei
talamici anteriori, l’amigdala, l’ippocampo, la corteccia limbica, parte dell’ipotalamo e le loro interconnessioni
con i fasci di fibre. L’ippocampo è una struttura prosencefalica del lobo temporale, che costituisce
un’importante parte del sistema limbico; include l’ippocampo (corno di Ammone), il giro dentato e il subiculum.
L’amigdala è una struttura all’interno della porzione rostrale del lobo temporale, che contiene un complesso
di nuclei. Il fascio di fibre che connette l’ippocampo con le altre parti encefaliche, inclusi i corpi mammillari
dell’ipotalamo, è chiamato fornice. I corpi mammillari sono una protrusione della base del cervello
all’estremità posteriore dell’ipotalamo, che contiene alcuni dei nuclei ipotalamici appartenenti al sistema
limbico.

I gangli della base sono un raggruppamento di nuclei sottocorticali, coinvolti nel controllo del movimento. I
“nuclei” sono gruppi di neuroni di forma simile e, nei gangli della base, i principali sono il nucleo caudato, il
putamen e il globo pallido. I gangli della base sono coinvolti nel movimento.

Il diencefalo = è la seconda principale divisione del proencefalo, è situato tra il telencefalo ed il mesencefalo.
È composto dal talamo e dall’ipotalamo.

Il talamo forma la parte dorsale del diencefalo ed è una massa posta in ciascun emisfero, lateralmente al terzo
ventricolo. Il talamo si compone di due lobi connessi tra loro da un ponte di sostanza grigia chiamata massa
intermedia. Ha il compito di regolare la maggior parte del flusso di informazione da e per la corteccia. È diviso
da parecchi nuclei: i nuclei sensoriali proiettano in corteccia i segnali sensoriali dalla periferia, i nuclei motori
proiettano segnali motori provenienti da cervelletto, gangli della base e aree cerebrali motorie. Altri nuclei, quelli
reticolari, proiettano diffusamente a tutta la corteccia e sono implicati nei ritmi sonno-veglia e nella vigilanza.

L’ Ipotalamo è una struttura formata da nuclei posti alla base del diencefalo, dove formano parte della base e
della parete del III ventricolo. La funzione principale dell’ipotalamo è di regolare l’omeostasi, cioè mantenere
costanti nelle varie condizioni i parametri vitali, quali la temperatura corporea, il peso corporeo, il bilancio idro-
elettrolitico ecc. Per raggiungere questo scopo, l’ipotalamo è provvisto di una caratteristica peculiare che è
quella di rappresentare il nodo di convergenza ed integrazione del controllo esercitato sia dal sistema nervoso
centrale che dal sistema endocrino (asse ipotalamo-ipofisario); organizza, inoltre, i comportamenti relativi alla
sopravvivenza della specie: il combattimento, l’alimentazione, la fuga e l’accoppiamento. (N.B. integra la parte
sull’ipofisi di fisiologia).

Il mesencefalo

Il mesencefalo = si trova al di sotto del telencefalo. Avvolge l’acquedotto cerebrale (struttura che collega il 3°
al 4° ventricolo) ed è composto da una parte dorsale, il tetto (deputato al controllo dell’udito, dei riflessi visivi)
e una parte ventrale il tegmento.

Il tetto comprende i collicoli superiori, che svolgono attività per il controllo delle informazioni visive e di
conseguenza il controllo delle attività motorie automatiche, e i collicoli inferiori che svolgono funzioni di
integrazione audio-motoria

Il tegmento, che è composto dall’estremità rostrale della formazione reticolare, dalla PAG, dal nucleo rosso e
dalla sostanza nera.
L’estremità rostrale della formazione reticolare è un estesa rete di tessuto neurale che consiste in molti nuclei
ed è localizzata nelle regioni centrali del tronco encefalico, dal bulbo al diencefalo. Riceve l’informazione
sensoriale mediante molte vie e proietta gli assoni alla corteccia cerebrale, al talamo ed al midollo spinale. La
sua funzione è il mantenimento dello stato di coscienza, è inoltre implicata nel ritmo sonno-veglia. Interviene
anche nella regolazione del tono muscolare, fondamentale per il mantenimento posturale e il movimento.
La sostanza grigia periacquedottale (PAG) è la regione del mesencefalo che circonda l’acquedotto cerebrale.
Contiene circuiti neuronali che controllano le sequenze dei movimenti che costituiscono i comportamenti
specie-specifici, come il combattimento e l’accoppiamento. Inoltre coinvolge delle strutture deputate al
controllo del dolore. Il nucleo rosso è un fascio di assoni che nasce dal nucleo rosso costituisce uno dei due
maggiori sistemi di fibre che trasportano il comando motorio dalla corteccia cerebrale e dal cervelletto al
midollo spinale. La sostanza nera è una regione nerastra che contiene i neuroni cui assoni proiettano al nucleo
caudato e al putamen. La degenerazione di questi neuroni causa il Morbo di Parkinson.

Il romboencefalo

Il romboencefalo = avvolge il 4° ventricolo ed è formato da due importanti divisioni: il metencefalo ed il


mielencefalo.

Il metencefalo: comprende il cervelletto ed il ponte.

Il cervelletto è un agglomerato neuronale e il suo volume pur essendo solo un decimo di quello cerebrale,
contiene circa la metà dei neuroni presenti nel nostro SNC. È composto da due emisferi cerebellari coperti
dalla corteccia cerebellare ed ha alcuni nuclei cerebellari profondi: questi ricevono proiezioni dalla corteccia
cerebellare ed inviano proiezioni al di fuori del cervelletto, alle altre strutture del cervello. La corteccia
cerebellare si presenta divisa in sottili lamelle dette “folia”, è suddivisa in 3 lobi (anteriore, posteriore e flocculo
nodulare) da 2 fessure (primaria e posterolaterale). Ancora due solchi verticali, distinguono una parte centrale
detta verme dai due emisferi.
Nella profondità del cervelletto, come dicevamo sopra, si trovano 3 nuclei che sono: il fastigio, l’interposito (
diviso in globoso ed emboli forme) e il dentato.
Infine il cervelletto è connesso al tronco cerebrale da 3 fasci di fibre: il peduncolo superiore, il peduncolo medio
e il peduncolo inferiore (simmetricamente presenti sui due lati).
Il cervelletto gioca un ruolo importante nell’integrazione e nella coordinazione dei movimenti muscolari
complessi, attività fisiche che necessitano di un certo apprendimento e che poi si trasformano in dei circuiti
pre-costruiti (es suonare il pianoforte). Un esteso danno cerebellare rende impossibile perfino la postura
eretta.

Il Ponte è rostrale (prossimale) al bulbo, caudale (opposto) al mesencefalo e ventrale (anteriore) al cervelletto.
Contiene numerosi nuclei della formazione reticolare e vie per e da il cervelletto. Invia anche fibre alla corteccia
cerebrale. Le sue funzioni principale sono il controllo del sonno e la regolazione del livello globale di attivazione
cerebrale.

Il mielencefalo

Il mielencefalo contiene un’importante struttura, il midollo allungato, generalmente chiamato bulbo. Il bulbo è
la porzione più caudale del cervello, che confina con il midollo spinale. Contiene anch’esso parte della
formazione reticolare, inclusi numerosi nuclei che controllano le funzioni vitali come la regolazione del sistema
cardiovascolare e della pressione sanguigna (data appunto la presenza del centro cardiovascolare), la
respirazione (centro del respiro) ed il mantenimento del tono dei muscoli scheletrici.

IL MIDOLLO SPINALE

È una lunga struttura conica, è lungo circa 42 cm nella donna e 45 cm nell’uomo, e si estende dal grande
forame occipitale fino alla prima/seconda vertebra lombare. La sua funzione principale è distribuire le fibre
motorie agli organi effettori del corpo (ghiandole e muscoli) e trasmettere l’informazione somatosensitiva ai
centri cerebrali superiori.
È protetto dalla colonna vertebrale, che è composta da 24 singole vertebre della regione cervicale (collo),
toracica (torace) e lombare (fondoschiena) e da un gruppo di vertebre fuse che compongono la porzione
sacrale e coccigea della colonna (localizzate nella regione pelvica).
Il midollo spinale passa attraverso un foro presente in ogni vertebrale (il forame spinale. Si noti che il midollo
spinale corrisponde soltanto a circa due terzi della lunghezza della colonna vertebrale; il resto dello spazio è
riempito da una massa di radici spinali che compongono la cauda equina (“coda di cavallo”): nelle prime fasi
di sviluppo embriologico, la colonna vertebrale ed il midollo spinale hanno la stessa lunghezza. Con il
procedere dello sviluppo, la colonna vertebrale cresce più rapidamente del midollo spinale. Questa crescita
differenziata fa sì che le radici spinali si dispongano verso il basso. Le radici più caudali si estendono il più
lontano possibile, prima di emergere dai forami intervertebrali e formare la cauda equina.

(Slide) Se lo sezioniamo trasversalmente possiamo vedere:


‐ La porzione esterna del midollo spinale che consiste di sostanza bianca, vale a dire le fibre assonali ricoperte
di mielina, che trasportano l’informazione verso l’alto o verso il basso. Nella porzione anteriore della sostanza
bianca è presente la fessura mediana
‐ La porzione centrale è invece consiste di sostanza grigia, vale a dire i corpi cellulari dei neuroni. Circonda il
canale centrale che contiene il liquido cefalorachidiano. Presenta una forma ad “H” dove si individuano i
processi anteriori (chiamati corna vertebrali) e dei processi posteriori (chiamati corna dorsali).
Da ogni lato del midollo spinale emergono dei piccoli fasci di fibre in due direzioni parallele lungo la superficie
dorsolaterale e ventrolaterale. I gruppi di questi fasci di fondono insieme e diventano il 32esimo paio di radici
dorsali e ventrali. Le radici dorsali si uniscono con quelle ventrali, dopo il passaggio attraverso i forami
intervertebrali, formando così i nervi spinali.
La radice dorsale e la radice spinale contengono fibre sensitive in entrata e dunque, afferenti. La radice ventrale
e la radice spinale contengono fibre motorie in uscita e dunque efferenti.
IL SISTEMA NERVOSO PERIFERICO (Carlson pagg. 93-98 + Slide 2/3)
Nervi spinali, nervi cranici, SNA
……………..

Il sistema nervoso periferico

Il sistema nervoso periferico è quella parte del sistema nervoso che trasporta l’informazione sensoriale da
tutto il corpo al SNC attraverso dei fasci di conduzione. Esso è composto da:
 Recettori ed effettori: i recettori sono formazioni nervose che permettono la trasmissione di
informazioni dalla periferia al cervello; gli effettori sono cellule capaci di contrarsi e di rispondere
direttamente agli stimoli.
 I gangli periferici: sono ammassi di corpi cellulari di neuroni che indicano il punto di connessione tra
diversi tipi di cellule nervose.
 I processi nervosi: sono fasci di nervi periferici composti dai nervi cranici e dai nervi spinali che
collegano il cervello ed il midollo spinale al resto del corpo. All’interno dei nervi periferici si trovano gli
assoni dei neuroni sensoriali che trasmettono al SNC l’informazione sensoriale proveniente da tutte le
parti del corpo.

Esso è diviso in: sistema nervoso somatico e sistema nervoso autonomo.

Sistema nervoso somatico

Il sistema nervoso somatico prevede la classificazione in nervi craniali e nervi radicolari (spinali). Essi
permettono la comunicazione in ingresso e in uscita tra cervello/midollo spinale e il resto del corpo (muscoli,
ghiandole …)
 nervi spinali: sono formati dall’unione delle radici dorsali del midollo spinale (che contengono i corpi
cellulari degli assoni entranti) con le radici ventrali (contengono i corpi cellulari degli assoni uscenti). I
nervi lasciano la colonna vertebrale ed arrivano ai muscoli o ai recettori sensoriali che innervano,
ramificandosi ripetutamente nel tragitto.
 nervi cranici: sono 12 paia di nervi connessi alla superficie ventrale del cervello. La maggior parte di
essi svolge funzioni sensoriali e motorie, in genere, per la regione della testa e del collo. Il nervo vago,
il 10° paio di nervi cranici, può considerarsi un’eccezione, in quanto regola le funzioni degli organi della
cavità toracica e addominale. Il primo paia, il nervo olfattorio, è quello che rappresenta la sensibilità più
arcaica, che in alcuni animali (cane) è quella più sviluppata.

Sistema nervoso autonomo

Il sistema nervoso autonomo è un sistema efferente che regola, fuori dal controllo della nostra volontà, il
funzionamento di muscoli cardiaci e lisci, come anche di ghiandole endocrine (midollare del surrene) ed
esocrine (ghiandole salivari, lacrimali e sudoripare). Esso regola inoltre le variazioni termiche, cardiovascolari,
bronchiali, metaboliche ed endocrine che accompagnano gli stati emozionali (ansia, paura, rabbia, stupore, ed
eccitazione sessuale), adattando l’organismo a vari contesti. Inoltre il SNA utilizza una connessione neuronale
con gli effettori basata su due neuroni, e non soltanto su uno come avviene per il sistema nervoso somatico.
Il pirenoforo del primo neurone (neurone pre-gangliare) della catena nervosa autonoma è situato all’interno
del SNC e il neurite (l’assone) si dirige verso un ganglio periferico dove contrae sinapsi con il secondo neurone
(neurone post-gangliare) il cui neurite è destinato a innervare l’organo effettore (cuore, muscoli lisci,
ghiandole). Il sistema nervoso autonomo agisce sia in “via riflessa” dopo stimoli adeguati (un esempio può
essere la costrizione della pupilla alla luce), sia su comandi di centri integratori tronoencefalici, ipotalamici,
limbici e neocorticali, che sono responsabili del comportamento finalizzato e della regolazione della
temperatura, della sete, della fame, della minzione, del respiro…
È controllato sia dal midollo allungato che dall’ipotalamo.
Struttura del sistema nervoso autonomo

Il sistema nervoso autonomo si compone di più divisioni:

SISTEMA NERVOSO SIMPATICO (O ORTOSIMPATICO) = la sua funzione è quella di preparare l’organismo alle
reazioni di lotta o difesa, classicamente illustrate dall’espressione “combatti o fuggi”. Il sistema infatti stimola
l’attività cardiaca e aumenta la pressione arteriosa, deviando nel contempo il sangue dalla pelle e dai visceri
verso i muscoli attivi, il cervello e il cuore; dilata le pupille; dilata la trachea e i bronchi; stimola la glicogeno lisi
nel fegato; inibisce la contrazione della vescica e del retto, tutti effetti utili in una situazione di emergenza. I
corpi cellulari dei neuroni motori simpatici sono localizzati nella sostanza grigia delle regioni toraciche e
lombari del midollo spinale (per questo, il sistema nervoso simpatico è anche conosciuto come sistema
toracolombare). Le fibre di questi neuroni escono attraverso le radici ventrali. Dopo l’unione nei nervi spinali,
le fibre si diramano ed entrano nei gangli simpatici spinali (da non confondersi con i gangli della radice dorsale).
Da notare che ogni singolo ganglio simpatico è connesso sopra e sotto coni gangli vicini, formando in questo
modo la catena simpatica gangliare. Gli assoni che lasciano il midollo spinale attraverso la radice ventrale
appartengono ai neuroni pregangliari. Gli assoni pregangliari simpatici entrano nei gangli della catena
simpatica, dove la maggior parte fa sinapsi; altri invece, passano attraverso questi gangli e raggiungono i
gangli simpatici localizzati tra gli organi interni (con un’eccezione). Con un’eccezione, tutti gli assoni
pregangliari simpatici formano sinapsi con i neuroni localizzati nei gangli. I neuroni con cui essi contraggono
sinapsi sono chiamati neuroni postgangliari. A loro volta, quest’ultimi, spediscono gli assoni gli organi
bersaglio, come l’intestino, lo stomaco, i reni o le ghiandole sudoripare.
Il SNS controlla la midollare del surrene, un complesso di cellule localizzate nel centro nella ghiandola
surrenale. La midollare del surrene ricorda strettamente un ganglio simpatico. Essa è innervata dalle fibre
pregangliari e le sue cellule secretorie sono molto simili ai neuroni simpatici postgangliari; infatti quando sono
stimolate, secernono adrenalina e noradrenalina. Questi ormoni funzionano principalmente in aggiunta agli
effetti neurali diretti dell’attività simpatica (incrementano il flusso sanguigno nei muscoli, fanno sì che le
sostanze nutrienti immagazzinate siano degradate in glucosio nelle cellule dei muscoli scheletrici, ecc…)

I neuroni pre-gangliari (situati nel midollo toracico e lombare) del sistema simpatico liberano come mediatrice
acetilcolina (Ach) che provoca l’insorgenza di potenziali d’azione nei neuroni post-gangliari. Quest’ultimi
liberano a loro volta noradrenalina che, seconda del tipo di cellula verso la quale viene liberata, può esercitare
in alcuni casi eccitazione e in altri inibizione. In alcuni casi eccezionalmente ha come mediatore l’acetilcolina
anche a livello postgangliare: ciò si verifica nelle ghiandole sudoripare e in alcuni vasi sanguigni della
muscolatura scheletrica. La midollare del surrene è un ganglio simpatico specializzato, che riversa nel circolo
l’adrenalina ( 80%) e noradrenalina con effetti generalizzati (vedi appunti vecchi fisiologia).

SISTEMA NERVOSO PARASIMPATICO = la divisione parasimpatica del sistema nervoso autonomo, si occupa
delle attività coinvolte nell’incremento delle forniture energetiche dell’organismo; controbilancia, inoltre le
funzioni del sistema simpatico (ha dunque un ruolo inibitorio). Controlla la salivazione, la motilità gastrica ed
intestinale, la secrezione dei succhi digestivi. I corpi cellulari che danno origine alle fibre pregangliari nel
sistema nervoso parasimpatico sono localizzati in due regioni: i nuclei di alcuni nervi cranici (specialmente il
nervo vago) e le corna intermedie della sostanza grigia, nella regione sacrale del midollo spinale. Quindi la
divisione parasimpatica del SNA è spesso definita sistema craniosacrale.
I gangli parasimpatici sono localizzati nell’immediata vicinanza degli organi bersaglio; le fibre postgangliari
sono perciò relativamente corte. I bottoni terminali sia dei neuroni pregangliari sia di quelli postgangliari del
SNP secernono acetilcolina.

SISTEMA ENTERICO = Il sistema enterico è una porzione del sistema nervoso autonomo che innerva il tratto
gastroenterico (il libro non ne parla, vedi vecchi appunti fisiologia)
4. PSICOFARMACOLOGIA
Principi di psicofarmacologia
Farmacocinetica
Efficacia dei farmaci
Effetti della somministrazione ripetuta
Effetti placebo
SOMMARIO DELLA PRIMA PARTE
Siti d’azione dei farmaci
Effetti sulla produzione di neurotrasmettitori
Effetti sull’immagazzinamento e il rilascio dei neurotrasmettitori
Effetti sui recettori
Effetti sulla ricaptazione o distruzione dei neurotrasmettitori
SOMMARIO DELLA SECONDA PARTE
Neurotrasmettitori e neuromodulatori
Acetilcolina
Monoamine
Aminoacidi
Peptidi
Lipidi
Nucleosidi
Gas solubili
SOMMARIO DELLA TERZA PARTE
PRINCIPI DI PSICOFARMACOLOGIA (Carlson pagg. 100-106 + Slide 5)
Farmacocinetica, efficacia dei farmaci, effetti della somministrazione ripetuta, effetti placebo
…………………..

Poiché funzionalmente il cervello è un sistema elettrochimico, non sorprende che molte delle sostanze che
agiscono sul sistema nervoso lo fanno alterando la chimica del cervello e la trasmissione sinaptica. Parleremo
dunque di psicofarmacologia, e cioè lo studio degli effetti di sostanze psicoattive sul sistema nervoso e,
naturalmente, sul comportamento.

La farmacocinetica: vie di somministrazione, distribuzione dei farmaci all’interno dell’organismo e


disattivazione/escrezione

I farmaci sono dei composti chimici non necessari per il normale funzionamento cellulare, che assunti in dosi
relativamente basse alterano in maniera significativa le funzioni di alcune cellule del corpo.
Per essere efficace un farmaco deve raggiungere il proprio sito d’azione. I siti d’azione, banalizzando, sono i
siti dove le molecole dei farmaci interagiscono con le molecole che si trovano sopra o dentro i corpi cellulari,
influenzando alcuni processi biochimici di queste cellule. La seconda componente essenziale è l’efficacia
basata sugli effetti desiderati. Gli effetti sono i cambiamenti che un farmaco produce sui processi fisiologici e
sul comportamento di un essere umano.
Successivamente il processo attraverso il quale i farmaci sono assorbiti, distribuiti all’interno del corpo,
metabolizzati ed escreti è chiamato farmacocinetica. Quindi, una volta somministrato, le molecole del
farmaco devono immettersi nella circolazione sanguigna, per essere trasportate fino all’organo (o agli organi)
bersaglio. Le molecole del farmaco devono attraversare molte barriere: alcune passano facilmente e
velocemente queste barriere; altre lo fanno molto lentamente.

Vie di somministrazione = per prima cosa consideriamo quali sono le vie attraverso le quali i farmaci possono
essere somministrati.

L’iniezione è la via più comune di somministrazione per gli animali da laboratorio. Il farmaco è disciolto in un
liquido ed iniettato attraverso un ago ipodermico. La via più veloce di somministrazione è l’iniezione
endovenosa (EV), cioè l’iniezione in una vena e dunque il farmaco entra immediatamente nella circolazione
sanguigna e raggiunge il cervello in pochi secondi. L’iniezione intraperitoneale (IP) è rapida, ma meno rispetto
a quella endovenosa. Attraverso la parete addominale, il farmaco è iniettato nella cavità peritoneale, lo spazio
che circonda lo stomaco, l’intestino, il fegato e gli altri organi addominali. L’iniezione intramuscolare (IM) è
praticata direttamente in un muscolo grande, come quelli che si trovano sul braccio, sulla coscia o sulle
natiche. Il farmaco è assorbito nella circolazione sanguigna attraverso i capillari del muscolo. Se lo scopo
desiderato è un assorbimento molto lento, il farmaco può essere combinato con un’altra sostanza, come ad
esempio l’epinefrina, che restringe i vasi sanguigni e rallenta il flusso del sangue attraverso il muscolo. Un
farmaco può essere iniettato anche nello spazio sotto la pelle, per mezzo di un’iniezione sottocutanea (SC).
Questo tipo di iniezione è utile solo se devono essere somministrate piccole quantità di farmaco, poiché
l’iniezione di grandi quantità potrebbe risultare dolorosa.

La somministrazione orale è la forma più comune di somministrazione dei farmaci agli esseri umani. Dal
momento che è difficile che gli animali da laboratorio mangino qualcosa il cui sapore non sia gradevole per il
proprio gusto, i ricercatori usano raramente questa modalità.
D’altro canto alcuni composti non possono essere somministrati oralmente poiché sarebbero distrutti dagli
acidi dello stomaco o dagli enzimi digestivi (per esempio l’insulina, un peptide, deve essere iniettata).

La somministrazione sottolinguale di alcuni farmaci può essere eseguita collocando le sostanze in questione
sotto la lingua. Attraverso i capillari della mucosa che riveste la bocca, il farmaco è assorbito nella circolazione
sanguigna.

La somministrazione intrarettale è raramente usata negli animali da laboratorio. Le supposte sono più
comunemente usate per somministrare tutti quei farmaci che potrebbero irritare lo stomaco.
I polmoni forniscono un’altra via per la somministrazione di un farmaco e cioè l’inalazione. Questa via è
spesso utilizzata per tutti quei farmaci impiegati nel trattamento dei disturbi dei polmoni, che vengono appunto
spesso inalati sotto forma di vapore o di nebulizzazione fine.
Alcuni farmaci possono essere assorbiti direttamente attraverso la pelle, e cioè attraverso una
somministrazione topica. Gli steroidi naturali o artificiali possono essere somministrati in questo modo.

Infine, i farmaci, possono essere somministrati direttamente nel cervello. Come già sappiamo, la barriera
ematoencefalica impedisce ad alcuni composti chimici di lasciare i capillari ed entrare nel cervello. Alcuni
farmaci non possono attraversare questa barriera e nel caso dunque, debbano raggiungere il cervello, è
necessario iniettarli direttamente al suo interno, o nel liquor cerebrospinale del sistema ventricolare cerebrale.
Per studiare gli effetti di un farmaco in una regione specifica del cervello (ad esempio in un particolare nucleo
dell’ipotalamo) un ricercatore inietterà una piccolissima quantità di farmaco direttamente nel cervello; questa
procedura è nota come somministrazione intracerebrale.
Per ottenere una diffusa somministrazione del farmaco nel cervello, un ricercatore può oltrepassare la barriera
ematoencefalica iniettando il farmaco in un ventricolo cerebrale. Il farmaco è assorbito dal tessuto cerebrale,
dove esercita i suoi effetti (questa è la somministrazione intracerebroventricolare ICV).

Distribuzione dei farmaci all’interno dell’organismo = come ho scritto sopra, i farmaci esercitano i loro effetti
solo una volta raggiunti i loro siti d’azione. Nel caso dei farmaci che hanno effetti sul comportamento, la
maggior parte di questi siti è localizzata sulla superficie o all’interno di particolari cellule del sistema nervoso
centrale. Per quanto riguarda le varie modalità di somministrazione dei farmaci, possiamo dire che ad
eccezione della somministrazione intracerebrale ed intracerebroventricolare, le diverse modalità di
somministrazione di un farmaco influenzano solo la velocità con cui il farmaco raggiunge il plasma sanguigno.
Ma cosa accade dopo? Tutti i siti d’azione dei farmaci di interesse, per i farmacologi, si trovano al di fuori dei
vasi sanguigni. Molti fattori determinano la velocità con la quale il farmaco in circolazione raggiunge i siti
d’azione all’interno del cervello. Il primo è la liposolubità: le molecole solubili dei lipidi passano attraverso le
cellule che rivestono i capillari nel sistema nervoso centrale e si distribuiscono rapidamente in tutti il cervello.
Per esempio la diacetilmorfina (nota come eroina) è più liposolubile della morfina, perciò l’iniezione
endovenosa di eroina ha effetti più rapidi di quella di morfina.

Disattivazione ed escrezione = i farmaci non rimangono nel corpo a tempo indefinito, ma sono disattivati da
enzimi ed inseguito escreti, principalmente dai reni. Il fegato gioca un ruolo particolarmente attivo nella
disattivazione enzimatica dei farmaci (alcuni enzimi disattivanti sono presenti anche nel sangue). Anche il
cervello contiene degli enzimi in grado di distruggere alcuni farmaci. In alcuni casi gli enzimi trasformano le
molecole di un farmaco in altre forme, che sono a loro volta biologicamente attive. Talvolta, le molecole
trasformate sono persino più attive di quelle originariamente somministrate.

L’emivita di eliminazione (Slide) è il tempo necessario per una riduzione del 50% nella concentrazione ematica
del farmaco, dopo l’assunzione di una dose singola o in seguito alla sospensione di una terapia prolungata.
Determina la velocità con cui il farmaco si accumula durante una terapia a lungo termine ed raggiunge lo stato
costante. Indica quanto tempo è necessario per ottenere l’effetto massimo del farmaco e per quanto tempo
persiste l’effetto quando il farmaco è sospeso.

Efficacia dei farmaci = il miglior modo per misurare l’efficacia di un farmaco è disegnare una curva dose-
risposta. Questa curva correla la quantità di farmaco somministrata all’effetto; dosi progressivamente più
elevate di un farmaco producono effetti progressivamente più grandi, finché si raggiunge l’effetto massimo.
Da quel punto in poi, gli aumenti del dosaggio non producono nessun’altro aumento dell’effetto del farmaco,
ma allo stesso tempo aumenta il rischio di effetti collaterali indesiderati. La maggior parte dei farmaci ha più
di un effetto.
Ovviamente i farmaci più desiderabili sono quelli che garantiscono un ampio margine di sicurezza. Una misura
del margine di sicurezza di un farmaco è il suo indice terapeutico: questa misura si ottiene somministrando
varie dosi di un farmaco ad un gruppo di animali da laboratorio e si ottengono così due numeri, e cioè la dose
che produce gli effetti desiderati nel 50% degli animali e quella che produce gli effetti tossici nel 50% degli
animali. L’indice terapeutico è il rapporto tra questi due numeri.

Effetti della somministrazione ripetuta = spesso un farmaco quando è somministrato ripetutamente, i suoi
effetti non rimangono costanti: nella maggior parte dei casi questi si riducono, fenomeno noto come
tolleranza. In altri casi un farmaco diventa sempre più efficace: fenomeno noto come sensibilizzazione.
La tolleranza è un fenomeno che si accompagna all’abuso di molte delle droghe comuni (bisogna aumentare
la dose nel tempo per avere lo stesso effetto). Solitamente la tolleranza è accompagnata da sintomi di
astinenza. I sintomi di astinenza sono fondamentalmente l’opposto degli effetti della droga stessa. La
sensibilizzazione è l’esatto opposto della tolleranza e cioè dosi ripetute di un farmaco producono effetti
sempre più grandi. (Alcuni degli effetti di un farmaco possono mostrare tolleranza, mentre altri no o possono
persino dare luogo a sensibilizzazione.)

Effetti placebo = un placebo è una sostanza innocua che non ha effetti fisiologici specifici. Un medico talvolta
può dare un placebo ad un paziente ansioso per sedarlo. Ma sebbene i placebo non abbiamo effetti fisiologici
specifici, è inesatto dire che non abbiano effetti. Se una persona pensa che un placebo abbia un effetto
fisiologico, allora la somministrazione del placebo può realmente produrre quell’effetto. Quando gli
sperimentatori vogliono investigare gli effetti comportamentali dei farmaci negli esseri umani, devono usare
gruppi di controllo che ricevono placebo, altrimenti non possono essere sicuri che gli effetti comportamentali
osservati siano causati da effetti specifici di quel farmaco.

SITI D’AZIONE DEI FARMACI (Carlson pagg.106-110)


…………………….
Siti d’azione dei farmaci = la maggior parte dei farmaci che influenzano il comportamento agisce tramite
l’effetto sulla trasmissione sinaptica. I farmaci che influenzano la trasmissione sinaptica sono classificati in
due categorie generali:
1. I farmaci antagonisti: sono quelli che bloccano o inibiscono gli effetti postsinaptici (si oppone a o
inibisce gli effetti di un particolare neurotrasmettitore sulla cellula postsinaptica)
2. I farmaci agonistici: sono invece quelli che li facilitano (facilitano gli effetti di un particolare
neurotrasmettitore sulla cellula postsinaptica).

Ricordiamo brevemente la sequenza dell’attività sinaptica: in neurotrasmettitori sono sintetizzati ed


immagazzinati nelle vescicole sinaptiche. Le vescicole sinaptiche viaggiano verso la membrana presinaptica
dove si agganciano. Quando gli assoni scaricano, i canali voltaggio-dipendenti del calcio, situati nella
membrana presinaptica, si aprono e permettono l’entrata degli ioni calcio. Gli ioni calcio interagiscono con le
proteine di aggancio e danno inizio al rilascio dei neurotrasmettitori nella fessura sinaptica.
Le molecole di neurotrasmettitore si legano con i recettori postsinaptici causano l’apertura di particolari canali
ionici, i quali producono potenziali postsinaptici eccitatori o inibitori.
Gli effetti dei neurotrasmettitori sono relativamente brevi, a causa della ricaptazione del neurotrasmettitore da
parte delle molecole trasportatrici nella membrana presinaptica, o della sua distruzione da parte di enzimi.

Il più importante sito d’azione dei farmaci nel sistema nervoso è suoi recettori, sia presinaptici sia
postsinaptici. Una volta che il neurotrasmettitore è rilasciato, deve stimolare il recettore postsinaptico. Alcuni
farmaci si legano con questi recettori, proprio come fa un neurotrasmettitore. Una volta che un farmaco si è
legato con il recettore, può funzionare sia da agonista che da antagonista (ogni composto chimico che si lega
ad un sito specifico viene chiamato ligando per quel recettore. Il ligando per quel recettore può essere, appunto,
un agonista, un antagonista del trasmettitore, sia il neurotrasmettitore stesso.)

Un farmaco che mima gli effetti di un neurotrasmettitore agisce come agonista diretto (le molecole del
farmaco si legano al sito di legame al quale si attacca normalmente il neurotrasmettitore. Questo induce
l’apertura dei canali ionici controllati dal recettore, proprio come se il neurotrasmettitore fosse presente. Gli
ioni passano attraverso questi canali e producono i potenziali postsinaptici)
I farmaci che si legano con i recettori postsinaptici possono funzionare anche da antagonisti. Le molecole di
tali farmaci si legano con i recettori ma non aprono il canale ionico. Poiché essi occupano il sito di legame del
recettore, impediscono al neurotrasmettitore al neurotrasmettitore di aprire il canale ionico; questi farmaci
sono detti antagonisti diretti.
Alcuni recettori hanno siti di legame multipli, ai quali si legano ligandi diversi. Le molecole del
neurotrasmettitore si legano con un sito e altre sostanze (es farmaci) si legano con altri. Il legame di una
molecola con uno di questi siti alternativi è chiamato legame non competitivo, poiché le molecole non
competono con quelle del neurotrasmettitore. Se un farmaco si attacca ad uno di questi siti alternativi e
impedisce l’apertura dei canali ionici, il farmaco è detto antagonista indiretto. Al contrario, un farmaco che si
attacca ad uno di questi siti alternativi e facilita l’apertura del canale ionico è detto agonista indiretto.

I NEUROTRASMETTITORI (Carlson pagg. 111-129)


Le amine, le monoamine, amminoacidi, peptidi, nucleosidi, Gas Solubili e ATP
…………………..

I neuroni rilasciano una sostanza chimica conosciuta come neurotrasmettitore (o semplicemente


trasmettitore) per comunicare con le cellule bersaglio (normalmente altri neuroni). Per classificare una
sostanza come neurotrasmettitore classico, occorre dimostrare che:

 La sostanza esiste nelle terminazioni assoniche presinaptiche;


 Le cellule presinaptiche contengono enzimi appropriati per la sintesi di quella sostanza;
 La sostanza è rilasciata in quantità significative quando il potenziale d’azione raggiunge le
terminazioni;
 Sulla membrana postsinaptica esistono specifici recettori che riconoscono la sostanza rilasciata;
 Quando usata sperimentalmente, la sostanza induce dei cambiamenti nel potenziale postsinaptico;
 Il blocco del rilascio della sostanza impedisce all’impulso nervoso presinaptico di alterare l’attività della
cellula postsinaptica

Famiglie e sottofamiglie di neurotrasmettitori

AMINE = L’ ACETILCOLINA

L’acetilcolina è il principale neurotrasmettitore secreto dagli assoni efferenti dal sistema nervoso centrale.
Tutti i movimenti muscolari sono compiuti grazie al rilascio di acetilcolina, che si trova anche nei gangli del
sistema nervoso autonomo e negli organi bersaglio della branca parasimpatica. Poiché l’acetilcolina si trova
al di fuori del sistema nervoso centrale, questo neurotrasmettitore è stato il primo ad essere scoperto e ha
ricevuto molta attenzione da parte dei neuroscienziati.
Gli assoni dei bottoni terminali di neuroni acetilcolinergici sono distribuiti ampiamente in tutto il cervello. I tre
sistemi che hanno ricevuto maggiore attenzione sono i sistemi che hanno origine dal ponte dorsolaterale, il
proencefalo basale e il setto mediale. Gli effetti del rilascio di acetilcolina nel cervello sono generalmente
facilitatori: i neuroni acetilcolinergici localizzati nel ponte dorsolaterale sono responsabili dell’induzione della
maggior parte delle caratteristiche del sonno REM, quelli localizzati nel proencefalo basale sono coinvolti nella
facilitazione dell’apprendimento, quelli localizzati nel setto mediale controllano i ritmi elettrici dell’ippocampo
e modulano le sue funzioni, quali la formazione di particolari tipi di memorie.

MONOAMINE

Adrenalina, norepinefrina, dopamina e serotonina sono quattro composti chimici che appartengono alla
famiglia delle monoamine. Dopamina, norepinefrina e adrenalina appartengono alla sottoclasse di
monoamine detta catecolamine. Le monoamine sono prodotte da molti sistemi di neuroni cerebrali. La
maggior parte di questi sistemi consiste in un numero relativamente piccolo di corpi cellulari localizzati nel
tronco encefalico, i cui assoni si diramano ripetutamente e danno origine a un numero enorme di bottoni
terminali, distribuiti in tutte le regioni del cervello. I neuroni monoaminergici servono così a modulare la
funzione di ampie regioni del cervello, aumentando o diminuendo le attività di particolari funzioni cerebrali.

La dopamina

La dopamina produce potenziali postsinaptici sia eccitatori che inibitori, a seconda del recettore postsinaptico
cui si lega. La dopamina è uno dei neurotrasmettitori più interessanti, perché è implicata in molte funzioni
importanti, incluso il movimento, l’attenzione, l’apprendimento e gli effetti del rinforzo di alcune droghe di
abuso. Il cervello contiene molti sistemi di neuroni dopaminergici; i tre più importanti originano nel
mesencefalo, nella substantia nigra e nell’area tegmentale ventrale.
I corpi cellulari dei neuroni del sistema nigrostriatale sono localizzati nella substantia nigra e proiettano i loro
assoni al neostriato, cioè al nucleo caudato e al putamen. Il neostriato è un’importante parte dei gangli della
base, coinvolta nel controllo del movimento. La degenerazione dei neuroni dopaminergici che connettono la
substantia nigra con il nucleo caudato causa il morbo di Parkinson, un disturbo neurologico caratterizzato da
tremori, rigidità degli arti, scarso equilibri, mancanza di mimica facciale e difficoltà nell’iniziare i movimenti.
Alle persone affette da morbo di Parkinson è somministrata l’L-DOPA, il precursore della dopamina. Una volta
che la sostanza raggiunge il cervello, è catturata dai neuroni dopaminergici e convertita in dopamina. Nei
pazienti con il morbo di Parkinson, l’aumentata sintesi di dopamina causa un maggior rilascio del
neurotrasmettitore da parte dei rimanenti neuroni dopaminergici; come conseguenza, i sintomi del morbo di
Parkinson sono alleviati.
I corpi cellulare del sistema mesolimbico sono localizzati nell’area tegmentale ventrale e proiettano i loro
assoni in molte parti del sistema limbico, tra cui il nucleo accumbens, l’amigdala e l’ippocampo. Il nucleo
accumbens gioca un ruolo importante negli effetti gratificanti di alcune categorie di stimoli, inclusi quelli delle
droghe di abuso.
Anche i corpi cellulari dei neuroni del sistema mesocorticale sono localizzati nell’area tegmentata ventrale e
proiettano i loro assoni alla corteccia frontale. Questi assoni hanno un effetto eccitatorio sulla corteccia
frontale e influenzano alcune funzioni come la formazione delle memorie a breve termine, la pianificazione e
la preparazione di strategie in funzione della risoluzione dei problemi.

Norepinefrina (noradrenalina)

Poiché la norepinefrina si trova nei neuroni del sistema nervoso autonomo, questo neurotrasmettitore ha
ricevuto moltissima attenzione sperimentale.
L’epinefrina (adrenalina) è un ormone prodotto dalla midollare del surrene, il nucleo centrale delle ghiandole
adrenergiche, localizzata proprio sopra il rene. L’adrenalina agisce anche da neurotrasmettitore al cervello, ma
è meno importante della noradrenalina.
La maggior parte dei neurotrasmettitori è sintetizzata nel citoplasma del bottone terminale e poi
immagazzinata in vescicole sinaptiche di nuova formazione; tuttavia, il passaggio finale della sintesi della
norepinefrina avviene all’interno delle vescicole stesse: le vescicole sono prima riempite dalla dopamina, in
seguito la dopamina si converte in norepinefrina attraverso l’azione dell’enzima β-idrossilasi, localizzato
all’interno delle vescicole.
Quasi tutte le regioni del cervello ricevono input dai neuroni noradrenergici. I corpi cellulari della maggior parte
di questi neuroni sono localizzati in sette regioni del ponte e del midollo e in una regione del talamo. I corpi
cellulari del più importante sistema noradrenergico originano dal locus coeruleus, un gruppo di corpi cellulari
localizzato nel ponte, vicino alla parte rostrale del pavimento del IV ventricolo. Questi assoni proiettano al
cervelletto, al midollo spinale, al talamo, ipotalamo, amigdala, neocorteccia e bulbo olfattivo. L’effetto primario
dell’attivazione di questi neuroni è l’aumento della vigilanza.
La maggior parte dei neuroni che rilasciano noradrenalina non lo fanno attraverso i bottoni terminali, bensì
tramite varicosità assonali, una regione allargata lungo l’assone che contiene le vescicole sinaptiche e rilascia
il neurotrasmettitore. Queste varicosità conferiscono alle branche assonali dei neuroni noradrenergici l’aspetto
di catene di chicchi di grano. I recettori adrenergici producono effetti sia eccitatori che inibitori; in generale, gli
effetti comportamentali del rilascio di noradrenalina sono eccitatori.

La Serotonina

La serotonina gioca un ruolo nella regolazione dell’umore, nel controllo dell’appetito, del sonno, dell’arousal e
del dolore; inoltre, i neuroni serotoninergici sono in qualche modo implicati nel controllo dei sogni. I corpi
cellulari dei neuroni serotoninergici sono raggruppati in nove siti, la maggior parte dei quali è localizzata nei
nuclei del rafe del mesencefalo, del ponte e del bulbo. I due gruppi più importanti di corpi cellulari
serotoninergici si trovano nei nuclei del rafe dorsale e mediale. Entrambi i nuclei del rafe dorsale e mediale
proiettano assoni alla corteccia cerebrale; inoltre, i neuroni del rafe dorsale innervano i gangli della base, e
quelli del rafe mediale innervano il giro dentato, una parte della formazione ippocampale. Come la
noradrenalina, anche la serotonina è rilasciata da varicosità piuttosto che da bottoni terminali. i ricercatori
hanno identificato almeno nove diversi recettori della serotonina.

L’ Istamina

L’istamina è prodotta a partire dall’istidina, un aminoacido. I corpi cellulari dei neuroni istaminergici si trovano
esclusivamente nel nucleo tuberomammillare, localizzato nell’ipotalamo posteriore. I neuroni istaminergici
inviano i loro assoni ad ampie regioni della corteccia cerebrale e del tronco encefalico. L’istamina gioca un
ruolo importante nello stato di veglia; infatti, l’attività di neuroni istaminergici è fortemente correlata con gli
stati di sonno e di veglia. L’istamina gioca un ruolo importante anche nel controllo dei sistemi digestivo e
immunitario, ed è essenziale per lo sviluppo dei sintomi dell’allergia.

GLI AMINOACIDI

Nel sistema nervoso centrale dei mammiferi vi sono almeno otto aminoacidi che possono funzionare da
neurotrasmettitori. Tra di loro sono importanti soprattutto perché sono i più comuni neurotrasmettitori del
sistema nervoso centrale: il glutammato, il GABA e la glicina.

Il Glutammato

Detto anche acido glutammico, poiché insieme al GABA si trovano in organismi molto semplici, molti studiosi
ritengono che questi neurotrasmettitori siano i primi ad essersi evoluti. È il principale neurotrasmettitore
eccitatorio nel cervello e nel midollo spinale; è prodotto in abbondanza dai processi metabolici delle cellule.
Non esiste un modo efficace per impedire la sua sintesi senza distruggere le attività cellulari. I ricercatori hanno
scoperto 4 tipi principali di recettore del glutammato.
Tre di questi recettori sono ionotropici e prendono il nome dai ligandi artificiali che li stimolano:
1. Il recettore NMDA: ha alcune caratteristiche speciali e molto importanti. Quando è aperto, il canale
ionico controllato dal recettore NMDA, permette sia al sodio che al calcio di entrare nella cellula.
L’afflusso di entrambi questi ioni ovviamente induce una depolarizzazione, ma l’entrata del calcio è
particolarmente importante, poiché serve come secondo messaggero, legandosi con vari enzimi
all’interno della cellula ed attivandoli. Questi enzimi hanno effetti profondi sulle proprietà biochimiche
e strutturali della cellula: un risultato importante consiste nell’alterazione delle caratteristiche della
sinapsi, che costituisce un punto cardine nella formazione di nuove memorie (potrebbero essere
responsabili del potenziamento a lungo termine di lacune forme di morte cellulare e dell’epilessia).
2. Il recettore AMPA: è il recettore più comune del glutammato. Controlla un canale del sodio ed induce
PPSE quando il glutammato si lega al sito di legame.
3. Il recettore CAINATO: è un recettore ionotropico che controlla un canale del sodio ed è stimolato
dall’acido cainico.

L’altro recettore del glutammato è il recettore metabotropico del glutammato.

Il GABA

L’acido gamma-aminobutirrico è prodotto dall’acido glutammico per mezzo dell’azione di un enzima (GAD)
che rimuove un gruppo carbossilico. Il GABA è un neurotrasmettitore inibitorio e sembra ampiamente
distribuito in tutto il cervello ed il midollo spinale. Sono stati identificati due recettori GABA: 𝐺𝐴𝐵𝐴 e 𝐺𝐴𝐵𝐴 . Il
recettore 𝐺𝐴𝐵𝐴 è ionotropico e controlla il canale del cloro, mentre 𝐺𝐴𝐵𝐴 è metabotropico e controlla il
canale del potassio. Normalmente i neuroni secernenti GABA, sono presenti in gran numero nel cervello,
forniscono un’influenza inibitoria. Alcuni studi ritengono che una delle cause dell’epilessia sia un’anomalia
nella biochimica dei neuroni secernenti GABA o dei recettori GABA

La Glicina

L’aminoacido glicina sembra essere il neurotrasmettitore inibitorio del midollo spinale e delle strutture
cerebrali inferiori. Il recettore della glicina è ionotropico e controlla i canali del cloro; quindi, quando è attivo,
produce sinapsi inibitorie. I ricercatori hanno scoperto che nel cervello alcuni bottoni terminali rilasciano sia
glicina che GABA. L’evidente vantaggio del co-rilascio di questi due neurotrasmettitori è la produzione di
potenziali postsinaptici rapidi e durevoli: la glicina stimola i recettori ionotropici rapidi e il GABA stimola i
recettori metabotropici a lunga azione. Ovviamente, la membrana postsinaptica contiene recettori sia per la
glicina che per il GABA.
I PEPTIDI

Studi recenti hanno dimostrato che i neuroni del sistema nervoso centrale rilasciano un’ampia varietà di
peptidi; i peptidi consistono in due o più aminoacidi legati insieme da un legame peptidici. I peptidi sono
rilasciati da tutte le parti del bottone terminale, e non solo dalla sua zona attiva; quindi, solo una parte della
molecola è rilasciata nella fessura sinaptica. Il resto, probabilmente, agisce sui recettori che appartengono alle
altre cellule nelle vicinanze. Una volta rilasciati, i peptidi sono degradati dagli enzimi e non esiste alcun
meccanismo di ricaptazione e riciclaggio dei peptidi. Una delle più importanti famiglie di peptidi conosciuti è
quella degli oppiodi endogeni, che comprendono le endorfine e le encefaline.
Molti sistemi neurali differenti si attivano stimolando i recettori per gli oppiacei. Un tipo induce analgesia, un
altro inibisce le funzioni difensive come fuggire o nascondersi, e un altro stimola un sistema di neuroni
coinvolto nella gratificazione: questo ultimo effetto spiega perché gli oppiacei sono spesso abusati.

LIPIDI

Varie sostanze derivate dai lipidi sono in grado di trasmettere messaggi all’interno della cellula stessa o tra più
cellule. Quelle più conosciute, e probabilmente le più importanti, sono gli endocannabinoidi, ligandi naturali dei
recettori responsabili degli effetti fisiologici del principio attivo della marijuana: il THC stimola i recettori
cannabinoidi localizzati in regioni specifiche del cervello (tronco encefalico, cervelletto, nucleo
caudato/putamen, sostanza nigra, nucleo entopeduncolare, nucleo globopallido, ippocampo). Il THC produce
analgesia e sedazione, stimola l’appetito, riduce la nausea, allevia gli attacchi d’asma, diminuisce la pressione
all’interno degli occhi e riduce i sintomi di alcuni disturbi motori; d’altra parte, il THC interferisce con i processi
di concentrazione e memoria, altera la percezione visiva e quella acustica e distorce la percezione del tempo.

NUCLEOSIDI

Un nucleoside è un composto che consiste di una molecola di zucchero legata con una base purinica o
pirimidinica. Uno di questi composti, l’adenosina, è una combinazione di ribosio e adenina; è noto che
l’adenosina è rilasciata sia dalle cellule gliali che dai neuroni, quando le cellule stanno esaurendo il
combustibile o l’ossigeno; il rilascio di adenosina attiva i recettori sui vasi sanguigni vicini e ne causa la
dilatazione, aumentando il flusso di sangue e aiutando il trasporto di maggiori quantità di sostanze necessarie.
L’adenosina si comporta anche da neuromodulatore, agendo su almeno tre tipi di recettori. Dal momento che
i recettori dell’adenosina sopprimono l’attività neurale, l’adenosina e gli altri agonisti del suo recettore hanno
effetti generalmente inibitori sul comportamento; infatti, molte evidenze empiriche indicano che i recettori
dell’adenosina siano coinvolti nel controllo del sonno. Per esempio, la quantità di adenosina nel cervello
aumenta durante la veglia e diminuisce durante il sonno; l’accumulo di adenosina a seguito di un periodo
prolungato di veglia può essere la causa della successiva sonnolenza. La caffeina blocca i recettori
dell’adenosina, quindi produce effetti eccitatori.

GAS SOLUBILI

Recentemente, i ricercatori hanno scoperto che i neuroni usano almeno due gas solubili semplici per
comunicare l’uno con l’altro. Uno di questi, l’ossido di azoto, è usato come messaggero di molte pareti del
corpo; per esempio, è coinvolto nel controllo dei muscoli delle pareti addominali, dilata i vasi sanguigni delle
regioni del cervello e stimola i cambiamenti sanguigni che inducono l’erezione. L’ossido di azoto è prodotto in
molte regioni della cellula nervosa, compresi i dendriti, ed è rilasciato subito dopo la sua sintesi.

ATP (Slide)

Oltre alle amine e gli aminoacidi, esistono altre molecole di piccole dimensioni che fungono da messaggeri
chimici fra i neuroni. I ricercatori hanno da poco considerato che l’ATP come possibile neurotrasmettitore.
L’ATP risulta concentrata nelle vescicole di molte sinapsi del SNC e del SNP e viene rilasciata nello spazio
intersinaptico. Questa molecola eccita direttamente alcuni neuroni, aprendo un canale a cationi (in questo
senso alcune delle funzioni dell’ATP somigliano a quelle del glutammato).
5. METODI E STRATEGIE DI RICERCA
Ablazione sperimentale
Valutazione degli effetti comportamentali del danno cerebrale
Produzione di lesioni cerebrali
Chirurgia stereotassica
Metodi istologici
Tracciamento delle connessioni neurali
Studio delle strutture del cervello umano in vivo
SOMMARIO DELLA PRIMA PARTE
Registrazione e stimolazione dell’attività neurale
Registrazione dell’attività neurale
Registrazione dell’attività metabolica e sinaptica del cervello
Stimolazione dell’attività neurale
SOMMARIO DELLA SECONDA PARTE
Metodi neurochimici
Individuazione di neuroni che producono particolari sostanze neurochimiche
Localizzazione di recettori specifici
Misurazione delle secrezioni cerebrali
SOMMARIO DELLA TERZA PARTE
Metodi genetici
Studi sui gemelli
Studi sull’adozione
Studi sul genoma
Mutazioni mirate
Oligonucleotidi antisenso
SOMMARIO DELLA QUARTA PARTE
Metodi e strategie di ricerca – introduzione (Slide)

Lo studio della fisiologia del comportamento prevede l’impegno di scienziati che si occupano di molte
discipline diverse, come la fisiologia, la neuroanatomia, la biochimica, la psicologia, l’endocrinologia e
l’istologia. Per eseguire un progetto di ricerca in neuroscienze comportamentali è necessaria la competenza
in molte tecniche sperimentali. Numerosi scienziati sono dunque interessati al cervello è coinvolti nella ricerca
neurologica sugli esseri umani e su gli animali da laboratorio.
La ricerca scientifica implica dunque un processo di domanda (e dunque la formulazione di un’ipotesi di
ricerca), che viene influenzato dalle strategie di ricerca prescelte e dalle metodiche utilizzate. Il ricercatore ha
infatti a disposizione un’enorme e disorientante varietà di metodi di ricerca, tuttavia se dovessi andare a stilare
un elenco sarebbe pressoché impossibile a causa della vastità di quest’ultimo; andremo perciò a descrivere
quelle che sono le procedure più importanti e diffuse.

Per quanto riguarda i vari livelli di analisi da poter perseguire, in psicobiologia ed in psicofisiologia, abbiamo:
‐ Lo studio del comportamento sociale
‐ Lo studio di organi con le relative funzioni
‐ Lo studio di tutto il sistema nervoso
‐ Lo studio delle varie aree cerebrali e delle funzioni annesse a ciascuna
‐ Lo studio dei vari circuiti e connessioni neuronali
‐ Lo studio delle cellule, delle sinapsi e delle molecole

L’ ABLAZIONE SPERIMENTALE (Carlson pagg. 130-145)


Danno e lesioni cerebrali, chirurgia stereotassica, metodi istologici, connessioni neurali, cervello in vivo
………….

Uno dei più importanti metodi di ricerca utilizzati nello studio delle funzioni cerebrali prevede la distruzione di
una parte del cervello e la valutazione del successivo comportamento animale. Tale procedura è denominata
appunto ablazione sperimentale (dal termine latino ablatus, che significa “asportato”). Nella maggior parte dei
casi, l’ablazione sperimentale non prevede la rimozione di tessuto cerebrale: i ricercatori si limitano a
distruggere una parte e lasciarla in situ (=che rimane nella sede che le compete). Questo, è il metodo più antico
utilizzato in neuroscienze e resta uno dei più importanti anche oggi. Pierre Flourens aveva utilizzato l’ablazione
sperimentale negli studi su cavie di laboratorio, mentre Paul Broca aveva applicato questa tecnica per lo studio
di un uomo in cui una lesione cerebrale (=ferita o donna) aveva compromesso le sue capacità linguistiche.

Valutazione degli effetti comportamentali del danno cerebrale - Gli sperimenti in cui si danneggia una parte
del cervello e si osserva successivamente il comportamento dell’animale sono chiamati studi di lesione. Il
razionale per questi studi è che la funzione della regione cerebrale in questione può essere inferita dai
comportamenti che l’animale non riesce più a mettere in atto dopo la lesione (ovviamente tutto questo avviene,
oggi più che mai, nel pieno rispetto delle regole etiche).Ovviamente i ricercatori, sugli esseri umani, non
causano intenzionalmente la lesione, ma studiano il comportamento di individui i cui cervelli sono stati
danneggiati da un’ischemia, da una malattia o da un trauma di varia natura; se alcuni comportamenti risultano
compromessi, possiamo concludere che la porzione danneggiata deve essere coinvolta in qualche modo in
questi comportamenti.

Produzione di lesioni cerebrali - Le lesioni cerebrali delle regioni sottocorticali (regioni situate sotto la
corteccia), sono in genere prodotte passando la corrente elettrica attraverso un filo d’acciaio inossidabile
rivestito da un manicotto isolante, ad eccezione della punta. Si guida l’elettrodo con una procedura
stereotassica in modo da posizionarlo nel sito adeguato dove, tramite radiofrequenze generanti calore, si
andrà a uccidere le cellule situate nella regione circostante la punta dell’elettrodo. Un metodo selettivo per
produrre lesioni cerebrali implica l’utilizzo di un aminoacido eccitatorio, come l’acido cainico, che stimola i
neuroni fino ad ucciderli. Le lesioni prodotte in questo modo si definiscono lesioni eccitotossiche. Tuttavia il
passaggio dell’elettrodo o della cannula fino a raggiungere la zona di interesse produce inevitabilmente un
piccolo danno, anche prima di accendere il dispositivo di lesione o di cominciare con l’infusione. Per ovviare al
problema è possibile operare un gruppo di animali e produrre lesioni simulate. La procedura consiste
nell’anestetizzare l’animale, posizionare l’apparato stereotassico, aprire lo scalpo, eseguire i fori con il trapano,
inserire l’elettrodo o la cannula e spingerli nella profondità adeguata. In altre parole è una procedura “placebo”
che duplica tutte le fasi della produzione di una lesione cerebrale, eccetto quella che in realtà causa il danno.
Solitamente, gli animali sottoposti a questo trattamento costituiscono il gruppo di controllo.

Chirurgia stereotassica - L’apparato stereotassico è costituito da un fermatesta ed un reggielettrodo che


sposta l’elettrodo o la cannula nelle tre dimensioni spaziali, secondo distanze misurate. La chirurgia
stereotassica ci permette di guidare la punta di un elettrodo o di una cannula in un situ preciso nella profondità
del cervello di un animale. Per eseguire un simile intervento abbiamo bisogno innanzitutto di un atlante
stereotassico, che contiene fotografie o disegni che corrispondono alle sezioni frontali prese a varie distanze,
rostrali e caudali, dal bregma (= punto d’intersezione tra la sutura sagittale e quella coronale del cranio).
L’apparato stereotassico, oltre al fermatesta e al reggielettrodo, include un meccanismo calibrato che muove
il reggielettrodo secondo distanze misurate lungo i 3 assi: anteriore-posteriore, dorsale-ventrale, laterale-
mediale. Una volta trovate le coordinate su un atlante stereotassico, si anestetizza l’animale, si posizione
l’apparato e si incide lo scalpo. Dopo la localizzazione del bregma, si riportano i numeri appropriati
sull’apparato, si perfora il cranio e si inserisce il reggielettrodo nel cervello alla corretta profondità. In questo
modo la punta dell’elettrodo o della cannula è portata esattamente nell’area desiderata e si può procedere con
la lesione.

Metodi istologici: dopo la produzione di una lesione cerebrale su un modello animale e l’osservazione degli
effetti che produce, è necessario sezionare e colorare il tessuto cerebrale in modo da esaminarlo al
microscopio e verificare l’effettiva localizzazione della lesione. A questo fine è necessario fissare, sezionare,
colorare ed esaminare il cervello. Prese insieme, queste procedure sono definite metodi istologici.
Viene effettuata prima di tutto la perfusione tessutale, che consiste nella rimozione del sangue, che è sostituito
con un altro liquido. Per studiare il tessuto nella forma che aveva al momento della morte dell’organismo,
dobbiamo distruggere gli enzimi autolitici che altrimenti trasformano il tessuto in poltiglia. È inoltre necessario
prevenire la decomposizione tissutale da parte di batteri e muffe. Entrambi questi obiettivi possono essere
raggiunti immergendo il tessuto nervoso in un bagno fissatore, dove il fissatore più comunemente utilizzato
è la formalina. Dopo aver fissato il cervello è necessario sezionarlo finemente e colorare le varie strutture
cellulari per evidenziare i dettagli anatomici. La procedura di sezione si effettua con un microtomo. Dopo la
sezione il tessuto può essere montato su dei vetrini e può essere colorato, immergendo l’intero vetrino in
soluzioni chimiche. Dopo di che bisogna analizzare il tessuto al microscopio che può essere: elettronico a
trasmissione, elettronico a scansione e confocale a scansione laser.
(leggo: Il primo fa passare un raggio focalizzato di elettroni attraverso sottili sezioni di tessuto per evidenziare
dettagli estremamente piccoli. Il secondo fornisce informazioni tridimensionali sulla morfologia della
superficie di piccoli oggetti, eseguendo la loro scansione con un sottile fascio di elettroni; il terzo, infine,
fornisce immagini ad alta risoluzione di varie profondità di sezioni tissutali spesse che contengono molecole
fluorescenti, eseguendo la loro scansione con la luce di un raggio laser.)

Tracciamento delle connessioni neurali

metodo di tracciamento anterogrado (tracciamento degli assoni efferenti) - Se vegliamo studiare la fisiologia
del comportamento sessuale della femmina del ratto possiamo farlo producendo una lesione del nucleo
ventromediale dell’ipotalamo (IVM). I risultati indicano che i neuroni dell’IVM giocano un ruolo nelle funzioni
necessarie al comportamento copulatorio (questa lesione non influenza il comportamento copulatorio
maschile). Il IVM è solo una parte del sistema delle strutture celebrali che partecipano al comportamento
copulatorio femminile che riceve e trasmette impulsi da altre strutture. È necessario, quindi, conoscere più a
fondo le connessioni dell’IVM con il resto del cervello.
Il passo successivo del programma di ricerca spesso consiste nello scoprire le connessioni efferenti e afferenti
della regione di interesse con il resto del cervello.

Le connessioni efferenti (quelle che portano l’informazione dalla regione in questione alle altre parti del
cervello) sono evidenziate dai metodi di marcatura anterogrado (che si muove in avanti), che impiegano
sostanze chimiche come quello che utilizza la PHA-L. Con il metodo immunocitochimico rendiamo visibili le
molecole di PHA-L iniettate nel nucleo in questione e vengono in seguito esaminate al microscopio.

Le connessioni afferenti (quelle che portano l’informazione provenienti da altre parti del cervello alla regione
in questione) sono evidenziate dai metodi di marcatura retrogrado (che si muove all’indietro), come quello
che utilizza il fluorogold. Il metodo di marcatura transneuronale, che utilizza il virus della pseudorabbia, è in
grado di rilevare le catene di neuroni che formano connessioni sinaptiche. Sebbene la lesione celebrali non
vengano deliberatamente prodotte sul genere umano a scopi di ricerca, le malattie e gli incidenti possono
causare danni celebrali e, se si localizza il danno, è possibile studiare il comportamento degli individui colpiti e
fare inferenze sulla localizzazione dei circuiti neurali che eseguono funzioni rilevanti.
Se il paziente muore e il cervello è disponibile per l’esame, si possono utilizzare i normali metodi istologici.

Studio delle strutture del cervello umano in vivo - I recenti sviluppi delle tecniche radiografiche e
computerizzate hanno portato all’introduzione di diversi metodi di studio dell’anatomia del cervello in vivo. Le
tecniche di scansione cerebrale sono originariamente sviluppate per consentire ai medici di stabilire le cause
di sintomi neurologici localizzando le lesioni, visualizzando i tumori e individuando eventuali anomalie di
sviluppo nella struttura cerebrale Una volta che i ricercatori sono riusciti a vedere la struttura tridimensionale
del cervello, hanno potuto collegare le lesioni cerebrali o le anomalie nello sviluppo cerebrale, con le
osservazioni del comportamento e delle capacità dei pazienti che avevano studiato in precedenza.

La prima modalità sviluppata è quella della tomografia assiale computerizzata. Questa procedura,
generalmente indicata come scansione TAC (con o senza liquido di contrasto), può essere descritta nel modo
seguente: si posiziona la testa del paziente in un grande anello cilindrico, che contiene un tubo a raggi X e,
dall’altra parte, un rilevatore di raggi X; il fascio di raggi x attraversa la testa del paziente ed il rilevatore misura
la radioattività che non viene assorbita. Il fascio scansiona la testa da tutte le angolature ed un computer
traduce i dati inviati dal rilevatore in immagini del cranio (immagine bidimensionale di una sezione del cervello,
parallela alla sommità del cranio) e dei suoi contenuti.

Un quadro ad alta definizione e persino più dettagliato del contenuto della testa di una persona è fornito da
una procedura denominata risonanza magnetica (RM) (sinonimi: risonanza magnetica nucleare, tomografia
a risonanza magnetica.) La RM è una tecnica di imaging multiparametrica e multiplanare, che permette di
acquisire immagini su piani sagittali, dorsali o trasversali senza spostare il paziente.
La macchina per la RM somiglia a quella per la TAC, ma non utilizza i raggi X. Al contrario induce il passaggio
di un campo magnetico estremamente forte attraverso la testa del paziente. Quando si posiziona la testa di
una persona all’interno di un forte campo magnetico, i nuclei degli atomi di H (idrogeno) rotanti si allineano al
campo magnetico in questione; se si passa un’onda di radiofrequenza attraverso il cervello, questi nuclei
assumono una posizione angolata rispetto al campo magnetico e quindi ritornano nella loro posizione
originale, alla fine dell’onda. Nel fare questo rilasciano energia che avevano assorbito. L’energia rilasciata è
captata da una bobina che serve da rilevatore. Poiché tessuti diversi contengono quantità diverse di acqua (e
dunque concentrazioni diverse di atomi di H), ciascuno emette quantità diverse di energia. Il computer
associato allo scanner di RM analizza il segnale e prepara le fotografie delle sezioni cerebrali.
Risonanza magnetica con tensore di diffusione: rende visibili i fasci di fibre più piccoli, non visibili con RM
(p144)

N.B = vedere schema finale a pagina 145-146 del libro. Si tratta di una tabella riassuntiva delle varie tecniche
basate sull’ablazione sperimentale.

REGISTRAZIONE E STIMOLAZIONE DELL’ATTIVITA’ CEREBRALE (Carlson pagg. 145-155)


Registrazione dell’attività neurale, dell’attività metabolica-sinaptica e stimolazione
……………..

Registrazione dell’attività neurale

Gli assoni producono potenziali d’azione ed i bottoni terminali sollecitano potenziali postsinaptici sulla
membrana delle cellule con cui formano sinapsi. Questi eventi elettrici possono essere registrati con
microelettrodi, con macroelettrodi o tramite magnetoencefalografia.
Registrazioni con microelettrodi: sono dei minuscoli fili elettrici in grado di misurare le correnti elettriche dei
singoli neuroni. Con la giusta amplificazione possono essere usati per misurare le minime variazioni elettriche
dei singoli potenziali d’azione. (leggo: ad esempio, sappiamo che i farmaci che influenzano i neuroni
serotoninergici e noradrenergici influenzano anche il sonno REM. Supponiamo che, conoscendo questa
relazione, vogliamo sapere se l’attività dei neuroni serotoninergici e noradrenergici si modifica nei diversi stadi
del sonno; per scoprirlo è necessario misurare l’attività di questi neuroni con dei microelettrodi).
Registrazioni con macroelettrodi: questi non rilevano l’attività dei singoli neuroni; piuttosto, le registrazioni
ottenute con questi sistemi rappresentano i potenziali postsinaptici di molte migliaia se non milioni di cellule,
situate nell’area dell’elettrodo. Nella maggior parte dei casi questi elettrodi, sono costituiti da dei dischi di
metallo attaccati al cuoio capelluto umano con una pasta speciale che conduce l’elettricità.
Più frequentemente l’attività elettrica del cervello umano è registrata attraverso elettrodi montati sullo scalpo
e connessi ad un poligrafo. Queste registrazioni sono chiamate elettroencefalogramma (EEG), termine che
significa letteralmente “tracciato grafico dell’attività elettrica cerebrale”. Gli EEG possono essere utilizzati per
diagnosticare l’epilessia o i tumori cerebrali, oppure per studiare gli stadi del sonno.

La magnetoencefalografia si esegue con un neuromagnetometro, apparecchio che contiene una serie di


SQUID (sistemi superconduttori di rilevazione) orientati in modo che il computer possa esaminare i dati da loro
emessi e calcolare la fonte di particolari segnali nel cervello. Questi dispositivi possono essere utilizzati, per
esempio, per individuare i focolai epilettici in modo da poterli rimuovere chirurgicamente, ma può essere
utilizzata anche per la misurazione dell’attività cerebrale durante compiti cognitivi e processi comportamentali.

