Sei sulla pagina 1di 150

CELLULE STAMINALI EMOPOIETICHE- INTRODUZIONE

Il sangue, ancorché si definisca, in termini istologici, come un tessuto connettivo, è costituito


da una componente fluida e da una componente cellulare. Il rapporto tra le due componenti
si ripercuote sullo stato fisico del sangue: è chiaro che se la componente cellulare aumenta
rispetto a quella liquida, la viscosità del sangue aumenta, oppure se la componente liquida
si riduce rispetto a quella corpuscolata; viceversa succede nel caso opposto. Si parla in tal
proposito di emoconcentrazione ed emodiluizione. Questo tessuto è composto da varie
cellule:

- Eritrociti, cellule anucleate il cui citoplasma è totalmente dedicato allo storage di


molecole di emoglobina;
- Monociti
- Granulociti, a loro volta suddivisi in:
1. Granulociti neutrofili, i più rappresentati
2. Granulociti basofili, i meno rappresentati
3. Granulociti eosinofili, i meno rappresentati dopo i basofili
- Linfociti:
1. Linfociti T;
2. Linfociti B;
3. Linfociti NK
- Piastrine: sono cellule particolari, che derivano dalla frammentazione di una cellula
molto più grande presente a livello del midollo osseo, il megacariocita. Esse hanno
la funzione di creare il tappo piastrinico nell’ambito dei meccanismi dell’ emostasi.
Oltre questo, esse intervengono nell’ambito dei processi infiammatori, o in
meccanismi coinvolti nella metastatizzazione di cloni neoplastici in sedi ectopiche
dalla neoplasia primaria.

Le cellule del sangue periferico, originano a livello del midollo osseo. Il midollo si trova
nelle cavità midollari dell’osso, dunque non è possibile ritrovare il midollo in tutte le ossa ma
solo in alcune ossa. All’interno del midollo osseo è possibile ritrovare le cellule staminali
emopoietiche.

Le cellule staminali, in generale, sono cellule che hanno una prerogativa diversa da quella
che hanno le altre cellule dell’organismo: si dividono per molto tempo, a lungo, e nella
divisione può dar luogo ad una auto-rigenerazione, in quanto da vita ad altre cellule uguali
a sé stessa. Per quanto riguarda, in particolare, le cellule staminali emopoietiche, ciò che
sappiamo a tal proposito, deriva dalla facilità di poter studiare il sangue ed il midollo osseo.
Si tratta di tessuti facilmente prelevabili per la natura stessa del tessuto stesso. L’ematologia
è la disciplina che più delle altre in medicina può, dunque, occuparsi di cellule staminali.

La cellula staminale emopoietica è una cellula staminale adulta, definita così per
differenziarla dalla cellula staminale embrionale. Queste due cellule sono totalmente diverse
tra loro, in quanto compaiono in periodi di sviluppo dell’individuo totalmente diversi. È
possibile distinguere, dunque:

- La cellula staminale embrionale la ritroviamo durante lo sviluppo embrionale, in


particolare durante la fase di realizzazione della blastocisti. A partire da queste cellule
staminali embrionali può cominciare la differenziazione di qualsiasi tessuto del nostro
organismo. Dunque tale cellula, in termini di potenza staminale è una cellula
pluripotente: può differenziarsi in tutti i tipi cellulari che vanno a costituire i tessuti di
cui siamo formati.
Le cellule staminali embrionali pluripotenti sono difficilmente studiabili in laboratorio,
in particolare per motivi etici. Nel tempo, quindi, è stata fatta una scoperta: prendendo
cellule differenziate dell’organismo (es. cutanee, epatiche, etc.), in laboratorio è
possibile de-differenziarle in cosiddette “cellule staminali pluripotenti indotte”,
modificandone l’espressione genica di 3-4 geni. Tuttavia si è visto che tali cellule
presentano a livello genomico modificazioni epi-genetiche importanti, alle quali
consegue una inevitabile degenerazione neoplastica, motivo per cui queste iPS non
sono usabili per “sfornare veri e propri organi”, come un tempo si pensava.
Si presti attenzione: la cellula staminale totipotente, invece, è essenzialmente lo
zigote, in quanto solo questi può dare originare sia ai tessuti embrionali che ai tessuti
che ne costituiscono gli annessi.
- La cellula staminale adulta, essa si ritrova in un contesto già differenziato come ad
esempio il midollo osseo, per quanto riguarda le cellule staminali emopoietiche. Tutti
gli organi hanno un compartimento staminale, caratterizzato da cellule staminali
adulte. Se ogni tessuto non avesse un compartimento staminale la funzione dei vari
organi o tessuti si esaurirebbe in breve tempo, a causa dell’incapacità di rinnovarne
le cellule. Anche la cellula staminale adulta, come la precedente, può auto-
rigenerarsi e può differenziarsi. Tuttavia, a differenza della cellula staminale
embrionale, non è pluripotente bensì può differenziarsi solo nella direzione cellulare
del tessuto in cui è contenuta. Attenzione però, se prendiamo una cellula staminale
emopoietica, e dunque del midollo osseo, ed in laboratorio la andiamo a stimolare
con fattori di crescita di altri compartimenti, come quelli del tessuto epatico, questa
cellula diventerà un epatocita. Questo evento si definisce “plasticità della cellula
staminale”. In vitro, la cellula sottoposta a fattori che non sono fisiologici comunque
è in grado di rispondere a questi fattori. Un fatto curioso è che quando individuo ha
un grande incidente, questi nel suo sangue periferico avrà un sacco di cellule
staminali. È probabile che il significato di questo aumento di cellule staminali abbia
l’obbiettivo di inviarle ad altri tessuti e cercare di recuperare gli organi.
Dunque, la cellula staminale emopoietica è multipotente: in vivo, può differenziarsi
in vari tipi cellulari, ma solo relativi al tessuto emopoietico.

In definitiva, è possibile riassumere vari gradi gerarchici di cellule staminali, in base alla
rispettiva potenza differenziativa:

1. Cellula toti-potente: zigote;


2. Cellula pluri-potente;
3. Cellula multi-potente;
4. Cellula oligo-potente, come quelle del tessuto nervoso.
5. Cellula uni-potente, come lo spermatogonio, che può intraprendere una ed una sola
strada differenziativa.

Quando una cellula staminale emopoietica si divide essa segue il meccanismo di auto-
rigenerazione, tuttavia essa oltre che auto-rigenerarsi può anche differenziarsi.

1. Se si auto-rigenerasse solamente essa non avrebbe alcuna utilità, a livello midollare


avrei solo cellule indifferenziate, come ad esempio può accadere in una neoplasia;
2. Se si differenziasse solamente allo stesso modo non sarebbe funzionale, in quanto
in breve tempo il tessuto andrebbe incontro ad insufficienza funzionale: esistono, a
tal proposito delle patologie che vedremo in seguito, che determinano una situazione
di questo tipo, ovvero vi è la perdita delle capacità auto-rigenerative di tali cellule.

La cellula staminale emopoietica, quindi, al momento della divisione può:

- Auto-rigenerarsi: dando origine ad una cellula uguale alla madre, ovvero una cellula
staminale emopoietica.
- Differenziarsi: dando origine ad una cellula che non è uguale alla cellula madre,
definita cellula commissionata. Alla sua nascita tale cellula sa già che dovrà diventare
un eritrocita, una piastrina, un linfocita, o altro. Il suo destino è già segnato nel suo
DNA. Questa cellula è anche definibile progenitore emopoietico: esso nasce dalla
cellula staminale emopoietica, e successivamente non può autorigenerarsi, bensì
può solamente differenziarsi dividendosi. Ci sono della patologie, come tumori del
sangue, in cui il progenitore emopoietico acquisisce anche la capacità di
autorigenerarsi.

Questo tipo di divisione si chiama divisione asimmetrica; normalmente, invece, le cellule


quando si dividono sono uguali tra di loro e alla cellula che le ha generate, ovvero vanno
incontro a divisione di tipo simmetrico.

La divisione asimmetrica, quindi, garantisce da un lato la rigenerazione del tessuto, dall’altro


la differenziazione del tessuto. Se c’è uno sbilanciamento di uno di questi due elementi
avremo una patologia: neoplasia o invecchiamento precoce dell’organo.

Il progenitore emopoietico, invece, quando si divide potrà dar vita solamente ad elementi
diversi da esso, in quanto differenziati. Può accadere però, che il midollo osseo ad un certo
punto non abbia bisogno né di elementi staminali emopoietici ne di progenitori: in tale
situazione le cellule staminali sono indirizzate verso l’apoptosi. L’apoptosi è un
meccanismo di morte cellula programmata, in cui viene usato ATP per far si che il processo
venga in modo ordinato e corretto. Al contrario, la necrosi avviene in modo involontario.
Esistono delle patologie in cui l’apoptosi viene disregolata nel midollo osseo, in quanto si
verifica in modo eccessivo: questo può portare, ad esempio, all’aplasia midollare, una
condizione di mancanza del tessuto emopoietico nel midollo.

Inoltre oggi sappiamo che se doniamo il sangue, il sangue si riforma grazie all’attività delle
cellule staminali in poche ore. Che il sangue fosse un tessuto che va incontro a meccanismi
di auto-rigenerazione oggi lo diamo per scontato ma in passato, chiaramente, doveva
essere dimostrato. In passato, era appurato che se si prendeva un topo e questi fosse
esposto ad una dose di radiazioni “letale”, il topo muore. Si era capito, inoltre, che queste
radiazioni avessero un impatto sull’attività proliferativa del midollo emopoietico. Le
radiazioni vanno a danneggiare il DNA, innescano dunque un meccanismo apoptotico e
questo tessuto si autodistrugge. I ricercatori dunque, hanno preso un topolino e lo hanno
esposto a radiazioni letali, dopo aver fatto questo hanno donato al topolino il tessuto
emopoietico di un altro topo, dimostrando che quel topo non moriva. Facendo l’esame
istologico delle cavità midollari del topo si è visto, inoltre, che vi era attività emopoietica.
Grazie a ciò, ad ogni modo, si è dimostrato che il sangue si autorigenerasse.
La cellula staminale emopoietica, come detto, ha una divisione asimmetrica: come è
possibile questa cosa? Può essere resa possibile da due meccanismi:

1. Si ipotizza che la cellula madre nel momento della divisione distribuisce in maniera
ineguale fattori di trascrizione alle cellule figlie, quindi le due cellule figlie hanno un
DNA sul quale agiranno fattori di trascrizione diversi, e dunque il profilo di
espressione genica delle cellule figlie è strettamente vincolato dai fattori di
trascrizione che ricevono alla nascita.
2. L’altra ipotesi è che le due cellule figlie alla nascita sono uguali, e dunque è possibile
che la divisione non sia davvero “asimmetrica”, però una delle cellule generate si trovi
in una parte della componente midollare in cui riceve stimoli differenziativi mentre
l’altra non riceve questi stimoli. Secondo questa ipotesi, quindi, la divisione sarà
simmetrica, e la differenza tra le due cellule è solamente frutto di stimoli differenti
che agiscono sulle cellule figlie.

Queste due ipotesi non si escludono a vicenda, ma probabilmente è possibile che


avvengano entrambe le cose.

Cenni sul trapianto di midollo


Oggi più che trapianto di midollo si parla di trapianto di cellule staminali emopoietiche.
Nel sangue periferico è possibile ritrovare le cellule staminali emopoietiche. Tuttavia si
tratta dello 0.002%, e del resto gli strumenti che contano le cellule del sangue al fine di
redigere l’esame emocromocitometrico non sono in grado di distinguere queste cellule dalle
altre che va ad analizzare. Per fare questa discriminazione servirebbero altri esami, che
routinariamente non vengono fatti. Quando un paziente ha un’infezione, uno stress fisico, è
sottoposto ad alcuni farmaci, queste cellule, inoltre, possono aumentare nel sangue.

Nel momento in cui si decide di donare, innanzitutto si fa un esame del sangue periferico
allo scopo di studiare il sistema HLA. Questo è un insieme di un centinaio di proteine,
codificate da gruppi genici ereditati in blocchi dai nostri genitori. Ognuno di noi si caratterizza
per un assetto HLA diverso. Quando facciamo un trapianto, dunque, il sistema HLA deve
essere analizzato al fine di individuare l’eventuale compatibilità con quello del donatore. È
impossibile che ci sia perfetta corrispondenza tra donatore e ricevente, ma ciò che ci
interessa è individuare la corrispondenza tra un piccolo numero di antigeni di questo
sistema, che devono essere identici. Nonostante si tratti di un piccolo numero di antigeni,
però, la perfetta corrispondenza di questi, a sua volta risulta essere particolarmente
improbabile, motivo per cui è difficile trovare la compatibilità richiesta.
Ipotizziamo di trovare un ricevente compatibile, in tal caso bisogna intraprendere la
circostanza della donazione, il cosiddetto “espianto”. La sede naturale in cui alberga
normalmente il tessuto emopoietico, come detto, sono le cavità midollari. Normalmente, in
clinica, i punti di repere per prendere il midollo osseo e poterlo analizzare sono due:

- Sterno
- Cresta iliaca, questa è una tuberosità del bacino che si trova immediatamente al di
sotto di due fossette poste immediatamente sopra i glutei. In corrispondenza di
queste fossette identifichiamo i punti di repere delle creste iliache. La procedura di
espianto non viene fatta a livello sternale in realtà in quanto l’osso è troppo fragile ed
ha una superficie troppo piccola per prelevare le quantità che servono. Dunque, in
diagnostica se dobbiamo vedere cosa succede nel midollo possiamo sfruttare sia un
puntato sternale che un prelievo dalla cresta iliaca. Per il trapianto, invece, non si fa
un puntato sternale.

Questa appena citata è una delle due modalità possibili, l’altra modalità possibile, invece, si
basa sul concetto che nel sangue periferico è possibile ritrovare cellule staminali
emopoietiche, e queste, ovviamente, provengono dal midollo osseo in quanto sussiste una
forte comunicazione tra i due compartimenti. Quindi, è possibile somministrare una
molecola, che normalmente viene prodotta dall’organismo, e che ho possibilità di ricostruire
in laboratorio come molecola ricombinante. Questa sostanza è il “fattore di crescita che
stimola le colonie granulocitarie”, o G-CSF (Granulocyte-Colony Stimulating Factor). Il
G-CSF normalmente viene prodotto dall’organismo per vari motivi, anche nell’ambito di
infezioni, in quanto in tale situazioni sono richiesti un maggior numero di neutrofili. Nel caso
specifico nostro, invece, esso promuove un meccanismo definito “mobilizzazione della
cellula staminale”: promuove lo spostamento della cellula staminale emopoietica dal
midollo osseo al sangue periferico. Quindi diamo questa sostanza che si inietta sotto cute e
poi contiamo le sue cellule staminali emopoietiche nel sangue con l’esame
citofluorimetrico. Quando il numero di queste cellule sarà sufficiente per fare il trapianto,
questo donatore sarà attaccato ad una macchina che permetterà di separare le cellule
staminali dal suo sangue.

Si noti che il G-CSF è una molecola usata, inoltre, in oncologia: il paziente usa spesso
farmaci che non sono specifici per la cellula neoplastica, ma che funzionano bloccando la
proliferazione cellulare. In questo modo, però, verrà bloccata la proliferazione non solo delle
cellule neoplastiche, giacchè saranno bloccate anche le cellule proliferanti del nostro
organismo. A causa di questo il paziente oncologico potrà andare incontro ad una
condizione di carenza di granulociti neutrofili, definita neutropenia, che espone questi ad
infezioni. A questo scopo diamo il G-CSG in quanto accelera la ripresa della riproduzione
dei granulociti neutrofili.

Quindi, in un modo o nell’altro, ottengo il materiale che può essere usato per il trapianto. Il
materiale ottenuto deve essere fornito al ricevente. Ciò viene fatto attraverso un’iniezione
endovenosa: ciò è basato sul principio dell’homing. Questa è un’altra proprietà della cellula
staminale la quale è in grado di “rientrare a casa”: la cellula, come detto, può essere
mobilizzata dal midollo al sangue, ma può fare anche il contrario, ovvero passare dal
sangue periferico al midollo osseo. Le cellule infuse per via endovenosa, quindi,
raggiungono per questa via le cavità midollari, a patto che le cavità midollari siano libere.
Prima di infondere le cellule staminali al paziente, infatti, vanno fatte una serie di cose che
vedremo in seguito, in quanto le cavità midollari non devono essere occupate dalle cellule,
bensì libere.

Come detto, la sede dell’attività emopoietica è rappresentata dalle cavità ossee, laddove la
superficie totale occupata da queste cavità nell’organismo è particolarmente ampia. Il
midollo emopoietico però occupa solamente un quarto, circa, delle cavità disponibili. Ci
sono delle patologie in cui questo ¼ può aumentare, o al contrario può diminuire. Le cavità
midollari sono impegnate a livello macroscopico anche da un altro tessuto: tessuto
adiposo. In passato si parlava di midollo osseo rosso e giallo, ormai questa definizione non
è più usata. La distribuzione dell’attività emopoietica nell’ambito delle cavità ossee cambia
a seconda dell’età dell’individuo ed in particolare nei bambini è molto sviluppata nelle ossa
piatte; ci sono delle patologie, come le talassemie, in cui l’attività emopoetica è esuberante
e questo determina un aumento dello spessore osseo, determinando delle deformazioni
scheletriche.

Microambiente midollare

Nel midollo osseo, ovviamente, vi è molto altro oltre alle semplici cellule del tessuto
emopoietico, anche cellule che genealogicamente non hanno nulla a che fare con il tessuto
emopoietico. L’attività emopoietica dipende, quindi, dalle interazioni che sussistono tra le
componenti qui presenti; se insorge una alterazione di tali interazioni può insorgere una
patologia, la quale molto spesso fa capo alla patologia neoplastica. Alcuni tumori del sangue
non sono soltanto risultato della trasformazione della cellula normale in cellula neoplastica,
ma è lo stesso microambiente che è trasformato al fine di realizzare l’espansione
neoplastica.

A ridosso della corteccia dell’osso è presente, quindi, la nicchia emopoetica in cui


troviamo la cellula staminale emopoietica. La cellula staminale nella nicchia è coniugata ad
una cellula stromale, è possibile che essa sia un osteoblasto. La cellula stromale funziona
quasi come una badante della cellula staminale emopoietica, in quanto si occupa di tutto ciò
che serve alla cellula staminale per sopravvivere, ma soprattutto fa in modo che questa
cellula sia e resti nella nicchia, in fase G0 del ciclo cellulare. La cellula stromale, dunque, si
occupa di filtrare i messaggi che arrivano alla nicchia e sono diretti alla cellula staminale, ed
in base a questi messaggi decidere se “svegliarla”.

Se consideriamo, dunque, una sezione trasversale dell’osso e la consideriamo in senso


centripeto, noteremo quello che viene definito “gradiente di differenziazione cellulare”:
vicino alla corteccia dell’osso ci sono elementi meno differenziati, meno in prossimità
dell’osso ci sono elementi più differenziati. Infatti, al centro della sezione ci sono anche i
vasi, è normale che le cellule maggiormente differenziate siano presenti in prossimità della
porzione centrale, in quanto queste cellule potranno assolvere la loro funzione solo nel
sangue periferico. Esistono patologie per le quali il passaggio di tali cellule nei vasi non
avviene in modo corretto, e dunque il midollo sarà ricco di cellule mentre il sangue periferico
no.

Mobilizzazione
Normalmente, come detto, le cellule staminali si trovano nella nicchia emopoietica e sono
come una “nave attraccata al porto attraverso l’ancora”, laddove l’ancora è la cellula
stromale. Quando questo legame per vari motivi viene rotto, ad esempio il G-CSF riesce a
spezzarlo, la cellula staminale prende la via dei vasi e attraversa i sinusoidi midollari. I
sinusoidi midollari sono vasi primitivi che si trovano nel microambiente midollare,
caratterizzati dal fatto di non avere una membrana basale, per cui sono attraversati molto
facilmente. La cellula staminale, quindi, raggiunge la circolazione periferica perché lascia la
nicchia rompendo il legame con la cellula stromale, prende la via dei sinusoidi midollari e va
nella circolazione periferica. L’aumento del numero di cellule staminali nel sangue periferico
può essere facilitato, come detto, da condizioni quali infezioni, stress, farmaci. Ovviamente
la migrazione delle cellule può essere favorita dalla modificazione di concentrazione di altre
molecole quali metalloproteinasi, molecole di adesione, è un meccanismo molto complesso,
e molto poco noto.
L’inverso della mobilizzazione è dato dall’homing delle cellule staminali introdotte nel
ricevente del trapianto. Una piccola parte di queste cellule, in realtà, può raggiungere sedi
improprie (fegato, polmoni, etc.), ma la maggior parte, effettivamente, raggiunge le cavità
midollari e se le nicchie emopoietiche ed altre condizioni sono ottimali, riescono ad occupare
le nicchie, stabilire interazioni con le cellule stromali ed iniziare a fare emopoiesi.