Registrazione dell’attività metabolica e sinaptica del cervello: PET e RMf

L’attività metabolica di specifiche regioni cerebrali può essere misurata anche nei cervelli umani per mezzo
dell’imaging funzionale, un metodo computerizzato per rilevare i cambiamenti metabolici o chimici all’interno
del cervello.

Il primo metodo di imaging funzionale che è stato sviluppato è la tomografia computerizzata ad emissione di
positroni (PET): dapprima si inietta nel paziente 2-DG radioattivo (2-deossiglucosio, composto chimico che
assomiglia al glucosio e viene assorbito nelle cellule. Quelle più attive assumeranno le più elevati
concentrazioni di 2-DG, che non può essere metabolizzato e quindi si accumulerà nella cellula). Si posiziona
la testa del paziente in una macchina simile a quella della TAC. Quando le molecole di 2-DG si scindono,
emettono particelle subatomiche chiamate positroni, che si accoppiano agli elettroni nelle vicinanze.
Le particelle si annichiliscono a vicenda ed emettono due fotoni, che viaggiano in direzione diametralmente
opposta. I sensori sistemati intorno alla testa del paziente rilevano la presenza di questi fotoni e lo scanner
localizza le aree da cui sono emersi; grazie a queste informazioni il computer produce l’immagine di una
sezione cerebrale che mostra il livello di attività delle regioni in essa contenute. Svantaggi: costo operativo
elevato, risoluzione relativamente scarsa sia spaziale che temporale.

Questi svantaggi non ci sono con la RMf (risonanza magnetica funzionale). Il metodo di imaging cerebrale
(MRI) con la migliore risoluzione spaziale e temporale è la RMf. In questo caso, l’attività cerebrale è misurata
in modo indiretto, rilevando i livelli di ossigeno nei vasi ematici del cervello. L’incremento dell’attività cerebrale
in una regione cerebrale stimola il flusso ematico nell’area in questione, il che incrementa il livello di
ossigenazione ematica locale. Slide: quando eseguiamo un compito, come ad esempio il movimento di una
mano, alcune aree cerebrali specifiche vengono reclutate per lo svolgimento di tale compito. Le aree che
vengono reclutate sono quelle in cui viene bruciato più ossigeno, di conseguenza varia il rapporto tra
ossiemoglobina e deossiemoglobina presenti nelle aree in questione. Tale variazione viene rilevata dal segnale
di risonanza magnetica e tradotta in immagini utilizzabili in pratica. Queste aree, dal punto di vista del segnale
di risonanza, sono caratterizzate dal cosiddetto effetto BOLD (acronimo che sta per Blood Oxygenation Level
Dependent). Durante l’esame, la testa del paziente viene posiziona in una bobina a radiofrequenza. Durante le
misurazioni il tessuto cerebrale è esposto ad un campo magnetico (1.5 tesla) ed a brevi sequenze di onde
radio (entrambi non vengono percepiti dal paziente); le onde radio fanno oscillare le molecole nei tessuti e
queste, oscillando, emettono dei segnali (cioè risuonano). I segnali emessi vengono rilevati e successivamente
analizzati da un computer. Le immagini di attivazione che vediamo non sono delle foto istantanee (a differenza
della MRI su cui comunque si basa), ma sono frutto di un’elaborazione di dati e raffigurano un effetto
secondario dell’attività neuronale; sono delle mappe di distribuzione di questo effetto su tutto il cervello.
Stimolazione dell’attività cerebrale

Attraverso la stimolazione dell’attività cerebrale, attiviamo artificialmente dei neuroni in particolari regioni del
cervello per vedere gli effetti della stimolazione sul comportamento.

L’artificiale stimolazione e la successiva attivazione dei neuroni di una particolare area del cervello può essere
fatta elettricamente (es. RF) o chimicamente (es. lesione eccitotossica). Per la prima c’è bisogno soltanto di
una corrente elettrica che passi attraverso un filo inserito nel cervello, per la seconda bisogna iniettare una
sostanza eccitatoria come il glutammato o l’acido kainico. Tuttavia questi metodi non permettono di attivare
selettivamente specifiche popolazioni di neuroni in quanto entrambi questi tipi di stimolazione attivano tutti i
neuroni, senza fare una distinzione, di un’area del cervello.

I metodi optogenetici consistono nello sfruttare le proprietà di alcune proteine fotosensibili, ChR2 e NpHR, le
quali possono rispettivamente creare depolarizzazione o iperpolarizzazione della membrana dei neuroni, se
esposte ad una particolare luce (blu e gialla). Il modus operandi è: si inseriscono dei geni modificati che
codificano per la ChR2 e la NpHR in dei virus innocui, i quali andranno ad infettare i neuroni interessati e li
andranno ad attivare/disattivare, quando esposti alla luce adatta. Questa luce solitamente viene applicata
attraverso dei LED posizionati all’interno di un foro praticato in precedenza.

Come abbiamo visto, l’attività neurale induce campi magnetici che possono essere rilevati per mezzo della
magnetoencefalografia. Similmente, si possono utilizzare i campi magnetici per stimolare i neuroni, inducendo
correnti elettriche nel tessuto cerebrale. La stimolazione magnetica transcranica (TMS) utilizza una bobina a
fili metallici, solitamente disposti a forma di 8 per stimolare i neuroni della corteccia cerebrale umana. La
spirale viene posizionata sulla sommità del cranio in modo che la giuntura dove si incrocia l’8 sia posizionata
esattamente sopra al punto che deve essere stimolato. Gli impulsi elettrici generano campi magnetici che
attivano i neuroni della corteccia.

N.B = vedere schema finale a pagina 155-156 del libro. Si tratta di una tabella riassuntiva delle varie tecniche
per la registrazione e stimolazione dell’attività neurale.

METODI NEUROCHIMICI (Carlson pagg. 156-160)


I neuroni secernenti sostanze neurochimiche, localizzazione di recettori specifici, le secrezioni cerebrali
………………..

Talvolta non siamo interessati all’attività metabolica di particolari regioni del cervello, bensì nella localizzazione
di particolari neuroni che possiedono particolari tipi recettori o che producono determinati tipi di
neurotrasmettitori o neuromodulatori e la loro secrezione (vedi tabella pag. 160)

Le modalità tramite le quali possiamo localizzare particolari sostanze neurochimiche come neurotrasmettitori
e neuromodulatori possono essere almeno: localizzare le sostanze stesse oppure localizzare gli enzimi che le
producono. I peptidi possono essere localizzati direttamente per mezzo dei metodi immunocitochimici: si
espongono sezioni del tessuto agli anticorpi specifici del peptide, legati ad un colorante (di solito fluorescente).
Le sezioni sono poi esaminate al microscopio utilizzando una luce di particolare lunghezza d’onda. Nel caso
di NT che non siano anche peptidi, allora si identificano gli enzimi responsabili della produzione di quel NT (es.
colina acetiltransferasi).
Per la localizzazione di recettori specifici, il metodo preferito è quello dell’autoradiografia, attraverso la quale
viene somministrata nella porzione cerebrale interessata una soluzione contenente un ligando radioattivo.
Questo ligando si andrà a legare con i suoi specifici recettori, i quali verranno poi identificati mediante
l’evidenziazione del ligando. Altrimenti, anche per localizzare i recettori specifici si possono usare i metodi
immunocitochimici, in quanto anche i recettori sono proteine.
Per misurare le secrezioni di neurotrasmettitore dei neuroni, invece, viene usata la microdialisi e la PET,
rispettivamente sugli animali e sull’uomo. Per la microdialisi è usato un apparato stereotassico per infondere
nell’area cerebrale interessata una soluzione contenente un liquido simile a quello extracellulare. Questo viene
poi riestratto da un tubo ed analizzato, per vedere il bilancio di neurotrasmettitore nella soluzione
somministrata.
METODI GENETICI (Carlson pagg. 160-163)
Studi sui gemelli, sull’adozione, sul genoma, sulle mutazioni mirate e utilizzando oligonucleotidi antisenso
…………………..

Tutti i comportamenti sono determinati dall’interazione tra cervello e ambiente. Molte caratteristiche
comportamentali, come doti particolari, variabili di personalità e disturbi mentali, dimostrano una certa
familiarità. Questa osservazione ci suggerisce che i fattori genetici possono giocare un ruolo nello sviluppo
delle differenze fisiologiche responsabili in ultimo di queste caratteristiche

Studi sui gemelli monozigoti e dizigoti – Questi studi permettono di capire se certe caratteristiche individuali
(aggressività, prevalenza di obesità, incidenza di alcolismo, tratti di personalità…) o disturbi comportamentali
sono determinate geneticamente o meno. Se due gemelli ricevono la stessa diagnosi si dicono concordanti,
altrimenti discordanti. Ad esempio, il fatto che vi è una molto maggiore concordanza per la schizofrenia in
gemelli monozigoti, rispetto ai dizigoti, ci conferma che la schizofrenia abbia una forte base genetica.

Studi sull’adozione – Questi studi permettono di capire se alcuni tratti comportamentali sono ereditati
geneticamente dai genitori biologici, oppure dipendono dall’esperienza ambientale fatta con i genitori
adottivi. Per capirlo, bisogna semplicemente confrontare il tratto comportamentale in questione della
persona adottata in età neonatale, con lo stesso tratto nei genitori biologici e in quelli adottivi. Se il
comportamento coincide coi genitori biologici, allora quel tratto viene identificato come ereditato
geneticamente, altrimenti viene identificato come risultato dell’interazione ambientale post-natale.

Studi sul genoma - Si dividono in studi di linkage e studi di associazione genetica. Gli studi di linkage
osservano le famiglie i cui membri variano rispetto a un tratto particolare (come ad esempio la
presenza/assenza di una malattia ereditaria). Gli studi di associazione genetica permettono di comparare il
genoma o tratti di esso in individui differenti per scoprire eventuali associazioni tra genomi individuali e
presenza/assenza di malattie.

Mutazioni mirate – Permettono di studiare l’effetto dell’assenza di una particolare proteina su caratteristiche
fisiologiche o comportamentali degli animali. Esse consistono in geni mutati artificialmente, inseriti nei
cromosomi dell’animale. Alcuni geni sono difettosi e non producono nessuna proteina, altri influiscono su
particolari enzimi responsabili di specifiche reazioni chimiche. Si possono anche produrre mutazioni
condizionali, in modo tale da rendere difettosi (bloccare l’espressione) i geni solo dopo un tot di tempo.

Oligonucleotidi Antisenso - Viene iniettato un “oligonucleotide antisenso”, ovvero una sequenza modificata di
RNA o DNA che si lega con specifiche molecole di mRNA, e ne impedisce la produzione della proteina.
6 – 7. I SISTEMI SENSORIALI
Introduzione (slide)
I sistemi sensoriali
I 5 sensi e il sistema vestibolare
I recettori sensoriali (prima e seconda classificazione)
La vista
Lo stimolo e l’anatomia del sistema visivo
La codifica dell’informazione visiva nella retina
Analisi dell’informazione visiva - la corteccia striata e la corteccia visiva associativa
Il sistema uditivo
Lo stimolo e l’anatomia del sistema uditivo
Le cellule ciliate uditive e la trasduzione dell’informazione uditiva
La via uditiva
La percezione: tono, ampiezza, timbro, localizzazione spaziale, suoni complessi
Il sistema vestibolare
L’anatomia dell’apparato vestibolare
Le cellule recettoriali
La via vestibolare
Il sistema somatosensoriale
Gli stimoli e l’anatomia della cute e i suoi organi recettivi
La percezione della stimolazione cutanea
Le vie somatosensoriali
La percezione del dolore
Il sistema gustativo
Gli stimoli e l’anatomia dei bottoni gustativi e delle cellule gustative
La percezione dell’informazione gustativa
La via gustativa
Il sistema olfattivo
Gli stimoli e l’anatomia dell’apparato olfattivo
La trasduzione dell’informazione olfattiva
La percezione di odori specifici
I SISTEMI SENSORIALI – INTRODUZIONE (Slide)
…………………

Come già sappiamo, il cervello svolge due funzioni principali: controlla il movimento dei muscoli per la
produzione di comportamenti adattivi, e regola l’ambiente interno del corpo. Per eseguire bene entrambi questi
compiti, il cervello deve essere informato costantemente di ciò che accade nell’ambiente esterno e all’interno
del corpo; tale informazione è raccolta dai sistemi sensoriali. Un sistema sensoriale è una parte del sistema
nervoso che consiste di recettori sensoriali, vie nervose e zone del SNC responsabili dell’informazione. La sua
funzione è quella dunque di informare l’individuo su sensazioni che possono derivare sia dall’ambiente esterno
ma anche dal nostro stesso organismo. I sistemi sensoriali inoltre riconoscono uno stimolo specifico (ad
esempio lo stimolo adeguato per l’occhio è l’energia fotica e cioè la luce ecc…)

Noi riceviamo informazioni sull’ambiente mediante i recettori sensoriali: questi sono dei neuroni specializzati
nella rilevazione di una vasta gamma di eventi fisici. Gli stimoli arrivano ai recettori e, attraverso alcuni
meccanismi, alterano il loro potenziale di membrana. Questo processo è chiamato trasduzione sensoriale,
poiché gli eventi sensoriali sono trasdotti in modificazioni del potenziale di membrana della cellula. Tali
cambiamenti elettrici sono chiamati potenziali di recettore. I potenziali del recettore influenzano il rilascio dei
neurotrasmettitori e così facendo modificano la frequenza di scarica dei neuroni con cui stabiliscono sinapsi.

Le persone di solito affermano che esistono 5 sensi: la vista, l’udito, l’olfatto, il gusto e il tatto. In realtà
possiamo dire che possediamo ben più di cinque sensi. Tuttavia quello che è certo è che dovremmo
aggiungere al conto il senso vestibolare: oltre a fornirci le informazioni acustiche, l’orecchi interno, veicola
informazioni a proposito dell’orientamento e del movimento della testa. Inoltre, il tatto (o più accuratamente
“percezione somatosensoriale”), rileva cambiamenti di pressione, calore, freddo, vibrazione, posizione degli
arti e percepisce anche gli eventi che producono un danno ai tessuti.

Recettori sensoriali: prima classificazione

Una prima classificazione dei recettori sensoriali può essere fatta in: esterocettori, propriocettori e
interocettori. I primi forniscono le informazioni concernenti l’ambiente esterno e comprendono i recettori
associati con i sensi della vista, dell’udito e dell’olfatto (chiamate fibre afferenti somatiche generali); i secondi
forniscono informazioni concernenti la postura ed i movimenti del corpo nello spazio. Comprendono i recettori
presenti nei muscoli, nei tendini e nelle capsule articolari (chiamate fibre efferenti somatiche generali), nonché
l’apparato dell’orecchio interno; infine, gli interocettori forniscono le informazioni sensitive provenienti dagli
organi interni del nostro corpo (si chiamano anche fibre afferenti viscerali generali);

Recettori sensoriali: seconda classificazione

Una seconda classificazione dei recettori sensoriali può essere fatta in: meccanocettori, termocettori e
nocicettori. I meccanorecettori rispondono alle deformazioni meccaniche dei tessuti o dei recettori stessi
(stiramenti, vibrazioni, pressioni ecc…); i termocettori rispondo al caldo ed al freddo e dunque abbiamo dei
recettori per il caldo e dei recettori per il freddo; i nocicettori: sono rappresentati da delle terminazioni nervose
nude che rispondono agli stimoli dolorosi. Esistono due tipologie di fibre: le fibre di tipo A per il dolore acuto, e
le fibre di tipo B per il dolore cronico.
LA VISIONE (Carlson pagg. 164-206)
Questa parte è da leggere attentamente nel libro, il quale la tratta in modo molto più approfondito
……………

La percezione visiva è il risultato di una sequenza di elaborazioni, spesso in concorso con altre attività
percettive. Come tutti sappiamo i nostri occhi captano la presenza della luce. Per gli esseri umani la luce
consiste in una ristretta banda dello spettro delle radiazioni elettromagnetiche: una radiazione
elettromagnetica con una lunghezza d’onda compresa tra i 380 ed i 760 nm è quella visibile per noi, mentre
alcuni animali possono essere sensibili ad una gamma di radiazioni a lunghezze d’onda molto più vasta
La gamma di lunghezze d’onda che noi chiamiamo luce non è qualitativamente differente dal resto dello
spettro elettromagnetico, è soltanto quella parte del continuum che noi siamo in grado di vedere.

Il colore della luce che percepiamo è determinato da 3 dimensioni: la tinta, la saturazione e la luminosità. La
luce viaggia ad una velocità costante pari a circa 300.000 chilometri al secondo. Se varia la frequenza di
oscillazione dell’onda, la distanza tra i picchi delle onde varierà altrettanto, ma in maniera inversa: le oscillazioni
più lente avranno una lunghezza d’onda maggiore, quelle più rapide avranno una lunghezza d’onda più corta.
La lunghezza dell’onda determina la prima delle tre dimensioni percettive della luce: la tinta.
La luce può variare anche di intensità, il che corrisponde alla seconda dimensione percettiva della luce: la
luminosità. Se l’intensità della radiazione elettromagnetica aumenta, aumenterà anche la luminosità
apparente della luce. La terza dimensione, la saturazione, si riferisce invece alla purezza relativa della luce
percepita. Se tutta la radiazione si concentra in una sola lunghezza d’onda, il colore percepito è puro, ovvero è
pienamente saturato.

Anatomia del sistema visivo - Perché un individuo possa vedere un’immagine questa deve essere messa a
fuoco sulla retina, lo strato più interno dell’occhio. Questa immagine produce dei cambiamenti nell’attività
elettrica di milioni di neuroni della retina, il che alla fine si tramuta in una quantità di messaggi inviati lungo i
nervi ottici, in direzione del resto del cervello. Vi sono varie componenti fondamentali tra cui gli occhi, i
fotorecettori e le varie componenti che permettono la comunicazione tra occhi e cervello.

Gli occhi si trovano indovati nelle orbite, cavità ossee nella parte anteriore del cranio. Essi sono tenuti al loro
posto e mossi grazie all’azione di sei muscoli extraoculari, attaccati allo spesso rivestimento biancastro
dell’occhio, chiamato sclera. Gli occhi possono compiere vari tipi di movimento: i movimenti di vergenza, i
movimenti saccadici e i movimenti di inseguimento.
Lo strato più esterno che ricopre gran parte dell’occhio, la sclera, è un rivestimento biancastro ed opaco,
dunque non permette l’ingresso della luce. La cornea, lo strato più esterno situato sulla parte anteriore
dell’occhio, invece, è trasparente e lascia passare la luce. La quantità di luce che entra nell’occhio è regolata
dalle dimensioni della pupilla, che è un’apertura dell’iride, un anello pigmentato di muscoli posti dietro la
cornea. Il cristallino, che si trova immediatamente dietro l’iride, consiste di una serie di strati trasparenti. La
sua forma può essere alterata dalla contrazione dei muscoli ciliari; questi cambiamenti di conformazione
permettono all’occhio di mettere a fuoco sulla retina le immagini degli oggetti vicini e lontani, un processo
chiamato accomodazione. Dopo aver oltrepassato il cristallino, la luce attraversa la parte principale dell’occhio,
che è piena di umor vitreo, una sostanza gelatinosa e trasparente. Infine, dopo essere passata attraverso
l’umor vitreo, la luce colpisce la retina, lo strato interno della parte posteriore dell’occhio. Ed è qui, sulla retina,
che sono localizzate le cellule recettrici: i coni ed i bastoncelli (chiamati così in base alla loro forma), che vanno
sotto il nome di fotorecettori.
La retina umana contiene circa 120 milioni di bastoncelli e 6 milioni di coni. Sebbene siano in numero
largamente inferiore ai bastoncelli, i coni ci forniscono gran parte dell’informazione relativa al nostro ambiente:
soprattutto ad essi dobbiamo la visione diurna. I coni raccolgono informazioni riguardo le più minute
caratteristiche dell’ambiente e perciò sono la fonte di ciò che chiamiamo acuità visiva. La fovea, ovvero la
regione centrale della retina, che ci consente la visione più precisa e acuta, contiene soltanto coni. I coni, inoltre,
sono responsabili della visione del colore, cioè la nostra abilità di discriminare stimoli luminosi di lunghezza
d’onda diversa (visione fotopica).Anche se i bastoncelli non sono sensibili ai colori e ci consentono una visione
caratterizzata da bassa acuità, essi sono più sensibili alla luce: in un ambiente poco illuminato usiamo la
visione che ci è consentita dai bastoncelli (visione scotopica).
Un’altra sezione della retina è il disco ottico, il punto in cui gli assoni che veicolano l’informazione visiva si
raccolgono per uscire dall’occhio e formare il nervo ottico. Il disco ottico produce una macchia cieca, poiché
in esso non vi è alcun fotorecettore.
I fotorecettori formano sinapsi con le cellule bipolari, neuroni che si trovano nello strato intermedio della retina
e che veicolano l’informazione dai fotorecettori alle cellule gangliari. A loro volta questi neuroni fanno sinapsi
con le cellule gangliari, neuroni dotati di assoni che decorrono lungo il nervo ottico (il secondo nervo cranico)
e trasportano l’informazione visiva fino al resto del cervello. La retina contiene anche le cellule orizzontali e le
cellule amacrine.

La trasmissione dell’informazione visiva - La luce entra nell’occhio attraverso la pupilla e viene fatta
convergere, dalla cornea e dal cristallino, sulla retina che si trova sulla parete posteriore del corpo. La pupilla è
circondata dall’iride che può espandersi o contrarsi, rendendo la pupilla più grande o più piccola al variare della
quantità di luce incidente. Quando la luce converge sulla retina, i 125 milioni di fotorecettori posizionati sulla
superficie, rispondo alla sua presenza, generando minuscoli potenziali elettrici (questi segnali passano per via
sinaptica in una rete cellulare posta nella retina, attivando le cellule gangliari retiniche, i cui assoni si uniscono
a formare il nervo ottico, che emerge dalla parete posteriore dell’occhio.

La trasduzione dell’informazione visiva - Ciascun fotorecettore consiste in un segmento esterno, connesso


per mezzo di un ciglio, ad un segmento interno, che contiene il nucleo. Il segmento esterno contiene diverse
centinaia di lamelle, sottili superfici di membrana. Il primo stadio della sequenza di eventi che porta alla
percezione visiva, implica l’azione di una particolare sostanza chimica, chiamata fotopigmento. Queste sono
delle speciali molecole inglobate nella membrana delle lamelle. Tali molecole consistono in due parti: una di
opsina (proteina) e una retinale (un lipide, sintetizzato dalla vitamina A: per questo si dice che le carote facciano
particolarmente bene alla vista). Esistono diverse varietà di opsina: per esempio il fotopigmento dei bastoncelli
umani è la rodopsina. Se una molecola di rodopsina è esposta alla luce si scinde nei suoi due costituenti:
rodopsina e retinale. Quando ciò avviene la rodopsina perde il suo colore rosato e diventa di un giallo pallido:
la scissione del fotopigmento produce il potenziale di recettore: l’iperpolarizzazione della membrana del
fotorecettore (questa parte andrebbe approfondita nell’altro libro indicato dal vecchio prof, non più presente
nelle indicazioni della Prof. Roccia)

I nervi ottici si uniscono insieme alla base del cervello, formando una struttura forma di X chiamata “chiasma
ottico”. In questo punto gli assoni provenienti dalle cellule gangliari che innervano le due metà interne della
retina (emiretine nasali), si incrociano a livello del chiasma e procedono verso il nucleo genicolato dorsolaterale
del lato opposto del cervello. Gli assoni provenienti dalle altre due metà della retina (le emiretine temporali),
invece rimangono nello stesso lato del cervello. Questi due fasci di fibre, insieme costituiscono i tratti ottici,
che contengono fibre provenienti da ambedue gli occhi e che si dirigono verso la corteccia cerebrale. Qui si
formano le “rappresentazioni interne” dello spazio visibile che ci circonda. La rappresentazione interna si
forma a partire dalle informazioni provenienti da ciascun occhio e questa capacità è detta binocularità.

!!! Bisogna ricordare che il cristallino capovolge l’immagine del mondo proiettata sulla retina (e quindi inverte
anche la destra con la sinistra): perciò, poiché gli assoni delle emiretine passano all’altro lato del cervello,
ciascun emisfero riceve informazioni riguardanti la metà controlaterale della scena visiva.

Codifica dell’informazione visiva: le cellule della retina

Codifica della luce e del buio - Il campo recettivo è quella porzione di campo visivo su cui deve arrivare la luce
affinché un neurone ne sia stimolato. Le cellule gangliari, che possono essere di 3 tipi (ON, OFF e ON/OFF),
possiedono un campo recettivo costituito da due cerchi concentrici (il “centro” e la “periferia”). A seconda del
tipo di cellula gangliare, essa si attiva quando la luce colpisce il centro (cellula ON) o la periferia (cellula OFF)
del suo campo recettivo. Esempio: in una stanza, quando viene accesa la luce, questa sicuramente colpisce il
centro delle cellule della retina e si attivano così le cellule ON, mentre le OFF rimangono disattivate. Quando si
spegne la luce invece, si attivano le cellule gangliari OFF che segnalano l’informazione di bassa luminosità.
Le cellule ON rilevano oggetti luminosi posti su uno sfondo scuro, mentre le cellule OFF rilevano oggetti scuri
(poco luminosi) posti su uno sfondo chiaro. Questo sistema permette di cogliere meglio i contrasti di
luminosità. Le cellule gangliari ON/OFF si attivano nel momento improvviso in cui la luce si accende o si
spegne. Esse proiettano le informazioni al collicolo superiore e sono coinvolti nei riflessi oculari.

Codifica del colore - La codifica del colore avviene mediante il funzionamento susseguente di due sistemi
interni alla retina: il sistema tricromatico e il sistema dell’opponenza cromatica. Il sistema tricromatico si basa
sull’utilizzo di 3 tipi di coni diversi che, essendo sensibili ai tre colori “primari”, possono codificare qualsiasi
altra sfumatura cromatica, frutto della miscela dei suddetti colori. Ciascun cono possiede fotopigmenti con
opsine sensibili ad una lunghezza d’onda della luce differente: i coni che codificano il blu, il verde e il rosso
codificano rispettivamente lunghezze d’onda corte, medie e lunghe. I difetti genetici della visione dei colori
(protanopia, deuteranopia, tritanopia) derivano da anomalie in uno o più dei tre tipi di coni. Il sistema
dell’opponenza cromatica si basa sull’attivazione di diverse cellule gangliari sensibili al colore. Ne esistono di
due gruppi: le cellule rosso-verde e quelle giallo-blu e possiedono anch’esse un centro e una periferia in
contrasto tra loro (questo spiega perché non possiamo percepire un verde rossastro o un blu giallastro).
Quando la luce di una certa lunghezza d’onda colpisce il cono corrispondente, viene ad attivarsi la cellula
gangliare sensibile al colore corrispondente e così ci arriva l’informazione sul colore.

L’analisi dell’informazione visiva: la corteccia striata

La corteccia striata (o corteccia visiva primaria, o “V1”) è formata da molti strati che contengono i suoi speciali
neuroni. Il merito della corteccia striata e dei suoi neuroni è quello di combinare le informazioni visive semplici,
consegnatele dal NGL, per rilevarne caratteristiche più complesse: orientamento, movimento, frequenza
spaziale, profondità e colore. L’orientamento di un oggetto è rilevato dalla corteccia striata grazie alle cellule
semplici, neuroni sensibili ad un particolare orientamento, che si attivano quando questo cade nella loro
regione centrale del campo percettivo. (Se invece l’orientamento dell’oggetto cade nella loro periferia, quella
cellula semplice rimane inibita e della rilevazione se ne occuperà un’altra cellula semplice più adeguata)
Il movimento di un oggetto è rilevato dalle cellule complesse, neuroni anch’essi sensibili all’orientamento che
però non presentano una regione inibitoria del campo percettivo. Quindi quando un oggetto orientato si sposta
verso una direzione, all’interno del campo recettivo delle cellule complesse, il movimento continua ad essere
seguito da queste cellule. Le cellule ipercomplesse posseggono una regione inibitoria all’estremità
dell’orientamento, quindi sono utili nel percepire la posizione delle estremità di un oggetto orientato.
Le cellule della corteccia striata sembra siano fatte per rilevare la frequenza spaziale di una griglia sinusoidale
più che per rilevare linee e bordi ben definiti. Infatti, analizzando il profilo delle regioni inibitorie ed eccitatorie
del campo percettivo delle cellule semplici, si può osservare come queste assomiglino a delle onde sinusoidali.
La frequenza spaziale è fondamentale nella percezione visiva in quanto ci permette di rappresentare
efficientemente una scena. Senza di essa non riusciremmo a percepire né i dettagli e contorni di un oggetto
(frequenze spaziali alte), né le aree uniformi di luce e buio (frequenze spaziali basse).
La profondità di una scena è percepita mediante la disparità retinica dei due occhi. Ogni retina riceve lo stimolo
visivo da una prospettiva leggermente diversa e, una volta che le loro informazioni monoculari giungono in
corteccia, queste sono combinate da neuroni binoculari che forniscono la percezione di profondità.
Le informazioni sul colore, dopo essere state passate dalle cellule gangliari sensibili al colore agli strati
coniocellulari e parvocellulari del NGL, finiscono in corteccia striata in delle strutture neuronali a forma di
colonna, chiamate “blob di citocromo ossidasi” (furono scoperte utilizzando un colorante istologico sensibile
all’enzima citocromo ossidasi).

L’organizzazione modulare della corteccia striata - I moduli sono blocchi di centinaia di migliaia di neuroni
che, nella corteccia striata, circondano e comprendono ciascuno 2 blob. Le due metà di un modulo ricevono
ciascuna informazioni monoculari, le quali vengono però integrate dai neuroni binoculari.
I neuroni che si trovano all’interno del blob sono sensibili al colore e alle frequenze spaziali basse;
I neuroni che si trovano tra un blob e l’altro sono sensibili a orientamento, movimento, profondità e frequenze
spaziali alte.

Informazioni su orientamento, movimento, profondità  Cellule magnocellulari  Moduli


Informazioni sul colore  Cellule parvocellulari/coniocellulari  Blobs

L’analisi dell’informazione visiva: la corteccia associativa

Tutte le varie regioni della corteccia visiva (V1, extrastriata, V2, V3, V4 ecc.) sono organizzate gerarchicamente:
ciascuna regione riceve ed elabora input sempre più complessi dalle regioni precedenti. La percezione visiva
nella sua interezza è realizzata a livello della corteccia associativa visiva (V2), la quale può essere divisa
funzionalmente in diverse zone.
Le informazioni della corteccia striata arrivano in primis nella corteccia extrastriata, regione della V2 limitrofa
alla V1, all’interno della quale vengono integrate. L’acromatopsia cerebrale è una condizione patologica
provocata da una lesione della corteccia extrastriata; i pazienti perdono la capacità di vedere, immaginare e
ricordare i colori.
Dopo la corteccia extrastriata, la corteccia associativa si sviluppa secondo due vie, corrispondenti a due canali
di analisi diversi: la via dorsale e la via ventrale.
1. Via dorsale = analisi della localizzazione spaziale, finisce nella corteccia parietale posteriore
Via del “dov’è?”: orientamento e movimento, informazioni elaborate dalle cellule magnocellulari
2. Via ventrale = analisi della forma degli oggetti, finisce nella corteccia temporale inferiore
Via del “cos’è?”: forma e colore di un oggetto, informazioni elaborate dalle cellule parvo/coniocellulari

Regioni del colore - La V4 si occupa del processo di costanza di colore, ovvero il compensamento, da parte
dei suoi neuroni, delle variazioni di un colore in base alla luminosità dell’ambiente. In questo modo riusciamo
a riconoscere un colore sotto diversi tipi di luce. Alla V8 finiscono le informazioni riguardo al colore; una lesione
di quest’area compromette la visione policromatica.

Regioni della forma (sono tutte zone della via ventrale) - L’agnosia visiva è una condizione patologica in cui si
è incapaci di identificare uno stimolo nella sua interezza, nonostante i dettagli siano visibili (prosopagnosia =
impossibilità di riconoscere il volto di una specifica persona, nonostante si possano vedere gli occhi, il naso e
la bocca). Essa è causata dal danneggiamento di regioni della via ventrale della V2, come l’area fusiforme della
faccia o l’area extrastriata del corpo.
Area fusiforme della faccia = riconoscimento dei volti
Area extrastriata del corpo = riconoscimento di corpi e parti del corpo

Regioni del movimento - La V5 è l’area della corteccia associativa visiva che contiene i neuroni che rispondono
al movimento. Essa riceve input visivi da numerose altre regioni cerebrali e, insieme all’adiacente area MST, le
integra per fornire percezioni di movimenti più complessi (radiali, circolari, spiraliformi). Uno di questi è il flusso
ottico, cioè la variazione e il movimento degli stimoli sul campo visivo, provocato dal movimento
dell’osservatore. L’acinetopsia è un disturbo neurologico che può essere provocato da una lesione bilaterale
comprendente le aree V5 e MST. I pazienti affetti sono incapaci di percepire o prevedere qualsiasi tipo di
movimento.

Regioni della localizzazione spaziale (zone della via dorsale) - Alcune regioni del lobo parietale sono coinvolte
nel controllo visivo e nella profondità di uno stimolo. Esse sono tutte racchiuse all’interno del solco
intraparietale (IPS).

I disturbi della visione: qualche approfondimento

La cecità: una lesione completa della corteccia visiva primaria dà cecità;


Agnosia visiva: le lesioni della corteccia associativa umana possono provocare una categoria di deficit nota
come agnosia visiva. Il concetto di agnosia è stato introdotto da Lissauer nel 1890. (le agnosie sono deficit
relativamente rari e possono conseguire a patologie traumatiche, neoplastiche, vascolari post-anossiche, o a
patologie degenerative –Alzheimer.) Il termine agnosia si riferisce all’incapacità di percepire o identificare uno
stimolo presentato in una certa modalità sensoriale, anche se i suoi dettagli possono essere ancora rilevati
mediante tale modalità e nonostante la persona mantenga inalterate le sue capacità intellettive generali.
Riguarda una sola modalità sensoriale (visiva, uditiva o tattile). Un sintomo comune di agnosia visiva è la
prosopagnosia e cioè l’incapacità di riconoscere i volti di certe persone. Le persone che soffrono di agnosia
visiva, ad esempio, vedendo l’immagine di un orologio potrebbero riferire di vedere un cerchio, due piccole linee
che formano un angolo nel centro del cerchio ed alcuni punti attorno alla circonferenza, ma non saranno in
grado di riconoscere cosa rappresenti effettivamente la figura. Se lo prendono in mano, possono riconoscerlo
e questo ci dice dunque che non hanno dimenticato cosa è un orologio. Oppure un altro esempio riportato sul
libro di testo, di una signora che soffriva anch’essa di agnosia visiva causata dal danneggiamento del canale
ventrale della corteccia visiva associativa: non era in grado di identificare oggetti comuni tramite la vista,
sebbene avesse un’acuità visiva relativamente normale. Tuttavia riusciva ancora a leggere (il che indica che
la lettura coinvolge regioni cerebrali diverse rispetto alla percezione degli oggetti).
Lissauer distinse due forme di agnosia visiva:
1. Agnosia appercettiva: il disturbo va ricondotto ad un difetto di costruzione del percetto, cioè
dell’integrazione delle componenti elementari e della loro successiva elaborazione in forma complessa
2. Agnosia associativa: in questo caso l’analisi precoce dell’immagine è intatta ma è compromesso un
livello successivo dell’elaborazione

L’ afasia ottica fu introdotta da Freund nel 1889, va distinta dall’agnosia associativa; un paziente affetto da
questo disturbo è in grado di identificare un oggetto presentato in modalità visiva, ma non è in grado di
denominarlo. Se la denominazione dell’oggetto è richiesta per via uditiva il paziente non avrà alcuna difficoltà
nel recupero dell’informazione.

Sindrome di Balint: questa sindrome si verifica in quei pazienti neurologici che hanno subito una lesione
bilaterale della regione parieto-occipitale. Consiste in tre sintomi principali che sono:
1. Atassia ottica: incapacità di raggiungere gli oggetti con la mano sotto la guida della vista;
2. Aprassia dello sguardo: incapacità di effettuare l’esame visivo sistematico di una scena;
3. Simultaneoagnosia: incapacità di percepire più di un oggetto alla volta.

IL SISTEMA UDITIVO (Carlson pagg. 208-227)


…………………..

L’udito è il secondo senso più importante. In alcune persone, i ciechi il più importante e può darci informazioni
anche su cose che sono nascoste alla visione.

Lo stimolo - L’udito ha tre dimensioni percettive: tono, ampiezza e timbro. Il tono alla frequenza fondamentale
(misurata in Hz). L’ampiezza corrisponde all’intensità mentre il timbro alla complessità. La maggior parte degli
stimoli acustici naturali è complessa, costituita da molte frequenze di vibrazione diverse, la loro particolare
unione determina il timbro del suono.
La principale differenza tra occhio ed orecchio risiede nel fatto che il primo è un organo sintetico (due
lunghezze d’onda vengono percepite come un singolo colore); il secondo è un organo analitico (quando due
onde sonore di frequenza diversa sono unite, non percepiamo un suono intermedio, ma sentiamo entrambi i
toni originali).

L’anatomia dell’orecchio – (N.B. fare questa parte guardando le immagini a pagina 210 e 211).
L’orecchio è composto fondamentalmente dall’orecchio esterno (padiglione auricolare), dall’orecchio medio
e dall’orecchio interno. Il suono è incanalato nel padiglione auricolare e attraversa il meato acustico (canale
uditivo), fino alla membrana timpanica, che vibra con il suono. Dietro al timpano si trovano il martello,
connesso alla membrana timpanica, l’incudine e la staffa. La base della staffa preme sulla finestra ovale,
l’apertura della struttura ossea che circonda la coclea, che è la struttura contenente i recettori. La coclea fa
parte dell’orecchio interno. È piena di liquido e quindi i suoni trasmessi attraverso l’aria devono essere trasferiti
a un mezzo liquido. Essa è divisa longitudinalmente in tre sezioni: la scala vestibolare, la scala media e la scala
timpanica (prima immagine pag. 211). L’organo recettore, conosciuto come organo del Corti, è costituito dalla
membrana basilare, dalle cellule ciliate e dalla membrana tettoria. Le cellule recettrici uditive sono le cellule
ciliate e sono ancorate alla membrana basilare attraverso le cellule di Deiters, a forma di pilastro. Le
stereociglia delle cellule ciliate passano attraverso la membrana reticolare, e l’estremità di alcune di esse si
fissa in modo abbastanza rigido alla membrana tettoria. Le onde sonore producono un movimento congiunto
della membrana basilare e della membrana tettoria, che flette le stereociglia delle cellule ciliate. Tale flessione
produce potenziali recettoriali.

Le cellule ciliate uditive e la trasduzione dell’informazione uditiva - All’interno e all’esterno della spirale cocleare
si trovano due tipi di cellule recettrici, le cellule ciliate uditive interne ed esterne. Le cellule ciliate contengono
le stereociglia, che sono delle appendici simili a capelli sottili, disposte in fila a seconda dell’altezza. Le cellule
ciliate fanno sinapsi con i dendriti dei neuroni bipolari, i cui assoni trasportano le informazioni uditive al
cervello. Le onde sonore producono la flessione verso il basso e verso l’alto sia della membrana basilare che
della membrana tettoria; tali movimenti piegano le stereociglia delle cellule ciliate. Le stereociglia adiacenti
sono collegate tra loro da filamenti elastici detti giunzioni di collegamento tra le punte. Ogni giunzione è
attaccata all’estremità finale di una stereociglia e al lato della stereociglia adiacente. Normalmente, le giunzioni
di collegamento tra le punte sono lievemente estese. La flessione del fascio di stereociglia produce i potenziali
recettoriali. Il liquido che circonda le cellule ciliate uditive è ricco di potassio; quando il fascio di muove nella
direzione dell’estensione, l’aumento di tensione sulle giunzioni di collegamento apre tutti i canali ionici,
aumenta il flusso di potassio e di calcio nelle stereociglia e la membrana si depolarizza, aumentando di
conseguenza il rilascio di neurotrasmettitore. Quando il fascio si muove nella direzione opposta, il
rilassamento delle giunzioni fa chiudere i canali ionici aperti. Il flusso di potassio e calcio diminuisce, la
membrana si iperpolarizza e diminuisce il rilascio di neurotrasmettitore.

La via uditiva (vedi immagine pag. 215)

L’organo del Corti invia le informazioni uditive al cervello attraverso il nervo cocleare, che è un ramo del nervo
uditivo (VIII nervo cranico). I neuroni che danno origine agli assoni afferenti sono di tipo bipolare. I loro corpi
cellulari risiedono nel ganglio del nervo cocleare. I potenziali postsinaptici eccitatori generano i potenziali
d’azione nell’assone del nervo uditivo, che fa sinapsi con i neuroni del bulbo. Ogni nervo cocleare contiene
approssimativamente 50.000 assoni afferenti; circa il 95% dei dendriti di questi assoni fa sinapsi con le cellule
ciliate interne, e questi assoni sono spessi e mielinizzati; il restante 5% fa sinapsi con un maggio numero di
cellule ciliate esterne, e questi assoni sono sottili e privi di mielina. Il nervo cocleare contiene anche assoni
efferenti, oltre a quelli afferenti. L’origine degli assoni efferenti è nel nucleo dell’oliva superiore, un gruppo di
neuroni del bulbo; le fibre efferenti costituiscono il fascio olivococleare. Le fibre formano sinapsi direttamente
sulle cellule ciliate esterne e sui dendriti delle cellule ciliate interne.

L’anatomia del sistema uditivo è più complessa di quello visivo. Bisogna notare che gli assoni entrano nel
nucleo cocleare del bulbo (1), dove fanno sinapsi. La maggior parte dei neuroni del nucleo cocleare invia assoni
al complesso dell’oliva superiore (2), anch’esso localizzato nel bulbo. Gli assoni dei neuroni di tali nuclei si
dirigono al collicolo inferiore (3) passando attraverso un lungo fascio di fibre detto lemnisco laterale (4), situato
nel mesencefalo dorsale. Da qui i neuroni inviano i loro assoni al corpo genicolato mediale del talamo (5), il
quale proietta alla corteccia uditiva del lobo temporale (6). Ogni emisfero riceve informazioni da entrambe le
orecchie, ma soprattutto da quello controlaterale.

VIA UDITIVA = nucleo cocleare del bulbo-complesso dell’oliva superiore-collicolo inferiore-corpo genicolato
mediale del talamo-corteccia uditiva del lobo temporale

La corteccia uditiva sembra essere organizzata in maniera gerarchica, come la corteccia visiva. La corteccia
uditiva primaria è nascosta sul bordo più alto della scissura laterale del lobo temporale. La regione centrale,
che contiene la corteccia uditiva primaria, è costituita da tre sotto-regioni, ciascuna della quali riceve una
mappa tonotopica separata delle informazioni uditive della porzione ventrale del corpo genicolato mediale. Il
primo livello della corteccia uditiva associativa, la regione della cintura, circonda la corteccia uditiva primaria
ed è localizzata su un giro della superficie dorsale del lobo temporale. La regione della cintura, che è costituita
almeno da sette divisioni, riceve informazioni sia dalla corteccia uditiva primaria, sia dalle zone dorsale e
mediale del corpo genicolato mediale. Il secondo livello della corteccia uditiva associativa, la regione della
paracintura, riceve informazioni dalla regione della cintura e dalle zone del nucleo genicolato mediale.
Come la corteccia visiva associativa, la corteccia uditiva associativa è organizzata in vie. La via anteriore, che
comincia nella regione anteriore della paracintura, è implicata nell’analisi dei suoni complessi; la via posteriore,
che comincia nella regione posteriore della paracintura, è implicata nella localizzazione dei suoni.

La percezione del tono - La coclea analizza le frequenze in due modi: misura le frequenze alte in base alla
codifica della posizione e quelle basse con la codifica della scarica. Almeno alcune delle frequenze delle onde
sonore sono analizzate attraverso la codifica della posizione, il sistema tramite il quale l’informazione sulle
diverse frequenze è codificata dalla diversa localizzazione sulla membrana basilare. In tale contesto, la codifica
rappresenta un mezzo con cui i neuroni possono rappresentare l’informazione. Quindi, se i neuroni a una
estremità della membrana basilare sono eccitati dalle frequenze più basse e quelli all’estremità opposta dalle
frequenze più alte, si può affermare che la frequenza del suono è codificata dai particolari neuroni attivati; di
conseguenza, la scarica di assoni particolari nel nervo cocleare fornisce informazioni al cervello sulla presenza
di frequenza alte o basse. Le frequenze più basse sono rilevate da neuroni che scaricano in sincronia con il
movimento dell’apice della membrana basilare. Le frequenze basse sono rilevate attraverso la codifica della
scarica, il sistema che codifica le informazioni sulle diverse frequenze in base alla percentuale di scarica dei
neuroni del sistema uditivo.
La percezione dell’ampiezza - Gli assoni del nervo cocleare sembrano dare informazioni al cervello
sull’ampiezza di uno stimolo alternando il loro ritmo di scarica. I suoni alti inducono vibrazioni più intense del
timpano e degli ossicini, i quali producono una forza maggiore sulle stereociglia delle cellule ciliate. Di
conseguenza, le cellule rilasciano più neurotrasmettitore, producendo una maggiore percentuale di scariche
negli assoni del nervo cocleare. La tonalità è rilevata in base a quali neuroni scaricano, e l’ampiezza è rilevata
in base al loro ritmo di scarica. I neuroni all’apice della membrana basilare, che segnalano le frequenze più
basse, lo fanno attraverso la loro frequenza di scarica; se scaricano con maggiore frequenza, segnalano
un’intensità più alta. Quindi, la maggior parte dei ricercatori ritiene che l’ampiezza dei suoni di bassa frequenza
sia rilevata dal numero di assoni provenienti da questi neuroni, che sono attivi in un certo momento.

La percezione del timbro - Quando la membrana basilare è stimolata dal suono di un clarinetto, parti diverse
rispondono. Queste risposte producono un pattern di attivazione anatomicamente codificato in modo univoco
nel nervo cocleare, che successivamente è identificato dai circuiti della corteccia uditiva associativa. In realtà,
il riconoscimento dei suoni complessi non è così semplice. La maggior parte dei suoni è dinamica; cioè, ogni
loro parte, iniziale, centrale e finale, è diversa dalle altre. Se si stanno riconoscendo suoni diversi, la corteccia
uditiva deve analizzare una sequenza complessa di frequenze multiple che iniziano, cambiano di ampiezza e
finiscono. Si può apprezzare la complessità dell’analisi fatta dal sistema uditivo se si considera il fatto che se
si ascolta un’orchestra si riescono ad identificare molti strumenti suonati contemporaneamente.

La percezione della localizzazione spaziale - Le nostre orecchie hanno un’ottima capacità di determinare se
la fonte di un suono è la nostra destra o la nostra sinistra. Se si è bendati, si può ancora determinare con buona
accuratezza la localizzazione di uno stimolo che produce un rumore. I neuroni del nostro sistema uditivo
rispondono selettivamente a diversi tempi d’arrivo dell’onda sonora all’orecchio sinistro e a quello destro; se
la sorgente sonora è a destra o a sinistra, l’onda sonora raggiungerà un orecchio prima dell’altro e darà inizio
prima ai potenziali d’azione. Solo se lo stimolo è proprio davanti alla testa le orecchie saranno stimolate
contemporaneamente. La sorgente dei suoni continui di bassa intensità si rileva attraverso le differenze di
fase. Le differenze di fase si riferiscono all’arrivo simultaneo, a ogni orecchio, di parti diverse dell’oscillazione
dell’onda sonora. I neuroni che rilevano le differenze d’ampiezza sono localizzati nel complesso dell’oliva
superiore. Questi neuroni si trovano nella porzione laterale del complesso dell’oliva superiore, mentre i neuroni
che rilevano la differenza di fase o del tempo d’arrivo sono localizzati nella porzione mediale. Come possiamo
stabilire se la fonte è davanti o dietro di noi? Possiamo farlo attraverso l’analisi del timbro. Questo metodo
coinvolge l’orecchio esterno, che contiene molte pieghe e creste. La maggior parte delle onde sonore che
sentiamo, prima di entrare nel canale uditivo, rimbalza sulle pieghe e sulle creste. Frequenze diversa saranno
enfatizzate o attenuate a seconda dell’angolo con il quale le onde sonore colpiscono tali pieghe e creste. I
suoni che provengono da dietro la testa sono sentiti in modo diverso da quelli che provengono dall’alto o dal
davanti, così come risultano diversi suoni provenienti dall’alto rispetto a quelli allo stesso livello delle orecchie.
Le orecchie delle persone hanno forme diverse, inoltre, con la crescita, le dimensioni delle orecchie dei bambini
cambiano. Ciò significa che ogni individuo deve apprendere a riconoscere le sottili variazioni di timbro dei suoni
che provengono da dietro, davanti, sopra e sotto la testa. I circuiti neurali che svolgono tale compito non sono
geneticamente programmati: si tratta, dunque, di una capacità che si acquisisce con l’esperienza.

La percezione dei suoni complessi - Ascoltare ha tre funzioni principali: rilevare i suoni, determinare la
localizzazione delle loro sorgenti e riconoscere l’identità di queste sorgenti. Come si fa a riconoscere le fonti
sonore? Gli assoni del nervo cocleare contengono un pattern di attività in costante cambiamento, che
corrisponde alla variazione costante della miscela di frequenze che colpisce i timpani. Il compito del sistema
uditivo nell’identificare le sorgenti sonore è quello di riconoscere i pattern. Il sistema uditivo deve saper
riconoscere che pattern particolari d’attività appartengono a sorgenti sonore diverse. Il riconoscimento dei
suoni complessi sembra dipendere da circuiti di neuroni nella corteccia uditiva. Il riconoscimento dei suoni
complessi richiede che il ritmo di variazione delle componenti di questi suoni sia preservato per tutto il tragitto
fino alla corteccia uditiva; infatti, i neuroni che trasportano l’informazione alla corteccia uditiva hanno
caratteristiche speciali, che consentono di condurre accuratamente tale informazione.
La corteccia uditiva è organizzata in due vie: la via dorsale, implicata nella percezione della localizzazione, e la
via ventrale, implicata nella percezione della forma. In uno studio è stato rilevato che i neuroni “cosa” della via
ventrale discriminano le grida di scimmie diverse, mentre i neuroni “dove” della via dorsale discriminano le
differenti localizzazioni di queste grida. Le vie uditive e visive del sistema di localizzazione, le vie dorsali, si
sovrappongono nel lobo parietale.

La distruzione di una regione del sistema “cosa” compromette la capacità di riconoscere uno stimolo uditivo,
mentre la distruzione di una regione del sistema “dove” compromette la capacità di riconoscere la
localizzazione.
L’input che raggiunge la corteccia uditiva è identico nelle persone non vedenti e nelle persone vedenti, ma le
connessioni neurali tra la corteccia uditiva e quella visiva sono più forti nei soggetti non vedenti; inoltre, la
corteccia visiva mostra una responsività maggiore agli stimoli uditivi.

La percezione della musica è una forma speciale di percezione uditiva. Determinate combinazioni di note
musicali suonate simultaneamente possono essere percepite come piacevoli o spiacevoli. La tessa melodia
si percepisce immutata persino se è suonata in diverse tonalità; quindi, la percezione musicale richiede il
riconoscimento della sequenza di note, la loro aderenza alle regole che governano le possibili tonalità, la
combinazione armonica tra le note e la struttura ritmica. Poiché la durata dei pezzi musicali varia da pochi
secondi a diversi minuti, la percezione della musica implica una sostanziale capacità mnestica. Di
conseguenza, i meccanismi musicali richiesti per la percezione della musica devono essere complessi.

Differenti aree del cervello sono coinvolte in diversi aspetti della percezione musicale. Per esempio, la corteccia
frontale interiore sembra essere implicata nel riconoscimento dell’armonia, la corteccia uditiva destra appare
coinvolta nella percezione del tempo sottostante la musica, mentre la corteccia uditiva sinistra sembra essere
coinvolta nella percezione dei pattern ritmici; inoltre, il cervelletto e i gangli della base sono implicati nella
sincronizzazione dei ritmi musicali, così come nella sincronizzazione dei movimenti.
L’addestramento musicale induce dei cambiamenti nel cervello: modificazioni nei sistemi motori coinvolti nel
suonare uno strumento, e cambiamenti nelle aree del sistema uditivo deputate a riconoscere le sottili
variazioni di entità complesse come l’armonia, il ritmo e altre caratteristiche della struttura musicale.
Alcuni degli effetti dell’addestramento si traducono in modificazioni della struttura o dell’attività di parti del
sistema uditivo; per esempio, è stato trovato che le dimensioni della corteccia uditiva primaria dei musicisti
sono maggiori del 130% rispetto a quelle dei non musicisti.
Alcune persone nascono con una amusia congenita: un deficit grave e persistente dell’abilità musicale che si
manifesta in età precoce; le persone con amusia non sono in grado di riconoscere o persino di definire le
differenze tra le armonie, e addirittura tentano di evitare situazioni sociali che implichino la musica; non sono
inoltre capaci di sentire “la musica nella testa”.

IL SISTEMA VESTIBOLARE (Carlson pagg. 227-230)


………………
Il sistema vestibolare ha due componenti: l’organo otolitico e i canali semicircolari. Essi rappresentano la
seconda e la terza componente del labirinto dell’orecchio interno e sono situati dopo la coclea. L’organo
otolitico risponde alla forza di gravità e fornisce al cervello le informazioni sull’orientamento della testa. I canali
semicircolari rispondono all’accelerazione angolare, ovvero alle variazioni nella rotazione della testa;
rispondono anche, in modo debole, ai cambiamenti di posizione e all’accelerazione lineare. Le funzioni del
sistema vestibolare includono l’equilibrio e il mantenimento della testa in posizione eretta, oltre alle
modificazioni dei movimenti oculari per compensare quelli del capo. La stimolazione vestibolare non produce
alcuna sensazione realmente definibile; alcune stimolazioni di bassa frequenza dell’organo otolitico possono
produrre nausea, e la stimolazione dei canali semicircolari può causare vertigini e movimenti ritmici degli occhi
(nistagmo).

Anatomia del sistema vestibolare - Il labirinto dell’orecchio interno include la coclea, i canali semicircolari e le
due componenti degli organi otolitici: l’utricolo e il sacculo. I canali semicircolari sono costituiti da un canale
membranoso fluttuante in un canale osseo; il canale membranoso contiene un liquido detto endolinfa; una
dilatazione detta ampolla contiene l’organo, nel quale si trovano i recettori sensoriali, che sono cellule ciliate
simili a quelle presenti nella coclea, le cui stereociglia sono incastrate in una massa gelatinosa detta cupola.
L’endolinfa in questi canali si oppone al movimento quando la testa inizia a ruotare; tale resistenza iniziale
spinge l’endolinfa contro la cupola, provocando la sua flessione, finché il fluido inizia a muoversi alla stessa
velocità della testa. Se la testa è ruotata e poi si ferma, l’endolinfa, ancora in movimento nel canale, spinge la
cupola in senso contrario; quindi, l’accelerazione angolare si traduce nella flessione della cupola, che esercita
una forza meccanica sulle stereociglia delle cellule ciliate.
Il sacculo e l’utricolo lavorano in modo diverso. Tali organi sono approssimativamente circolari e contengono
un pezzo di tessuto recettivo. Quando la testa è dritta, il tessuto recettivo è posizionato sul pavimento
dell’utricolo e sulla parete del sacculo. Il tessuto recettivo contiene cellule ciliate, le cui stereociglia sono
incastrate in una massa gelatinosa sovrastante, che contiene gli otoliti, che sono piccoli cristalli di carbonato
di calcio. Il peso di questi cristalli provoca lo spostamento della massa gelatinosa secondo i cambiamenti di
posizione della testa.

Le cellule recettoriali - Le cellule ciliate dei canali semicircolari e degli organi otolitici sono simili. Ogni cellula
ciliata contiene molte stereociglia di lunghezza gradualmente crescente, dalla più corta alla più lunga. Queste
cellule ciliate sono simili a quelle cocleari ed è simile anche il loro meccanismo trasduttivo: una forza
meccanica sulle stereociglia apre i canali ionici e l’entrata degli ioni potassio depolarizza la membrana delle
cellule.

La via vestibolare - I nervi vestibolare e cocleare costituiscono due rami dell’ottavo nervo cranico, il nervo
acustico. Il soma delle cellule bipolari, che danno origine agli assoni afferenti del nervo vestibolare, sono
localizzati nel ganglio vestibolare, che appare come un nodulo del nervo vestibolare.
La maggior parte degli assoni del nervo vestibolare fa sinapsi nei nuclei vestibolari del bulbo, ma alcuni
arrivano direttamente al cervelletto. I neuroni dei nuclei vestibolari inviano i loro assoni a cervelletto, midollo
spinale, bulbo e punte. La maggior parte dei ricercatori ritiene che le proiezioni corticali siano responsabili delle
vertigini; l’attività delle proiezioni a livello più basso del tronco dell’encefalo può causare la nausea e il vomito
che accompagnano la sindrome da movimento. Le proiezioni ai nuclei del tronco dell’encefalo che controllano
i muscoli del collo sono chiaramente coinvolti nel mantenimento della posizione dritta della testa.
Probabilmente, le proiezioni più interessanti sono quelle ai nuclei dei nervi cranici (terzo, quarto e sesto, nervi
ottici ed oculomotori) che controllano i muscoli oculari. Quando camminiamo o corriamo, tutta la testa vibra
un po’. Il sistema vestibolare esercita un controllo diretto sui movimenti oculari, per compensare i movimenti
improvvisi della testa. Tale meccanismo, detto riflesso oculo-vestibolare, mantiene abbastanza stabile
l’immagine retinica. Le persone che hanno subito una lesione e che hanno perso il riflesso oculovestibolare
hanno difficoltà a vedere qualsiasi cosa, mentre camminano o corrono.

IL SISTEMA SOMATOSENSORIALE (Carlson pagg. 231-242)


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Il sistema somatosensoriale fornisce informazioni su quello che avviene sulla superficie del nostro corpo e al
suo interno. I sensi cutanei includono diverse sottomodalità, alle quali comunemente ci si riferisce come tatto.
La propriocezione e la cinestesia forniscono informazioni su posizione e movimento. Le sensazioni viscerali
sono prodotte dai recettori localizzati negli organi interni o intorno a essi.

Gli stimoli - I sensi cutanei rispondono a diversi tipi di stimoli: pressione, vibrazione, riscaldamento,
raffreddamento e dolore. Le sensazioni di pressione sono provocate dalla deformazione meccanica della pelle.
Una fonte di cinestesia è data dai recettori sensibili allo stiramento, presenti nei muscoli scheletrici, che
riportano i cambiamenti della lunghezza del muscolo al sistema nervoso centrale. I recettori presenti nelle
articolazioni tra due ossa rispondono alla grandezza e alla direzione del movimento dell’arto. Tuttavia, la fonte
di feedback cinestetico più importante sembra costituita dai recettori che rispondono ai cambiamenti di
stiramento della cute, durante il movimento delle articolazioni o degli stessi muscoli.
Siamo consapevoli di alcune delle informazioni ricevute per mezzo dei sensi organici, che possono darci
sensazioni spiacevoli come il mal di stomaco o il dolore per i calcoli alla cistifellea, oppure sensazioni piacevoli
come quelle conseguenti all’assunzione di una bevanda calda. Di altre informazioni restiamo inconsapevoli,
come quelle fornite dai recettori del sistema digestivo, nei reni, nel fegato, nel cuore e nei vasi ematici.

L’anatomia della pelle e i suoi organi recettivi - La cute è un organo complesso e vitale del corpo, che in genere
tendiamo a sottovalutare. Non possiamo sopravvivere senza cute: ustioni estese della pelle sono infatti fatali.
La pelle partecipa alla termoregolazione producendo sudore oppure riducendo la circolazione sanguigna per
conservare il calore. Il suo aspetto varia ampiamente lungo il corpo: dalle membrane mucose alle superfici
irsute, fino alle superfici senza peli del palmo della mano e delle piante dei piedi, note come cute glabra.
La pelle consiste di tessuto sottocutaneo, derma ed epidermide, e contiene diversi recettori sparsi in questi
strati. I più importanti sono: il disco di Merkel, un organo terminale sensibile al tatto, importante per il
rilevamento di forma e ruvidità, specie con i polpastrelli; il corpuscolo di Ruffini, un recettore cutaneo sensibile
al tatto, importante per il rilevamento dello stiramento o di forze statiche applicate alla cute; il corpuscolo di
Meissner, organo terminale sensibile al tatto, importante per il rilevamento di margini e contorni o di stimoli di
tipo Braille, specie a livello dei polpastrelli; il corpuscolo di Pacini, un recettore cutaneo sensibile alla vibrazione,
importante per il rilevamento della vibrazione degli oggetti tenuti in mano.
La cute glabra contiene un insieme denso e complesso di recettori, il che riflette il fatto che usciamo i palmi
delle nostre mani e i polpastrelli delle nostre dita per esplorare attivamente l’ambiente e li usiamo per tenere e
per prendere gli oggetti. Al contrario, il resto del nostro corpo entra più spesso in contatto con l’ambiente in
maniera passiva: sono le altre cose che vengono in contatto con il nostro corpo.

La percezione della stimolazione cutanea - Le caratteristiche più importanti della stimolazione cutanea sono
il tatto, la temperatura, il dolore e il prurito.

Tatto - Gli stimoli che causano vibrazioni della cute o pressione su di essa sono rilevati dai meccanocettori,
dei neuroni sensoriali che rispondono agli stimoli meccanici. La maggior parte dei ricercatori ritiene che le
terminazioni nervose incapsulate servano solo a modificare lo stimolo fisico trasdotto dai dendriti situati al
loro interno. Come fa il movimento dei dendriti dei meccanocettori a produrre dei cambiamenti nei potenziali
di membrana? Sembra che il movimento induca l’apertura dei canali ionici, e il flusso ionico dentro o fuori i
dendriti causi il cambiamento del potenziale di membrana.
La maggior parte delle informazioni sulle sensazioni tattili è localizzata con precisione: in altre parole, siamo
in grado di percepire con esattezza la localizzazione sulla nostra cute, quando siamo toccati.

Temperatura - Le sensazioni di calore e freddo sono relative, non assolute. Vi è un livello di temperatura che,
per una regione particolare della pelle, produce una sensazione di temperatura neutrale: né caldo, né freddo.
Se la temperatura di una regione della pelle si alza di pochi gradi, l’iniziale sensazione di calore è sostituita da
una di neutralità. Se la temperatura cutanea torna poi al valore iniziale, vi è una nuova sensazione di freddo.
Pertanto, l’aumento della temperatura abbassa la sensibilità dei recettori per il calore e aumenta la sensibilità
dei recettori per il freddo. Esistono due tipi di recettori termici: uno che risponde al calore e uno che risponde
al freddo. I recettori cutanei per il freddo sono localizzati appena sotto l’epidermide, mentre quelli per il caldo
sono localizzati più in profondità. L’informazione proveniente dai recettori per il freddo è veicolata al sistema
nervoso centrale da fibre di tipo A sottilmente mielinizzate, mentre l’informazione proveniente dai recettori per
il caldo è trasportata da fibre di tipo C non mielinizzate.

Dolore - La storia del dolore è abbastanza differente da quella della temperatura e della pressione; l’analisi di
questa sensazione è estremamente difficile. Soggettivamente, gli stimoli dolorifici fanno male, e noi cerchiamo
in tutti i modi di evitarli. Comunque, talvolta sopportiamo meglio il dolore e continuiamo a svolgere altri compiti;
infatti, il nostro cervello possiede meccanismi che possono ridurre parzialmente il dolore attraverso l’azione di
oppioidi endogeni. La percezione del dolore è compiuta da reti di terminazioni nervose libere presenti nella
cute. Sembrano esistere almeno tre tipi di recettori per il dolore, i quali vengono chiamati nocicettori. I
meccanocettori ad alta soglia sono terminazioni nervose libere che rispondono alla pressione intensa, che può
essere causata da qualcosa che penetra, tira o pizzica la pelle.

Prurito - Un’altra sensazione nocive è il prurito ed è causata dall’irritazione della cute. Il prurito è stato definito
da un medico tedesco del XVII secolo come una sensazione spiacevole, che induce il desiderio o il riflesso di
grattarsi. Grattarsi infatti inibisce l’attività dei neuroni nel tratto spinotalamico, che trasmette la sensazione di
prurito al cervello; grattarsi allevia il prurito perché il dolore sopprime il prurito, e allo stesso modo il prurito
sopprime il dolore. Alcuni esperimenti hanno dimostrato che gli stimoli dolorosi come il calore o le scosse
elettriche possono ridurre le sensazioni di prurito prodotte dall’iniezione cutanea di istamina; d’altro canto, la
somministrazione di un oppiaceo nello spazio epidurale intorno al midollo spinale riduce il dolore, ma può
provocare prurito come effetto collaterale negativo.
Le vie somatosensoriali (vedi immagine pag. 236)

Gli assoni somatosensoriali provenienti dalla pelle, dai muscoli o dagli organi interni entrano nel sistema
nervoso centrale attraverso i nervi spinali. Quelli localizzati nel volto e nella testa entrano principalmente
attraverso il nervo trigemino.
Gli assoni che trasmettono precisamente le informazioni localizzate, come il tatto fine, ascendono attraverso
le colonne dorsali (1) nella sostanza bianca del midollo spinale, verso i nuclei bulbari inferiori (2); da lì, gli assoni
si decussano e ascendono attraverso il lemnisco mediale (3) ai nuclei posteriori ventrali del talamo (4), i nuclei
di relay delle sensazioni somatiche; dal talamo, gli assoni proiettano alla corteccia somatosensoriale primaria
(5), che a sua volta invia proiezioni alla corteccia somatosensoriale secondaria (6).

Via somatosensoriale per le informazioni localizzate = colonne dorsali della sostanza bianca del midollo
spinale – nuclei bulbari interiori – nuclei posteriori ventrali del talamo – corteccia somatosensoriale.

Gli assoni che trasmettono informazioni scarsamente localizzate formano sinapsi con gli altri neuroni non
appena entrano nel midollo spinale (1); gli assoni di questi neuroni decussano verso l’altro lato del midollo
spinale e ascendono attraverso il tratto spinotalamico (2) ai nuclei posteriori del talamo (3).

Via somatosensoriale per le informazioni scarsamente localizzate = immediata sinapsi con altri neuroni nel
midollo spinale – nuclei posteriori del talamo – corteccia somatosensoriale.

Dykes ha passato in rassegna studi che indicano che le aree corticali somatosensoriali primaria e secondaria
sono divise in almeno cinque mappe diverse di superficie corporea. In ogni mappa, le cellule rispondono a una
particolare sottomodalità dei recettori somatosensoriali. Sono state identificate aree separate che rispondono
ai recettori cutanei a lento adattamento, ai recettori cutanei a rapido adattamento, ai recettori cutanei che
rilevano i cambiamenti della lunghezza del muscolo, ai recettori posti nelle articolazioni.