Quando una cellula staminale emopoietica si deve spostare in uno dei due sensi
(mobilizzazione o homing), dalla sua superficie vengono emessi dei piccoli prolungamenti
detti “microspikes”, per cui essa cambia forma. Questi piccolo prolungamenti possono
diventare molto più lunghi dei precedenti, diventando “proteopodi”. Grazie a questi
prolungamenti, se noi vediamo la cellula staminale che emette le protusioni citoplasmatiche
ciò vuol dire che è una cellula impegnata nell’homing o nella mobilizzazione. Se questa
capacità invece non c’è, ciò vuol dire che vi è una patologia.

È possibile individuare una cellula staminale emopoietica in ematologia. Per rilevare la


cellula posso usare una citofluorimetria: si usano degli anticorpi monoclonali specifici per
certi antigeni che la cellula staminale emopoietica può esprimere. Per definizione la cellula
staminale emopoietica è una cellula Lineage - : sulla superficie della cellula staminale non
vi è alcuno antigene di linea, ovvero negativa per tutti i marcatori delle cellule del sangue.
Ciò significa che non vi sono né antigeni dei globuli rossi, né delle piastrine, etc., in quanto
si tratta di una cellula indifferenziata. Tra i tanti antigeni che posso individuare sulla
superficie della cellule staminale quello fondamentale nella citofluorimetria è l’antigene di
staminalità: CD34.

Il progenitore emopoietico è allo stesso modo CD34+, ma risulta essere Lineage +: esso,
per definizione è una cellula che darà luogo a globuli rossi, bianchi, piastrine, etc. per cui
già alla sua nascita esso presenterà antigeni ricondubili alla linea eritrocitaria, granulocitaria
etc.

Quando faccio il trapianto, ovvero seleziono le cellule del donatore da dare al ricevente, si
fa in modo di selezionare cellule CD34+, siano esse Lineage+ o -, dando quindi sia cellule
staminali che progenitori. Le staminali servono affinchè il donatore costituisca il patrimonio
rigenerativo del tessuto, mentre il progenitore serve per ottenere subito cellule del sangue,
in quanto il ricevente non avrà cellule del sangue al momento del midollo e dunque il suo
patrimonio deve essere al più presto rigenerato in modo tale che non vada incontro a
infezioni e problematiche di altro genere. Per selezionare le cellule CD34+ userò la
cosiddetta selezione (sorting) cellulare attivata dalla fluorescenza. Se so che le cellule
CD34+ sono quelle che mi servono, userò un anticorpo monoclonale contro questo
antigene, e questo anticorpo sarà legato ad una sostanza fluorescenza. Quindi, l’anticorpo
anti-CD34 si legherà ovviamente solo alle cellule CD34+: tutte le cellule passano in una
macchina, un “selezionatore”, e vengono disposte in fila indiana. Tutte le cellule vengono
colpite da un raggio laser. Le cellule che avranno legato l’anticorpo, quando sono colpite dal
raggio, possono emettere una fluorescenza e contestualmente alla fluorescenza una carica
elettrica, che potrà essere positiva o negativa a seconda di quello che ho stabilito io a priori.
Quindi la macchina dividerà tutte le cellule fluorescenti CD34+ da tutte le altre. In questi
processo di selezione però, qualche cellula CD34- può essere erroneamente selezionata
dalla macchina. Si tratta prevalentemente di linfociti: la selezione di questi linfociti può
essere un vantaggio o un problema nell’ambito del trapianto, come vedremo.

Morfologia delle cellule del sangue – fisiologia

Per quanto riguarda le cellule del sangue in linea generale bisogna notare che se
consideriamo la storia differenziativa di una cellula le cellule più indifferenziate sono sempre
più grandi di quelle maggiormente differenziate. Questa è una regola generale, ma ci sono
delle eccezioni.

Si può infatti considerare il processo di differenziazione di un granulocita neutrofilo: si parte


da una cellula indifferenziata, il mieloblasto, per arrivare ai neutrofili differenziati.
Come si può vedere dall’immagine il promielocita, che è la cellula che segue il mieloblasto
nella scala di maturazione, è più grande del mieloblasto nonostante sia maggiormente
differenziato: dunque questa è un’eccezione.

Per quanto riguarda l’eritropoiesi è conservata la regola delle dimensioni. Nell’eritropoiesi


c’è un totale stravolgimento dell’assetto morfologico, fino ad arrivare addirittura alla perdita
del nucleo, che non serve ad assolvere le funzioni che questa cellula dovrà compiere.
Quindi, tutte le patologie in cui la differenziazione rimane bloccata prima dell’eritrocita
maturo, le altre cellule non saranno in grado di legare l’ossigeno, e dunque ciò determinerà
una condizione di anemia.

La cromatina può assumere due differenti assetti:

1. Eterocromatina: una situazione in cui il DNA è avvolto su se stesso in maniera


esuberante, e dunque i suoi geni non possono essere raggiungi con facilità e quindi
manca la possibilità di poter esprimere i geni e produrre le proteine; una cellula che
mostri eterocromatina è una cellula che ha finito il suo ciclo vitale.
2. Eucromatina: la cromatina è despiralizzata e il DNA è srotolato, i geni sono esposti
a fattori di trascrizione e si realizza dunque la sintesi proteica. Una cellula nella quale
si realizza in modo attivo la sintesi proteica sarà altresì caratterizzato da peculiari
aspetti morfologici: (1) saranno ben visibili i nucleoli, il che testimonia una attiva
sintesi proteica; (2) spesso quando c’è produzione di proteine il citoplasma è basofilo.
Il citoplasma di una plasmacellula è fortemente basofilo in ragione della sua alta
capacità di produrre proteine, ovvero anticorpi.

Gli eritrociti, dunque, sono cellule molto facili da riconoscere, anucleate: appaiono come
dischetti con una regione più pallida al centro; questa regione pallida può aumentare e
quando aumenta ciò è espressione di una diminuzione delle molecole di Hb. Un eritrocita
vive in media 120 giorni.

Le piastrine abbiamo detto che sono cellule derivanti dai megacariociti, esse vivono in
media tra le due e le tre settimane (al contrario il neutrofilo vive al massimo 24 ore). Le
piastrine appaiono come dei corpuscoletti violacei, dove il colorito è determinato dalla
presenza degli acidi nucleici all’interno di queste. Gli acidi nucleici permettono alle piastrine
di svolgere le funzioni varie che esse possono assolvere (infiammazione, emostasi, etc.).

Per quanto riguarda i leucociti, sussistono diversi leucociti:

1. I più rappresentati nel sangue periferico sono i granulociti, cosi’ chiamati in quanto
nel citoplasma sono presenti delle granulazioni, diverse per le caratteristiche tintoriali
a seconda del granulocita che stiamo considerando (neutrofilo, eosinofilo, basofilo).
Questi si caratterizzano anche per la multi-lobatura del nucleo: la massima
espressione della multi-lobatura la ritroviamo nel granulocita neutrofilo; nell’eosinofilo
esso è generalmente bilobato, mentre nel basofilo solitamente il nucleo non è visibile
in quanto è coperto dalle granulazioni. In realtà anche qui, se basofilo degranula, si
può osservare il nucleo, il quale potrà apparire bilobato.
Osservando un granulocita neutrofilo inoltre, si può osservare il corpo di Barr, dunque
osservando un granulocita che sembra avere 5 lobi nell’immagine, in realtà si può
affermare che esso ha 4 lobi a cui si aggiunge il corpo di Barr (molto più piccolo).
Esso rappresenta la porzione di DNA del nucleo che è stata allontanata in quanto
inutile, disattivata seconda una regola basata sul caso, e che riguarda uno dei due
cromosomi X (si ricordi che il processo di disattivazione del corpo di Barr è definito
“lyonizzazione”). Morfologicamente il corpo di Barr, nei neutrofili ha un aspetto a
bacchetta di tamburo. Nel granulocito eosinofilo invece ha una forma detta a lenti
d’occhiali.
Chiaramente le granulazioni del granulocita neutrofilo servono ad esprimere
un’attività microbidica: esistono infatti delle patologie della differenziazione
emopoietica che portano ad una incompleta maturazione anche dei granulociti
neutrofili; questa incompleta maturazione si traduce in una assoluta difficoltà di
queste granulazioni nel poter svolgere la loro attività microbicida perché queste
granulazioni o (1) sono troppo poche, (2) non ci sono affatto, (3) se ci sono sono fatte
male. Questo accade anche in alcuni tumori del sangue oltre che in queste patologie
con incompleta maturazione.
Il granulocita eosinofilo ha un assetto per quanto riguarda la funzione delle
granulazioni molto simile a quello dei neutrofili, in quanto queste granulazioni servono
a richiamare altre cellule dell’infiammazione, come esprimere attività citotossica nei
confronti di elementi estranei. I granulociti eosinofili, a tal proposito, sono specializzati
nell’attività anti-elmintica e infatti ci sono delle parassitosi che si accompagnano ad
una spiccata eosinofilia all’emocromo di questi pazienti (si assiste ad un aumento dei
globuli bianchi, laddove la frazione di globuli bianchi particolarmente aumentata è
rappresentata dagli eosinofili).
Il granulocita basofilo ha una funzione differente invece. Le granulazioni sono più
grandi, più spesse, intensamente basofile e si sovrappongono al nucleo, motivo per
cui in situazioni normali non possiamo arrivare a vedere la forma del nucleo. Tuttavia
questi granulociti come tutti gli altri possono degranulare, in situazioni legate a
problematiche di tipo allergico (le granulazioni sono ricche in istamina e sostanze
vasoattive con un ruolo importante nell’ambito della risposta allergica). Quando si
verifica la degranulazione e quindi la liberazione del citoplasma di questi granuli
riusciamo a vedere il nucleo, che appare bilobato o a forma di fagiolo.
2. Linfociti: hanno una morfologia nel sangue periferico abbastanza eterogenea, per
quanto spesso sono piccoli, ovvero poco più grandi di un globulo rosso, sono cellule
con un nucleo/citoplasma nettamente a favore del nucleo. Normalmente i linfociti
maggiormente rappresentati nel sangue periferico sono i linfociti T. A partire dalla
morfologia è impossibile distinguere un linfocita B, T, o NK (se si vedessero dei
granuli si potrebbe pensare ad un T citotossico o ad un NK, ma si tratta di pure
supposizioni): per distinguerli è necessario un esame che prende il nome di
tipizzazione linfocitaria (o analisi dell’immunofenotipo). Essa è un’analisi che
viene fatta in citofluorimetria usando degli anticorpi monoclonali specifici per ogni
linea di linfociti.
3. Monociti: sono le cellule con le dimensioni più rilevanti nel sangue periferico, per
quanto può capitare che possano somigliare ad alcuni linfociti motivo per cui può
essere anche complicato riconoscerli. Il nucleo è generalmente un nucleo a fagiolo,
cornetta di telefono, rene (a nostro piacere) ed il citoplasma è generalmente senza
granuli per quanto può anche esprimerli.
4. Plasmacellula: non è una cellula che troviamo in condizioni normali nel sangue
periferico, per quanto è possibile ritrovarla in alcune circostanze quali infezioni. Essa
deriva dai linfociti B ed è deputata alla risposta anticorpale, ed infatti anche
nell’assetto morfologico del nucleo noi capiamo che questa è una cellula molto
operativa. Il citoplasma è intensamente basofilo a causa della notevole attività di
sintesi proteica anticorpale, ed inoltre a ridosso del nucleo, in posizione peri-nucleare,
c’è un alone bianco che rappresenta il Golgi qui particolarmente rappresentato. Il
nucleo è costituito da eucromatina ed è localizzato in posizione eccentrica.

ANEMIE
Possiamo definire:
1. Anemia: riduzione della quantità di emoglobina, e non di globuli rossi come spesso
erroneamente si afferma
2. Leucociti: leucocitosi o leucopenia, a seconda che aumentino o diminuiscono
3. Piastrine: trombocitopenie e trombocitosi, in quest’ultimo caso quando il numero
di piastrine è al di sopra di 450.000, mentre trombocitopenia quando è inferiore a
150.000

Indagini di laboratorio

Le principali indagini, di I e II livello che si effettuano per la diagnosi di malattia ematologica


sono:

1. Esame emocromocitometrico: si intende l’esame che riguarda solo le valutazioni


quantitative sulle cellule del sangue, sullo stato fisico (densità) del sangue, ma non
su sostanze come colesterolo, TF. Per quanto riguarda l’emogramma normale:
a) RBC: red blood cells, 4.5-6 mln/mm3- 4-5 mln/mm3 uomo/donna.
b) WBC: white blood cells, 4-10 mila/mm3. Si parla di leucocitosi quando il
numero supera i 10.000 o leucopenia se va al di sotto dei 4.000.
c) Formula leucocitaria

d) PLT: piastrine, 150-350.000/mm3. Si definisce trombocitosi (piastrinosi)


quando superano le 450.000, tromocitopenia (piastrinopenia) se va al di
sotto delle 100.000. In realtà si dovrebbe parlare di piastrinopenia subito al
di sotto di 150.000, ma nella pratica clinica si monitora un paziente con
piastrine al di sotto delle 100.000. Nel momento in cui le piastrine
scenderanno al di sotto delle 30.000, allora il paziente potrà andare
incontro a sanguinamento spontaneo.
e) Hgb: 13-17.5 g/100 mL, 12-15.5 g/100 mL uomo/donna.
f) Hct: 36-45% / 42-50% donna/uomo; esprime il rapporto tra RBC e
componente liquida del sangue. Esprime, dunque, la viscosità del sangue:
se esso aumentasse, la viscosità aumenterebbe e sarebbe più probabile
l’innesco di meccanismi di trombosi, etc. L’aumento dell’ematocrito
comporta la poliglobulia: l’Hct esprime il rapporto tra componente
corpuscolata e liquida del sangue, per cui l’aumento dell’ematocrito può
anche essere dovuto ad una diminuzione della componente liquida del
sangue.
g) MCV: volume corpuscolare medio, compreso tra 80-95 µm3 (o femtolitri).
h) MCH (contenuto medio di Hb corpuscolare): 27-33 pg.
i) MCHC (concentrazione media di Hb negli globuli rossi in relazione alle loro
dimensioni): 33-35%

2. Valutazione morfologica: sia del sangue periferico, pungendo il polpastrello del


paziente, per poi porre il sangue sul vetrino, strisciarlo e colorarlo, sia del sangue
midollare; il prelievo del sangue midollare viene fatto sullo sterno o sulla cresta iliaca
mediante un agoaspirato, che ci permette di avere un esame di tipo citologico;
quando invece occorrerà fare una valutazione dell’istologia del midollo osseo, si farà
una biopsia osteo-midollare che si effettua solo a livello della cresta iliaca, dove si
preleva sia il midollo che un frustolo di osso. Lo striscio di sangue è un esame
fondamentale per la valutazione istologica e si fa mediante una goccia di sangue che
proviene dal polpastrello del dito del paziente o da una provetta. Questo sangue
viene posto su un vetrino e con un altro vetrino si striscia il sangue. Si riproduce una
banda sul vetrino strisciato, del quale si analizza la zona precedente alla coda del
vetrino, questo perché alla coda ci sono poche cellule, nella prima parte della banda
(zona spessa) invece ci sono troppe cellule e ravvicinate, per cui la morfologia può
anche essere alterata. Sia l’agoaspirato che la biopsia osteo-midollare si effettuano
sulla cresta iliaca dopo aver fatto anestesia locale. L’agospirato si può anche fare a
livello dello sterno, mentre la biopsia osteomidollare non si effettua a livello dello
sterno poiché molto sottile. Nel midollo osseo le cose sono diverse rispetto al sangue
periferico: nel midollo si riscontra la presenza di cellule diverse dai globuli rossi e
cellule eritroidi in rapporto 3:1 circa.
Questa situazione può variare sia per patologie dell’emopoiesi che su patologie che
si ripercuotono sull’emopoiesi.
3. Valutazione immunofenotipica: indagine in citofluorimetria per valutare l’assetto
antigenico di membrana del sangue, per vedere se sono presenti antigeni fisiologici
o anormali, o ancora se l’assetto in toto è indifferenziato (nel caso di alcune
neoplasie). La valutazione dell’immunofenotipo utilizza anticorpi monoclonali
specifici per un cluster di differenziazione. Ad esempio, possiamo valutare in questo
caso se una eventuale linfocitosi sia determinata da aumento del TL, del BL o dei
NKL (in questi casi non è sufficiente la valutazione morfologica).
4. Valutazione citogenetica, ovvero analisi del cariotipo: è l’analisi morfologica dei
cromosomi nel nucleo. In molti tumori, anche quelli del sangue, il numero di
cromosomi può aumentare o diminuire oppure si possono avere dei riarrangiamenti
strutturali, come traslocazioni, inversioni, delezioni.
5. Analisi molecolare: può fornire informazioni sull’espressione dei singoli geni,
poiché in molte patologie del sangue i geni sono alterati; molte diagnosi ematologiche
si effettuano proprio in questo modo.

Generalmente si definisce anemia la condizione in cui si ha Hgb inferiore a 13 nell’uomo e


12 nella donna. L’anemia si può definire quantitativamente:

1. Lieve: Hgb > 10


2. Moderata: Hgb tra 8 e 10.
3. Severa: Hgb< 8 g; generalmente al di sotto di 8 il paziente trova indicazione per la
trasfusione, facendo però conto del tipo di anemia, della situazione clinica del
paziente; ad esempio, un paziente anziano con anamnesi patologica remota di
patologie cardiovascolari o cerebrovascolari con 9 g di Hgb, con sintomi molto
marcati che interferiscono con la vita del soggetto, in tal caso si deve effettuare la
trasfusione sul paziente, perché si presenta un quadro di comorbidità che determina
uno stato di sofferenza del tessuto tal che esso non tolleri questi livelli di emoglobina.
Viceversa, un paziente giovane con Hgb uguale a 6, ma che effettua attività fisica
regolare e non accusa sintomi, in tal caso non si avvia subito il paziente alla
trasfusione, ma è molto più importante comprendere perché ha l’anemia, che
potrebbe essere immunoemolitica per cui si potrebbe anche peggiorare la condizione
del soggetto.

Fisiopatologicamente, le anemie si possono distinguere in:


• Anemie da alterata produzione, oppure iporigenerative.
• Anemie da alterata distruzione, oppure emolitiche.

Un parametro importante che ci fa comprendere se l’anemia è iporigenerativa o emolitica è


il valore dei reticolociti, che è presente nell’emocromo normale. Il reticolocita è una cellula
morfologicamente diversa dall’emazia, più ricco di acidi nucleici e di dimensioni maggiori:
quando vi sia una maggiore richiesta di globuli rossi, l’organismo può aumentare la quantità
in circolo di reticolociti (vn di 25-75.000/µL). Ebbene, la causa dell’anemie si ripercuote sul
numero di reticolociti, aumentato nelle anemie emolitiche quindi reticolocitosi, ridotto nel
caso delle anemie iporigenerative. Il valore dei reticolociti è strettamente legato al valore dei
globuli rossi del paziente, per cui è necessario fare riferimento alla percentuale corretta,
quindi si considera la % reticolocitaria dell’emocromo moltiplicato (Hct del pz/ Hct normale
che è 45).

Hct pz
% reticolociti
Hct normale

Aspetti morfologici

Sulla base dell’MCV si possono classificare le anemie come:

1. Microcitiche: anemia sideropenica, sideroblastica, talassemia (anche chiamata


microcitemia), anemia da infiammazione cronica. Ad esempio, il paziente
talassemico ha un valore di GR che può essere normale o aumentato, ma l’Hgb è
ridotta nel soggetto.
2. Normocitiche: anemia da infiammazione cronica, anemia aplastica, infezioni,
anemie emolitiche, emorragie.
3. Macrocitiche: deficit di B12 o folati, epatopatie, alcolismo, mielodisplasie,
reticolocitosi. L’alcolismo può mandare cronicamente in sofferenza il fegato, il che
manda in sofferenza anche la emopoiesi.
Con il termine di anisocitosi si intende la presenza di globuli rossi di dimensioni differenti
tra di loro e spesso si associa al paziente anemico. C’è un parametro dell’emocromo che
descrive l’anisocitosi, cioè RDW, che è l’ampiezza della distribuzione del volume
eritrocitario, una elaborazione statistica della macchina conta-globuli, che può essere
normale o superiore a 11-14%, mai diminuito: l’aumento dell’RDW descrive l’anisocitosi.

La poichilocitosi descrive una variabilità non di dimensioni ma di forma e viene evidenziato


con l’esame morfologico del sangue; poiché spesso sono presenti insieme, si parla di aniso-
poichilocitosi.

Sappiamo che il globulo rosso è un disco biconcavo di 8 µm, con pallore centrale al M/O;
quando manca Hgb il pallore si diffonde alla periferia del globulo rosso (ipocromia, con
riduzione dell’MCH). La morfologia può cambiare, possono esserci modificazioni più
importanti di quelle relative alle semplice modifiche cromatiche:

1. Possono comparire delle propaggini sulla superficie del globulo rosso, come nel
caso dell’echinocitosi. Il paziente con insufficienza renale, come conseguenza
dell’insufficienza renale va incontro ad un aumento di sostanze da eliminare che
rimangono nel sangue e danneggiano il globulo rosso. Tuttavia, anche l’esposizione
del vetrino per tempi non adeguati a dei reagenti può dare questo.
2. Stomatociti: hanno solo una concavità, con convessità dalla parte opposta. Al M/O
appaiono con un’area chiara centrale che ha le somiglianze con una bocca (uno
stoma). Si possono trovare in anemie congenite.
3. Acantociti: emazie a foglie d’acanto, con propaggini simili agli echinociti con la
differenza che in tal caso non sono distribuite su tutta la cellula ma solo il perimetro;
si ritrovano nelle epatopatie croniche alcoliche oppure in corso di deficit di
malassorbimento per cui sono da imputare a deficit di assorbimento di sostanze
fondamentali per il globulo rosso.
4. Sferociti: a forma sferica, nella sferocitosi ereditaria e in alcune anemie acquisite
come le anemie immunoemolitiche, in tal caso scompare l’area centrale pallida.
5. Schistociti: emazie frammentate che per patologie concomitanti subiscono dei
traumi e vengono frammentate; lo schistocita può essere una spia della CID,
dell’emolisi microangiopatica, in cui il globulo rosso deve superare delle zone ostruite
e dunque si frammenta. Sono presenti anche nei portatori di valvole cardiache
artificiali, o in caso di alterazioni del midollo osseo, quali dovute a neoplasie
metastatiche o mielofibrosi, per cui l’eritrocita per uscire dal midollo trova un ostacolo.
6. Ellissociti: le emazie sono delle ellissi; tale situazione può verificarsi in alcune
anemie congenite o nell’anemia sideropenica.
7. Drepanociti: emazie a falce, presenti nell’anemia falciforme. Le emazie appena nate
sono normali, ma per un difetto intrinseco dell’Hb, lo scheletro di membrana viene
alterato, sono cellule molto rigide che possono anche ostruire il flusso.
8. Codociti: emazie a bersaglio, cioè con area chiara molto estesa e con un punto
colorato centrale; presenti ad esempio in anemie sideropeniche o talassemie.
9. Dacriociti: emazie a lacrima, presenti nelle situazioni in cui nel midollo osseo
cominciano a crescere cellule o tessuti che normalmente sono assenti, come la
mielofibrosi, nelle metastasi neoplastiche midollari.

Manifestazione clinica

In termini clinici, la manifestazione dell’anemia è multiforme, dal momento che tutti i tessuti
vanno in sofferenza per la condizione di cattiva ossigenazione, alcuni tessuti prima, altri
dopo. Comunque già con l’ispezione si possono valutare i segni dell’anemie:

• Cattiva irrorazione delle congiuntive (pallore congiuntivale)


• Mucose meno rosee (pallore mucosale)
• In casi più estremi vi è il pallore cutaneo.

L’organismo, in un certo grado, risponde con un tentativo compensatorio che risiede nella
produzione dell’eritropoietina (EPO) renale, che viene secreta in risposta alla riduzione
della PaO2, aumentando la produzione di GR. Questo sistema viene meno nel caso di una
nefropatia o di insufficienza renale e questo è il motivo per cui pazienti nefropatici sono
anche anemici.

L’emoglobina viene sintetizzata a partire dal gruppo eme e dalle catene globiniche, per il
primo è necessario il ferro che deve necessariamente essere assunto con la dieta, in quanto
noi non siamo in grado di produrre ferro (mannò); oltretutto, non esiste nell’organismo un
sistema di escrezione del ferro. Quindi, tutto il ferro presente viene consumato/depositato,
anche se una piccola aliquota di ferro viene persa ed è legata al turnover delle cellule
epiteliali intestinali; un’altra piccola aliquota viene persa con la sudorazione o con
esfoliazione delle cellule epidermiche; tuttavia, se aumenta il ferro assunto non aumenta
la perdita con questi meccanismi, per cui vi possono essere condizioni di eccesso di ferro
per cui l’organismo non riesce a gestirlo in maniera adeguata.

Il ferro viene quasi totalmente impiegato per la formazione dell’emoglobina, una quota
minoritaria viene impiegata per enzimi che hanno una funzione importante a livello
neuronale: può accadere che un paziente con sideropenia, ancor prima di manifestare
anemi può manifestare dei disturbi comportamentali come espressione del fatto che il
ferro viene destinato in sideropenia all’emoglobina.

Il ferro non immediatamente utilizzato viene depositato. Comunemente si dice che la ferritina
sia il deposito del ferro, ma propriamente, la ferritina è una proteina della fase acuta
dell’infiammazione (solo come hobby partecipa al deposito di ferro). Quindi, il dosaggio
della ferritina in corso di anemia sideropenica e in corso di concomitante infiammazione
può risultare elevato.

Fondamentale in questi casi è l’epcidina, proteina epatica anch’essa importante nel


controllo dell’estrusione nel sangue del ferro. L’epcidina, inoltre, è stimolata durante il corso
dell’infiammazione dall’IL-6, il che significa che è una proteina della fase acuta: una quantità
elevata di epcidina per via di una infezione, fa sì che pur avendo una disponibilità ottimale
di ferro, l’individuo non possa utilizzarlo, poiché non viene rilasciato dalle cellule verso il
sangue. In questi casi infettivo-infiammatori, la riduzione della disponibilità di ferro riduce la
possibilità di utilizzo batterico del ferro. Se l’infezione è cronica, si crea come un paradosso:
il ferro c’è ma non si può utilizzare. Quindi, l’epcidina regola l’assorbimento di ferro a livello
intestinale ed il rilascio a livello dei macrofagi, legandosi all’unico esportatore di ferro dagli
enterociti duodenali e dai macrofagi, la ferroportina, e determinando la sua internalizzazione
e degradazione blocca l’esporto del ferro cellulare. La sintesi di epcidina a livello del fegato
è regolata dalla concentrazione plasmatica di ferro ed è indotta da segnali infiammatori.
L’eritroferrone, invece, viene prodotto dal compartimento emopoietico avendo una
funzione antagonista all’epcidina.

Quindi:
1. Assorbimento del ferro: il ferro viene assorbito a livello del tratto gastroenterico sotto
forma ferrosa. La trasformazione dello ione ferrico a ferroso avviene a livello del tratto
gastroenterico, in particolar modo a livello gastrico, per cui è possibile che una
gastrite cronica possa interferire con questo meccanismo; ci sono altresì dei farmaci
che impediscono la conversione dello ione ferrico in ferroso (inibitori della secrezione
gastrica), per cui pur avendo una normale assunzione di ferro, il paziente ha un deficit
di ferro.
2. Estrusione dall’enterocita nel sangue del ferro, tramite la ferroportina, laddove
l’epcidina inibisce la funzione della ferroportina; l’eritroferrone stimola la funzione
della ferroportina.

Il ferro liberato dal compartimento intestinale viene legato mediante una proteina di trasporto
dal momento che il ferro non legato alle proteine può penetrare facilmente nella cellula e
facilitare la formazione dei radicali liberi, soprattutto a livello delle cellule epatiche,
pancreatiche e cardiache, causando una alterazione metabolica che si conclude con la
produzione di tessuto fibroso a seguito di necrosi precoce, per via della produzione di
ROS (reazione di Fenton). Quindi, il ferro viene legato alla transferrina che veicola
principalmente nel compartimento emopoietico il ferro.

La transferrina con il ferro legato viene valutata mediante un esame di laboratorio che è il
dosaggio della sideremia, mentre la transferrinemia ci dà invece idea di quanto impegnata
è la trasferrina a legare il ferro: se la transferrina è alta vuol dire che lega poco ferro, è altresì
valido il contrario.

Il ferro in eccesso va incontro a deposito a livello del sistema reticolo-endoteliale,


espressione con cui si intende il circuito in cui sono presenti dei macrofagi che sono come
gli hotspot del sistema reticolo-endoteliale dal momento che sono in grado di depositare
ferro, per cui ovunque vi siano macrofagi all’interno dei tessuti si può riscontrare un
componente del sistema reticolo-endoteliale.

La TF, normalmente, viene veicolata a livello cellulare per legare poi recettori di membrana
della TF, che sono particolarmente presenti a livello del comparto emopoietico (eritroide),
anche se si riscontra la presenza di recettori della TF anche in altre cellule ma con densità
minore. Esiste una forma solubile del recettore della TF, in completo equilibrio con
l’isoforma di membrana; quando vi è una carenza di ferro, il comparto emopoietico è in stato
di allarme, per cui le cellule aumenta l’espressione di recettore di membrana della TF, sicché
si abbia anche un aumento del recettore solubile. Quindi, nei casi di una diagnosi complessa
di anemia il dosaggio del recettore solubile aumentato può essere espressione di una
sideropenia. Al contrario un dosaggio del recettore solubile che sia normale, in caso di
anemia, sconfessa il sospetto clinico di anemia sideropenica.
Anemia sideropenica

È un’anemia che si realizza per la ridotta disponibilità del ferro, che riduce la possibilità di
produzione di Hb; le cause possono essere:

• Ridotta introduzione dietetica, carenza nella dieta di carni rosse (Mb nel muscolo),
di legumi
• Aumentata perdita, mediante perdita ematica, che si manifesta nei termini di
stillicidio ematico, con perdita di piccole aliquote di sangue periodicamente. Una
condizione frequentemente legata a questo è il ciclo mestruale, che espone al rischio
di anemia sideropenica. In questo caso si parla di menorragia (perdita ematica
abbondante con la mestruazione), mentre in altri casi si ha la metrorragia, quando
alterazioni endometriali comportano perdita ematica (a volte vi è la perdita mista,
come nel caso della meno-metrorragia). Ulcerazioni delle pareti del tratto GI, infezioni
urinarie (con microematuria) possono comportare questa situazione di stillicidio
ematico. L’anemia sideropenica non è di per sé una patologia, ma un segno di
patologia.
• Ridotto assorbimento, come alcuni farmaci che impediscono la riduzione del ferro
ferrico, quindi ne riducono l’assorbimento intestinale. Anche gastrectomie,
enteropatia glutine-indotta, sindromi da malassorbimento o gastriti autoimmuni.
• Aumentata richiesta, per accrescimento tissutale oppure per gravidanza.

All’esame emocromocitometrico, si riscontrerà:

• una riduzione dell’emoglobina, in quanto si tratta di una condizione anemica


• associata alla riduzione numerica dei globuli rossi anche se rispetto alla riduzione
del numero di globuli rossi (RBC) quello che interessa è l’MCV, il volume
corpuscolare medio, che è ridotto (microcitica).
• Se diminuiscono i globuli rossi anche Ht diminuisce ovviamente.
• L’RDW, espressione della anisocitosi (accompagnata alla poichilocitosi), potrebbe
essere aumentato.
• Guardando i reticolociti, essi non sono presenti nell’emocromo standard, ma vanno
richiesti a parte come voce supplementare; i reticolociti in questa anemia sono
ridotti: la carenza di ferro riduce la produzione dei reticolociti, poiché è anemia
iporigenerativa.
• Molto importante è considerare che nella maggior parte dei casi di anemia
sideropenica vi è trombocitosi; questo è importante da conoscere perché altrimenti
si potrebbe pensare che il paz sia a rischio trombotico ma nessun soggetto con
anemia sideropenica fa trombosi. In questi casi, il meccanismo tenta di compensare
l’anemia con la produzione di EPO, che tuttavia non è utile perché il meccanismo
patogenetico è quello della carenza di ferro. Dato che l’EPO è simile come struttura
alla trombopoietina probabilmente viene stimolata la produzione di megacariociti.
Infatti, quando il paziente fa la terapia marziale con assunzione di ferro, i livelli di EPO
si riducono e si riduce anche il numero di piastrine.

Questi dati permettono di sospettare l’anemia, anche approfondendo l’anamnesi


patologica prossima, per cui il paziente potrà riferire:

1. Astenia, sensazione di debolezza o incapacità di compiere degli sforzi, facile


affaticabilità
2. Cefalea
3. Difficoltà di attenzione
4. Palpitazioni o cardiopalmo
5. Dispnea che può essere a riposo o da sforzo
6. Acufeni
7. Vertigini
8. Scotomi
Tutti riconducibili ad un deficit di ossigeno nei tessuti ma questi non sono sintomi
propriamente specifici dell’anemia.

Il paziente con anemia sideropenica ha segni clinici particolari:

• Glossite atrofica: infiammazione della lingua legata al fatto che le papille linguali
non hanno a disposizione ferro e quindi vanno incontro ad atrofia. La lingua è liscia,
lucida e arrossata.
• Coilonichia: le unghie appaiono concave.
• Perdita di capelli: solo nell’anemia sideropenica succede e non nelle altre anemie,
perché in questi casi la carenza di ferro si ripercuote sulla sintesi del DNA per cui
tessuti degli annessi che hanno un turnover accelerato soffrono di più.
L’emocromo non è sufficiente per la diagnosi quindi è necessario spingersi ad altre indagini;
questo è importante perché potremmo impostare erroneamente una terapia marziale con
l’assunzione di ferro; in questo caso si richiedono:

• Sideremia: quanto ferro è legato alla transferrina; ridotta.


• Ferritina: facendo attenzione al fatto che la ferritina aumenta nel corso di una
infiammazione. Quindi in questo caso avremo una informazione sbagliata. Se il
paziente non ha infiammazione o infezioni, la ferritina dovrebbe essere ridotta.
• Recettori solubili della TF: spesso possono dirimere le diagnosi complesse;
aumentano in corso di anemie sideropeniche; si mantengono invariati nel caso di
anemia da infiammazione cronica.
• Trasferrina (TIBC), cioè la capacità di legare il ferro, sarà aumentata
• Saturazione della TF: ridotta

Terapia
Terapia marziale per OS o EV. In questi casi, è difficile che il paziente con anemia severa
possa ripristinare i valori con la dieta, per cui vanno avviati alla terapia farmacologica e
vanno invitati a migliorare la dieta. La terapia generalmente dura fino a quando i valori relativi
al ferro (ferritina, recettori TF) sono ristabiliti, e quindi solitamente la terapia dura un bel po'.
In ogni caso quando si comincia la terapia per OS, (l’incremento emoglobinico avviene molto
tempo dopo), può essere utile valutare i reticolociti dopo 10 giorni. In genere se tutto va
bene i reticolociti aumentano, anche se l’Hb non si è ripristinata.

Tra l’altro, essendo una spia di altre patologie, la diagnosi di anemia sideropenica deve
portare a richiedere altre indagini come visite ginecologiche, gastroscopia, colonscopia. Ad
esempio, nella teleangectasia ereditaria le malformazioni dei vasi cutanei fanno sì che il
paziente presenti una condizione di stillicidio ematico.

Diagnosi differenziale, a volte complessa.

IRIDA
Nella pratica clinica, esistono delle condizioni in cui il soggetto presenta un metabolismo del
ferro poco chiaro. Viene definita come anemia da deficit di ferro refrattaria alla terapia
marziale/parenterale, spesso si tratta di soggetti giovani-adulti con una mutazione
congenita, che per motivi sconosciuti può manifestarsi nell’età giovane o adulta. La
mutazione dipende dal gene TMPRSS6, che codifica per la proteina matriptasi-2 che
degrada l’epcidina, per cui il soggetto presenta in questo casi un eccesso di epcidina, per
cui il paziente non può utilizzare il ferro, per cui sia il ferro assunto che quello somministrato
con terapia non può venire utilizzato per incapacità di estrusione e addirittura in questo caso
si verifica un danno da parte della terapia marziale. In questo caso è necessario fare una
valutazione molecolare di questo gene, che tuttavia non è un esame di routine.

Anemia da infiammazione cronica


Molto frequente, l’anemia è riconducibile ad una patologia non prettamente ematologica: il
paziente ha un problema infiammatorio cronico a volte anche misconosciuto; questa flogosi
cronica comporta produzione di citochine che interferiscono con l’eritropoiesi, come ad
esempio l’IL-6, che stimola la produzione dell’epcidina, che inibisce la ferroportina. Le
patologie alla base possono essere:

• Infezioni
• Neoplasie
• Patologie autoimmuni (come alcune connettiviti).
Quasi sempre è l’epcidina ad essere aumentata in questi casi, il che impedisce la
distribuzione del ferro al comparto eritropoietico.

In questo caso, si osserva:

1. Hb ridotta
2. MCV quasi sempre normale (normocitosi), talora può essere diminuito
3. Reticolociti normali, l’eritropoiesi non ha problemi
4. Sideremia diminuita
5. Ferritina aumentata
6. Recettori solubili TF normali, in quanto il ferro c’è

Altre malattie croniche non producono IL-6 che inibisce l’epcidina ma comportano una
riduzione della produzione di EPO, come le malattie renali, o ancora patologie croniche che
producono IFN-g o TNF-a e IL-1, che inibiscono la sintesi di EPO (possono anche agire
direttamente sulle cellule emopoietiche con azione inibitoria); spesso questa condizione
viene scambiata per una anemia sideropenica, per cui prendono il ferro: capiamo bene che
se il paziente ha invece una infezione quel ferro in più che gli si somministra può favorire la
proliferazione batterica.
Non essendovi un esame standard per il dosaggio dell’epcidina, ci si avvale di altri strumenti
anche perché è pure difficile dosare le citochine di cui prima.

Si può fare la reazione Pearls che serve a mettere in evidenza i depositi di ferro nelle cellule,
particolarmente nei macrofagi: se sono abbondanti, allora il paziente non ha una anemia
sideropenica. A volte queste malattie possono entrare in diagnosi differenziale con delle
neoplasie ematologiche e allora in questo caso è necessario fare una BOM e quindi valutare
il ferro nei macrofagi con la reazione di Pearls (Blu di Prussia).

Quindi, la patogenesi delle anemie da infiammazione cronica può avere due meccanismi:
(1) riduzione diretta dell’eritropoiesi, cioè soppressione della produzione di EPO o (2)
aumento della produzione di epcidina per via dello stimolo citochinico pro-infiammatorio. Lo
stimolo infiammatorio, inoltre, influisce sull’eritropoiesi e nel contempo tutta l’attività normale
orientata a sostenere la fisiologica eritropoiesi viene dirottata verso la leucopoiesi, per cui
accanto al deficit di eritrociti, nell’emocromo di questi soggetti si verifica spesso una
leucocitosi, anche perché il meccanismo infettivo-infiammatorio comporta una
stimolazione della risposta immuno-infiammatoria. In questo caso, i leucociti non sono
aumentati necessariamente perché vi è un reale bisogno, ma soprattutto per dirottamento
dello stimolo citochinico.

Anemia da carenza di vitamina B12


L’organismo non produce B12 ma la assume con la dieta, essendo il suo fabbisogno di circa
2.5 mg/die, essendo l’insorgenza delle manifestazioni derivanti dalla sua carenza ad
insorgenza più lenta di quelle dipendenti del ferro: se manca il ferro nell’organismo si
osservano subito dei sintomi, mentre invece se si verifica una carenza di B 12 vi sono
innanzitutto delle riserve epatiche e in secondo luogo dopo l’esaurimento delle riserve il
paziente riesce a svolgere le proprie attività per un certo arco di tempo; l’insorgenza
dell’anemia è molto più graduale per cui l’organismo può abituarsi ai bassi flussi di O 2 nei
tessuti, quindi, spesso il paziente si rivolge al medico soprattutto per via di una serie di
condizioni neurologiche, recandosi al pronto soccorso. Questi soggetti spesso si presentano
al pronto soccorso con Hb a 4-5 e generalmente si tratta di soggetti anziani
ultrasessantenni, dal momento che a questa età vi è un maggiore rischio di trascuratezza
dell’assunzione di B12, o perché i soggetti hanno patologie o assumono farmaci che
interferiscono con l’assorbimento della B12.
La B12 viene già estratta dagli alimenti in seguito al passaggio nel primo tratto dell’apparato
digerente legata ad una proteina chiamata R-binder (aptocorrina) Successivamente a livello
gastrico essa cambia la proteina di accompagnamento, che diventa il fattore intrinseco
prodotto dalle cellule parietali delle ghiandole gastriche. Accompagnata dal fattore intrinseco
accede all’intestino tramite cui verrà assorbito a livello villare nell’ileo prevalentemente.
Successivamente l’assorbimento essa va nel sangue dove si lega a delle proteine con
funzione analoga a quella della transferrina: alla transcobalammina II (prodotta dal fegato
e più rappresentata) e la transcobalammina I (prodotta dai granulociti); esistono delle
anemie da carenza di B12 congenite e dovute alla mutazione a carico dei geni che
sintetizzano le TC.