La percezione del dolore

Il dolore è un fenomeno curioso e può essere modificato dagli oppiacei, dall’ipnosi, dalla somministrazione di
placebo, dalle emozioni. Gli sforzi recenti di ricerca hanno fatto rimarchevoli progressi nella scoperta delle basi
fisiologiche di questo fenomeno. Possiamo ragionevolmente chiederci perché esperiamo dolore; la risposta è
che il dolore ha un ruolo costruttivo e ci salva da lesioni gravi.
Il dolore sembra esercitare diversi effetti percettivi e comportamentali. In primo luogo, c’è la componente
sensoriale: la pura percezione dell’intensità dello stimolo doloroso; il secondo componente è costituito dalle
immediate conseguenze emotive del dolore, la spiacevolezza o il grado in cui l’individuo è infastidito dallo
stimolo doloroso; la terza componente consiste nelle implicazioni emotive a lungo termine del dolore cronico.
Queste tre componenti del dolore sembrano implicare meccanismi cerebrali differenti.

La componente puramente sensoriale del dolore è mediata da una via che va dal midollo spinale al talamo
ventrale posterolaterale, fino alle cortecce somatosensoriali primaria e secondaria. La componente emotiva
immediata del dolore sembra essere mediata da vie che raggiungono la corteccia cingolata anteriore e la
corteccia insulare. La componente emotiva a lungo termine appare mediata da vie che raggiungono la
corteccia prefrontale.

Diversi studi hanno trovato che gli stimoli dolorosi attivano la corteccia insulare a la corteccia cingolata
anteriore. Rainville e collaboratori hanno indotto sensazioni dolorose a soggetti umani, immergendogli le
braccia in acqua ghiacciata. In una condizione fu usata l’ipnosi per diminuire la spiacevolezza del dolore;
l’ipnosi funzionò: i soggetti sostenevano che il dolore era meno spiacevole, anche se intenso; nel frattempo,
veniva misurata con la PET l’attivazione cerebrale; gli stimoli dolorosi aumentavano l’attivazione sia della
corteccia somatosensoriale primaria sia della corteccia cingolata anteriore; quando i soggetti erano
ipnotizzati, l’attività della corteccia cingolata anteriore diminuiva, ma quella della corteccia somatosensoriale
primaria rimaneva elevata. Presumibilmente, la corteccia somatosensoriale primaria è implicata nella
percezione del dolore, e la corteccia cingolata anteriore è implicata nei suoi effetti emotivi immediati, quali la
spiacevolezza.
Diversi studi di imaging hanno dimostrato che, sotto determinate condizioni, gli stimoli associati al dolore
possono attivare la corteccia cingolata anteriore, persino se in realtà non viene applicato alcuno stimolo
doloroso. In uno studio eseguito su coppie di innamorati, quando le donne ricevevano una scossa elettrica
dolorosa al dorso della mano, la corteccia cingolata anteriore, la corteccia insulare anteriore, il talamo e la
corteccia somatosensoriale si attivavano, allo stesso modo di quando vedevano infliggere la scossa al partner.
Quindi, la componente emotiva del dolore causa risposte cerebrali simili a quelle del dolore vero e proprio.

La componente finale del dolore, le conseguenze emotive del dolore cronico, sembra coinvolgere la corteccia
prefrontale. Il danneggiamento della corteccia prefrontale compromette la capacità di fare piani per il futuro e
di riconoscere il significato personale delle situazioni in cui si è coinvolti; le persone con lesione prefrontale
tendono a non preoccuparsi delle implicazioni delle condizioni croniche per il loro futuro, incluso il dolore
cronico.
Per molti anni i ricercatori hanno ritenuto che la percezione del dolore può essere modificata da stimoli
ambientali. Un lavoro recente ha rivelato l’esistenza di alcuni circuiti neurali la cui attività può produrre
analgesia; la maggior parte di questi circuiti causa il rilascio di oppioidi endogeni.
La stimolazione elettrica di zone particolari del cervello può causare analgesia, che nei ratti può essere tanto
profonda da servire come anestetico, negli interventi chirurgici. Le localizzazioni più efficaci sono all’interno
della sostanza grigia periacquedottale e nel midollo rostroventrale. La stimolazione cerebrale analgesica
apparentemente attiva i meccanismi neurali che riducono il dolore, principalmente inducendo il rilascio degli
oppioidi endogeni.
Il dolore può essere ridotto, almeno in alcune persone, somministrando un placebo farmacologico. Quando
alcune persone assumono un farmaco che credono ridurrà il dolore, ciò induce il rilascio di oppioidi endogeni,
il che garantisce l’analgesia. L’effetto del placebo può essere mediato da connessioni della corteccia frontale
con la sostanza grigia periacquedottale. Uno studio di imaging funzionale ha rilevato che l’analgesia indotta
da placebo causa il rilascio di oppioidi endogeni. Presumibilmente, l’aspettativa di una riduzione della
sensibilità al dolore ha causato l’incremento dell’attività nella corteccia prefrontale, e le connessioni di questa
regione con la sostanza grigia periacquedottale attivano i meccanismi endogeni di analgesia.

IL SISTEMA GUSTATIVO (Carlson pagg. 243-248)


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Gli stimoli - Per gustare una sostanza, le sue molecole devono sciogliersi nella saliva e stimolare i recettori del
gusto sulla lingua. Ci sono sei qualità di gusto: amaro, aspro, salato, umami (dal Giappone, saporito) e grasso.
Il sapore, a differenza del gusto, è un composto di olfatto e gusto. La maggior parte del sapore del cibo dipende
dal suo odore. La maggior parte dei vertebrati possiede sistemi gustativi che rispondono a tutte e sei le qualità
del gusto. I recettori per il dolce sono rivelatori di cibo: la maggior parte dei cibi dal gusto dolce è commestibile.
I recettori per il salato percepiscono la presenza di cloruro di sodio. Negli ultimi anni i ricercatori hanno
riconosciuto l’esistenza della quinta qualità del gusto: l’umami. “Umami” è una parola giapponese che significa
“gusto buono” e si riferisce al sapore del glutammato monosodico. Il recettore per l’umami rileva la presenza
del glutammato, un amminoacido presente nelle proteine. Presumibilmente, il recettore per l’umami garantisce
la capacità di gustare le proteine, un importante elemento nutritivo.

La maggior parte delle specie animali tende ad evitare sostanze aspre o amare. A causa dell’attività batterica,
molti cibi diventano acidi quando si gustano; inoltre, la maggior parte dei frutti acerbi ha un sapore acido.
L’acidità ha un gusto aspro e causa una reazione di evitamento. L’amaro è evitato quasi universamente e non
può essere migliorato con l’aggiunta del dolce. Per molti anni, i ricercatori hanno osservato che molte specie
animali mostrano una spiccata preferenza per i cibi ad elevato contenuto di grasso. Poiché non esiste un gusto
specifico associato alla presenza di grasso, la maggior parte dei ricercatori ha concluso che ne rileviamo la
presenza grazie all’odore e alla tessitura.

L’anatomia dei bottoni gustativi e delle cellule gustative

La lingua, il palato, la faringe e la laringe contengono approssimativamente 10.000 bottoni gustativi. La


maggior parte di questi organi recettivi sono organizzati intorno alle papille, piccole protuberanze sulla lingua.
I bottoni gustativi contengono gruppi da venti a cinquanta cellule recettrici, neuroni specializzati organizzati
come spicchi di un arancio. Questi recettori formano sinapsi con i dendriti dei neuroni sensoriali che
trasportano le informazioni gustative al cervello, attraverso il settimo, il nono e il decimo nervo cranico
(facciale, glosso faringeo e vago).
Il neurotrasmettitore rilasciato dalle cellule recettoriali è l’adenintrifosfato. I recettori hanno una vita che dura
solo dieci giorni: si consumano velocemente, essendo direttamente esposti a un ambiente ostile; quando
degenerano, sono rimpiazzati dalle nuove cellule che si sono sviluppate nel frattempo.

La percezione dell’informazione gustativa - La trasduzione del gusto è simile alla trasmissione chimica che
ha luogo nelle sinapsi: la molecola si lega al recettore e produce i cambiamenti nella permeabilità della
membrana che causano i potenziali di azione.
Per percepire un gusto salato, una sostanza deve ionizzare. Sebbene il miglior stimolo per i recettori salati sia
il cloruro di sodio, una varietà di Sali contenete cationi metallici ha un gusto salato. Il recettore per il salato
sembra essere un semplice canale sodio; quando è presente nella saliva, il sodio entra nelle cellule gustative
e le depolarizza, innescando i potenziali d’azione che inducono il rilascio di neurotrasmettitore. I recettori per
l’aspro sembrano rispondere agli ioni idrogeno presenti nelle soluzioni acide. Ricerche recenti hanno portato
a identificare due famiglie di recettori responsabili della trasduzione dei gusti dolce, amaro e umami.

La via gustativa (vedi immagine pag. 247) - Le informazioni gustative sono trasmesse attraverso il nervo
facciale (VII nervo cranico), il nervo glossofaringeo (IX nervo cranico) e il nervo vago (X nervo cranico).
Le informazioni che provengono dalla parte anteriore della lingua viaggiano attraverso la corda timpanica, un
ramo del settimo nervo cranico che passa al di sotto della membrana timpanica. I recettori gustativi nella parte
posteriore della lingua inviano informazioni attraverso il ramo linguale del nono nervo cranico. Il decimo nervo
cranico porta le informazioni dai recettori del palato e dell’epiglottide.

La prima stazione di relay per il gusto è il nucleo del tratto solitario (1), un nucleo del bulbo che riceve le
informazioni dagli organi viscerali e dal sistema gustativo. Nei primati, i neuroni sensibili al gusto presenti in
questo nucleo inviano i loro assoni ai nuclei talamici posteromediali ventrali (2), che ricevono anche le
informazioni somatosensoriali dal nervo trigemino. I neuroni talamici sensibili al gusto inviano i loro assoni
alla corteccia gustativa primaria (3), situata alla base della corteccia frontale e nella corteccia insulare.
Diversamente dalla maggior parte delle altre modalità sensoriali, il gusto è rappresentato ipsilateralmente nel
cervello.

Via gustativa = nucleo del tratto solitario-nuclei talamici posteromediali ventrali-corteccia gustativa primaria.

Assaggiare ciascun sapore attiva regioni differenti dell’area gustativa primaria della corteccia insulare.
Sebbene la localizzazione delle regioni che rispondono al gusto sia diversa da soggetto a soggetto, è stato
osservato sempre il medesimo pattern quando un dato soggetto era sottoposto al test in diverse occasioni.
Quindi, la rappresentazione del gusto nella corteccia gustativa è idiosincratica, ma stabile. Le informazioni
gustative raggiungono anche l’amigdala, l’ipotalamo e il prosencefalo basale adiacente. Molti ricercatori
credono che la via ipotalamica giochi un ruolo nel mediare gli effetti del rinforzo del gusto dolce.

IL SISTEMA OLFATTIVO (Carlson pagg. 248-254)


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L’olfatto ci permette di identificare il cibo e di evitare di mangiare alimenti avariati; aiuta i membri di molte
specie a seguire le tracce di una preda o a scoprire i predatori, a identificare amici, nemici e partner.
Gli stimoli per l’olfatto consistono di sostanze volatili con un peso molecolare che va approssimativamente da
15 a 300.

Anatomia del sistema olfattivo (vedi immagine pag. 250) - I nostri 6 milioni di cellule recettrici olfattive si
trovano in due chiazze di membrana mucosa. L’epitelio olfattivo è situato all’apice della cavità nasale: meno
del 10% dell’aria che entra nelle narici raggiunge l’epitelio olfattivo; per spostare l’aria verso la cavità nasale, in
modo che raggiunga i recettori olfattivi, è necessario quella che volgarmente possiamo chiamare “annusata”.
Le cellule recettrici olfattive sono neuroni bipolari, i cui corpi cellulari si trovano nella mucosa olfattiva, che
delinea la lamina cribrosa dell’osso etmoidale. Queste cellule inviano un processo verso la superficie della
mucosa, che si divide in 10-20 cigli che penetrano gli strati di muco. Le molecole odorose devono dissolversi
nel muco e stimolare le molecole recettoriali sulle ciglia olfattive.
I bulbi olfattivi si trovano alla base del cervello sulle terminazioni dei tratti olfattivi. Ogni cellula recettrice invia
un singolo assone nel bulbo olfattivo, dove forma sinapsi con i dendriti delle cellule mitrali. Queste sinapsi
hanno luogo in complesse arborizzazioni assonali e dendritiche dette glomeruli olfattivi Gli assoni delle cellule
mitrali viaggiano verso il resto del cervello attraverso i tratti olfattivi. Alcuni di questi assoni terminano in altre
regioni del proencefalo; altri decussano e terminano nel bulbo olfattivo controlaterale.
L’amigdala invia le informazioni olfattive all’ipotalamo, la corteccia entorinale le invia all’ippocampo e la
corteccia piriforme le invia all’ipotalamo e alla corteccia orbitofrontale ( la corteccia orbitofrontale riceve anche
le informazioni gustative e sembrerebbe pertanto implicata nel combinare il gusto e l’olfatto, per sentire i
sapori.)

La trasduzione dell’informazione olfattiva - Quando un ligando si lega con un recettore metabotropico, la


proteina G apre i canali ionici direttamente o indirettamente, innescando la produzione di un secondo
messaggero. Le ciglia olfattive contengono i recettori odoranti legati alla proteina G.

La percezione di odori specifici - Per molti anni, il riconoscimento di odori specifici è stato un enigma. Gli esseri
umani possono riconoscere oltre dieci migliaia di odoranti diversi. Anche se abbiamo 339 diversi recettori
olfattivi, questo lascia molti odori inspiegabili. Come possiamo usare un numero relativamente piccolo di
recettori per percepire odori così diversi? La risposta è che un particolare odorante si lega a più di un recettore.
Pertanto, odoranti diversi producono pattern diversi di attività, in glomeruli diversi. Riconoscere un odore
particolare significa riconoscere un particolare pattern di attività nei glomeruli. Il compito di riconoscimento
chimico è trasformato in un compito di riconoscimento spaziale.
Sebbene gli odoranti siano categorizzati all’interno del bulbo olfattivo in base alle loro caratteristiche
molecolari, lo schema di codifica cambia a livello della corteccia piriforme. Uno studio di imaging funzionale
sull’uomo ha rilevato che le strutture chimiche degli odoranti sono rappresentate da gruppi di neuroni nella
regione anteriore, ma i gruppi di neuroni nella regione posteriore rappresentano le qualità degli odoranti. Non
sappiamo ancora in che modo le mappe della struttura chimica nel bulbo olfattivo si combinino con le mappe
della qualità percettiva nella corteccia piriforme posteriore; presumibilmente, l’apprendimento gioca un certo
ruolo in questo processo.
8. CONTROLLO DEL MOVIMENTO
Muscoli scheletrici
Anatomia
Basi fisiche della contrazione muscolare
Feedback sensoriale dai muscoli
SOMMARIO DELLA PRIMA PARTE
Controllo riflesso del movimento
Riflesso monosinaptico da stiramento
Sistema motorio gamma
Riflessi polisinaptici
SOMMARIO DELLA SECONDA PARTE
Controllo cerebrale del movimento
Organizzazione della corteccia motoria
Controllo corticale del movimento: le vie discendenti
Pianificazione e iniziazione dei movimenti: il ruolo della corteccia motoria associativa
Imitazione e comprensione dei movimenti: il ruolo del sistema dei neuroni specchio
Controllo dei movimenti di raggiungimento e prensione
Deficit dei movimenti di precisione: le aprassie
Gangli della base
Cervelletto
Formazione reticolare
SOMMARIO DELLA TERZA PARTE
IL SISTEMA MOTORIO ED IL CONTROLLO DEL MOVIMENTO (Carlson pagg. 256-287)

……………

I sistemi motori trasformano le informazioni nervose in energia fisica, emettendo dei segnali che vengono
trasmetti attraverso il tronco dell’encefalo ed il midollo spinale ai muscoli scheletrici. Quest’ultimi trasducono
le informazioni nervose ricevute, in forza contrattile, generando i movimenti.

I muscoli scheletrici

I muscoli scheletrici sono quelli che ci muovo e perciò sono responsabili dei nostri comportamenti. La maggior
parte di essi è attaccata alle ossa con entrambe le estremità e le muovono durante le contrazioni (le eccezioni
includono i muscoli oculari ed alcuni muscoli addominali). I muscoli sono fissati alle ossa attraverso i tendini,
robuste bande di tessuto connettivo. Sono molti i movimenti che possono essere compiuti dai muscoli
scheletrici, noi ne andremo a descrivere due: la flessione e l’estensione. La contrazione di un muscolo flessorio
produce flessione, ossia l’avvicinamento di un arto al tronco. L’estensione, il movimento opposto, è prodotto
dalla contrazione dei muscoli estensori (chiamate anche muscoli antigravitari, poiché sono quelli che
utilizziamo per stare in posizione eretta.)

Anatomia - Il muscolo scheletrico consiste in due tipi di fibre muscolari: le fibre muscolari extrafusali che
sono innervate dai motoneuroni alfa e che si trovano all’esterno dei fusi e le fibre muscolari intrafusali che
sono organi sensoriali specializzati innervati da due assoni: uno sensoriale e uno motorio. Questi organi, sono
chiamati anche fusi muscolari, e si trovano all’interno dei fusi.
La regione centrale delle fibre muscolari intrafusali contiene le terminazioni sensoriali sensibili allo stiramento
di una fibra muscolare. L’assone efferente di un motoneurone gamma provoca la contrazione di una fibra
muscolare intrafusale. Un singolo assone mielinizzato di un motoneurone alfa innerva parecchie fibre
muscolari extrafusali. Un motoneurone alfa, il suo assone, e le fibre muscolari extrafusali da esso innervate
costituiscono l’unità motrice.

Una singola fibra muscolare consiste in un fascio di miofibrille, costituite a loro volta dai filamenti sovrapposti
di actina e miosina. Le regioni in cui i filamenti di actina e miosina sono sovrapposti producono bande scure,
o striature, per questo motivo, spesso, i muscoli scheletrici sono chiamati muscoli striati.

Oltre alle fibre muscolari intrafusali, i muscoli contengono recettori allo stiramento contenuti negli organi
tendinei del Golgi, localizzati sulle estremità dei muscoli.

Il motoneurone è la cellula nervosa su cui convergono tutte le informazioni provenienti dalle altre parti del
sistema nervoso, che invia il segnale finale al muscolo, attraverso il proprio assone, che forma il nervo
periferico motorio. I motoneuroni possono essere classificati anche in inferiori e superiori. I primi abbandonano
il SNC, formano le componenti motorie dei nervi cranici e spinali; i secondi sono i neuroni corticali e del tronco
cerebrale, i quali formano le vie discendenti tramite gli interneuroni spinali.

Basi fisiche della contrazione muscolare

La sinapsi tra il bottone terminale di un neurone efferente e la membrana di una fibra muscolare è chiamata
giunzione neuromuscolare. I bottoni terminali di un neurone contraggono sinapsi sulle placche motrici,
localizzate nelle pieghe lungo la superficie delle fibre muscolari. Quando è stimolata la fibra motrice, l’assone
scarica e dai bottoni terminali si libera acetilcolina, con conseguente depolarizzazione della membrana
postsinaptica: un potenziale di placca.
Un potenziale di placca genera sempre un potenziale d’azione nella fibra muscolare, che si propaga lungo tutta
la sua lunghezza. Questo potenziale d’azione produce una contrazione, o scossa, della fibra muscolare.
La depolarizzazione della fibra muscolare apre i canali del calcio voltaggio-dipendenti, permettendo quindi agli
ioni calcio di entrare nel citoplasma; questo evento provoca la contrazione. Il calcio agisce come un cofattore,
che permette alle miofibrille di estrarre energia dall’ATP presente nel citoplasma. I ponti trasversali di miosina
si legano in successione ai filamenti di actina, ruotano in una direzione, si distaccano, riassumo la posizione
iniziale, si riattaccano all’actina. In un punto più basso del filamento e così via. I ponti dunque, remano lungo i
filamenti di actina.

I tipi di sistemi motori (Slide)

L’attività motoria comprende una pianificazione centrale, e cioè una rappresentazione interna del movimento
e una percezione sensoriale periferica, che corrisponde al movimento realmente effettuato.

Esistono due tipi di sistemi motori:


1. Sistema motore somatico: innerva la muscolatura striata del corpo e controlla molte funzioni volontarie
2. Sistema motore viscerale: innerva i visceri e le ghiandole; dunque si occupa di tutte quelle attività
involontarie.

(libro) – In più vi è il sistema motorio gamma capace di controllare la lunghezza dei fusi neuromuscolari e,
indirettamente, la lunghezza dell’intero muscolo.

I sistemi motori di controllo sono:


1. Sistema spinale (il midollo spinale nell’organizzazione gerarchica dei sistemi motori ricopre il livello
gerarchico più basso):
2. Sistema troncoencefalico: il tronco dell’encefalo è una porzione del SNC posta fra il midollo spinale ed il
diencefalo; è una struttura di cruciale importanza, sia per il passaggio delle fibre nervose ascendenti e
discendenti, sia come sede di numerosi nuclei grigi origine di nervi cranici, sia dei nuclei grigi del tronco
stesso.Il tronco dell’encefalo è la sede dei circuiti neuronali deputati al controllo dei movimenti oculari,
dell’equilibrio e di altri movimenti relativamente semplici; la funzione principale è quella della motilità di
sostegno (es postura ed equilibrio)
3. Sistema corticale

Vari tipi di movimento

Esistono principalmente tre tipologie di movimenti:


‐ I movimenti volontari: sono quelli più complessi, perché sono intenzionali e diretti ad uno scopo. Possono
essere appresi e migliorano con l’esercizio.
‐ I movimenti riflessi: sono quelli più semplici, poiché non condizionati dalla volontà. Sono conseguenza rapide
di risposte involontarie.
‐ L’attività motorie ritmiche: in questo caso, solo l’inizio e la fine della risposta sono volontari. Iniziano una
sequenza che viene mantenuta nel tempo sino alla decisione di interromperla.

Controllo riflesso del movimento (libro + slide)

La maggior parte delle funzioni motorie prevede una serie di contrazioni e rilassamenti rapidi e ben coordinati
delle unità motorie e dei gruppi muscolari specifici. I generatori centrali di schemi motori sono, appunto, delle
reti che attraverso dei segnali neurologici, attivano e coordinano i motoneuroni specifici per un certo
movimento.

In fisiologia un riflesso è una risposta involontaria ad uno stimolo, mediata da elementi nervosi, che termina
con una risposta. I riflessi hanno generalmente lo scopo di mantenere l'omeostasi dell'organismo.
I riflessi possono essere:
 Riflessi spinali
 Riflessi tendinei
 Riflesso di stiramento
 Riflessi flessori
 Riflessi estensori crociati
 Riflesso del coltello serramanico
Riflesso monosinaptico da stiramento (vedi immagine pag. 262) - Parliamo dunque del riflesso
monosinaptico da stiramento. Innanzitutto seguiamo il circuito:
‐ Nei fusi muscolari hanno inizio gli impulsi afferenti, che viaggiano lungo le fibre fino alla sostanza grigia del
midollo spinale, dove i bottoni terminali contraggono sinapsi sul motoneurone alfa che innerva le fibre
muscolari extrafusali del muscolo stesso.
‐ Lungo la via che dal recettore arriva all’effettore si incontra solo una sinapsi: da qui il termine monosinaptico.

Un importante funzione del riflesso monosinaptico da stiramento riguarda il controllo della postura: per stare
eretti, dobbiamo mantenere il nostro centro di gravità sopra i nostri piedi, altrimenti cadremmo. Con questo
assetto, tendiamo ad oscillare in avanti ed indietro e da una parte all’altra. Il nostro sistema vestibolare ed il
nostro sistema visivo giocano un ruolo chiave nel mantenimento della postura. Ma questi due sistemi sono
aiutati dall’attività del riflesso monosinaptico da stiramento.

Riflessi polisinaptici (vedi immagine pag. 263) - Il riflesso monosinaptico da stiramento è l’unico riflesso
spinale conosciuto che coinvolge una sola sinapsi; tutti gli altri riflessi sono polisinaptici.
Come abbiamo visto in precedenza, le fibre afferenti degli organi tendinei del Golgi, servono da rilevatori per lo
stiramento muscolare. Esistono due popolazioni di fibre afferenti di tali recettori, con differenti sensibilità allo
stiramento: le fibre afferenti più sensibili informano il cervello su il grado di tensione muscolare, mentre quelle
meno sensibili svolgono una funzione aggiuntiva. I loro bottoni terminali contraggono sinapsi con gli inter
neuroni del midollo spinale: neuroni che risiedono interamente nella sostanza grigia del midollo spinale e
servono ad interconnettere altri neuroni spinali. Questi interneuroni contraggono sinapsi sui motoneuroni alfa
che innervano lo stesso muscolo; i loro bottoni terminali rilasciano glicina e quindi generano potenziali
postsinaptici inibitori sui motoneuroni. La funzione di questo circuito è ridurre la forza di contrazione
muscolare quando c’è il pericolo di un danno ai tendini o alle ossa ai quali i muscoli sono connessi.
In un gatto decerebrato, in cui è stata eseguita una sezione a livello del tronco dell’encefalo, è presente un
fenomeno conosciuto come rigidità da decerebrazione: il dorso dell’animale è inarcato e le zampe sono
rigidamente estese. Questa rigidità deriva dall’eccitazione originata nella formazione reticolare caudale, una
regione del tronco dell’encefalo, che facilita enormemente tutti i riflessi da stiramento.
Rostralmente alla sezione coronale del tronco dell’encefalo si trova una regione inibitoria della formazione
reticolare, che controbilancia quella eccitatoria. La sezione rimuove le influenze inibitorie lasciando solo quelle
eccitatorie. Se si prova a flettere l’arto esteso di un gatto decerebrato, si incontra una resistenza che cresce
progressivamente ma che di colpo scompare, permettendo all’arto di flettersi; è pressoché la sensazione di
chiudere la lama di un coltellino da tasta, da qui il termine di riflesso del coltello a serramanico. L’improvviso
rilasciamento è mediato dall’attivazione del riflesso degli organi tendine del Golgi.

Il midollo spinale (Slide)

L’attività motoria spinale si realizza seguendo due vie:


‐ Monosinaptica: il segnale sensoriale fa sinapsi sul motoneurone e dà luogo ad un circuito riflesso rapido;
‐ Multisinaptica: il segnale neuronale raggiunge il motoneurone dopo una lunga catena di sinapsi
interneurali. Dà luogo ad atti motori complessi.

Nel midollo spinale, i recettori muscolari sono collegati ai motoneuroni per formare gli archi riflessi. Un arco
riflesso è formato da 3 settori principali:
1- Una via sensoriale: mette in relazione i recettori con i centri nervosi del midollo spinale;
2- Un centro riflesso: qui arrivano gli impulsi afferenti e partono gli impulsi motori
3- Una via efferente: formata dai nervi motori he innervano i muscoli connessi all’articolazione

Controllo cerebrale del movimento

Il cervello ed il midollo spinale comprendono diversi sistemi motori, ognuno dei quali può controllare
contemporaneamente particolari specie di movimenti. Per esempio, una persona può camminare e parlare
con un amico contemporaneamente. Il sistema troncoencefalico è anch’esso un sistema motorio di controllo.
Organizzazione della corteccia motoria - La corteccia motoria primaria (area 4 di Brodmann) si trova nel giro
precentrale, rostralmente al solco centrale. Gli studi di stimolazione hanno evidenziato che l’attivazione dei
neuroni, localizzati in specifiche aree della corteccia motoria primaria, causa particolari movimenti del corpo.
In altre parole, la corteccia motoria primaria presenta un’organizzazione somatotopica; da qui possiamo
appunto disegnare quello che è l’homunculus motorio (da notare è che i movimenti delle dita ed i muscoli per
parlare è dedicata una quantità sproporzionata di area corticale)
È importante specificare che la corteccia motoria primaria è organizzata in termini di particolari movimenti di
specifiche parti del corpo: ciascun movimento può essere effettuato grazie alla contrazione di diversi muscoli:
per esempio, quando un braccio ed una mano eseguono un movimento di raggiungimento in una particolare
direzione, si devono contrarre molti muscoli della spalla, del braccio e dell’avambraccio. Ciò indica la
localizzazione di circuiti neuronali complessi tra i singoli neuroni della corteccia motoria primaria ed i
motoneuroni del midollo spinale che inducono la contrazione delle unità motorie.

Il principale input corticale alla corteccia motoria primaria proviene dalla corteccia associativa frontale, che è
localizzata rostralmente.
Due regioni confinanti con la corteccia motoria primaria, che sono l’area motoria supplementare e la corteccia
premotoria, sono particolarmente importanti nel controllo del movimento. Entrambe le regioni ricevono
efferenze dalla corteccia motoria primaria.
L’area motoria supplementare (AMS) si trova nella superficie mediale del cervello rostralmente alla corteccia
motoria primaria. La corteccia premotoria è localizzata principalmente sulla superficie laterale, anch’essa
rostrale alla corteccia motoria primaria.

Controllo corticale del movimento: le vie discendenti (vedi schema riassuntivo pag. 270)

I neuroni della corteccia motoria primaria controllano i movimenti attraverso due gruppi di tratti discendenti:
1. Il gruppo laterale: consiste del tratto corticospinale, tratto corticobulbare, tratto rubrospinale;
Questo sistema è principalmente coinvolto nel controllo dei movimenti delle mani e delle dita. Con
l’espressione “indipendenti” si intende che l’arto sinistro e l’arto destro fanno movimenti differenti.
2. Il gruppo ventromediale: consiste del tratto vestibolospinale, del tratto tettospinale e del tratto
corticospinale ventrale. Questi tratti coinvolgono soprattutto i movimenti automatici: i movimenti
grossolani dei muscoli del tronco, ed i movimenti coordinati del tronco e degli arti coinvolti nella postura
e nella locomozione.
(Sono chiamati così per la loro localizzazione nella sostanza bianca del midollo spinale)

Gruppo laterale (vedi immagine pag. 267)

Il tratto corticospinale consiste in assoni di neuroni corticali che terminano nella sostanza grigia del midollo
spinale. Nonostante i corpi cellulari di questi assoni siano maggiormente concentrati nella corteccia motoria
primaria, anche i neuroni del lobo parietale e del lobo temporale si servono della via discendente corticospinale
per inviare i loro assoni. Gli assoni lasciano la corteccia e viaggiano attraverso la sostanza bianca
sottocorticale fino ad arrivare alla porzione ventrale del mesencefalo, dove entrano nei peduncoli cerebrali. A
livello bulbare, essi lasciano i peduncoli cerebrali e formano il tratto piramidale. A livello della porzione caudale
del bulbo, la maggior parte delle fibre si decussa e discende attraverso il midollo spinale controlaterale,
formando il tratto corticospinale laterale. Il resto delle fibre discende attraverso il midollo spinale ipsilaterale,
formando il tratto corticospinale ventrale. La via corticospinale controlla i movimenti delle dita e delle mani.
Il tratto corticobulbare, proietta al bulbo. Questo tratto è simile alla via corticospinale, con l’eccezione che esso
termina nei nuclei motori dei nervi cranici quinto, settimo, nono, decimo, undicesimo e dodicesimo.
Il tratto rubrospinale, origina nel nucleo rosso del mesencefalo. Il nucleo rosso riceve i suoi input più importanti
dalla corteccia motoria attraverso il tratto corticorubrale: gli assoni di questo tratto poco fa citato terminano
nei motoneuroni del midollo spinale e controllano i movimenti indipendenti degli avambracci e delle mani.

Gruppo ventromediale (vedi immagine pag. 269)

Questo gruppo comprende il tratto vestibolospinale, il tratto tettospinale ed il tratto reticolospinale. Queste vie
controllano i motoneuroni della porzione ventromediale della sostanza grigia del midollo spinale. I neuroni di
tutti questi tratti ricevono input dalle porzioni della corteccia motoria primaria. I corpi cellulari dei neuroni del
tratto vestibolospinale si trovano nei nuclei vestibolari, e dunque questo sistema gioca un ruolo importante nel
controllo della postura. I corpi cellulari dei neuroni del tratto tettospinale sono localizzati nei collicoli superiori
e sono coinvolti nei movimenti che coordinano il capo ed il tronco con i movimenti oculari. I corpi cellulari dei
neuroni del tratto reticolospinale si trovano in molti nuclei del tronco dell’encefalo e della formazione reticolare
mesencefalica.

Corteccia motoria associativa: pianificazione e inibizione dei movimenti

L’area motoria supplementare e la corteccia premotoria sono coinvolte nella pianificazione dei movimenti ed
eseguono questi piani attraverso le loro connessioni con la corteccia motoria primaria. La corteccia motoria
associativa, in particolare, è coinvolta anche nell’imitazione delle azioni effettuate da altre persone
(apprendimento tramite modelli) e persino nella comprensione delle funzioni dei comportamenti altrui.

Corteccia motoria supplementare

L’area motoria supplementare gioca un ruolo critico nelle sequenze comportamentali: il danneggiamento di
questa regione compromette la capacità di eseguire sequenze ben apprese di risposte, in cui la messa in atto
di una risposta serve da segnale per quella successiva. Gli studi sull’uomo hanno ottenuto risultati simili a
quelli ottenuti con le scimmie: per esempio uno studio di imaging funzionale ha rilevato una maggiore attività
dell’AMS posteriore durante l’esecuzione di una sequenza appresa che consisteva nello schiacciare diversi
bottoni. Una regione appena inferiore all’area motoria supplementare, la preAMS sembra implicata nel
controllo dei movimenti spontanei, o almeno nella percezione di tale controllo.
Quindi L’AMS è implicata nelle sequenze comportamentali bene apprese: i suoi neuroni scaricano in punti
particolari delle sequenze; il loro danneggiamento strutturale o funzionale compromette la capacità di eseguire
tali sequenze. La pre-AMS è implicata nella consapevolezza delle nostre decisioni di mettere in atto movimenti
volontari.

Corteccia premotoria

La corteccia premotoria (o area 6 di Brodmann) è implicata nell’apprendimento e nell’esecuzione dei


movimenti complessi guidati dalle informazioni sensoriali.
Il risultato di diversi studi suggerisce che la corteccia premotoria è coinvolta nell’utilizzazione di stimoli arbitrari
per indicare quale movimento dovrebbe essere effettuato. Per esempio, il raggiungimento di un oggetto che
vediamo in una particolare localizzazione necessita di un’informazione spaziale non arbitraria (in altre parole
l’informazione visiva fornita della localizzazione dell’oggetto specifica esattamente dove dobbiamo indirizzare
il nostro movimento. Abbiamo anche la capacità di imparare a fare movimenti in base alle informazioni
arbitrarie, cioè non direttamente correlate al movimento che segnalano.

I ricercatori hanno rilevato che i neuroni in un’area della porzione rostrale della corteccia premotoria del
cervello della scimmia, si attivano quando gli animali osservano persone o altre scimmie che effettuano vari
movimenti, o quando eseguono movimenti loro stessi. I neuroni dunque rispondono sia alla vista dei
movimenti sia all’esecuzione. I ricercatori hanno denominato queste cellule neuroni specchio.
Il sito di questi neuroni, la corteccia premotoria ventrale, è reciprocamente connesso con i neuroni della
corteccia parietale posteriore e, ulteriori ricerche, hanno scoperto che anche questa regione contiene neuroni
specchio. Date le caratteristiche dei neuroni specchio, possiamo aspettarci che giochino un ruolo nella
capacità delle scimmie di imitare i comportamenti di altre scimmie (diversi studi hanno poi dimostrato
l’esattezza di questa inferenza).
Diversi studi di imaging funzionale hanno dimostrato che anche il cervello umano contiene un circuito di
neuroni specchio nel lobulo parietale inferiore (una regione della corteccia parietale posteriore) e nell’area
premotoria ventrale.
Inoltre è stato rilevato come il circuito dei neuroni specchio si attiva più fortemente quando si osserva un
comportamento di cui si ha competenze.

I neuroni specchio, inoltre, non sono attivati solo dall’esecuzione di un’azione o dalla vista di qualcun altro che
esegue l’azione in questione, ma anche dei suoni che indicano il verificarsi di un’azione familiare.
Alcuni studiosi hanno ipotizzato che il circuito dei neuroni specchio ci aiuti a comprendere le azioni degli altri.
Un altro studio di imaging funzionale, suggerisce che il sistema dei neuroni specchio ci aiuti a comprendere le
intenzioni delle altre persone.
Controllo dei movimenti di raggiungimento e precisione

I movimenti di raggiungimento e di precisione coinvolgono aree cerebrali differenti. La maggior parte dei
movimenti di raggiungimento è controllata dalla visione (in particolare dalla via dorsale). Le connessioni tra il
lobo parietale e il lobo frontale giocano un ruolo essenziale nei movimenti di raggiungimento. Una regione della
corteccia parietale posteriore mediale è stata denominata regione parietale del raggiungimento.

Strutture implicate nei movimenti: gangli della base, cervelletto e formazione reticolare

GANGLI DELLA BASE

I gangli della base costituiscono un’importante componente del sistema motorio. I nuclei motori dei gangli
della base includono il nucleo caudato, il putamen e il globo pallido. I nuclei della base ricevono la maggior
parte delle loro afferenze da tutte le regioni della corteccia cerebrale e dalla substantia nigra.
I nuclei associati con i gangli della base sono invece: i nuclei talamici, il nucleo ventrale anteriore, il nucleo
ventrolaterale, il nucleo subtalamico e la substantia nigra. Essi hanno due principali proiezioni efferenti: da una
parte la corteccia motoria primaria, l’area motoria supplementare e la corteccia premotoria; dall’altra i nuclei
motori del tronco dell’encefalo.
La corteccia frontale, la corteccia parietale e la corteccia temporale, inviano assoni ai nuclei caudato ed al
putamen che a loro volta si connettono con il globo pallido. Per completare il circuito, il globo pallido ritrasmette
le informazioni alla corteccia motoria, attraverso i nuclei talamici ventrale anteriore e ventrolaterale.
Quindi i gangli della base possono controllare le informazioni somatosensoriali ed essere informati sulla
pianificazione dei movimenti da parte della corteccia motoria. Un’altra grande afferenza dei gangli della base
proviene dalla substantia nigra del mesencefalo: la degenerazione del fascio nigrostriatale, ossia della via
dopaminergica che passa dalla substantia nigra e arriva ai nuclei caudato e putamen, causa il morbo di
Parkinson.

Le stazioni sinaptiche del circuito sono costituite da neuroni sia eccitatori (glutammatergici) sia inibitori
(GABAergici). Entrambi i nuclei, caudato e putamen, ricevono input eccitatorio dalla corteccia cerebrale ed
inviano assoni inibitori al segmento interno ed esterno del globo pallido (GPi eGPe)
La via che include il GPi è conosciuta come via diretta. La via che include il GPe è conosciuta come via indiretta.
Esiste anche una terza via, nota come via iperdiretta

IL CERVELLETTO

È un’importante componente del sistema motorio: contiene circa 50 miliardi di neuroni nella corteccia
cerebellare contro gli approssimativamente 22 miliardi della corteccia cerebrale. Quando è danneggiato, i
movimenti delle persone divengono a scatti, sbagliati e scoordinati.
Il cervelletto consta di due emisferi che contengono diversi nuclei profondi, situati al di sotto della corrugata e
ripiegata corteccia cerebellare. Per la sua forma, dunque, il cervelletto ricorda un cervello in miniatura.
La sua parte mediale e filogeneticamente più antica della parte laterale e partecipa al controllo del sistema
ventromediale.
Il lobo flocculo-nodulare, localizzato nell’estremità caudale, riceve afferenze dal sistema vestibolare ed invia
proiezioni ai nuclei vestibolari. Regione del cervelletto coinvolta nel controllo dei riflessi posturali
Il verme, localizzato sulla linea mediana, riceve le informazioni uditive, visive dal tetto e le informazioni
cinestetiche e cutanee dal midollo spinale e spedisce le efferenze al nucleo fastigio.

Il nucleo fastigio è uno dei nuclei cerebellari profondi, i neuroni del nucleo fastigio proiettano ai nuclei
vestibolari ed ai nuclei motori della formazione reticolare. Questi neuroni influenzano dunque il
comportamento attraverso i tratti vestibolospinale e reticolospinale.
La zona intermedia della corteccia, tramite il nucleo interposito, proietta al nucleo rosso ed influenza il
controllo del sistema rubrospinale sui movimenti delle braccia e delle gambe
La zona laterale del cervelletto è coinvolta nel controllo dei movimenti degli arti, specialmente nel controllo dei
movimenti più rapidi ed in quello dei compiti motori che richiedono destrezza. Sia la corteccia associativa
frontale che la corteccia motoria primaria, inviano informazioni sui movimenti pianificati, alla zona laterale del
cervelletto, attraverso il nucleo pontino. La zona laterale riceve anche dal sistema somatosensoriale le
informazioni circa la posizione corrente e la velocità dei movimenti degli arti, informazioni necessarie per
calcolare i dettagli di un movimento. La zona laterale, infine, proietta anche al nucleo rosso.
I neuroni del nucleo dentato, un altro dei nuclei cerebellari profondi, inviano l’informazione al talamo
ventrolaterale, che la trasferisce alla corteccia motoria primaria.

Danni al lobo flocculo-nodulare o al verme, causano disturbi nella postura e nell’equilibrio.


Danni alla zona intermedia causano deficit nei movimenti controllati dal sistema rubrospinale.
Danni alla zona laterale causano debolezza e decomposizione del movimento: per esempio una persona che
prova a portare una mano alla bocca eseguirà movimenti separati delle articolazioni della spalla, del gomito e
del polso. Le lesioni in questa zona sembrano intaccare la sincronizzazione dei movimenti balistici rapidi.

FORMAZIONE RETICOLARE

La formazione reticolare consiste in un gran numero di nuclei localizzati all’interno del bulbo, del ponte e del
mesencefalo. Controlla l’attività del sistema motorio gamma e quindi regola il tono muscolare.
Inoltre il ponte, il bulbo contengono numerosi nuclei con funzioni motorie specifiche. (respirazione, vomito,
tosse ecc…).
La formazione reticolare è anche coinvolta nella locomozione. La stimolazione della regione locomotoria
mesencefalica, localizzata ventralmente ai collicoli inferiori, fa sì che un gatto faccia movimenti di cammino.
Questa regione in invia fibre direttamente al midollo spinale, ma evidentemente controlla l’attività dei neuroni
del tratto reticolo spinale. Sembra anche in grado di controllare alcuni comportamenti molto specifici
(movimenti della testa, dei muscoli facciali ecc…)

Deficit dei movimenti: Aprassia (Slide + libro)

Il danno al corpo calloso, al lobo frontale o a quello parietale del cervello umano produce una categoria di
deficit chiamata aprassia.
Il termine aprassia fa riferimento all’incapacità di imitare o produrre movimenti in risposta a istruzioni verbali,
o l’incapacità di dimostrare i movimenti che bisognerebbe effettuare per usare uno strumento o un utensile
familiare. Questa “incapacità” si manifesta si verifica in assenza di disturbi motori “elementari” (paralisi,
atassia, coreo-atetosi ecc…) ed in assenza di deficit globale delle funzioni mentali (demenza).
Esistono 4 tipi principali di aprassia:
1. Aprassia degli arti
2. Aprassia orale (problemi nei movimenti dei muscoli utilizzati nel linguaggio)
3. Agrafia aprassica (deficit di scrittura)
4. Aprassia costruttiva

APRASSIA DEGLI ARTI - L’aprassia degli arti è caratterizzata da movimenti della parte sbagliata dell’arto, da
movimenti scorretti della parte corretta, o da movimenti corretti ma eseguiti con una sequenza scorretta. Il
deficit si accerta chiedendo ai pazienti di eseguire dati movimenti, per esempio imitare i gesti fatti
dall’esaminatore con le mani.
I movimenti più difficili consistono, ad esempio, nel mimare particolari azioni, in assenza di oggetti
normalmente utilizzati a riguardo: ad esempio viene chiesto al soggetto di far finta di avere una chiave in mano
e con questa di aprire una porta; il paziente con aprassia potrebbe aver difficoltà ad eseguire un movimento di
questo tipo.

L’aprassia degli arti può essere di 3 tipi:

1. Aprassia callosale: aprassia dell’arto Sx in seguito ad un danno del corpo calloso anteriore;
2. Aprassia simpatica: si verifica in seguito ad un danno dell’emisfero sinistro anteriore, e ne consegue un
grave deterioramento motorio del braccio e della mano destra, che può essere una paralisi totale o parziale,
ed un’aprassia del braccio sinistro;
3. Aprassia parietale sx: è determinata da lesioni dell’emisfero sinistro posteriore; causa aprassia di entrambi
gli arti.
Se ci chiediamo perché il danneggiamento del lobo temporale sinistro, ma non del destro, causa l’aprassia di
entrambe le mani, la risposta sembra essere che l‘emisfero destro è implicato nello spazio interpersonale,
mentre il sinistro con il proprio corpo.

APRASSIA COSTRUTTIVA - Questo tipo di aprassia si verifica in seguito a lesioni dell’emisfero destro, in
particolare del lobo parietale destro. I pazienti con questo disturbo presentano difficoltà nel disegnare figure o
nel costruire oggetti a partire da singoli elementi, quali per esempio i mattoncini giocattolo.
Il principale deficit dell’aprassia costruttiva sembra coinvolgere l’abilità di percepire ed immaginare le relazioni
geometriche.

APRASSIA ORALE (OROBUCCOFACCIALE O BUCCOFACCIALE) - Il termine si riferisce al disturbo


neuropsicologico acquisito della produzione di movimenti coordinati della muscolatura del volto, della bocca,
della lingua, della laringe e della faringe.
Le prove diagnostiche da effettuare per fare diagnosi di questo disturbo consistono ordinare al paziente di
esibire la lingua ad esempio, oppure gonfiare le guance, dare un bacio, imitare il galoppo, fischiare, soffiare.
Questo tipo di aprassia deriva da una lesione della parte opercolare del lobo frontale sinistro

APRASSIA MELO-CINETICA DI KLEIST (O INNERVATORIA) - Questo tipo di aprassia consiste in un disturbo


del movimento volontario che appare goffo, impacciato, grossolano ed impreciso; vi è la perdita di destrezza
di un arto o di un emocorpo; il più delle volte è associato nei quadri di degenerazione corticobasale.

APRASSIA IDEO-MOTORIA - In questo caso il paziente non è capace di realizzare l’azione di cui però in mente
l’idea. Il disturbo è solitamente bilaterale e colpisce prevalentemente gli arti: consiste nell’incapacità di eseguire
a comando un movimento finalistico, anche il più semplice; si rende evidente se il paziente è invitato ad
eseguire movimenti nuovi.
Coinvolge essenzialmente l’esecuzione dei gesti intransitivi mentre i movimenti automatici sono invece
eseguiti correttamente (es abbottonarsi la camicia).

APRASSIA IDEATIVA - Il paziente non è capace di costruire mentalmente il programma d’azione.


Il disturbo si manifesta soprattutto negli atti complessi, che risultano dalla successione di atti semplici; inoltre,
sono molto compromessi i gesti intransitivi.
In mancanza di un programma mentale, il malato esegue gli atti semplici, ma sbaglia la successione, fallendo
così il risultato finale (ad esempio se gli si ordina di accendere una sigaretta, egli estrae dalla scatola il
fiammifero, lo mette in bocca, sfrega la sigaretta sulla scatola ecc…)

APRASSIA DEL TRONCO - Disturbo neuropsicologico acquisito dell’elaborazione dei movimenti del tronco.
Prove diagnostiche da eseguire per fare diagnosi sono ad esempio chiedere al paziente di muovere il tronco
in avanti, indietro di lato ecc… In questa aprassia è coinvolto il danneggiamento del circuito fronto-
sottocorticale.

APRASSIA DELL’ABBIGLIAMENTO - Incapacità di indossare correttamente gli indumenti: il paziente manipola


gli indumenti in maniera adeguata ma non riesce ad organizzare i gesti necessari per adeguare i segmenti del
corpo alla posizione dei vestiti e viceversa.

APRASSIA DELLA MARCIA - In questo caso si ha una diminuzione o una perdita della capacità di disporre
convenientemente le gambe al fine di poter camminare. È l’espressione dell’alterazione del tono della postura
e si verifica per alterazioni cortico- sottocorticali, ma non necessariamente associato alla sindrome
Parkinsoniana.

La riabilitazione delle aprassie

I pazienti molto spesso non hanno la percezione dei loro deficit; molti ricercatori credono che il trattamento
non sia necessario perché affermano che vi possa essere un recupero spontaneo.
Molto spesso è complicato riprodurre nel setting terapeutico i deficit presentati nel contesto naturale.
Malattie neuromuscolari

Le malattie neuromuscolari sono un gruppo eterogeneo di malattie, aventi in comune la sede della lesione o
della disfunzione: l’unità motoria, ovvero il neurone in un punto qualunque tra il motoneurone periferico, la
giunzione neuro-muscolare ed i muscoli stessi.

Clinicamente sono caratterizzate da:


‐ Difetti della forza permanenti (paralisi neurogene o miogene)
‐ Faticabilità miastenica
‐ Difetti transitori della forza (paralisi episodiche)
‐ Segni di iperattività dell’unità motoria (rigidità a riposo, miotonia, crampi e spasmi ecc…)

Le malattie neuromuscolari possono essere classificate in:


‐ Malattie muscolari primitive
‐ Malattie della giunzione neuromuscolare
‐ Sindromi di iperattività dell’unità motoria
‐ Paralisi episodiche
‐ Malattie del secondo motoneurone

Deficit dei movimenti: Morbo di Parkinson

Il morbo di Parkinson è una malattia neurodegenerativa del SNC. L’insorgenza sintomatologia si aggira intorno
ai 50 anni circa. I sintomi principali del morbo di Parkinson sono rigidità muscolare, lentezza nell’esecuzione
dei movimenti, tremore a riposo ed instabilità posturale. Per esempio una persona affetta da MP avrà difficoltà
ad alzarsi dalla sedia e dopo che inizia a camminare avrà difficoltà a fermarsi.
La scrittura è rallentata e faticosa e più a lungo si scrive, più le lettere vengono scritte molto piccole.
I movimenti posturali sono compromessi: una persona normale che cammina e viene improvvisamente urtata,
metterà in atto tutta una serie di movimenti per ristabilire l’equilibro; questo non accade in una persona affetta
da MP, che appunto cadrà.
I gangli della base svolgono un ruolo essenziale nell’apprendimento e nell’esecuzione delle azioni automatiche,
cioè l’opposto delle azioni deliberate. La compromissione delle funzioni normali dei gangli della base significa
che le persone affette da MP hanno difficoltà ad eseguire compiti in modo automatico: il che significa che
queste azioni richiedono una quantità di tempo maggiore di risorse cerebrali per essere messe in atto.
Il MP produce inoltre tremore a riposo: movimenti vibratori delle braccia e delle mani, che diminuiscono ogni
qualvolta l’individuo esegue movimenti intenzionali.
Il tremore è accompagnato da rigidità.

Le cause sono associate ad una degenerazione e necrosi dei neuroni della sostanza nera, i quali producono
dopamina, causando così i sintomi tipici della malattia.
I movimenti normali richiedono un appropriato equilibrio tra le vie diretta (eccitatoria) ed indiretta (inibitoria).
I nuclei caudato e putamen consistono di due differenti zone, che ricevono entrambe l’input dai neuroni
dopaminergici della substantia nigra. Una di queste zone contiene i recettori dopaminergici D1, che producono
effetti eccitatori: i neuroni di questa zona inviano i loro assoni al GPi.
I neuroni dell’altra zona contengono i recettori D2, che producono effetti inibitori ed inviano i loro assoni al GPe.

Il primo di questi circuiti, che inizia dalla substantia nigra, passa attraverso due sinapsi inibitorie, prima di
raggiungere i nuclei talamici VA/VL; pertanto questo circuito ha un effetto eccitatorio sul comportamento.
Il secondo circuito inizia con un input inibitorio sui nuclei caudato e putamen e passa attraverso 4 sinapsi
inibitorie nella seguente via: SN- caudato/putamen-GPe-Nucleo subtalamico-GPi- nuclei talamici VA/VL.
Pertanto l’effetto di questo circuito risulterà anch’esso eccitatorio; quindi l’input dopaminergico ai nuclei
caudato/putamen facilità i movimenti

Il trattamento prevede la somministrazione di l-DOPA, il precursore della dopamina. Quando si verifica un


incremento di Levo DOPA, i neuroni dopaminergici nigrostriatali rimasti integri, produrranno e rilasceranno
quantità maggiori di dopamina. Purtroppo questa compensazione causa spesso discinesia e distonia, posture
e movimenti involontari presumibilmente causati dall’eccessiva stimolazione dei recettori dopaminergici dei
gangli della base. Tuttavia, la levo DOPA non funziona all’infinito, poiché il numero dei neuroni dopaminergici
nigrostriatali alla fine si riduce al punto che si osserva un peggioramento dei sintomi.

Deficit dei movimenti: Morbo di Huntington

Un’altra malattia dei gangli della base, il morbo di Huntington, è causata dalla generazione dei nuclei caudato
e putamen, specialmente dei loro neuroni GABAergici e acetilcolinergici. A differenza del morbo di Parkinson
che causa ipocinesia, questo, chiamato in passato corea di Huntington, provoca movimenti incontrollati,
specialmente movimenti spasmodici degli arti: i movimenti dei pazienti affetti somigliano a pezzi di movimenti
intenzionali, che avvengono però involontariamente. I primi sintomi si verificano solitamente in 30enni, 40enni.
È una malattia ereditaria: il gene dominante si trova sul cromosoma 4. Il gene è stato localizzato e la sua
mutazione è stata identificata come una sequenza ripetuta delle basi che codificano l’amminoacido
glutammina. Questa malattia è progressiva e può portare alla morte.
9. IL SONNO E I RITMI BIOLOGICI
Una descrizione fisiologica e comportamentale del sonno
Stadi del sonno
Attività mentale durante il sonno
SOMMARIO DELLA PRIMA PARTE
Disturbi del sonno
Insonnia
Narcolessia
Disturbo comportamentale del sonno REM
Problemi associati con il sonno ad onde lente
SOMMARIO DELLA SECONDA PARTE
Perché dormiamo?
Funzioni del sonno ad onde lente
Funzioni del sonno REM
Sonno e apprendimento
SOMMARIO DELLA TERZA PARTE
Meccanismi fisiologici del sonno e della veglia
Controllo chimico del sonno
Controllo neurale dell’arousal
Controllo neurale del sonno ad onde lente
Controllo neurale del sonno REM
SOMMARIO DELLA QUARTA PARTE
Orologi biologici
Ritmi circadiani e zeitgeber
Nucleo sovrachiasmatico
Controllo dei ritmi stagionali: ghiandola pineale e melatonina
Alterazioni dei ritmi circadiani: sindrome dei turnisti e jet lag (sindrome da volo transmeridiano)
SOMMARIO DELLA QUINTA PARTE
IL SONNO ED I RITMI BIOLOGICI (Carlson pagg. 289-322)

Preconcetti - attività elettrica cerebrale


o L’attività alfa consiste in onde regolari, di frequenza media compresa tra gli 8 ed i 12 Hz; il cervello produce questa
attività quando il cervello giace a riposo (associata a stati di rilassamento).
o L’attività beta consiste in onde irregolari di frequenza media compresa tra i 13 e i 30 Hz; questa attività mostra
desincronizzazione: la persona è vigile ed attenta agli stimoli ambientali, oppure è impegnata in compiti cognitivi
(associata ad uno stato di arousal).
o L’attività theta oscilla tra i 3.5-7.5 Hz e si verifica in modo intermittente durante i primi stadi del sonno REM e
NREM.
o L’attività delta: consiste in un’attività regolare, sincronizzata inferiore ai 4 Hz, che si verifica durante gli stadi più
profondi del sonno NREM.

Preconcetti - sincronizzazione e desincronizzazione


o Sincronizzazione: attività EEG di alto voltaggio e bassa frequenza, caratteristica del sonno ad onde lente o del
coma, durante la quale i neuroni scaricano insieme in modo regolare.
o Desincronizzazione: attività elettrica cerebrale irregolare, generalmente associata a periodi arousal.

Una descrizione fisiologica e comportamentale del sonno (Slide + libro)

Il sonno è una funzione biologica basilare e caratterizza tutti gli esseri viventi. È necessario poiché dormendo
innanzitutto ci ricarichiamo, dunque ci riposiamo; è fondamentale anche per la sintesi di alcune sostanze e per
affinare i processi di memoria.
Possiamo dire anche, nonostante questa affermazione sembri bizzarra, che il sonno sia un comportamento e
che essi vari da persona a persona in base al sesso, all’età ecc… Possiamo dire con certezza che il sonno varia
con l’età: un neonato/lattante fisiologicamente dorme per 16-14 ore con una maggiore rappresentazione della
fase REM. Con l’età si riduce il tempo totale di sonno e la fase REM. Il periodo fisiologico di un sonno definito
“normale”, dura in media 7-8 ore (tuttavia l’1% degli individui dorme meno ed il 3% dorme di più).
Perchè dormiamo? Possiamo dire che il sonno ha tutta una serie di effetti positivi e fondamentali, cioè:
 Permette il recupero fisico
 Facilità le funzioni motori
 Implica un consolidamento della memoria
 Permette il riposo
 Durante il sonno si conserva energia
 Dormendo si sviluppa una funzione immunologica così come una funzione termoregolatoria
 Offre protezione nei confronti dell’up regolation
 Preserva e ripristina l’integrità neuronale

Il fenomeno del sonno non fu oggetto di osservazioni sistematiche per tutto il 19esimo secolo, tuttavia già
allora si scoprì che il sonno era più profondo nelle ore iniziali e che tale profondità aveva delle oscillazioni
cicliche con decadimento di tipo esponenziale della massima profondità nel corso del tempo.
Solo la scoperta dell’elettroencefalografia (EEG), nel 1875, e quella delle onde alfa da parte di Berger, permisero
di costruire le basi per la ricerca moderna.
Rapidamente si scoprirono poi, che differenti fasi del sonno provocano modificazioni dell’EEG.

Tuttavia, solo nel 1953 si comprese che il sonno consisteva in realtà in due stadi completamente diversi:
o Il sonno senza movimenti rapidi oculari (NREM)
o Il sonno con movimenti rapidi oculari (REM)
Questa scoperta ha rappresentato la svolta decisiva nello studio dei meccanismi neurofisiologici di base del
sonno e dei loro correlati clinici.

Stadi del sonno

La ricerca più attendibile sul sonno negli esseri umani si conduce nei laboratori del sonno. Un laboratorio del
sonno, di solito ospitato in un centro medico o universitario, consiste in una o più piccole camere da letto
adiacenti ad una stanza di osservazione, dove il ricercatore passa la notte.
Il ricercatore prepara il soggetto sperimentale per le misurazioni elettrofisiologiche, montando elettrodi sullo
scalpo per l’elettroencefalogramma (EEG e cioè lo studio dei potenziali elettrici dell’encefalo), e sul mento per
misurare l’attività muscolare registrata con l’elettromiogramma (EMG).
Gli elettrodi attaccati introno agli occhi controllano i movimenti oculari registrati con elettro-oculogramma
(EOG). Inoltre è possibile utilizzare altri elettrodi e sistemi di trasduzione per il monitoraggio di funzioni
autonomiche come, ad esempio, la respirazione, il battito cardiaco (ECG), la conduttanza cutanea ecc.

Durante la veglia, l’EEG di una persona normale, mostra due modelli basilari di attività: alfa e beta.
1. L’attività alfa consiste in onde regolari, di frequenza media, compresa tra gli 8 ed i 12 Hz. Il cervello
produce questa attività quando una persona giace a riposo, senza essere particolarmente impegnata
o attivata da compiti mentali difficili.
2. L’attività beta consiste in onde irregolari, di solito di ampiezza elevata, compresa tra i 15 ed i 30 Hz.
L’attività beta mostra desincronizzazione, cioè riflette il fatto che molti circuiti neurali diversi del
cervello stanno attivamente elaborando le informazioni.

La tipica notte di una studentessa universitaria  Esaminiamo insieme la tipica notte di una studentessa
universitaria che passa la notte in un laboratorio del sonno. Innanzitutto il ricercatore monta gli elettrodi,
spegne la luce e chiude la porta.
Il nostro soggetto diviene sonnolento ed entra presto nello stadio 1 del sonno, caratterizzato dalla presenza di
attività theta, che indica che le scariche dei neuroni nella neocorteccia stanno divenendo più sincronizzate.
Questo stadio rappresenta in realtà una transizione tra la veglia ed il sonno.

Circa 10 minuti dopo, la studentessa entra nello stadio 2 del sonno: l’EEG è generalmente irregolare, ma
contiene periodi di attività theta, fusi del sonno e complessi K. I fusi del sonno consistono in onde di 12-14
Hz. Questi sembrano implicati nel consolidamento delle memorie ed un aumento del loro numero è risultato
correlato ai punteggi più elevati di un test di intelligenza. I complessi K consistono in rapide ed improvvise
deflessioni verso l’alto e verso il basso che, contrariamente ai fusi del sonno, si rilevano quasi esclusivamente
durante lo stadio 2. Insorgono spontaneamente alla velocità di circa uno al minuto, ma possono essere indotti
dai rumori, specie quelli improvvisi. La studentessa adesso sta proprio dormendo e se la svegliassimo
potrebbe affermare il contrario.

Circa 15 minuti dopo il soggetto sperimentale entra nello stadio 3 del sonno, segnalato dal prodursi di attività
delta di elevata ampiezza. La distinzione tra questo stadio e lo stadio 4 del sonno non è netta: lo stadio 3
contiene dal 20% al 50% di attività delta, mentre lo stadio 4 ne contiene più del 50%. Poiché l’attività EEG a
onde lente predomina durante gli stadi 3 e 4 del sonno, questi stadi si definiscono collettivamente sonno ad
onde lente. Sembra che la caratteristica più importante dell’attività ad onde lente durante il sonno sia la
presenza di oscillazioni lente inferiori ad 1 Hz. Ciascuna oscillazione consiste in una singola onda bifasica
(down-up cioe “su e giù”) di levata ampiezza, di appena meno di 1 Hz. La prima parte dell’onda indica uno
stato down, e cioè un periodo di inibizione durante cui i neuroni della neocorteccia sono assolutamente silenti.
Presumibilmente è proprio durante lo stato down che i neuroni corticali sono in grado di riposare; la seconda
parte, indica uno stato up, e cioè un periodo di eccitazione durante cui questi neuroni scaricano brevemente
ad alta velocità.

Circa 90 minuti dopo l’addormentamento (approssimativamente 45 minuti dopo l’inizio dello stadio 4),
notiamo una brusca modificazione di molte delle misure fisiologiche registrate nel nostro soggetto. L’EEG
improvvisamente diviene più desincronizzato, con scariche di onde theta, molto simile a quello registrato
durante lo stadio 1 del sonno. Notiamo anche che gli occhi saettano avanti e dietro, sotto le palpebre chiuse.
Notiamo inoltre che l’EMG diviene silente: si verifica cioè una profonda perdita del tono muscolare. Gli studi
fisiologici hanno dimostrato infatti che le persone sono effettivamente paralizzate durante il sonno REM, ad
eccezione di qualche mioclonia occasionale. Questo particolare stadio di sonno è piuttosto diverso da quello
tranquillo osservato in precedenza. È denominato sonno REM (l’acronimo sta per Rapid Eyes Movements)
Se svegliamo la volontaria durante il sonno REM, molto probabilmente dirà che stava sognando: i sogni in
questa fase tendo ad assumere una forma narrativa, con una sequenza di eventi simile ad una storia.

Durante una notte di sonno, noi tutti, alterniamo periodi di sonno REM e NREM. Ciascun ciclo dura
approssimativamente 90 minuti e contiene dai 20 ai 30 minuti di sonno REM. In fase REM diventiamo
paralizzati: la maggior parte dei nostri motoneuroni centrali e spinali è fortemente inibita. Nel contempo il
cervello è molto attivo: il flusso ematico cerebrale ed il consumo di ossigeno sono accelerati. Inoltre durante
la maggior parte dei periodi di sonno REM, il pene maschile ed il clitoride divengono almeno parzialmente eretti
e le secrezioni vaginali femminili aumentano.

Architettura del sonno: ricapitolando

Ricapitolando, possiamo dire che il sonno non è un fenomeno omogeneo, in quanto è caratterizzato da due
fasi distinte sulla base delle caratteristiche comportamentali e neurofisiologiche. Queste due fasi sono:

 Sonno NREM (o sonno lento), composto da 4 stadi:


o Stadio 1: costituisce il 2-5% del sonno totale, l’EEG mostra un rallentamento delle onde alfa, l’EMG
rileva un tono muscolare medio-alto e l’EOG dei singoli movimenti lenti degli occhi;
o Stadio 2: costituisce circa il 45-55 % del sonno totale, l’EEG mostrala comparsa dei fusi del sonno,
l’EMG mostra invece una riduzione del tono muscolare e l’EOG non rileva dei movimenti oculari;
o Stadio 3: rappresenta circa il 3-8 % del sonno totale, l’EEG mostra la comparsa delle onde , l’EMG
mostra una riduzione del tono muscolare e l’EOG non rileva movimenti oculari al di sotto delle palpebre;
o Stadio 4: rappresenta circa il 10-15% del sonno totale, le onde  sono rallentate, vi è una riduzione del
tono muscolare e assenza di movimenti oculari;
 Sonno REM: costituisce circa il 20% del sonno totale. Caratterizzato da rapidi movimenti oculari, durante
questa fase del sono si diventa paralizzati.

Dunque il sonno NREM è suddiviso in 4 fasi che nella loro successione esprimono l’approfondimento del
sonno.

Schema

Stadio 1 Attività theta.


Rappresenta una transizione tra la veglia e il sonno.
Stadio 2 EEG irregolare
Fusi del sonno: brevi salve di onde di 12-14 Hz che si verificano da due a cinque volte al minuto
durante gli stadi 1-4 del sonno. I fusi del sonno sembrano implicati nel consolidamento delle
memorie.
Complessi K: rapide e improvvise deflessioni verso l’alto e verso il basso che si rilevano quasi
esclusivamente durante lo stadio 2 del sonno. Insorgono spontaneamente, alla velocità di circa
uno al minuto, ma possono essere indotti da rumori, specie quelli forti e improvvisi.
Il soggetto adesso sta proprio dormendo, ma se lo svegliassimo potrebbe affermare il
Stadio 3 t i ad onde lente
Sonno Attività delta
Lo stadio 3 contiene dal 20% al 50% di attività delta, mentre lo
Stadio 4 stadio 4 ne contiene più del 50%.

Sonno Attività theta


REM EEG desincronizzato
Rapidi movimenti degli occhi, paralisi muscolare.