Le cause di questa carenza sono:

• Deficit di assunzione: la B12 è particolarmente abbondante nel caso degli alimenti


di origine animale. Soprattutto nella dieta vegana c’è questo rischio, dove la
protezione dalla carenza di vitamina B12 è molto difficile. La situazione è molto più
grave soprattutto se vi è una carenza dietetica nei bambini per il rischio cui possono
incorrere i bambini ai deficit neurologici. L’adenosil-cobalammina è fondamentale
per la corretta sintesi delle guaine mieliniche.
• Aumento del fabbisogno: soprattutto durante gravidanza, allattamento o
accrescimento che sono tutte condizioni che aumentano il fabbisogno della B12.
• Problemi gastrici: la vitamina B12 viene assorbita grazie alla presenza dell’IF che
viene secreto dalle cellule parietali delle ghiandole gastriche. Quindi, ad esempio,
gastrectomia parziale o totale, bypass gastro-intestinali, atrofia gastrica,
neoplasie gastriche ma più in generale alterazioni diffuse e persistenti della mucosa
gastrica, farmaci che interferiscono con l’assorbimento del ferro e della B12 (spesso
i due deficit sono presenti insieme). Possono anche essere presenti delle condizioni
di carattere autoimmune.
• Problemi intestinali (resezioni ileali);
• Problemi pancreatici;
• Infezioni parassitarie (cestodi), che competono con il fabbisogno di B12
• Farmaci: le anestesie con protossido di azoto (usato in odontoiatria) se ricorrenti
possono determinare un mancato assorbimento della cobalammina (circostanza
poco frequente).
Ruolo della vitamina

Questi pazienti sono anemici perché la cobalamina viene utilizzata per i processi di sintesi
del DNA, per cui in assenza di B12 le cellule non possono replicarsi e questo è vero
soprattutto nel caso dei tessuti ad elevato turnover dei tessuti, per cui si verifica un
rallentamento del turnover a livello del tessuto emopoietico; questo significa che le cellule
vengono prodotte in maniera minore e il rallentamento si esprime propriamente in senso
fenotipico con un aumento del volume delle cellule del comparto emopoietico. Se
dovessimo fare una BOM (che normalmente non si fa) vedremmo delle cellule che sono di
dimensioni aumentate come espressione di sintesi del DNA rallentata.

Se non c’è la cobalamina l’acido folico non può essere usato dalla cellula. Esso, nella cellula,
viene conservato sotto forma di metil-tetraidrofolato, la cobalammina sostanzialmente
agisce rimuovendo il gruppo metilico trasformandolo in tetraidrofolato (acido folico) e
consente alla cellula di poter usare l’acido folico. In questa operazione importante viene
trasformata l’omocisteina in metionina. Dunque, quando manca la cobalammina non
possiamo sintetizzare nucleotidi, non possiamo usare l’acido folico e si accumula
omocisteina a discapito della metionina. Per il fatto che la prima carenza (vitaminica)
produce una seconda carenza (acido folico), questo circuito prende il nome di trappola del
folato. Essendo assente la cobalammina anche la disponibilità dell’acido folico resta
compromessa.

Oltre a questo ruolo l’adenosil-cobalammina (parte attiva della vitamina) è un cofattore


importante per la realizzazione di metaboliti che intervengono nella sintesi delle componenti
delle guaine mieliniche.
Clinica
In termini di quadro clinico, il paziente è tipicamente anemico, con valori di Hb bassi (come
detto prima anche livelli 4-5 di Hb, in pazienti anziani, in quanto si tratta di un’anemia
cronica) e oltre che avere il pallore classico di un soggetto anemico, presenta una facies a
cera vecchia, che è l’espressione mista del pallore e del subittero. Quindi, la triade clinica
è:
1. Sintomi di anemia.
2. Facies a cera vecchia.
3. Turbe neurologiche: nel soggetto sideropenico, vi è una riduzione dell’attività di
alcuni enzimi che dipendono dall’utilizzo del ferro e servono ai neuroni. Qui il deficit
è estremamente eterogeneo e molto più grave. Dal momento che colpisce gli anziani,
il primo sospetto in questo caso è quello di una manifestazione precoce del morbo di
Alzheimer. Le manifestazioni possono essere alquanto eterogenee, interessando
problematiche di tipo cognitivo, sensitivo, motorio. È importante fare diagnosi il prima
possibile in modo tale da poter trattare delle turbe neurologiche inizialmente ancora
regredibili.
La degenerazione neurologica dipende dalla ridotta conversione di acido
propionico in succinil-CoA, che nell’uomo determina una condizione di alterata
sintesi della mielina che induce una degenerazione del nevrasse, associata ad
infiltrazione adiposa e sclerosi successiva.
Le lesioni neurologiche possono comunque essere sia centrali che periferiche ma
in genere, se il deficit viene individuato subito è facilmente regredibile.

Emocromo
L’esame primario per la diagnosi è sempre l’emocromo, accanto al quale si osservano
alcuni altri esami di laboratorio.

1. Pancitopenia: come espressione del ridotto tasso proliferativo delle cellule, il


paziente avrà anemia macrocitica, leucopenia e piastrinopenia.
2. Macrocitosi: si manifesta con la presenza di un MCV notevolmente aumentato. Si
parla di macrocitosi fino a 110 femtolitri, generalmente se è superiore a 110-120 si
parla di megalocitosi. La macrocitosi non riguarda solo i globuli rossi; se facessi un
esame del midollo vedrei che le cellule emopoietiche sono più grandi: la carenza
della cobalammina rallenta molto la sintesi del DNA come detto. Questo
rallentamento genera poche cellule e grandi: si parlerà di emopoiesi megaloblastica.
Inoltre, se si osservano i neutrofili si può notare come essi siano ipersegmentati,
ovvero hanno più di 4 lobi nucleari, che invece rappresentano la normalità.
3. Reticolociti: diminuiti, per riduzione della produzione di cellule (c’è un problema
centrale a livello dell’emopoiesi).

Altri esami
4. Bilirubina indiretta: aumentata (è un aumento lieve), responsabile del subittero del
soggetto e dell’aspetto a cera vecchia. I globuli rossi prodotti, soprattutto le forme
immature, presentano molti difetti del DNA, per cui queste cellule vengono facilmente
indotti all’emolisi. Si realizza quella che è definita come eritropoiesi inefficace.
5. Sideremia: aumento lieve, per autodistruzione di una piccola quota di cellule eritroidi.
6. LDH: è un enzima abbondantemente espresso nei globuli rossi potendo aumentare
sia in aumento della proliferazione (tumori) che in condizioni di aumento della
distruzione.
7. Iperomocisteinemia: l’omocisteina è un fattore protrombotico, per cui aumenta la
possibilità che si sviluppi una trombosi se associato ad altre circostanze;
8. Dosaggio della B12: <100 pg/mL. Il dosaggio della B12 può dare falsi positivi o
negativi per cui gli esami di cui sopra sono importanti fa effettuare.

Deficit pediatrico

Le cause di deficit pediatrico, a parte le scelte scellerate dei vegani (ma che se fumano
boh), possono essere:

1. sindrome di Imerslund-Grasbeck, per deficit del recettore del complesso B12-FI


esposto sulla membrana enterocitaria ileale;
2. patologie autoimmuni con presenza di Ab anti-IF e anche in questo caso i test di
dosaggio degli autoAb non sono troppo affidabili, per cui la diagnosi può diventare
anche complessa.
3. Deficit genici delle transcobalamine di cui sopra

Anemia perniciosa
Non è sinonimo di deficit di B12 ma si intende in questo caso la presenza di un disordine
autoimmune, che induce la produzione di autoAb anti-IF o anti-cellule parietali gastriche,
quindi è caratterizzata da una carenza di B12 con patogenesi autoimmune. Per cui, in
questo caso si tratta di una forma particolare.

La diagnosi si effettua con:


• Cobalaminemia: può a volte dare dei falsi, positivi o negativi. Se l’esame da un
risultato dubbio, va ALMENO ripetuto.
• Dosaggio sierico e urinario di acido metil-malonico: si accumula in corso di
riduzione della B12.
• Gastroscopia;
• Valutazione anticorpale: dosaggio anticorpale non affidabile al 100%, in quanto da
molti falsi negativi.
• Dosaggio dell’omocisteina;
• Dosaggio dell’LDH: aumentato.
• Bilirubina: sempre lievemente aumentata

La terapia è una terapia sostitutiva per OS, oppure si preferisce fare le somministrazioni
per via intramuscolare.

Anemia da carenza di folati


Quadro clinico simile a quello dell’anemia da carenza di B12. Sotto il profilo clinico, citologico
e laboratoristico è uguale alla precedente eccezion fatta per i deficit neurologici (in quanto
non vi è l’alterazione del pathway relativo al propionil-CoA.

La diagnosi differenziale si fa sul dosaggio dell’acido folico, che è più affidabile del
dosaggio di B12. Tuttavia, se in questo caso il folato è basso per la trappola dei folati e quindi
per carenza di B12 la somministrazione di folati, pur migliorando l’anemia peggiorerà i
disturbi neurologici. Nella pratica clinica, dunque, quando si individua una macrocitosi, si
chiede sia l’acido folico che la vitamina B12.

I folati vengono somministrati per via intramuscolare.

Cause:

• Carenze nutrizionali (vi è forte correlazione con assunzione di alcool)


• Malassorbimento (farmaci, alcolismo)
• Aumento del fabbisogno (gravidanza, allattamento, neoplasie, disordini
dermatologici con notevoli desquamazioni epiteliali che determinano perdita
importante di acido folico).
• Alterazioni dell’utilizzo (farmaci inibitori della deidrofolato reduttasi come il
metotrexate)

Vi sono delle anemie che riguardano il difetto congenito di geni codificanti per le catene
globiniche. Le informazioni sull’assetto delle catene globiniche derivano dall’elettroforesi
dell’Hb. Sappiamo che fisiologicamente l’emoglobina è costituita da due catene alfa e due
catene beta. Una piccola parte può essere costituita da due catene alfa e due gamma o
delta.

ß-talassemie
Sono delle anemie da deficit congenito che dipende da mutazioni dei geni codificanti per le
catene globiniche BETA.

I geni codificanti per le catene beta partecipano alla sintesi dell’Hb e sono due come per la
maggior parte dei geni, noi ereditiamo due alleli da ciascuno dei nostri genitori. Quando uno
o tutti e due questi alleli non funzionano si realizza il quadro fenotipo della B-talassemia
(anemia mediterranea). Cosa può succedere? Il quadro è alquanto complesso: le mutazioni
in questione possono influire molto, molto poco o per niente sulla sintesi dell’Hb. Si definisce
ß0 la mutazione che su un gene annulla totalmente la sintesi della catena. In altri casi, la
mutazione può modificare l’attività del gene quasi del tutto oppure, il gene che ha subito la
mutazione può anche essere poco ridotto rispetto al normale. Si tratta di uno spettro di
attività genica che va da un valore di poco inferiore al normale ad un valore di poco
superiore a ß0: è questo il caso del gene ß+. A fronte di questa notevole variabilità si intuisce
come posso avere due pazienti ß0/ß+ con fenotipo particolarmente diverso, uno non riesce
mentre l’altro riesce a fare emoglobina.

Ho varie possibilità genotipiche, dunque:

1. Genotipo B-B+ o B-B0 (Hb>10): in tal caso il paziente se farà l’emocromo esso avrà
un po’ meno di emoglobina, i globuli rossi saranno un po’ piu’ piccoli (MCV basso) e
probabilmente il numero di globuli rossi sarà superiore alla norma. Questo individuo
avrà un trait talassemico. Esso non configura un fenotipo di malattia, giacchè si
tratta di una situazione molto diffusa che è individuabile all’analisi
emocromocitometrica. Nella popolazione, dunque, è facile individuare pazienti
portatori eterozigoti di alleli mutati. Questo genotipo può creare problema quando
l’individuo procrea con individuo con medesimo genotipo, per cui la commistione può
determinare genotipo patologico (prima della gravidanza si fanno le cosiddette prove
talassemiche)
2. Genotipo B0-B0, B0-B+ (dove il + significa che ne fa poche), B+-B+ (Hb<7) : si
instaura un’altra situazione ben più importante che si chiama Beta-talassemia
major, una condizione che genotipicamente non permette la sintesi fenotipica di
catene beta, per cui quando l’eritropoiesi comincia e si trova sfornita di catene beta,
essa va avanti col processo di sintesi emoglobinica con le sole catene alfa. Si
formano, dunque, tetrameri di sole catene alfa. Questi tetrameri, però, non sono
efficienti: sono instabili e a fronte di questa instabilità esse si rompono e favoriscono
la rottura delle cellule (citolisi) che, dunque, vanno in necrosi (eritropoiesi
inefficace). Le cellule muoiono, rilasciano tutto ciò che vi è al loro interno e
sostanzialmente favorisce un processo di infiammazione cronica. L’eritropoiesi,
dunque, non si realizza e l’organismo reagisce per tentare di recuperare la situazione:
il midollo aumenta lo spessore in seguito ad un notevole espansione del midollo
emopoieticamente attivo. Si verificheranno, dunque, tipicamente delle alterazioni
scheletriche. Nelle ossa del volto e del cranio il midollo logora la corticale dell’osso
e induce la neoformazione di osso, che all’Rx, determina il tipico aspetto a spazzola
delle ossa piatte.
L’aumento dell’emolisi (la catene di emoglobina alfa-tetrameriche precipitando
determinano danno ossidativo di membrana con conseguente distruzione intra-
midollare, ovvero eritropoiesi inefficace, e periferica, ovvero emolisi) comporta nel
soggetto una splenomegalia, anche perché la milza diventa una sede
supplementare di emopoiesi.
Inoltre, i pazienti necessitano di trasfusioni frequenti: per cui il ferro in eccesso ad
un paziente che non necessita ferro crea problemi, in quanto non esistono
meccanismi di smaltimento del ferro: la trasferrina è satura, il ferro gira da solo e si
accumula in organi determinando una condizione di emosiderosi secondaria. Ad
essa conseguono insufficienza d’organo epatiche, cardiache e pancreatiche. In
passato, infatti le trasfusioni erano causa di morte a lungo andare, e da diversi anni
esiste una terapia orale con agenti chelanti. Oggi è possibile fare anche una terapia
genica, nei pazienti B+ in particolare (sul B0 c’è poco da fare), in modo tale da
riattivare una corretta espressione genica incrementando la produzione di questo
allele.
La terapia può essere, quindi, (1) trapianto di midollo in bambini e giovani adulti
o (2) trasfusione e terapia chelante il ferro o (3) la terapia cellulare, cioè nei casi
di ß0ß+ si può stimolare il gene ad aumentare la produzione o ancora in alcuni casi
si può stimolare il genoma alla sintesi di HbF, anche se le terapie convenzionali sono
le prime due. In passato, ma ancora oggi, i pazienti muoiono per via
dell’insufficienza d’organo.
3. In tutti i casi intermedi tra treat talassemico e major si verifica la talassemia
intermedia.

A-talassemie
Derivano da mancata/alterata attività dei geni delle alfa globine, con due cose importanti da
considerare:

1. A differenza delle beta in cui il gene è mutato, qui è deleto.


2. I geni delle catene alfa sono 4 e non due.

Per via di questi 4 geni, vi sono 4 situazioni differenti:

1. 3 geni funzionanti: portatore silente che non ha problemi, ma la prole può averne
se l’altro genitore è portatore o maggiormente compromesso.
2. 2 geni non funzionanti: trait alfa-talassemico; il paziente può avere lieve
microcitosi e Hb ridotta ma non richiede alcuna terapia, in quanto clinicamente tale
alterazione non determina problemi clinici.
3. 3 geni non funzionanti: deficit di catene alfa, non sufficienti a creare Hb con 2 catene
alfa, per cui si realizza la circostanza in cui l’Hb è costituita da catene ß
tetrameriche, perché le catene alfa sono deficitarie, il che significa che non tutte le
Hb possono avere catene alfa: ecco che per la maggior parte dell’Hb si creano
tetrameri ß, che sono più stabili dei tetrameri alfa per cui il globulo rosso sopravvive
di più, tuttavia ha un’affinità alta per l’O 2 che rilascia difficilmente l’ossigeno. Inoltre,
pur più stabile dei tetrameri alfa, è una HB instabile, per cui la vita media del globulo
rosso è inferiore a 120 giorni, per emolisi. Si parla in questo caso di malattia da
HbH (ß4).
4. 4 geni non funzionanti: si osserva nella vita fetale perché nella maggior parte dei casi
non è compatibile con la vita. Tutta l’emoglobina è costituita da catene gamma, per
cui in tal caso si parla di morte intrauterina. La situazione che si configura prende il
nome di idrope fetale di Bart; in realtà esistono nel mondo un centinaio di soggetti
oggi adulti che sono sopravvissuti a questa condizione ma con sequele neurologiche
e di insufficienza d’organo importante. Per cui il genotipo in una piccolissima
percentuale di casi è compatibile con la vita ma la qualità della vita in questo caso è
molto bassa.

La diagnosi si effettua con elettroforesi dell’Hb che è la prima indagine; successivamente


visto l’eccesso-difetto di catene e l’associazione di catene si effettua una indagine
molecolare per ispezionare lo stato dei geni mutati, mentre in passato venivano
utilizzate reazioni citochimiche che oggi non sono più impiegate. In generale, tutte le
emoglobinopatie vengono valutate in questo modo.

Malattia falciforme o drepanocitica


Anche chiamata malattia drepanocitica, viene definita come una emoglobinopatia che ha
un ruolo rilevante nella pratica clinica, dal momento che oggi questa circostanza è
notevolmente presente: la presenza di flussi migratori ha contribuito in questo senso
all’aumento dei casi di questa patologia.

La patologia dipende da una mutazione del gene codificante per le catene ß, si tratta di una
mutazione autosomica recessiva, per cui si manifesta in omozigosi, anche se vi sono
situazioni in cui un gene può avere una mutazione che riguarda la talassemia ß e l’altro
quello dell’anemia falciforme per cui il soggetto può avere una produzione di ß variamente
compromessa in situazione variegata. Questo può essere determinata dal fatto che le
popolazioni che portavano queste mutazioni si sono mescolate tra loro portando a condizioni
di doppie eterozigosi (due alleli mutati con mutazioni diverse tra loro).

Comunque, nella malattia falciforme, si verifica una sostituzione amminoacidica Glu→Val


che determina la manifestazione fenotipica solo in condizione di omozigosi. Questo
cambiamento amminoacidico consente la produzione dell’emoglobina normale ma accade
che in condizioni di deossigenazione, cioè quando l’emazia rilascia l’ossigeno oppure
quando la PaO2 si riduce, l’Hb mutata si destabilizza precipitando (può formare polimeri)
e trascinando con sé anche il citoscheletro dell’eritrocita che si altera.
La deossigenazione può dipendere da tutte quelle situazioni che determinano variazioni
del pO2 del sangue e del pH del sangue e queste variazioni possono dipendere ad esempio
da fatti banali come la disidratazione, le infezioni, etc.

Questa precipitazione (determinata dalla polimerizzazione delle Hb) si ripercuote


morfologicamente in un cambiamento del fenotipo delle emazie che divengono a forma di
falce, ciò causa la crisi falcemica. Questo cambiamento di forma è irreversibile, e
chiaramente questa conformazione impedisce la normale fusione del globulo rosso che non
lega l’O2 come si deve e soprattutto perde plasticità per cui quando con il flusso ematico
raggiunge i vasi del microcircolo, in questa sede si creano delle ostruzioni, dei trombi, per
cui il paziente che presenta una crisi drepanocitica conseguente alla riduzione della PaO 2
per una certa causa manifesta questa sequenza di eventi che sfocia nel cambiamento
conformazionale delle emazie. Spesso il soggetto manifesta problematiche derivante dalla
formazione di questi trombi:

1. Dolore toracico
2. Dolore alle estremità
3. Ischemia cerebrale
4. Ulcere cutanee soprattutto alle estremità

Le emazie, però, possono anche rompersi, liberando sostanze contenute al loro interno,
attivando quindi una risposta infiammatoria; oppure possono essere fagocitate dai
macrofagi in quanto inidonee a svolgere la loro attività, e quindi i macrofagi le fagocitano e
dopo la fagocitosi liberano sostanze che alimentano a loro volta il clima infiammatorio. Si
innesca tutta una serie di processi che vanno ben oltre l’anemia (si può sviluppare colelitiasi,
perché l’emolisi determina la formazione di più bilirubina e quindi la presenza di calcoli di
bilirubina).
I pazienti hanno spesso una sintomatologia algica soprattutto al torace, che non
regredisce con gli analgesici per cui in questi casi occorre avviare protocolli specifici di
terapia. Si ha un corteo di sintomi che dipendono dalla presenza di crisi vaso-occlusive.
L’HbS in questo caso tende a formare polimeri aghiformi che determinano precipitazione e
modifica anche del citoscheletro.