Sonno REM e sonno non-REM


Sonno REM Sonno non-REM

 Desincronizzazione dell’EEG (onde  Sincronizzazione dell’EEG (onde lente)


rapide e irregolari)  Tono muscolare moderato
 Assenza di tono muscolare.  Movimenti oculari lenti o assenti
 Movimenti oculari rapidi  Assenza di attività genitale
 Erezione o secrezione
 Sogni
Attività mentale durante il sonno

Sebbene il sonno sia un periodo durante il quale siamo poco responsivi all’ambiente, non è corretto definirlo
come uno stato di incoscienza. La coscienza durante il sonno è certamente diversa da quella durante la veglia,
ma comunque abbiamo un’attività mentale anche mentre dormiamo.
Nella fase di addormentamento abbiamo una perdita del controllo volontario sull’attività mentale e del contatto
spaziotemporale; in questa fase possono esserci esperienze simili allucinatorie (che si dicono mioclonie
ipniche fisiologiche).
I ricercatori hanno rilevato che la velocità del flusso ematico nel cervello umano, durante il sonno REM, risulta
elevata a livello della corteccia visiva associativa e bassa nella corteccia visiva primaria ed in quella prefrontale.
L’assenza di attività nella corteccia visiva primaria riflette il fatto che gli occhi non stanno ricevendo alcun
input visivo; l’alto livello di attività nella corteccia visiva associativa probabilmente riflette le allucinazioni visive
che si verificano durante i sogni. La corteccia frontale inferiore è implicata in attività di pianificazione ed
organizzazione sequenziale degli eventi nel tempo, oltre che a distinguere tra illusione e realtà: una scarsa
attività di questa area durante il sonno REM spiega il perché i sogni siano caratterizzati da buone immagini
visive, ma sono scarsamente organizzati rispetto al tempo. Diversi ricercatori hanno suggerito anche che i
movimenti oculari effettuati durante il sonno REM sono correlati alle immagini visive che accompagnano i
sogni. Inoltre, anche le aree motorie corticali e sottocorticali si attivano durante i sogni che contengono
movimento, come se la persona si stesse davvero muovendo. Sebbene i sogni narrativi, simili a storie, si
verificano durante il sonno REM, un’attività mentale può accompagnare anche il sonno ad onde lente: alcuni
degli incubi più terrificanti si verificano durante lo stadio 4 del sonno NREM.

Il sonno REM, dato che le più elevate porzioni di sonno REM si verificano nella fase più attiva di sviluppo
cerebrale, sembrerebbe implicato appunto in questo processo che avviene in età evolutiva.
Inoltre il sonno ad onde lente ed il sonno REM aiutano il consolidamento delle memorie a lungo termine.

I DISTURBI DEL SONNO (Carlson, pagg. 294-298 + Slide)

Dal momento che passiamo circa un terzo della nostra esistenza a dormire, i disturbi del sonno possono avere
un impatto significativo sulla nostra qualità di vita. Innanzitutto è molto importante fare prevenzione, curando
quella che si può chiamare “igiene del sonno”, andando dunque rimuovere tutti quei comportamenti che
ostacolano il sonno e promuovere invece quelli che lo favoriscono.

Insonnia (libro + slide) - Si ritiene che l’insonnia rappresenti un problema occasionale per circa il 25% della
popolazione, e persistente nel 9% dei casi. L’insonnia è definita come la difficoltà ad addormentarsi dopo
essere andati a letto o a seguito di un risveglio durante la notte. Questa deve essere definita in relazione alla
particolare necessità di sonno individuale. L’insonnia può dipendere anche da farmacodipendenza, dunque
causata dagli effetti collaterali di dosi incrementali di farmaci ipnotici. C’è anche da dire che molte persone
trascorrono la maggior parte del loro tempo in uno stato di deprivazione di sonno, ma non perché soffrano
d’insonnia: il problema sono le richieste della vita quotidiana, che li portano a restare svegli fino a tardi e/o
svegliarsi presto la mattina. La deprivazione di sonno cronica può avere gravi conseguenze sulla salute
(aumento del rischio di obesità, diabete e malattie cardiovascolari).

Vi sono differenti tipi di insonnia: l’insonnia idiopatica, l’insonnia psicofisiologica, la pseudoinsonnia e alcune
sindromi correlate come la sindrome delle gambe senza riposo e l’apnea morfeica.

L’insonnia idiopatica insorge in età infanto-giovanile e perdura per tutta la vita. La causa principale è un
anomalo controllo dei meccanismi che regolano il ritmo sonno veglia. Questo tipo di insonnia implica una
scarsa efficienza diurna, stanchezza e scarsa motivazione. Gioca un ruolo importante la familiarità e non è
influenzata da eventi della vita o eventi stressanti.
L’insonnia psicofisiologica rappresenta circa il 15% delle insonnie e prevale nelle donne così come nelle
persone di mezza età. Spesso si instaura dopo un evento stressante: i soggetti avvertono il bisogno di dormire
ma appena si mettono a letto non riescono ad addormentarsi. Si va a creare così un circolo vizioso che porta
ad un condizionamento negativo nei confronti del sonno. Si manifesta anche apprensione a causa della
difficoltà ad addormentarsi e condizionamenti esterni o ambientali legati al luogo in cui si dorme. Si trae
beneficio temporaneo attraverso farmaci, tuttavia sono più utili strategie volte a ricreare condizionamento
positivo letto/sonno; inoltre sono spesso utili terapie di rilassamento (come il training autogeno) e la
psicoterapia.
La pseudoinsonnia corrisponde alla percezione soggettiva di un disturbo del sonno senza apparenti reperti di
alterazione oggettiva. I soggetti riferiscono di dormire poco, di avere un sonno poco ristorativo o addirittura di
non dormire affatto, mentre l'osservazione del partner di letto, del personale ospedaliero (nei casi di ricovero)
o la registrazione polisonnografica nei laboratori del sonno riportano caratteristiche del sonno
apparentemente normali. Pur essendo la tendenza ad esagerare i problemi di sonno una caratteristica comune
a tutti gli insonni, in questi casi la discrepanza tra valutazione soggettiva e reperto polisonnografico è assai
marcata. Il parametro per il quale le due misure si discostano maggiormente riguarda la valutazione del tempo
totale di sonno, principalmente nella prima metà della notte, spiegabile in termini di sovrastima da parte di
questi soggetti della latenza dell'addormentamento. Come conseguenza diurna viene riportata una ridotta
efficienza psicofisica, piuttosto che una vera e propria sonnolenza. L'indagine polisonnografica di questi
soggetti non evidenzia alcuna significativa differenza dai normali dormitori per quanto riguarda il tempo di
sonno, la latenza dell'addormentamento, la distribuzione percentuale dei vari stadi del sonno. Solo
recentemente l'analisi microstrutturale delle caratteristiche polisonnografiche sembrerebbe indicare una
presenza elevata di "microrisvegli" dell'ordine di pochi secondi, non percepiti dai soggetti, che determinano
una frammentazione della continuità del sonno.
A differenza di quanto spesso si ritiene, non sono da considerarsi in questa classificazione i brevi-dormitori,
cioè i soggetti che dormono usualmente per un tempo chiaramente inferiore alla media tipica della loro età. In
tali casi non si può a tutti gli effetti parlare di un disturbo del sonno in quanto i soggetti stessi non riferiscono
alcun problema nel sonno notturno, non lamentano alcuna alterazione psicofisica durante l'attività diurna, né
presentano alcuna alterazione dell'architettura polisonnografica qualora siano studiati nei laboratori del
sonno. In questo caso è sconsigliato l’uso di ipnotici, tranne in casi gravi.
La sindrome delle gambe senza riposo è un disturbo caratterizzato dal desiderio impellente di muovere gli
arti spesso associato a parestesie/disestesie (vi è dunque un’irrequietezza motoria). L’esacerbazione del
disturbo si ha con l’immobilità prolungata. Questa sindrome ha una variabilità circadiana con un aumento dei
sintomi verso sera e soprattutto di notte.
L’apnea morfeica è una particolare forma di insonnia, causata dall’incapacità di dormire e respirare nel
contempo. I pazienti con questo disturbo si addormentano e smettono di respirare.
Durante una crisi di apnea morfeica, il livello ematico di anidride carbonica stimola i chemiorecettori e la
persona si sveglia annaspando in cerca di aria. Quando l’individuo si riaddormenta di nuovo il ciclo ricomincia.

Narcolessia - La narcolessia è un disturbo neurologico caratterizzato da sonno (o qualcuna delle sue


componenti) in momenti inadeguati. Il sintomo principale della narcolessia è l’attacco di sonno: si tratta di un
bisogno incontrovertibile di dormire, che può svilupparsi in un qualsiasi momento, ma si verifica più
frequentemente in condizioni monotone e noiose. Il sonno dura generalmente dai 2 ai 5 minuti e la persona di
solito si sveglia sentendosi riposata. Un altro sintomo della narcolessia, nei fatti il più sorprendente, è la
cataplessia: durante un attacco di cataplessia, l’individuo sviluppa debolezza muscolare di varia entità ed
incerti casi la persona diviene completamente paralizzata e cade in terra. La persona giace a terra,
completamente cosciente, per un periodo variabile da pochi secondi ad alcuni minuti. Ciò che sembra
accadere è che uno dei fenomeni del sonno REM, la paralisi muscolare, si verifica in un momento inadeguato.
Inoltre, talvolta, intrude nella veglia, la paralisi del sonno REM, in momenti in cui non rappresenta un pericolo
fisico, appena prima o appena dopo un sonno quando la persona è ancora sdraiata. Talvolta le componenti
mentali del sonno REM intrudono nella paralisi del sonno: cioè la persona sogna mentre giace sveglia,
paralizzata: questi episodi denominati allucinazioni ipnagogiche sono spesso allarmanti o persino
terrorizzanti. Fortunatamente la narcolessia nell’uomo è un disturbo relativamente raro, con un’incidenza di
una persona su 2000. Questo disturbo ereditario sembra implicare un gene localizzato sul cromosoma 6, ma
è fortemente influenzato da fattori ambientali sconosciuti.

Diversi anni fa, alcuni ricercatori, hanno cominciato ad allevare cani affetti da narcolessia, nella speranza che
la scoperta delle cause della narcolessia canina potesse avanzare la ricerca sulla narcolessia nell’uomo.
Essi hanno scoperto che la mutazione di un gene specifico è responsabile della narcolessia canina. Il prodotto
di questo gene consiste nel recettore di un neurotrasmettitore peptidico, recentemente scoperto, denominato
orexina. Esistono due tipi di orexina: A e B. Alcuni ricercatori hanno scoperto che la mutazione responsabile
della narcolessia canina riguarda il recettore dell’orexina B.
Disturbo comportamentale del sonno REM

Il sonno REM è accompagnato da paralisi, sebbene la corteccia motoria e i sistemi motori sottocorticali siano
estremamente attivi durante il sonno REM. Il fatto che le persone siano paralizzate mentre sognano suggerisce
l’ipotesi che, se non fosse per la paralisi, metterebbero in atto i loro sogni. Questa in effetti è la verità. Alcuni
ricercatori hanno riportato l’esistenza di un interessante disturbo: il disturbo comportamentale del sonno REM,
per cui il comportamento degli individui che esibiscono questo disturbo sembra corrispondere al contenuto
dei loro sogni. Questo disturbo sembra essere un disturbo neurovegetativo con almeno una componente
genetica. Si associa spesso a disturbo neurovegetativi meglio conosciuti come il morbo di Parkinson (ma può
essere causato anche da lesioni cerebrali).

Problemi associati con il sonno ad onde lente

Alcuni comportamenti disadattivi possono verificarsi durante il sonno ad onde lente, specie nella sua fase più
profonda: lo stadio 4. Questi comportamenti includono: bagnare il letto (enuresi notturna), camminare nel
sonno (sonnambulismo: sembra avere una componente genetica specie quando si osserva in età adulta),
esperire terrori notturni (Pavor nocturnus). Tutti e tre gli eventi si riproducono più frequentemente nei bambini.
Disturbo dell’alimentazione correlato al sonno: gli individui affetti da questo disturbo si alimentano durante la
notte, mentre dormono. Risponde bene agli agonisti dopaminergici.

Perché dormiamo?

Sebbene non sia stata detta ancora l’ultima parola, la maggior parte dei ricercatori ritiene che la principale
funzione del sonno ad onde lente sia quella di permettere al cervello di riposare. Il sonno ad onde lente e il
sonno REM sembrano promuovere diversi tipi di apprendimento, mentre il solo sonno REM agevolerebbe lo
sviluppo cerebrale.

Funzioni del sonno ad onde lente

Il sonno è un fenomeno universale tra i vertebrati, tuttavia solo i vertebrati a sangue caldo esibiscono uno
stadio indubbio di sonno REM. Esso può essere descritto come una necessità vitale. Gli studi di deprivazione
del sonno sull’uomo hanno dimostrato che la deprivazione di sonno non interferisce con l’abilità di eseguire
esercizi fisici e non provoca una risposta di natura stressante; tuttavia, le abilità cognitive individuali ne sono
influenzate: alcune persone riportano distorsioni percettive o persino allucinazioni ed hanno difficoltà a
concentrarsi sui compiti mentali. Alcuni studi hanno prodotto risultati che suggeriscono che lo stadio 4 del
sonno ad onde lente e il sonno REM siano più importanti degli altri stadi. Infatti, sebbene il cervello umano
rappresenti solo il 2% del peso corporeo totale, esso consuma il 20% dell’energia disponibile durante la veglia.
Il metabolismo e il flusso ematico cerebrale diminuiscono entrambi durante il sonno ad onde lente. In
particolare, le regioni che sostengono i più alti livelli di attività durante il giorno mostrano le percentuali più
elevate di onde delta nel sonno ad onde lente; quindi, la presenza di onde delta in una particolare regione
cerebrale sembra indicare che quell’area si sta riposando.
Le prove empiriche disponibili suggeriscono che il cervello abbia bisogno di riposarsi periodicamente per
riprendersi dagli effetti collaterali negativi sulla sua attività di veglia.
Siegel ipotizza che uno dei prodotti di rifiuto conseguenti all’elevato tasso metabolico associato all’attività di
veglia del cervello è costituito dai radicali liberi: sostanze chimiche che contengono almeno un elettrone non
appaiato. I radicali liberi sono agenti ossidanti altamente reattivi; possono legarsi agli elettroni di altre molecole
e danneggiare le cellule che li ospitano. Durante il sonno ad onde lente, il metabolismo rallentato permette al
meccanismo restaurativi delle cellule di distruggere i radicali liberi e prevenirne i loro effetti nocivi.
Evidenze empiriche dimostrano che la funzione del sonno sia quella di far riposare il cervello, piuttosto che il
corpo. Alcuni studiosi hanno trovato un modo per aumentare l’attività mentale senza influenzare quella fisica
o causare stress dimostrando come effettivamente il sonno a onde lente sia direttamente proporzionale
all’attività mentale svolta durante il giorno.

Funzioni del sonno rem


Il sonno REM rappresenta un periodo di intensa attività fisiologica. Uno dei primi rapporti sulla deprivazione
selettiva del sonno REM osserva che, con il progressivo aumento della deprivazione, i soggetti dovevano
essere svegliati nel sonno REM sempre più frequentemente: la pressione ad entrava in fase REM continuava
ad aumentare. Inoltre, dopo diversi giorni di deprivazione selettiva del sonno REM, i soggetti sviluppavano un
fenomeno di rimbalzo: quando gli era permesso di dormire normalmente, trascorrevano una percentuale di
tempo molto superiore del normale in sonno REM. Questo fenomeno suggerisce che c’è bisogno di una certa
quantità di sonno REM e che il sonno REM è controllato da un meccanismo di regolazione: se la deprivazione
selettiva causa una carenza di sonno REM, tale carenza è recuperata in seguito.
I ricercatori sono stati da tempo colpiti dal fatto che le più elevate proporzioni di sonno REM si osservano nel
corso della fase più attiva dello sviluppo cerebrale. Di conseguenza, il sonno REM è probabilmente implicato
in questo processo. Infatti, gli animali che nascono con un cervello ben sviluppato trascorrono meno tempo in
sonno REM rispetto ai coetanei di altre specie, che nascono con cervelli immaturi, come furetti ed esseri umani.
Ma se la funzione del sonno REM consiste nel promuovere lo sviluppo cerebrale, perché questo stadio del
sonno è presente anche negli adulti?
Una possibilità è che il sonno REM faciliti le modificazioni cerebrali massicce che si verificano in età evolutiva,
ma anche quelle più modeste responsabili dell’apprendimento in età successive.

Sonno e apprendimento

Le ricerche sull’uomo e sul modello animale indicano che il sonno fa più che permettere al cervello di riposare:
aiuta anche il consolidamento delle memorie a lungo termine. Durante il sonno REM, le persone normalmente
hanno un livello di coscienza elevato, cosa che non accade durante il sonno ad onde lente. Alcuni ricercatori
si siano chiesti quali delle diverse fasi del sonno consolidi le memorie procedurali e quali consolidi invece le
memorie dichiarative. In una serie di esperimenti è stato chiesto a dei soggetti di imparare un nuovo compito
manuale, dopodiché è stato loro permesso di schiacciare un pisolino; ma, mentre alcuni di loro venivano
lasciati entrare in fase REM, altri venivano svegliati poco prima dell’insorgenza di questa fase. È stato
riscontrato che i soggetti che erano entrati in fase REM avevano memorizzato e rinforzato meglio il
comportamento procedurale appreso. Allo stesso modo, è stato chiesto ad alcuni soggetti di imparare una
serie di parole – un compito di memoria dichiarativa. È stato loro permesso di schiacciare un pisolino e alcuni
di loro sono stati svegliati poco prima della fase REM. I soggetti svegliati prima della fase REM ricordavano
con più facilità la lista di parole precedentemente appresa, cosa che non successe ai soggetti che erano stati
fatti entrare nella fase REM. Questi studi suggeriscono che il sonno ad onde lente favorisce il consolidamento
della memoria dichiarativa, mentre il sonno REM favorisce il consolidamento della memoria procedurale.

Meccanismi fisiologici del sonno e della veglia - Controllo chimico del sonno

Il sonno è regolato, cioè, se un organismo è deprivato di sonno ad onde lente o sonno REM, tende a recuperare
almeno una parte del sonno perduto, non appena gli è possibile. Questi fatti suggeriscono l’esistenza di
qualche meccanismo fisiologico che controlla la quantità di sonno di un organismo. La spiegazione più ovvia
sarebbe quella secondo cui il corpo produce sia sostanze che promuovono il sonno durante la veglia, sia
sostanze che promuovono la veglia durante il sonno; più a lungo una persona resta sveglia, più a lungo deve
successivamente dormire, per disattivare la sostanza in questione. Inoltre, dal momento che la deprivazione
di sonno REM produce un debito indipendente di questo tipo di sonno, dovrebbero esistere almeno due
sostanze, ciascuna per uno specifico stadio di sonno. Queste sostanze non sembrano essere presenti nel
flusso ematico: se il sonno è controllato chimicamente, le sostanze responsabili devono essere sintetizzate
all’interno del cervello ed espletare lì la loro azione. È stato dunque ipotizzato che l’adenosina, un
neuromodulatore rilasciato da neuroni che sostengono elevati livelli di attività metabolica, possa giocare un
ruolo primario nel controllo del sonno: durante il sonno ad onde lente, i neuroni del cervello si riposano, e gli
astrociti rinnovano la loro riserva di glicogeno; se si prolunga lo stato di veglia, si accumula più adenosina, il
che inibisce l’attività neurale e produce gli effetti cognitivi ed emotivi che si osservano in associazione alla
deprivazione del sonno.
Meccanismi fisiologici del sonno e della veglia - Controllo neurale dell’arousal

Il sonno non è una condizione unitaria, bensì consiste di diversi stadi con caratteristiche molto differenti. Anche
la veglia non è uniforme; talvolta siamo attenti e vigili, e altre non notiamo molto quello che accade intorno a
noi. Naturalmente, la sonnolenza influisce sullo stato di veglia. Comunque, le osservazioni quotidiane
suggeriscono che, persino quando non siamo assonnati, il nostro livello di vigilanza è molto variabile: per
esempio, quando ci confrontiamo con qualcosa di molto interessante, o spaventoso, o sorprendente,
diventiamo più attivi e consapevoli dell’ambiente circostante. I circuiti di neuroni che secernono almeno cinque
differenti neurotrasmettitori giocano un ruolo in alcuni aspetti del livello di vigilanza e veglia, cioè su quello che
è comunemente chiamato arousal. I neurotrasmettitori in questione sono: acetilcolina, noradrenalina,
serotonina, istamina e orexina.

Uno dei più importanti neurotrasmettitori coinvolti nell’arousal, specie della corteccia cerebrale, è l’acetilcolina.
Alcuni ricercatori hanno utilizzato la microdialisi per misurare il rilascio di acetilcolina nell’ippocampo nella
neocorteccia, due regioni la cui attività è strettamente correlata alla vigilanza e all’arousal comportamentale
dell’animale. I ricercatori hanno rilevato che i livelli di acetilcolina in queste regioni sono elevati sia in stato di
veglia, sia durante il sonno REM; al contrario, sono bassi durante il sonno ad onde lente. Se si disattiva un
gruppo di neuroni acetilcolinergici localizzati a livello del proencefalo basale, gli effetti attivanti della
stimolazione pontina sono annullati; al contrario, è stato rilevato che le sostanze che attivano questi neuroni
inducono il pieno stato di veglia. La maggior parte dei neuroni nel proencefalo basale mostra un’elevata
velocità di scarica durante la veglia e durante il sonno REM, contrariamente a quanto accade durante il sonno
ad onde lente.
I neuroni del locus coeruleus, situato nel ponte dorsale, inviano assoni riccamente ramificati che rilasciano
noradrenalina a livello della neocorteccia, dell’ippocampo, del talamo, della corteccia cerebellare, del ponte e
del bulbo; quindi, essi sono potenzialmente in grado di influenzare ampie e importanti regioni del cervello.
Alcuni ricercatori hanno registrato l’attività dei neuroni noradrenergici del locus coeruleus nel corso del ciclo
sonno-veglia in ratti liveri di muoversi, rilevando una stretta correlazione con l’arousal comportamentale. La
velocità di scarica di questi neuroni è risultata elevata durante la veglia, bassa durante il sonno ad onde lente
e quasi azzerata durante il sonno REM. Inoltre, si osserva un brusco aumento della velocità di scarica non
appena l’animale si sveglia. La maggior parte dei ricercatori ritiene che l’attivazione dei neuroni noradrenergici
del locus coeruleus aumenti la vigilanza dell’animale. Questi risultati sostengono la conclusione che
l’attivazione dei neuroni del locus coeruleus, con il conseguente rilascio di noradrenalina, aumenta la vigilanza.

Anche la serotonina sembra implicata nell’attivazione comportamentale. Quasi tutti i neuroni serotoninergici
cerebrali si trovano nei nuclei del rafe localizzati nelle aree bulbari e pontine della formazione reticolare. Gli
assoni di questi neuroni inviano proiezioni in molte parti del cervello, incluso talamo, ipotalamo, gangli della
base, ippocampo e neocorteccia. La stimolazione dei nuclei del rafe causa locomozione e arousal corticale,
mentre un farmaco che previene la sintesi della serotonina riduce l’arousal corticale. È stato ipotizzato che un
contributo specifico dei neuroni serotoninergici all’attivazione consiste nella facilitazione dei movimenti
automatici continui, come camminare. Questi neuroni, come quelli noradrenergici, sono più attivi durante la
veglia, la loro velocità della depolarizzazione declina nel corso del sonno ad onde lente e si azzera nella fase
REM; tuttavia, alla fine del periodo di sonno REM i neuroni tornano ad essere temporaneamente molto attivi.

Un altro neurotrasmettitore implicato nel controllo dell’arousal è l’istamina. Gli antistaminici, usati per il
trattamento delle allergie, causano sonnolenza. I corpi cellulari dei neuroni istaminergici sono localizzati nel
nucleo tubercolomammillare, un nucleo dell’ipotalamo ventrale posteriore, appena rostrale ai corpi
mammillari. Gli assoni di questi neuroni proiettano principalmente alla corteccia cerebrale, al talamo, ai gangli
della base, al proencefalo basale e all’ipotalamo. Le proiezioni corticali, al proencefalo basale, e al ponte dorsale
aumentano l’attivazione e l’arousal della neocorteccia. L’attività dei neuroni istaminergici risulta elevata
durante la veglia ridotta nel corso del sonno ad onde lente e del sonno REM.

Ricerche recenti hanno identificato che la causa della narcolessia, nell’uomo, è la degenerazione dei neuroni
orexinergici. I corpi cellulari dei neuroni che secernono orexina sono localizzati nell’ipotalamo laterale.
Sebbene nel cervello umano siano presenti solo circa 7000 neuroni orexinergici, gli assoni di questi neuroni
terminano in quasi ogni parte del cervello, inclusa la corteccia cerebellare e tutte le regioni implicati nell’arousal
e nella veglia, come i locus coeruleus, i nuclei del rafe, il nucleo tubercolomammillare e i neuroni
acetilcolinergici del ponte dorsale e del proencefalo basale. In tutte queste regioni, l’orexina ha un effetto
eccitatorio.

Controllo neurale del sonno ad onde lente (NREM)

Il sonno è regolato da tre fattori: omeostatico, allostatico e circadiano. Se non dormiamo per un periodo di
tempo prolungato, alla fine svilupperemo sonnolenza e, una volta addormentati, tenderemo a dormire più a
lungo del solito, recuperando almeno parte del nostro debito di sonno. Questo meccanismo di controllo del
sonno è di natura omeostatica e segue gli stessi principi che regolano l’alimentazione. In determinate
circostanze, è importante riuscire a stare svegli: per esempio se siamo minacciati da una situazione pericolosa.
Questo meccanismo di controllo del sonno è di natura allostatica, un termine che si riferisce alle reazioni agli
eventi ambientali stressanti. Infine, i fattori circadiani, che sono quelli che dipendono dal momento del giorno,
tendono a restringere il nostro periodo di sonno in particolari momenti del ciclo giorno/notte.

Andiamo a descrivere adesso quelli che sono i circuiti neurali che controllano il sonno ad onde lente ed i
meccanismi tramite i quali l’adenosina esercita il suo effetto omeostatico. Quando siamo svegli e vigili la
maggior parte dei neuroni del nostro cervello, specie quelli prosencefalici, è attiva, il che ci permette di prestare
attenzione alle informazioni sensoriali ed elaborarle. Il livello di attività cerebrale è in larga parte controllato dai
cinque sistemi neurali dell’arousal di cui abbiamo parlato prima.
Un livello elevato di attività di questi neuroni ci mantiene svegli, mentre un basso livello ci mette a dormire.
Ma cosa controlla l’attività di questi neuroni? Cosa è che blocca questa attività facendoci addormentare?

Attraverso degli esperimenti sappiamo adesso che l’area preottica, è una delle più implicate nel controllo del
sonno. Questa contiene i neuroni i cui assoni formano connessioni sinaptiche inibitorie con i neuroni cerebrali
responsabili dell’arousal. Quando i nostri neuroni preottici (che potremmo chiamare neuroni del sonno)
divengono attivi, essi sopprimono l’attività dei neuroni deputati all’arousal, sicché ci addormentiamo. Si è
inoltre scoperto che la distruzione dell’area preottica produce insonnia totale nei ratti: gli animali prima entrano
in coma e successivamente muoiono. La maggioranza dei neuroni del sono è localizzata nell’area preottica
ventrolaterale (APVL). Inoltre alcuni sono localizzati vicino al nucleo preottico mediano. Gli esperimenti hanno
mostrato che i neuroni del sonno secernono il neurotrasmettitore inibitorio GABA ed inviano i loro assoni alle
cinque regioni cerebrali implicate nell’arousal di cui ho parlato prima (l’inibizione di queste regioni è una
condizione necessaria al sonno).I neuroni del sonno dell’area preottica ricevono impulsi inibitori da alcune
delle stesse regioni che inibiscono, inclusi il nucleo tuberomammillare, i nuclei del rafe ed il locus coeruleus;
perciò sono inibiti da istamina, serotonina, norepinefrina. Questa mutua inibizione potrebbe fornire le basi per
stabilire i periodi di sonno e veglia. I ricercatori hanno notato che l’inibizione reciproca caratterizza anche un
circuito elettronico noto come flip-flop. Questo può assumere due stati, di solito indicati come on o off, oppure
0-1: per cui i neuroni del sonno possono essere attività ed inibire le regioni che promuovono la veglia, oppure
quest’ultime possono essere attive ed inibire i neuroni del sonno. Un flip-flop ha un vantaggio importante:
quando passa ad uno stato all’altro, lo fa in modo estremamente veloce. Chiaramente è più vantaggioso essere
completamente addormentati o del tutto svegli. Tuttavia i flip-flop hanno un problema: possono essere
instabili. Infatti, gli individui affetti da narcolessia e gli animali con un danneggiamento del sistema dei neuroni
orexinergici esibiscono proprio questa caratteristica.

Controllo neurale del sonno rem

Come abbiamo visto in precedenza, il sonno REM consiste in attività EEG desincronizzata, paralisi muscolare,
movimenti oculari rapidi ed aumento dell’attività genitale. La velocità del metabolismo cerebrale risulta elevata
come durante la veglia. Il sonno REM è controllato da un meccanismo flip-flop simile a quello che controlla i
cicli di sonno e veglia. È stato visto come i neuroni acetilcolinergici (cellula REM-ON) nel ponte dorsale
scaricano a velocità elevata durante solo il sonno REM ma anche durante la veglia attiva.
Tuttavia ricerche più recenti suggeriscono che il sonno REM è controllato dall’attività di un flip-flop i cui
elementi non includono i neuroni acetilcolinergici: ci sono delle prove empiriche a favore dell’esistenza di un
flip-flop del sonno REM: una regione dorsale, appena ventrale al locus coeruleus, contiene neuroni REM-ON.
Nei ratti questa regione è nota come nucleo sottolaterodorsale (SLD). Una regione del mesencefalo dorsale, la
sostanza grigia periacquedottale ventrolaterale contiene neuroni REM-OFF.
La reciproca inibizione delle due regioni sta a significare che funzionano con un meccanismo flip-flop: solo
una delle due può essere attiva, in ogni determinato momento. Durante la veglia, la regione REM-OFF, riceve
impulsi eccitatori dai neuroni orexinergici dell’ipotalamo laterale (un ulteriore impulso eccitatori della regione
REM-OFF proviene da due sistemi di neuroni della veglia: i neuroni noradrenergici del locus coeruleus e quelli
serotoninergici dei nuclei del rafe.)
Quando il flip-flop sonno veglia si sposta in stato di sonno, comincia il sonno ad onde lente. L’attività degli
impulsi eccitatori orexinergici noradrenergici e serotoninergici diretti alla regione REM-OFF inizia a ridursi.
Infine il flip-flop del sonno REM si sposta in stato on ed inizia appunto il sonno REM.
Per quanto riguarda invece i movimenti oculari rapidi che si verificano durante il sonno REM, sembrano essere
responsabili di questo fenomeno i neuroni peripenducolari, tramite le loro connessioni con i motoneuroni del
tetto. L’atonia (e cioè la paralisi muscolare che previene la messa in atto dei sogni), è dovuta ad un gruppo di
neuroni acetilcolinergici localizzati nell’area dell’LC.

OROLOGI BIOLOGICI

Ritmi circadiani e zeitgeber

I ritmi giornalieri del comportamento e dei processi fisiologici esistono nel mondo animale come in quello
vegetale. Questi cicli sono generalmente chiamati ritmi circadiani. Alcuni di questi ritmi consistono in risposte
passive alle variazioni di luminosità; tuttavia, altri ritmi sono controllati da meccanismi interni dell’organismo,
cioè da “orologi interni”.
Esiste un orologio interno free running, con un ciclo di circa 25 ore, che controlla alcune funzioni biologiche: in
questo caso, il sonno e la veglia. Le variazioni giornaliere regolari del livello di luminosità normalmente
mantengono tale orologio regolato sulle 24 ore. La luce serve da zeitgeber – termine tedesco che significa
“datore di tempo” – sincronizzando il ritmo endogeno. Gli studi su animali di specie diverse hanno dimostrato
che, se mantenuti costantemente al buio, un breve periodo di luce intensa basta a modificare la regolazione
dell’orologio interno. Per esempio, se si espone l’animale ad una luce intensa subito dopo il tramonto, l’orologio
biologico si sposta indietro, come se fosse ancora pomeriggio; d’altro canto, se l’esposizione alla luce arriva
in tarda notte, l’orologio biologico si sposta in avanti, come se fosse già l’alba.
Anche l’uomo esibisce ritmi circadiani. Il nostro normale periodo di inattività comincia qualche ora dopo l’inizio
del buio e persiste per una quantità di tempo variabile, nella parte luminosa; senza i benefici della moderna
civilizzazione, probabilmente andremmo a dormire prima e ci sveglieremmo più presto di quando siamo soliti
fare. In condizioni di illuminazione costante, i nostri orologi biologici si desincronizzerebbero, perdendo o
guadagnando tempo proprio come un orologio che cammina troppo lento o troppo veloce. La lunghezza dei
cicli varia nelle diverse persone ma, nella maggior parte dei casi, questa situazione si tradurrebbe in un giorno
di circa 25 ore. Normalmente il problema non sussiste perché la luce del mattino, in qualità di zeitgeber,
garantisce la regolazione dell’orologio interno.

Il nucleo sovrachiasmatico

Due gruppi di ricerca indipendenti hanno scoperto che il principale orologio biologico del ratto è localizzato nel
nucleo sovrachiasmatico dell’ipotalamo, rilevando che la sua lesione altera i ritmi circadiani di attività motoria,
assunzione di liquidi e secrezione di ormoni. Il nucleo sovrachiasmatico garantisce inoltre il controllo primario
dell’alternarsi dei cicli di sonno e veglia; tuttavia, la lesione del nucleo sovrachiasmatico compromette i ritmi
circadiani ma la quantità totale di sonno resta invariata. Dal momento che la luce è il principale zeitgeber della
maggior parte dei cicli di attività nei mammiferi, è ovvio attendersi che il nucleo sovrachiasmatico riceva
proiezioni dal sistema visivo. In realtà, gli studi anatomici hanno rivelato l’esistenza di una via diretta, dalla
retina al nucleo sovrachiasmatico, denominata via retinoipotalamica. I fotorecettori retinici che inviano
informazioni al nucleo sovrachiasmatico non sembrano essere né i coni, né i bastoncelli; tuttavia, la rimozione
chirurgica degli occhi nei ratti abolisce i ritmi circadiani. Questi risultati suggeriscono l’esistenza di uno
speciale fotorecettore responsabile della sincronizzazione dei ritmi circadiani in base al livello ambientale di
luce: la melanopsina. La melanopsina è un fotopigmento presente nelle cellule gangliari della retina, i cui
assoni trasmettono informazioni al nucleo sovrachiasmatico, talamo e nuclei pretettali dell’oliva.
Diversamente dagli altri fotopigmenti retinici, che si trovano nei coni e nei bastoncelli, la melanopsina è
presente nelle cellule gangliari: neuroni i cui assoni trasmettono informazioni dagli occhi al resto del cervello.
Le cellule gangliari che contengono melanopsina sono sensibili alla luce, e i loro assoni terminano nel nucleo.
Sono le cellule gangliari contenenti melanopsina, e non i coni e sovrachiasmatico i bastoncelli, ad essere
implicate nella risposta pupillare alla luce. Poiché gli effetti di sincronizzazione della luce sul nucleo
sovrachiasmatico sono mediati da cellule gangliari specializzate e non dai coni e bastoncelli, le persone
divenute cieche a causa di una perdita di questi fotorecettori possono mostrare ancora ritmi circadiani normali.

Come fa il nucleo sovrachiasmatico a controllare i cicli di sonno e di veglia? Gli assoni efferenti del nucleo
sovrachiasmatico responsabili dell’organizzazione dei cicli di sonno e di veglia terminano nella zona
sottoparaventricolare, una regione appena dorsale al nucleo sovrachiasmatico. Le lesioni eccitotossiche della
zona sottoparaventricolare aboliscono i ritmi circadiani di sonno e veglia. La zona sottoparaventricolare invia
proiezioni al nucleo dorsomediale dell’ipotalamo, che a sua volta è connesso con diverse regioni del cervello,
incluse due che giocano un ruolo critico nel controllo del sonno e della veglia: l’area preottica ventrolaterale e
i neuroni orexinergici dell’ipotalamo laterale. Sebbene le connessioni dei neuroni del nucleo sovrachiasmatico
con la zona sottoparaventricolare giochino un ruolo critico nel controllo circadiano del sonno e della veglia,
diversi esperimenti suggeriscono che parte del controllo funzionale esercitato dal nucleo sovrachiasmatico
può essere mediato dalla secrezione di segnali chimici, che si diffondono attraverso il liquor. La prova più
convincente della comunicazione chimica tra il nucleo sovrachiasmatico e altre pari del cervello viene da uno
studio di trapianto: i ricercatori hanno dapprima distrutto il nucleo sovrachiasmatico di un gruppo di criceti,
abolendo i loro ritmi circadiani; quindi, qualche settimana dopo, hanno rimosso il tessuto sovrachiasmatico di
alcuni animali donatori, posizionandolo in piccole capsule semipermeabili, successivamente impiantate nel
terzo ventricolo degli animali sperimentali. I trapianti hanno ristabilito i ritmi circadiani, negli animali riceventi.
Alcune prove suggeriscono che il segnale chimico responsabile di questo effetto potrebbe essere la
prokineticina 2, una proteina contenuta in un sottogruppo di neuroni del nucleo sovrachiasmatico.
Presumibilmente, le sostanze chimiche secrete dalle cellule del nucleo sovrachiasmatico influenzano i ritmi
del sonno e della veglia diffondendosi nella zona sottoparaventricolare e legandosi con i recettori sui neuroni
ivi localizzati. La scansione temporale è assicurata dai singoli neuroni piuttosto che da circuiti neurali. Ciascun
ticchettio, che dura circa 24 ore, consiste nella sintesi e nella scissione di una serie di proteine in due circuiti
interagenti, che esercitano un effetto di retroazione sui geni responsabili della produzione delle proteine in
questione.

Controllo dei ritmi stagionali: ghiandola pineale e melatonina

Sebbene il nucleo sovrachiasmatico abbia un ritmo intrinseco di circa 24 ore, esso è implicato anche nella
regolazione di ritmi molto più lunghi; per esempio, negli animali, nei ritmi di secrezione degli ormoni
dell’accoppiamento e della riproduzione, secreti a cicli stagionali.
Il controllo dei ritmi stagionali coinvolge un’altra struttura cerebrale: la ghiandola pineale, situata sulla
sommità del mesencefalo, di fronte al cervelletto. La pineale secerne un ormone denominato melatonina. Nei
mammiferi, la melatonina controlla i ritmi stagionali. I neuroni del nucleo sovrachiasmatico formano
connessioni indirette con quelli del nucleo paraventricolare dell’ipotalamo; gli assoni di questi neuroni arrivano
fino al midollo spinale, dove si connettono con i neuroni pregangliari del sistema nervoso simpatico, che
innervano la ghiandola pineale e controllano la secrezione di melatonina. In risposta all’impulso del nucleo
sovrachiasmatico, la ghiandola pineale secerne melatonina durante la notte. La sostanza agisce a sua volta
su diverse strutture cerebrali e controlla gli ormoni, i processi fisiologici e i comportamenti che esibiscono
variazioni stagionali. Lesioni a carico del nucleo sovrachiasmatico, del nucleo paraventricolare dell’ipotalamo
o della ghiandola pineale aboliscono i ritmi stagionali controllati dalla lunghezza del giorno.

Alterazioni dei ritmi circadiani: sindrome dei turnisti e jet lag

Quando le persone modificano bruscamente i loro ritmi giornalieri di attività, i ritmi circadiani interni si
desincronizzano rispetto a quelli dell’ambiente esterno. Per esempio, se un individuo che lavora normalmente
di giorno è spostato al turno di notte, oppure se compie un viaggio da un continente all’altro, in suo nucleo
sovrachiasmatico segnalerà al resto del cervello che è ora di andare a dormire anche durante il turno di lavoro
o durante il viaggio. Questa desincronizzazione tra i ritmi interni e l’ambiente esterno causa distorsioni del
sonno e alterazioni dell’umore e interferisce con il funzionamento individuale nelle ore di veglia. Nelle persone
in cui i turni di lavoro cambiano frequentemente, si verificano con maggiore frequenza problemi come ulcere,
depressione e incidenti correlati alla sonnolenza. La sindrome da jet lag è un fenomeno temporaneo; dopo
qualche giorno, le persone che hanno attraversato diversi meridiani si addormentano con maggior facilità al
momento appropriato e il loro stato di vigilanza giornaliera migliora. I turnisti possono sviluppare un problema
più persistente, se il cambiamento di turno è frequente.
10. IL COMPORTAMENTO RIPRODUTTIVO (FACOLTATIVO-solo riassunto)
Sviluppo sessuale
Gametogenesi e fecondazione
Sviluppo degli organi riproduttivi
Maturazione sessuale
SOMMARIO DELLA PRIMA PARTE
Controllo ormonale del comportamento sessuale
Controllo ormonale dei cicli riproduttivi femminili
Controllo ormonale del comportamento sessuale in animali di laboratorio
Effetti organizzativi degli androgeni sul comportamento: mascolinizzazione e defemminilizzazione
Effetti dei feromoni
Comportamento sessuale umano
Orientamento sessuale
SOMMARIO DELLA SECONDA PARTE
Controllo neurale del comportamento sessuale
Maschi
Femmine
Formazione dei legami di coppia
SOMMARIO DELLA TERZA PARTE
Comportamento di cura della prole
Comportamento materno dei roditori
Controllo ormonale del comportamento materno
Controllo neurale del comportamento materno
Controllo neurale del comportamento paterno
SOMMARIO DELLA QUARTA PARTE
Il comportamento riproduttivo – riassunto unico

I comportamenti sessuali, come il corteggiamento, l’accoppiamento, la cura della prole, sono le categorie più
singolari dei comportamenti sessualmente dimorfici, cioè che differiscono a seconda del genere di
appartenenza.

Sviluppo sessuale
Gametogenesi e fecondazione
La produzione di gameti necessita di una particolare forma di divisione cellulare; è un processo che produce
cellule che contengono solo un membro di ciascuna delle 23 coppie d cromosomi, per cui al momento della
fecondazione i due gameti si uniscono e condividono i loro singoli cromosomi.
Il sesso genetico individuale è determinato al momento della fecondazione dello spermatozoo paterno, dove
22 paia di cromosomi definiscono lo sviluppo fisico, mentre l’ultima il sesso.

Sviluppo degli organi riproduttivi


Il dimorfismo sessuale è dovuto all’esposizione agli ormoni sessuali, sia prima sia dopo la nascita.
Esistono 3 categorie generali di organi riproduttivi:
‐ gonaditesticoli o ovaie, sono le prime a svilupparsi, e producono ovuli o spermatozoi e secernono
ormoni; il fattore che controlla il loro sviluppo è un gene Sry situato sul cromosoma Y, il quale se
produce una proteina detta fattore determinante il testicolo, che si lega al DNA delle cellule delle gonadi,
ne induce la differenziazione in testicoli, mentre se non è presente si formano le ovaie. Dopo lo sviluppo
delle gonadi, alcuni ormoni dirigono lo sviluppo sessuale con effetti organizzativi (apparati riproduttivi
e cervello) ed effetti di attivazione (si verificano dopo lo sviluppo degli organi sessuali)
‐ organi riproduttivi interniin fase precoce sono bisessuali, poi per la femmina l’apparato primordiale
degli organi riproduttivi è rappresentato dai dotti di Muller (originano le fimbrie, le tube, l’utero e 2/3
interni della vagina) mentre l’apparato maschile è rappresentato dai dotti di Wollf (originano gli
epididimi, i vasi deferenti e le vescicole seminali), il tutto determinato dalla presenza o meno degli
ormoni secreti dai testicoli (la sostanza inibente i dotti di Muller con effetto defemminilizzante, o gli
androgeni con effetto mascolinizzante). Ci possono essere alcuni disturbi genetici: sindrome di
insensibilità agli androgeni (causata da un’assenza congenita di recettori per gli androgeni funzionanti;
in un individuo con cromosomi XY causa lo sviluppo di una femmina dotata di testicoli, ma senza
organi riproduttivi interni), sindrome da persistenza dei dotti di Muller (causata dall’assenza della
sostanza inibente i dotti o i recettori per questo ormone; in un maschio causa lo sviluppo di organi
riproduttivi interni sia maschili sia femminili), sindrome di Turner (presenza di un solo cromosoma X;
assenza delle ovaie, ma con organi riproduttivi interni e genitali esterni femminili normali).
‐ genitali esterniorgani esterni, cioè pene e scroto nel maschio e labbra, clitoride e parte esterna della
vagina nella femmina. Il genere dei genitali esterni è determinato dalla presenza o assenza di un
androgeno.

Maturazione sessuale
La pubertà inizia quando le cellule ipotalamiche cominciano a secernere l’ormone stimolante le gonadotropine,
il quale stimola la produzione e il rilascio di due ormoni gonadotropici da parte dell’ipofisi anteriore, che sono:
ormone follicolo-stimolante e ormone luteinizzante, che producono nella femmina la formazione del follicolo
e la luteinizzazione e nel maschio la spermatogenesi e la secrezione di testosterone. La leptina, un ormone
secreto da adipociti ben nutriti, sembra essere uno de segnali per l’inizio della pubertà, nel genere femminile.

Controllo ormonale del comportamento sessuale


Gli ormoni sono responsabili del dimorfismo sessuale della struttura del corpo e dei suoi organi, ed esercitano
effetti organizzativi e di attivazione sugli organi riproduttivi e sui caratteri sessuali secondari.

Controllo dei cicli riproduttivi femminili


Il ciclo riproduttivo femminile è definito ciclo mestruale per i primati, mentre per le altre specie si parla di cicli
dell’estro. Entrambi consistono in una sequenza di eventi controllata dalle secrezioni ormonali ipofisarie e
ovariche, che si influenzano a vicenda. Il ciclo comincia con il rilascio di gonadotropine da parte dell’ipofisi
anteriore, che stimolano la crescita dei follicoli ovarici (piccole sfere di cellule epiteliali che circondano l’ovulo);
la donna ne produce uno al mese e quando questi maturano iniziano a secernere estradiolo che induce la
crescita dell’endometrio in preparazione dell’impianto dell’ovulo, nel caso sia fecondato.
Il feedback innescato induce il rilascio di LH da parte dell’ipofisi, il cui picco causa l’ovulazione, che consiste
nella rottura del follicolo con rilascio dell’ovulo; il follicolo rotto si trasforma in corpo luteo che produce
estradiolo e progesterone, il quale promuove la gravidanza. L’ovulo entra nelle tube e procede verso l’utero,
con la possibilità di essere fecondato, con la conseguente divisone e impianto dopo alcuni giorni sulla parete
dell’utero. Se non è fecondato, o è troppo tardi, il corpo luteo smette la produzione e il rivestimento si sfalda,
perciò inizia la mestruazione.

Controllo del comportamento in animali da laboratorio

Il comportamento sessuale dei maschi di tutte le specie di mammiferi sembra dipendere dalla presenza di
androgeni. L’ossitocina ha un effetto facilitante dell’erezione e dell’eiaculazione, mentre la prolattina
generalmente esplica un effetto inibitorio e può essere coinvolta nel periodo refrattario maschile.
*Effetto Coolidge: effetto rivitalizzante di una nuova femmina, dopo il periodo refrattario.

La procettività (desiderio di accoppiarsi), la ricettività (capacità e volontà di accoppiarsi) e l’attrattiva


(modificazioni fisiologiche che attraggono il maschio) di femmine di mammifero diverse dai primati dipendono
principalmente da estradiolo e progesterone (l’estradiolo innesca l’efficacia del successivo rilascio di
progesterone).

Effetti degli androgeni sul comportamento


Se il cervello di un roditore è esposto agli androgeni durante lo sviluppo, si verificano 2 fenomeni:
-defeminilizzazioneeffetto organizzativo degli androgeni che impedisce all’animale di mettere in atto il
comportamento sessuale femminile, in età adulta (soppressione dello sviluppo dei circuiti neurali che lo
controllano; es. femmina ovariectomizzata);
-mascolinizzazioneeffetto che permette di mettere in atto il comportamento sessuale maschile
(stimolazione dei circuiti che lo controllano)

Effetti dei feromoni


I feromoni sono sostanza chimiche che trasmettono messaggi da un animale all’altro, tra cui alcune sostanze,
come gli ormoni, influenzano il comportamento riproduttivo, o altre la fisiologia.
Alcuni effetti sono:
-Lee-Boot: rallentamento e successiva cessazione dei cicli dell’estro, in gruppo di animali femmine allevate
insieme; causato da un feromone nell’urina degli animali e osservato nei topi;
-Whitten: sincronizzazione dei cicli mestruali o dell’estro in gruppi di femmine, che si verifica solo in presenza
di un feromone nell’urina maschile;
-Vandenbergh: insorgenza precoce della pubertà, osservata in animali femmine allevate insieme a maschi,
causato da un feromone nell’urina maschile e osservato nei topi;
-Bruce: interruzione della gravidanza causata dall’odore di un feromone presente nell’urina di un maschio
diverso da quello che ha fecondato la femmina, osservato nei topi
Questi effetti sono mediati dall’organo vomero-nasale, costituito da un gruppo di recettori sensoriali,
presente in tutti i mammiferi eccetto i cetacei, che invia proiezioni al bulbo olfattivo accessorio, che a sua volta
invia assoni al nucleo mediale dell’amigdala, che proietta all’area preottica, nell’ipotalamo anteriore e nel
nucleo ventromediale.

Comportamento sessuale umano


-effetti di attivazione degli ormoni sessuali nella donnanei primati la capacità di accoppiarsi non è sotto il
controllo degli ormoni ovarici, però possono comunque influenzare l’interesse sessuale.
Il comportamento sessuale femminile può essere stimolato dagli androgeni, e nella donna ne esistono due
fonti, le ovaie e le surrenali (secernono estradiolo, progesterone e androstenedione);
-effetti di attivazione degli ormoni sessuali nell’uomola risposta comportamentale al testosterone sembra
essere simile a quella degli altri mammiferi. L’ossitocina e la prolattina sono rilevanti nel comportamento
maschile, sono prodotti durante l’orgasmo e possono essere responsabili del periodo refrattario.

Orientamento sessuale
L’orientamento sessuale (eterosessualità o omosessualità) può essere influenzato dall’esposizione prenatale
agli androgeni. Nel disturbo noto come iperplasia surrenale congenita, c’è una ipersecrezione di androgeni
nella corteccia surrenale, che nel sesso femminile causa mascolinizzazione dei genitali esterni, che facilita
l’attrazione verso altre donne.

Fino ad ora, i ricercatori hanno raccolto prove che indicano che le dimensioni di tre regioni cerebrali (nucleo
sovrachiasmatico, nucleo ipotalamico sessualmente dimorfico, commessura anteriore) sono correlate
all’orientamento sessuali individuale, dove si notano differenze di dimensioni tra omosessuali ed
eterosessuali. La dimensione di un’altra parte del cervello (nucleo basale della stria terminale) è risultata
associata all’identità sessuale maschile, più grande appunto nell’uomo rispetto alla donna.
Il caso del gemello maschio, il cui pene fu accidentalmente distrutto durante l’infanzia, suggerisce che gli effetti
dell’androgenizzazione prenatale non sono facilmente reversibili dal modo in cui si alleva il bambino.
Il fatto che gli omosessuali maschi tendano ad avere più fratelli maggiori di quelli eterosessuali ha portato
all’ipotesi che il sistema immunitario materno possa sensibilizzarsi ad una proteina espressa solo nei feti
maschili.
Infine gli studi sui gemelli indicano che l’ereditarietà può giocare un ruolo nell’orientamento sessuale, sia
maschile che femminile.

Controllo neurale del comportamento sessuale

Maschi

I riflessi sessuali come la postura adeguata, l’erezione e l’eiaculazione sono organizzati dal midollo spinale.
La stimolazione vibratoria del pene può sollecitare l’eiaculazione in uomini con transezione completa del
midollo spinale, se il danno è localizzato al di sopra del decimo segmento toracico.
Le cellule SL, un gruppo di neuroni nella regione lombare del midollo spinale di ratto, giocano un ruolo critico
nell’indurre l’eiaculazione. Negli animali da laboratorio, differenti meccanismi cerebrali controllano il
comportamento sessuale maschile e femminile.
L’area preottica mediale (APM) è la regione prosencefalica più importante per il comportamento sessuale
maschile e la stimolazione di quest’area induce il comportamento di copula, mentre la sua distruzione lo
abolisce per sempre. Il nucleo sessuale dimorfico (NSD) (parte dell’APM), localizzato nell’area preottica
mediale, si sviluppa solo in seguito all’esposizione precoce dell’animale agli androgeni, ed è presente anche
negli esseri umani; la sua distruzione negli animali blocca il comportamento di copula.
I neuroni dell’APM contengono recettori per il testosterone. La copula causa un incremento dell’attività neurale
in questa regione. L’impianto di testosterone direttamente nell’APM restaura il comportamento copulatorio
precedentemente abolito dalla castrazione in età adulta. I neuroni dell’APM fanno parte di un circuito che
include la sostanza grigia periacquedottale (connessioni inibitorie), il nucleo paragigantocellulare del bulbo e i
motoneuroni che controllano i riflessi genitali nel midollo spinale.
L’eiaculazione nell’uomo si accompagna all’attivazione dei meccanismi cerebrali di rinforzo, di diversi nuclei
talamici, del putamen laterale e del cervelletto. L’attività dell’amigdala diminuisce.

Femmine

La più importante regione prosencefalica del comportamento sessuale femminile è il nucleo ventromediale
dell’ipotalamo (IVM), la cui distruzione abolisce il comportamento copulatorio, mentre la stimolazione facilita
tale comportamento.
Sia l’estradiolo che il progesterone esercitano i loro effetti facilitanti del comportamento sessuale femminile
in questa regione, in cui alcuni studi hanno confermato l’esistenza di recettori per entrambi gli ormoni. L’effetto
di innesco dell’estradiolo è dovuto all’incremento della sintesi dei recettori per il progesterone, a livello dell’IVM.
I neuroni steroidi-sensibili dell’IVM inviano assoni alla sostanza grigia del mesencefalo; questi neuroni,
attraverso le loro connessioni con la formazione reticolare, controllano le particolari risposte alla base del
comportamento sessuale femminile.
L’orgasmo delle donne si accompagna all’incremento dell’attività in regioni simili a quelle che si attivano
nell’uomo, in aggiunta alla PAG.

Formazione dei legami di coppia - La vasopressina e l’ossitocina, peptidi che funzionano da ormoni e
neurotrasmettitori nel cervello, sembrano facilitare la formazione dei legami d coppia.
L’inserimento di un gene per i recettori della vasopressina nel proencefalo basale dei maschi di arvicola
poligami induce la messa in atto di comportamenti monogami. La vasopressina gioca il ruolo più importante
nei maschi, l’ossitocina nelle femmine.

Comportamento di cura della prole


Molte specie devono prendersi cura della prole e nella maggior parte dei roditori, questo compito ricade sulla
madre, che deve costruire il nido, partorire, pulire la prole, tenerla al caldo, nutrirla e radunarla, se esce dal nido.
Queste madri devono persino indurre la minzione e la defecazione dei loro piccoli e la loro ingestione di urina
ricicla l’acqua, la cui disponibilità è spesso scarsa.

L’esposizione di femmine vergini a piccoli appena nati stimola il comportamento materno entro pochi giorni.
Gli stimoli che normalmente inducono il comportamento materno sono quelli prodotti dall’atto del parto e gli
ormoni presenti al termine della gravidanza. La costruzione del nido sembra essere facilitata dal progesterone,
durante la gravidanza, e dalla prolattina, nel periodo di lattazione.
Le iniezioni di progesterone ed estradiolo, che riproducono la sequenza che si verifica durante la gravidanza,
facilitano il comportamento materno, così come l’iniezione di prolattina direttamente nel cervello. L’ossitocina,
che facilita la formazione dei legami di coppia nelle femmine di roditore, è implicata anche nella formazione
del legame tra la madre e i suoi piccoli.
La struttura prosencefalica più importante nel comportamento materno è l’area preottica mediale; quelle del
tronco cerebrale sono l’area tegmentale ventrale e il campo retrobulbare del mesencefalo. I neuroni dell’area
preottica mediale inviano assoni caudalmente, all’area tegmentale ventrale e alla formazione reticolare
retrobulbare pontina e bulbare. Se si interrompono le connessioni tra l’APM e il tronco dell’encefalo, si abolisce
il comportamento materno dei ratti.

Il comportamento paterno è relativamente raro nei mammiferi, sebbene alcune ricerche indichino che il
dimorfismo sessuale dell’APM è meno pronunciato nei maschi di arvicola di specie monogame, rispetto a
quelle promiscue. Le lesioni dell’APM aboliscono il comportamento paterno nei maschi di ratto, mentre gli
impianti di estradiolo in questa regione cerebrale lo facilitano.
11. EMOZIONE
Emozioni come modelli organizzati di risposta
Paura
Rabbia, aggressività e controllo degli impulsi
Controllo ormonale del comportamento aggressivo
SOMMARIO DELLA PRIMA PARTE
Comunicazione delle emozioni
Espressioni facciali delle emozioni: risposte innate
Substrato neuronale della comunicazione delle emozioni: riconoscimento
Substrato neuronale della comunicazione delle emozioni: espressione
SOMMARIO DELLA SECONDA PARTE
Sensazioni emozionali
La teoria di James-Lange
Feedback da emozioni simulate
SOMMARIO DELLA TERZA PARTE
EMOZIONI COME MODELLI ORGANIZZATI DI RISPOSTA (Carlson pagg. 360-376 + Slide 13)
L’emozione è un episodio complesso che prevede più componenti. Un’emozione intensa prevede almeno sei
componenti:
1. la valutazione cognitiva: è la valutazione del soggetto circa il significato personale delle circostanze;
2. l’esperienza soggettiva: è lo stato affettivo o il tono sentimentale che colora l’esperienza;
3. le tendenze al pensiero e all’azione: è l’urgenza di pensare o agire in modi particolari;
4. le modificazioni interne: sono le risposte fisiologiche del SNA (battito cardiaco, pressione sanguigna);
5. le espressioni facciali: contrazioni muscolari che muovono i tratti del viso;
6. le risposte all’emozione: è il modo in cui le persone reagiscono alle loro emozioni.
Queste sei componenti non costituiscono singolarmente un’emozione; al contrario, si riuniscono per dare vita
a una particolare emozione.
Le valutazioni cognitive sono parzialmente responsabili della differenziazione delle emozioni. Gran parte del
dibattito tra i teorici dell’emozione si è incentrato sullo stabilire se il processo di valutazione si verifiche in
modo consapevole e deliberato. Gli esperimenti sulle fobie semplici hanno messo alla prova l’idea che le
emozioni si possano produrre senza alcun pensiero conscio precedente: con la tecnica del mascheramento
retrogrado le fotografie degli oggetti fobici venivano mostrate solo per 30 millisecondi, poi mascherate da una
foto neutrale; i soggetti fobici mostrarono risposte fisiologiche identiche sia nel caso in cui avessero visto le
foto del loro oggetto fobico, sia nel caso in cui tali foto venissero presentate così rapidamente da non riuscire
a prenderne coscienza. La maggior parte delle attuali teorie della valutazione cognitiva riconosce che tali
valutazioni possono verificarsi in modo autonomo, al di fuori della consapevolezza.

L’emozione può dunque suscitare esperienze affettive come il senso di eccitazione, di piacere e di dispiacere;
può generare processi cognitivi come effetti percettivi emozionalmente rilevanti, così come valutazioni
cognitive e processi di etichettamento e può attivare adattamenti fisiologici diffusi difronte a condizioni di
eccitamento.
Sul piano finalistico, le emozioni elementari, che andremo poi ad elencare, hanno un significato comunicativo
ed adattivo; molte di esse si associano anche a precise modificazioni dei parametri fisiologici, come la
temperatura corporea, il battito cardiaco, la pressione arteriosa e la conduttanza galvanica cutanea.

Una risposta emozionale è formata da tre diverse componenti (Kleinginna): una componente
comportamentale, che consiste in movimenti muscolari appropriati alla situazione stimolo, una componente
vegetativa, che facilita quella comportamentale provvedendo ad una rapida mobilitazione dell’energia per
consentire movimenti vigorosi e una componente ormonale, che potenzia le risposte vegetative. Gli ormoni
secreti dalla midollare del surrene – adrenalina e noradrenalina – aumentano ulteriormente l’afflusso del
sangue verso i muscoli e stimolano la conversione in glucosio delle sostanze nutritive immagazzinate.

La maggior parte delle ricerche sulla fisiologia delle emozioni è focalizzata sulla paura e sull’ansia: emozioni
associate a situazioni che ci inducono a difendere noi stessi o i nostri cari.
Le tre componenti di una risposta emotiva sono controllate da sistemi neurali distinti; l’integrazione delle
componenti della paura sembra dipendere dall’amigdala. Fino a tempi recenti, si riteneva che l’amigdala
ricevesse tutte le informazioni dalla corteccia e quindi che tali informazioni implicassero una valutazione
conscia; ma recenti ricerche hanno rivelato la presenza di connessioni fra i canali sensoriali e l’amigdala, che
non passano dalla corteccia. queste connessioni dirette potrebbero essere la causa delle valutazioni cognitive
inconsce: l’amigdala risponde prima della corteccia.

Alcuni preconcetti (rivedi fisiologia) – ruolo dell’ipotalamo e del sistema limbico

L’ipotalamo rappresenta un centro che integra e coordina le diverse risposte vegetative e somatiche associate
ad un particolare stato emotivo. L’attività dell’ipotalamo sarebbe modulata dalle aree corticali limbiche e la
lesione di queste aree determina il fenomeno di liberazione ipotalamica.

Un neuroanatomista, Papez (1937), suggerì che un insieme di strutture cerebrali interconnesse fra loro
formava un circuito la cui funzione principale era, appunto, la motivazione e l’emozione. Questo sistema
includeva diverse regioni della corteccia limbica ed un insieme di strutture connesse fra loro che circondano
la parte centrale del proencefalo. Un fisiologo, MacLean (1949), ha incluso in questo sistema altre strutture ed
ha coniato il termine sistema limbico.
Oltre alla corteccia limbica, altre parti importanti di questo sistema sono l’ippocampo e l’amigdala, localizzate
entrambe nel lobo temporale, vicino al ventricolo laterale. Il fornice è un fascio di assoni che connette
l’ippocampo con le altre regioni del cervello inclusi i corpi mammillari, sporgenze alla base del cervello che
contengono alcuni nuclei ipotalamici.

Il sistema limbico (dal latino limbus, cioè "bordo", "contorno) comprende una serie di strutture cerebrali e un
insieme di circuiti neuronali presenti nella parte più profonda e antica del telencefalo connessi al lobo limbico
e correlati alle funzioni fondamentali per la conservazione della specie. Svolge un ruolo paragonabile ad aree
sensoriali primarie ed associative, lavorando sull’insieme delle informazioni disponibili sullo stato
dell’organismo. Inteso come un sistema omeostatico, vegetativo, pulsionale ed affettivo, scambia informazioni
con altre aree della corteccia sia per elaborare la sua specifica integrazione, sia per influenzare percezioni,
comportamenti ed attività cognitive sulla base dello stato emotivo ed affettivo.

Il sistema limbico è preposto all’elaborazione:


‐ dei comportamenti legati alla salvaguardia della specie: vengono mantenute attive le funzioni di base
per la conservazione delle specie, ossia individuare e memorizzare le fonti alimentari, perpetuare la
ricerca ciclica dei partner, preparare ed esibire i moduli di difesa e di aggressività contro gli eventuali
predatori/competitori
‐ delle emozioni e delle risposte che ad esse si accompagnano: l’espressione comportamentale di
un’emozione è di norma accompagnata da risposte fisiologiche viscerali (vegetativo/endocrine,
attraverso la modulazione dell’ipotalamo) e anche somatiche
‐ dei meccanismi della motivazione e della ricompensa
‐ dei processi di memorizzazione (consolidamento della memoria a breve termine in quella a lungo
termine)
‐ dei processi dell’apprendimento
‐ del comportamento, dei pensieri, dei sentimenti, dei desideri, della capacità di immaginare/prevedere
il futuro, delle scelte morali\etiche

In termini neuroanatomici si ritiene che il sistema limbico sia formato da:


‐ Strutture corticali: giro del cingolo, giro paraippocampale, la parte della corteccia ventro-mediale
temporale, porzioni di corteccia dei lobi frontale, occipitale e parietale.

‐ Strutture non corticali: amigdala, ipotalamo e varie strutture adiacenti, bulbo olfattivo, alcuni nuclei
della base e del talamo anteriore, il setto.

La risposta emotiva è determinata dall’ipotalamo, i nuclei anteriori del talamo, il giro del cingolo, l’ippocampo,
l’amigadala e le loro connessioni, che costituiscono un meccanismo armonico che suscita internamente le
emozioni ed al tempo stesso contribuiscono ad organizzare le risposte emotive.
L’ipotalamo, in questo sistema svolge un ruolo di integrazione e controllo delle funzioni vegetative, delle
esigenze fisiologiche e dei comportamenti istintivi; è inoltre coinvolto nell’attribuzione del significato agli
stimoli sensoriali e nell’espressione emotiva. La componente corticale è invece responsabile dell’elaborazione
dell’esperienza emotiva.
Nell’ipotesi di Papez, l’ippocampo svolgeva un ruolo cruciale nelle emozioni facendo da tramite tra le aree
corticali e l’ipotalamo. In realtà questo ruolo è svolto dall’amigdala.

AMIGDALA – è un nucleo a forma di mandorla che si trova in profondità, in corrispondenza della parte anteriore
della circonvoluzione dell’ippocampo. È scomponibile in una parte dorso-mediale ed in una ventro-laterale.
Gioca un ruolo fondamentale nella modulazione e nel controllo di importanti sensibilità affettive, quali
l’amicizia, l’affetto, l’amore, l’umore, e soprattutto, la paura e l’aggressività (rappresenta il centro di
identificazione del pericolo ed è fondamentale per l’autodifesa): quando valuta uno stimolo come pericoloso,
per esempio, l'amigdala scatta come un sorta di grilletto neurale e reagisce inviando segnali di emergenza a
tutte le parti principali del cervello; stimola il rilascio degli ormoni che innescano la reazione di combattimento
o fuga, (adrenalina, dopamina, noradrenalina), mobilita i centri del movimento, attiva il sistema
cardiovascolare, i muscoli e l'intestino. Contemporaneamente, i sistemi mnemonici vengono "sfogliati" con
precedenza assoluta per richiamare ogni informazione utile nella situazione di paura.
Riceve efferenze da: dal sistema olfattivo, dalle cortecce associative del lobo temporale, dalla corteccia
frontale e dal resto del sistema limbico. Le sue afferenze giungono alla corteccia frontale, all’ipotalamo, alla
formazione ippocampale ed ai nuclei del tronco dell’encefalo che controllano le funzioni vegetative ed alcuni
comportamenti specie-specifici. Una lesione delle regioni cerebrali che ricevono queste afferenze può abolire
determinate componenti, alterando i modelli di risposta emozionale.
La stimolazione dell’amigdala da espressione di rabbia e paura; l’asportazione di questa zona comporta anche
l’ipersessualità e gli individui affetti esplorano gli oggetti con la bocca. Solitamente nell’uomo, le lesioni
dell’amigdala sono provocate dall’alcolismo.

La paura

L’amigdala svolge una funzione determinante nelle reazioni, fisiologiche e comportamentali, ad oggetti e
situazioni che rivestono un significato biologico particolare, come quelli che preannunciano dolore o altre
spiacevoli conseguenze, o segnalano la presenza di cibo o di acqua, di nemici o di piccoli da accudire.
Numerosi ricercatori hanno dimostrato che singoli neuroni di vari nuclei dell’amigdala si attivano in presenza
di stimoli emotivamente rilevanti.
L’amigdala è localizzata all’interno dei lobi temporali e consta di diversi gruppi di nuclei, ognuno con distinte
afferenze ed efferenze e differenti funzioni. L’amigdala è stata suddivisa approssimativamente in dodici
regioni, ciascuna contenente diverse sottoregioni; tuttavia, è sufficiente ricordare solamente tre nuclei:
• Il nucleo laterale è un nucleo dell’amigdala che riceve informazioni dalla neocorteccia, dal talamo e
dall’ippocampo, e invia proiezioni al nucleo basale, basale accessorio e centrale dell’amigdala, e anche ad altre
parti del cervello, come lo striato ventrale e il nucleo dorsomediale del talamo.
• Il nucleo basale è un nucleo dell’amigdala che riceve informazioni dal nucleo laterale e invia proiezioni alla
corteccia prefrontale e al nucleo centrale.
• Il nucleo centrale è quella regione dell’amigdala che riceve informazioni dai nuclei basale, basale accessorio
e laterale, e invia proiezioni a un’ampia varietà di regioni del cervello, come l’ipotalamo, il mesencefalo, il ponte
e il bulbo, responsabili dell’espressione di diverse componenti delle risposte emozionali.

NUCLEO AFFERENZE EFFERENZE


Nucleo laterale Neocorteccia, talamo e Nucleo basale accessorio e centrale dell’amigdala, striato
ippocampo ventrale e nucleo dorsomediale del talamo
Nucleo basale Nucleo laterale Corteccia prefrontale ventromediale e nucleo centrale

Nucleo centrale Nuclei basale, laterale e Ipotalamo, mesencefalo, ponte e bulbo


basale accessorio

L’attivazione del nucleo centrale sollecita una varietà di risposte emotive. Il nucleo centrale dell’amigdala è la
Una regione cerebrale più importante per l’espressione di risposte emozionali a stimoli nocivi. lesione del
nucleo centrale riduce, o abolisce del tutto, un’ampia gamma di comportamenti emozionali e di risposte
fisiologiche. In seguito alla distruzione del nucleo centrale, gli animali non mostrano più alcun segno di paura
ad eventi nocivi. Al contrario, se l’amigdala centrale è stimolata, gli animali mostrano i segni fisiologici e
comportamentali della paura e dell’agitazione, e una stimolazione protratta dell’amigdala provoca malattie da
stress.

Le regioni che ricevono proiezioni dall’amigdala sono (vedi schema pag. 362, img 11.2):
• l’ipotalamo laterale, centrale, che attiva la componente simpatica della paura, con aumento della frequenza
cardiaca e della pressione sanguigna e pallore;
• il nucleo motore dorsale del nervo vago, che attiva la componente parasimpatica della paura, con minzione,
ulcere e defecazione;
• il nucleo parabrachiale, che aumenta il ritmo della respirazione;
• l’area tegmentale ventrale, che aumenta la vigilanza comportamentale attraverso l’azione della dopamina;
• il locus coeruleus, che aumenta la vigilanza tramite l’azione della noradrenalina;
• il nucleo tegmentale dorsolaterale, che attiva la corteccia tramite l’azione dell’acetilcolina;
• il nucleo reticolare ponto-caudale, che aumenta la reazione di allerta;
• la sostanza grigia periacquedottale, che favorisce l’arresto comportamentale;
• i nuclei motori facciali trigeminali, che favoriscono le espressioni facciali di paura;
• il nucleo paraventricolare, che secerne glucocorticoidi;
• il nucleo basale, che attiva la corteccia.

Alcuni stimoli attivano automaticamente il nucleo centrale dell’amigdala e producono reazioni di paura: ad
esempio i rumori molto forti e improvvisi; ancora più rilevante, comunque, è il fatto che possiamo apprendere
che una particolare situazione può rappresentare una minaccia o un pericolo. Una volta che l’apprendimento
è avvenuto, possiamo spaventarci ogni qualvolta ci imbattiamo in quello stimolo o situazione.
La forma più basilare di apprendimento emotivo è la risposta emozionale condizionata, una risposta indotta
mediante condizionamento classico, che si stabilisce quando uno stimolo neutro è seguito da uno stimolo
nocivo; generalmente implica componenti vegetative, comportamentali ed endocrine, quali cambiamenti della
frequenza cardiaca, freezing comportamentale e secrezione di ormoni dello stress.
Le ricerche suggeriscono che i cambiamenti fisici responsabili del condizionamento classico di una risposta
emozionale condizionata hanno luogo nel nucleo laterale dell’amigdala. I neuroni del nucleo laterale
comunicano con quelli del nucleo centrale, che a loro volta sono interconnessi con regioni dell’ipotalamo,
mesencefalo, ponte e bulbo, responsabili delle componenti comportamentali, vegetative e ormonali.
Anche noi uomini acquisiamo risposte emozionali condizionate. Le evidenze empiriche depongono a favore di
un coinvolgimento dell’amigdala nelle risposte emozionali degli esseri umani. Uno dei primi studi condotti in
proposito analizzava le reazioni di soggetti sottoposti a valutazione prima della rimozione chirurgica di parti
del cervello, finalizzata al trattamento di disturbi epilettici gravi; questi studi hanno evidenziato che la
stimolazione di alcune aree del cervello, ad esempio l’ipotalamo, provoca risposte vegetative spesso associate
a paure ad ansia, ma soltanto la stimolazione dell’amigdala permette alle persone di sentirsi effettivamente
spaventate.
Molti studi hanno dimostrato che le lesioni dell’amigdala riducono le risposte emozionali nell’uomo. La
maggior parte delle paure dell’uomo è acquisita socialmente, e non attraverso un’esperienza in prima persona
con degli stimoli dolorosi; le persone possono acquisire una risposta di paura condizionata anche tramite
istruzioni verbali. Gli studi sugli animali da laboratorio indicano che la corteccia prefrontale ventromediale
gioca un ruolo critico nell’estinzione delle risposte emozionali condizionate.

Rabbia, aggressività e controllo degli impulsi

Pressoché tutte le specie animali mettono in atto comportamenti aggressivi. I comportamenti aggressivi sono
specie-specifici, ossia, l’insieme dei movimenti, come assumere una determinata postura, mordere colpire, è
organizzato da circuiti neuronali, il cui sviluppo è programmato geneticamente. Molti comportamenti
aggressivi sono legati alla riproduzione, altri sono legati all’autodifesa. Il comportamento aggressivo può
comportare attacchi effettivi o semplicemente minaccia, e l’animale minacciato può mostrare comportamenti
difensivi o di sottomissione.
Il controllo neuronale del comportamento aggressivo è organizzato in senso gerarchico: questo significa che
i particolari movimenti muscolari che un animale compie nell’attaccare o nel difendersi sono programmati da
circuiti neuronali localizzati nel tronco dell’encefalo. L’eventualità che un animale attacchi dipende da
numerosi fattori, fra i quali la natura degli stimoli scatenanti presenti nell’ambiente e l’esperienza pregressa
dell’animale. A sua volta, l’attività dei circuiti troncoencefalici sembra essere controllata dall’ipotalamo e
dall’amigdala, che influenzano anche molti altri comportamenti dall’amigdala specie-specifici; l’attività del
sistema limbico, invece, è controllata dai sistemi percettivi, che rilevano le condizioni ambientali, compresa la
presenza di altri animali.

Una serie di studi condotti da Siegel e collaboratori ha indagato i circuiti neuronali responsabili del
comportamento di difesa e del comportamento predatorio nei gatti; i ricercatori hanno impiantato degli
elettrodi in varie aree cerebrali, per osservare gli effetti della stimolazione elettrica di queste regioni sul
comportamento degli animali. È stato rilevato che il comportamento difensivo e il comportamento predatorio
possono essere sollecitate dalla stimolazione di diverse regioni della sostanza grigia periacquedottale, e inoltre
che l’ipotalamo e l’amigdala influenzano questi comportamenti attraverso connessioni eccitatorie e inibitorie
con la sostanza grigia periacquedottale. Siegel e collaboratori hanno osservato che tre regioni principali
dell’amigdala e due regioni dell’ipotalamo controllano la rabbia difensiva e la predazione, entrambe
apparentemente controllate dalla sostanza grigia periacquedottale.
Quindi la rabbia difensiva è mediata dalla sostanza grigia periacquedottale dorsale, e può essere attivata o da
segnali inibitori da parte del nucleo centrale dell’amigdala, o da segnali eccitatori da parte del nucleo basale
dell’amigdala o dell’ipotalamo mediale.
La predazione è mediata dalla sostanza grigia periacquedottale ventrale e può essere attivata da segnali
eccitatori dell’ipotalamo laterale, che a sua volta ha ricevuto segnali inibitori dall’ipotalamo mediale, che era
stato precedentemente eccitato dal nucleo mediale dell’amigdala.

Le esperienze precoci possono certamente favorire lo sviluppo di comportamenti aggressivi, ma gli studi
hanno dimostrato che l’ereditarietà gioca un ruolo significativo; per esempio, dei ricercatori hanno studiato un
gruppo di gemelli dello stesso sesso dall’età di 7 e 9 ani, rilevando una correlazione più elevata tra i monozigoti
rispetto ai dizigoti sulle misure di comportamento antisociale e su quelle di comportamento duro e insensibile,
il che indica l’esistenza di una componente genetica alla base dello sviluppo di questi tratti. Diversi studi hanno
appurato che i neuroni serotoninergici esercitano una funzione inibitoria sull’aggressività umana. Per esempio,
la riduzione del tasso di rilascio della serotonina si associa ad aggressività ed altre forme di comportamento
antisociale. Se i bassi livelli di rilascio di serotonina contribuiscono all’aggressività, forse i farmaci che
agiscono da agonisti della serotonina potrebbero contribuire a ridurre il comportamento antisociale; uno studio
dimostra che il Prozac abbassa i livelli di irritabilità e aggressività.
Molti ricercatori ritengono che la violenza impulsiva sia conseguente ad una cattiva regolazione delle emozioni.
Nella maggior parte di noi, la frustrazione sollecita l’urgenza di rispondere emotivamente, ma di solito
riusciamo a calmarci e reprimere questi scatti. La corteccia prefrontale mediale gioca un ruolo importante
nella regolazione delle risposte a situazioni frustranti. L’analisi delle situazioni sociali implica molto più
dell’analisi sensoriale: richiede esperienze e ricordi, inferenze e giudizi. In effetti, le capacità coinvolte
comprendono alcune fra le più complesse del nostro pensiero; queste capacità non sono localizzate in una
singola parte della corteccia cerebrale, sebbene la ricerca suggerisca che, in tale ambito, l’emisfero destro sia
più importante del sinistro. Ma la corteccia prefrontale ventrale, che consiste in corteccia orbitofrontale
mediale e corteccia cingolata subgenuale anteriore, riveste un ruolo speciale.
La corteccia prefrontale ventromediale gioca un ruolo importante nell’inibizione delle risposte emozionali. La
corteccia prefrontale ventromediale riceve afferenze dirette dal talamo dorsomediale, dalla corteccia
temporale, dall’area tegmentale ventrale, dal sistema olfattivo e dall’amigdala; invia efferenze alla corteccia
cingolata, alla formazione ippocampale, alla corteccia temporale, all’ipotalamo laterale e all’amigdala. In
questo modo, le sue afferenze le forniscono informazioni su ciò che sta accadendo nell’ambiente circostante,
e le sue efferenze le permettono di influenzare un’ampia gamma di comportamenti e di risposte fisiologiche,
incluse le risposte emozionali organizzate dall’amigdala.

Circuiti neurali del comportamento difensivo e della predazione (vedi immagine 11.5 pag.366)

La prova che la corteccia orbitofrontale giochi un ruolo cruciale nei comportamenti emozionali è fornita
dall’osservazione degli effetti procurati da una lesione di questa regione. Il primo caso risale alla metà del 1800
ed è il caso di Phineas Gage, un operaio ingaggiato per la costruzione delle ferrovie che a causa di un incidente
si ritrova con un tubo di acciaio conficcato nel cranio, che dal mento oltrepassa la guancia, trafigge il cervello
ed esce dalla sommità del capo. L’uomo sopravvisse, ma divenne un altro uomo: prima dell’incidente era serio,
operoso ed energico; in seguito divenne infantile, irresponsabile e irriguardoso nei confronti degli altri. Era
incapace di intraprendere o portare a compimento un progetto e le sue azioni apparivano capricciose e
stravaganti. L’incidente gli aveva danneggiato la corteccia orbitofrontale. Le persone la cui corteccia
orbitofrontale è stata danneggiata da una malattia o da un incidente sono ancora in grado di valutare con
precisione il significato di particolari situazioni, ma esclusivamente in modo teorico. Ad esempio, Damasio ha
riferito il caso di un paziente con una lesione bilaterale della corteccia orbitofrontale, che mostrava
un’eccellente capacità di giudizio sociale. Quando erano sottoposte al giudizio di situazioni ipotetiche, in merito
alle quali dovevano valutare le possibili reazioni delle persone in esse coinvolte, i pazienti fornivano sempre
delle risposte sensate, giustificandole con accurati ragionamenti logici; ma la loro vita privata era tutt’altra
faccenda. Perdevano un lavoro dopo un altro a causa dell’irresponsabilità, divenivano incapaci di distinguere
tra decisioni banali e decisioni rilevanti, trascorrendo ore nel cercare di stabilire dove cenare.
La lesione della corteccia prefrontale ventromediale causa compromissioni gravi e spesso debilitanti del
controllo comportamentale e della capacità di prendere decisioni. Queste compromissioni sembrano essere
una conseguenza della disregolazione emotiva. I ricercatori hanno rilevato l’esistenza di una correlazione
significativa tra la disfunzione emotiva e la compromissione delle competenze nel mondo reale. Non è stata
osservata alcuna relazione tra le abilità cognitive e le competenze nel mondo reale, il che suggerisce
fortemente che alla base delle difficoltà nel mondo reale, esibite da persona con lesione della corteccia
prefrontale ventromediale, ci siano dei problemi emotivi.

Un interessante studio di imaging funzionale suggerisce che la corteccia prefrontale ventromediale gioca un
ruolo nei meccanismi cerebrali del coraggio; i ricercatori hanno scansionato il cervello di persone spaventate
o meno dai serpenti. Mentre i soggetti si trovavano nello scanner, potevano premere bottoni per controllare il
movimento di un nastro trasportatore, in modo da avvicinare o allontanare un serpente vivo. Le persone non
spaventate dai serpenti facevano avvicinare l’animale e non mostravano segni di paura; invece, quelle
spaventate, mostravano inequivocabili segnali di paura; alcune di queste persone premevano il bottone per
allontanare il serpente, altre lo lasciavano avvicinare, persino se erano chiaramente spaventate. In altre parole,
mostravano coraggio: riuscivano a superare la paura. La dimostrazione di coraggio è risultata m
dall’attivazione di una regione della corteccia prefrontale ventromediale, la corteccia cingolata anteriore
subgenuale. I soggetti che allontanavano il serpente non mostravano attivazione di questa zona.
L’amigdala gioca un ruolo importante nel provocare rabbia e reazioni emotive violente, e la corteccia
prefrontale gioca un ruolo importante nel sopprimere questi comportamenti, facendoci prevedere le
ripercussioni negative che potrebbero verificarsi.
La maturazione dell’amigdala, durante lo sviluppo, è piuttosto precoce, mentre quella della corteccia
prefrontale è molto successiva e avviene solo alla fine dell’infanzia, a cavallo con l’adolescenza. Quando la
corteccia prefrontale matura, gli adolescenti mostrano aumenti della velocità di elaborazione cognitiva,
capacità di ragionamento astratto, capacità di spostare l’attenzione da un argomento all’altro e capacità di
inibire risposte inadeguate.
Raine e collaboratori hanno riscontrato la diminuzione dell’attività prefrontale e l’aumento di quella
sottocorticale, inclusa l’amigdala, nel cervello degli omicidi in prigione. Queste modificazioni sono state
osservate negli assassini emotivi, impulsivi; gli assassini predatori, calcolatori e a sangue freddo, i cui crimini
non erano accompagnati da rabbia, mostravano un’attività prefrontale più normale. Presumibilmente,
l’aumento dell’attivazione dell’amigdala rifletteva l’aumentata tendenza a manifestazioni emotive negative,
mentre la ridotta attivazione della corteccia prefrontale rifletteva la compromissione della capacità di inibire
l’attività dell’amigdala e quindi di controllare le emozioni.

Controllo ormonale del comportamento aggressivo

L’aggressività nei maschi:


 si manifesta intorno al periodo della pubertà, suggerendo che tale comportamento sia controllato da
circuiti neuronali stimolati dagli androgeni, i quali sono sensibili al testosterone e facilitano
l’aggressività tra maschi; una precoce androgenizzazione sensibilizza i circuiti neuronali e più precoce
è, più efficace sarà la sensibilizzazione
 l’area preottica mediale sembra determinante nel mediare gli effetti degli androgeni nell’aggressività
fra maschi, e anche in altri comportamenti collegati alla riproduzione

L’aggressività nelle femmine:


 può essere facilitata dal testosterone; mentre gli androgeni producono un effetto organizzativo
 le femmine di roditore che hanno subito una leggera esposizione prenatale agli androgeni (2M) sono
più portate all’attacco

Effetti degli androgeni sul comportamento aggressivo umano:


 apparentemente gli androgeni promuovono il comportamento aggressivo nell’uomo
 le evidenze empiriche da ragazze con iperplasia surrenale congenita e gemelle dizigoti che hanno
condiviso l’utero con un fratello suggeriscono che gli androgeni prenatali promuovono il
comportamento aggressivo in età successiva
 in criminali con un passato violento sono state rilevate differenze nei livelli di testosterone
 il principale effetto degli androgeni è l’aumento della motivazione a conseguire la dominanza e
l’aumento dell’aggressività è solo un effetto secondario
 testosterone e alcool producono effetti sinergici, soprattutto negli animali dominanti
COMUNICAZIONE DELLE EMOZIONI (Carlson pagg. 376-388)

Molte specie animali, inclusa la nostra, comunicano le proprie emozioni agli altri mediante cambiamenti
posturali, espressioni facciali, suoni non verbali. Queste espressioni assolvono vantaggiose funzioni sociali e
comunicano agli altri individui quello che proviamo e, soprattutto, cosa abbiamo intenzione di fare.

Espressioni facciali delle emozioni: risposte innate

Darwin affermava che le espressioni emozionali sono innate, vale a dire risposte non apprese, articolate in una
serie complessa di movimenti, in particolare della muscolatura facciale. Egli raccolse evidenze supportanti la
sua ipotesi sulla natura innata delle espressioni emozionali dell’osservazione dei suoi stessi figli e dalla
concordanza delle espressioni osservate in membri di culture sparse per il mondo, anche isolate. Se le persone
in ogni parte del mondo esibiscono le medesime espressioni facciali delle emozioni, allora queste espressioni
debbono avere necessariamente un’origine ereditaria, piuttosto che essere apprese.
Il filone di ricerca portato avanti da Ekman e collaboratori ha aggiunto conferme all’ipotesi prospettata da
Darwin, che l’espressione facciale dell’emozione utilizzi un repertorio innato, specie-specifico, di movimenti
dei muscoli facciali. Ekman e collaboratori hanno analizzato l’abilità degli indigeni di una tribù isolata della
Nuova Guinea di riconoscere le emozioni codificate da espressioni facciali di persone appartenenti alla cultura
occidentale. Gli indigeni non mostravano alcuna difficoltà in questo tipo di compito, ed essi stessi producevano
espressioni facciali facilmente interpretabili dagli occidentali.

Substrato neuronale della comunicazione delle emozioni: riconoscimento

La nostra capacità di esibire stati emotivi è utile solo se la persona con cui interagiamo è in grado di
interpretarli. A tal proposito, alcuni studi hanno osservato che le espressioni di felicità delle persone, quando
si trovano sole, provocano solo piccoli segni di allegria, mentre nel corso di una interazione sociale con altri, le
persone mostrano maggiore tendenza al sorriso. Il riconoscimento dell’espressione facciale delle emozioni di
un’altra persona è in generale automatico, rapido e accurato. Riconosciamo i sentimenti delle altre persone
attraverso la vista e l’udito, osservando le espressioni facciali e ascoltando il tono di voce e la scelta delle
parole. Molti studi hanno rilevato che l’emisfero destro gioca un ruolo più importante nella decodificazione
delle emozioni, rispetto all’emisfero sinistro. Per esempio, è stato osservato che i pazienti con lesioni
dell’emisfero destro hanno difficoltà a produrre o descrivere immagini mentali delle espressioni facciali delle
emozioni.
Diversi studi di imaging funzionale hanno confermato questi risultati. Misurando il flusso ematico cerebrale,
mentre i soggetti erano impegnati nell’ascolto di alcune frasi per identificarne il contenuto emotivo, i ricercatori
hanno prima loro chiesto di prestare attenzione al significato delle parole e stabilire quindi lo stato d’animo; in
una seconda condizione veniva chiesto ai soggetti di prestare attenzione al tono dell’espressione verbale, e di
stabilirne quindi lo stato d’animo, i ricercatori hanno rilevato che il compito dell’interpretazione dell’emozione
in base al significato delle parole aumentava l’attivazione di entrambi i lobi frontali, con un’attivazione più
marcata del sinistro, mentre la comprensione dell’emozione dal tono di voce aumentava l’attivazione della
sola corteccia prefrontale destra.

L’amigdala esercita una funzione cruciale nel produrre risposte emozionali, ma può essere determinante
anche nel riconoscimento delle emozioni. Diversi studi hanno riscontrato che le lesioni dell’amigdala
compromettono la capacità delle persone di riconoscere le espressioni facciali dell’emozione, in particolare le
espressioni di paura. Studi di imaging funzionale hanno rilevato un notevole aumento dell’attivazione
dell’amigdala in persone che osservano fotografie di volti che esprimono paura, ma solo in piccolo incremento
durante l’osservazione di fotografie di volti felici. Sebbene le lesioni dell’amigdala compromettono il
riconoscimento dell’espressione facciale dell’emozione, numerosi studi hanno riscontrato che la capacità di
riconoscere le emozioni dal tono della voce non sembra danneggiata.
Diversi studi suggeriscono che l’amigdala riceve informazioni visive che utilizziamo per riconoscere
l’espressione facciale delle emozioni direttamente dal talamo, e non dalla corteccia visiva di associazione.
L’amigdala riceve afferenze visive da due fonti: una corticale e una sottocorticale. L’impulso sottocorticale,
proveniente dal collicolo superiore e dal pulvinar (nucleo talamico), sembra fornire informazioni più importanti
per il riconoscimento dell’espressione facciale delle emozioni.
La corteccia visiva riceve informazioni da due sistemi di neuroni: il sistema magnocellulare, che fornisce
informazioni su movimento, profondità e sottili differenze di luminosità della scena che stiamo osservando, e
il sistema parvocellulare, che si trova solo in alcuni primati, incluso l’uomo, e garantisce la visione a colori e
dei dettagli fini. La porzione di corteccia visiva di associazione responsabile del riconoscimento dei volti, l’area
fusiforme della faccia, riceve informazioni principalmente dal sistema parvocellulare. L’informazione che
arriva all’amigdala dal collicolo superiore e dal pulvinar origina nel più primitivo sistema magnocellulare.
Vuilleumier e colleghi hanno osservato che l’area fusiforme della faccia dimostra una maggiore capacità di
riconoscere i volti individuali, per cui utilizza le informazioni di frequenza spaziale alta fornite dal sistema
parvocellulare; al contrario, l’amigdala è in grado di riconoscere le espressioni di paura sulla base delle
informazioni di frequenza spaziale bassa, motivo per cui utilizza il sistema magnocellulare.

Perrett e collaboratori hanno scoperto un’interessante funzione cerebrale che può essere collegata al
riconoscimento dell’espressione emozionale, rilevando che i neuroni del solco temporale superiore della di
un’altra scimmia, scimmia sono implicati nel riconoscimento della direzione dello sguardo o persino di un
uomo. Alcuni neuroni di questa regione si attivano quando la scimmia osserva fotografie di facce di scimmia
o di volti umani, ma soltanto quando lo sguardo di queste facce è orientato in una particolare direzione. Lo
sguardo è importante nel riconoscimento delle emozioni perché ci permette di comprendere se una persona
sta rivolgendo a noi una certa emozione, e, quindi, quando è arrabbiata, se il suo sguardo è diretto nella nostra
direzione, potrebbe prefigurare una situazione di pericolo.
I neuroni specchio, localizzati nell’area premotoria ventrale del lobo frontale, ricevono impulsi dal solco
temporale posteriore e dalla corteccia parietale posteriore. Il circuito si attiva quando osserviamo un’altra
persona che esegue un’azione finalizzata, e il feedback di questa attività ci aiuta a comprendere cosa sentono
gli altri. Un disturbo neurologico noto come sindrome di Moebius fornisce un sostegno a questa ipotesi. La
sindrome di Moebius è una condizione congenita che implica il deficit di sviluppo dei nervi cranici sesto e
settimo, causando paralisi del volto e incapacità di effettuare movimenti oculari laterali. A causa di questa
paralisi, le persone affette da questa sindrome non riescono ad esprimere le emozioni con le espressioni
facciali e hanno difficoltà a riconoscere le espressioni facciali degli altri.
I neuroni audiovisivi giocano un ruolo anche nella comunicazione delle emozioni. I ricercatori chiedevano a
soggetti di emettere suoni emotivi in risposta a scenari scritti che presentavano situazioni in grado di evocare
trionfo, divertimento, paura o disgusto; successivamente, venivano fatte ascoltare queste registrazioni a dei
soggetti sperimentali, sottoposti a scansione di risonanza magnetica funzionale. Le scansioni hanno
dimostrato che l’ascolto delle vocalizzazioni emotive attiva le stesse regioni del cervello che sono attivate dalle
espressioni facciali delle corrispondenti emozioni. In altre parole, quando sentiamo altre persone emettere
suoni emotivi non verbali, il nostro sistema di neuroni specchio si attiva e il feedback prodotto da questa
attivazione può contribuire al riconoscimento delle emozioni espresse dai suoni in questione.

Disgusto

Diversi studi hanno trovato che il danno della corteccia insulare e dei gangli della base compromette la
capacità delle persone di riconoscere le espressioni facciali di disgusto; inoltre, uno studio di imaging
funzionale ha rilevato che sia annusare un odore disgustoso che osservare un volto che mostra
un’espressione di disgusto attiva la corteccia insulare. Il disgusto è un’emozione suscitata da qualcosa dal
sapore o dall’odore sgradevole, oppure da un’azione che consideriamo di cattivo gusto; l’insula contiene la
corteccia gustativa primaria, quindi potrebbe non essere una coincidenza che questa regione sia anche
implicata nel riconoscimento del disgusto.

Substrato neuronale della comunicazione delle emozioni: espressione

Le espressioni facciali dell’emozione sono automatiche e involontarie. Non è facile produrre un’espressione
facciale realistica, quando questa non coincide con lo stato d’animo provato. I sorrisi genuinamente allegri, in
opposizione ai sorrisi simulati, comportano la contrazione di un muscolo in prossimità dell’occhio.
La paresi dei movimenti facciali volontari è provocata da lesioni nella regione della corteccia motoria primaria,
che sovrintende alla motilità della faccia, o alle fibre che connettono questa regione con il nucleo motorio del
nervo facciale, che controlla i muscoli responsabili dei movimenti volontari del volto. Una caratteristica
interessante di questo tipo di paresi facciale è che il paziente non può muovere volontariamente i muscoli
facciali, ma è in grado di esprimere un’emozione spontanea con quegli stessi muscoli. Al contrario, la paresi
dei movimenti facciali spontanei, è causata da lezioni della regione insulare della corteccia prefrontale, della
sostanza bianca del lobo frontale o di alcune parti del talamo. Queste strutture sono connesse con le regioni
del bulbo e del ponte responsabili del movimento dei muscoli facciali. Le persone affette da questo disturbo
possono muovere volontariamente la muscolatura facciale, ma non riescono ad esprimere emozioni nel lato
colpito dalla paresi.
Diversi studi si sono occupati dei meccanismi cerebrali implicati nella risata, un’espressione emotiva più
intensa del sorriso. Studiando il caso di un paziente con crisi epilettiche accompagnate da risate meste, in cui
il paziente rideva senza sentirsi felice o divertito, i ricercatori hanno osservato che le registrazioni effettuate
con elettrodi indicavano l’insorgenza degli attacchi nel giro cingolato anteriore sinistro. L’asportazione di una
neoplasia benigna situata nelle adiacenze portò alla risoluzione sia delle crisi epilettiche che delle risate meste.
Gli autori suggeriscono che la corteccia cingolata anteriore può essere coinvolta nei movimenti muscolari che
provocano la risata; la lesione della corteccia prefrontale ventromediale destra compromette la capacità delle
persone di comprendere le barzellette divertenti.

Anomia delle emozioni (Slide)

L’anomia delle emozioni è provocata da una lesione corticale posteriore dell’emisfero dx, che include la
sostanza bianca. I pz sono capaci di percepire e identificare i volti e sono anche in grado di accoppiare in modo
corretto, volti che esprimono la stessa emozione, ma non riescono a recuperare il nome associato
all’emozione.
L’ipotesi eziopatogenetica propone che all’origine ci sia una disconnessione tra l’informazione visuo-
percettiva, associata al volto e le aree dell’emisfero sx responsabili dell’accesso alle informazioni lessicali che
riguardano il nome delle emozioni.

Riso e pianto patologico PLC (Slide)

Episodi incontrollati di riso o pianto (o di entrambi) scatenati da stimoli che normalmente non causerebbero
quel tipo di risposta emozionale. Sono le possibili relazioni tra stimolo e risposta emozionale:
1. Lo stimolo può avere una valenza opposta alla risposta emozionale.
2. Lo stimolo può essere congruente con la risposta rispetto alla valenza ma non rispetto all’intensità.

I pazienti sono consapevoli della reazione patologica che giudicano inappropriata rispetto al contesto e
parzialmente priva di controllo volontario. La PLC è un disordine specifico dell’espressione emozionale e non
un disturbo emozionale primario. Pertanto, deve essere distinta soprattutto dai disturbi dell’umore con cui
spesso viene confuso. La PLC può essere associata a differenti sedi lesionali: strutture corticali motorie e
prefrontali, e numerose strutture sottocorticali, come talamo, nuclei della base, bulbo, ponte e cervelletto. Essa
è associata frequentemente con la paralisi pseudo bulbare.
L’ ipotesi eziopatogenetica presuppone che alla base ci sia un danno della via corticobulbare per la motilità
volontaria e risparmio della via fronto-talamo-pontobulbare per l’espressività emotiva involontaria.

SENSAZIONI EMOZIONALI (Carlson pagg.388-392 + slide 13)

La teoria di Ladavas

Secondo Ladavas, l’emozione è una risposta dell’organismo a situazioni e/o contesti specifici, costituita da
diversi processi organizzati gerarchicamente e operanti indipendentemente.
I processi gerarchicamente più bassi sono programmati ed operanti già dalla nascita, mentre quelli che
occupano un ordine più elevato, svolgendo un ruolo di controllo e modulazione della risposta emotiva, seguono
lo sviluppo dell’individuo, anche se non sono completamente indipendenti dallo sviluppo funzionale del
sistema nervoso.
La teoria di James-Lange

William James e Carl Lange proposero separatamente una spiegazione analoga dell’emozione, cui molti
studiosi fanno riferimento con il nome cumulativo di teoria di James-Lange: è una teoria dell’emozione che
considera i comportamenti e le risposte fisiologiche come direttamente suscitate dalle situazioni, e le
sensazioni emozionali come prodotto del feedback sensoriale di questi comportamenti e risposte.
James afferma che le nostre sensazioni emotive sono basate su ciò che proviamo a fare in risposta a
determinati stimoli e sul feedback sensoriale che riceviamo dall’attività dei muscoli e dei visceri. Dunque, se ci
troviamo tremanti e inquieti, proviamo paura. Ogni qualvolta percepiamo un vissuto emozionale, ciò accade in
virtù del fatto che stiamo osservando noi stessi.
La percezione che abbiamo della nostra attivazione costituisce parte dell’esperienza emozionale? Per
rispondere a questa domanda, i ricercatori hanno studiato la vita emotiva di individui con lesione del midollo
spinale. Quando il midollo spinale è interrotto o lesionato, le sensazioni che originano al di sotto del punto
danneggiato non possono raggiungere il cervello. In uno studio, alcuni veterani dell’esercito con lesioni spinali
furono divisi in gruppi. In un gruppo le lesioni erano vicine al collo, con la completa eliminazione di feedback
del sistema nervoso autonomo al cervello; in un altro gruppo, la lesione era lombare, che permetteva un
feedback parziale. Tanto più era alta la lezione, quanto meno feedback riceveva il cervello. Ai soggetti vennero
chieste le loro sensazioni di paura, rabbia, ira. Fu chiesto di ricordare un fatto pregno di emozione relativo a
prima della lesione, e un fatto analogo successivo alla lesione, e confrontare l’intensità dell’esperienza emotiva.
Quanto più alta era la lesione, tanto più diminuiva la risposta emotiva a seguito dell’emozione. La riduzione di
attivazione del sistema nervoso autonomo si trasforma in riduzione dell’esperienza emotiva.
L’attivazione del sistema nervoso autonomo contribuisce all’intensità dell’esperienza. Gli psicologi si sono
chiesti se esiste uno schema di attività fisiologica per l’eccitazione, un altro per l’ira e così via. William James
propose che la percezione dei cambiamenti corporei è in sé l’esperienza soggettiva dell’emozione, e non
possiamo avere l’una senza l’altra. “Ci sentiamo dispiaciuti perché piangiamo, arrabbiati perché ci battiamo,
spaventati perché tremiamo.”

Il fisiologo Carl Lange arrivò ad una conclusione simile: poiché la percezione dell’attivazione del sistema
nervoso autonomo costituisce in sé l’esperienza di un’emozione, e poiché differenti emozioni si provano in
modo differenti, deve esistere uno schema di attivazione del sistema nervoso autonomo per ciascuna
emozione.

Questa teoria fu attaccata dal fisiologo Cannon, il quale formulò tre critiche principali: dal momento che gli
organi interni sono strutture poco sensibili, i cambiamenti interni avvengono troppo lentamente per costituire
la fonte primaria di un’emozione; l’induzione artificiale dei cambiamenti corporei associati con un’emozione
non causa l’esperienza emozionale vera e propria; lo schema di attivazione del sistema nervoso autonomo
non sembra differire tra un’emozione e l’altra: per esempio, l’ira fa accelerare il battito cardiaco, ma anche la
vista della persona amata. Gli psicologi hanno cercato di confutare la terza critica.

Uno studio condotto da Levenson ed Ekman offre una prova sicura dell’esistenza di schemi distinti per
emozioni diverse. I soggetti sperimentali esibivano espressioni diverse per ognuna delle sei emozioni di base,
seguendo le istruzioni su quali muscoli facciali contrarre; mentre mantenevano un’espressione emotiva per
dieci secondi, i ricercatori misuravano il loro battito cardiaco, la temperatura cutanea ed altri indicatori di
attivazione. Un certo numero di queste misurazioni ha rilevato differenze tra le emozioni: il battito cardiaco
era più veloce per le emozioni negative, quali ira, paura e tristezza, di quanto non lo fosse per la felicità; le
stesse tre emozioni negative potevano essere distinte dal fatto che la temperatura cutanea fosse più alta
nell’ira che nella paura o nella tristezza. Di conseguenza, anche se sia l’ira che la vista della persona amata ci
fanno battere il cuore, solo l’ira ce lo fa battere più forte, e sebbene l’ira e la paura abbiano molto in comune,
l’ira è calda e la paura è fredda.

Feedback da emozioni simulate

James evidenziò l’importanza di due aspetti delle risposte emozionali: i comportamenti emozionali e le
risposte vegetative. Diversi esperimenti indicano che il feedback sensoriale della contrazione dei muscoli
facciali può influenzare l’umore delle persone e perfino alterare l’attività del sistema nervoso autonomo.
L’idea che le espressioni del viso contribuiscano anche all’esperienza delle emozioni è chiamata ipotesi del
feedback facciale: proprio come riceviamo un feedback dall’attivazione del sistema nervoso autonomo, così
riceviamo un feedback dall’espressione del viso.
In un esperimento, i soggetti classificavano delle vignette a seconda della loro comicità, mentre tenevano una
penna tra i denti o tra le labbra. Tenere una penna tra i denti costringe il viso al sorriso, mentre tenerla tra le
labbra impedisce di sorridere. Coerentemente all’ipotesi del feedback facciale, le vignette furono giudicate più
divertenti dai soggetti che tenevano la penna tra i denti, rispetto a quelli che tenevano la penna tra le labbra.
Tale esperimento dimostra che il fatto di assumere una certa espressione del viso contribuisca alla comparsa
di stati emotivi congruenti all’espressione facciale.
La tendenza all’imitazione sembra essere innata. Field e collaboratori hanno richiesto a degli adulti di mimare
espressioni facciali di fronte a bambini molto piccoli. L’espressione facciale dei bambini era filmata e
successivamente sottoposta a valutazione da parte di persone che ignoravano quali espressioni fossero state
mostrate dagli adulti. Field e collaboratori riscontravano che persino neonati di età inferiore alle 36 ore
tendevano ad imitare le espressioni viste. Chiaramente, questo fenomeno insorge in un’età troppo precoce per
essere il risultato di un apprendimento.
Probabilmente l’imitazione costituisce uno dei canali attraverso i quali gli organismi comunicano le proprie
emozioni, evocando sentimenti di empatia. Per esempio, se vediamo qualcuno con un’espressione triste,
anche noi tendiamo ad assumere un’espressione analoga. Il feedback sensoriale della nostra espressione
contribuisce a metterci nei panni delle altre persone e ci rende più disponibili a fornire conforto ed assistenza.
12. IL COMPORTAMENTO NUTRITIVO (facoltativo? Solo riassunto)
Meccanismi di regolazione fisiologica
Assunzione di liquidi
Alcune nozioni sul bilancio idrico
Due tipi di sete
Meccanismi neurali della sete
SOMMARIO DELLA PRIMA PARTE
Alimentazione: qualche nozione sul metabolismo
SOMMARIO DELLA SECONDA PARTE
Cosa dà inizio all’assunzione di cibo?
Segnali ambientali
Segnali gastrici
Segnali metabolici
SOMMARIO DELLA TERZA PARTE
Cosa fa cessare l’assunzione di cibo?
Fattori cefalici
Fattori gastrici
Fattori intestinali
Fattori epatici
Insulina
Sazietà a lungo termine: segnali dal tessuto adiposo
SOMMARIO DELLA QUARTA PARTE
Meccanismi cerebrali
Tronco dell’encefalo
Ipotalamo
SOMMARIO DELLA QUINTA PARTE
Obesità
Cause potenziali
Trattamento
SOMMARIO DELLA SESTA PARTE
Anoressia nervosa/Bulimia nervosa
Cause potenziali
Terapia
SOMMARIO DELLA SETTIMA PARTE
IL COMPORTAMENTO NUTRITIVO (Carlson pagg. 393-433)

Meccanismi di regolazione fisiologica


Un meccanismo di regolazione fisiologica ha lo scopo di stabilizzare alcune caratteristiche interne
dell’organismo, in relazione alla variabilità delle condizioni esterne (mantenere la temperatura corporea
costante, nonostante le fluttuazioni della temperatura ambientale) ed è determinato da 4 caratteristiche:
-la variabile di sistema (ciò che va regolato)
-un livello di riferimento (valore ottimale della variabile di sistema)
-un sensore (rileva il valore assunto dalla variabile)
-un meccanismo di correzione (riporta la variabile al livello di riferimento)
I sistemi di regolazione fisiologica, come quelli che assicurano un bilancio equilibrato dei liquidi corporei e delle
sostanze nutritive, esigono un segnale di sazietà che anticipi gli effetti dei meccanismi di correzione, poiché
gli effetti metabolici determinati dall’assunzione di cibo e acqua si registrano solo dopo una latenza
considerevole.

Il corpo possiede tre principali compartimenti liquidi: il liquido intracellulare, il liquido interstiziale (liquido che
bagna le cellule, riempendo lo spazio compreso tra le cellule del corpo) e il liquido intravascolare (dentro ai
vasi sanguigni). Il sodio e l’acqua possono fluire agevolmente tra il liquido intravascolare e il liquido interstiziale
mentre, per quanto riguarda il liquido intracellulare, la membrana di rivestimento delle cellule non permette al
sodio di penetrare all’interno della cellula. La concentrazione dei soluti del liquido interstiziale deve essere
regolata accuratamente, poiché se il liquido diventa ipertonico, le cellule perdono acqua disidratandosi, mentre
se diventa ipotonico ne assorbono in eccesso, rigonfiandosi. Anche il volume del liquido intravascolare
(plasma sanguigno) deve essere necessariamente mantenuto entro limiti ben determinati.

La sete osmometrica insorge quando il liquido interstiziale diviene ipertonico, sospingendo l’acqua fuori delle
cellule. Questo fenomeno, che può verificarsi a seguito della traspirazione dell’acqua dalla superficie del corpo,
oppure dell’ingestione di sale, è rilevato dagli osmocettori dell’OLVT e dell’OSF, organi circumventricolari
localizzati nella lamina terminale. L’attivazione degli osmocettori stimola la sete.
La sete volumetrica insorge in concomitanza alla sete osmometrica, quando l’organismo perde liquidi
attraverso la traspirazione. La sete esclusivamente volumetrica è determinata da emorragia, vomito e diarrea.
Uno stimolo in grado di suscitare la sete volumetrica è rappresentato dalla caduta del livello di perfusione
renale che conduce, di conseguenza, alla secrezione di renina. La renina converte l’angiotensinogeno
plasmatico in angiotensina I. L’angiotensina è successivamente convertita nella sua forma attiva,
l’angiotensina II, che a sua volta agisce sui neuroni dell’OSF e induce sete. L’ormone, inoltre, incrementa la
pressione arteriosa e stimola la secrezione di ormoni ipofisari e surrenali, che inibiscono l’escrezione renale di
acqua e sodio, e inducono fame di sale (il sodio è necessario a restaurare il volume plasmatico). La sete
volumetrica può essere stimolata anche da una serie di barocettori contenuti negli arti del cuore, che rilevano
l’ipovolemia e inviano questa info al cervello.

Un nucleo della lamina terminale, il nucleo preottico mediano, rileva e integra i segnali prodotti sia dalla sete
osmometrica sia da quella volumetrica. L’informazione relativa all’ipovolemia, rilevata dall’angiotensina,
raggiunge il nucleo preottico mediano direttamente dall’OSF.
L’info sull’ipovolemia, rilevata dal sistema dei barocettori atriali sensibili allo stiramento, raggiunge questo
nucleo tramite un relay nel nucleo del tratto solitario. L’info osmometrica arriva al nucleo del tratto solitario
dagli osmocettori sia dell’OVLT sia dell’OSF.
I neuroni del nucleo preottico mediano stimolano l’assunzione di liquidi, tramite le loro connessioni con altre
parti del cervello.

Alimentazione: qualche nozione sul metabolismo


Il processo metabolico si suddivide in due fasi. Durante la fase di assorbimento, il nostro organismo ricava
glucosio, aminoacidi e lipidi dall’intestino. Il livello ematico di insulina si innalza e ciò permette alle cellule di
metabolizzare il glucosio. Inoltre, il fegato e i muscoli trasformano il glucosio in glicogeno, rifornendo la riserva
a breve termine. I carboidrati e gli aminoacidi in eccesso sono trasformati in grassi, che sono accumulati nel
tessuto adiposo, andando a reintegrare la riserva a lungo termine.
Nel corso della fase di digiuno, l’attività del sistema nervoso parasimpatico decresce e quella del sistema
nervoso simpatico aumenta. Di conseguenza, i livelli di insulina precipitano, mentre i livelli d glucagone e delle
catecolamine surrenali aumentano. Questi eventi fisiologici determinano la conversione del glicogeno epatico
in glucosio e la scissione dei trigliceridi in glicerolo e acidi grassi. In assenza di insulina, soltanto il SNC è in
grado di usare il glucosio disponibile nel sangue; il resto del corpo ricorre all’impiego degli acidi grassi. Il fegato
trasforma il glicerolo in glucosio, che è assimilato dalle cellule cerebrali.

Cosa da inizio all’assunzione di cibo?


Numerosi stimoli, ambientali e fisiologici, possono dare inizio all’assunzione di cibo. La selezione naturale ci
ha provvisti di un forte meccanismo per incoraggiarci a mangiare, ma di meccanismi più deboli per prevenire
l’alimentazione eccessiva e l’aumento di peso. Gli stimoli associati al comportamento alimentare- ad esempio,
l’ora del pranzo o della cena segnalata dall’orologio, l’odore, la vista del cibo, o lo stomaca vuoto- stimolano
l’appetito. L’ormone peptidico ghrelin, rilasciato dallo stomaco quand’è vuoto, insieme alla porzione superiore
dell’intestino, è un potente stimolante dell’assunzione di cibo.

Studi realizzati per mezzo di inibitori del metabolismo del glucosio (2-DG o 5-TG) e degli acidi grassi (MP o
MA) indicano che livelli ridotti di entrambe queste sostanze nutritive sono in grado di suscitare la fame; gli
animali, dunque, ingeriscono cibo in risposta sia ad una glucoprivazione sia ad una lipoprivazione. Questi
segnali sono presenti normalmente solo se si saltano diversi pasti. I recettori epatici rilevano sia la
glucoprivazione sia la lipoprivazione e trasmettono l’info al cervello tramite gli assoni sensoriali del nervo vago.
La fame da glucoprivazione può essere stimolata anche interferendo con il metabolismo del glucosio nel
bulbo: quindi, il tronco dell’encefalo contiene i suoi personali glucocettori.

Cosa fa cessare l’assunzione di cibo?


Segnali di sazietà a breve termine controllano le dimensioni di un pasto. Questi segnali includono il feedback
proveniente dal naso e dalla bocca sul valore nutritivo del cibo ingerito, dai fattori gastrici attivati dall’ingresso
del cibo nello stomaco, dai fattori intestinali attivati dal passaggio del cibo dallo stomaco al duodeno, e dai
fattori epatici attivati dalla presenza di sostanze nutritive appena digerite nel sangue dell’arteria epatica.

I segnali a partenza dallo stomaco includono info sul volume e la natura chimica del cibo in esso contenuto.
Anche la caduta della secrezione di ghrelin fornisce al cervello un segnale di sazietà. Sebbene l’ormone ghrelin
sia secreto dallo stomaco, è la presenza di cibo nella porzione superiore dell’intestino a fornire l’info necessaria
ad inibirne la secrezione. Un altro segnale di sazietà di provenienza intestinale è fornito dalla CCK
(colecistochinina), rilasciata dal duodeno non appena riceve del cibo dallo stomaco. L’info relativa alla
secrezione sia d ghrelin sia di CCK sembra esser trasmessa al cervello attraverso gli assoni afferenti del nervo
vago. Anche il PYY, un peptide secreto dopo i pasti dall’intestino, sembra agire da segnale di sazietà. Un altro
segnale di sazietà proviene dal fegato, che è in grado di rilevare le sostane nutritive ricevute dall’intestino
attraverso la vena porta. Infine, sebbene un elevato livello ematico di insulina induca l’alimentazione da
glucoprivazione, livelli moderatamente elevati, associati alla fase metabolica di assorbimento, forniscono un
segnale di sazietà al cervello.

I segnali provenienti dal tessuto adiposo influenzano l’assunzione di cibo su basi temporali prolungate, forse
modulando l’efficacia dei segnali di fame e di sazietà a breve termine. L’alimentazione forzata induce sazietà,
mentre la denutrizione la inibisce. Gli studi effettuati sul topo ob hanno condotto alla scoperta della leptina, un
ormone peptidico secreto dalle cellule adipose colme di trigliceridi, che aumenta il ritmo metabolico e
diminuisce il consumo alimentare.

Meccanismi cerebrali
Il tronco dell’encefalo contiene circuiti neuronali in grado di regolare l’assunzione o il rigetto di cibi dolci o
amari. Questi circuiti sono passibili di modulazione da parte degli indicatori fisiologici che segnalano la sazietà
e la fame, come la riduzione del metabolismo del glucosio o la presenza di cibo nell’apparato digerente. L’area
postrema e il nucleo del tratto solitario (AP/NTS) ricevono segnali da lingua, stomaco, intestino tenue e fegato,
e inviano le info a molte regioni del proencefalo. Questi segnali interagiscono e facilitano il controllo
dell’assunzione di cibo. Le lesioni dell’AP/NTS compromettono sia l’alimentazione da glucoprivazione sia
quella da lipoprivazione. L’ipotalamo laterale contiene due gruppi di neuroni, la cui attività aumenta la fame e
rallenta il metabolismo, attraverso il rilascio di neurotrasmettitori peptidici orexina e MCH (ormone
concentrante la melanina). La deprivazione alimentare aumenta i livelli di questi peptidi, e i topi con una
mutazione mirata contro l’MCH tendono a sottoalimentarsi. Gli assoni di questi neuroni proiettano verso
regioni cerebrali coinvolte nella motivazione, nel movimento e nel metabolismo.
Il rilascio del neuropeptide Y nell’ipotalamo laterale, provoca un comportamento alimentare vorace: un effetto
reso possibile dalla connessione dei neuroni secernenti l’NPY con quelli dell’orexina e dell’MCH. I neuroni NPY
dell’ipotalamo ricevono info dai neuroni bulbari sensibili al glucosio. Sono attivati anche da elevati livelli ematici
di ghrelin. L’infusione di NPY nel nucleo paraventricolare diminuisce il ritmo metabolico. I livelli di NPY
nell’animale aumentano a seguito della deprivazione alimentare e decrescono per effetto dell’assunzione di
cibo. Un farmaco che blocca i recettori per l’NPY inibisce il comportamento alimentare. I neuroni NPY
rilasciano anche un peptide chiamato AGRP. Questo peptide serve da antagonista del recettore MC4 e stimola
l’assunzione di cibo. Anche gli endocannabinoidi, la cui azione è simile a quella del THC (ingrediente attivo
della marijuana) stimolano l’alimentazione, aumentando il rilascio di MCH e orexina. La leptina, l’ormone della
sazietà a lungo termine secreto dal tessuto adiposo saturo di sostanze attive, attutisce la sensibilità cerebrale
ai segnali della fame. Si lega a recettori del nucleo arcuato dell’ipotalamo, esercitando un effetto inibitorio sui
neuroni che secernono NPY, che si ripercuote nell’aumento dell’attività metabolica e nell’inibizione della
condotta alimentare. Il nucleo arcuato contiene neuroni che sintetizzano il CART (trascritto regolare della
cocaina e dell’anfetamina), un peptide che placa la fame. Questi neuroni, che sono attivati dalla leptina,
stabiliscono connessioni inibitorie con i neuroni dell’MCH e dell’orexina dell’ipotalamo laterale. I neuroni CART,
inoltre, secernono un peptide chiamato alfa-MSH che agisce da agonista del recettore MC4 e inibisce
l’alimentazione. Il peptide anorexizzante PYY, rilasciato dal sistema gastrointestinale, inibisce i neuroni NPY.

OBESITÀ, ANORESSIA E BULIMIA (da pag. 421)

Disturbi dell’alimentazione - Molte persone sono soggette all’insorgenza di disturbi alimentari. Alcuni
diventano obesi, altri possono divenire ossessionati dal perdere peso riducendo la quantità di cibo ingerito fino
al punto in cui il calo raggiunge anche un esito fatale. Altri soggetti perdono il controllo della propria condotta
alimentare ingerendo quantità di cibo esagerate e cercando di rimediare per mezzo di potenti lassativi o
provocandosi il vomito.

Obesità - L’obesità è un problema diffuso che può arrecare gravi conseguenze sul piano medico. Negli Stati
Uniti circa il 67% degli uomini e il 62% delle donne sono in sovrappeso. I rischi noti per la salute comprendono
disturbi cardiovascolari, diabete, ictus, artrite e alcune forme di cancro.
Cause potenziali - Differenze genetiche e i loro effetti sullo sviluppo del sistema endocrino e dei meccanismi
cerebrali che controllano la condotta alimentare e il metabolismo sembrano essere responsabili della
stragrande maggioranza dei casi di obesità grave. Il peso corporeo è il risultato della differenza fra due fattori:
calorie ingerite ed energie consumate. Se ingeriamo più calorie di quante ne spendiamo in calore e movimento,
prendiamo peso. Se ne spendiamo più di quante ingeriamo, perdiamo peso. Nella società moderna vi sono
molti cibi ad alto contenuto di grassi, economici che promuovono un incremento delle calorie. I fast food. Nei
negozi e nelle macchinette sono disponibili snack ipercalorici e bevande dolcificate.
Il fruttosio, un dolcificante, non stimola la produzione di insulina e non incrementa la sintesi di leptina: è meno
probabile che attivi i meccanismi cerebrali di sazietà.
Le persone sedentarie nelle attuali società moderne consumano circa 2400 kcal ma ne bruciano solo 300 kcal
in attività fisica. Per bruciare calorie occorre movimento fisico o calore. Il NEAT è la termogenesi da attività
non correlata al movimento.
Differenze nel peso corporeo, nel metabolismo e nei livelli di attività hanno una forte base ereditaria.
L’ereditarietà sembra influenzare l’efficacia metabolica individuale. Le persone differiscono anche in forma di
efficienza. Quelli con metabolismo efficiente risparmiano calorie da depositare nella riserva di nutrienti a lungo
termine, condizione nota come ‘fenotipo parsimonioso’. Le persone con metabolismo inefficiente ‘fenotipo
scialacquatore’ possono consumare pasti abbondanti senza ingrassare.
I geni promuoventi un metabolismo efficiente risultano vantaggiosi per le persone che sono costrette a
svolgere attività pesanti per ottenere il proprio rifornimento alimentare, mentre sfavoriscono coloro che vivono
in un ambiente dalle ridotte richieste fisiche. Molte persone ingrassano con l’età.
A parte la diminuzione dell’attività fisica, alcune prove empiriche suggeriscono la potenziale esistenza di
modificazioni correlate all’età della sensibilità di leptina. Anche una riduzione del 50% del numero dei recettori
di leptina.
Il recettore MC4 è implicato nel controllo dell’alimentazione e del metabolismo. Sembra che la mutazione del
recettore MC4 sia la causa genetica più frequente dell’obesità grave. Un ultimo fattore fisiologico può essere
una sostanza chimica nota come proteina disaccoppiante presente nei mitocondri. Ritenuta uno dei fattori
che determinano la velocità con cui un animale brucia le proprie calorie. Una variabile dell’efficienza
metabolica.
Esistono tre tipo di proteina disaccoppiante: l’UCP3 si trova nei muscoli e gioca il ruolo più importante
nell’efficienza metabolica.
Trattamento dell’obesità - L’obesità è estremamente difficile da trattare. Qualunque sia la causa, il problema
a livello del metabolismo è se le calorie che assumiamo eccedono quelle che bruciamo, il grasso corporeo
aumenta. È difficile aumentare il consumo di calorie di una persona obesa abbastanza da riportare il suo peso
corporeo nella normale. La maggior parte dei trattamenti cercano di limitare l’assunzione di calorie. La
difficoltà che hanno le persone obese a ridurre l’apporto calorico per un periodo prolungato di tempo ha portato
alla creazione di sviluppi straordinari. Metodi chirurgici, farmacologici, comportamentali designati per indurre
le persone obese a mangiare di meno.
Una procedura chirurgica nota come chirurgia bariatrica è finalizzata a ridurre la quantità di cibo che può
essere consumata durante un pasto oppure ad interferire con l’assorbimento delle calorie dell’intestino. La
chirurgia bariatrica riguardo lo stomaco e l’intestino tenue. La procedura chirurgica più comune consiste nel
ridurre le dimensioni dello stomaco. I primi interventi rimuovevano fisicamente parte dello stomaco, metodi
più recenti consistono nella chiusura con punti metallici di una porzione gastrica o nel posizionamento di una
fascia intorno all’organo, cosicché possa dilatarsi solo in modo limitato: procedura nota come gastroplastica
(rimodellamento dello stomaco). Diverse procedure per ridurre l’assorbimento intestinale del cibo
ridispongono l’intestino in modo che il cibo arrivi più in fretta al crasso, lasciando meno tempo
all’assorbimento delle sostanze nutritive. Molti tipo di intervento di bypass intestinale non si limitano ad
interferire con l’assorbimento: riducono anche il consumo di cibo producendo un senso di pienezza.
La forma più efficace di chirurgia bariatrica è un tipo speciale di bypass gastrico denominato bypass gastrico
con ansa a Y alla ROUX. Si confeziona una piccola tasca nell’estremità dello stomaco, si seziona il digiuno
(seconda parte dell’intestino tenue) e si attacca la sua estremità superiore alla tasca gastrica. L’effetto
consiste nel produrre un piccolo stomaco i cui contenuti entrano nel digiuno oltrepassando il duodeno. Un
successo di questa procedura alla ROUX è la compromissione della secrezione di gherlino impedendo la
comunicazione fra la porzione superiore dell’intestino e lo stomaco.
Il trattamento farmacologico sembra promettente. Tre modi sono possibili con cui i farmaci possono aiutare
le persone a perdere peso: ridurre la quantità di cibo ingerita, impedire la digestione di parte del cibo consumato
e aumentare la velocità metabolica. Alcuni agonisti serotoninergici sopprimono la condotta alimentare: la
fenfluramina ha pericolosi effetti collaterali come il danneggiamento delle valvole cardiache e la tensione
polmonare La sibutramina ha effetti simili senza effetti collaterali. Funge anche da antidepressivo, è un
inibitore di tre monoamine: serotonina, norepinefrina, dopamina. Un farmaco in grado di bloccare i recettori
cannabinoidi sopprime l’appetito.

Anoressia nervosa/Bulimia nervosa - L’anoressia nervosa è un disturbo che affligge frequentemente le giovani
donne, è caratterizzata da una preoccupazione esagerata relativa all’aumento di peso che dà adito a diete
drastiche ed esercizio fisico compulsivo. Può condurre ad uno stato grave di denutrizione.
La bulimia nervosa è caratterizzata da accessi di fame ed ingestioni di cibo eccessive, spesso seguiti da
vomito autoindotto o evacuazione mediante lassativi. Si rileva talvolta in persone affette da anoressia nervosa.
Le donne hanno una probabilità maggiore di sviluppare anoressia nervosa rispetto agli uomini. Il fatto che si
manifesti principalmente nelle donne ha dato adito a ipotesi eziologiche di natura sia biologia sia sociale. I
successi terapeutici non sono incoraggianti: meno del 50% mostra una guarigione completa; dal 5 al 10% si
suicida o muore per complicazioni. Molti soggetti anoressici sono afflitti da osteoporosi. Nelle donne quando
il calo ponderale raggiunge livelli di guardia, le mestruazioni spariscono. Riscontri indicano un restringimento
del tessuto cerebrale. I ricercatori hanno tentato di individuare un trattamento per l’anoressia nervosa
attraverso la sperimentazione di numerose sostanze farmacologiche efficaci nell’aumentare l’appetito in
soggetti non anoressici o in animali da laboratorio per esempio farmaci antipsicotici, sostanze stimolanti, L-
DOPA, THC. Nessuna di queste sostanze di queste sostanze si è rivelata untile allo scopo.
Gli studiosi hanno ottenuto maggiori successi nella ricerca sulla bulimia nervosa: gli agonisti della serotonina,
come la fluoxetina (Prozac, farmaco antidepressivo) possono coadiuvare il trattamento di questo disturbo. La
fluoxetina non aiuta invece i pazienti anoressici. L’anoressia e la bulimia nervosa sono condizione morbose
gravi.
13. APPRENDIMENTO E MEMORIA
La natura dell’apprendimento
SOMMARIO DELLA PRIMA PARTE
Plasticità sinaptica: potenziamento a lungo termine e depressione a lungo termine
Induzione del potenziamento a lungo termine
Ruolo dei recettori NMDA
Meccanismi di plasticità sinaptica
Depressione a lungo termine
Altre forme di potenziamento a lungo termine
SOMMARIO DELLA SECONDA PARTE
Apprendimento percettivo
Apprendere a riconoscere stimoli visivi
Memoria percettiva a breve termine
SOMMARIO DELLA TERZA PARTE
Condizionamento classico
SOMMARIO DELLA QUARTA PARTE
Condizionamento operante
Gangli della base
Rinforzo
SOMMARIO DELLA QUINTA PARTE
Apprendimento associativo
Amnesia anterograda nell’uomo
Abilità di apprendimento risparmiate
Memoria dichiarativa e memoria non-dichiarativa
Anatomia dell’amnesia anterograda
Ruolo della formazione ippocampale nel consolidamento delle memorie dichiarative
Memorie episodiche e semantiche
Memoria spaziale
Apprendimento associativo negli animali da laboratorio
SOMMARIO DELLA SESTA PARTE
APPRENDIMENTO E MEMORIA (Carlson pagg. 434-478)
Introduzione

L'apprendimento è un cambiamento relativamente permanente che deriva da nuova esperienza o dalla pratica
di nuovi comportamenti, ovvero una modificazione di un comportamento complesso, abbastanza stabile nel
tempo, derivante dalle esperienze di vita e dalle attività dal soggetto.
Dal punto di vista psicologico, l'apprendimento è dunque una funzione dell'adattamento di un soggetto
risultante dall'esperienza di un problema o contesto nuovo, ovvero un processo attivo di acquisizione di
comportamenti stabili in funzione dell'adattamento ai cambiamenti nell'ambiente, che costituiscono per il
soggetto problemi da risolvere. In sostanza, dunque, apprendere vuol dire acquisire nuove modalità di agire o
reagire, per adattarsi ai cambiamenti dei contesti ambientali, compresi i contesti relazionali.
Esistono due tipi principali di apprendimento: l’apprendimento associativo e l’apprendimento non
associativo. L’apprendimento non associativo è quello relativo a un singolo stimolo e include l’abituazione e
la sensibilizzazione. Sia l’abituazione che la sensibilizzazione sono di breve durata: permangono da qualche
minuto a poche ore. L’abituazione è un tipo di apprendimento non associativo caratterizzato dalla diminuzione
di una risposta comportamentale a uno stimolo innocuo. Al contrario, la sensibilizzazione è un tipo di
apprendimento non associativo caratterizzato dall’aumento della risposta comportamentale a uno stimolo
intenso. La sensibilizzazione di solito si verifica quando si presenta a un organismo uno stimolo nocivo o
dannoso. L’apprendimento associativo è molto più complesso di quello non associativo, perché implica
l’apprendimento delle relazioni tra gli eventi. Include, tra le altre cose, il condizionamento classico, il
condizionamento operante e l’apprendimento complesso.

La natura dell’apprendimento

L’apprendimento è il processo mediante il quale le esperienze cambiano il nostro sistema nervoso e quindi il
comportamento. Noi chiamiamo questi cambiamenti ricordi. I ricordi cambiano quindi il comportamento
fisicamente le strutture del sistema nervoso, alterando i circuiti neurali implicati in percezione, azione, pensiero
e pianificazione. L’apprendimento può assumere almeno quattro forme base: apprendimento percettivo,
apprendimento stimolo-risposta, apprendimento motorio e apprendimento associativo.
L’apprendimento percettivo è la capacità di imparare a riconoscere stimoli percepiti in precedenza. La
funzione primaria di questo tipo di apprendimento consiste nella capacità di identificare e categorizzare
oggetti e situazioni. Se non abbiamo imparato a riconoscere qualcosa non possiamo apprendere come
comportarci nei suoi confronti. Ciascuno dei nostri sistemi sensoriali è in grado di apprendere percettivamente.
Sembra che l’apprendimento percettivo si realizzi sostanzialmente mediante cambiamenti della corteccia
associativa, per cui imparare a riconoscere stimoli visivi complessi implica cambiamenti nella corteccia
associativa visiva, imparare a riconoscere stimoli uditivi complessi implica cambiamenti nella corteccia
associativa uditiva e così via.
L’apprendimento stimolo-risposta è la capacità di imparare ad eseguire un determinato comportamento in
presenza di uno specifico stimolo. L’apprendimento stimolo-risposta include due categorie principali di
apprendimento, che gli psicologi hanno studiato a lungo termine: il condizionamento classico e il
condizionamento operante. Più di cinquanta anno fa, Donald Hebb propose un principio che potrebbe spiegare
come l’esperienza cambia i neuroni, causando cambiamenti nel comportamento. La legge di Hebb sostiene
che se una sinapsi si attiva ripetutamente, quasi nello stesso momento in cui scarica un neurone post-
sinaptico, la struttura o la chimica della sinapsi subirà dei cambiamenti, rinforzandosi. Se due eventi
avvengono contemporaneamente, finiscono per essere associati, nel senso che l'attivazione del ricordo di uno
dei due induce anche l'attivazione dell’altro. L'associazione tra neurone pre- e post-sinaptico viene rafforzata
quando c’è co-occorrenza dell’attivazione pre- e post-sinaptica causata da un evento esterno (lo stimolo
incondizionato).
L’apprendimento motorio è parte dell’apprendimento stimolo-risposta. Per semplicità, possiamo considerare
l’apprendimento percettivo come lo stabilirsi di cambiamenti all’interno dei sistemi sensoriali del cervello,
l’apprendimento stimolo-risposta come lo stabilirsi di connessioni tra sistemi sensoriali e sistemi motori, e
l’apprendimento motorio come lo stabilirsi di cambiamenti all’interno dei sistemi motori. Ma, nei fatti,
l’apprendimento motorio non può verificarsi senza una guida sensoriale dell’ambiente. Per esempio, molti
movimenti appresi coinvolgono interazioni con gli oggetti; persino l’apprendimento dei movimenti che
riguardano solo noi stessi, come alcuni passi solitari di danza, necessitano di un feedback dalle articolazioni,
dai muscoli, dall’apparato vestibolare, dagli occhi e dal contatto dei piedi con il pavimento. L’apprendimento
motorio differisce da altre forme di apprendimento principalmente per il grado in cui le nuove forme di
apprendimento sono apprese: più recente è il comportamento, tanto più dovranno essere modificati i circuiti
neurali del sistema motorio.
Anche la percezione della localizzazione spaziale, l’apprendimento spaziale, implica un apprendimento di
relazioni tra stimoli. Per esempio, quando dobbiamo acquisire familiarità con una stanza nuova, dobbiamo
imparare a riconoscere ogni oggetto, poi dobbiamo imparare le posizioni relative degli oggetti, gli uni rispetto
agli altri. Come risultato, quando siamo in una particolare posizione della stanza, la percezione degli oggetti e
della loro posizione rispetto a noi dice esattamente dove siamo. Altri tipi di apprendimento associativo sono
ancora più complessi: la memoria episodica – il ricordo di sequenze di eventi che abbiamo vissuto – richiede
di conservare traccia non soltanto di stimoli singoli, ma anche dell’ordine nel quale essi si sono presentati.