La sintomatologia algica si estende a tutti i distretti del corpo dotati di microcircolo, anche
se spesso il paziente si reca in pronto soccorso per via del dolore toracico con dispnea,
oppure per via dell’insufficienza renale che si sviluppa.
I micro-trombi possono anche colpire il microcircolo splenico, con ischemie o infarti
intestinali, che determinano atrofia splenica, che determina un aumento della
predisposizione alle infezione, le quali a loro volta favoriscono le modificazioni biochimiche
che inducono le crisi drepanocitiche, questo è un classico circolo vizioso.

Diagnosi

1. Elettroforesi dell’Hb, troverò HbS e HbF. L’HbF verrà prodotta in quantità più alta,
per compensare il deficit derivante dalla mutazione. Infatti, possiamo somministrare
farmaci come l’idrossiurea (normalmente usato in oncologia in quanto si lega alle
catene del DNA promuovendo l’apoptosi delle cellule che lo legano), che riesce a
promuovere l’espansione dei cloni di eritrocita e eritroblasti che tutti noi abbiamo ma
che rimangono spenti quando le cose vanno bene. L’idrossiurea amplifica la quantità
di questi cloni e fa sì che la quantità di emoglobina fetale aumenti. Tuttavia, accanto
a questa terapia vanno effettuate anche delle terapie profilattiche antibiotiche per
ridurre la tendenza alle infezioni cocciche per atrofia splenica e idratarsi bene.
2. Analisi molecolare del gene

Possiamo avere diversi genotipi:

1. Omozigosi per la mutazione, presentano una quota di HbF nel proprio corredo
elettroforetico, la quale funziona bene ma con alta affinità. Tuttavia l’HbF è di aiuto
nel pz in questione perché riduce la sintesi di emoglobina potenzialmente pericolosa.
2. Eterozigosi per la mutazione: in questo caso tutte le situazioni che stressano
l’eritropoiesi potrebbero creare squilibri perché tutta l’eritropoiesi poggia su di un
gene, ma propriamente questi non sono pazienti e quindi non devono fare terapia.
3. Doppia eterozigosi se vi sono due geni beta che portano due mutazioni caratteristiche
di malattie differenti, per cui i geni non funzionano o funzionano male, per cui sono
soggetti con un fenotipo misto.

Emolisi
Invecchiando, il globulo rosso diventa più rigido e quindi questa rigidità può diventare
pericolosa per l’organismo in quanto esso ha una difficoltà ad attraversare i vasi più piccoli.
La rigidità viene rilevata dall’organismo quando l’emazia raggiunge la milza ed il suo circolo
particolare in cui viene testata la performance del globulo rosso. La milza del resto è anche
piena di macrofagi, e quindi tutti gli eritrociti che attraversano difficilmente il letto splenico
verranno fagocitati dai macrofagi. Essi, quindi, si occupano (sistema reticolo-endoteliale)
di eliminare le emazie. Un’altra cosa che può accadere è che a compimento della senilità
del globulo rosso esso esponga in superficie molecole quali la fosfatidilserina, il che
favorisce la fagocitosi. Oppure sulla superficie del globulo rosso possono accumularsi
anticorpi e anche questo è un segno di invecchiamento che favorisce la fagocitosi.

Ci sono, dunque, vari meccanismi che si preoccupano ad eliminare i globuli rossi. Questa
funzione, l’emocateresi, è attribuita alla milza. L’emolisi fisiologicamente può avvenire in
due compartimenti:

1. Extravascolare: (90% della quantità) nella maggior parte dei casi fisiologicamente
avviene qui, ovvero nella milza ed in piccola parte anche nel fegato. Essa è il sistema
ottimale per distruggere i globuli rossi, in quanto è un sistema che fa sì che nulla
venga perduto dalla distruzione del globulo rosso (riciclo). A partire dal macrofago
splenico comincia l’operazione di recupero: in questa operazione viene prodotta
bilirubina, che viene recuperata per la maggior parte. Una piccola parte di questa
molecola finisce per essere eliminata tramite feci ed urine. Dunque, se aumenta
molto l’emolisi feci ed urine potrebbero essere più scuri, in quanto le rispettive
colorazioni dipendono dalla presenza di questa molecola.
2. Intravascolare: avviene per il 10% della quantità, ed è un’emolisi che avviene nel
vaso. Per quanto le operazioni di recupero in questa situazione sono chiaramente
più complesse, le componenti più importanti anche in tal caso possono essere
recuperate, tramite:
a. Emopessina
b. Aptoglobina

Queste due molecole legano immediatamente l’emoglobina per portarla ai


macrofagi. La quota di emoglobina che non può essere recuperata giacchè viene
liberata con le urine. Quando ho un’emolisi intravascolare patologica, e non
fisiologica, è chiaro che la quota di emoglobina eliminata con le urine aumenta di
molto e quindi avrò emoglobinuria. Come distinguo emoglobinuria da ematuria? Un
segno abbastanza caratteristico dell’emolisi intravascolare è costituito dal colore
scuro delle urine. Questo pone la diagnosi differenziale con la presenza di sola
emoglobina o di micro e macroematuria, per cui si può fare l’esame del sedimento
(l’emoglobinuria post-centrifuga rimane uguale a prima, l’ematuria post-centrifuga
sedimenta i GR) o dell’osservazione al microscopio ottico delle emazie.

Esami di laboratorio:

Extravascolare Intravascolare
Reticolociti Aumentati (a seguito Aumentati
dell’aumento potrei vedere
un MCV aumentato, in
quanto sono più grandi, e
dunque si potrebbe vedere
all’emocromo anemia
macrocitica)
Bilirubinemia indiretta Aumentata Aumentata
Aptoglobina e emopessina Normali Diminuite, perché legano
l’emoglobina saturandosi.
Emoglobinuria Assente Presente
Emosiderinuria Assente Presente (se l’emolisi è
avvenuta da più giorni, per
cui l’emosideruria rivela un
fatto presente giorni
precedenti, per cui non si
valuta nelle crisi emolitiche)
LDH, aumenta sempre Aumentato Aumentato
quando siano presenti
meccanismi di aumento
proliferativo o di aumento
della morte cellulare
Epatosplenomegalia Presente, generalmente più Assente
facilmente apprezzabile la
splenomegalia
Le anemie emolitiche si distinguono primariamente in base alla sede di emolisi, anche se
una importante suddivisione riguarda i tipi di difetti che colpiscono il globulo rosso, potendo
essere definite extracorpuscolari o intracorpuscolari:

• Intracorpuscolari: si tratta solitamente di difetti congeniti della struttura o delle


attività enzimatiche delle emazie.
• Extracorpuscolari: solitamente non hanno nulla a che vedere con il globulo rosso.

Sulla base dell’eziopatogenesi:

• Ereditarie: difetti di funzioni enzimatiche o alterazioni strutturali. A volte il soggetto


può non esserne a conoscenza.
• Acquisite: autoimmuni, meccaniche, farmaco-immunologici, più frequenti delle
forme congenite.

Sferocitosi ereditaria
Una forma congenita è costituita dalla sferocitosi ereditaria che è una anemia emolitica da
deficit di proteine del citoscheletro; alla sua nascita, genesi, il globulo rosso è normale, ha
una forma normale, ma l’alterazione del citoscheletro pur generando un globulo rosso
normale nell’aspetto determina una funzionalità alterata, perché si tratta di un’emazia
molto rigida che difficilmente si adatta ai diametri dei vasi da percorrere, quindi a causa
dei traumi cui incorre e per via dell’adattamento che ne consegue, perde porzioni di
membrana. Questa forma impedisce al globulo rosso il passaggio nei sinusoidi della milza,
per cui i macrofagi fagocitano le porzioni di membrana modificando definitivamente il
globulo rosso che diviene uno sferocita.

Tuttavia, la creazione degli sferociti non è solo presente nella sferocitosi congenita ma è
una situazione che può riscontrarsi anche durante il corso di ustioni che danneggiano
anche le superfici del globulo rosso, oppure nelle anemie immuno-emolitiche, in cui i
complessi immuni sui globuli rossi stimolano l’azione macrofagica in maniera tale da
fagocitare porzioni di membrana modificandone l’assetto e realizzando lo sferocita.

Comunque, nei soggetti con sferocitosi congenita, il quadro clinico è caratteristico: si tratta
spesso di soggetti giovani (malattia congenita) che possono avere crisi emolitiche; per
cui:

• Splenomegalia (è un’anemia emolitica EXTRAVASCOLARE)


• Ittero o subittero
• Ulcere degli arti inferiori: la rigidità dei globuli rossi tende a rallentare il flusso nelle
parti distali del circolo sottendendo ad una situazione di sofferenza ischemica
dell’arto inferiore.
• Colelitiasi: soprattutto dovuto a calcoli pigmentari, costituiti da bilirubinato di calcio e
la storia personale di calcolosi biliare nel soggetto giovane impone il sospetto
diagnostico di problemi emolitici (bilirubina facilita la formazione di calcoli).
• Alterazioni scheletriche: vanno ricercate poiché possono non essere evidenti poiché
riguardano soprattutto le dita, essendo espressione di un aumento dell’attività
emopoietica nelle cavità midollari tale da produrre uno scollamento delle pareti
dell’osso per aumento della massa emopoietica, che si traduce in una alterazione
morfologica
• Emocromo: all’emocromo si nota una anemia, con MCV che potrebbe essere
normale (=normocitica) o aumentato (=macrocitica) poiché aumenta il numero di
reticolociti in circolo.
• Vanno dosati bilirubinemia, reticolociti, LDH che in questo caso va incontro ad un
aumento; l’aptoglobina può essere raramente ridotta, se la quota di sferociti anomali
è molto elevata poiché in questo caso si può avere tendenza all’emolisi intravascolare
con diminuzione dell’aptoglobina, anche se generalmente è un’anemia con emolisi
extravascolare per cui solitamente è normale.

La diagnosi è confermata sulla base dell’alterazione molecolare presente.

Si può decidere di intervenire con prevenzione delle crisi emolitiche, per cui in tal caso si
può operare una splenectomia, anche se essendo globuli rossi anomali, essi possono dare
trombosi, per cui va fatta anche terapia in questo senso.

Deficit di G6pDH
È un enzima fondamentale per il metabolismo delle specie reattive dell’ossigeno, per cui
una sua carenza induce un precoce invecchiamento patologico, che porta al
malfunzionamento della cellula che in alcune patologie (ma non in questa) si traduce in
degenerazione neoplastica perché le specie ROS hanno un effetto genotossico.
Trattasi di una patologia genetica con trasmissione X-linked, per cui in virtù di questo fatto,
la maggior parte dei soggetti affetti dovrebbe essere di sesso maschile anche se vi sono
anche pazienti donne affette perché non si riconoscono in maniera conclusiva le
alterazioni.

All’anamnesi, questi pazienti raccontano di aver preso un farmaco che mai avevano preso
prima e che magari era successa la stessa cosa in passato con un altro farmaco; in altri casi
può riferire di aver ingerito delle fave crude che conterrebbero niacina o altre sostanze con
effetto altamente ossidante. I farmaci che possono produrre crisi emolitiche in questi
soggetti sono numerosi, per cui buona regola sarebbe approfondire l’anamnesi
farmacologica per valutare quali farmaci assunti in passato abbiano dato complicanze.
Aspirina, antibiotici, antimalarici sono farmaci che possono rientrare in questa lista,
ancorché gli antimalarici siano farmaci poco comuni. Un fattore scatenante comune è
rappresentato dalle infezioni, in cui i radicali liberi sono prodotti dai leucociti attivati. Molte
infezioni possono provocare l’emolisi; l’epatite virale, la polmonite e la febbre tifoide sono
tra quelle più frequenti.

I soggetti giungono all’attenzione del medico perché hanno condizioni come la cefalea,
palpitazione, dispnea, vertigini, scotomi, nonché dolori addominali, dolori lombari oppure
insufficienza renale, emoglobinuria, ittero, per via dell’emolisi intravascolare.

All’emocromo mostreranno vari segni quali anemia, reticolociti, MCV potrebbe essere
alto per i reticolociti. Indagando tramite altri esami di laboratorio potremo trovare LDH
aumentato, bilirubina aumentata, aptoglobina diminuita.

In questo caso la diagnosi si effettua mediante un esame molecolare dimostrando


l’alterazione del gene che codifica per l’enzima, ed è caratterizzato da mutazione
puntiforme. In passato, uno degli esami che si effettuava era quello della valutazione dei
corpi di Heinz che oggi non si effettua più per la possibilità che si ha di disporre dell’esame
molecolare del gene.

Anemie emolitiche da deficit estrinseci


Anemia emolitiche da deficit estrinseci di tipo non immunologico
In questo caso si tratta di situazioni in cui condizioni a carico del sangue turbano la normale
vita di 120 giorni del globulo rosso, come le microangiopatie trombotiche, in cui possono
formarsi dei trombi nei vasi a fronte dei quali il tentativo dei globuli rossi di superare
l’impedimento produce, quando questi superano il blocco, una perdita di parte della
membrana: si definisce questa situazione anemia microangiopatica, perché la patogenesi
dipende da occlusioni microangiopatiche di cui la più famosa è sicuramente la
coagulazione intravascolare disseminata anche se molto importante è la porpora
trombotica trombocitopenica e la sindrome emolitica-uremica. Lo stesso danno sui
globuli rossi posso averlo anche in un paziente che ha una protesi valvolare cardiaca.

In queste circostanze può essere utile lo striscio del sangue periferico, che evidenzierà
l’anomalia morfologica dipendente dal danno ad esempio sotto forma di schistociti.

Nelle anemie emolitiche da deficit estrinseci, possono essere dovute ad interventi di


modifica sul globulo rosso che producono distruzione/alterazione attribuiti a agenti infettivi
o chimici o meccanici.

Anemie emolitiche da deficit estrinseci di tipo immunologico


Nel novero di queste situazioni risulta particolare importanza la presenza di anemie
immuno-emolitiche, nel cui ambito si possono distinguere condizioni di intervento di
autoanticorpi o anche di farmaci.

Anemie immunoemolitiche da anticorpi caldi (IgG, emolisi prevalentemente extravascolare)

Per motivi più o meno conosciuti, il sistema immunitario diviene disreattivo, rivolgendo le
azioni immunitarie sugli antigeni self, potendo iniziare a produrre degli autoanticorpi della
classe delle IgG che legano i globuli rossi a temperatura di 37°.

A fronte di questa aggressione immunologiche, comunque, il globulo rosso non va incontro


a morte, dal momento che le IgG promuovono la distruzione di un target favorendo il
richiamo delle cellule effettrici del sistema immunitario. Questo tipo di situazione determina
soprattutto fagocitosi a livello della milza della porzione di membrana legata alla IgG
(riconosciuta tramite i recettori del frammento Fc per i fagociti), sicché il GR residuo divenga
uno sferocita, per cui lo sferocita al ciclo successivo viene poi fagocitato. In realtà, è anche
possibile che il GR che porta la IgG venga definitivamente fagocitato in corrispondenza della
milza senza la formazione di sferocita che venga fagocitato al ciclo successivo: per cui sono
forme di prevalente emolisi extravascolare. Generalmente, le IgG non attivano il
complemento (che è un complesso proteico riconducibile all’immunità innata che sarebbe
come una forma primitiva di immunità umorale). Le forme immuno-emolitiche da anticorpi
caldi sono quelle più frequenti.
Si può osservare in genere una splenomegalia dovuta alla fagocitosi splenica (emolisi
extravascolare). A questo si aggiungono i segni laboratoristici di una tipica emolisi
extravascolare.

Dal punto di vista terapeutico in questi pazienti generalmente si può dare terapia
cortisonica, per reprimere la disreattività immunologica.

Anemie immunoemolitiche da anticorpi freddi (IgM emolisi intravascolare)


Nel caso delle anemie da anticorpi freddi si tratta di anemie causate dalla produzione di
IgM in grado di legare l’antigene sulla superficie dei globuli rossi in corrispondenza delle
regioni fredde dell’organismo, o in situazioni caratterizzate da ambienti esterni freddi: le IgM
creano una rete sulla superficie dei globuli rossi, determinando attivazione delle molecole
del complemento, tal che si abbia una emolisi intravascolare per cui la morte dei globuli
rossi non avviene ad opera dei macrofagi ma ad opera del complemento nel letto vascolare
a causa dell’attivazione del MAC, complesso di attacco alle membrane. Questo processo
può venire visualizzato al M/O con una agglutinazione dei globuli rossi.

Si noti che il complemento, grazie alla deposizione delle immunoglobuline sulle emazie, in
parte viene attivato (già presente sulla membrana), ed in parte viene reclutato.

Il paziente in questione potrebbe avere anche dei fenomeni cianotici a livello del naso, dei
polpastrelli, della punta del piede, dove l’agglutinazione può avvenire con facilità perché
sono quelle più esposte al freddo.

Essendo questa una patologia da emolisi intravascolare, al contrario della precedente il


paziente non avrà splenomegalia, laddove manifesterà invece emoglobinuria e tutti gli altri
segni clinici laboratoristici peculiari dell’emolisi intravascolare.

Ig bitermiche (IgG)

Si può anche avere una situazione in cui sono presenti anticorpi bitermici e si tratta di IgG
che legano il GR a basse temperature e pur essendo IgG attivano il complemento a
temperature più elevate (corporea), per cui sono situazioni abbastanza complesse e
questo tipo di attività bitermica in passato era spesso legata alla malattia luetica, alla sifilide,
che ora è meno rappresentata. Ad oggi, la presentazione di questa malattia può appartenere
a giovani pazienti, anche pediatrici, che hanno infezioni virali (verso la guarigione avviene
l’inizio dell’emolisi) che causano questo tipo di anemia che può autolimitarsi. Quindi, che
succede? L’autoanticorpo IgG lega l’emazie nelle aree periferiche fredde del corpo; la lisi
complemento-mediata si verifica invece quando le cellule ricircolano nelle regioni centrali
calde, poiché la cascata del complemento funziona più efficacemente a 37°C.

La caratteristica di questa anemia è che è autolimitante, per cui si autolimita e non serve
fare terapia in quanto la prognosi è buona.

Anticorpi misti

Infine, vi sono situazioni in cui non si riesce a categorizzare gli anticorpi che agiscono, per
cui si definiscono anemie ad anticorpi misti, che creano per questo motivo delle
problematiche diagnostiche e terapeutiche.

Diagnosi: test di Coombs

La diagnosi di questo tipo di patologie si effettua mediante la valutazione del test di


Coombs, bisogna dimostrare che il globulo rosso muore prima dei 120 giorni in quanto ci
sono delle Ig che promuovono l’emolisi. E’ presente in una varietà diretta e una varietà
indiretta: la prima risponde alla domanda diagnostica circa la presenza di Ig sulla
superficie dei globuli rossi del paziente; la seconda variante del test risponde alla domanda
circa la presenza nel siero del paziente di eventuali autoanticorpi che provochino la morte
dei globuli rossi.

• Test di Coombs diretto: dopo prelievo di sangue, saranno presenti dei globuli rossi
con anticorpi sulla superficie. i GR del paziente si incubano per un po’ di tempo con
un siero controllo specifico per le Ig umane (è un siero anti-globuline umane); è
chiaro che se il siero trova le Ig sulle superficie dei GR si verificherà una reazione tra
questi anticorpi del siero controllo e la porzione costante delle Ig del globulo rosso tal
che si abbia una agglutinazione che è visibile sul fondo della provetta. Nel momento
in cui preparo i globuli rossi del paziente separandoli dal resto delle strutture, le IgM
eventualmente legate sulla superficie è possibile che si stacchino in quanto non
hanno un legame forte, motivo per cui non è sufficiente fare solo questo test. Questo
test, dunque, risponde principalmente alla domanda relativa le IgG.
Il test di Coombs diretto può essere positivo anche in un individuo che non ha
un’emolisi, cioè nell’1% dei casi ci può essere un falso positivo. Per cui questo esame
deve essere chiesto non a caso, ma sulla base di un valido sospetto clinico.
• Test di Coombs indiretto: si analizza in questo caso il siero del paziente in cui
eventualmente saranno presenti anticorpi; si mescola il siero del paziente con delle
emazie controllo e se presenti anticorpi nel siero, questi si legheranno alle emazie
controllo. Fatto questo, si effettua una miscelazione con il siero controllo anti-Ig
umane per valutare l’eventuale presenza di agglutinazione. Questo test risponde
principalmente alla ricerca di IgM.

I due test sono entrambi utili, dal momento che se le IgG si saldano tenacemente sul GR, le
IgM non lo fanno e quindi possono sganciarsi dalle membrane durante la preparazione, il
che significa che è necessario fare tutti e due i test.

Il test di Coombs, oltre che in questo caso, è utile anche prima dell’effettuazione di una
trasfusione, per scongiurare eventuali forme di incompatibilità alla trasfusione.