Plasticità sinaptica: potenziamento a lungo termine e depressione a lungo termine


Basandosi soltanto su considerazioni teoriche, possiamo affermare che l’apprendimento necessita di
plasticità neurale: cambiamenti nella struttura o nella biochimica delle sinapsi che alterano il loro effetto sui
neuroni post-sinaptici.
Con il termine potenziamento a lungo termine ci si riferisce ad una forma di plasticità sinaptica che consiste
in un aumento a lungo termine della trasmissione del segnale tra due neuroni, ottenuto stimolandoli in maniera
sincrona. Si intende un particolare processo fisiologico caratterizzato da una serie di modificazioni molecolari
indotte da una stimolazione tetanica sulla funzione e sulla microstruttura di una o più giunzioni sinaptiche. Per
indurre potenziamento a lungo termine è necessario che la membrana post-sinaptica sia depolarizzata
nell'intervallo di tempo in cui il terminale pre-sinaptico libera
glutammato. Si può ottenere sperimentalmente questa situazione usando glutammato la stimolazione
tetanica. Il legame con il glutammato apre i canali dei recettori AMPA (in cui passano ioni sodio e potassio),
mentre la depolarizzazione che ne consegue fa staccare gli ioni magnesio per repulsione elettrostatica dai
recettori NMDA consentendo il passaggio (oltre al sodio e al potassio) anche agli ioni calcio. Il calcio è
l'elemento centrale del processo perché, una volta raggiunta una certa concentrazione nella cellula, è in grado
di attivare un processo per cui i recettori AMPA presenti nella cellula vengono trasferiti sulla membrana e i
recettori già presenti lasciano passare una maggiore quantità di ioni. La sinapsi risulta così rinforzata.
Stimolazioni elettriche dei circuiti all’interno della formazione ippocampale possono indurre cambiamenti
sinaptici a lungo termine, che sembrano responsabili dell’apprendimento. Lomo scoprì che stimolazioni
elettriche degli assoni della corteccia entorinale, fino al giro dentato, causano un incremento a lungo termine
nelle entità e nei potenziali post-sinaptici eccitatori dei neuroni post-sinaptici; questo incremento è stato
chiamato potenziamento a lungo termine un aumento a lungo termine nell’eccitabilità di un neurone ad un
particolare input sinaptico, a causa dell’attività ripetuta ad alta frequenza di quell’input.
La formazione ippocampale – una struttura telencefalica del lobo temporale, che costituisce una parte
importante del sistema limbico e include l’ippocampo, il giro dentato e il subiculum – è una regione
specializzata della corteccia limbica, situata nel lobo temporale.
Gli impulsi primari alla formazione ippocampale vengono dalla corteccia entorinale. Gli assoni della corteccia
entorinale passano attraverso la via perforante e formano sinapsi con le cellule granulari del giro dentato. Si
inseriscono un elettrodo di stimolazione nella via perforante e un elettrodo di registrazione nel giro dentato,
vicino alle cellule granulari. Per prima cosa, si invia un singolo impulso elettrico alla via perforante e si registra
nel giro dentato il risultante potenziale post-sinaptico eccitatorio di popolazione un potenziale evocato che
rappresenta il potenziale post-sinaptico eccitatorio di una popolazione di neuroni. L’ammontare del primo
potenziale post-sinaptico eccitatorio di popolazione indica la forza della connessione sinaptica, prima che si
verifichi il potenziamento a lungo termine. Il potenziamento a lungo termine può essere indotto stimolando gli
assoni nella corteccia perforante, tramite un treno di impulsi di circa un centinaio di stimolazioni elettriche,
somministrate in pochi secondi. Prove del potenziamento a lungo termine sono ottenute somministrando
periodicamente singoli impulsi nella corteccia perforante e registrando la risposta nel giro dentato: se la
risposta è maggiore di quella registrata prima della somministrazione del treno di impulsi, si è verificato un
potenziamento a lungo termine. Il potenziamento a lungo termine può essere prodotto in altre regioni della
formazione ippocampale e in altre aree del cervello; la sua durata può essere di diversi mesi.
Molti esperimenti hanno dimostrato che il potenziamento a lungo termine segue la legge di Hebb; cioè, quando
stimoliamo approssimativamente nello stesso momento sinapsi deboli e forti, che hanno terminazioni sullo
stesso neurone, le sinapsi deboli si rafforzano. Questo fenomeno è chiamato potenziamento associativo a
lungo termine, un potenziamento a lungo termine nel quale la stimolazione concorrente di sinapsi deboli e
forti di un dato neurone rinforza quelle deboli.
Ruolo dei recettori NMDA - Il potenziamento a lungo termine non associativo richiede alcuni effetti additivi.
Cioè, una serie di impulsi somministrati ad alta frequenza, tutti in un unico treno, produrranno potenziamento
a lungo termine, ma lo stesso numero di impulsi con frequenza più bassa non produrrà il medesimo risultato.
Un ritmo rapido di stimolazioni fa sì che i potenziali post-sinaptici eccitatori si sommino, poiché ogni potenziale
post-sinaptico eccitatorio successivo si verifica prima che il presedente si sia dissipato; ciò significa che la
stimolazione rapida depolarizza la membrana post-sinaptica molto più della stimolazione lenta.
Diversi esperimenti hanno dimostrato che il rafforzamento delle sinapsi si verifica quando le molecole del
neurotrasmettitore si legano con i recettori post-sinaptici situati su una spina dendritica già depolarizzata.
La spiegazione di tale fenomeno, almeno per alcune zone del cervello, dipende da alcune caratteristiche di un
tipo speciale di recettore del glutammato: il recettore NMDA, un recettore glutammatergico ionotropico
specializzato che controlla un canale calcio, che normalmente è bloccato dagli ioni magnesio.
Questo recettore possiede alcune proprietà particolari: è localizzato nella formazione ippocampale e prende il
nome dalla sostanza che lo attiva in modo specifico: l’N-metil-D-aspartato. Il recettore NMDA controlla un
canale per gli ioni calcio, che normalmente è bloccato da uno ione magnesio che impedisce agli ioni calcio di
penetrare nella cellula, persino quando i recettori sono stimolati dai glutammato. Se la membrana post-
sinaptica si depolarizza, il magnesio è espulso dal canale ionico e il canale è libero di accettare ioni-calcio.
Perciò, gli ioni calcio entrano nelle cellule attraverso i canali controllati dai recettori NMDA soltanto quando è
presente il glutammato e le membrane post-sinaptiche sono depolarizzate; ciò significa che il canale ionico
controllato dal recettore NMDA è un canale neurotrasmettitore e voltaggio dipendente.

• I recettori AMPA aprono un canale per il sodio quando si legano al glutammato


• I recettori NMDA hanno uno ione magnesio che impedisce l’apertura del canale
• Il canale del recettore NMDA si apre solo quando:
– arriva il glutammato dalla cellula pre- sinaptica…
– …ed il magnesio è stato espulso perché la cellula postsinaptica è già depolarizzata

Meccanismi di plasticità sinaptica

Qual è il meccanismo responsabile dell’aumento della forza di una sinapsi che ha luogo durante il
potenziamento a lungo termine?
Le spine dendritiche sulle cellule piramidali ippocampali contengono due tipi di recettore per il glutammato: il
recettore NMDA e il recettore AMPA, un recettore glutammatergico ionotropico che controlla un canale sodio;
quando è aperto, produce potenziali post-sinaptici eccitatori.
Le ricerche hanno indicato che il rafforzamento di una sinapsi individuale sembra essere dovuto
all’inserimento di ulteriori recettori AMPA sulla membrana post-sinaptica della spina dendritica. I recettori
AMPA controllano i canali del sodio: quindi, quando sono attivati dal glutammato, producono un potenziale
postsinaptico eccitatorio nella membrana della spina dendritica. Perciò, con la presenza di più recettori AMPA,
il rilascio di glutammato da parte del bottone terminale causa un potenziale postsinaptico più grande; in altre
parole, la sinapsi diviene più forte. L’induzione di potenziamento a lungo termine fa spostare i recettori AMPA
nelle membrane postsinaptiche delle spine dendritiche dalle regioni adiacenti, non sinaptiche, dei dendriti.
Diversi minuti dopo si osservano recettori AMPA che, dall’interno della cellula, si spostano sull’asse del
dendrite, per sostituire quelli che erano stati inseriti nella membrana post-sinaptica delle spine dendritiche.
Altre due modificazioni associate al potenziamento a lungo termine consistono in un’alterazione della struttura
sinaptica con produzione di nuove sinapsi. Molti studi hanno rilevato che l’induzione di un potenziamento a
lungo termine include anche modificazioni di dimensioni e forma delle spine dendritiche: il potenziamento a
lungo termine causa l’ingrossamento delle spine più sottili. L’induzione di un potenziamento a lungo termine
causa la crescita di nuove spine dendritiche; dopo un periodo compreso tra 15 e 19 ore, le nuove spine formano
connessioni sinaptiche con i bottoni terminali degli assoni adiacenti.
I ricercatori ritengono che il potenziamento a lungo termine possa implicare anche modificazioni presinaptiche
nelle sinapsi esistenti, come un incremento della quantità di glutammato rilasciata dal bottone terminale.
Per diversi anni dopo la sua scoperta, i ricercatori ritennero che il potenziamento a lungo termine implicasse
un singolo processo. Da allora, è divenuto chiaro che il potenziamento a lungo termine consiste in diversi stadi:
il implica il processo di depolarizzazione potenziamento a lungo termine precoce della membrana, rilascio di
glutammato, attivazione dei recettori NMDA, ingresso degli ioni calcio e spostamento dei recettori AMPA nella
membrana post-sinaptica. Il potenziamento a lungo termine di lunga durata necessita della sintesi proteica.
Frey e i suoi colleghi scoprirono che le sostanze che bloccano la sintesi proteica possono interrompere il
consolidamento a lungo termine di lunga durata. Da molti anni i ricercatori hanno realizzato che un enzima
speciale, il PKM-zeta, gioca un ruolo speciale in questo processo.
Per molti anni i neuroscienziati hanno cercato di comprendere quali meccanismi nel nostro cervello rendono
possibile ai ricordi di animali che vivono per lungo tempo come noi di durare così a lungo. Adesso è chiaro che
il potenziamento a lungo termine di lunga durata è alla base di alcune forme di memoria molto importanti, il
che significa che dobbiamo comprendere cos’è che fa durare così a lungo il potenziamento a lungo termine di
lunga durata. La proteina PKM-zeta è necessaria e sufficiente per il potenziamento a lungo termine di lunga
durata. L’infusione di PKM-zeta nelle cellule piramidali della formazione ippocampale produce potenziamento
a lungo termine persino senza la stimolazione dei recettori NMDA o l’ingresso di ioni calcio, e l’infusione di un
farmaco che blocca la proteina PKM-zeta abolisce sia il potenziamento a lungo termine di lunga durata che
alcune forme di memorie a lungo termine in molte parti del cervello.

Depressione a lungo termine - Per depressione a lungo termine si intende una diminuzione a lungo termine
dell’eccitabilità di un neurone per un particolare input sinaptico, causata dalla stimolazione del bottone
terminale mentre la membrana postsinaptica è iperpolarizzata o debolmente depolarizzata.
La depressione a lungo termine gioca anch’essa un ruolo importante nell’apprendimento. Sembra che i circuiti
neurali che contengono i ricordi si stabiliscano grazie al rafforzamento di alcune sinapsi e all’indebolimento di
altre. I ricercatori hanno rilevato che le frequenze al di sopra dei 10 Hz causano potenziamento a lungo termine,
mentre quelle al di sotto dei 10 Hz inducono depressione a lungo termine.
Entrambi questi effetti sono eliminati dall’applicazione di un bloccante per i recettori NMDA: quindi, entrambi
richiedono l’attivazione dei suddetti recettori. La depressione a lungo termine sembra coinvolgere una
riduzione del numero dei recettori AMPA in queste spine. E proprio come i recettori AMPA si inseriscono nelle
spine dendritiche durante il potenziamento a lungo termine, essi vengono rimossi dalle spine nelle vescicole
durante la depressione a lungo termine.
La depressione a lungo termine implica l’attivazione dei recettori NMDA; ma come può l’attivazione degli stessi
recettori produrre effetti opposti? Una risposta è suggerita da Lisman, che ha notato che la stimolazione
sostenuta a bassa frequenza delle sinapsi sulle cellule piramidali produce depressione a lungo termine e
causerebbe un modesto ma prolungato incremento del calcio, mentre l’intensa stimolazione ad alta frequenza
che produce il potenziamento a lungo termine indurrebbe un incremento molto maggiore di calcio. Forse,
aumenti piccoli e grandi degli ioni calcio intracellulari innescano meccanismi differenti.

Apprendimento percettivo

L’apprendimento ci permette di adattarci al nostro ambiente e di rispondere ai cambiamenti che avvengono al


suo interno. In particolare, ci fornisce la capacità di eseguire un comportamento adatto ad una specifica
situazione. L’apprendimento percettivo consiste nell’imparare a riconoscere le cose, indipendentemente da
cosa fare quando esse sono presenti. L’apprendimento percettivo può riguardare l’imparare a riconoscere
stimoli completamente nuovi, oppure a riconoscere cambiamenti e variazioni in situazioni familiari.

Apprendere a riconoscere stimoli visivi - Nei mammiferi con cervelli grandi e complessi, i neuroni della
corteccia associativa visiva si occupano del riconoscimento degli oggetti. La corteccia visiva primaria riceve
informazioni dal nucleo genicolato laterale del talamo; dopo il primo livello di analisi, l’informazione è inviata
alla corteccia extrastriata, che circonda la corteccia visiva primaria. Dopo l’analisi degli specifici attributi della
scena visiva, le sottoregioni della corteccia extrastriata inviano il risultato della loro analisi al livello successivo
della corteccia associativa visiva, attraverso due canali, l’uno ventrale e l’altro dorsale. Il canale ventrale,
coinvolto nel riconoscimento degli oggetti, comincia nella corteccia extrastriata e continua ventralmente nella
corteccia temporale inferiore; il canale dorsale, che elabora la percezione della localizzazione degli oggetti,
comincia nella corteccia extrastriata del lobo occipitale, ma continua dorsalmente nella corteccia parietale
posteriore. Molti studi hanno dimostrato che lesione che danneggiano la corteccia temporale inferiore, che fa
parte del canale ventrale, compromettono la capacità di discriminare fra stimoli visivi differenti. Queste lesioni
compromettono la capacità di percepire particolari tipi di informazione visiva.
L’apprendimento percettivo chiaramente implica cambiamenti nelle connessioni sinaptiche nella corteccia
visiva associativa, che stabiliscono nuovi circuiti neurali; in seguito, quando ci si rende conto che lo stimolo e
il pattern di attività è lo stesso di quello appreso in precedenza, si riattivano gli stessi circuiti.
È stato scoperto che, quando viene stimolata la corteccia visiva e la corteccia uditiva di associazione nel corso
di interventi chirurgici contro l’epilessia, i pazienti riportavano ricordi di immagini o suoni: per esempio,
immagini di strade familiari o il suono della voce della loro madre. La lesione delle regioni cerebrali coinvolte
nella percezione visiva non solo compromette la capacità di riconoscere gli stimoli visivi, ma danneggia anche
la memoria individuale sulle proprietà di stimoli familiari.

Memoria percettiva a breve termine - Spesso è sufficiente riconoscere gli stimoli, ma a volte la situazione
richiede che emettiamo la risposta appropriata dopo un intervallo di tempo, addirittura quando lo stimolo non
è più visibile. Per esempio, immaginiamo di dover parcheggiare il più vicino possibile ad un negozio; ci
guardiamo alla nostra sinistra, poi alla nostra destra; dobbiamo comparare mentalmente le distanze dei due
parcheggi disponibili a destra e a sinistra, poi prendere una decisione. In altre parole, dobbiamo confrontare
una percezione con la memoria a breve termine di qualcosa che abbiamo appena percepito. La memoria a
breve termine di uno stimolo necessita l’attivazione di alcuni circuiti che continuano ad essere attivati anche
quando lo stimolo non è più percepibile.
Studi di imaging funzionale hanno dimostrato che la ritenzione di specifici tipi di memorie visive a breve
termine richiede l’attivazione di specifiche regioni della corteccia visiva di associazione. Una regione della via
ventrale, l’area fusiforme della faccia, è implicata nel riconoscimento di volti, e un’altra regione, l’area
paraippocampale delle place cell, è responsabile del riconoscimento dei luoghi.
Sebbene i circuiti neurali responsabili dell’acquisizione della capacità di riconoscere stimoli particolari
sembrino risiedere nella corteccia sensoriale di associazione, la memoria percettiva a breve termine coinvolge
anche altre regioni cerebrali, in particolare la corteccia prefrontale. È stato ipotizzato che il ruolo della corteccia
prefrontale nella memoria a breve termine consiste nel manipolare ed organizzare le informazioni da ricordare,
mettere a punto strategie di recupero, e monitorare i risultati di questi processi.

Condizionamento classico

Il condizionamento classico è un processo appreso in cui uno stimolo condizionato (SC) che precede uno
stimolo incondizionato (SI) diventa un segnale per lo SI ed elicita una risposta condizionata (RC) che spesso
somiglia alla risposta incondizionata (RI).
Affinché si verifichi il condizionamento classico, lo SC deve essere un predittore attendibile dello SI; in poche
parole, deve esserci una maggiore probabilità che si presenti lo SI in seguito allo SC, piuttosto che in sua
assenza.

Gli esperimenti di Pavlov - Il primo approccio comportamentista di studio dell'apprendimento fu il cosiddetto


apprendimento di tipo associativo per contingenza temporale (condizionamento classico) di Ivan Pavlov.
Questo approccio studia il processo dell'apprendimento mediante l'associazione stimolo-risposta. Pavlov, un
fisiologo, studiò il condizionamento osservando in laboratorio una reazione di salivazione di un cane, non solo
di fronte al cibo, ma anche di conseguenza del campanello che introduceva il cibo. L'elemento centrale di
questo modello è l'associazione di uno stimolo condizionato SC (per sua natura neutro e non rilevante, come
per esempio il suono di un campanello) ad una risposta riflessa RI (salivazione per il cibo, detta risposta
incondizionata, poiché è innata, e non deve essere appresa). Il cibo rappresenta invece lo stimolo
incondizionato, SI poiché è l'elemento che causa la risposta naturale spontanea, non appresa. Se tale
associazione avviene in un breve lasso di tempo, questo porta ad una risposta condizionata RC (salivazione)
anche di fronte allo stimolo condizionato (campanello) e non solo allo stimolo incondizionato (cibo). I
neuroscienziati hanno studiato l’anatomia e la fisiologia del condizionamento classico, ed è stata studiata
soprattutto la risposta emozionale condizionata.
L’amigdala è parte di un importante sistema coinvolto nell’apprendimento di una risposta emozionale
condizionata. Uno stimolo avversivo produce una varietà di risposte comportamentali, vegetative e ormonali:
immobilizzazione, aumento della pressione arteriosa, secrezione di ormoni da parte del surrene e secrezione
di ormoni dello stress. Una risposta emotiva condizionata si stabilisce accoppiando uno stimolo neutrale a
uno stimolo avversivo, e può verificarsi senza la partecipazione della corteccia uditiva.
Le informazioni relative allo stimolo condizionato raggiungono il nucleo laterale dell’amigdala. Questo nucleo
riceve anche le informazioni relative allo stimolo incondizionato dal sistema somatosensoriale; quindi, le due
fonti di informazione convergono nel nucleo laterale, il che significa che i cambiamenti sinaptici responsabili
dell’apprendimento potrebbero verificarsi in questo sito.

Il nucleo laterale dell’amigdala contiene neuroni i cui assoni proiettano al nucleo centrale. Quando un ratto
entra in contatto con uno stimolo doloroso, si attivano le sinapsi forti del nucleo laterale; di conseguenza, i suoi
neuroni cominciano a scaricare, il che attiva i neuroni del nucleo centrale, evocando una risposta emozionale
incondizionata. Se allo stimolo doloroso si associa un tono, le sinapsi deboli dell’amigdala laterale si rafforzano
per effetto della legge di Hebb.
Le prove empiriche raccolte in molti studi sostengono l’ipotesi secondo cui le modificazioni dell’amigdala
laterale responsabili dell’acquisizione di una risposta emozionale condizionata implicano il potenziamento a
lungo termine. Il potenziamento a lungo termine si realizza, in molte parti del cervello, attraverso l’attivazione
di recettori NMDA e l’inserimento dei recettori AMPA nella membrana postsinaptica.
Il potenziamento a lungo termine nell’amigdala laterale, mediato dai recettori NMDA e mantenuto dalla
proteina PKM-zeta, gioca un ruolo critico nella formazione delle risposte emozionali condizionate.

Il condizionamento operante

Il condizionamento operante è il mezzo mediante il quale noi umani (ma anche altri animali) traiamo profitto
dall’esperienza. Se, in una particolare situazione, emettiamo una risposta che produce esiti favorevoli,
tenderemo a produrre nuovamente quella risposta.
Nel condizionamento classico, la risposta condizionata spesso somiglia alla risposta normale allo stimolo
incondizionato. Ma quando si vuole insegnare a un organismo qualcosa di nuovo, non si può usare il
condizionamento classico. Nel condizionamento operante, si apprendono certe risposte perché i soggetti
operano sull’ambiente, cioè lo influenzano. L’organismo non si limita a reagire agli stimoli, ma si comporta in
modi designati a produrre alcuni cambiamenti nel suo ambiente. Questo condizionamento è detto operante
perché basato su operazioni legate ai muscoli volontari. In questo caso infatti l'apprendimento non avviene a
livello di riflessi come nel condizionamento rispondente, ma di operazioni motorie più complesse.

Gli esperimenti di Skinner - Dei cambiamenti nel modo in cui i ricercatori concettualizzano il condizionamento
operante si devono a B. Skinner.

(Ricordi psicologia generale? Il setting di ricerca entro cui Skinner ha sviluppato questa teoria, prende il nome
da questo ricercatore, la Skinner box. Nel suo interno c'è un topo che necessita di premere un tasto o spingere
una leva per aprire una dispensa di cibo. L'animale affamato, in condizione di alta attivazione motivazionale
viene spinto alla ricerca del cibo. Per prove ed errori inavvertitamente il topo premerà il giusto meccanismo
per arrivare al cibo, che funge da rinforzo positivo. Questo comportamento, rinforzato, tende ad essere sempre
più frequente, fino a quando l'animale arriva a premere direttamente la leva giusta. A questo punto l'animale
ha appreso, anche senza comprenderla, un'operazione - interazione volontaria complessa - condizionata dal
rinforzo positivo del cibo.)

Il condizionamento operante aumenta la probabilità di una risposta, facendo seguire il comportamento da un


rinforzo. Per rinforzo si intende il processo tramite il quale l’offerta di uno stimolo appetitivo o l’eliminazione
di uno stimolo avversivo aumenta la probabilità di un comportamento. La punizione è l’opposto del rinforzo.
Si tratta del processo tramite il quale la somministrazione di uno stimolo avversivo è l’eliminazione di uno
stimolo appetitivo riduce la probabilità di un comportamento.

Gangli della base - Il condizionamento operante richiede il rafforzamento delle connessioni tra i circuiti neurali
che rilevano uno stimolo e i circuiti neurali che producono una particolare risposta. I circuiti responsabili del
condizionamento, dove operante hanno origine in diverse regioni della corteccia associativa sensoriale ha
luogo la percezione, e terminano nella corteccia associativa motoria del lobo frontale, che controlla i
movimenti. Ma quali vie sono responsabili di queste connessioni, e dove avvengono i cambiamenti sinaptici
responsabili dell’apprendimento?
Ci sono due vie principali tra la corteccia associativa sensoriale e la corteccia associativa motoria: connessioni
transcorticali dirette e connessioni che passano dai gangli della base e dal talamo. Entrambe queste vie sono
importanti per il condizionamento operante, ma hanno ruoli differenti.
Insieme alla formazione ippocampale, le connessioni transcorticali sono implicate nell’acquisizione di
memorie episodiche: memorie percettive complesse di sequenze di eventi cui abbiamo assistito o che ci sono
state descritte. Le connessioni transcorticali sono coinvolte anche nell’acquisizione di comportamenti
complessi che richiedono ponderazione o istruzioni, come, per esempio, imparare a guidare una macchina.
Una serie di regole a memoria ci fornisce un copione da seguire. Naturalmente, non c’è bisogno che questo
processo sia udibile o coinvolga movimenti attivi dei muscoli che servono per parlare: una persona può
pensare in parole, con un’attività neurale che non dà origine ad un comportamento manifesto.
Inizialmente, un comportamento messo in atto utilizzando l’osservazione o seguendo una serie di regole,
risulta lento e poco accurato; poiché nel recupero delle regole e della loro applicazione al nostro
comportamento sono impegnate molte risorse cerebrali, non possiamo rispondere ad altri stimoli
dell’ambiente: dobbiamo ignorarli ed evitare di distrarci.
Successivamente, con la pratica, il comportamento diventa più fluido, fino a quando lo eseguiamo senza
pensarci e possiamo fare altre cose nello stesso momento, come sostenere una conversazione con il
passeggero mentre guidiamo in macchina.
Le prove empiriche suggeriscono che quando i comportamenti appresi diventano automatici sono trasferiti ai
gangli della base. Il processo sembra svolgersi trasferiti ai gangli della base. nel modo seguente: quando
eseguiamo un comportamento complesso in modo volontario, i gangli della base ricevono informazioni sugli
stimoli presentati e la risposta che stiamo emettendo, ma all’inizio i gangli della base sono soltanto degli
“osservatori” passivi della situazione; con il continuo ripetersi del comportamento cominciamo ad apprendere
cosa fare, fino a che, alla fine, i gangli della base di fanno carico della maggior parte dei dettagli del processo,
lasciando i circuiti transcorticali liberi di fare qualcos’altro. Non abbiamo bisogno di pensare a quello che
stiamo facendo.

Il neostriato, composto dal nucleo caudato e dal putamen,


Corteccia Cerebrale riceve informazioni sensoriali da tutte le regioni della
Lobi Frontali corteccia cerebrale. Esso riceve informazioni anche dai lobi
frontali riguardo i movimenti pianificati o in corso. Gli
Area Premotoria Nucleo Caudato output provenienti da nucleo caudato e putamen sono
inviati a un’altra porzione dei gangli della base: il globo
Area Motoria Putamen pallido; da qui, le informazioni passano alla corteccia
Supplementare frontale: alla corteccia premotoria e motoria
supplementare, dove sono pianificati i movimenti, e alla
Area Motoria Neostriato corteccia motoria primaria, dove sono eseguiti. Studi con
Primaria animali da laboratorio hanno evidenziato che lesioni dei
nuclei della base disturbano il condizionamento operante,
Globo
Pallido
ma non influenzano altre forme di apprendimento.
Il trasferimento delle memorie dai sistemi cerebrali
coinvolti nell’acquisizione delle sequenze comportamentali
a quelli implicati nell’immagazzinamento delle procedure automatiche avviene a livello dei gangli della base:
lo striato dorsomediale del ratto è reciprocamente connesso con la corteccia prefrontale, mentre lo striato
dorsolaterale del ratto è reciprocamente connesso alle regioni sensoriali e motorie della corteccia.

Rinforzo

L’apprendimento è il mezzo che ci permette di trarre profitto dall’esperienza, di produrre risposte che
forniscono esiti piacevoli. Quando si verificano eventi favorevoli, i meccanismi di rinforzo nel cervello si
attivano e facilitano lo stabilizzarsi dei cambiamenti sinaptici.
Il sistema nigrostriale (vedi immagine pag. 456) ha origine nell’area tegmentale ventrale, un gruppo di neuroni
dopaminergici del mesencefalo ventrale, i cui assoni formano i sistemi mesolimbico e mesocorticale. Questa
regione proietta verso diverse regioni prosencefaliche, inclusi l’amigdala, l’ippocampo e il nucleo accumbens,
un nucleo del proencefalo basale, vicino al setto, che riceve i bottoni terminali che secernono dopamina dai
neuroni dell’area tegmentale ventrale e si ritiene sia coinvolto nei meccanismi di rinforzo e attenzione. I neuroni
del nucleo accumbens inviano proiezioni alla porzione ventrale dei gangli della base, che sono implicati
nell’apprendimento. I ricercatori hanno dimostrato che sia la stimolazione elettrica del fascicolo
prosencefalico mediale (un fascio di fibre che decorre in direzione rostro-caudale attraverso il proencefalo
basale e l’ipotalamo laterale), sia la somministrazione di cocaina o anfetamina, causano il rilascio di dopamina
nel nucleo accumbens. Studi con microdialisi hanno dimostrato che anche la presenza di rinforzi naturali come
l’acqua, il cibo o il partner sessuale stimolano la produzione di dopamina nel nucleo accumbens.

Il rinforzo si verifica quando i circuiti neurali rilevano uno stimolo rinforzante e attivano il sistema
dopaminergico nell’area tegmentale ventrale. Uno stimolo che funge da rinforzo in un’occasione può essere
inefficace in un’altra: la presenza di cibo rinforzerà il comportamento di un animale affamato, ma lo lascerà
indifferente quando egli sarà sazio. Quindi, il sistema di rinforzo non si attiva automaticamente in presenza di
uno stimolo particolare: la sua attivazione dipende dallo stato dell’organismo. Il sistema di rinforzo sembra
essere attivato da stimoli inattesi: Schultz e collaboratori hanno ipotizzato che l’attivazione dei neuroni
dopaminergici dell’area tegmentale ventrale comunichi agli altri circuiti cerebrali che un evento porta
informazioni relative ad uno stimolo potenzialmente rinforzante che si è appena verificato. In altre parole,
l’attivazione di questi neuroni segnala che c’è qualcosa da apprendere: se la somministrazione del rinforzo è
già prevista, allora non c’è nulla da apprendere.
Dei ricercatori hanno sottoposto delle scimmie a un apprendimento operante che richiedeva agli animali di
effettuare una risposta quando sentivano uno stimolo uditivo. Durante l’addestramento, i neuroni
dopaminergici dell’area tegmentale ventrale rispondevano rapidamente quando si somministrava lo stimolo
rinforzante, tuttavia, dopo che le scimmie apprendevano il compito, i neuroni dell’area tegmentale ventrale si
attivavano alla presentazione dello stimolo uditivo, ma non quando si somministrava il rinforzo. Inoltre, se lo
stimolo rinforzante non si verificava quando atteso, l’attività dei neuroni dopaminergici subiva un calo
improvviso.
Come il condizionamento classico, il condizionamento operante implica il rafforzamento delle sinapsi
localizzate sui neuroni che si sono appena attivati. Tuttavia, il condizionamento operante coinvolge tre
elementi: uno stimolo discriminante, una risposta e uno stimolo rinforzante.
Alcuni ricercatori hanno insegnato a dei soggetti un vocabolario di parole artificiali. L’apprendimento è
avvenuto gradualmente, nel corso di cinque sessioni giornaliere. Seguendo una procedura a doppio cieco, ad
alcuni soggetti era somministrato L-DOPA 90 minuti prima dell’inizio di ciascuna sessione, mentre gli altri
ricevevano un placebo. I soggetti trattati con L-DOPA imparavano il vocabolario artificiale più velocemente o
lo ricordavano meglio dei soggetti che ricevevano il placebo. Dunque, la dopamina induce plasticità sinaptica,
facilitando il potenziamento a lungo termine associativo. Le prove empiriche indicano che la dopamina può
facilitare il potenziamento a lungo termine nel nucleo accumbens, nell’amigdala e nella corteccia prefrontale.
Il consolidamento della memoria a lungo termine implica la produzione della proteina PKM-zeta.

Apprendimento associativo

Amnesia anterograda nell’uomo - Uno dei fenomeni più drammatici causati da una lesione cerebrale è
l’amnesia anterograda, che sembra essere l’incapacità di apprendere nuove informazioni. Tuttavia, quando
esaminiamo più attentamente il fenomeno, troviamo che le abilità di base dell’apprendimento percettivo,
stimolo-risposta e motorio sono intatte, ma il complesso apprendimento associativo è compromesso. Il
termine amnesia anterograda si riferisce all’incapacità di apprendere nuove informazioni. Una persona con
amnesia anterograda pura può ricordare eventi avvenuti nel passato, nel periodo precedente al danno
cerebrale, ma non può acquisire nuove informazioni, con cui è a contratto dopo il danno. Al contrario, con
amnesia retrograda si fa riferimento all’incapacità di rievocare eventi che sono accaduti prima del danno
cerebrale. L’amnesia anterograda può anche essere causata da un danno ai lobi temporali: la rimozione
bilaterale del lobo temporale, nell’uomo, produce un deficit di memoria apparentemente identico a quello
osservato nella sindrome di Korsakoff, nella quale i pazienti sembrano incapaci di formare nuove memorie,
sebbene possano ancora ricordare quelle vecchie. Dall’analisi della abilità mnestiche e dall’esame autoptico
del cervello di un uomo al quale erano stati asportati i due lobi temporali, compresa la formazione ippocampale,
risulta che:

1. l’ippocampo non è il sito delle memorie a lungo termine, né è necessario per il recupero delle memorie a
lungo termine: se così fosse, il paziente non sarebbe stato in grado di ricordare gli eventi dei suoi primi anni di
vita;
2. l’ippocampo non è il sito delle memorie a breve termine: se così fosse, il paziente non sarebbe stato in grado
di conversare, poiché non avrebbe ricordato quello che l’altra persona ha detto abbastanza a lungo da poter
rispondere;
3. l’ippocampo è implicato nella conversione delle memorie a breve termine in memorie a lungo termine:
questa conclusione si basa su una particolare ipotesi del funzionamento della memoria: che la nostra memoria
immediata di un evento è conservata mediante un’attività neurale e che le memorie a lungo termine consistono
in un cambiamento strutturale o biochimico dei neuroni relativamente permanente. Questa conclusione
sembra una spiegazione ragionevole al fatto che, quand’era presentata un’informazione nuova al paziente, egli
sembrava comprenderla e ricordarla finché ci pensava, ma non riusciva a registrare in modo permanente
l’informazione.
Quando i pazienti con amnesia anterograda vengono studiati più attentamente, diventa evidente che l’amnesia
non rappresenta un fallimento totale delle capacità di apprendimento. Quando i pazienti sono
appropriatamente addestrati e valutati, si scopre che sono capaci di tre dei quattro tipi principali di
apprendimento: l’apprendimento percettivo, l’apprendimento stimolo-risposta e l’apprendimento motorio. Ma,
sebbene i pazienti possano apprendere ad eseguire questi compiti, non ricordano assolutamente di averli
appresi. Sebbene questi pazienti imparano a riconoscere figure incomplete, o imparano una sequenza di
lettere, essi negano di averle mai apprese; negano di aver conosciuto i ricercatori, la stanza in cui è avvenuto
l’addestramento, gli stimoli presentati.
La distinzione tra quello che le persone con amnesia anterograda possono e non possono apprendere è
importante, perché riflette l’organizzazione di base del processo di apprendimento.

Alcuni ricercatori suggeriscono che i pazienti con amnesia anterograda sono incapaci di formare memorie
dichiarative, che sono state definite come quelle “esplicitamente disponibili al ricordo consapevole come fatti,
eventi o stimoli specifici”; il termine “dichiarativo” riflette il fatto che i pazienti con amnesia anterograda non
sono in grado di parlare delle esperienze avvenute prima del danno. L’altra categoria di memorie, dette
memorie non dichiarative, include apprendimenti di tipo percettivo, stimolo-risposta e motorio. Le memorie
non dichiarative sembrano operare automaticamente, non richiedono tentativi intenzionali di memorizzare
qualcosa da parte di chi apprende e non sembrano includere fatti, ma controllano i comportamenti.
Le memorie percettive coinvolgono le regioni sensoriali della corteccia cerebrale; i gangli della base sembrano
giocare un ruolo essenziale nell’apprendimento stimolo-risposta e motorio. Diversi esperimenti hanno
dimostrato che le persone con malattie a carico dei gangli della base presentano deficit che possono essere
attribuiti alla difficoltà di acquisire risposte automatiche.

Anatomia dell’amnesia anterograda (N.B. vedi immagini pag. 464 e 465) - Il fenomeno dell’amnesia
anterograda nell’uomo ha portato i ricercatori a studiare questo fenomeno negli animali da laboratorio. La
formazione ippocampale è costituita da giro dentato, campi CA dell’ippocampo e subiculum. L’input più
importante alla formazione ippocampale proviene dalla corteccia entorinale; i suoi neuroni hanno assoni che
terminano nel giro dentato e nei campi CA1 e CA3. La corteccia entorinale riceve i suoi input dall’amigdala, da
varie aree della corteccia limbica e da tutte le regioni associative della corteccia; inoltre, la formazione
ippocampale riceve input anche dalle regioni sottocorticali attraverso il fornice. Queste afferenze selezionano
e modulano le funzioni della formazione ippocampale: il fornice porta assoni dopaminergici dall’area
tegmentale ventrale, assoni noradrenergici dal locus coeruleus, assoni serotoninergici dai nuclei del rafe e
assoni acetilcolinergici dal setto mediale. Il fornice, inoltre, connette la formazione ippocampale con i corpi
mammillari, localizzati nell’ipotalamo posteriore. Gli output del sistema ippocampale vengono principalmente
dal campo CA1 e dal subiculum. La maggior parte di essi è ritrasmessa attraverso la corteccia entorinale alle
stesse regioni della corteccia associativa che forniscono gli input.
La più chiara evidenza che un danno alla formazione ippocampale produce amnesia anterograda viene dal
caso di un uomo di 52 anni con una storia medica di disturbi cardiaci, che subì un attacco cardiaco dal quale
fu rianimato con successo, ma il tempo trascorso in anossia procurò un danno cerebrale. Il sintomo principale
della sua lesione cerebrale fu un’amnesia anterograda permanente. Cinque anni dopo l’inizio dell’amnesia,
l’uomo morì e venne fatto un esame istologico del cervello. I ricercatori scoprirono che il campo CA1 della
formazione ippocampale era seriamente danneggiato: i suoi neuroni erano completamente degenerati. Questa
regione è particolarmente ricca di recettori NMDA. Per qualche ragione, i disturbi metabolici di vario tipo
inducono i bottoni terminali glutammatergici a rilasciare glutammato in quantità anormalmente elevate.
L’effetto di questo rilascio del glutammato consiste nella stimolazione dei recettori NMDA, il che permette
l’ingresso del calcio. Entro pochi minuti, la concentrazione eccessiva di calcio intracellulare comincia a
distruggere i neuroni presenti in quella zona.

Ruolo della formazione ippocampale nel consolidamento delle memorie dichiarative - L’ippocampo non è la
sede della memoria a breve o a lungo termine. Dopo tutto, i pazienti con lesione alla formazione ippocampale
sono in grado di ricordare gli eventi accaduti prima che il loro cervello fosse danneggiato, e la loro memoria a
breve termine è normale. Ma la formazione ippocampale è chiaramente implicata nel processo attraverso cui
si formano le memorie dichiarative. La maggior parte dei ricercatori ritiene che il processo funzioni più o meno
in questo modo: l’ippocampo riceve informazioni su quello che sta accadendo dalla corteccia associativa
sensoriale e motoria, e dalle regioni sottocorticali come i gangli della base e l’amigdala. Elabora le informazioni
ricevute, quindi, attraverso connessioni efferenti, modifica le memorie che si stanno consolidando, legandole
insieme in modi che ci permettano di ricordare le relazioni tra gli elementi che le costituiscono: ad esempio,
l’ordine in cui si sono verificati gli eventi, il contesto in cui abbiamo imparato una particolare cosa e così via.
Senza la formazione ippocampale, saremmo lasciati con le memorie isolate, individuali, senza i nessi che
rendono possibile ricordare episodi e contesti.

Memorie episodiche e semantiche - Le prove empiriche suggeriscono che le memorie semantiche ed


episodiche sono forme distinte di memoria dichiarativa. La memoria episodica implica un contesto; include
informazioni su quando e in quali condizioni si è verificato un particolare episodio, e sull’ordine in cui hanno
avuto luogo gli eventi dell’episodio in questione. Le memorie episodiche sono specifiche di un particolare
tempo e di un particolare luogo. La memoria semantica implica dei fatti, ma non include informazioni sul
contesto in cui questi fatti si sono appresi. In altre parole, la memoria semantica è meno specifica di quella
episodica. Per esempio, sapere che il sole è una stella implica una memoria meno specifica di essere in grado
di ricordare quando, dove e da chi si è appresa questa informazione. L’acquisizione della memoria episodica
e della memoria semantica sembra richiedere la partecipazione dell’ippocampo.
Le memorie percettive sembrano essere localizzate nella corteccia associativa sensoriale, la regione in cui ha
luogo la percezione. Presumibilmente, anche le memorie episodiche, che consistono in una sequenza di
memorie percettive, sono localizzate qui. Un disturbo neurologico degenerativo, noto come demenza
semantica, suggerisce che il lobo temporale laterale gioca un ruolo importante nell’immagazzinamento
dell’informazione semantica. La demenza semantica è causata dalla degenerazione della neocorteccia del
lobo temporale laterale; la formazione ippocampale e il resto del lobo temporale mediale sono intatti.

Memoria spaziale - Le persone con amnesia anterograda sono incapaci di consolidare informazioni sulle
localizzazioni di stanze, corridoi, palazzi, strade ed altri elementi importanti presenti nell’ambiente.
Le lesioni bilaterali del lobo temporale mediale causano la compromissione più profonda della memoria
spaziale, sebbene si possano osservare deficit significativi associati al danneggiamento del solo emisfero
destro. Gli studi di imaging funzionale hanno dimostrato che la formazione ippocampale destra si attiva
quando una persona esegue un compito di orientamento o lo ricorda. L’ippocampo dorsale, nei ratti, contiene
place cell, neuroni direttamente coinvolti nell’orientamento nello spazio.
Lesioni ippocampali distruggono la capacità di tenere a mente e ricordare le localizzazioni spaziali. Molti studi
hanno confermato l’importanza dell’ippocampo nell’apprendimento spaziale. Per esempio, alcuni ricercatori
hanno trovato che lesioni dell’ippocampo distruggono la capacità di orientamento nei piccioni viaggiatori: le
lesioni non distruggono l’abilità degli uccelli di usare la posizione del sole in un particolare momento del giorno
come punto di riferimento, ma danneggiano la loro abilità di conservare traccia di dove si trovano, quando si
avvicinano alla fine del volo, nel momento in cui gli uccelli iniziano ad usare i punti di riferimento familiari per
determinare dove si trovano.

Uno degli studi più importanti sulla formazione ippocampale è stato eseguito da Dostrovsky, il quale registrò
l’attività di singole cellule piramidali dell’ippocampo, quando un animale si muoveva nell’ambiente circostante.
Fu trovato che alcuni neuroni scaricavano intensamente solo quando il ratto era in una particolare posizione;
neuroni diversi avevano campi recettivi spaziali diversi, cioè, rispondevano quando gli animali erano in
posizioni diverse. Un particolare neurone potrebbe scaricare venti volte al secondo quando l’animale è in una
posizione, ma solo poche volte all’ora quando l’animale è localizzato altrove. Questi neuroni sono stati
chiamati place cell.
Quando un ratto è posto in una stanza simmetrica, l’animale mantiene traccia della sua posizione basandosi
sugli oggetti che vede nell’ambiente esterno al labirinto. I cambiamenti in questi item influenzano la scarica
delle place cell dei ratti ed anche la loro abilità di orientarsi: quando i ricercatori muovono gli stimoli come se
fossero un insieme, gli animali semplicemente orientano di conseguenza le loro risposte; tuttavia, quando i
ricercatori scambiano gli stimoli, in modo da disporli in un nuovo ordine, la prestazione degli animali e la
scarica delle loro place cell è disturbata. Prove empiriche indicano che la scarica delle place cell ippocampali
sembra riflettere la posizione in cui l’animale “pensa” di essere.
Dalla scoperta delle place cell, i ricercatori hanno rilevato che la regione ippocampale contiene anche grid cell,
cellule per la direzione della testa, e border cell, cellule che segnalano la presenza di un margine. Le grid cell
mostrano una copertura uniforme dell’intero ambiente in cui è posto l’animale. Le border cell scaricano quando
l’animale è vicino a un margine dell’ambiente, come delle pareti.
Le cellule per la direzione della testa scaricano semplicemente quando la testa dell’animale è in una direzione
specifica rispetto agli indizi distanti di un particolare ambiente; quando l’animale si gira, saranno cellule diverse
a scaricare, in base alla direzione in cui l’animale sta guardando.
Apprendimento associativo negli animali

I ricercatori hanno fatto notevoli progressi nel determinare le basi neuroanatomiche del consolidamento. Le
fondamentali strutture cerebrali coinvolte sembrano essere l’ippocampo e la corteccia che lo circonda. Mentre
la perdita globale della memoria, negli uomini, si verifica solo quando sia la corteccia circostante sia
l’ippocampo sono danneggiati, un danno al solo ippocampo può provocare disturbi mnestici.
Questo fatto è stato dimostrato da uno studio iniziato con l’analisi dei problemi di memoria di un particolare
paziente e terminato con l’autopsia del cervello del paziente in seguito al suo decesso. L’ippocampo era la sola
struttura cerebrale danneggiata. Uno studio sulle scimmie offre una prova migliore del fatto che la funzione
dell’ippocampo è quella di consolidare i ricordi relativamente recenti. In questo studio, un gruppo di scimmie
ha imparato a discriminare gli item di 100 coppie di oggetti. Per ogni coppia, sotto ad uno dei due oggetti c’era
del cibo, che la scimmia poteva prendere solo se sceglieva l’oggetto in questione. Dal momento che tutti gli
oggetti erano diversi, le scimmie imparavano sostanzialmente 100 problemi diversi. Venti di questi problemi
sono stati appresi 16 settimane prima che i ricercatori asportassero l’ippocampo delle scimmie; un ulteriore
gruppo di venti problemi è stato imparato 12, 8, 4 o 2 settimane prima dell’asportazione. Due settimane dopo
l’intervento i ricercatori hanno verificato la memoria delle scimmie con una sola prova di ciascuna delle 100
coppie. La scoperta più interessante è stata che le scimmie del gruppo sperimentale ricordavano le
discriminazioni imparate 8, 12 e 16 settimane prima dell’asportazione dell’ippocampo altrettanto bene delle
scimmie normali del gruppo di controllo; invece, il ricordo delle discriminazioni imparate a 2 o 4 settimane
dall’asportazione risultava peggiore. Questi risultati suggeriscono che i ricordi devono essere elaborati
dall’ippocampo per un periodo di alcune settimane, dal momento che è solo durante questo lasso di tempo
che la memoria risulta danneggiata dall’asportazione dell’ippocampo. Il magazzino permanente della memoria
a lungo termine è quasi certamente localizzato nella corteccia, in particolare nelle regioni deputate
all’interpretazione delle informazioni sensoriali.
Il sonno ad onde lente facilita il consolidamento delle memorie dichiarative nell’uomo, mentre il sonno REM
facilita il consolidamento delle memorie non dichiarative. Durante il sonno ad onde lente, le place cell del
campo CA1 dei ratti rievocano la sequenza di attività che hanno messo in atto mentre si orientavano in un
ambiente ricreato in laboratorio. Durante i complessi SWR, un periodo di oscillazioni ad alta frequenza che
originano nei campi CA1 e CA3 dell’ippocampo e si propagano alla corteccia cerebrale, le place cell
ippocampali scaricano in sequenze che ricapitolano l’esperienza degli animali nei compiti di apprendimento
spaziale e trasferiscono l’informazione alla corteccia prefrontale.
Le memorie possono essere alterate o connesse a memorie nuove: un processo noto come riconsolidamento.
Quando una memoria a lungo termine è riattivata da stimoli che ricordano l’esperienza originale, le memorie
divengono suscettibili a eventi che interferiscono con il consolidamento, come la terapia elettroconvulsiva o la
somministrazione di un farmaco che inibisce la sintesi proteica. Il periodo di suscettibilità è in realtà un periodo
durante il quale le memorie possono essere modificate da ulteriori esperienze.
Il giro dentato è una delle regioni cerebrali in cui le cellule germinative adulte possono dividersi e dare origine
a nuovi neuroni. Queste cellule stabiliscono connessioni con i neuroni del campo CA3 e sembrano partecipare
all’apprendimento. Le prove empiriche suggeriscono che questi neuroni giocano un ruolo importante nella
formazione di nuove memorie.

(leggere solo, è un approfondimento del secondo libro)

Attualmente gli psicologi fanno tre distinzioni fondamentali a proposito della memoria:
1. Stadi della memoria: codifica, immagazzinamento e recupero;
2. Tipi di memoria rispetto al tempo: registro sensoriale (-1 sec), memoria e breve termine (40 sec),
memoria a lungo termine (+3min);
3. Tipi di informazioni: memoria esplicita (memoria dei fatti) e memoria implicita (memoria delle abilità).
Per quanto concerne i tre stadi della memoria, lo stadio della codifica consiste nella traduzione
dell’informazione in un’entità significativa, che viene immagazzinata; l’immagazzinamento consiste nel
mantenimento delle informazioni immagazzinate; il recupero è il ripescaggio dalla memoria di informazioni
precedentemente codificate e immagazzinate.
La memoria può fallire in uno qualsiasi dei tre stadi. Molte delle attuali ricerche sulla memoria cercano di
descrivere nei particolari le operazioni mentali che caratterizzano ognuno dei tre stadi della memoria,
spiegando perché queste operazioni possono non riuscire e tradursi in un insuccesso della memoria.
Studi recenti suggeriscono che i diversi stadi della memoria sono mediati da differenti strutture cerebrali. La
prova più sorprendente viene dagli studi di scansione PET: questi esperimenti hanno dimostrato che durante
la codifica sono maggiormente attive le aree cerebrali dell’emisfero sinistro, mentre durante il recupero sono
maggiormente attive le aree dell’emisfero destro.
Tre magazzini di memoria - I tre stadi della memoria non operano allo stesso modo, in tutte le situazioni.
Sembra che la memoria agisca in modo differente, nelle situazioni in cui dobbiamo immagazzinare materiale
per meno di un secondo, per una questione di secondi e per intervalli più lunghi, che variano da minuti ad anni.

La teoria di Atkinson-Shiffrin

Nel 1968 Atkinson e Shiffrin hanno formalizzato le basi per la distinzione tra diverse memorie, corrispondenti
a diversi intervalli di tempo. I principi fondamentali della teoria Atkinson-Shiffrin sono:
1- L’informazione proveniente dall’ambiente è inizialmente immessa nel cosiddetto magazzino sensoriale,
che possiede tre caratteristiche principali:
a) Il magazzino sensoriale contiene tutte le informazioni ambientali catturate dagli organi di senso.
b) Si tratta di un deposito temporaneo: ciò significa che l’informazione contenuta nel magazzino
sensoriale decade in un periodo di tempo che varia da pochi decimi di secondo a pochi secondi.
c) La piccola porzione di informazione contenuta nel magazzino sensoriale cui si decide di prestare
attenzione è trasferita nel successivo compartimento principale del sistema: la memoria a breve
termine.
2- Il magazzino a breve termine accoglie le informazioni del registro sensoriale a cui è stata prestata
attenzione.
a) Può essere grossolanamente identificato con la coscienza: cioè, si è consapevoli dell’informazione nel
magazzino a breve termine.
b) Questa informazione è facilmente accessibile: può essere utilizzata come base per prendere decisioni
o eseguire compiti nell’arco di poche decine di secondi.
c) Se tutto si mantiene in alterato, l’informazione contenuta nel magazzino a breve termine decade
nell’arco di 20 secondi.
d) È possibile impedire il decadimento dell’informazione se continuiamo a ripeterla.
e) L’informazione contenuta nel magazzino a breve termine può essere sottoposta ad altri tipi di processi,
noti come elaborazione, al momento del trasferimento dal magazzino a breve termine al terzo deposito
dell’informazione: il magazzino a lungo termine.
3- Il magazzino a lungo termine è il vasto deposito in cui si mantengono tutte le informazioni di cui si dispone.
Il magazzino a lungo termine presenta tre caratteristiche principali:
a) L’informazione proviene dal magazzino a breve termine ed entra in quello a lungo termine grazie a vari
tipi di processi elaborativi.
b) In base alle attuali scoperte dei ricercatori, la capienza del magazzino a lungo termine è illimitata.
c) Il processo di recupero permette l’acquisizione dell’informazione dal magazzino a lungo termine e il
suo trasferimento in quello a breve termine, dove può essere manipolata e usata per eseguire il compito
per cui è stata recuperata.

Diversi tipi di memoria per diversi tipi di informazioni - Fino a circa vent’anni fa gli psicologi ritenevano che si
usasse lo stesso sistema di memoria per tutti i tipi di ricordi. Prove recenti suggeriscono che non è così.
Sembrerebbe che utilizziamo una memoria a lungo termine per immagazzinare i fatti diversa da quella per
immagazzinare le abilità. La prova di questa differenza include reperti psicologici quanto biologici.
Il tipo di memoria che comprendiamo meglio è la memoria esplicita, in cui una persona ricorda consciamente
un evento passato, che si è verificato in un tempo e un luogo particolari. Al contrario, la memoria implicita è
quella in cui la persona ricorda inconsciamente vari tipi di informazioni – per esempio, quella necessaria ad
eseguire qualche compito fisico, come andare in bicicletta.

Registro sensoriale (codifica = sensoriale) - L’informazione inizialmente acquisita dall’ambiente attraverso gli
organi di senso è posizionata in una memoria temporanea detta memoria sensoriale. La memoria sensoriale
è in grado di tenere un’ampia varietà di informazioni, mantiene una rappresentazione piuttosto fedele
dell’informazione sensoriale che arriva agli organi di senso, ed è di breve durata. La memoria iconica, in
particolare, svanisce dopo circa un terzo di secondo. Uno stimolo visivo presentato brevemente scatena, nel
sistema nervoso, una risposta sensoriale. Questa risposta può essere concettualizzata come l’intensità
dell’attività nervosa, che aumenta e poi diminuisce. L’intensità della risposta aumenta alla presentazione dello
stimolo, continua ad aumentare per un breve periodo successivo e quindi si riduce velocemente, fino ad
arrivare a zero. La quantità di informazione acquisita dallo stimolo è correlata all’area di funzione della risposta
sensoriale. La visibilità dello stimolo è correlata alla velocità con cui l’osservatore acquisisce informazioni dallo
stimolo stesso.
Memoria a breve termine (codifica = acustica) - Solo l’informazione a cui si presta attenzione viene trasferita
al successivo magazzino mnestico. Atkinson e Shiffrin lo hanno denominato magazzino a breve termine, ma
più recentemente il magazzino a breve termine è stato rinominato memoria di lavoro e si è associato a un
grado di complessità molto più elevato rispetto al ruolo relativamente semplice che gli era stato assegnato
all’inizio.

Due sistemi di memoria a breve termine - L’esistenza di codici sia acustici che visivi ha portato i ricercatori a
concludere che la memoria a breve termine possiede due distinti depositi di memoria tampone. Un deposito
acustico, che immagazzina per breve tempo le informazioni in un codice acustico, e un deposito visuo-
spaziale, che immagazzina per breve tempo le informazioni in un codice visivo o spaziale. Alcuni studi recenti
di neuroimaging indicano che i due depositi sono mediati da diverse strutture cerebrali.
In un esperimento, i soggetti vedevano una sequenza di lettere, con variazione sia dell’identità sia della
posizione della lettera in ciascuna prova. In alcuni casi, i soggetti dovevano prestare attenzione solo all’identità
delle lettere: il loro compito era stabilire se una lettera mostrata fosse uguale a un’altra lettera mostrata in
precedenza. in altre prove, i soggetti dovevano badare soltanto alla posizione delle lettere e il loro compito era
di stabilire se la posizione di ogni lettera fosse identica a quella di una lettera mostrata precedentemente.
essenzialmente, ciò che variava era l’impegno richiesto ai soggetti: immagazzinare informazioni verbali
(identità delle lettere) o spaziali (posizione delle lettere). è presumibile che l’informazione verbale fosse
conservata nella memoria tampone acustica, mentre l’informazione spaziale in quella visuospaziale. sia nelle
prove di identità sia in quelle spaziale, sono state registrate le misurazioni pet di attività cerebrale. I risultati
hanno indicato che i due depositi si trovano in emisferi diversi. nelle prove in cui i soggetti dovevano
immagazzinare informazioni verbali sulle lettere (deposito acustico) la maggior parte dell’attività cerebrale si
svolgeva nell’emisfero sinistro; al contrario, nelle prove in cui i soggetti dovevano immagazzinare informazioni
spaziali (deposito visuo-spaziale) la maggior parte dell’attività cerebrale si svolgeva nell’emisfero destro.

Immagazzinamento - Probabilmente, la caratteristica davvero peculiare della memoria a breve termine è la


sua capacità molto limitata. Mediamente, il limite è di sette elementi, più o meno due: alcune persone riescono
a ricordare solamente cinque elementi, mentre altre ne riescono a ricordare fino a nove.
Hermann Ebbinghaus riferì risultati che mostravano come il suo limite personale fosse di sette elementi. Circa
70 anni dopo, George Miller fu colpito dalla costanza di questo risultato da chiamarlo “magico numero sette”;
attualmente, è noto che il limite vale pure per le culture non occidentali.

Chunking - La procedura seguita per misurare la capienza mnestica impedisce ai soggetti di collegare gli
elementi da ricordare con informazioni presenti nella memoria a lungo termine. Quando simili collegamenti
sono possibili, la prestazione ai compiti di ampiezza mnestica cambia considerevolmente.
Per illustrare questo cambiamento, supponiamo che vi sia mostrata la sequenza di lettere “sruoyylerecnis”.
siccome l’ampiezza della memoria a breve termine è di 7 ± 2, non saremo probabilmente in grado di ricordare
l’intera sequenza, poiché è comporta da 14 elementi. tuttavia, se notiamo che queste lettere corrispondono
alla frase “sincerely yours” in ordine inverso, il nostro compito dovrebbe essere più facile. usando questa
conoscenza, avremo diminuito il numero degli elementi che devono essere conservati nella memoria a breve
termine da 14 a 2. da dove deriva questa conoscenza? dalla memoria a lungo termine, dove è immagazzinata
la conoscenza delle parole. Il Chunking si può verificare anche con i numeri. La sequenza 149217762001 è al
di là delle nostre capacità, ma se suddividiamo questi numeri in date significative 1492-1776-2001 rientra
certo nelle nostre possibilità. Il principio generale è che possiamo aiutare la nostra memoria a breve termine
raggruppando sequenze di lettere e cifre in unità che si possono ritrovare nella memoria a lungo termine.

Oblio - Possiamo conservare sette elementi per breve tempo, ma nella maggior parte dei casi li dimentichiamo
presto. L’oblio è dovuto al decadimento degli item nel tempo o alla loro sostituzione da parte di item nuovi.
L’informazione può semplicemente deperire con il tempo. Possiamo pensare alla rappresentazione di un item
come ad una traccia che scompare nel giro di pochi secondi. Una delle prove migliori di quest’ipotesi è che
l’ampiezza della nostra memoria a breve termine accoglie meno parole, se sono più lunghe da pronunciare.
L’altra causa importante di oblio, per la memoria a breve termine, è la sostituzione dei vecchi elementi con
elementi nuovi.
Trovarsi nella memoria a breve termine corrisponde a trovarsi in uno stato di attivazione. Più elementi
cerchiamo di mantenere attivi, meno attivazione è disponibile per ognuno di essi. Forse, solo sette elementi
possono essere mantenuti simultaneamente a un livello di attivazione che permette di ricordarli tutti. Una volta
che sono attivi sette elementi, se ne arriva uno nuovo, l’attivazione che riceve sarà prelevata dagli elementi
presentati in precedenza; di conseguenza, questi elementi precedenti possono scendere al di sotto del livello
critico di attivazione necessaria per il ricordo.

Recupero - La ricerca ha dimostrato che quanti più elementi si trovano nella memoria a breve termine, tanto
più lento diventa il recupero. Le prove più numerose di un simile rallentamento vengono da un tipo di
esperimento introdotto da Sternberg e denominato compito di scansione mnestica di Sternberg.
In ogni prova dell’esperimento, si mostra a un soggetto un insieme di cifre, la lista da memorizzare, che egli
deve momentaneamente conservare nella memoria a breve termine. Si tratta di un compito facile, poiché ogni
lista contiene da una a sei cifre. Quindi, si toglie di mezzo una lista e si mostra una cifra-sonda. Il soggetto
deve decidere se la sonda era presente nella lista. In questo compito, i soggetti raramente commettono errori;
ciò che interessa, è il tempo di decisione, cioè il tempo intercorso tra la presentazione della sonda e il momento
in cui il soggetto preme il pulsante si o no. Ciò che va notato circa questi tempi di decisione è che si dispongono
lungo una linea retta: questo significa che ogni elemento aggiunto alla memoria a breve termine allunga il
processo di un dato tempo – circa 40 millesimi di secondo. L’interpretazione più diretta di questi risultati è che
il recupero richiede una ricerca seriale da parte della memoria a breve termine: cioè, una ricerca durante la
quale gli elementi sono esaminati uno alla volta. Questa ricerca presumibilmente lavora a una velocità di 40
millesimi di secondo per elemento, che è un tempo troppo veloce perché il soggetto se ne accorga. Comunque,
immaginare la memoria a breve termine come uno stato di attivazione porta ad una diversa interpretazione
dei risultati. Il recupero di un elemento nella memoria a breve termine può dipendere dall’attivazione di
quell’elemento, che deve raggiungere un livello critico. In altri termini, si decide che la memoria a breve termine
contiene una sonda se la sua rappresentazione è al di sopra del livello critico di attivazione, e quanti più
elementi ci sono nella memoria a breve termine, tanto meno attivazione c’è per ciascuno di loro.

Trasferimento dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine - La memoria a breve termine adempie
a due funzioni importanti: immagazzina il materiale necessario per brevi periodi di tempo e serve come spazio
di lavoro per i calcoli mentali. Un’altra possibile funzione è quella di operare come stazione di transito per la
memoria a lungo termine: ossia, le informazioni possono sostare nella memoria a breve termine, prima di
essere codificate o trasferite in quella a lungo termine. Fra i molteplici modi per attuare il trasferimento, la
ripetizione è uno di quelli più comunemente studiati. Ripetere un elemento non solo lo conserva nella memoria
a breve termine, ma determina anche il suo trasferimento nella memoria a lungo termine. Il termine ripetizione
di mantenimento si usa in riferimento agli sforzi attivi per mantenere l’informazione nella memoria di lavoro;
la ripetizione elaborativa si riferisce invece agli sforzi per codificare l’informazione nella memoria a lungo
termine.

Basi neurali del comportamento - Divisione del cervello tra la memoria a breve termine e quella a lungo
termine. La memoria a breve termine e quella a lungo termine sono implementate da strutture cerebrali
diverse. In particolare, l’ippocampo, una struttura localizzata nella zona centrale del cervello, è essenziale per
la memoria a lungo termine, ma non per quella di lavoro. Molte delle prove empiriche rilevanti vengono da
esperimenti su ratti o altre specie non umane.
In certi casi, si sottopone un gruppo di ratti alla lesione dell’ippocampo; in un secondo gruppo, si danneggia
una regione completamente diversa: la corteccia frontale. Di seguito, si sottopongono entrambi i gruppi a un
compito di risposta ritardata: a ciascuna prova si presenta di nuovo uno stimolo, seguito dopo un breve
intervallo da un secondo stimolo. L’animale deve rispondere solo quando il secondo stimolo differisce dal
primo.
La qualità della prestazione dipende dal tipo di lesione che è stata praticata al ratto e dalla durata dell’intervallo
tra i due stimoli. Se l’intervallo è lungo, gli animali con lesione all’ippocampo producono una pessima
prestazione, mentre quelli con lesione alla corteccia frontale eseguono il compito in modo relativamente
normale. Se il ritardo tra i due stimoli è breve, si osserva il risultato opposto: in questo caso, gli animali con
lesione alla corteccia frontale producono prestazioni pessime. Dal momento che un lungo ritardo tra gli stimoli
richiede l’intervento della memoria a lungo termine, questi risultati sono coerenti con l’idea che l’ippocampo
giochi un ruolo critico, nella memoria a lungo termine.
Poiché un breve ritardo tra gli stimoli richiede la memoria a breve termine, questi risultati indicano che le regioni
della corteccia frontale sono coinvolte nella memoria a breve termine.
Memoria a lungo termine (codifica = significato) - La memoria a lungo termine riguarda le informazioni
conservate per intervalli di tempo che variano da alcuni minuti a tutta la vita. Negli esperimenti sulla memoria
a lungo termine, gli psicologi generalmente hanno studiato il fenomeno dell’oblio dopo intervalli di minuti, ore
o settimane, ma solo pochi studi hanno abbracciato periodi di anni o addirittura decadi.
Diversamente dalla situazione della memoria a breve termine, in quella a lungo termine intervengono
importanti interazioni fra codifica e recupero. Spesso inoltre è difficile sapere se l’oblio, nella memoria a lungo
termine, è dovuto a una perdita di immagazzinamento o a un mancato recupero.

Memoria implicita - Mentre la memoria esplicita si manifesta nel ricordo o richiamo, laddove noi rievochiamo
il passato, la memoria implicita si manifesta nel miglioramento di un lavoro, percettivo, cognitivo, motorio,
senza che vi sia alcun ricordo conscio dei processi che hanno portato a tale miglioramento.
La memoria esplicita può venire danneggiata e causare amnesia; questo non avviene alla memoria implicita.
I soggetti con lesioni cerebrali alle aree implicate nella memoria, non sono in grado di immagazzinare nuove
informazioni, ma sono in grado di apprendere nuove abilità, e migliorano con la pratica. Ciò ci fa pensare che
esistano due tipi di memoria: una per i fatti, che può essere danneggiata e per la quale non si ha la possibilità
di apprendere nuove cose dopo il danno, e una per le abilità, che consente di apprendere nuove abilità
nonostante si subiscano danni.

Varietà dei sistemi mnestici - Relativamente alla memoria implicita, si fa un’ulteriore distinzione fra abilità
percettivo-motorie (leggere le parole capovolte su uno specchio) e il priming, che si verifica ad esempio nel
completamento di radici di parole. La ragione per sostenere che abilità e priming possano implicare diversi
depositi di memoria è che vi sono pazienti con danno cerebrale (Alzheimer)
che apprendono normalmente le attività motorie, ma mostrano un priming inferiore al normale, e altri pazienti
con diverso danno cerebrale (Huntington) che mostrano un priming normale, ma hanno difficoltà ad
apprendere abilità motorie.

Memoria implicita in soggetti normali - Studi effettuati su soggetti senza alcun danno cerebrale suggeriscono
anche l’esistenza di depositi separati per la memoria implicita e quella esplicita. Le evidenze vengono dagli
studi di neuroimaging funzionale del cervello.
In un esperimento, i soggetti studiavano dapprima una lista di 15 parole, e poi erano trattati in tre modi diversi.
Il primo, la condizione di memoria implicita, riguardava il compito di completamento di radici di parole. Metà
delle radici era tratta dalle quindici parole inizialmente studiata e metà era nuova; ai soggetti era detto di
completare le radici con le prime parole che venivano loro in mente. La seconda condizione sperimentale
riguardava la memoria esplicita. Si presentavano ancora radici di parole, ma si chiedeva ai soggetti di usarle
Per ricordare le parole della lista iniziale.
La terza condizione era quella di controllo. Si presentavano radici di parole e si chiedeva di completarle con le
prime parole che venivano in mente; in questo caso, però, nessuna delle radici proveniva dalle parole studiate
inizialmente. La condizione di controllo, quindi, non richiedeva alcuna memoria.
I soggetti eseguirono i compiti in tutte e tre le condizioni mentre i loro cervelli erano in scansione pet. Per prima
cosa, prendiamo in considerazione che cosa fa il cervello durante l’esecuzione di un compito che impegna la
memoria esplicita; ci potremmo aspettare che sia coinvolto l’ippocampo e che la maggior parte dell’attività
cerebrale abbia luogo nell’emisfero destro. Questo è esattamente quello che è stato notato. Più in particolare,
il confronto tra l’attività cerebrale nella condizione di memoria esplicita e quella nella condizione di controllo
ha evidenziato un’aumentata attivazione delle aree ippocampali e frontali dell’emisfero destro. Ora
consideriamo la parte dell’esperimento relativa alla memoria implicita. In questo caso, è stata osservata la
riduzione dell’attivazione piuttosto che l’aumento. Il priming si riflette in un’attività nervosa inferiore al normale;
la memoria implicita, quindi, ha le conseguenze nervose opposte della memoria esplicita, il che dimostra la
differenza biologica fra i due tipi di memoria.
14. LA COMUNICAZIONE UMANA
Produzione e comprensione del linguaggio: meccanismi cerebrali
Lateralizzazione
Produzione del linguaggio
Comprensione del linguaggio
L’afasia nei non udenti
Prosodia: ritmo, tono ed enfasi del linguaggio
Riconoscimento della voce delle persone
Balbuzie
SOMMARIO DELLA PRIMA PARTE
Disturbi di lettura e di scrittura
Relazione con l’afasia
Alessia pura
Verso una comprensione della lettura
Dislessie evolutive
Verso una comprensione della scrittura
SOMMARIO DELLA SECONDA PARTE
LA COMUNICAZIONE UMANA E IL LINGUAGGIO (Carlson pagg. 479-515 + slide 10)

Il sistema di comunicazione ci permette di trasmettere condividere informazioni fra individui, attraverso un


complesso ed esteso repertorio di comportamenti, espresso con un codice condiviso. Questo, è un codice
arbitrario, discreto, aperto e ricorsivo.

I tentativi di mettere in relazione i processi linguistici (e cognitivi più in generale) ai meccanismi cerebrali che
li determinerebbero, risalgono a più di due millenni fa. Il primo fra tutti che ha tentato di dare delle definizioni
in merito è stato Ippocrate, definendo appunto il cervello come un organo per l’acquisizione della conoscenza.
Lo studio scientifico della relazione tra linguaggio e cervello ha tuttavia origine solo dalla metà del 1800 con
gli studi neuropsicologici dei pazienti afasici. I due studiosi ad essersi occupati di questo sono Broca (1861) e
Wernicke (1876); entrambi hanno poi definito varie tipi di afasie.
È solo recentemente nel campo della neurobiologia del linguaggio si sono ottenuti rapidamente risultati molto
dettagliati grazie alle moderne tecniche di bio-immagine che sono appunto: TC, RMN, PET, Frmn, MEG, EEG,
ERP ecc. L’impiego delle tecnologie dinamiche, come la PET, ha infatti dimostrato che una lesione cerebrale
può, oltre a causare una distruzione dei una regione specifica, determinare una riduzione dell’attività neurale
di aree distanti d quella lessa, ma ad essa connesse.

Il più importante tipo di disturbo del linguaggio è l’afasia, un deficit primario della comprensione o della
produzione del linguaggio, causato da danno cerebrale. Non tutti i disturbi del linguaggio sono afasie: il
paziente deve avere difficoltà di comprensione, ripetizione o produzione di un linguaggio comprensibile, che
non devono essere causate da semplici deficit sensoriali o motori, oppure dalla mancanza di motivazione. Per
esempio, non è considerata afasia l’incapacità di parlare causata da sordità o da paralisi dei muscoli fonatori.

Produzione del linguaggio - Essere capaci di parlare richiede molte abilità. Possiamo parlare di qualcosa che
sta succedendo, oppure di qualcosa che è già accaduta; sia la percezione di eventi presenti, sia il ricordo di
eventi passati, coinvolgono funzioni nelle regioni posteriori degli emisferi cerebrali. Queste aree sono
largamente responsabili di cosa abbiamo da dire.

La nascita della neuropsicologia moderna

La nascita della neuropsicologia moderna, nel 1861, va fatta risalire a Paul Broca. Egli descrive quel disturbo
del linguaggio attualmente noto come afasia di Broca. È importante innanzitutto specificare che l’afasia NON
è dovuta ad un ritardo evolutivo nello sviluppo delle abilità, non è un deficit a carico dei sistemi motori e
percettivi di base; non è un disturbo della comunicazione in pazienti affetti da demenza.
In particolare egli si soffermò sullo studio di un paziente che denominò “Tan”: il paziente capisce il senso del
linguaggio ma non riesce ad esprimersi con frasi compiute né grammaticalmente corrette né oralmente né
per iscritto; denominato così perché ripete per lo più la parola “TAN”.
Dall’esame autoptico si vide che vi era una lesione della parte posteriore del lobo frontale sinistro. Questa area
verrà poi in seguito denominata area di Borca (o piede della terza circonvoluzione frontale di sx)
Dunque questo disturbo è caratterizzato da linguaggio non fluente, lento e laborioso. Quando si prova a parlare
con pazienti affetti da afasia di Broca, la maggior parte delle persone non riesce a fare a meno di suggerire le
parole che i pazienti stanno faticosamente cercando di produrre: quello che i pazienti intendono dire è in genere
comprensibile. I soggetti con afasia di Broca trovano più facile pronunciare alcuni tipi di parole rispetto ad
altre. Hanno maggiori difficoltà a pronunciare parole brevi con significato grammaticale, quali per esempio un,
il, alcuni, in ecc… Queste parole sono dette “parole funzione” (o funtori) in quanto hanno un’importante funzione
grammaticale.
Le parole che riescono a produrre sono quasi esclusivamente parole contenuto, come mela, casa, tirare, forte
ecc, che esprimono un significato ed includono nomi, verbi ed avverbi.
Le persone con afasia di Broca possono comprendere il linguaggio molto meglio di quanto riescano a produrlo.
Infatti è stato osservato che la loro comprensione non è danneggiata, ma come si vedrà, ciò non è del tutto
vero. Broca ipotizzò che questa forma di afasia fosse prodotta da una lesione della corteccia associativa
frontale, anteriormente alla corteccia motoria primaria.
Le lesioni che producono afasia di Broca sono sicuramente localizzate nelle vicinanze dell’are di Broca; tuttavia
un danno ristretto all’ AB, non sembra produrre afasia: la lesione deve estendersi alle regioni circostanti del
lobo frontale e della materia bianca sottocorticale sottostante.
Inoltre è stato rilevato che lesioni dei gangli della base, specialmente alla testa del nucleo caudato possano
produrre un’afasia simile a quella di Broca.
Cosa fanno i circuiti neurali dell’area di Broca e limitrofi?

Wernicke ipotizzò che l’area di Broca contenesse le memorie motorie: in particolare le memorie delle sequenze
dei movimenti muscolari necessari per articolare le parole. Parlare coinvolge movimenti rapidi della lingua,
delle labbra e della mascella, e questi movimenti devono essere coordinati fra di loro e con quelli delle corde
vocali. Naturalmente, nel nostro cervello, vi sono dei circuiti neuronali che se correttamente attivati, fanno
eseguire le sequenze di movimenti. Poiché le lesioni della regione inferocaudale del lobo frontale sinistro (che
include l’area di Broca) compromettono la capacità di articolare le parole, questa regione è quella nella quale
con maggior probabilità sono localizzati i “programmi” in questione.

Comunque le funzioni linguistiche del lobo frontale sinistro comprendono più dei soliti programmi motori usati
per parlare; l’afasia di Broca è molto più di un deficit nella pronuncia delle parole. In genere una lesione dell’area
di Broca e nelle sue vicinanze produce 3 deficit di linguaggio principali:
 Agrammatismo: si riferisce alla difficoltà del paziente nell’usare i costrutti grammaticali; tale disturbo può
presentarsi da solo, in assenza di altre difficoltà nella pronuncia delle parole. Come già detto, le persone
con afasia di Broca raramente usano le parole funzione così come le forme declinate dei verbi.
 Anomia: secondo deficit presente nell’afasia di Broca e si riferisce ad una difficoltà nel trovare le parole;
poiché tutti gli afasici omettono dei termini o usano parole appropriate, l’anomia è possibile definirla come
il sintomo principale di tutte le forme di afasia.
 Difficoltà articolatoria: terza caratteristica dell’afasia di Broca; i pazienti pronunciano male le parole, spesso
alterando la sequenza dei fonemi. Per esempio la parola “rossetto” può essere pronunciata “rottesso”. I
pazienti riconoscono che la pronuncia è sbagliata e cercano dunque di correggerla.
L’area deputata al controllo dell’articolazione linguistica è il giro precentrale dell’insula, nell’emisfero
sinistro.

Questi tre deficit sono presenti in varie combinazioni nei diversi pazienti e ciò dipende dall’esatta localizzazione
della lesione.
Si può dire che questi deficit costruiscano una gerarchia: al livello più basso ed elementare vi è il controllo della
sequenza dei movimenti dei muscoli del linguaggio, al livello successivo vi è la selezione del particolare
“programma” per la specifica parola, infine al livello più alto vi è la selezione della struttura grammaticale, che
comprende l’ordine delle parole, l’uso delle parole funzione ecc…

Per la prima volta con Broca viene avanzata l’ipotesi che le funzioni linguistiche siano localizzate unicamente
in un emisfero: quello sinistro.

Studi successivi hanno poi confermato questa ipotesi: il comportamento verbale è una funzione lateralizzata;
La maggior parte dei disturbi del linguaggio è conseguente a lesioni del lato sinistro del cervello. Sebbene i
circuiti principalmente coinvolti nella comprensione e produzione del linguaggio siano localizzati in un solo
emisfero, è un errore concludere che l’altro emisfero non giochi alcun ruolo nel linguaggio. Quando sentiamo
e capiamo le parole, e quando parliamo delle nostre percezioni o dei nostri ricordi, usiamo circuiti neuronali
vicini a quelli coinvolti direttamente nel linguaggio. Quindi, questi circuiti giocano un ruolo anche nel
comportamento verbale. Per esempio, danni all’emisfero destro causano difficoltà a leggere mappe, percepire
relazioni spaziali e riconoscere forme geometriche complesse. L’emisfero destro sembra anche coinvolto
nell’organizzazione del discorso e nell’espressione e registrazione del tono emozionale della voce.
Utilizzando una procedura ad ultra suoni per misurare i cambiamenti del flusso ematico cerebrale mentre i
soggetti eseguivano un compito verbale, hanno valutato la relazione tra mano dominante e meccanismi di
lateralizzazione del linguaggio, in persone senza danni cerebrali.
I ricercatori hanno osservato che la dominanza per il linguaggio dell’emisfero destro si osserva solo nel 4% dei
destrimani, nel 15% degli ambidestri e nel 27% dei mancini.
L’emisfero sinistro di circa il 90% della popolazione totale è dominante per il linguaggio. Tuttavia è un errore
concludere che l’altro emisfero non giochi alcun ruolo nel linguaggio: quando sentiamo e capiamo le parole, e
quando parliamo delle nostre percezioni o dei nostri ricordi oppure ci pensiamo, usiamo circuiti neuronali vicini
a quelli coinvolti direttamente nel linguaggio. Quindi, questi circuiti, giocano un ruolo anche nel comportamento
verbale: per esempio danni all’emisfero destro causano difficoltà a leggere mappe, percepire relazioni spaziali
e riconoscere forme geometriche complesse, organizzazione del discorso, nell’espressione del tono
emozionale della voce ecc…
Karl Wernicke

La comprensione del linguaggio inizia, ovviamente, nel sistema uditivo che capta ed analizza i suoni.
Riconoscere una parola però è una cosa, comprenderla e capire il suo significato è un’altra. Riconoscere una
parola è un compito percetti molto complesso, che si basa sulla memoria delle sequenze di suoni e sembra
che a svolgere questo compito siano i circuiti neuronali localizzati nella porzione media e posteriore del giro
superiore temporale sinistro, una regione nota come area di Wernicke.

Egli descrisse quel disturbo noto come afasia di Wernicke. Le caratteristiche principali di questa afasia sono:
 La carente comprensione e la produzione del linguaggio senza senso.
 Diversamente da quella Broca, l’afasia di Wernicke è fluente e non laboriosa: il paziente non ha difficoltà
ad articolare le parole né sembra essere alla loro ricerca.
 Quando si ascolta il soggetto affetto da questa afasia sembra che il suo linguaggio sia
grammaticalmente corretto: il paziente usa le parole funzione e si serve dei tempi complessi dei verbi
e di proposizioni subordinate; tuttavia usa poche parole di contenuto e le sequenze di parole che
produce non hanno alcun senso.
 Un aspetto particolare delle persone con afasia di Wernicke è che spesso appaiono inconsapevoli del
loro deficit: non sembrano riconoscere quindi che il loro linguaggio è inesatto e che non capiscono ciò
che stanno dicendo agli altri. Forse il deficit di comprensione impedisce loro di rendersi conto che
quello che dicono o sentono non ha senso.
 Durante una conversazione possono rispettare le convenzioni sociali, mantenendo i turni di
conversazione con l’esaminatore, anche se non capiscono cosa l’esaminatore dice loro
 Restano sensibili alle espressioni facciali ed al tono della voce degli altri e perciò iniziano a parlare
quando qualcuno pone loro una domanda e si fermano quando aspettano una risposta.

Innanzitutto dobbiamo dire Wernicke fornisce una nuova teoria del linguaggio che prevede zone sensitive e
motrici distinte:
1. La percezione delle parole (componente sensitiva/ricettiva del linguaggio) avviene attraverso l’area del
lobo temporale da lui scoperta
2. La produzione delle parole (componente motoria/ espressiva del linguaggio) avviene attraverso l’area
del lobo frontale scoperta da Broca.

Poiché il giro temporale superiore si trova nella corteccia uditiva associativa, e perché il sintomo principale
dell’afasia di Wernicke è un deficit di comprensione, questo disturbo è stato definito come un’afasia recettiva.
Wernicke riteneva che l’area che ora porta il suo nome, fosse la sede delle memorie delle sequenze dei suoni
che costituiscono le parole.

Ma perché la lesione di un’area responsabile della capacità di riconoscere le parole udite disturba la capacità
di parlare dei pazienti? In effetti non è così, poiché l’afasia di W. Così come quella di B, di fatto risultano di una
serie di deficit. Le capacità danneggiate includono:

o La capacità di trasformare i pensieri in parole

o Il riconoscimento del linguaggio orale (sordità verbale pura): come avevo già detto, riconoscere una parola
non è la stessa cosa di comprenderla. Lesioni al lobo temporale destro possono produrre un disturbo di
riconoscimento verbale uditivo senza che vi siano altri problemi: questa sindrome è detta sordità verbale pura.
Anche se le persone con sordità verbale non sono sorde, non riescono comunque a capire il linguaggio.
Questi pazienti possono riconoscere suoni non verbali, come l’abbaiare di un cane, il rumore di un campanello
della porta, possono riconoscere l’emozione espressa nel linguaggio dall’intonazione, anche se non riescono
a capire ciò che viene detto. Spesso riescono a capire cosa sta dicendo un’altra persona dalla lettura delle
labbra. Riescono anche a leggere e scrivere e qualche volta chiedono alle persone di comunicare con loro
scrivendo. Studi di imaging funzionale confermano che la percezione dei suoni verbali attiva la corteccia
uditiva associativa del giro temporale superiore: in particolare si è identificato una regione del giro temporale
anterosuperiore sinistro specificatamente attivata dal linguaggio intellegibile, dunque i deficit di comprensione
del linguaggio sono prodotti da lesioni del lobo temporale superiore che includono le regioni attivate
dall’eloquio intellegibile.
Cosa è coinvolto nell’analisi dei suoni verbali? Quali funzioni svolge il sistema uditivo e quali sono le funzioni
svolte dalla corteccia uditiva associativa dell’emisfero sinistro e da quella dell’emisfero destro?
La maggior parte degli autori ritiene che l’emisfero sinistro è implicato principalmente nello stimare la
sincronizzazione delle componenti dei suoni complessi che cambiano rapidamente, mentre l’emisfero destro
è coinvolto nella stima delle componenti che cambiano più lentamente, inclusa la melodia. Apparentemente 2
tipi di lesione possono produrre sordità verbale pura: la distruzione delle fibre che portano gli input uditivi alla
corteccia temporale superiore e lesioni di questa stessa area.
Inoltre, il nostro cervello contiene neuroni specchio, che si attivano quando eseguiamo un’azione o osserviamo
qualcun altro che la esegue. Parlare, osservare altre persone che parlano, pensare di parlare ed ascoltare i
suoni del linguaggio sono attività in grado di attivare le regioni cerebrali coinvolte nel linguaggio, il che
suggerisce che i neuroni specchio giocano un ruolo nella comprensione del linguaggio.

o Comprensione del significato delle parole (afasia sensoriale transcorticale): Gli altri sintomi dell’afasia di W,
cioè l’incapacità di comprendere il significato delle parole e quella di esprimere pensieri in linguaggio
comprensibile, sembrano dipendere da lesioni che si estendono oltre l’area di W., in una regione che circonda
la parte posteriore della scissura laterale, vicino alla congiunzione dei lobi temporale, occipitale e parietale;
chiamiamo questa area posteriore del linguaggio. Questa, serve come punto di interscambio di informazioni
tra la rappresentazione uditiva delle parole ed il loro significato immagazzinato come memorie nella rimanente
corteccia associativa sensoriale. Una lesione della sola area posteriore del linguaggio, che la isola dall’area di
W., produce un disturbo conosciuto come afasia sensoriale transcorticale.
La differenza tra quest’ultima e l’afasia di W. è che i pazienti con questo disturbo possono ripetere quello che
è detto loro da altre persone, quindi riescono a riconoscere le parole. Comunque, non riescono a comprendere
il significato di quello che sentono e ripetono, né possono produrre da soli un linguaggio comprensibile.
Riescono a ripetere quello che sentono poiché l’area posteriore del linguaggio è lesa e la ripetizione non
coinvolge questa parte del cervello.

Si divide in 3 sottogruppi:
1. L'afasia transcorticale sensoriale: si tratta di una afasia fluente in cui sono fortemente compromesse
tutte le competenze della comprensione, elaborazione e produzione del linguaggio, fatta eccezione per
la ripetizione. Le lesioni sono localizzate nelle zone adiacenti all'area di Wernicke.
2. L'afasia transcorticale motoria: è una afasia non fluente, caratterizzata da gravi deficit nella produzione
del linguaggio, ma con una comprensione ed elaborazione dello stesso relativamente conservate. La
lesione è localizzata nelle cortecce frontali.
3. L'afasia transcorticale mista è una afasia non fluente particolarmente grave. I pazienti dispongono di
un linguaggio completamente incomprensibile, le uniche abilità superstiti sono quelle residue di
ripetizione e di linguaggio automatico (canzoni, preghiere, ecc.).

Ripetizione: afasia di conduzione

Il fatto che le persone con afasia sensoriale transcorticale possano ripetere ciò che ascoltano suggerisce che
vi sia una connessione diretta tra l’area di W. E quella di B: infatti c’è ed è il fascicolo arcuato. Questo fascio di
assoni si trova nel cervello umano, ma è assente o comunque molto più piccolo in quello dei primati. Questo
fascicolo sembra trasportare informazioni sul suono delle parole ma non sul loro significato. La migliore prova
di questa conclusone viene da un disturbo conosciuto come afasia di conduzione, prodotto da lesioni al lobo
parietale inferiore, che si estendono alla materia bianca sottocorticale e ledono dunque il fascicolo arcuato.
L’afasia di conduzione è caratterizzata da linguaggio comprensibile e fluente, comprensione relativamente
buona, ma ripetizione molto deficitaria. I pazienti con questa afasia riescono a ripetere parole singole ma non
riescono a ripetere le “non-parole” come ad esempio “blange”. Riescono dunque a ripetere parole che hanno
sentito solo se queste hanno significato. Altre volte ancora, quando viene chiesto loro di ripetere una parola,
possono rispondere con una parola diversa ma dello stesso significato o almeno ad esso correlato.
I sintomi che si osservano nell’afasia sensoriale transcorticale e nell’afasia di conduzione portano alla
conclusione che ci sono vie che connettono i meccanismi del linguaggio nel lobo temporale con quelli del lobo
frontale. La via diretta attraverso il fascicolo arcuato trasporta semplicemente i fonemi dall’area di Wernicke
all’area di Broca: si usa questa via per ripetere parole non familiari: per esempio quando si sta imparando una
lingua straniera o una parola nuova della propria lingua; La seconda via, tra l’area posteriore del linguaggio e
l’area di Broca, è indiretta, e si basa sul significato delle parole e non sul suono che producono: quando i
pazienti con afasia di conduzione sentono una parola o una frase, il significato di quello che hanno ascoltato
evoca un’ immagine associata

Slide (alcune cose si ripetono)

Karl W. Propone che le funzioni mentali più elementari, in rapporto con le attività percettive e motrici semplici,
siano localizzate in aree cerebrali ristrette e che lo svolgimento delle funzioni mentali più complesse sia
possibile grazie alle interconnessioni tra le suddette aree funzionali localizzate
Affermando che le diverse componenti di un comportamento possono venire elaborate in zone diverse del
cervello interconnesse da vie nervose individuabili, è il primo a sostenere il concetto di Analisi distribuita (uno
dei cardini delle moderne neuroscienze)

Gli esperimenti di Penfield

Due neurochirurghi attivi a Montreal, Penfield ed un suo allievo, attraverso gli studi elettrofisiologici,
effettuarono il primo caso di localizzazione di funzioni nell’uomo: venivano stimolate parti scoperte del cervello
di pazienti epilettici per ideare una mappa delle loro funzioni cognitive, motorie e sensoriali nel cervello prima
dell’intervento mediante l’uso di macroelettrodi. Numeravano i punti in cui la stimolazione aveva prodotto
specifiche reazioni, con dei pezzetti di carta e alla fine dell’esperimento fotografavano la corteccia così
numerata (siamo intorno al 1959)
 A stimolazioni anteriori alla scissura risultavano risposte motorie (contrazioni muscolari e movimenti)
 A stimolazioni posteriori alla scissura risultavano risposte sensoriali

Penfield e Roberts hanno inoltre capito che l’area motoria supplementare è coinvolta nella pianificazione delle
sequenze necessarie per svolgere compiti motori e anche linguistici.
La pianificazione e l’esecuzione dei movimenti necessari per pianificazione sono quindi separate non solo
cognitivamente ma anche fisiologicamente

Nel primo modello neuropsicologico di funzionamento cognitivo due aree, il giro frontale inferiore e il giro
temporale superiore, rappresentano due moduli rispettivamente per la produzione e comprensione linguistica,
collegati tra loro dal fascicolo arcuato.
A e B rappresentano il modulo della comprensione e il modulo della produzione: una lesione dell'area di
Wernicke (A) produce l'afasia di Wernicke (o sensoriale, perché è legata agli aspetti di comprensione del
linguaggio) / una lesione di B porta all'afasia di Broca (o motoria,
perché è legata alla produzione linguistica). Poi ci sono anche dei
deficit più precoci della comprensione del linguaggio (la sordità
verbale), e della produzione del linguaggio, (l'anartria pura).
La disconnessione tra area di Wernicke e area di Broca
compromette la funzione linguistica, in modo molto specifico:
questa afasia è chiamata afasia di conduzione (questi pazienti
sono sia in grado di comprendere il linguaggio sia di produrlo, ma
falliscono in compiti di riproduzione di quello che sentono, cioè
non sono in grado di produrre ciò che hanno appena compreso
in quanto manca una connessione diretta tra A e B).

Dopo Wernicke, Lichtheim ha permesso di migliorare il modello iniziale e di spiegare un maggior numero di
casi clinici. Rispetto al modello di Wernicke include un modulo in più, oltre ad A e B c'è anche C, che non ha
una vera e propria collocazione anatomo-funzionale, ma è il centro delle rappresentazioni concettuali (quindi
rappresenta il lessico). A e B sono sempre il centro delle rappresentazioni uditive e delle rappresentazioni
motorie, che sono anche qui connesse tramite il fascicolo arcuato. a e b, come nell'altro modello sono l'analisi
uditiva e la programmazione motoria.
Nel modello di Lichtheim continuano a esserci le afasie di
Broca e di Wernicke e l'afasia di conduzione
(comprensione e produzione intatta, ma difficoltà di
riproduzione), ma vengono aggiunte anche altre afasie:
1) afasia transcorticale sensoriale, che è la
disconnessione tra A e C: una disconnessione a tale
livello permette di acquisire le info uditive, ma non di
collegare tali info al centro dei concetti (non vengono
attribuiti i significati alle parole); produzione e ripetizione
intatte, ma fallimento nella comprensione
2) afasia transcorticale motoria, che è la disconnessione
tra C e B: comprensione e ripetizione intatti, ma fallimento
nella produzione. In entrambi non è il modulo specifico a
essere compromesso, ma la connessione tra i moduli.

Vantaggi di questi modelli: la semplicità che permette di


individuare subito le caratteristiche grossolane di questi
pazienti.
Critiche (limiti) ai modelli di Wernicke e Lichtheim:
 la maggioranza dei soggetti afasici ha un deficit
del linguaggio che coinvolge in parallelo sia le
modalità di entrata che di uscita, sia del
linguaggio orale che scritto;
 la distinzione va piuttosto fatta tenendo conto
delle componenti della linguistica descrittiva
(fonologia, lessico e sintassi);
 il modello non prevede la possibilità di elaborare
sequenze non lessicali (non-parole);
 il modello non è in grado di spiegare le
dissociazioni tra classi grammaticali e tra
categorie lessicali.

Modello Wernicke-Geschwind

Carl Wernicke creò un modello neurologico primario del linguaggio, che in seguito fu rivisto da Norman
Geschwind, conosciuto come il Modello di Wernicke–Geschwind.

1. Per l'ascolto e la comprensione di parole pronunciate, i suoni delle parole vengono inviati attraverso il sistema
uditivo all'Area di Brodmann 41, ovvero alla corteccia uditiva primaria. Da qui, il segnale continua fino all'area
di Wernicke, dove viene estratto il significato delle parole.
2. Per la pronuncia delle parole, i significati di esse vengono inviati dall'area di Wernicke attraverso il fascicolo
arcuato all'area di Broca, dove i morfemi vengono assemblati. Il modello propone che l'area di Broca mantenga
una rappresentazione per le parole da articolare. Le istruzioni per il linguaggio vengono inviate dall'area di
Broca all'area facciale della corteccia motoria, e da qui le istruzioni vengono inviate ai motoneuroni facciali
nel tronco encefalico, che rilascia gli ordini di movimento ai muscoli facciali.
3. Per la lettura delle parole, le informazioni riguardanti il testo scritto vengono mandate dalle aree visive 17, 18,
e 19 al giro angolato (area 39) e da qui all'area di Wernicke, per la lettura silenziosa o, insieme all'area di Broca,
per la lettura ad alta voce.

Questo modello è oggigiorno obsoleto. Nondimeno è stato molto utile nella ricerca e nell'organizzazione di
risultati di ricerca, in quanto basato sull'idea che il linguaggio consista di due funzioni basilari: comprensione,
che è una funzione sensoriale/percettiva, e articolazione, che è una funzione motoria. Comunque,
l'organizzazione neurale del linguaggio è più complessa di quanto il modello del linguaggio di Wernicke-
Geschwind suggerisca. La localizzazione del linguaggio nell'area di Broca è uno dei punti più deboli di questo
modello.
Norman Geschwind precisa dunque la definizione neuro-anatomica del centro dei concetti da lui collocato
nell’area di Wernicke; l’informazione linguistica viene ancorata a quella visiva (lettura)
Esaminando le strutture cerebrali superiori dei mammiferi notò la presenza di una struttura assente negli altri
animali: il lobo parietale inferiore dell’emisfero SX (che include il giro angolare ed il giro sopramarginale che
sono rispettivamente le aree 39 e 40 di Brodmann).

Ojemann e la nozione di network del linguaggio

Ojemann pensò l’esistenza di un network neurale per il linguaggio, dove sono inclusi il giro temporale inferiore,
del polo temporale e delle aree prefrontali.

Concettualizzazione - La corteccia motoria è coinvolta nella funzione linguistica della concettualizzazione-


attuali conoscenze sulla neurobiologia del linguaggio
Recenti ricerche di bioimaging indicano che il flusso di informazioni nel processo del linguaggio è quasi
identico a quanto previsto dal modello di Wernicke-Geschwind; tuttavia l’area di W. Viene attivata solo quando
le parole vengono udite. Quando le parole vengono lette infatti, l’informazione proveniente dalla corteccia visiva
viene direttamente trasferita all’area di Broca senza essere trasformata prima in rappresentazione acustica.

Vie di lettura - Dalla corteccia visiva primaria, sembra che l’informazione visiva possa venire elaborata in
parallelo attraverso due vie: dorsale e ventrale.
Entrambe le vie sono connesse ad un sistema anteriore (giro frontale inferiore), implicato nell’output
fonologico ed articolatorio della parola.

Semantica e linguaggio - Il significato delle parole dipende dall’attivazione di numerose ed estese reti neuronali
(lobi frontali, temporali, corteccia temporo-parietale-occipitale), connesse tra di loro e connesse alle
rappresentazioni neuronali percettive (visive, uditive ecc…) o motorie delle parole stesse. Sebbene le reti
neuronali semantiche delle parole siano estese in gran parte della corteccia, le ricerche indicano che esiste un
certo grado di localizzazione dei significati dei termini sulla base di diversi principi (? Quali, non specificato)

Le reti neurali del linguaggio nell’emisfero dominante sono:

(strutture corticali)
 Area di Broca
 Area di Wernicke
 Fascicolo arcuato
 Giro angolare
 Giro sopramarginale
 Giro fusiforme
 Corteccia primaria associativa
 (strutture sottocorticali)
 Talamo
 Gangli della base
 Sostanza bianca

Asimmetria funzionale del linguaggio

Numerose evidenze di diverso tipo (studi su pz neurologici con afasia, studi con pz split-brain, utilizzo dei test
di Wada, moderne tecniche di neuroimaging…) hanno confermato che le principali funzioni linguistiche sono
prevalentemente localizzate in un solo emisfero. In circa il 95-98% dei destrimani le aree più rilevanti per
produzione e comprensione del linguaggio sono lateralizzate nell’emisfero sinistro; così accade per il 60-70%
dei mancini. Tuttavia, anche se l’emisfero sinistro si occupa delle principali funzioni linguistiche, anche
l’emisfero destro è risultato specializzato nell’elaborare altri importanti aspetti del linguaggio.
 Emisfero sinistro: è dominante per quanto riguarda le funzioni espressive e recettive del linguaggio in
rapporto alle sue componenti sintattiche e semantiche (codifica semantica fine: per selezionare
rapidamente un singolo significato rilevante, per trarre inferenze ecc…)
 Emisfero destro: è dominante per quanto riguarda le funzioni espressive e recettive del linguaggio in
rapporto alle sue componenti prosodiche ed emozionali (codifica semantica globale: integrare significati
di un discorso in un contesto non letterale, estrapolare i significati connotativi di un termine, i significati
metaforici ecc…)

Afasia Globale (le slide accennano solo questo tipo di afasia, le ho approfondite per cogliere le differenze con
le altre tipologie  leggere e soffermarsi solo sulle cose importanti)

È causata da lesioni delle aree del cervello primariamente deputate all'elaborazione del linguaggio (area di
Broca e area di Wernicke) o ad altre aree di connessione con diversi centri del cervello variamente implicati
nella funzione. Queste aree sono collocate in genere nell'emisfero sinistro per i soggetti destrimani (nei rari
casi in cui siano collocate nell'emisfero destro si parla di "afasia crociata"). Nei soggetti mancini, nel 60% dei
casi si trovano nell'emisfero destro, mentre nel restante 40% nell'emisfero sinistro o in entrambe.
Le alterazioni comprese nel termine di afasia possono riguardare vari aspetti del linguaggio:
 comprensione
 produzione
 ripetizione
 strutturazione.
Il fenomeno quindi si può manifestare in vari modi: ad esempio può venire meno la capacità di riconoscere
una parola o di scegliere la parola adatta. Una parola può essere sostituita con un'altra di significato diverso
ma della stessa famiglia (ora invece di orologio), oppure può essere usata una parola sbagliata ma dal suono
simile a quella giusta (zuccotto invece di cappotto), o una parola completamente diversa e senza alcun legame
apparente con quella corretta; il disturbo inoltre può coinvolgere solo il parlato, la capacità di ripetere una frase,
la strutturazione di un discorso di senso compiuto, o anche solo la capacità di scrivere. Spesso si accompagna
ad altri disturbi, come la disartria o l'aprassia.
È stato osservato su molti individui affetti da questa patologia che la dimenticanza delle parole segue un ordine
ben preciso, senza eccezioni: le prime parole a essere dimenticate sono i nomi propri, poi i nomi comuni,
seguono gli aggettivi e infine i verbi e le preposizioni.
Grazie alle capacità neuroplastiche del sistema nervoso centrale, più evidenti nei bambini e nei soggetti
giovani, le abilità linguistiche perdute possono, a volte, essere recuperate grazie all'intervento di aree cerebrali
adiacenti o interconnesse.

Afasie subcorticali

Sono dovute perlopiù a lesioni di strutture che si trovano sotto la corteccia soprattutto i nuclei della base ed il
talamo.
Queste sono spesso transitorie.
‐ Afasie conseguenti a lesioni del nucleo caudato o del Putamen di sinistra, sono delle afasie fluenti
caratterizzate dall’uso da parte di chi ne soffre di neologismi.
‐ Afasie conseguenti a lesioni del talamo di sinistra sono spesso accompagnate da una ridotta attività
metabolica nelle aree tempo-parietali di sinistra, scarsa comprensione del linguaggio parlato, parafrasie, ed
una normale ripetizione delle parole.

Afasia anomica

Il linguaggio dei pazienti con anomia è fluente e grammaticalmente corretto, e la loro comprensione è
eccellente, ma hanno difficoltà a trovare le parole appropriate. Spesso si servono di circonlocuzioni per
sostituire le parole perse. L’anomia è stata descritta come un’amnesia parziale per le parole. Può essere
prodotta da lesioni sia nella parte posteriore, sia in quella anteriore del cervello, ma solo le lesioni posteriori
producono anomia fluente. Dei ricercatori hanno descritto pazienti con difficoltà a denominare gli oggetti ma
non le azioni. Diversi studi hanno rilevato che l’anomia per i verbi è dovuta a lesioni della corteccia frontale,
all’interno e intorno all’area di Broca. Molti studi di imaging funzionale hanno confermato l’importanza dell’area
di Broca e di quelle che la circondano nella produzione dei verbi. In uno studio, dei pazienti leggevano verbi
riferiti al movimento di diverse parti del corpo; i ricercatori hanno osservato che, quando i soggetti leggevano
uno di questi verbi, si osservava l’attivazione della regione della corteccia motoria che controlla la parte del
corpo che dovrebbe muoversi. Presumibilmente, pensare a particolari azioni attiva le regioni che controllano
queste azioni.

Afasia dei non udenti

La comunicazione tra i membri della comunità dei non udenti coinvolge un altro mezzo: il linguaggio dei segni,
espresso dal movimento delle mani; il linguaggio dei segni è un linguaggio completo, che ha segni per
sostantivi, verbi, aggettivi, avverbi e tutte le altre parti presenti nel linguaggio orale. Si può conversare
rapidamente ed efficacemente usando il linguaggio dei segni, si possono raccontare barzellette e anche fare
giochi di parole basati sulla similarità dei segni.
La grammatica del linguaggio dei segni si basa su caratteristiche visive e spaziali. I segnanti possono
cambiare il significato dei segni anche attraverso le espressioni facciali o la velocità e il vigore con i quali i
segni sono fatti. Il fatto che il linguaggio dei segni si basi su movimenti tridimensionali delle mani e delle
braccia, accompagnati da espressioni facciali, significa che la sua grammatica è diversa dal linguaggio orale.
Per tale motivo, è impossibile una traduzione parole per parole. Il fatto che la grammatica del linguaggio dei
segni sia spaziale suggerisce che i disturbi afasici dei non udenti che usano il linguaggio dei segni potrebbero
essere prodotti da lesioni all’emisfero destro, essendo questo principalmente coinvolto nella percezione e nella
memoria spaziale; invece, tutti i casi riportati in letteratura di non udenti con afasia per il linguaggio dei segni
mostrano lesioni dell’emisferi sinistro, e studi di imaging funzionale hanno rilevato che i compiti associati al
linguaggio attivano le stesse regioni dell’emisfero sinistro, nei soggetti udenti e non udenti. Uno studio di
imaging funzionale eseguito da Iacoboni ha rilevato l’attivazione dell’area di Broca quando le persone
osservano e imitano i movimenti del linguaggio dei segni.

Prosodia: ritmo, tono ed enfasi del linguaggio

Quando parliamo, non ci limitiamo ad articolare le parole; il nostro linguaggio ha ritmo e cadenza regolari,
diamo enfasi ad alcune parole, e variamo l’intensità della voce per indicare le pause e distinguere tra
affermazioni e domande. Ci si riferisce agli aspetti ritmici, enfatici e melodici del linguaggio con il termine
prosodia. L’importanza di questi aspetti del linguaggio è illustrata dall’uso, nella scrittura, dei segni di
punteggiatura. La prosodia dei pazienti con afasia fluente, causata da lesioni posteriori, suona normale: il loro
linguaggio è ritmico, con pause dopo le frasi e il periodo, e ha una linea melodica; al contrario, le lesioni che
producono afasia di Broca interferiscono con la grammatica e disturbano gravemente anche la prosodia. Nei
pazienti con afasia di Broca, l’articolazione è così laboriosa e le parole sono pronunciate talmente lentamente
che ci sono poche possibilità per il paziente di esprimere qualsiasi elemento ritmico.
Studi su soggetti normali e su pazienti cerebrolesi suggeriscono che la prosodia è una funzione specifica
dell’emisfero destro. Questa funzione è indubbiamente correlata al ruolo può generale di questo emisfero
nelle capacità musicali e nell’esprimere e riconoscere le emozioni.

Riconoscimento della voce delle persone

La prosodia del linguaggio può veicolare informazioni sullo stato emotivo di chi parla o sugli elementi che
desidera enfatizzare. Le persone apprendono precocemente a riconoscere la voce di particolari individui, ma
alcune persone con danno cerebrale localizzato hanno una grande difficoltà a riconoscere le voci: un disturbo
noto come fonagnosia. La maggior parte dei casi di fonagnosia è dovuta a un danno cerebrale. Il
riconoscimento di una voce particolare è indipendente dal riconoscimento delle parole e del loro significato.
Alcune persone perdono l’abilità di riconoscere le parole, ma possono ancora riconoscere le voci, mentre altre
persone mostrano il deficit opposto. I casi di fonagnosia si associano a lesione dell’emisfero destro, in genere
al livello del lobo Gli studi di imaging funzionale parietale o della corteccia temporale anterosuperiore hanno
rilevato l’implicazione della corteccia temporale anterosuperiore destra nel riconoscimento della voce.

Balbuzie

La balbuzie è un disturbo del linguaggio caratterizzato da frequenti pause, prolungamento dei suoni o
ripetizioni si sillabe o parole che alterano il normale flusso del linguaggio. La balbuzie occorre raramente
quando una persona dice una sola parola è le è chiesto di leggere una lista di parole; si osserva in genere
all’inizio di una frase, specie se si intende pronunciare una frase lunga o grammaticalmente complessa.
Questo fatto suggerisce che la balbuzie è un disturbo di selezione, iniziazione ed esecuzione delle sequenze
motorie necessarie alla produzione di un linguaggio fluente. Forse una persona che balbetta ha bisogno di più
tempo per pianificare i movimenti necessari a pronunciare ciò che intende dire.
La balbuzie non è il risultato di alterazioni nei circuiti neurali che contengono i programmi motori del linguaggio.
Per esempio, la balbuzie si riduce o scompare quando una persona legge ad alta voce insieme a qualcun altro,
canta o legge in cadenza con uno stimolo ritmico. Il problema sembra riguardare i meccanismi neurali implicati
nella pianificazione o iniziazione dell’eloquio.
Le persone che balbettano tendono a mostrare un’eccessiva attivazione dell’area di Broca e dell’insula, oltre
che dell’area motoria supplementare e del verme del cervelletto, insieme all’assenza di attivazione delle regioni
uditive del lobo temporale. Gli autori ipotizzano che il problema possa essere causato da un feedback uditivo
difettoso dei suoni dell’eloquio dei balbuzienti, mostrato dall’assenza di attivazione del lobo temporale.

DISTURBI DI LETTURA E SCRITTURA

Leggere e scrivere sono attività strettamente correlate all’ascoltare ed al parlare, quindi le capacità linguistiche
orali e scritte hanno molti meccanismi cerebrali in comune. Prima di iniziare a parlare di questi disturbi diamo
un po’ di definizioni:
 Dislessia: disturbo della capacità di lettura, di codifica e di transcodifica dei simboli del linguaggio
scritto: le dislessie acquisite sono quelle dovute ad una lesione cerebrale nelle aree corticali coinvolte
nel processo di transcodifica, in persone che già sapevano leggere; mentre le dislessie evolutive si
riferiscono alle difficoltà di lettura che compaiono quando il bambino impara a leggere
 Disgrafia: disturbo della scrittura
 Alessia senza agrafia: incapacità di leggere senza altri deficit di linguaggio

Alessia Pura

Dajerine descrisse una sindrome particolare che è ora chiamata alessia pura, oppure anche cecità pura per le
parole. Il paziente studiato da Dajerine aveva una lesione nella corteccia visiva del lobo occipitale sinistro e
nella parte posteriore del corpo calloso. Il paziente riusciva ancora a scrivere, sebbene avesse perso la capacità
di leggere (se gli si mostravano i suoi stessi scritti non riusciva a leggerli) Dunque i pazienti con questa afasia,
sebbene non possano leggere, riescono a riconoscere le parole che sono sillabate ad alta voce (quindi non
hanno perduto la memoria dello spelling delle parole). È un disturbo percettivo: molto simile alla sordità verbale
pura, eccetto per il fatto che il paziente ha difficoltà con gli input visivi piuttosto che con quelli uditivi.

Le dislessie: tipi di errori

 Errori visivi: somigliane visive tra parole (cane- cave)


 Errori morfologici (radice lessicale mantenuta con errore nel morfema grammaticale (cane- canile)
 Errori semantici: a volte vengono fornite delle risposte con una relazione semantica con lo stimolo
(bere-mangiare)
 Regolarizzazioni: errori con parole irregolari per ortografia o accento
 Lessicalizzazioni: parole al posto di “non-parole”

Modello del processo di lettura (vedi immagine pag. 503)

Dislessie: suddivisioni

Warrington e Shallice nel 1980, suddivisero le dislessie in:


o Dislessie periferiche (o dislessie della forma visiva della parola): abbiamo dunque dei disturbi nell’elaborazione
degli attributi visivi della parola. Può essere di tre tipi: lettera per lettera (dislessia senza agrafia; vi è una lettura
lettera per lettera), attenzionale o “alessia letterale” (in questo caso il paziente riesce a leggere le parole ma
non le lettere che le compongono) e dislessia da neclect (il paziente compie degli errori nella parte iniziale o
finale della parola, con omissioni o sostituzioni di prefissi o suffissi).
o Dislessie centrali: abbiamo dei disturbi nell’elaborazione del suono o del significato; queste possono essere a
loro volta di vario tipo: superficiale, fonografica, profonda e diretta.
‐ Dislessia superficiale: è un deficit della lettura globale (riconoscere parola e pronunciarla). Il termine
“superficiale” riflette il fatto che le persone con questo deficit commettono errori relativi all’aspetto visivo
della parola e alle regole di pronuncia, ma non relativi al significato delle parole, che è qualcosa di
metaforicamente più profondo dell’aspetto.
Poiché questi pazienti hanno difficoltà a riconoscere le parole in modo globale, sono obbligati a sillabarle;
inoltre non hanno difficoltà a leggere non- parole pronunciabili.
‐ Dislessia fonologica: i pazienti con questa dislessia hanno sintomi opposti a quelli che si riscontrano nella
dislessia superficiale; possono leggere con il metodo globale ma non riescono a sillabare le parole e dunque
possono leggere parole che sono a loro familiari ma hanno grandi difficoltà a capire come leggere parole
non familiari o non-parole pronunciabili.
‐ Dislessia profonda: dislessia simile a quella fonologica; il paziente compie errori con le non-parole, più errori
visivi, derivazionali e semantici con le parole.
‐ Dislessia diretta (o iperlessia): è un deficit di comprensione della lettura, tuttavia vi è una buona lettura di
parole irregolari e non-parole)

(vedere su libro schemi p. 503-504)

Le disgrafie: centrali e periferiche

La disgrafia, nota come disturbo della scrittura, è un disturbo specifico della scrittura nella riproduzione di
segni alfabetici e numerici; può essere legata a un quadro di disprassia, può essere secondaria a una
lateralizzazione incompleta, è caratterizzata dalla difficoltà a riprodurre segni alfabetici e numerici e infine
riguarda esclusivamente il grafismo.
Emerge nel bambino quando la scrittura comincia la sua fase di personalizzazione, indicativamente (e solo
genericamente) alla classe terza elementare. In genere il problema della scrittura disorganizzata viene
sollevato dagli insegnanti elementari che lamentano la difficoltà di seguire il bambino nel suo disordine.
Le abilità di base coinvolte sono la coordinazione nel movimento, l'orientamento e l'organizzazione spazio-
temporale, la coordinazione oculo-manuale, la consapevolezza dello schema corporeo, la memoria
sequenziale, il linguaggio, il senso del ritmo (in genere immaturo), il processo di simbolizzazione (rallentato),
la capacità di discriminazione suoni-segni. Può essere secondaria alla presenza di altri disturbi
dell'apprendimento, ma non necessariamente è a essi correlata: si può essere disgrafici e non dislessici né
disortografici.
Le cause possono essere diverse: lesionali, turbe neurologiche minori (Disfunzioni Cerebrali
Minime), deficit sensoriali, irregolarità della lateralizzazione, errata postura, errata percezione e
organizzazione spaziale, problemi motori trascurati, emotività. Può concorrere ovviamente l'errato uso dello
strumento scrittorio, insieme con la progressiva rarefazione, o proprio la mancanza, di una didattica adeguata
e attenta a queste tematiche

Le disgrafie possono dividersi in centrali e periferiche.


Per quanto riguarda quelle centrali, abbiamo:
‐ Disgrafia lessicale: utilizzo della procedura fonologica, errori con parole irregolari;
‐ Disgrafia fonologica: le persone con questo disturbo sono incapaci di sillabare le parole e dunque di scriverle
foneticamente. Non riescono dunque a scrivere parole non familiari o non-parole pronunciabili. Questa
tipologia di disgrafia sembra essere causata dal danneggiamento delle regioni cerebrali coinvolte
nell’elaborazione fonologica e nell’articolazione. Lesioni all’area di Broca, al giro precentrale ventrale e all’insula
causano questo disturbo.
‐ Disgrafia profonda: simile alla dislessia fonologica ma con parafasie semantiche ed errori ortografici.
‐ Deficit del buffer grafemico: in questo deficit il paziente effettua errori in tutte le modalità di scrittura e nello
spelling orale. Nelle disgrafie periferiche vi è un deficit a livello dei meccanismi periferici che permettono la
scrittura; queste sono:
o Disturbi nella selezione allografica: errori nella scelta del carattere
o Disgrafia da neglect: ritroviamo degli errori nella parte sinistra delle parole
Disturbi acquisiti del sistema dei numeri e di calcolo

‐ Alessia agrafica per i numeri: deficit nella capacità di lettura e scrittura dei numeri;
‐ Acalculia spaziale: deficit nella capacità di allineare i numeri;
‐ Anaritmetria: deficit nel mettere in atto le procedure di calcolo.

Tipi di errori commessi:


‐ Errori lessicali (24-27)
‐ Errori sintattici (rapporto tra le cifre 45005-455, o posto sbagliato 103-13)
‐ Errori nell’interpretazioni dei segni aritmetici
15. I DISTURBI NUROLOGICI
Tumori
Disturbi da crisi (epilettiche)
Accidenti cerebrovascolari (ictus)
Trauma cranico
SOMMARIO DELLA PRIMA PARTE
Disturbi dello sviluppo
Sostanze tossiche
Disturbi metabolici ereditari
Sindrome di Down
SOMMARIO DELLA SECONDA PARTE
Disturbi degenerativi
Encefalopatie spongiformi trasmissibili
Morbo di Parkinson
Morbo di Huntington
Malattia di Alzheimer
Sclerosi laterale amiotrofica
Sclerosi multipla
Sindrome di Korsakoff
SOMMARIO DELLA TERZA PARTE
Disturbi causati da malattie infettive
SOMMARIO DELLA QUARTA PARTE
DISTURBI NEUROLOGICI (Carlson pagg. 516-551)

Vediamo le condizioni neuropatologiche che possono colpire il cervello: tumori, disturbi da crisi (epilettiche),
accidenti cerebrovascolari, disturbi dello sviluppo, disturbi degenerativi e disturbi causati da malattie infettive.

Tumori

Un tumore è una massa di cellule la cui crescita è incontrollata e priva di funzioni utili. Alcuni tumori sono
maligni (cancerosi) e altri sono benigni (innocui). La sostanziale differenza sta nel fatto che il tumore benigno
è incapsulato cioè esiste un margine tra la massa di cellule tumorali e il tessuto circostante, mentre quello
benigno cresce per infiltrazione del tessuto circostante per cui non ci sarà un margine chiaro. Per cui durante
l’asportazione alcune cellule possono restare e produrne di nuove; in più i tumori maligni spesso danno origine
a metastasi, il processo di disseminazione di elementi cellulari da un tumore, dove le cellule neoplastiche
viaggiano attraverso il sistema vascolare e attecchiscono in altre regioni dell’organismo. I tumori danneggiano
il tessuto cerebrale in due modi:
 compressione (può distruggere direttamente il tessuto o farlo indirettamente, bloccando il flusso del
liquor cerebrospinale, con conseguente idrocefalo) = tumore benigno e maligno
 infiltrazione (invasione della regione circostante e distruzione delle cellule incontrate) = tumore maligno

I tumori cerebrali originano da altre cellule localizzate nel cervello e da metastasi provenienti da altre parti del
corpo. I più comuni tipi di tumore sono:
 gliomi (glioblastoma multiforme-cellule gliali scarsamente differenziate; astrocitoma; ependimoma-
cellule che rivestono i ventricoli; medulloblastoma-cellule sul tetto del quarto ventricolo;
oligodendrocitoma)
 meningioma (cellule delle meningi; tumore benigno incapsulato derivato da cellule che costituiscono
la dura madre o la membrana aracnoidea) es. signora con crisi epilettiche
 adenoma ipofisario (cellule che scernono ormoni della ghiandola ipofisaria)
 neurinoma (cellule di Schwann o cellule del tessuto connettivo che riveste i nervi cranici)
 carcinoma metastatico
 angioma (cellule dei vasi ematici)
 pinealoma (cellule della ghiandola pineale)

I tumori più pericolosi sono le metastasi e i gliomi (derivati da vari tipi di cellule gliali). Alcuni tumori sono
radiosensibili e si distruggono focalizzando su di essi un fascio di radiazioni (radioterapia), dopo aver rimosso
quanto più tumore possibile.

Disturbi da crisi (epilettiche)

Una crisi (o attacco) è un periodo di attività eccessiva e improvvisa dei neuroni cerebrali. Se sono coinvolti i
neuroni del sistema motorio, la crisi può indurre a convulsione, cioè l’attività selvaggia e incontrollabile dei
muscoli, anche se spesso non succede.
Nell’elencare le categorie di disturbi epilettici, è importante fare due distinzioni:
 crisi parziali vs crisi generalizzate = le crisi parziali hanno un focolaio definito, una fonte di irritazione,
di solito una regione cicatriziale causata da una vecchia lesione e i neuroni coinvolti sono ristretti ad
una piccola porzione del cervello; le crisi generalizzate si diffondono ampiamente, coinvolgendo quasi
tutto il cervello e non sempre è possibile scoprire il loro punto di origine.
 crisi semplici vs crisi complesse = le crisi parziali possono essere semplici (inducono alterazioni ma
non perdita di coscienza) o complesse (perdita di coscienza)

La forma più grave di crisi è definita grande male, ed è una crisi generalizzata che, poiché coinvolge i sistemi
motori del cervello, è accompagnata da convulsioni. Pochi secondi prima che la crisi cominci, l’individuo
spesso sperimenta un’aurea, che è presumibilmente causata dall’eccitazione dei neuroni circostanti il focolaio
epilettico. Per esempio, poiché le strutture del lobo temporale sono coinvolte nel controllo dei comportamenti
emozionali, le crisi spesso cominciano con sentimenti di paura o terrore.
Le fasi di una crisi del grande male sono due:
 tonica = fase iniziale, dove i muscoli si contraggono, le braccia sono rigide e ipertese e il paziente può
emettere un grido involontario, quando i muscoli tesi spingono l’aria fuori dai polmoni (stato di
incoscienza). Il paziente mantiene una postura rigida per circa 15 secondi e poi comincia la fase
successiva;
 clonica = i muscoli cominciano a tremare e a sussultare in modo convulsivo, gli occhi sono rivolti
all’indietro, la faccia del paziente si contorce in smorfie violente e può mordersi la lingua. Dopo circa
30 secondi, i muscoli del paziente si rilassano e si riprende la respirazione. Il paziente cade in un sonno
stuporoso, che dura per circa 15 minuti. Dopodiché, il paziente può risvegliarsi ma generalmente cade
in un sonno profondo per un paio d’ore.

Durante le crisi di grande male, la scarica neuronale comincia a livello del focolaio epilettico, nel momento in
cui si produce l’aura, e quindi si diffonde in altre regioni.

 L’attività coinvolge le regioni circostanti il focolaio e quindi la corteccia controlaterali, i gangli, il talamo
e vari nuclei della formazione reticolare, e a questo punto cominciano i sintomi. Le regioni sottocorticali
eccitate inviano impulsi eccitatori alla corteccia, amplificandone l’attività. I neuroni della corteccia
motoria cominciano a scaricare, producendo la fase tonica. Di seguito le strutture diencefaliche
iniziano a smorzare le crisi, inviando messaggi inibitori alla corteccia; dapprima l’inibizione si verifica
in brevi scariche ed è questo che causa i movimenti spasmodici della fase clonica, poiché i muscoli si
rilassano e contraggono di nuovo, ripetutamente. Quando le scariche diventano più prolungate, le
convulsioni rallentano si smorzano del tutto.

Le crisi parziali coinvolgono porzioni relativamente piccole del cervello. I sintomi possono includere alterazioni
sensoriali, attività motoria o entrambi.
(leggere) - Se comincia a livello della corteccia motoria può indurre movimenti spasmodici, che iniziano in un
punto e si diffondono attraverso il corpo, quando l’eccitazione si propaga lungo il giro precentrale (crisi
epilettica scatenata da meningioma). Una crisi che insorge a livello del lobo occipitale può produrre sintomi
visivi come macchie di colore, lampi luminosi, cecità temporanea; nel lobo parietale può evocare sensazioni
somatiche come caldo o freddo; nel lobo temporale evoca allucinazioni che includono memorie antiche.

I bambini sono particolarmente suscettibili, ma molti hanno crisi breve denominate episodi di assenza, crisi
generalizzate dove i soggetti interrompono qualsiasi attività e restano per alcuni secondi con lo sguardo fisso
nel vuoto, con ammiccamenti ripetuti degli occhi.

Le crisi epilettiche possono avere conseguenze gravi, causando danno cerebrale, e questo dipende dal
numero e quantità di crisi sofferte dall’individuo. Un danno ippocampale può essere causato da un singolo
episodio di stato epilettico, una condizione in cui il paziente sviluppa una serie di crisi epilettiche senza mai
tornare cosciente. Il danno sembra essere causato dall’eccessivo rilascio di glutammato nel corso della crisi.

Gli attacchi epilettici possono avere diverse cause: la più comune è la cicatrizzazione conseguente ad una
lesione, ad un ictus o agli effetti irritanti di un tumore in crescita. Anche varie sostanze e infezioni, che
producono febbre alta, possono produrre crisi epilettiche. Negli alcolisti che abusano di barbiturici, se
interrompono improvvisamente l’assunzione della sostanza d’abuso, lasciano il cervello ina condizione di
ipereccitabilità. Anche i recettori NMDA possono essere coinvolti nelle crisi epilettiche associate ad astinenza
alcolica, poiché i recettori NMDA sono specializzati per il glutammato e controllano i canali calcio. Quando
l’alcolista smette improvvisamente di bere, i recettori riprendono a funzionare e in modo eccessivo, dove
l’incremento dell’attività causa le crisi epilettiche.

I disturbi da crisi si trattano con farmaci anticonvulsivanti, molti dei quali agiscono aumentando l’efficacia
delle sinapsi inibitorie. Talvolta i focolai epilettici restano così irritabili che è necessario ricorrere alla
neurochirurgia, dove si rimuove la regione cerebrale circostante il focolaio, eliminando o riducendo
sensibilmente la frequenza degli attacchi. Dopo l'asportazione di tessuto cerebrale, le prestazioni dei pazienti
presentano un miglioramento, questo perché il tessuto cerebrale vicino al focolaio non deve più agire da
inibitore compensatorio alla crisi epilettica durante l’intervallo tra le varie crisi e può riprendere a funzionare
normalmente, per cui le abilità neuropsicologiche migliorano. Persino se il focolaio è piccolo, i suoi effetti
coinvolgono un’area molto più ampia.
Accidenti cerebrovascolari (ictus)

Gli ictus possono compromettere la percezione, il riconoscimento e l’espressione delle emozioni, memoria e
linguaggio. La probabilità di avere un ictus è correlata all’età: si raddoppia per ciascuna decade, dopo i 45 anni,
e raggiunge l’1-2% all’anno all’età di 75. I due tipi principali di ictus sono:
 emorragico = causati da emorragia intercerebrale, generalmente da un vaso ematico malformato o
indebolito da pressione arteriosa elevata. Il sangue fuoriesce dal vaso e si accumula all’interno del
cervello, mettendo sotto pressione il tessuto cerebrale e danneggiandolo;
 ostruttivo = occludono un vaso ematico e non permettono l’afflusso di sangue, a causa d trombi o
emboli (l’interruzione del flusso sanguigno si chiama ischemia). Un trombo è un coagulo ematico che
si forma in un vaso, specialmente nelle pareti danneggiate e talvolta diventano così grandi da che il
sangue non riesce più a passare, causando ictus. Un embolo (detriti batterici o pezzi di coaguli) è un
pezzo di materiale che si forma in una parte del sistema vascolare che si stacca ed è trasportato nel
flusso ematico finché raggiunge un’arteria troppo piccola per passarci attraverso.

Gli ictus producono danni cerebrali permanenti, ma in base alle dimensioni del vaso ematico affetto, l’entità di
tali danni può variare. In caso di ictus emorragico causato da ipertensione arteriosa, si somministrano farmaci
per ridurre la pressione. Se l’ictus è causato da vasi ematici deboli si può ricorrere alla neurochirurgia per
sigillare i vasi difettosi; se è provocato da un trombo si somministrano farmaci anticoagulanti per ridurre la
tendenza alla coagulazione. Se un embolo si stacca si somministrano antibiotici per sopprimere l’infezione.
Quando si interrompe l’irrorazione sanguigna i neuroni muoiono di fame in quanto perdono il loro apporto di
glucosio e ossigeno necessario a metabolizzarlo. Però la causa di morte neuronale è la presenza di quantità
eccessive di glutammato.
Un approccio è consistito nel somministrare farmaci che dissolvono i coaguli ematici nel tentativo di ristabilire
la circolazione nelle regioni cerebrali ischemiche. La somministrazione del farmaco t-PA si associa a effetti
positivi. È un enzima che converte il plasminogeno in plasmina che dissolve la fibrina, coinvolta nella
formazione di coaguli. La sostanza ha effetti tossici nel SNC e sia il t-PA che la plasmina sono potenzialmente
neurotossici, se riescono ad attraversare la barriera ematoencefalica e raggiungere il liquido interstiziale.
Un altro composto agisce da anticoagulante, prevenendo la coagulazione del sangue, l’attivatore del
plasminogeno desmoteplase. Questo enzima non causa alcuna lesione eccito-tossica, se iniettato
direttamente al cervello e riduce i sintomi clinici nella maggioranza dei pazienti, se somministrato fino a 9 ore
dopo l’ictus.

I fattori di rischio sono: ipertensione arteriosa, fumo di sigarette, diabete, ipercolesterolemia e aterosclerosi.
L’esercizio e la stimolazione sensoriale possono agevolare la ripresa dagli effetti di un danno cerebrale,
secondo la terapia basata sul movimento sotto costrizione associata a miglioramenti a lungo termine delle
capacità dei pazienti di usare l’arto affetto.

Trauma cranico

Il trauma cranico rappresenta un grave problema di salute. Il danno causato dalle lesioni chiuse alla testa è in
genere meno ovvio di quello causato da lesioni penetranti, ma entrambi possono indurre deficit sostanziali.
Persino i casi lievi di TC possono aumentare il rischio individuale di sviluppare un deficit in età successive e
incrementare la possibilità di Morbo di Alzheimer. Sono in via di sviluppo terapie farmacologiche finalizzate a
ridurre i sintomi di TC.

Disturbi dello sviluppo

Lo sviluppo del cervello può essere influenzato negativamente dalla presenza di sostanze tossiche durante la
gravidanza e da anomalie genetiche, dove in certi casi il risultato è il ritardo mentale. I principali sono:

Sostanze tossiche = Una causa frequente è la presenza di tossiche che compromettono lo sviluppo fetale (es.
tossine rilasciate dalla rosolia). Anche l’ingestione di alcool durante la gravidanza può compromettere lo
sviluppo fetale e causare la sindrome alcolica ferale, caratterizzata da anomalie dello sviluppo della faccia e
compromissione dello sviluppo cerebrale. L’alcol compromette lo sviluppo interferendo con una proteina di
adesione neurale, che aiuta a guidare la crescita dei neuroni nel cervello in via di sviluppo. La sindrome alcolica
fetale può essere indotta anche da un singolo picco alcolico in un periodo critico dello sviluppo fetale.
Disturbi metabolici ereditari = per errori del metabolismo si intendono anomalie genetiche in cui le
informazioni relative alla sintesi di un particolare enzima sono sbagliate, cosicché l’enzima non può essere
sintetizzato. Se si tratta di un enzima di importanza critica, le conseguenze sono molto gravi. Il disturbo più
comune è la fenilchetonuria, caratterizzata da mancanza ereditaria di un enzima che converte la fenilalanina
in tirosina. La presenza di quantità eccessive di fenilalanina nel sangue interferisce con la mielinizzazione dei
neuroni del SNC; questo problema si può ovviare con una dieta povera di fenilalanina. Altri errori del
metabolismo sono la dipendenza da piridossina che può causare danni alla sostanza bianca del cervello, al
talamo e al cervelletto, condizione che si può trattare somministrando dosi abbondanti di vitamina B6. Un altro
errore è la galattosemia, l’incapacità di metabolizzare il galattosio, uno zucchero che si trova nel latte, per cui
è necessario il consumo di un sostituto del latte che non contenga galattosio. Altri disturbi non possono ancora
essere trattati in modo efficace, come la malattia di Tay-Sachs (disturbo metabolico di immagazzinamento)
che colpisce prevalentemente i bambini di discendenza ebraica, che causa rigonfiamento al cervello. I sintomi
iniziano a quattro mesi di età e includono un’esagerata risposta di allerta ai suoni, apatia, irritabilità, spasticità,
crisi, e infine la morte. Nei disturbi metabolici di immagazzinamento, ci sono errori genetici del metabolismo,
in cui uno o più enzimi vitali non vengono sintetizzati, per cui alcuni particolari prodotti di scarto non possono
essere distrutti dai lisosomi e si accumulano diventando sempre più grandi, così che il cervello comincia a
gonfiarsi e si danneggia. Questi disturbi sono trattati con la fenilchetonuria o la galattosemia;

Sindrome di down = disturbo congenito che causa lo sviluppo anomalo del cervello con conseguente ritardo
mentale. È causata dalla presenza di un cromosoma 21 in soprannumero, ed è associato con l’età della madre.
Il cromosoma 21 in più causa alterazioni biochimiche che compromettono il normale sviluppo cerebrale.
L’introduzione dell’amniocentesi, dove si preleva liquido dall’utero della donna incinta, ha permesso ai medici
di identificare le cellule fetali con anomalie cromosomiche e quindi diagnosticare l’eventuale presenza di
sindrome di Down. I malati di sindrome hanno testa rotonda, lingua spessa e protrudente che tendono a tenere
aperta, mani tozze, bassa statura, attacco basso delle orecchie e palpebre oblique. Il cervello è
approssimativamente il 10% più leggero di una persona normale, le circonvoluzioni sono più semplici e piccole,
i lobi frontali più piccoli. Dopo l’età di 30 anni, il cervello sviluppa strutture microscopiche anormali e comincia
a degenerare.

Disturbi degenerativi

Encefalopatie spongiformi trasmissibili (TSE) (leggere questa parte nel libro, è spiegata meglio. Da pag. 531
a 533) = malattia cerebrale contagiosa, il cui processo degenerativo conferisce al cervello un aspetto
spugnoso. Le TSE non sono causate da microrganismi, bensì da singole proteine chiamate prioni che si
trovano principalmente nella membrana dei neuroni, dove giocano un ruolo nella funzione sinaptica. Sono
resistenti agli enzimi in grado di distruggere le proteine e anche ai livelli di calore che denaturano le proteine
normali. La sequenza di aminoacidi di un prione normale e di un prione infettivo è identica; la sola differenza è
il modo in cui la proteina è ripiegata. Una volta che la sequenza del prione infettivo si introduce nella cellula,
induce il piegamento erroneo anche di quella normale e uccide le cellule.
Una forma familiare di malattia di Creutzfeldt-Jackob è causata dalla mutazione del gene PRNP localizzato
sul braccio corto del cromosoma 20, che codifica per il gene del prione umano. Tuttavia nella maggior parte
dei casi si tratta di una malattia sporadica. La forma più comune di trasmissione della malattia di Creutzfeldt-
Jackob è attraverso il trapianto di tessuti come la dura madre o la cornea.
Il kuru è una forma di malattia prionica umana che si trasmette tramite cannibalismo. Inoltre, gli individui con
un particolare allele del gene per i prioni ricordano il 17% in più del materiale 24 ore dopo un compito di
apprendimento di una lista di parole, rispetto agli individui con un allele diverso. In effetti è il processo di
conversione dei prioni sani ad uccidere le cellule e non la mera presenza di prioni infetti nel cervello. Le cellule
contengono i mezzi per suicidarsi: l’apoptosi che può essere innescata dall’esterno o dall’interno quando la
cellula non funziona più in maniera adeguata. L’accumulo di proteine anomale fornisce tale segnale.
L’apoptosi genera un enzima killer chiamato capsasi che uccide i neuroni infetti.