Anemie immuno-emolitiche da farmaci

Nelle anemie immuno-emolitiche da farmaci si possono configurare varie situazioni dal


punto di vista immunologico, per cui:

• Per motivi di disreattività non noti del sistema immunitario, l’organismo produce
anticorpi che interagiscono con il farmaco laddove il farmaco presenta epitopi simili
al GR per cui si definisce una cross-reazione degli anticorpi con gli Ag del GR.
• Il farmaco aderisce alla superficie del globulo rosso e l’anticorpo verso il farmaco
aderisce sul farmaco adeso alla superficie del GR.
• L’Ig è specifica per una regione di giunzione che sta di mezzo tra il farmaco
aderente alla superficie del GR e la superficie del GR che va incontro a
modificazione e proprio questa regione modificata diviene il target dell’anticorpo.
Sono queste tre situazioni differenti tra di loro.

Più spesso le reazioni di questo tipo intervengono dopo la somministrazione di alcune classi
di farmaci anche frequenti, potendo dare luogo a reazioni che siano istantanee o tardive,
per cui in questo caso è necessario sospendere la somministrazione del farmaco
considerato. I farmaci possono essere soprattutto antibiotici ma non solo, anche anti-
ipertensivi o anti-psicotici.
Chiaramente il meccanismo immunologico può variare a seconda del farmaco, anche se più
spesso sono prodotti anticorpi caldi IgG che possono essere messi in evidenza con il test
di Coombs diretto: in questi casi la reazione emolitica post-somministrazione del farmaco
può insorgere dopo poco tempo o molto tempo oppure potrebbe protrarsi anche dopo la
sospensione del farmaco, soprattutto nei casi di cross-reazione in cui si manifesta la
necessità della presenza del farmaco solo nella prima fase di innesco della produzione
anticorpale.

Reazione emolitica trasfusionale

La reazione emolitica più importante è quella che può essere generata da una trasfusione
di emoderivati (piastrine sangue, neutrofili). Questa reazione può avere diverse fasi
patogenetiche e anche queste influenzano i diversi quadri clinici di questa condizione
emolitica.

• Può capitare che il paziente venga trasfuso con un gruppo ematico non uguale al
suo. Succede che stiamo somministrando delle cellule all’individuo, al ricevente, che
ha già un sistema immune idoneo a riconoscere il non self. Quindi dando a un
individuo con gruppo sanguigno A delle emazie di gruppo B, quello avrà una reazione
perché il suo sistema immune è già pronto ad agire; le nuove emazie vengono subito
attaccate dalle immunoglobuline e c’è subito l’agglutinazione che avviene in tutti gli
organi e si traduce in un blocco del microcircolo, perché è come se il sangue
coagulasse in questi piccoli vasi negli organi.
• Più spesso però la reazione trasfusionale che avviene è un’altra, ovvero quella legata
a una incompatibilità tra antigeni che non vengono studiati o tra sostanze che
sono contenute nel sangue del donatore. Quindi il paziente trasfonde questa
sacca di sangue e ci sarà un antigene x che viene riconosciuto come non self e il
paziente comincerà a presenterà i primi sintomi dell’emolisi oppure può non avere
nulla e manifestare alcuni segni e sintomi dopo qualche giorno, oppure possono
accadere eventi e conseguenze più serie con dispnea, brividi molto forti, shock
ipotensivo, insufficienza renale. Quindi si crea una situazione importante perché
c’è qualche elemento, qualche antigene presente nella sacca del donatore che
non è compatibile con il sistema immune del ricevente.
Questo qualcosa, questo antigene dobbiamo cercare di scoprirlo e combatterlo.
Possiamo:
1. dare del cortisone al paziente ed esso serve anche a mantenere e regolare la
pressione.
2. diamo ossigeno al paziente perché esso favorisce la distensione della
contrattilità muscolare che si è verificata a seguito della liberazione di citochine
della risposta immunologica
3. poi diamo dei liquidi per mantenere il circolo e dei diuretici per conservare la
funzionalità renale

Tutti questi accorgimenti dobbiamo darli in breve tempo, perché se questi disturbi
durano molto, (quindi il paziente ha dolori, diventa cianotico ecc.) il paziente potrà
andare in contro a insufficienza renale o addirittura incontro a morte.

Quando c’è una crisi emolitica in seguito a una reazione trasfusionale possono accadere
diverse cose dipende sempre dal quid che ha scatenato la reazione però in generale viene
attivata la risposta umorale, la risposta infiammatoria, liberazione delle citochine, emolisi,
sovraccarico dei metaboliti tossici. C’è un quadro patogenetico che compare con fenotipo
clinico ben descritto con cianosi dispnea dolori pruriti ecc.

1. Brividi, sono generati da vari motivi in questo contesto, ma nella maggior parte dei
casi, le sostanze che entrano nell’organismo liberano sostanze come istamina ed
eparina, che inducono di fatto una reazione allergica. Nel caso della incompatibilità
AB0, i brividi hanno un altro significato, che riguarda la presenza di agglutinazione
dei GR che determinano vasocostrizione, iperincrezione adrenergica e i brividi sono
espressione di questa condizione di alterazione dell’apporto di ossigeno; vengono
definiti questi con il nome di brividi scuotenti.
2. Cianosi
3. Insufficienza respiratoria
4. Ipotensione e shock
5. Insufficienza renale

Nel caso dell’incompatibilità AB0 c’è poco da fare: l’agglutinazione si verifica pressoché in
ogni distretto vascolare, determinando spesso la morte del soggetto.
Emoglobinuria parossistica notturna
L’EPN può anche essere una patologia di emergenza ematologica, pur non essendo una
neoplasia ematologica presenta una caratteristica comune a queste dacché la mutazione
è acquisita, come nel caso delle neoplasie ematologiche. Si tratta di un disordine clonale
definito dalla mutazione di una staminale emopoietica a carico del gene PIGA coinvolto
nella formazione del GPI, che è una molecola che lega proteine estrinseche di membrana
come il CD55 e il CD59 che sono due inibitori del complemento. L’assenza del GPI
determina impossibilità di esposizione delle molecole in questione determinando una
attivazione impropria del complemento sulla superficie delle cellule del sangue; in questo
scenario patogenetico, si configurano:

• Emolisi intravascolare
• Emoglobinuria, che in passato veniva affiancata agli aggettivi parossistica e
notturna, anche se l’emolisi può verificarsi in qualsiasi momento della giornata, anche
se la dicitura notturna non è sbagliata dal momento che durante la notte si osserva
una acidificazione del pH a cui sono sensibili le cellule che non possono controllare
l’attivazione del complemento, che si attiva maggiormente in questo caso.
L’attivazione del complemento induce l’attivazione del complesso di attacco alle
membrane sicché si presenti una lisi della membrana cellulare e liberazione di sostanze,
che possono causare una serie di sintomi aggiuntivi rispetto ai classici sintomi dell’anemia.

In questo caso quindi, si verificano:

• Trombosi: per via dell’attivazione del complemento che attiva anche il processo
emostatico (l’attivazione del processo emostatico potrebbe derivare dal sequestro di
NO da parte dell’Hb libera), che può configurarsi con:
a) TVP
b) Trombosi arteriosa
• Distonia del muscolo liscio: tipici della malattia sono gli spasmi esofagei, perché
vengono liberate sostanze che inducono scavenging dell’ossido nitrico. Un altro
problema di questa situazione è quella dei dolori addominali per contrazione viscerale
diffusa e il priapismo.
• Ipertensione polmonare: per i meccanismi di scavenging dell’ossido nitrico.

Anche le piastrine presentano frazioni del complemento, che di conseguenza saranno


disregolate, in modo tale da poter indurre una situazione di attivazione piastrinica e
dunque trombosi. Il paziente può presentare anche leucopenia perché anche i globuli
bianchi hanno frazioni del complemento.

Il complemento non si attiva direttamente ma le circostanze che fanno in modo che queste
due proteine non ci siano, rendono più sensibile il complemento all'attivazione. Basterebbe
una riduzione di pH nel sangue, una riduzione della concentrazione di ossigeno, tutte
condizioni che si verificano di notte oppure quando c'è un'infezione. Questa patologia viene
chiamata notturna per la prevalenza dei casi riscontrati di notte ma in realtà può avere i suoi
sintomi anche di giorno.

Quindi il paziente si ritrova di fronte ad emolisi intravascolare e in maniera più evidente


ad emoglobinuria, oltre che a una trombosi che generalmente riguarda i grossi vasi anche
in pazienti giovani. Quando il globulo rosso si rompe libera molte sostanze e tra queste vi
è l'emoglobina che in circolo lega l'ossido nitrico sequestrandolo. L'assenza di ossido nitrico
si traduce in una maggior contrazione della muscolatura liscia. Dunque, il paziente mostrerà:

● Anemia
● Trombosi
● Spasmo esofageo: dolore lancinante al petto simile al dolore dell'infarto, tipico di questa
patologia.
● Priapismo: per forte iperattività dei corpi cavernosi.
● Dolore addominale: sempre per la maggior contrazione della muscolatura liscia.
● Ipertensione polmonare: per via dell'aumento del tono della muscolatura liscia.

Al controllo dell'emocromo troverò:


• Anemia
• MCV aumentato per reticolocitosi
• Posso trovare sia leucocitosi che leucopenia, la prima la posso trovare perché il
paziente ha una infezione che ha scatenato l'attivazione linfocitaria, la seconda
perché l'attivazione del complemento elimina i leucociti;
• Trombosi e dunque trombocitopenia da aumentato consumo,
• Aptoglobina ed emopessina sono diminuite per via dell'emolisi prevalentemente
intravascolare,
• LDH alterato, come in tutte quelle patologie in cui è alterata la proliferazione cellulare
sia nel senso dell’ aumentata produzione che distruzione
• Bilirubina indiretta aumentata
• Emoglobinuria
• Emosideruria

Diagnosi
La diagnosi si effettua con un esame citofluorimetrico con il quale vado a valutare
l'espressione delle proteine CD55 e CD59 e nel caso della emoglobinuria parossistica
notturna non troverò l'espressione di queste proteine.
Il paziente potrà essere salvato perché si può somministrare al paziente un medicinale,
chiamato Eculizumab, che si basa sull'azione di un anticorpo monoclonale che si va a
legare su alcune frazioni del complemento inattivandolo.

Anemia aplastica o aplasia midollare


Anche detta aplasia midollare, l’anemia aplastica è una sindrome clinica caratterizzata da
una ipo-aplasia delle tre principali filiere proliferative, conseguentemente alla cessazione
della funzione emopoietica, per cui il soggetto con questo problema all’emocromo rivela una
pancitopenia.
L’aplasia midollare è una patologia che può avere eziologie differenti; grossolanamente
diciamo che distinguiamo una aplasia acquisita che è la forma diciamo più frequente e le
forme ereditarie che sono quelle che danno un segno di sé già in età pediatrica ma sono
molto più rare.

Le forme acquisite possono essere idiopatiche o secondarie.


1. In linea generale l’aplasia midollare secondaria è secondaria soprattutto ad infezioni
virali (parvovirus, virus dell’epatite, virus di Epstein Barr) ma può essere anche
secondaria ad un farmaco. È anche possibile che nella cura delle neoplasie
ematologiche che si verifichi una soppressione midollare oppure a seguito di
esposizioni a radiazioni ionizzanti.
2. C’è una fetta di aplasie midollari che invece sono idiopatiche e cioè non hanno alcuna
correlazione con i fattori detti precedentemente. Esse insorgono ex novo e della loro
eziologia non sappiamo assolutamente nulla. Sono patologie importanti perché
l’emocromo di questi pazienti presenta una pancitopenia cioè una riduzione di tutta
la componente cellulare del sangue (anemia, leucopenia, piastrinopenia) e questo
ovviamente si traduce in sintomi che possono portare a morte del paziente. I pazienti
con aplasia idiopatica possono essere adulti giovani o anziani.
Per i pazienti anziani non possiamo fare granché, solo eventualmente una terapia di
supporto (trasfusioni di emazie [con terapia ferro-chelante per evitare emosiderosi
secondaria], piastrine, dare antibiotici per proteggere da infezioni); per i pazienti più
giovani l’unica terapia che può essere risolutiva è un trapianto di cellule staminali.
Si tratta di una patologia molto severa ed è complicato fare diagnosi perché
ovviamente dobbiamo riuscire a capire -soprattutto nell’anamnesi – perché il paziente
è aplastico. Alcune aplasie sono auto-limitanti cioè il paziente, dopo un certo
periodo di tempo, può recuperare la funzione emopoietica tuttavia, se l’aplasia è
idiopatica, ovviamente questo non avviene.
La forma idiopatica deve essere distinta rispetto alle altre forme mediante un
percorso diagnostico differenziale tanto complesso quanto importante, dal momento
che se l’aplasia è secondaria, è necessario curare prima la causa, ad esempio se
l’attività emopoietica è dovuta ad infezioni virali, la somministrazione di terapia
immunosoppressiva (per errata diagnosi di forma idiopatica) creerebbe un danno
chiaramente.
Perché il paziente con aplasia midollare idiopatica acquisita è aplastico?
Probabilmente perché per un motivo X (a noi non noto) viene selezionato nel sistema
immunologico dell’individuo un clone di linfociti T (si pensa siano linfociti T
citotossici CD8+) che aggrediscono le cellule staminali emopoietiche. C’è quindi un
movimento cellulare autoimmune che porta alla insufficiente emopoiesi.

Questa patologia può raramente trasformarsi in leucemia acuta e ogni volta che io ho una
pancitopenia periferica (cioè emocromo ci dice che il paziente è anemico, piastrinopenico,
leucopenico) io devo escludere tutta una serie di patologie per riuscire a capire se la
diagnosi può essere un’aplasia midollare o un’altra.

Un farmaco che può funzionare prima del trapianto nei pazienti con aplasia midollare, è ad
esempio la ciclosporina. Essa deprime l’azione immunitaria e anche quella dei linfociti T.
Questi pazienti con aplasia però sono anche pancitopenici, cioè soggetti ad infezioni, e la
ciclosporina, essendo un immunosoppressore, ci porta a trovarci in una situazione difficile
da amministrare sotto il profilo terapeutico.
In questo caso la documentazione dello spegnimento dell’attività emopoietica è affidata alla
biopsia osteomidollare, che permette di valutare la situazione a carico del midollo osseo.

SINDROMI MIELODISPLASTICHE (SMD)

Apriamo il tema delle MALATTIE ONCO EMATOLOGICHE e lo facciamo iniziando a


parlare delle sindromi mielo-displastiche. Esse sono dei tumori del sangue, in passato
venivano chiamate “pre-leucemie” (oggi non le chiamiamo più così) perché i pazienti che
avevano una sindrome mielo displastica erano destinati all’evoluzione della loro patologia
in una leucemia acuta.
Le sindrome mielodisplastiche comprendono un gruppo eterogeneo di patologie
emopoietiche clonali caratterizzate da una progressiva inefficacia della emopoiesi midollare
associata ad alterazioni morfologiche (displasia) delle 3 linee di differenziazione mieloide.
Con “sindromi mielo-displastiche” si fa riferimento ad una serie di malattie che hanno tutte
dei denominatori comuni, primo fra tutti è l’emopoiesi inefficace. Questo vuol dire che, se
si va a vedere il midollo di questi pazienti, troverò molte cellule: il midollo risulta pieno di
cellule che però sono displastiche (che hanno alterazioni morfologiche importanti).
Andando ad analizzare il sangue periferico mediante l’emocromo, si osserva che il paziente
è pancitopenico (pochi globuli rossi, linfociti, piastrine). C’è dunque un’asimmetria tra
sangue periferico e midollo osseo.
Quindi: emopoiesi inefficace, citopenia periferica, displasia. Ovviamente quest’ultima è
un segno di un’alterata differenziazione, stiamo parlando di un tumore e quindi è chiaro
che qualcosa nella differenziazione di questo tessuto è andata male.

Tra le altre caratteristiche condivise da questo gruppo di malattie è quello di avere:


alterazioni del cariotipo e dei geni; prognosi variabile, ovviamente trattandosi di malattie
diciamo che hanno dei caratteri comuni ma che hanno delle caratteristiche proprie, è chiaro
che questa diversità si evidenzierà con una prognosi variabile.
Il midollo osseo di questi pazienti sarà ricco, ipercellulare ma con cellule displastiche,
infatti “mielodisplastiche” vuol dire questo e indica quindi un midollo con alterazioni
morfologiche delle cellule. Nel sangue periferico invece non c’è quasi niente, non ci sono
cellule. Le cellule displastiche midollari non riescono a raggiungere la circolazione periferica
ma, anche se ci riuscissero, non potrebbero fare granché.
Quindi il paziente ha anemia, leucopenia (in particolare neutropenia), piastrinopenia;
da questa triade deriverà la sua sintomatologia e cioè il paziente (adulto, generalmente con
più di 50-60 anni) andrà dal medico per sintomi di anemia, emorragie o infezioni che non
guariscono con la terapia antibiotica in quanto tendono a recidivare.

Dal punto di vista di diagnostica differenziale la diagnosi di questa patologia è molto


complicata dal momento che sia i sintomi che gli aspetti morfologici del midollo sono molto
simili a quelli che possiamo riscontrare in tantissime altre patologie. La diagnosi è quindi
molto difficile, si parla di un tumore contro patologie che non sono tumorali, quindi una cosa
non di poco conto. La stessa anemia da deficit di vitamina B12 può simulare un quadro
di sindrome mielodisplastica. Quindi, entra in differenziale con:
1. Deficit vitamina B12
2. Deficit folati – acido folico
3. Avvelenamento da metalli pesanti (es. piombo)
4. Assunzione di farmaci (es. antibiotici)
5. Infezioni virali (es. HIV)
6. Anemia aplastica
7. Mielofibrosi

L’eziologia di questa patologia, come per la maggior parte delle malattie onco-ematologiche
non è nota. Valgono i soliti fattori ambientali, radiazioni, etc. in un quadro poco chiaro oggi
giorno. Alcuni pazienti che fanno una terapia al fine di curare un tumore X possono
presentare una mielodisplasia a livello midollare collegata alla terapia eseguita. Questo è
dovuto al fatto che i farmaci usati per curare quelle neoplasie sono farmaci che hanno
disturbato lo sviluppo delle cellule emopoietiche, favorendo la trasformazione neoplastica.

Come detto dal punto di vista clinico i problemi saranno infezioni, sanguinamenti, anemie;
la trasformazione in leucemia acuta è una causa di morte importante perché abbiamo
detto che a questa patologia ad oggi non c’è una terapia possibile per eradicare la malattia,
ci sono dei farmaci che possono stabilizzare la malattia ma non la possono eradicare.
C’è poi un’altra considerazione da fare e cioè che questa patologia colpisce soprattutto gli
anziani. Questi già portano con sé un bagaglio di malattie cardiovascolari o altre comorbilità
sulle quali si innesca anche la sindrome mielodisplastica con tutte le complicazioni che ciò
implica.

La fisiopatologia (cioè perché insorge la mielodisplasia) non la sappiamo, quello che


invece sappiamo è che ci sono 2 motivi alla base:
1. il più frequente sono le alterazioni che riguardano il DNA (e cioè il DNA che subisce
un danno, più facilmente può subire altri danni, la loro somma poi realizza il fenotipo
della malattia neoplastica);
2. il secondo motivo è che una piccola parte di mielodisplasie ha una patogenesi
immune (e cioè c’è una sorta di reazione autoimmunitaria che rientra nella patogenesi
neoplastica di questa malattia). Però i rapporti tra immunologia e trasformazione
neoplastica non sono ancora ben definiti. Generalmente quando la mielodisplasia
colpisce i pazienti più giovani, anche la patogenesi è diversa: in questi casi
probabilmente il sistema immunitario è più coinvolto.

Quando abbiamo parlato della nicchia emopoietica si è detto che la cellula emopoietica
vive nella nicchia insieme a cellule stromali. Quando questo legame si rompe
patologicamente, anche la cellula emopoietica può non essere più protetta da altri fattori. La
cellula staminale non è più sotto il controllo della cellula stromale e inizia a subire una serie
di alterazioni che potrebbero trasformarla. Quindi possono essere coinvolte alterazioni
genetiche, del microambiente, immunologiche.

I sintomi più importanti sono quelli legati alle emorragie e alle infezioni che ovviamente se
incorrono con una certa frequenza possono rappresentare causa di morte (in questi pazienti
sono abbastanza frequenti infezioni che causano ascessi perirettali).

Facciamo diagnosi di mielodisplasia a partire da alterazioni morfologiche delle cellule


emopoietiche, queste alterazioni possono essere le più varie e riguardano tutte le cellule
mieloidi (ossia, midollari) del sangue e tutti i compartimenti, sia il midollo osseo che il sangue
periferico:
1. Diseritropoiesi, cioè nella displasia delle cellule eritroidi, possiamo avere più di
un nucleo o anche un colore del citoplasma diverso, c’è una alterazione nella
sincronia tra la maturazione del nucleo e del citoplasma (asincronia maturativa
nucleo-citoplasmatica) che è una alterazione morfologica ma anche funzionale.
Oppure gli eritroblasti accumulano più ferro del solito e si formano i sideroblasti ad
anello che sono patologici. Quando il ferro è tanto esso si dispone attorno al nucleo
formando un anello (granuli perinucleari) e da ciò deriva il nome. Teoricamente in
condizioni fisiologiche il ferro potremo ritrovarlo depositato in cellule macrofagiche o
negli eritroblasti, in queste condizioni invece il deposito negli eritroblasti è
sicuramente aberrante ed eccessivo, conferendo all’eritroblasto questa particolare
denominazione.
2. Disgranulopoiesi, displasia che interessa la granulo-monocitopoiesi, cioè le
alterazioni morfologiche a carico dei granulociti. I granulociti, come detto, hanno due
caratteristiche morfologiche fondamentali: (1) assetto del nucleo, (2) granuli nel
citosol. Queste due caratteristiche sono alterate dalla displasia, con ripercussioni poi
sulla funzionalità granulocitica:
- Nuclei ipolobulati (cellule pseudo-Pelger-Heut, cioè neutrofili con due soli lobi
nucleari al posto dei normali tre o quattro)
- Nuclei ad anello
- Ipogranulazione
3. Dismegacariocitopoiesi è la displasia che riguarda la megacariocitopoiesi; quindi i
pazienti hanno emorragie perché i megacariociti non riescono a produrre
correttamente piastrine.
Il megacariocita normale è fra le cellule più grandi che possiamo trovare nel midollo;
solitamente, in condizioni fisiologiche, ha un numero di nuclei pari, in quanto
all’interno della cellula stessa avvengono mitosi, cosiddette endomitosi. A causa di
ciò i nuclei tendono ad accumularsi nella cellula e a sovrapporsi gli uni sugli altri.
Nella dismegacariocitopoiesi possiamo trovare:
- Micromegacariociti: cellule piccole, non più grandi;
- Elementi giganti mononucleati (al contrario della normale polilobatura la
cellula ha un solo nucleo)
- Oppure possono avere più nuclei ma non in numero pari
- Ancora, possono avere nuclei non sovrapposti, ma sparpagliati nel
citoplasma.

Tutte queste, quindi, rappresentano le alterazioni morfologiche delle sindromi


mielodisplastiche, alle quali ovviamente corrispondono le alterazioni funzionali della cellula.
Nella maggior parte dei casi, quando andiamo a guardare il midollo, tramite un agoaspirato
midollare, potremo individuare:
1. Cellularità aumentata nel 50-60% dei casi
2. Cellularità normale nel 30-40% dei casi
3. Cellularità diminuita nel 10-15% dei casi.
Quindi, le SMD, rappresentano un disordine maturativo midollare che si traduce in una
incapacità del midollo osseo di produrre cellule appartenenti ad una o a più linee nonostante
una cellularità normale o aumentata.
Allora, abbiamo detto che si tratta di un gruppo di malattie, di cui sapere il nome delle
singole malattie che compongono questo gruppo non è utile.

Prognosi
1. Un fattore prognostico importante è dato dalla presenza o meno di blasti. I blasti
sono le cellule immature del sangue e caratterizzano soprattutto le leucemie
acute, sono le cellule più immature che posso trovare nel sangue. Quando ho una
leucemia acuta, la percentuale di blasti nel midollo e nel sangue periferico è
superiore al 20%. Quindi nelle mielodisplasie la percentuale di blasti nel sangue
periferico e nel midollo sarà inferiore al 20%. Tutte le patologie che compongono le
mielodisplasie avranno una prognosi peggiore se il numero di blasti è vicino al 20%,
una prognosi migliore se è lontano dal 20%.
2. L’altro carattere riguarda le alterazioni dei geni o dei cromosomi: più alterazioni
dei geni o dei cromosomi avrò, peggiore sarà la prognosi della mielodisplasia.
3. Più il paziente è pancitopenico peggiore è la prognosi. Il paziente potrà avere solo
l’anemia e quindi andrà meglio di un paziente pancitopenico. Sarà possibile, dunque
una citopenia periferica mono, bi o trilineare.
Quindi tutte queste cose devono essere messe insieme nello stesso paziente potendo
ricavare uno score prognostico, cioè un sistema che ci dice questo paziente con queste
caratteristiche come sta rispetto ad un altro paziente.

Classificazione

• FAB (franco-americano-britannico): la classificazione FAB oggi non viene più usata.


Dobbiamo ricordare che la SMD nella sua storia naturale tende ad evolvere in
leucemia acuta. Cosa mi aiuta a distinguere in linea generale una cosa dall’altra? Il
numero dei blasti: il blasto è la cellula più immatura che possiamo trovare nelle
neoplasia onco-ematologiche. Quindi, quando la quota dei blasti nel midollo e nel
sangue periferico è minore del 20%, allora parlo di SMD, ma se maggiore del 20%,
parlo di leucemia acuta. Un paziente più blasti ha più, è probabile che evolva verso
la leucemia acuta.
• WHO
Un altro parametro importante è la citopenia: la citopenia è mono, bi o trilineare?
Viene da sé che se un paziente ha citopenia trilineare avrà più problemi di un paziente
con citopenia monolineare. L’insieme di queste (citopenia + numero dei blasti) ci dà
informazioni sul paziente, così come ci danno informazioni la presenza/assenza di
alterazioni del cariotipo, ossia anomalie cromosomiche, o anche alterazioni dei geni.
Infatti, oggi usiamo una classificazione (che è quella dell’OMS), dove ritroviamo
diverse patologie con prognosi diverse in ragione a una diversa distribuzione dei
fattori che abbiamo visto (numero blasti, citopenia, presenza di alterazioni
cromosomiche, presenza di alterazioni geniche). La somma di tutto, oltre a
permetterci di dare un nome alla patologia, ci dà anche delle informazioni sulla
prognosi.

Anomalie cito-genetiche SMD


Le anomalie cito-genetiche nelle SMD sono molto rappresentate: il 50% dei pazienti può
avere anomalie cromosomiche, che sono spesso delle delezioni. Alcune di queste
alterazioni cromosomiche possono essere ricorrenti, ossia si possono presentare uguali in
pazienti diversi, altre invece sono specifiche da paziente a paziente. Il fatto che il 50% dei
pazienti non abbia alterazioni del cariotipo, non vuol dire che il loro genoma non sia stato
intaccato dalla malattia. Infatti, se andiamo a fare un’analisi molecolare di geni nei pazienti
che non presentano alterazioni cromosomiche, noteremo che alcuni presentano delle
anomalie (mutazioni, delezioni, ecc.), che possono essere correlate alla displasia
(correlazione genotipo anomalo-fenotipo displastico). Ad esempio, questa correlazione
genotipo-fenotipo è visibile in tali anomali:

• Delezione del braccio lungo del cromosoma 11u → si associa spesso alla
presenza di sideroblasti ad anello, che metto in evidenza attraverso una reazione
citochimica che si chiama Colorazione di Pearls;
• Monosomia del cromosoma 7 → determina la presenza di micromegacariociti;
• Delezione (17) (p13) → determina l’anomalia di Pelger-Huet, un grave difetto della
granulopoiesi;
• Del. (5) (q13 q33) → la delezione del braccio lungo del cromosoma 5 determina la
Sindrome 5q-, una mielodisplasia particolare ed importante da ricordare. Al contrario
di altre mielodisplasie essa gode di un trattamento terapeutico più efficace. Prende il
nome di “sindrome” perché racchiude in sé alcuni segni:
1. Alterazione cromosomica: da un punto di vista diagnostico, come cerco questa
alterazioni?
- Analisi del cariotipo: che può essere difficile perché queste
cellule possono non crescere in coltura, come in molti tumori
del sangue e non, e, quindi, potrei non avere cellule da
bloccare in metafase in modo tale da analizzare i cromosomi
- Fish, utilizzo di una sonda specifico per quello che sto
cercando (una sequenza fluorescente complementare a ciò
che voglio localizzare); generalmente i segnali attesi sono
due perché sia che io cerchi un gene, sia che io cerchi un
cromosoma, nel nostro genoma tutto è rappresentato due
volte, per cui se mi ritrovo meno o più di due segnali, vuol
dire che è presente un’alterazione (in questo caso,
ovviamente, dovrò avere meno di due segnali per la
sindrome 5q-);
2. Riguarda donne di età molto giovane (rispetto all’età media delle donne affette
da SMD) con una anemia macrocitica (nelle mielodisplasie ci può essere
chiaramente anemia normocita) e una piastrinosi (nelle mielodisplasie c’è
normalmente piastrinopenia). L’alterazione 5q-, inoltre, si associa a
megacariociti monolobulati (mononucleati), più piccoli, e marcata
neutropenia.
• Alterazioni del cromosoma 3 → forti disturbi nella megacariocitopoiesi, per cui i
pazienti sono piastrinopenici o affetti da piastrinosi.

Nella mielodisplasia abbiamo detto che, come in tutti i tumori, oltre ad avere anomalie
cromosomiche, possono esserci anche anomalie ai singoli geni; si pensa che ogni
paziente con SMD abbia almeno 2/3 geni mutati:
• Solitamente questi geni codificano per proteine che fanno parte dello
SPLICEOSOMA, che si occupa dello splicing alternativo. Nel tumore è molto
importante lo splicing alternativo, perché un punto cardine della trasformazione
neoplastica potrebbe essere quello che ad un certo punto, nel nostro organismo, non
viene prodotta più una proteina composta, ad esempio, da 6 esoni, ma da 8 esoni,
per cui farà cose totalmente diverse, per cui quella che viene intaccata è la qualità
dell’mRNA.
• I geni che si occupano della metilazione del DNA sono deregolati e ciò risulta in un
GENOMA IPERMETILATO, che costituisce un problema epigenetico: questi gruppi
metilici funzionano da interruttore che spegne il processo di espressione del gene,
quindi la cellula va incontro ad una impedita differenziazione e si ha displasia.
• Fattori di trascrizione/trasduzione del segnale, p53, modificazioni istoniche.

Dunque, nessun paziente con MD è esonerato dalle alterazioni molecolari (100%


alterazione genica), mentre solo il 50% dei pazienti hanno alterazioni cromosomiche.

Detto tutto questo, i FATTORI PROGNOSTICI nella SMD fanno i conti con la biologia della
malattia e con i fattori specifici del paziente, ossia le cosiddette comorbilità (un paziente
con comorbilità avrà prognosi diversa rispetto ad un paziente senza). Tutti i fattori che
abbiamo fin qui citato (blasti, alterazioni citogenetiche, alterazioni molecolari, comorbilità,
tipi di citopenia, etc.) messi insieme ci permettono di costruire degli score, o modelli,
prognostici. Questi score ci dicono quanto distante è il paziente dall’evoluzione leucemica
della malattia. Una paziente con una buona prognosi è un paziente stabile, che non mi
aspetto evolva in leucemia. In un pazienza con prognosi sfavorevole la displasia in un tempo
breve può evolversi in leucemia acuta.

La DIAGNOSI è molto difficile, perché la displasia del midollo osseo o del sangue
periferico, cosi come la citopenia nel sangue periferico, possono essere segno di tantissime
altre patologie, soprattutto infettive, infiammatorie croniche, autoimmuni. Quindi la diagnosi
differenziale è ardua.
La displasia del midollo, cioè le alterazioni morfologiche delle cellule non sono da sole un
carattere specifico della malattia. Nel caso, ad esempio, di una infezione c’è una
accelerazione della produzione di tutto (globuli rossi, globuli bianchi e piastrine), che si
accompagna ad anomalie morfologiche conseguenti. La diagnosi differenziale delle MD
è molto difficile, perché spesso il paziente è un paziente anziano che porta già un bagaglio
anamnestico ricco di patologie, di farmaci, in situazioni che possono creare una
sovrapposizione diagnostica con questa patologia.

Terapia
Ovviamente, la citopenia produce una sintomatologia, che noi possiamo migliorare. Se il
paziente è anemico, possiamo migliorare l’anemia con la somministrazione di
eritropoietina. Se il paziente è neutropenico, possiamo combattere le infezioni con gli
antibiotici. Ma tutto questo consiste solo in quella che viene chiamata TERAPIA DI
SUPPORTO, che non ha lo scopo di guarire il paziente, perché non esiste terapia del
genere, ma solo di alleviare i sintomi.

Quando abbiamo parlato della cellularità del midollo nelle MD, si è visto che nella maggior
parte dei casi il midollo è ipercellulare a cui si associa una citopenia periferica in antitesi.
Ma una parte dei pazienti con MD può avere midollo ipocellulato, generalmente in pazienti
molto più giovani o molto più anziani rispetto all’età media dei pazienti affetti da SMD.
L’ipo-cellularità midollare spesso suggerisce una patogenesi della malattia MD diversa:
in questi casi è possibile che la patologia sia stata innescata da un’alterazione
immunologica, ossia ci sia un clone di cellule (linfociti-T CD8+ ad azione citotossica) che
distrugge le cellule staminali emopoietiche (azione autoimmune). Quale sia il passaggio
fra questo fatto immunologico e la vera trasformazione mielodisplastica ancora non lo si
conosce; ma questi pazienti rispondono bene ai farmaci ad azione immunosoppressiva,
come la ciclosporina. Dunque, pazienti più giovani possono essere curati con la
Ciclosporina A (CyA) oppure con un Siero Antilinfocitario (ATG, costituito da
immunoglobuline di cavallo o di coniglio ad azione antilinfocitaria umana). Il principio su cui
si basano questi farmaci è che se riusciamo a bloccare l’innesco, blocchiamo la malattia.

È importante fare la DIAGNOSI perché seppur non esista una terapia specifica per le MD,
per alcune mielodisplasie esistono farmaci che paralizzano e stabilizzano la malattia,
senza garantire la guarigione, ma evitando che si trasformi in leucemia acuta. Un esempio
di questo tipo di farmaci è la Lenalidomide, un derivato della Talidomide. La Talidomide è
un farmaco che in passato (fine degli anni ’50-’60) veniva assunto dalle donne in gravidanza
per le sue proprietà antiemetiche (combatteva nausea, vomito, mal di testa), fino a quando
si è visto che l’assunzione del farmaco era associata alla presenza di alterazioni nei
nascituri, per cui si è capito fosse un farmaco teratogeno: i bambini nascevano con
malformazioni degli arti superiori ed inferiori. Fu, quindi, bandito come farmaco, fino a
quando non è stato recuperato agli inizi degli anni 2000, perché si è visto che nei tumori
esercitava proprietà antiangiogenetica. I tumori solidi, infatti, per mantenersi vivi e proliferare
hanno bisogno di risorse, che arrivano dai vasi che il tumore stesso costruisce attorno a sé
(angiogenesi patologica); questo derivato della talidomide contrasta l’angiogenesi tumorale,
ma in alcune patologie ha un effetto, in altre no.

Oggi, quello che sappiamo è che la talidomide nel tumore oncoematologico ha una funzione
immuno-modulante, ossia ha un azione modulante sul sistema immunitario, ma non
conosciamo con esattezza la modifica che apporta al sistema immunitario; l’unica cosa che
sappiamo con certezza è che interviene sullo sviluppo del processo neoplastico.

Quale è il meccanismo di azione della Lenalidomide?

La Lenalidomide fa in modo che venga riattivato il PROTEOSOMA (che viene in qualche


modo turbato da queste patologie, in particolare nella 5q-). Questa riattivazione favorisce la
degradazione di alcune proteine, alla cui degradazione coincide un controllo della
malattia. Ciò funziona sia nella Sindrome 5q-, sia in altre patologie oncoematologiche,
controllando in queste altre proteine. L’attività terapeutica della lenalidomide, infatti, cambia
a seconda della patologia.

Prima del trattamento il paziente mostra megacariociti come li abbiamo finora descritti, dopo
il trattamento essi diventano normali. Vengono, così, ripristinate le normali attività
emopoietiche. Questo funziona per un periodo di tempo, anche abbastanza lungo, ma
inesorabilmente accade che il farmaco ad un certo punto non funziona più (succede
qualcosa nelle cellule neoplastiche staminali che osteggia i meccanismi di azione del
farmaco) e la malattia procede con il suo percorso naturale.

Per tutti gli altri pazienti con SMD, diversa dalla Sindrome del 5q-, cosa possiamo fare? Per
alcuni pazienti con altre SMD possiamo effettuare la somministrazione di IPOMETILANTI.
Abbiamo detto che la trasformazione della cellula emopoietica nelle SMD avviene
probabilmente anche perché nel genoma di queste cellule c’è una ipermetilazione che
blocca l’espressione dei geni colpiti, dunque lo stato di differenziazione della cellula resta
bloccato. Normalmente l’espressione di un gene è regolata da alcune regioni regolatorie
che si trovano sul gene; una di queste è rappresentata dalle cosiddette isole CpG, zone di
DNA ricche di C (citosina) e G (guanina). Queste regioni, però, possono subire metilazione
da parte delle metil-transferasi, di conseguenza non esercitano più nessun controllo
sull’espressione del gene. Dunque, usiamo inibitori delle metil-transferasi che vanno a
proteggere queste regioni, rendendole invulnerabili all’attacco delle metil-transferasi,
garantendo la permanenza dell’attività trascrizionale. Quindi, gli agenti ipometilanti
servono a demetilare il DNA o ad impedire che questo venga metilato, ripristinando lo stato
fisiologico del genoma dei nostri pazienti. I due agenti ipometilanti che oggi utilizziamo nella
pratica clinica sono:

• 5-AZACITIDINA
• DECITABINA

La terapia con questi due inibitori delle metil-transferasi stabilizza la malattia, rallentandone
l’evoluzione (ma ricordiamo che non promette la guarigione).

LEUCEMIE ACUTE
Nell’Oncoematologia un tema ricorrente è rappresentato dalle alterazioni genetiche (in
realtà, le alterazioni genetiche le ritroviamo in tutti i tumori, ma in Oncoematologia questa
nozione è stata precoce rispetto al resto della medicina, cioè la nozione che il tumore
potesse essere una malattia dei geni deriva dall’oncoematologia).
Un paradigma presente anche in altre neoplasie non ematologiche è l’alterazione della p53.
È importante, però, controllare l’assetto genetico delle mutazioni, perché un singolo gene
mutato non è capace di tutto questo potere trasformante.

Cosa potrebbe succedere ad una cellula staminale emopoietica nel momento in cui c’è un
quid che induce la trasformazione neoplastica della cellula? Questo quid molto spesso è
rappresentato da una lesione al DNA subita ad opera di un termine ignoto. Questa lesione
causa alterazione del DNA. Normalmente, a fronte di questa alterazione, dovrebbero entrare
in azione i meccanismi di riparo al DNA, oppure la cellula viene indotta all’apoptosi (se i
meccanismi di riparo non riescono a riparare il danno), ma quando c’è la trasformazione
neoplastica questi due meccanismi non funzionano. Ad ogni modo, una volta che
questo danno al DNA si propaga (viene trasmesso alla prole successiva) si crea un
problema: un DNA danneggiato ha la potenzialità di poter essere vittima di altri errori. Così,
nella cellula si accumulano una serie di mutazioni, che alla fine avranno anche un senso
evolutivo, infatti, di tutte queste mutazioni che cominciano a susseguirsi e si realizzano nella
cellula, viene selezionato l’assetto mutazionale “migliore” dal punto di vista evolutivo (ossia,
che la fa proliferare meglio, che la fa produrre più energia, ecc.).

Nel caso delle trasformazioni neoplastiche nei tumori del sangue, la trasformazione può
avvenire o a livello della (1) cellula staminale emopoietica o a livello del (2) progenitore.
Possiamo fare questa considerazione, perché guardando i tumori del sangue e guardando
anche le MD, vedremo che alcuni di questi tumori sono poco differenziati, altri sono molto
differenziati. Che il tumore sia più o meno differenziato è una circostanza che può
realizzarsi in un tempo x, a seconda che la lesione origine da una cellula staminale
emopoietica totalmente indifferenziata o se colpisce un progenitore emopoietico che per
definizione è una cellula già commissionata, già sa che diventerà un globulo rosso, bianco
o una piastrina. Il progenitore, inoltre, a differenza della cellula staminale emopoietica, non
è in grado di autorigenerarsi, ma quando subisce la mutazione acquista la capacità di
rigenerarsi.

Dunque, se ho un tumore che ha un certo grado di differenziazione, è probabile che la


trasformazione neoplastica in quel tessuto sia partita da un progenitore emopoietico. Se
ho una neoplasia con cellule totalmente indifferenziate, è probabile che la trasformazione
neoplastica abbia riguardato la cellula staminale emopoietica. In tutti e due i casi, viene
da sé che non è sufficiente una sola mutazione per dare trasformazione, ma è la somma di
alterazioni geniche che determina il fenotipo neoplastico.
È possibile distinguere:

1. Leucemia acuta mieloide


2. Leucemia acuta linfoide o linfoblastica

Proprio come nella SMD, anche nelle leucemie acute ho una emopoiesi insufficiente, ma,
mentre nelle MD avevo un certo grado di differenziazione (per quanto fosse alterata), qui
non c’è per nulla: l’attività emopoietica è completamente in mano ai blasti, cellule totalmente
indifferenziate abbondanti nel midollo osseo e che possono abbondare anche nel sangue
periferico.