Morbo di Parkinson = causato dalla degenerazione del sistema nigrostriatale: i neuroni dopaminergici della
substantia nigra, che inviano assoni ai gangli della base. I principali sintomi sono rigidità muscolare, lentezza
nei movimenti, tremore a riposo ed instabilità posturale; il tremore consiste in movimenti vibratori delle braccia
e mani ed è accompagnato da rigidità. L’esame del cervello dei pazienti con morbo rivela la quasi totale
scomparsa dei neuroni dopaminergici nigrostriatali, e molti di quelli sopravvissuti mostrano corpi di Lewy,
strutture circolari anomale che si trovano nel citoplasma. Sebbene non sembra avere origini genetiche, la
mutazione di un gene chiamato alfa-sinucleina localizzato sul cromosoma 4 produce questa malattia; la sua
mutazione induce il guadagno toddico di funzione, in quanto la proteina sintetizzata ha effetti tossici per la
cellula. Un’altra forma ereditaria è causata dalla mutazione di un gene sul cromosoma che sintetizza la
proteina parkina; questa mutazione causa una perdita di funzione che si traduce in un disturbo recessivo. La
maggioranza dei casi di morbo di Parkinson è di tipo sporadico: si verifica in persone che non hanno una storia
familiare di questa malattia. L’accumulo di alfa-sinucleina e la distruzione de neuroni dopaminergici possono
essere causati da tossine presenti nell’ambiente, da difetti del metabolismo o da disturbi infettivi non
riconosciuti. Le sostanze chimiche inibiscono le funzioni mitocondriali, con aggregazione dell’alfa-sinucleina
mal ripiegata, specie nei neuroni dopaminergici; l’accumulo di tali proteine alla fine uccide le cellule.
Il trattamento di elezione per il morbo di Parkinson consiste nella somministrazione di L-DOPA, un precursore
della dopamina. L’incremento del livello intracerebrale di L-DOPA induce i restanti neuroni dopaminergici del
paziente a produrre e secernere più dopamina e, per un certo periodo, allevia i sintomi della malattia,
compensazione che non funziona a tempo indefinito. Alla fine, la quantità di neuroni dopaminergici
nigrostriatali si riduce al punto che i sintomi peggiorano. Inoltre, gli elevati livelli di L-DOPA producono effetti
collaterali, agendo sugli altri sistemi dopaminergici, diversi da quello nigrostriatale. Ai pazienti di Parkinson si
somministra spesso un altro farmaco, il deprenyl, in congiunzione con L-DOPA.
I ricercatori hanno rilevato la ridotta attivazione dell’area motoria supplementare della corteccia motoria
primaria controlaterale al lato affetto. La somministrazione di una dose di L-DOPA aumentava l’attivazione
delle aree in questione e migliorava la prestazione motoria.
I neurochirurghi stanno sviluppando tre procedure finalizzate ad alleviare i sintomi del morbo di Parkinson,
quando la malattia non risponde più al trattamento con L-DOPA:
 trapianto di tessuto fetale (si preleva il tessuto dalla substantia nigra di feti umani abortiti e si impianta
nel caudato e putamen; le cellule fetali crescono nel nuovo ospite e secernono dopamina);
 pallidotomia (distruzione della divisione interna del globo pallido; efferenza inibitoria dei gangli della
base che se danneggiata riduce i sintomi del morbo. Dopo una risonanza magnetica per localizzare il
globo pallido, si inserisce un elettrodo finché la rigidità scompare);
 stimolazione cerebrale profonda (impianto di elettrodi che stimolano elettricamente il cervello)

Morbo di Huntington = malattia dei gangli della base, causata dalla degenerazione del nucleo caudato e
putamen; causa movimenti incontrollabili, specie movimenti spasmodici degli arti. La condizione è
progressiva, include alterazioni cognitive ed emotive e infine conduce alla morte entro 10-15 anni
dall’insorgenza dei sintomi. I primi segni di degenerazione neurale riguardano uno specifico gruppo di neuroni
spinosi GABAergici inibitori di medie dimensioni, situati nel putamen. Il danneggiamento di questi neuroni
elimina parte del controllo inibitorio esercitato sulle aree premotoria e motoria supplementare della corteccia
frontale. La perdita di controllo causa lo sviluppo dei movimenti involontari. Condizione ereditaria, causata da
un gene dominante sul cromosoma 4 e il suo difetto è una sequenza ripetuta di basi che codificano per
l’aminoacido glutammina e fa sì che il prodotto genico, una proteina denominata huntingtina, contenga un
filamento allungato di glutammina. L’htt anomala si ripiega in modo erroneo e forma aggregazioni che si
accumulano nel nucleo e diventa così nociva; infatti la causa di morte dei neuroni è l’apoptosi (suicidio
cellulare). L’htt normale si trova in tutto il corpo, in particolare nei testicoli e nei neuroni; una delle sue funzioni
più importanti in età adulta sembra essere la facilitazione della sintesi e del trasporto del fattore neurotrofico
di origine cerebrale, una sostanza chimica necessaria alla sopravvivenza dei neuroni nel nucleo caudato e nel
putamen. L’accumulo di htt mal ripiegata (corpi di occlusione) in realtà protegge i neuroni.
Al momento non esistono trattamenti al morbo di Huntington.

Malattia di Alzheimer = una forma comune di demenza (deterioramento delle abilità intellettive conseguente
ad un disturbo cerebrale organico) è l’Alzheimer che colpisce il 10% della popolazione di età superiore a 65
anni e il 50% dopo gli 85 anni. C’è una progressiva perdita di memoria e di altre funzioni mentali. All’inizio il
soggetto si scorda gli appuntamenti o i nomi e difficilmente trova le parole adatte; con il passare del tempo la
confusione aumenta insieme alla difficoltà ad eseguire i compiti, dove il deficit di memoria più critico riguarda
gli eventi recenti. Se la persona esce da sola potrebbe perdersi, e in seguito resta a letto e perde
completamente l’autosufficienza e infine muore. La malattia causa una grave degenerazione di ippocampo,
corteccia entorinale, neocorteccia, nucleo basale, locus coeruleus e nuclei del rafe. Anche in chi soffre di
questo disturbo si possono sviluppare strutture anormali, come nella sindrome di down, chiamate placche
amiloidi, cioè depositi extracellulari di un nucleo denso di una proteina denominata B-amiloide, circondato da
assoni e dendriti in degenerazione, insieme a microglia attivata e astrociti reattivi.
Le matasse neurofibrillari sono neuroni morenti che contengono accumuli intracellulari di filamenti elicoidali
di proteina tau iperfosforilata. La proteina tau normale è una componente dei microtubuli che costituiscono il
meccanismo di trasporto cellulare. Durante la progressione della malattia quantità eccessive di ioni fosfato si
attaccano alla proteina tau modificandone la struttura. I filamenti anormali compromettono il normale
trasporto intracellulare delle sostanze, cosicché le cellule muoiono e al loro posto lasciano un nodo di filamenti
proteici. La formazione delle placche è dovuta alla produzione di una forma difettosa di BA, dove si sintetizza
il precursore della B-amiloide (APP), che viene poi scissa dalla secretai in modo da produrre B-amiloide. A
seconda della localizzazione del secondo taglio (la testa) si determina quale forma viene prodotta. Nei pazienti
malati, la proporzione di BA lunga arriva fino al 40% del totale ed elevate contrazioni della forma lunga hanno
la tendenza a ripiegarsi in modo inadeguato. Poiché anche il cervello degli individui on sindrome di Down
contiene depositi di amiloide, si è ipotizzato che il cromosoma 21 possa essere coinvolto nella produzione di
BA. Anche numerose mutazioni dei due geni della presenilina (proteina prodotta da un gene difettoso, che
induce la conversione del precursore della BA nella forma corta, anomala), sui cromosomi 1 e 14, che causano
anch’essi la malattia di Alzheimer. Un’altra causa genetica della malattia è rappresentata dalla mutazione del
gene che codifica per l’apolipoproteina E, una glicoproteina che trasporta il colesterolo nel sangue e
contribuisce nei processi di riparazione delle cellule. Un allele del gene ApoE aumenta il rischio di malattia a
insorgenza tardiva. Responsabili della malattia sono le quantità eccessive di BA anomala, che causa
degenerazione neurale, inducendo l’eccessivo rilascio di glutammato, non di proteina tau. Le mutazioni del
gene della proteina tau producono solo matasse neurofibrillari, e il risultato di queste mutazioni è un disturbo
noto come demenza frontotemporale, che causa degenerazione della corteccia frontale e temporale, con i
sintomi del Parkinson. Il più forte fattore di rischio non genetico è la lesione cerebrale traumatica; anche il
livello di scolarizzazione ha dimostrato di giocare un ruolo importante, infatti c’è una relazione positiva tra
l’incremento del numero di anni d’istruzione e la prestazione cognitiva.
Le sole terapie farmacologiche approvate per la malattia sono quelle a base di inibitori dell’acetilcolinesterasi
e di un antagonista del recettore NMDA. Dato che i neuroni acetilcolinergici sono danneggiati e sono implicati
nell’attivazione neurale e nella memoria, i farmaci che inibiscono la distruzione dell’Ach ne esaltano l’attività.
I ricercatori hanno trovato un vaccino che stimola il sistema immunitario a distruggere la B-amiloide
sensibilizzandolo alla proteina ed ha impedito lo sviluppo delle placche amiloidi nel cervello in età precoce e di
fermarlo in età più avanzata, producendo anticorpi contro di essa.

Sclerosi laterale amiotrofica (SLA) = disturbo degenerativo che attacca i motoneuroni del midollo spinale e
dei nervi cranici. I sintomi includono spasticità, riflessi di stiramento esagerati, debolezza progressiva, atrofia
muscolare e, infine, paralisi. Il paziente, di solito, muore 5-10 anni dopo l’insorgenza della malattia per
insufficienza dei muscoli respiratori. Il 10% dei casi di SLA è ereditario, il restante 90% è sporadico. Dei casi
ereditari, il 10-20% è causato dalla mutazione del gene che produce l’enzima superossido dismutasi 1, che si
trova sul cromosoma 21. Questa mutazione causa un guadagno tossico di funzione che porta al ripiegamento
erroneo della proteina e alla sua aggregazione. Inoltre la mutazione compromette la ricaptazione del
glutammato nelle cellule gliali, il che aumenta i livelli intracellulari e causa eccitossicità nei motoneuroni. La
causa principale di SLA sporadica sembra essere un’anomalia di trascrizione di RNA. Nella SLA sporadica,
l’erronea trascrizione dell’RNA che codifica per una particolare sottounità del recettore del glutammato, nei
motoneuroni, causa la produzione di recettori AMPA glutammatergici, che consentono l’ingresso di maggiori
quantità di ioni calcio in questi neuroni, quindi le cellule muoiono di eccitotossicità. La sclerosi sporadica e
quella familiare sono causate da meccanismi differenti.
L’unica terapia farmacologica consiste nella somministrazione di riluzolo, un farmaco che riduce
l’eccitotossicità indotta dal glutammato, probabilmente riducendone il rilascio.
Gli autori hanno iniettato nei muscoli della gamba dei topi un virus innocuo, contenente un gene che induce la
sintesi del fattore di crescita simile all’insulina. Il virus è assorbito dai bottoni terminali dei motoneuroni e
trasportato ai corpi cellulari di questi neuroni. Il gene inserito innesca la sintesi di una proteina in grado d
prolungare la vita dei motoneuroni danneggiati. Se il trattamento inizia prima dell’insorgenza dei sintomi fisici
gli animali vivono il 30% più a lungo di quelli trattati con placebo.

Sclerosi multipla = malattia autoimmunitaria demielinizzante; in localizzazioni sparse, all’interno del SNC, le
guaine mieliniche sono attaccate dal sistema immunitario, che lascia al loro posto placche sclerotiche. La
trasmissione normale dei messaggi neurali, attraverso gli assoni demielinizzati, si interrompe, e il danno si
verifica nella sostanza bianca localizzata in tutto il cervello e il midollo spinale. Colpisce più frequentemente le
donne e insorge alla fine della seconda decade di vita o nel corso della terza. Alcune malattie contratte durante
un’infanzia trascorsa in regioni in cui prevale un virus, inducono in seguito il sistema immunitario ad attaccare
la propria mielina. Anche le infezioni contratte dalle donne gravide possono incrementare la suscettibilità a
questa malattia. Solo due trattamenti della sclerosi sembrano promettenti: somministrazione di interferone
B, una proteina che modula la responsività del sistema immunitario; un’altra terapia è quella a base di
glatiramer acetato, una mistura di peptidi sintetici che stimola determinate cellule del sistema immunitario
che secernono sostanze chimiche antinfiammatorie come l’interleuchina. Nessuno dei due trattamenti è però
in grado di bloccare la progressione della SM.

Sindrome di Korsakoff = non è ereditario né contagioso; causato da fattori ambientali che generalmente
implicano l’alcolismo cronico. Il disturbo è conseguente infatti alla carenza di tiamina (vitamina B1) indotta
dall’alcolismo. Gli alcolisti prendono calorie dall’alcol e dunque il loro apporto vitaminico dal cibo è basso, e
inoltre l’alcol interferisce con l’assorbimento intestinale della tiamina. La risultante carenza induce danno
cerebrale. La sindrome talvolta si sviluppa in persone gravemente malnutrite, sottoposte a infusione
endovenosa di glucosio: l’improvvisa disponibilità di glucosio, senza un’adeguata quantità di tiamina con cui
metabolizzarlo, danneggia le cellule. Il danno cerebrale dovuto da sindrome di Korsakoff causa amnesia
anterograda (difficoltà a ricordare ciò che accade dal momento in cui si è manifestato il problema in poi; i
ricordi precedenti non sono danneggiati).

Disturbi causati da malattie infettive

Diversi disturbi neurologici possono essere causati da malattie infettive, trasmesse da batteri, funghi, parassiti
o virus. Le condizioni più comuni sono:

Encefalite = infezione che coinvolge l’intero cervello, causato da un virus trasmesso dalle zanzare che
prendono l’agente infettivo da cavalli, uccelli o roditori; i sintomi sono febbre, irritabilità, nausea, seguite da
convulsioni, delirio, afasia o paralisi. Può anche essere causata dal virus herpes simplex (vescicole da febbre)
che la maggior parte delle persone sviluppa intorno e nella bocca; normalmente vive nel trigemino (V nervo
cranico) e periodicamente da lì i virus viaggiano verso il basso, ma sfortunatamente qualche volta arrivano al
cervello. Altre due forme di encefalite virale sono: la poliomielite acuta anteriore (rara nei paesi sviluppati, il
virus causa un danno specifico ai motoneuroni del cervello e del midollo spinale, motoneuroni che contengono
una qualche sostanza chimica che attrae il virus o rende letale) e la rabbia (causata da un virus trasmesso
attraverso la saliva di un mammifero infetto direttamente nella carne viva di un individuo tramite un morso. Il
virus viaggia attraverso i nervi periferici fino al SNC, e anche alle ghiandole salivari, infatti si può trasmettere
ad un altro ospite; i sintomi sono febbre e cefalea, ansia, movimenti ed eloquio eccessivi, difficoltà di
deglutizione, crisi epilettiche, confusione e infine morte entro 2-7 giorni dall’inizio dei sintomi; durante il periodo
di incubazione si può somministrare un vaccino in grado di immunizzare la malattia, distruggendo il virus
prima che raggiunga il cervello).
Diverse malattie infettive possono causare danno cerebrale, come la sindrome di immunodeficienza acquisita
(AIDS); il danno cerebrale spesso causa la demenza da AIDS, caratterizzata dalla perdita delle funzioni
cognitive e motorie, causata probabilmente dall’ingresso di quantità eccessiva di calcio all’interno dei neuroni.

Meningite = infiammazione delle meningi, causate da virus o batteri; i sintomi sono cefalea, collo rigido,
convulsioni, confusione o perdita di coscienza, e talvolta morte. La forma più comune di meningite virale non
causa generalmente danno cerebrale, e le cause consistono in diffusione cerebrale di infezioni dell’orecchio
medio, introduzione di un’infezione nel cervello attraverso un trauma cranico, o presenza di emboli.
Fortunatamente le meningiti batteriche generalmente possono essere trattate in modo efficace con la terapia
antibiotica.
16. SCHIZOFRENIA E DISTURBI AFFETIVI
Schizofrenia
Descrizione
Ereditarietà
Farmacologia della schizofrenia: l’ipotesi dopaminergica
Schizofrenia come disturbo neurologico
SOMMARIO DELLA PRIMA PARTE
Disturbi affettivi maggiori
Descrizione
Ereditarietà
Stagione di nascita
Terapie biologiche
L’ipotesi monoaminergica
Ruolo del trasportatore della serotonina
Ruolo della corteccia frontale
Ruolo della neurogenesi
Ruolo dei ritmi circadiani
SOMMARIO DELLA SECONDA PARTE
SCHIZOFRENIA E DISTURBI AFFETTIVI MAGGIORI (Carlson pagg. 552-583)

Gli ultimi 3 capitoli riportano in sintesi la ricerca sulla natura e la fisiologia di sindromi caratterizzate da
comportamento disadattivo: i disturbi mentali. I sintomi dei disturbi mentali includono carenze o
inadeguatezze del comportamento sociale; pensieri illogici, incoerenti o ossessivi: risposte emotive
inadeguate, come la depressione, la mania o l’ansia; deliri e allucinazioni. La ricerca più recente indica che
molti di questi sintomi sono dovuti ad anomalie celebrali, sia strutturali che biochimiche.

Schizofrenia

La schizofrenia è un grave disturbo mentale che colpisce circa l’1% della popolazione mondiale. La malattia
esiste da migliaia di anni e i sintomi sono universali per cui i clinici hanno sviluppato criteri per diagnosticare
affidabilmente il disturbo. I sintomi tipicamente si sviluppano in modo graduale e insidioso, in un periodo di 3-
5 anni.
È caratterizzata da tre categorie di sintomi:
1. positivi = fanno notare la loro presenza: disturbo del pensiero (pensieri disorganizzati e irrazionali,
saltando da un argomento all’altro, seguendo il filo di nuove associazioni); deliri (credenze contrarie
alla realtà; di persecuzione, di grandezza, di controllo da parte di altri); allucinazioni (percezione di
stimoli che in realtà non esistono; specialmente di tipo uditivo, come sentire le voci);
2. negativi = assenza di comportamenti normali: risposte emotive appiattite, povertà dell’eloquio, assenza
di iniziativa, anedonia (incapacità di provare piacere) e ritiro sociale;
3. cognitivi = correlati ai negativi e possono essere prodotti da anomalie nelle stesse regioni cerebrali:
difficoltà a sostenere l’attenzione, bassa prontezza psicomotoria, deficit di apprendimento e memoria,
scarsa capacità di problem solving.

Ereditarietà - La schizofrenia appare essere ereditaria ed è dimostrato sia dagli studi sull’adozione che sui
gemelli. Però la reale incidenza del disturbo è inferiore al 50% dei figli di genitori schizofrenici, il che può indicare
il coinvolgimento di diversi geni oppure che la presenza di un gene per la schizofrenia comporta la suscettibilità
a sviluppare il disturbo, la cui insorgenza è comunque innescata da altri fattori, per cui essere portatori di un
gene per la schizofrenia non significa necessariamente diventare schizofrenici.
Un altro fattore genetico è l’età del padre, poiché i bambini di padri più anziani hanno maggiori probabilità di
sviluppare schizofrenia, a causa delle mutazioni negli spermatociti, in quanto la possibilità di un errore di
trascrizione durante la duplicazione del DNA aumenta con il numero di divisioni cellulari, causando un
accumulo di mutazioni che porta all’aumento dell’incidenza della schizofrenia.
Non è ancora stato localizzato un gene per la schizofrenia, però dato che la sintesi di molti ncRNa (con
molteplici azioni sulle proteine) è controllato da fattori ambientali, essi possono essere coinvolti nelle
alterazioni ambientali dell’espressione genica, e le anomalie dell’RNA non codificate possono essere
responsabili delle quantità eccessive di proteine normali durante gli stadi critici dello sviluppo che
produrrebbero effetti deleteri.

Farmacologia della schizofrenia, l’ipotesi dopaminergica - L’ipotesi dopaminergica, ispirata dal reperto che gli
antagonisti dopaminergici alleviano i sintomi positivi della schizofrenia, mentre gli agonisti della dopamina
incrementano o persino producono tali sintomi, afferma che i sintomi positivi della schizofrenia sono causati
dall’iperattività delle sinapsi dopaminergiche. Il coinvolgimento della dopamina nel rinforzo rappresenta una
spiegazione plausibile degli effetti positivi osservati nella schizofrenia: pensieri inadeguatamente rinforzati
potrebbero persistere e trasformarsi in deliri. Non esistono prove del rilascio di una quantità abnorme d
dopamina, in condizioni di riposo, sebbene gli studi PET indichino che la somministrazione di anfetamina
causa un maggior rilascio di dopamina nel cervello dei pazienti schizofrenici. Le evidenze empiriche secondo
cui il cervello dei pazienti schizofrenici contiene un numero più elevato di recettori dopaminergici sono
contraddittorie.

Il fatto che i sintomi negativi e cognitivi di schizofrenia non siano alleviati dai farmaci antipsicotici classici pone
un problema irrisolto all’ipotesi dopaminergica. Inoltre, queste sostanze causano effetti collaterali simili a quelli
del morbo di Parkinson (solitamente temporanei) e spesso, nei pazienti sottoposti a trattamento lungo termine
discinesia tardiva (disturbo del movimento, caratterizzato da movimenti involontari della faccia e del collo). Gli
antipsicotici atipici (clozapina, risperidone, olanzapina, ziprasidone e aripiprazolo) hanno probabilità molto
minori di indurre effetti collaterali parkinsoniani e apparentemente non causano discinesia tardiva.
Inoltre, questi farmaci riducono i sintomi positivi come quelli negativi, e sono efficaci in alcuni pazienti non
sensibili agli antipsicotici tradizionali.

Schizofrenia come disturbo neurologico - Le scansioni RM (risonanza magnetica) e i segni di compromissione


neurologica indicano la presenza di anomalie cerebrali nel cervello dei pazienti schizofrenici, come perdita di
tessuto cerebrale con conseguenti dimensioni ventricolari più di due volte maggiori nei pazienti schizofrenici.
Secondo gli studi epidemiologici sulla schizofrenia, i fattori che contribuiscono allo sviluppo della malattia
sono la stagione di nascita, le epidemie virali durante la gravidanza, la densità di popolazione, la malnutrizione
prenatale e lo stress prenatale. Anche le complicazioni ostetriche incrementano il rischio di schizofrenia,
persino nelle persone che non presentano una storia familiare del disturbo (complicazioni nella gravidanza,
sviluppo fetale anormale, complicanze del travaglio e del parto).

Già i filmati amatoriali di bambini molto piccoli, che in seguito diventano schizofrenici, indicano la presenza
precoce di anomalie delle espressioni facciali e dei movimenti. Ulteriori conferme sono fornite dal fatto che il
membro schizofrenico di una coppia di gemelli monozigoti, discordanti per il tratto della schizofrenia, tende a
presentare dimensioni maggiori del terzo ventricolo e di quello laterale, mentre le dimensioni dell’ippocampo
risultano ridotte. L’aumento della percentuale di concordanza, nei gemelli monozigoti monocoriali
(condivisione della stessa placenta), e per cui l’ambiente prenatale è più simile rispetto a quello dei gemelli
bicoriali, è un’evidenza empirica a favore dell’interazione tra fattori ereditari e fattori ambientali prenatali.

I sintomi di schizofrenia di solito si sviluppano appena dopo la pubertà, in concomitanza con le importanti
modificazioni cerebrali legate alla maturazione. Alcuni ricercatori ritengono che il processo patologico della
schizofrenia cominci prima della nascita, resti quiescente fino alla pubertà e quindi causi un periodo di
degenerazione neurale, a seguito del quale si sviluppano i sintomi schizofrenici.
I sintomi negativi sembrano essere dovuti all’ipofrontalità (ridotta attività della corteccia prefrontale
dorsolaterale), a sua volta causata dalla diminuzione del rilascio di dopamina in questa regione. La
performance dei pazienti schizofrenici è scarsa ne compiti che richiedono l’attività della corteccia prefrontale,
e gli studi di imaging funzionali indicano che questa regione resta ipoattiva, quando i pazienti tentano di
eseguire tali compiti.

I farmaci PCP (fenciclidina) e ketamina inducono sia i sintomi positivi sia quelli negativi della schizofrenia. La
somministrazione a lungo termine della PCP a scimmie compromette la loro performance in un compito
(recupero di oggetti con deviazione) che richiede l’attività della corteccia prefrontale. Tale compromissione è
correlata alla riduzione dell’attività dopaminergica prefrontale dovuta al farmaco.
Alcuni studi indicano che l’ipofrontalità causa un incremento dell’attività dei neuroni dopaminergici del sistema
mesolimbico, producendo di conseguenza i sintomi positivi della schizofrenia. Le connessioni tra la corteccia
prefrontale e l’area tegmentale ventrale sembrano essere responsabili di questo fenomeno.
La clozapina riduce l’ipofrontalità, migliora la performance delle scimmie al compito d recupero di oggetti con
deviazione e riduce il rilascio di dopamina nell’area tegmentale ventrale, diminuendo sia i sintomi positivi che
quelli negativi. Un farmaco antipsicotico atipico persino più recente, l’aripiprazolo, serve da agonista parziale
dei recettori dopaminergici, aumentando l’attivazione dei recettori DA nelle regioni che contengono poca
dopamina (corteccia prefrontale) e riducendo l’attivazione dei recettori DA nelle regioni che contengono
quantità eccessive di dopamina (nucleo accumbens). La PCP e la ketamina agiscono da antagonisti indiretti
dei recettori NMDA. La glicina e la D-serina, che servono da agonisti del recettore NMDA, producono modeste
riduzioni dei sintomi negativi della schizofrenia, fornendo ulteriore sostegno al modello PCP del disturbo. La
ketamina causa reazioni psicotiche negli adulti, ma non nei bambini. Un ulteriore antagonista indiretto dei
recettori NMDA causa danno cerebrale nei ratti adulti, ma non negli animali giovani. Queste disparità possono
essere correlate con le modificazioni cerebrali apparenti, responsabili dell’emergenza post-puberale dei
sintomi schizofrenici.

Disturbi affettivi maggiori

I disturbi affettivi maggiori (disturbi dell’umore) sono caratterizzati da problemi relativi ai sentimenti e alle
emozioni. I nostri sentimenti sono legati agli eventi nel mondo reale, e di solito rappresentano il risultato di
valutazioni ragionevoli l’importanza di tali eventi, ma in alcune persone l’affetto si distacca dalla realtà e
provano un’estrema euforia (mania) o disperazione (depressione), non giustificabili dagli eventi della loro vita.
Esistono due tipi principali di disturbo affettivo maggiore:
1. disturbo bipolareperiodi alterni di mania e depressione che colpisce uomini e donne in proporzioni
uguali. Gli episodi di mania possono durare da qualche giorno a diversi mesi, ma di solito si esauriscono
in poche settimane. I successivi episodi depressivi generalmente persistono per un periodo tre volte
maggiore rispetto alla mania;
2. depressione unipolaredepressione senza mania, con un andamento continuo e privo di remissioni o
più frequentemente episodico. Colpisce le donne da due a tre volte più spesso degli uomini.

I disturbi affettivi sono pericolosi poiché gli individui che ne soffrono sono a rischio di morte per suicidio poiché
s sentono prive di valore e fortemente colpevoli. In alcuni momenti scarsa energia, movimenti e conversazioni
lente, con intorpidimento, mentre in altri momenti si muovono in continuazione e senza scopo. Queste persone
piangono spesso, non provano piacere, perdono l’appetito, il sonno è disturbato.
Gli episodi di mania sono caratterizzati da una sensazione di euforia che non appare giustificabile dalle
circostanze, l’individuo si muove e parla in continuazione, saltando da un argomento all’altro e sviluppando
deliri, ma senza la grave disorganizzazione cognitiva tipica della schizofrenia. Trascorrono lunghi periodi senza
dormire, lavorando furiosamente a progetti spesso irrealistici, rispondono con rabbia e sono convinti della loro
importanza.

Gli studi sull’ereditarietà suggeriscono l’esistenza di anomalie genetiche, almeno parzialmente responsabili di
queste condizioni.

La depressione unipolare può essere efficacemente trattata con diversi trattamenti biologici: anti-MAO
(sostanze agenti come inibitori della monoamino ossidasi, enzima che metabolizza serotonina e catecolamine
necessarie per il mantenimento di un normale equilibrio fisico e dell’umore), farmaci che bloccano la
ricaptazione di norepinefrina e serotonina (antidepressivi triciclici, SSRI e SNRI), terapia elettroconvulsiva
(elettroshock, attualmente la TEC è utilizzata prevalentemente nel trattamento della depressione grave, in
particolare nelle forme complicate da psicosi), stimolazione magnetica trans cranica (tecnica non invasiva di
stimolazione elettromagnetica del tessuto cerebrale), stimolazione del nervo vago (trasmette impulsi alle aree
del cervello coinvolte nella regolazione dell'umore, del sonno, dell'appetito, della motivazione) e deprivazione
del sonno.

Il disturbo bipolare risponde alla terapia con Sali di litio e ai farmaci anticonvulsivi. Il litio sembra stabilizzare
la trasmissione neurale, specie a livello dei neuroni serotoninergici. La sua azione potrebbe essere dovuta
all’interferenza con il sistema fosfoinositide, responsabile della produzione di diverse categorie di secondi
messaggeri. La sostanza sembra anche proteggere i neuroni dal danneggiamento e forse facilitare la loro
riparazione. L’effetto terapeutico degli agonisti noradrenergici e serotoninergici e quello depressivo della
reserpina, un antagonista monoaminergico, hanno suggerito l’ipotesi monoaminergica della depressione: cioè
che la depressione è causata dall’insufficiente attività dei neuroni monoaminergici. La deplezione di triptofano
(precursore della 5-HT) nel cervello inverte gli effetti terapeutici degli antidepressivi, il che suffraga
ulteriormente che la serotonina gioca un ruolo nella regolazione del tono dell’umore. Tuttavia, sebbene gli SSRI
abbiano un effetto immediato sulla trasmissione serotoninergica cerebrale, essi alleviano i sintomi depressivi
solo dopo diverse settimane: quindi, la semplice ipotesi monoaminergica non sembra essere corretta.

Diversi studi hanno ricercato eventuali anomalie nel cervello dei pazienti depressi. In generale, gli individui
depressi mostrano anomalie a carico d corteccia prefrontale, gangli della base, ippocampo, talamo, cervelletto
e lobo temporale. I ridotti livelli di BDNF (fattore neurotrofico cerebrale) possono spiegare alcune di queste
alterazioni. Le esperienze stressanti sopprimono la neurogenesi ippocampale (formazione di nuove cellule
nervose), mentre i trattamenti antidepressivi la incrementano. Gli studi di imaging funzionali hanno rilevato un
aumento dell’attività nell’amigdala e nella corteccia orbitofrontale, ed una riduzione dell’attività nella CCA
subgenuale. Le esperienze stressanti aumentano la probabilità di depressione nei soggetti con uno o due alleli
corti della regione promoter del genere del trasportatore della serotonina; invece, i pazienti depressi con due
alleli lunghi rispondono meglio al trattamento antidepressivo. Gli studi di imaging strutturale e funzionale
hanno rilevato una diminuzione del volume dell’amigdala e della CCA subgenuale, oltre che raccolto prove
dell’indebolimento del circuito di feedback negativo che va dall’amigdala alla CCA subgenuale, fino alla CCA
dorsale, e poi di nuovo indietro all’amigdala. Presumibilmente, queste modificazioni si verificano perché
l’alterata attività serotoninergica associata alla presenza degli alleli corti della regione promoter del gene del
5-HTT influenza lo sviluppo cerebrale prenatale.
La depressione può essere causata anche dall’effetto cumulativo di infarti cerebrali silenti: piccoli accidenti
cerebrovascolari (ictus) che danneggiano progressivamente il cervello.

Ruolo dei ritmi circadiani

Uno dei sintomi più prominenti della depressione è il disturbo del sonno che tende ad essere superficiale
(sonno delta ad onde lente, stadi 3 e 4, ridotto, mentre lo stadio 1 aumenta). Il pattern del sonno è frammentato,
tendenza a svegliarsi frequentemente, specie nelle prime ore del mattino. La fase REM insorge più
velocemente.

Deprivazione selettiva di sonno REM - Una delle più efficaci terapie antidepressive è la deprivazione del sonno
sia totale che selettiva del sonno REM. Anche un efficace trattamento di TEC e con psicoterapia sopprime il
sonno REM nei pazienti depressi. I risultati indicano che i cambiamenti di umore sarebbero prodotto, in parte,
da questa sospensione. Una forma specifica di depressione, il disturbo depressivo ad andamento stagionale,
risponde all’esposizione alla luce intensa. Appare chiara l’esistenza di un qualche legame tra disturbo
dell’umore e ritmi biologici.

Deprivazione totale di sonno - La deprivazione totale di sonno ha un effetto antidepressivo e ha effetti


immediati, contrariamente a quella selettiva che impiega due settimane ridurre i sintomi depressivi. I pazienti
depressi il cui umore resta stabile probabilmente non hanno effetti positivi con la deprivazione di sonno,
contrariamente a quelli con tono dell’umore fluttuante. Sebbene la deprivazione totale di sonno non sia un
metodo praticabile per il trattamento della depressione, diversi studi suggeriscono che la deprivazione parziale
di sonno può ridurre l’intervallo di tempo necessario affinché i farmaci antidepressivi abbiano effetto. Solo il
sonno del mattino sembra essere in grado di produrre depressione; il migliore consiglio è di svegliarsi presto
al mattino e andare a dormire presto la sera.

Ruolo dei zeitgeber - Una forma specifica di depressione, il disturbo depressivo ad andamento stagionale,
risponde all’esposizione alla luce intensa, al trattamento di fototerapia. Una percentuale più ridotta della
popolazione diventa depressa durante l’estate, la depressione estiva.
I disturbi depressivi ad andamento stagionale, come la depressione unipolare e il disturbo bipolare, sembrano
avere una base genetica.

Appare chiara l’esistenza di un qualche legame tra disturbo dell’umore e ritmi biologici. I ritmi circadiani di
sonno e veglia sono controllati dall’attività del nucleo sovrachiasmatico dell’ipotalamo. La luce serve da
zeitgeber, la sincronizzazione dell’orologio biologico al ciclo giorno-notte. È possibile che gli individui con
disturbo depressivo ad andamento stagionale richiedano uno zeitgeber più forte per regolare l’orologio
biologico. Le prove al riguardo sono però contraddittorie.
La fototerapia si è rilevata efficace anche nei casi di depressione unipolare. Una passeggiata mattutina di
un’ora, e l’esercizio fisico riduce i sintomi di disturbo depressivo ad andamento stagionale (disturbo dell’umore
caratterizzato da depressione, letargia, disturbi del sonno e consumo compulsivo di carboidrati durante la
stagione invernale, quando i giorni si accorciano).
La depressione estiva, invece, è un disturbo dell’umore caratterizzato da depressione, disturbi del sonno e
diminuzione dell’appetito.

 Fototerapia: trattamento del disturbo depressivo ad andamento stazionale, tramite esposizione


quotidiana a luce intensa.
17. DISTURBO D’ANSIA, DISTURBO AUTISTICO, DISTURBO DA DEFICIT DI
ATTENZIONE/IPERATTIVITÀ E DISTURBI DA STRESS
Disturbi d’ansia
Disturbo di panico, disturbo d’ansia generalizzato e disturbo da ansia sociale
Disturbo ossessivo-compulsivo
SOMMARIO DELLA PRIMA PARTE
Disturbo autistico
Descrizione
Cause potenziali
SOMMARIO DELLA SECONDA PARTE
Disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività
Descrizione
Cause potenziali
SOMMARIO DELLA TERZA PARTE
Disturbi da stress
Fisiologia della risposta di stress
Effetti dello stress a lungo termine sulla salute
Effetti dello stress sul cervello
Disturbo post-traumatico da stress
Psiconeuroimmunologia
SOMMARIO DELLA QUARTA PARTE
DISTURBI (Carlson pagg. 584-613)

Disturbi d’ansia

Disturbo psicologico caratterizzato da tensione, iperattività del SNA, aspettativa di disastro imminente e
continua vigilanza per un pericolo. Nei disturbi d’ansia, il soggetto prova paura e ansia in modo estremo, dove
queste emozioni sono infondate e altrettanto irrealistiche.

Disturbo di panico

Caratterizzato da attacchi episodici di ansia acuta, cioè di terrore intenso e continuo, di durata variabile da
secondi ad ore; insorge generalmente all’inizio dell’età adulta e colpisce maggiormente le donne. I sintomi
fisici sono: dispnea, sudorazione profusa, irregolarità del battito cardiaco, vertigini, sensazione di svenimento,
e di quasi morte. Molti individui con disturbo di panico soffrono di:
-ansia anticipatoria (paura di avere un attacco di panico)
-agorafobia (causata dall’ansia anticipatoria, paura di allontanarsi da casa o da altri luoghi protetti)
SI ha invece un disturbo d’ansia generalizzato quando si hanno preoccupazioni eccessive, gravi abbastanza
da compromettere la qualità della vita della persona; si parla di ansia sociale quando si ha un’eccessiva paura
di essere esposti al giudizio delle altre persone (si sviluppa con evitamento sociale).
La condizione sembra essere ereditaria, e dunque di origine biologica e i fattori che scatenano gli attacchi e
che dunque attivano il SNA possono variare da iniezione di acido lattico, ioimbina, ingestione di caffeina, tutte
sostanze che aumentano il battito, la velocità respiratoria, e che provocano l’attacco con più probabilità a chi
ha una storia di disturbi d’ansia in famiglia. Gli attacchi possono essere alleviati dalla somministrazione di una
benzodiazepina (GABA), un risultato che suggerisce l’implicazione nel disturbo di un numero ridotto di recettori
per le benzodiazepine o della secrezione inadeguata di un agonista benzodiazepinico endogeno. Gli
antagonisti delle benzodiazepine possono scatenare un attacco di panico, ma non nei soggetti di controllo.
Al giorno d’oggi il trattamento medico d’elezione per gli attacchi di panico è rappresentato dagli SSRI (inibitori
specifici della ricaptazione della serotonina), come il Prozac (agonista della serotonina), la cui efficacia dipende
dai recettori 5-HT1A che giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo di regioni cerebrali implicate nei
sintomi d’ansia.
La presenza di uno o due alleli corti della regione promoter del gene trasportatore della serotonina (5-Htt) si
associa alla maggiore attivazione dell’amigdala, con livelli d’ansia più elevati.
Studi di imaging funzionale suggeriscono che la corteccia prefrontale, cingolata e temporale anteriore sono
implicate negli attacchi di panico (riduzione dell’attività nelle zone).

Disturbo ossessivo – compulsivo

Il DOC è caratterizzato da ossessioni, cioè pensieri indesiderati e compulsioni, cioè comportamenti


incontrollabili, specie relativi alla pulizia e all’evitamento dei pericoli potenziali e, a differenza della schizofrenia,
il paziente riconosce l’insensatezza dei suoi pensieri e se ne vuole liberare. La maggior parte delle compulsioni
cade in una di queste categorie: contare, controllare, pulire, evitare. Questi comportamenti potrebbero
rappresentare un’iperattività delle tendenze comportamentali specie-specifiche, che non sono regolati dai
normali meccanismi di controllo a causa di una disfunzione cerebrale.
Il DOC ha una base ereditaria e risulta correlato alla sindrome di Tourette, un disturbo neurologico
caratterizzato da tic e strane vocalizzazioni; può essere causato anche da danno cerebrale alla nascita,
encefalite e trauma cranico, specie in caso di coinvolgimento dei gangli della base.
L’infezione da streptococco B-emolitico di tipo A può stimolare un attacco autoimmune, presumibilmente sui
gangli della base, che produce i sintomi di DOC.
Le scansioni PET indicano che le persone con disturbo ossessivo - compulsivo tendono a mostrare un
incremento dell’attività a livello di corteccia orbito frontale, corteccia cingolata e nucleo caudato.

I trattamenti farmacologici o la terapia comportamentale che riducono efficacemente i sintomi generalmente


diminuiscono l’attività delle cortecce orbito e caudato, così come la distruzione del fascio del cingolo (collega
la prefrontale e cingolata al lobo temporale anteriore) riduce i sintomi del DOC. Recentemente, la stimolazione
cerebrale profonda con elettrodi impiantati si è dimostrata efficace ed è reversibile (il DOC potrebbe essere
causato da uno squilibrio tra via diretta e indiretta dei gangli della base), e i farmaci più usati sono gli SSRI
come la clomipramina, che alleviano i sintomi aumentando l’attività delle vie serotoninergiche con effetto
inibitorio sui comportamenti specie-specifici. Inoltre la clomipramina è efficace anche per ridurre:
tricotillomania (strapparsi i capelli), onicofagia (mangiarsi le unghie), sindrome acrale da leccate (nei cani).

Disturbo autistico

Il disturbo autistico si verifica in circa 4 bambini su 10.000, con prevalenza maschile di 3 a 1, ed è un disturbo
cronico caratterizzato da relazioni sociali, abilità comunicative e capacità immaginative scarse o assenti,
insieme alla presenza di movimenti ripetitivi non finalizzati. Evitano il contatto, sono indifferenti alle cure e
attenzioni, non cercano il conforto di altri e mostrano interessi e comportamenti anomali e stereotipati.
Sebbene i pazienti autistici siano generalmente, ma non sempre, ritardati, essi possono avere qualche dote
particolare, isolata.
Alcuni disturbi con sintomi simili sono:
o disturbo di Asperger (meno grave, no deficit cognitivi importanti o ritardi nello sviluppo linguistico;
interazioni sociali carenti o assenti, comportamenti stereotipati, e interesse ossessivo per parti di
oggetti)
o disturbo di Rett (sindrome neurologica genetica, nelle bambine, che provoca un arresto dello sviluppo
cerebrale normale nell’infanzia)
o disturbo disgregativo della fanciullezza (sviluppo normale poi tra i 2 e i 10 anni regrediscono
gravemente verso l’autismo)

I soggetti autistici hanno difficoltà a prevedere il comportamento degli altri o a crearsi una teoria della mente
per spiegare perché si comportano come fanno; tendono a non prestare attenzione ai volti delle persone, come
riflesso dalla mancanza di attivazione dell’area fusiforme della faccia quando osservano il viso altrui, e la loro
capacità di percepire le espressioni emotive sul volto degli altri è compromessa.
Alcuni recettori ritengono che il deficit cognitivo più importante sia l’incapacità di immaginare cosa sanno o
pensano gli altri di qualcosa e come si sentono.
In passato, i clinici incolpavano i genitori dell’autismo, ma attualmente è generalmente condivisa l’idea che si
tratti di un disturbo con radici biologiche. Studi sui gemelli hanno dimostrato il carattere ereditario, anche se
altri fattori incidono sul suo sviluppo. L’autismo può essere provocato anche da eventi che interferiscono con
lo sviluppo prenatale e che compromettono lo sviluppo del cervello, come la somministrazione in gravidanza
di talidomide oppure le infezioni materne di rosolia.
Studi di RM indicano che, sebbene le dimensioni cerebrali dei bambini autistici siano normali alla nascita, i loro
cervelli sono più grandi per l’età di 2-4 anni. Le regioni cerebrali coinvolte nei processi di ordine elevato, come
le funzioni comunicative e l’interpretazione degli stimoli sociali, si sviluppano più velocemente nel cervello
autistico, ma in seguito non riescono a continuare a svilupparsi normalmente. Inoltre, la comunicazione a
lunga distanza tra le regioni cerebrali di ordine elevato sembra essere compromessa. L’autismo non appare
associato alle vaccinazioni infantili.

Disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività

Il disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività è il disturbo della condotta più comune con insorgenza
nell’infanzia. I bambini con ADHD mostrano sintomi di disattenzione, iperattività e impulsività, incapacità di
inibire le risposte. Per essere diagnosticato come tale, c’è bisogno della presenza di sei o più dei nove sintomi
di disattenzione e di iperattività e impulsività. La condizione si osserva nel 4-5% degli allievi delle elementari
ed è più frequente nei ragazzi. Nel 60% dei casi, i sintomi di ADHD continuano in età adulta e la condizione si
associa con disturbo antisociale di personalità e disturbo da abuso di sostanze. Il trattamento medico più
comune è il metilfenidato (ritalin), un agonista della dopamina. Gli studi familiari e sui gemelli indicano
l’esistenza di una componente ereditaria in questo disturbo. Le evidenze empiriche suggeriscono che un
intervallo più breve del gradiente di rinforzo, forse causato da un numero maggiore di trasportatori della
dopamina, può spiegare l’impulsività e l’iperattività.
Gli studi di genetica molecolare hanno trovato un’associazione tra l’ADHD e particolari alleli del trasportatore
della dopamina. Alcuni studi PET sui trasportatori della dopamina hanno evidenziato un incremento della loro
numerosità, sebbene uno studio non abbia rilevato alcuna differenza. Questa spiegazione deve essere
riconciliata con l’osservazione che la manipolazione genetica che causa la riduzione del numero dei
trasportatori della dopamina, nel topo, induce iperattività, che viene ridotta dalla somministrazione di agonisti
dopaminergici.
Il cervello degli individui con ADHD è approssimativamente il 4% più piccolo del normale, con le maggiori
riduzioni a carico della corteccia prefrontale e del nucleo caudato. La maggior parte dei ricercatori ritiene che
l’ADHD sia causato da anomali di una rete di regioni cerebrali che coinvolgono lo striato e la corteccia
prefrontale. Gli studi di imaging funzionale hanno dimostrato l’ipoattivazione di queste strutture nel cervello
delle persone con ADHD, quando eseguono compiti che richiedono attenzione meticolosa e capacità di inibire
una risposta.

Disturbi da stress

Le reazioni emotive agli stimoli avversi possono danneggiare la salute individuale. La risposta di stress, che
Cannon ha denominato “reazione di attacco o fuga”, è utile a breve termine per fronteggiare gli stimoli avversivi,
ma diviene dannosa a lungo termine.
Questa risposta include l’incremento dell’attività del ramo simpatico del sistema nervoso autonomo e
aumenta la secrezione di alcuni ormoni surrenali: adrenalina, noradrenalina e glucocorticoidi (cortisolo). La
secrezione di glucocorticoidi è controllata dai neuroni del NPV (nucleo paraventricolare) dell’ipotalamo, i quali
secernono un peptide denominato ormone di rilascio della corticotropina (CRH).
L’ormone di rilascio della corticotropina (CRH), che stimola la secrezione di ACTH (adrenocorticotropo) da
parte dell’ipofisi anteriore, è anch’esso secreto nel cervello e sollecita alcune delle risposte emozionali alle
situazioni stressanti. Sebbene l’elevazione dei livelli dia adrenalina e noradrenalina possa produrre
ipertensione, la maggior parte dell’effetto nocivo per la salute viene dai glucocorticoidi. L’esposizione
prolungata ad alti livelli di questi ormoni può causare ipertensione, danno al tessuto muscolare, infertilità,
inibizione o blocco della crescita, immunodepressione. Inoltre, può anche danneggiare l’ippocampo, così come
può essere danneggiato dallo stress acuto. Questi effetti coinvolgono almeno in parte l’amigdala: infatti, le
lesioni di questa struttura riducono gli effetti dello stress a breve termine. L’esposizione prenatale o postnatale
precoce allo stress può influire negativamente sullo sviluppo cerebrale e sul comportamento, con
compromissione delle funzioni ippocampali e aumento delle dimensioni dell’amigdala. Queste modificazioni
sembrano predisporre gli animali a reagire più intensamente a stimoli stressanti.
Nell’uomo, lo stress conseguente a dolore cronico può causare la perdita di sostanza grigia cerebrale, specie
nella corteccia prefrontale, con i conseguenti deficit comportamentali che implicano la corteccia.

Anche l’esposizione a stress gravi può esercitare effetti a lungo termine: infatti, può indurre lo sviluppo del
disturbo post-traumatico da stress. La condizione, verso cui le donne sembrano essere più suscettibili degli
uomini, si associa a deficit mnestici, compromissione della salute generale e riduzione delle dimensioni
dell’ippocampo, sogni o ricordi ricorrenti, sensazioni che l’evento si stia ripresentando, e disagio psicologico
intenso.
Gli studi sui gemelli indicano una componente ereditaria alla suscettibilità al PTSD.
Uno dei fattori predisponenti sembra coinvolgere la riduzione del volume ippocampale. Gli studi di imaging
funzionali hanno rilevato un incremento dell’attività della corteccia prefrontale e dell’amigdala, quando i
pazienti ripensano agli eventi che hanno indotto il disturbo di cui soffrono. Gli individui con PTSD generalmente
mostrano una minor risposta del cortisolo alle esperienze traumatiche; tuttavia, secernono grandi quantitativi
di CRH (corticotropina). Questo modello di secrezione suggerisce l’ipersensibilizzazione dei recettori
glucorticoidi nell’ipotalamo e nell’ipofisi anteriore, che inibiscono la secrezione di ACTH. Vediamo nello
specifico la PNEI correlata allo stress.

Lo stress può essere definito come una sindrome generale di adattamento. Dal punto di vista funzionale
biologico, lo stress agisce su diverse strutture anatomiche: la corteccia cerebrale, l'amigdala e l'ippocampo.
Quando queste strutture vengono attivate da un agente stressante, l'amigdala e l'ippocampo inviano segnali
sia al locus coeruleus che all'ipotalamo. L'ipotalamo secerne due sostanze ormonali: l'arginin vasopressina e
il CRH. Il CRH stimola l'ipofisi a produrre ACTH la ACTH stimola la corteccia surrenale; la corteccia surrenale
produce uno degli ormoni tipici dello stress che è il cortisolo. D'altro canto il locus coeruleus secerne
catecolamine e noradrenalina quindi vi è un’attivazione del sistema simpatico che a sua volta stimola la
midollare del surrene. Questo sistema, per il mantenimento dell’omeostasi interna, si basa su un meccanismo
a feedback negativo. Dal punto di vista metabolico, il cortisolo ha vari effetti tra cui uno è quello di agire sul
sistema immunitario; essendo una sostanza antinfiammatoria deprime il nostro sistema immunitario quindi
ci rende più suscettibili a delle infezioni. D'altro canto il cortisolo agendo sul fegato produce un aumento della
gluconeogenesi, quindi l'aumento e produzione di glucosio, aumenta il catabolismo proteico a livello
muscolare e favorisce la lipolisi a livello del tessuto adiposo.
Il sistema immunitario, nello specifico, è basato sull’equilibrio tra i linfociti TH1 e TH2 (cellule
immunocompetenti aventi recettori per i neuropeptidi e producenti neuropeptidi): il TH1 ci difende dalle
aggressioni batteriche e dalla produzione di cellule tumorali, il TH2 si attiva quando ci sono parassiti
nell’organismo e ha un compito mediatico. Il cortisolo abbassa la reattività del sistema TH1 con conseguente
riduzione dell’intero sistema immunitario.
Da qui nasce il concetto della PNEI strettamente correlato all’interazione tra diverse discipline: il nostro sistema
psichico, le nostre emozioni, i nostri vissuti influenzano il nostro sistema nervoso che a sua volta influenza
direttamente il nostro sistema endocrino che a sua volta interessa il nostro sistema immunitario; questo non
è un sistema unidirezionale ma bidirezionale.
L’altra connessione fondamentale che si ha tra lo stress e il nostro sistema immunitario è quello che si verifica
nella cancerogenesi. Uno stress cronico produce noradrenalina e adrenalina e stimola i fattori di crescita
cellulari e questo stimola la proliferazione cellulare che è uno dei meccanismi di base con cui si producono le
cellule cancerose. D'altro canto anche l'aumento del cortisolo altera la nostra bilancia immunitaria provocando
una immunodepressione e questo è uno dei meccanismi principali per la proliferazione delle cellule
cancerogene attraverso “metastasi a distanza”.

Per quanto concerne il sistema nervoso, un neurone sottoposto a stress presenta terminazioni nervose
drasticamente ridotte e ciò provoca una riduzione della concentrazione delle cellule neuronali nella corteccia
prefrontale e ventromediale e l’ipertrofia di altre strutture di connessione fondamentale tra lo stress e il nostro
sistema immunitario come l’amigdala.
Generalmente, un individuo sottoposto ad uno stress ha una prima fase di “iper-attivazione adrenergica” e dal
punto di vista immunitario aumenta il volume degli organi immunocompetenti (es. linfonodi). In una seconda
fase detta “di resistenza” aumenta il volume di alcune ghiandole tra cui le ghiandole surrenali e la tiroide che
sono le tipiche ghiandole interessate da uno stress cronico. Successivamente, in presenza nuovamente di un
agente stressante, questi meccanismi adattativi vengono meno e l’individuo ha una sincope, cade
improvvisamente a terra e questo diciamo molto spesso è l'evoluzione cronica di uno stress prolungato.

Quindi, la psiconeuroimmunologia è un campo di studio relativamente nuovo, che indaga le interazioni tra
comportamento e sistema immunitario, mediate dal sistema nervoso.
Il sistema immunitario è costituito da diversi tipi di leucociti, che si sviluppano nel midollo osseo e nel timo,
che producono risposte aspecifiche e specifiche ai microrganismi invasori.
-Le reazioni aspecifiche includono la risposta infiammatoria, l’effetto antivirale dell’interferone e l’azione delle
cellule natural killer contro i virus e le cellule neoplastiche.
-Le reazioni specifiche sono le risposte a mediazione chimica e quelle cellulomediate, dove quelle a
mediazione chimica sono dovute a linfociti B, che rilasciano anticorpi che si legano agli antigeni sulla superficie
dei microrganismi, uccidendoli direttamente o rendendoli un facile bersaglio per altri leucociti per cui si
producono anticorpi specifici, ovvero proteine che riconoscono l’antigene e aiutano ad uccidere il
microrganismo invasore; mentre le risposte cellulo-mediate sono dovute ai linfociti T i cui anticorpi restano
attaccati alla membrana cellulare.
È stato dimostrato che un’ampia varietà di situazioni stressanti può aumentare la suscettibilità individuale a
contrarre malattie infettive. Il meccanismo più importante tramite cui lo stress compromette la funzione
immunitaria è l’incremento dei livelli ematici di glucocorticoidi. Inoltre, anche gli impulsi nervosi che
raggiungono il midollo osseo, i linfonodi e il timo possono giocare un ruolo; mentre gli oppioidi endogeni
sembrano sopprimere la sintesi delle cellule natural killer.
18. ABUSO DI SOSTANZE (facoltativo)
Caratteristiche comuni della tossicomania
Breve rassegna storica
Rinforzo positivo
Rinforzo negativo
Desiderio smodato di assunzione e recidiva
SOMMARIO DELLA PRIMA PARTE
Sostanze di frequente abuso
Oppiacei
Sostanze stimolanti: cocaina e amfetamina
Nicotina
Alcol
Cannabis
SOMMARIO DELLA SECONDA PARTE
Ereditarietà e abuso di sostanze
SOMMARIO DELLA TERZA PARTE
Approcci terapeutici alle tossicomanie
SOMMARIO DELLA QUARTA PARTE
ABUSO DI SOSTANZE (Carlson pagg. 614-642)
Caratteristiche comuni della tossicomania

Il termine inglese per indicare la tossicomania, addiction, significa condannare, poiché un tossicomane è
condannato ad una schiavitù involontaria, essendo obbligato a soddisfare le richieste della propria
tossicodipendenza.

Le sostanze che causano dipendenza devono innanzitutto rinforzare il comportamento individuale, tramite il
rinforzo positivo che consiste nell’effetto di certi stimoli sui comportamenti che li hanno preceduti. Se un
comportamento è seguito da uno stimolo appetitivo (che si tende ad avvicinare) allora quel comportamento
diverrà più frequente in quella situazione, così il verificarsi di quello stimolo appetitivo attiva un meccanismo
di rinforzo che aumenta la probabilità della risposta più recente nella situazione recente.
Le sostanze d’abuso sono in grado di attivare, tramite i loro effetti, il meccanismo di rinforzo e l’efficacia di uno
stimolo di rinforzo è maggiore se l’effetto si verifica immediatamente dopo la risposta messa in atto. Infatti
viene preferita l’eroina alla morfina solo perché ha effetto più immediato, dato che la prima si trasforma nella
seconda, una volta arrivata al cervello (ricerca del rush improvviso). Tutte le sostanze che inducono
dipendenza stimolano il rilascio di dopamina nel nucleo accumbens, una struttura che gioca un ruolo
importante nel rinforzo.

Ogni comportamento che interrompe o riduce uno stimolo avverso è rinforzato. Questo fenomeno è noto come
rinforzo negativo. Gli individui che assumono certe sostanze d’abuso abitualmente diventano fisicamente
dipendenti dalla sostanza mostrando tolleranza (ridotta sensibilità ad una sostanza conseguente al suo uso
continuativo, per cui ne vanno assunte dosi sempre più elevate) e sintomi di astinenza (opposto degli effetti
della sostanza, per cui euforia, rilassamento e costipazione si trasformano in disforia, agitazione, crampi e
diarrea). Non appena l’individuo assume un po’ di sostanza d’abuso, i sintomi scompaiono, producendo
rinforzo negativo; il rinforzo negativo potrebbe anche spiegare lo sviluppo di una tossicodipendenza, in
particolari condizioni, poiché sapendo che assumendo un tipo di sostanza, si allevia lo stato di ansia, si può
arrivare ad assumerla ancora prima che la situazione ansiogena si verifica, per evitarla.

Quando una sostanza che provoca dipendenza attiva il sistema dopaminergico mesolimbico, ciò conferisce
una rilevanza di incentivo agli stimoli presenti in quel determinato momento, per cui gli stimoli associati
all’assunzione della sostanza divengono eccitanti e motivanti. Se un individuo con una storia di tossicomania
vede quegli stimoli, egli sperimenta il forte desiderio di assumere nuovamente la sostanza. I cambiamenti nei
meccanismi cerebrali di rinforzo che avvengono sono definiti allostasi, ovvero una modificazione a lungo
termine del punto di regolazione alla base di questi meccanismi.
Negli animali di laboratorio, la disattivazione della corteccia prefrontale, dell’area tegmentale ventrale o del
nucleo accumbens impedisce ad una dose libera di cocaina di re-installare il comportamento di ricerca della
droga; al contrario l’iniezione di cocaina nella corteccia prefrontale o nel nucleo accumbens induce la re-
istituzione, così come la presentazione di stimoli prima associati alla sostanza.
Gli studi di imaging funzionale mostrano che le sostanze d’abuso o gli indizi ad esse associati (cocaina, alcool,
e oggetti associati all’uso di eroina) attivano la corteccia prefrontale mediale e il nucleo accumbers, dove la
prima è connessa al desiderio smodato e correlata al desiderio dei rinforzi normali così come delle sostanze
che provocano dipendenza ed è mediamente meno attiva nei tossicodipendenti rispetto alle persone normali.
Ciò può compromettere le capacità di giudizio individuali e l’abilità di inibire le risposte inappropriate, come
l’ulteriore assunzione di droga. La suscettibilità degli adolescenti al potenziale di dipendenza delle droghe si
può associare alla relativa immaturità della loro corteccia prefrontale. Gli stimoli stressanti, persino quelli in
età precoce, aumentano la predisposizione alla tossicodipendenza, associata al rilascio di CRH nel cervello.

Sostanze di frequente abuso

Gli oppioidi producono analgesia, ipotermia, sedazione e rinforzo. I recettori per gli oppioidi nella sostanza
grigia periacquedottale sono responsabili dell’analgesia, quelli dell’area preottica dell’ipotermia, quelli della
formazione reticolare della sedazione e quelli dell’area tegmentale ventrale e del nucleo accumbens spiegano
in parte gli effetti del rinforzo. Una mutazione mirata nel topo ha indicato che i recettori Mu sono responsabili
di analgesia, rinforzo e sintomi di astinenza. La morfina rinforza il comportamento persino dopo la distruzione
degli assoni e dei bottoni terminali dopaminergici del nucleo accumbens, quindi, il rilascio di dopamina in
questa struttura non rappresenta la sola causa degli effetti rinforzanti degli oppioidi. Il rilascio di oppioidi
endogeni può essere implicato nel rinforzo di stimoli naturali come l’acqua o persino di altre sostanze di abuso
potenziale, come l’alcool.
I sintomi dell’astinenza da oppioidi precipitata da un antagonista possono essere sollecitati dall’iniezione di
naloxone nella sostanza grigia periacquedottale e nel locus coeruleus: queste strutture, di conseguenza, sono
implicate nella produzione di tali sintomi.

La cocaina inibisce la ricaptazione della dopamina da parte dei bottoni terminali, mentre l’anfetamina inverte
l’azione dei trasportatori dopaminergici, in modo che i bottoni terminali rilascino il neurotrasmettitore.
Oltre a indurre vigilanza, attivazione e rinforzo positivo, cocaina e anfetamina possono causare lo sviluppo di
sintomi psicotici che assomigliano a quelli della schizofrenia di tipo paranoide. L’abuso a lungo termine di
queste sostanze provoca sensibilizzazione piuttosto che tolleranza. Gli effetti di rinforzo di cocaina e
anfetamina sono mediati dall’incremento della dopamina nel nucleo accumbens. L’abuso cronico di
metanfetamina si associa alla riduzione del numero degli assoni e dei terminali dopaminergici dello striato
(rilevato dalla diminuzione del numero dei trasportatori della dopamina ivi localizzati); questo effetto può
essere implicato nello sviluppo di ipofrontalità.

Il fatto che la nicotina sia una sostanza molto potente ad indurre dipendenza (nell’uomo come negli animali di
laboratorio) è stato a lungo ignorato, principalmente perché non causa intossicazione e perché la disponibilità
di sigarette e altri prodotti a base di tabacco non costringe i tabagisti ad intraprendere attività illegali. Tuttavia,
il desiderio di nicotina è estremamente motivante. La nicotina stimola il rilascio di dopamina da parte dei
neuroni mesolimbici; le iniezioni di nicotina nell’area tegmentale ventrale producono rinforzo. Anche i recettori
cannabinoidi CB1 sono implicati nell’effetto rinforzante della nicotina. La nicotina assorbita attraverso il fumo
di sigaretta eccita i recettori acetilcolinergici nicotinici ma anche li desensibilizza, il che porta a spiacevoli effetti
di astinenza. Anche l’attivazione dei recettori nicotinici sui bottoni terminali presinaptici dell’area tegmentale
ventrale produce potenziamento a lungo termine. La nicotina stimola il rilascio di GABA nell’ipotalamo laterale,
diminuisce l’attività dei neuroni MCH e riduce il consumo di cibo, il che spiega perché smettere di fumare
talvolta fa ingrassare.

L’esposizione all’alcool durante il periodo di rapido sviluppo cerebrale ha effetti devastanti ed è la causa
principale di ritardo mentale. Questa esposizione causa distruzione neuronale tramite apoptosi. L’assunzione
di alcool durante l’adolescenza può predisporre i ratti a un sostenuto abuso di alcol in età successiva. L’alcool
e i barbiturici hanno effetti simili (sebbene non identici). L’alcol produce rinforzo positivo e, grazie alla sua
azione ansiolita, induce anche rinforzo negativo. Agisce come antagonista indiretto dei recettori NMDA e
agonista indiretto dei recettori GABAa. Inoltre, stimola il rilascio di dopamina nel nucleo accumbens.
L’astinenza dopo un lungo periodo di abuso di alcol può indurre crisi epilettiche, un effetto che sembra causato
dalla sensibilizzazione compensatoria dei recettori NMDA. Anche il rilascio di oppioidi endogeni è implicato
negli effetti di rinforzo dell’alcol. L’aumento del numero dei recettori oppioidi Ma durante l’astinenza da alcol
può aumentarne il desiderio.

Il principio attivo della cannabis, il TCH, stimola i recettori il cui ligando naturale è l’anandamide. Il THC, come
altre sostanze che inducono dipendenza, stimola il rilascio di dopamina nel nucleo accumbens. Il recettore
CB1 è responsabile degli effetti fisiologici e comportamentali del THC e dei cannabinoidi endogeni. La
mutazione mirata contro il recettore CB1, riduce l’effetto rinforzante di alcol, cocaina e oppiacei, così come dei
cannabinoidi. Il blocco dei recettori CB1 diminuisce anche gli effetti rinforzanti della nicotina. I cannabinoidi
producono effetti mnestici agendo sui neuroni GABAergici inibitori del campo CA! dell’ippocampo.

Ereditarietà e abuso di sostanze

La maggior parte delle persone esposte a sostanze in grado di indurre dipendenza, persino quelle con un
elevato potenziale d’abuso, non diventa tossicodipendente. Le evidenze empiriche indicano che la probabilità
di sviluppare una dipendenza, specie all’alcol e alla nicotina, è fortemente influenzata da fattori ereditari. Il
consumo di droghe e lo sviluppo di dipendenza sono influenzati da fattori ereditari e ambientali generali,
applicabili a tutte le sostanze, e da fattori specifici, applicabili solo a particolari droghe. Esistono due tipi di
alcolismo, uno associato alla personalità antisociale e tendente alla ricerca del piacere (bevitori costanti), e un
altro associato alla personalità ansiosa e repressa (bevitori da party). Una migliore conoscenza delle basi
fisiologiche dei meccanismi di rinforzo e punizione agevolerà la comprensione degli effetti dell’ereditarietà
sulla predisposizione alla tossicodipendenza.
È stato dimostrato che alcuni geni individuali influenzano l’abuso di particolari sostanze. Per esempio, le
variazioni di geni di deidrogenasi alcolica, recettore Ma degli oppioidi, recettore GABAa e recettore
acetilcolinergico M2 giocano un ruolo nella predisposizione all’alcolismo.

Approcci terapeutici alle tossicomanie

La terapia più diffusa della dipendenza da oppiacei è il mantenimento con metadone, un oppiaceo potente,
somministrata in forma liquida, da assumere per via orale in presenza del personale sanitario di supervisione.
Incrementa lentamente il livello cerebrale di oppioidi, per cui non produce un effetto immediato come
un’iniezione e lo difende in caso di assunzione di eroina in dose leggera.
Una sostanza più recente usata è la buprenorfina, un agonista parziale del recettore Ma degli oppioidi che
blocca gli effetti degli oppiacei e produce di per sé solo un debole effetto simile.
Un approccio interessante è quello di coniugare la cocaina ad una proteina non riconosciuta dall’organismo,
al fine di stimolare il sistema immunitario dei ratti allo sviluppo di anticorpi contro di essa. Gli anticorpi si
legano alle molecole di cocaina impedendo loro di attraversare la barriera ematoencefalica, per cui i ratti erano
immunizzati alla cocaina e meno sensibili ai suoi effetti attivanti.
Il rimonabant, un farmaco che blocca i recettori CB1, è un efficace aiuto per chi vuole smettere di fumare,
poiché riduce l’aumento ponderale che tipicamente accompagna la cessazione del fumo e che spesso
scoraggia i fumatori che cercano di smettere.
I bloccanti della ricaptazione della serotonina agevolano l’astensione dal consumo di alcol; il citalopram
(agonista) riduce l’interesse, il desiderio dell’alcool in quanto agisce diminuendo gli effetti di rinforzo dell’alcol.
Il più efficace coadiuvante farmacologico nella terapia dell'alcolismo è il naltrexone, un bloccante degli oppioidi
che riduce gli effetti di rinforzo dell’alcol. L’aggiunta di acamprosato, un antagonista dei recettori NMDA,
sembra facilitare la sua efficacia.

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