Emocromo

• Anemico, perché il midollo riesce a produrre solo blasti. L’anemia solitamente è


normocitica (MCV normale);
• Piastrinopenico, per lo stesso motivo di prima;
• Con una conta leucocitaria più spesso molto alta (leucocitosi), meno spesso
normale o diminuita (può accadere quindi che i leucociti in una leucemia
all’emocromo siano normali o leucopenici). Nel caso della leucocitosi, il paziente in
realtà non ha molti leucociti: la macchina che conta i globuli vede tante cellule che
somigliano ai leucociti e li conta come tali, ma in realtà sono blasti.

La patologia si chiama “leucemia” perché chi la osservò per primo notò che un incremento
nel numero dei leucociti determinava un cambiamento anche fisico del sangue stesso,
che da rosso diventava bianco; questo accade quando i blasti sono tanti (oppure quando
i leucociti più o meno maturi sono tanti, ma non è questo il caso, perché questo è il caso
di un’altra malattia che poi vedremo).

Quindi, quando abbiamo un’alterazione dell’emocromo di questo tipo, cosa facciamo?


Dobbiamo innanzitutto capire se questi leucociti aumentati siano davvero globuli bianchi o
siano altro, quindi faccio uno striscio di sangue periferico. Guardando il sangue al
microscopio, se è una leucemia troverò i blasti: cellule immature linfoidi o cellule
immature mieloidi, a seconda che la leucemia che sto guardando sia mieloide o linfoide.
Sotto il profilo morfologico, le due varietà di blasti hanno delle differenze che non sempre
sono facilmente riconoscibili:

• Blasto mieloide: è una cellula con citoplasma più rappresentato, nel nucleo sono
evidenti i nucleoli, nel citoplasma trovo il cosiddetto CORPO DI AUER, un
bastoncino di granuli condensati, che quindi non funzionano (se è un blasto
mieloide, probabilmente questa cellula doveva diventare un granulocita. La
caratteristica dei granulociti sono i granuli, che nel blasto mieloide si condensano tra
di loro a formare un bastoncino). Se nulla fosse accaduto, questa cellula sarebbe
diventata un granulocita.
• Blasto linfoide: è una cellula un po’ più piccola del mieloblasto; il nucleo è più
rappresentato rispetto al citoplasma (rapporto N/C a favore del nucleo); non ci sono
corpi di Auer nel citoplasma. Se nulla fosse accaduto, questa cellula sarebbe
diventata un linfocita.

Gli altri esami che posso fare sono: l’Ago Aspirato Midollare (prelievo dallo sterno e dalla
cresta iliaca per un esame citologico) e la Biopsia Osteo-Midollare (mi consente di
prelevare un piccolo campione di osso dalla cresta iliaca, dandomi informazione relative
all’architettura del midollo). Questo genere di informazioni sono necessarie per la
diagnosi, ma servono anche per fare altre indagini, come l’analisi del cariotipo o l’analisi
molecolare, ma soprattutto devo porre particolare attenzione all’analisi
immunofenotipica. Quest’ultima, in citofluorimetria mi dice cosa c’è espresso sulla
superficie dei blasti; questa informazione mi aiuta a capire se quello che sto guardando è
una leucemia mieloide o linfoide. Se ci sono espressi antigeni mieloidi, come CD13 o
CD33, allora sto guardando una leucemia acuta mieloide; se ci sono espressi antigeni
linfoidi, come il CD19, allora sto guardando una leucemia acuta linfoide a cellule B. Se
invece trovo un CD3, CD7, CD2 (antigene linfoide di linea T), ad esempio, starò guardando
una leucemia acuta linfoide a cellule T. Distinguerle è molto importante, perché sotto il punto
di vista prognostico/terapeutico parlo di due patologie completamente diverse.

In sintesi, gli esami importanti da eseguire per diagnosticare una leucemia acuta linfoide o
mieloide sono:

▪ Esame morfologico del sangue periferico;


▪ Esame citologico del sangue midollare;
▪ Biopsia Osteomidollare;
▪ Analisi cromosomica;
▪ Analisi molecolare;
▪ Analisi immunofenotipica.

Sotto il profilo delle alterazioni dei geni e dei cromosomi alla fine queste alterazioni
produrranno sempre la solita triade che è costante in quasi tutti i tumori e cioè
- aumento della proliferazione delle cellule indifferenziate
- diminuisce l'apoptosi, cioè il freno che controlla la proliferazione
- blocco della differenziazione

Quindi alla fine avrò un midollo osseo ricco di cellule indifferenziate che poi verranno
trasferite nel sangue periferico.

Per quanto riguarda la leucemia acuta mieloide in passato veniva utilizzata la


classificazione FAB che distingueva 8 tipi di leucemie acuta mieloide che venivano
graduati da N0 a N7 utilizzando due criteri:

- morfologico, cioè guardando la cellula al microscopio


- citochimica, cioè saggiando in laboratorio con delle reazioni citochimiche la
presenza o assenza di alcune funzioni enzimatiche nel blasto per capire quanto quel
blasto fosse o no differenziato.

Quindi potevo definire una leucemia acuta mieloide come:

1. N0 se guardando quel blasto al microscopio e facendo tutte le reazioni citochimiche


del caso non sono in grado di dire cosa sarebbe diventato il blasto, perchè non c'è
nessuna nota di differenziazione, cioè N0 vuol dire che è una neoplasia altamente
indifferenziata
2. N7 vuol dire che guardando le cellule e facendo le reazioni citochimiche capisco che
quel blasto, se non fosse accaduto quello che è accaduto, sarebbe diventato un un
megacariocita ad esempio, e quindi si parla di leucemia acuta megacariocitica.

Oggi, tuttavia, non si usa più questo tipo di classificazione nella pratica clinica, in quanto
quella che viene usata è quella dell’OMS, la quale distingue le leucemie acute mieloidi in
base alla presenza o assenza di alterazioni che riguardano cromosomi e geni.

Nella leucemia acuta mieloide un’anomalia cromosoma molto rappresentata è la


traslocazione cromosomica: i cromosomi possono, infatti, scambiarsi reciprocamente del
materiale genetico. Esse sono traslocazioni ricorrenti, quando le trovo in un paziente con
leucemia acuta mieloide sono sempre uguali (es. 8,21; 16,16; 15,17)

Accanto alle alterazioni ricorrenti sui cromosomi, poi, è possibile avere individuare
alterazioni ricorrenti di mutazioni di geni (es. gene della nucleofosmina, gene per la
tirosinchinasi FLT3).
Le leucemie mieloidi vengono classificate in base a queste alterazioni perchè in base
all'alterazione che c'è ci sarà una prognosi diversa. Ad esempio, i pazienti che hanno le
traslocazioni hanno una prognosi migliore rispetto a quelli che non ce l’hanno; i pazienti che
hanno la mutazione di NPM1 (NUCLEOFOSMINA) vanno meglio rispetto a quelli che non
hanno tale mutazione; i pazienti che hanno la mutazione del gene FLT3 vanno peggio
rispetto a quelli che non ce l’hanno.

Questa categorizzazione non solo ci serve a fare diagnosi, ma ci serve anche a definire la
prognosi e in alcuni casi anche ad organizzare la terapia migliore per il paziente. Alcune
di queste anomalie sono sensibili ad alcuni farmaci e quindi il paziente risponde meglio ad
una terapia piuttosto che ad un'altra. Quindi categorizzare la leucemia acuta mieloide è
importante per la diagnosi, per la prognosi e per la terapia.

Le alterazioni cromosomiche e molecolari possono essere diverse, quelle che ci


interessano sono quelle ricorrenti, che si presentano sempre uguali a sé stesse. Accanto
ad esse ce ne potrebbero essere altre che nessun paziente aveva mai avuto prima.

1. Ad esempio, nella leucemia acuta mieloide con traslocazione 8;21 osservando i


blasti, questi ultimi possono essere ricchi di corpi di Auer; questa anomalia,
infatti, è strettamente associata al disturbo della granulopoiesi (ovvero queste
cellule dovevano diventare con tutta probabilità dei granulociti neutrofili).
2. La traslocazione 16;16 e nella inversione del cromosoma 16, sono anomalie
diverse, ma portano entrambe alla formazione di un gene di fusione. Da ciò ne
deriva che morfologicamente sono anomalie diverse, sotto il profilo dei
cromosomi, ma dal punto di vista molecolare l’anomalia è uguale. In questo tipo
di leucemia acuta mieloide osservando il midollo troverò, oltre ai blasti, che la
linea eosinofila è fortemente displastica, cioè le cellule progenitrici degli
eosinofili sono fortemente displastiche.
3. La traslocazione 15;17 è un’anomalia che si accompagna ad un particolare tipo
di leucemia acuta mieloide, in cui osservando i blasti si nota come siano
ricchissimi di corpi di Auer e di granuli. Quindi, anche in tal caso, è possibile
ricollegarla ad un forte disturbo della differenziazione granulocitaria (si noti che è
possibile avere anche leucemie mieloidi non solo della linea granulocitaria, ma
anche monocitaria, megacariocitaria, etc. )

Per quanto riguarda i geni ricorrenti, si ricordano:


• Mutazione del gene FLT3( si legge flit3): è un gene che codifica per una proteina ad
attività tirosinchinasica. Essa ha un dominio extracellulare e un dominio
intracellulare; quando il dominio extracellulare interagisce con il suo ligando, questo
legame diventa un segnale che viene trasdotto dalla cellula dalla porzione
intracitoplasmatica, la quale una volta che si attiva comincia ad organizzare la
fosforilazione di tutti i suoi substrati, attivando numerose vie di segnale. Quando il
gene è mutato succede che la porzione intracitoplasmatica funziona
aprioristicamente, non ha bisogno di essere attivata dall'esterno essendo
costitutivamente attiva a prescindere dalla presenza del ligando. La mutazione in
questione del gene può essere di due tipi:
1. mutazione puntiforme: sostituzione nella sequenza amminoacidica di un
amminoacido con un altro
2. duplicazione in tandem: cioè all'interno del gene c'è un pezzettino di DNA
che si duplica due volte e questa duplicazione altera la formazione della
proteina.
Oggi noi abbiamo dei farmaci che possono intervenire sull'attivazione costitutiva di
questa proteina come la midostaurina.

• Mutazione del gene IDH (IDH è l'acronimo di isocitrato deidrogenasi): l'isocitrato


deidrogenasi è un enzima che lavora sia nei mitocondri che nel citoplasma:
1. quando lavora nei mitocondri si chiama IDH2
2. quando lavora nel citoplasma si chiama IDH1
Questo enzima trasforma l’isocitrato in alfa-chetoglutarato, che serve alla cellula
per svolgere varie funzioni, di cui tra le tante esso si combina ad altre proteine
aiutandole a compiere operazioni sul DNA che hanno a che fare con la metilazione.
Quindi fisiologicamente il citrato viene tradotto in alfa-chetoglutarato che interagisce
con altre proteine quali la TET2, la quale per rimuovere i gruppi metile dal DNA ha
bisogno dell’alfachetoglutarato. Nel caso di una trasformazione leucemica succede
che l'enzima IDH1 o IDH2 non riesce più a produrre l'alfa-chetoglutarato ma produce
un altro metabolita che si chiama 2-idrossiglutarato; quest’ultimo non è in grado di
legarsi alle proteine che normalmente legano l'alfa-chetoglutarato e quindi questo
oncometabolita (si chiama così perchè serve alla cellula neoplastica per vivere) non
interagisce con TET2 e quindi non è in grado di demetilare il DNA. Esso, invece,
ha un'azione patologica su altre proteine che hanno tutte lo scopo di far proliferare
la cellula neoplastica .
Oggi noi abbiamo dei farmaci che sono in grado di contrastare l'azione di queste
proteine mutate IDH1,IDH2. Quindi nel momento in cui è posta la diagnosi di
leucemia acuta mieloide dovrò capire che gene è mutato per poter offrire al
paziente una terapia idonea a contrastare uno specifico meccanismo d'azione.
Approfondimento sul funzionamento di IDH: l'IDH1 e IDH2 trasforma l'isocitrato in
alfachetoglutarato sotto forma di dimero e questa trasformazione produce energia
(NADPH) che poi viene investita nella cellula per proteggerla dai processi ossidativi.
L'alfa-chetoglutarato poi va nel nucleo dove interagisce con alcune proteine come
TET2 che demetilano il DNA.
Quando c'è una mutazione dei geni IDH1,IDH2 si forma sempre un dimero ma una
parte di esso ha una mutazione, la conseguenza sarà duplice: (1) da un lato non
viene prodotto l'alfa-chetoglutarato ma idrossiglutarato (2) questa reazione avviene
con notevole dispendi energetico perchè l'NADPH non viene più prodotto quindi ci
sarà più ossidazione, più prodotti di ossidazione che si traducono in altri errori sul
DNA. Quindi verrà prodotto idrossiglutarato in eccesso, il quale una volta nel nucleo
non può interagire con le proteine target dell’alfachetoglutarato, motivo per cui il DNA
rimane ipermetilato, l’espressione genica sarà dunque alterata.
Oggi noi abbiamo la disponibilità di inibire queste relazioni con dei farmaci che vanno
a legarsi alla proteina mutante, bloccano la produzione di idrossiglutarato e
ripristinano l'interazione tra alfa-chetoglutarato e le proteine che devono
occuparsi della demetilazione del DNA. Questo tipo di farmaco non è un
chemioterapico ma è classificato come agente differenziante cioè è una molecola
che interagisce con la cellula mutata costringendola a completare il suo ciclo di
differenziazione. In questo caso, andando a inibire la parte del dimero con la
mutazione si abbassano nella cellula i livelli di idrossiglutarato, permettendo alla
cellula di utilizzare i livelli di alfa-chetoglutarato e poter differenziarsi.
Questo tipo di terapia, tuttavia, al momento può allungare la vita dei pazienti che
hanno questa anomalia ma non può garantire la guarigione perchè probabilmente
i processi ossidativi che si sono innescati prima della terapia hanno prodotto nel DNA
altre alterazioni e queste altre alterazioni poi ad un certo punto prendono il controllo
della malattia e diventano il meccanismo principale attraverso cui il clone leucemico
può proliferare.
• Mutazione del gene MPN1: esso codifica per una proteina che si chiama
nucleofosmina che funge da shuttle (navetta), che viaggia tra nucleolo e
citoplasma assolvendo a diverse funzioni molte delle quali non sono note. Un
paziente con una LMA con mutazione su MPN1 è un paziente a prognosi buona, in
quanto potrebbe guarire senza un trapianto. Con la mutazione la proteina non
riesce più a fare da navetta tra nucleolo e citoplasma,ma resta confinata nel
citoplasma, quindi questa mutazione interrompe una funzione che probabilmente è
legata come al solito al normale processo di differenziazione della cellula
emopoietica.

Sotto il profilo della prognosi, quindi, è possibile individuare anomalie a prognosi


favorevole, quali in genere la traslocazione, o la mutazione di MPN1. Per prognosi
favorevole intendiamo che questi pazienti potrebbero avere lunghe remissioni della loro
malattia anche solo con i farmaci, senza bisogno di trapianto. Per prognosi sfavorevole,
invece, intendiamo un paziente che ha sicuramente bisogno del trapianto, ma anche se fa
il trapianto con tutta probabilità la patologia per lui sarà letale. Ancora oggi la leucemia
acuta mieloide resta una patologia nella maggior parte dei casi non guaribile, curabile ma
non guaribile, cioè non scompare. La mutazione del gene FLT3 ha una prognosi negativa,
così come va male un paziente che ha un cariotipo complesso cioè un'analisi del cariotipo
dei cromosomi rivela la presenza di tre o più alterazioni cromosomiche: quindi più danni
ci sono ai cromosomi peggiore sarà la sorte del paziente.

Sotto il profilo clinico questi pazienti avranno dei sintomi che saranno tra i più vari e
saranno tutti riconducibili ad un'insufficiente attività emopoietica, in quanto questi pazienti
sono:
1. anemici
2. neutropenici
3. piastrinopenici

Quindi avranno tutti i segni dell'insufficienza d'organo legata a una mancata disponibilità
di ossigeno, le infezioni (es. aspergillosi) e le emorragie: la malattia si chiama acuta
proprio perchè per queste circostanze il paziente può morire improvvisamente. Il paziente
può sviluppare, dunque, aspergillosi ad esempio, o ipertrofia gengivale (a seguito della
localizzazione dei blasti). In sintesi, possiamo trovare:

1. anemia e quindi febbre, pallore, astenia, dispnea


2. assenza emostasi
3. febbre per neutropenia
4. emorragia per piastrinopenia
5. tachicardia
6. infezioni frequenti e tipiche di immunodepressi come aspergillosi, che possono
assumere carattere setticemico (il paziente con sepsi non può fare chemio o radio)
7. gengivorragia e ipertrofia gengivale, perché le cellule neoplastiche formano nidi in
altri organi
8. ipertrofia cutanea
9. dolore

Diagnosi

Si è detto che deve essere assolutamente rispetto il criterio del 20% dei blasti. L’unica
eccezione a questo criterio è rappresentata dalla presenza delle traslocazioni 8;21, 16;16,
15;17. Se ho queste traslocazioni posso avere anche un numero di blasti inferiore ma posso
comunque fare la diagnosi di leucemia acuta mieloide: questi sono tutti gli esami che devo
fare per categorizzare la leucemia acuta mieloide. La categorizzazione serve a: (1)
diagnosi , (2) prognosi, (3) terapia. Stiamo parlando di un paziente in pericolo di vita e
devo farlo nel più breve tempo possibile anche se alcuni esami richiedono alcuni tempi
tecnici che non possono essere superati, quindi per questo è importante avere prontamente
il sospetto diagnostico in maniera tale da non perdere ulteriore tempo.

TRASLOCAZIONE 15;17

E’ associata a un fenotipo di leucemia che si chiama leucemia acuta promielocitica. Essa


in passato rappresentava la forma di leucemia acuta mieloide più letale: il paziente arrivava
al pronto soccorso, stava male, moriva e non si riusciva ad arrivare alla diagnosi perchè la
mortalità che si aveva per questo tipo di leucemia era estremamente elevata. Per questo
motivo è stata una leucemia particolarmente studiata e oggi è l'unica leucemia acuta
mieloide da cui si può guarire. Mentre nel mondo occidentale si disperava per questa
incapacità di curare questa leucemia, in altre parti del mondo tipo la Cina questi pazienti
sopravvivevano a lungo con un derivato della vitamina A. Ci furono degli studi clinici che
dimostrarono che questo derivato della vitamina A funzionava.

Quale era il motivo per cui pazienti con la leucemia acuta promielocitica morivano subito
(ancora prima degli altri pazienti con LMA)? Il paziente che ha questa patologia ha una
serie di complicanze soprattutto emorragiche, perchè i suoi blasti sono ricchi nel
citoplasma di granuli. Questi blasti si chiamano promielociti leucemici, ovvero
assomigliano ai promielociti (una fase maturativa fisiologica di una cellula che deve
diventare granulocita). Il promielocita blocca il suo processo di differenziazione, si ferma in
questa fase e subisce delle trasformazioni. Quindi il promielocita leucemico è ricco di granuli
che sono a loro volta ricchi di sostanze che hanno attività procoagulante. Una di queste
sostanze è rappresentata dal fattore tissutale, una molecola con elevata attività
procoagulante, cioè attiva le piastrine e promuove la loro aggregazione, innesca tutte
una serie di attività che clinicamente realizzano un'ostruzione del microcircolo, quindi questo
tipo di leucemia è associato fortemente alla CID coagulazione intravascolare
disseminata. Il paziente, quindi, all'inizio ha una trombosi del microcircolo, a cui segue
inevitabilmente la problematica di natura emorragica a causa del consumo di piastrine
(quelle poche piastrine che ha si consumano) e fattori della coagulazione.

La diagnosi viene fatta soprattutto con:

1. microscopio: perchè vediamo nel sangue periferico e nel midollo osseo che ci
sono queste cellule promielocitiche leucemiche ricche di granuli
2. alterazione genetica con analisi cariotipo: per la traslocazione 15;17;
3. alterazione molecolare: formazione del gene di fusione PML-RARalfa, generato a
causa della traslocazione. Sul cromosoma 15 si trova il gene PML, laddove sul 17
troviamo il gene RAR-alfa. Questi due geni si fondono nella traslocazione,
codificando per una proteina con una nuova attività. L’analisi molecolare viene fatta
con una PCR o con Fish.

Il gene PML può rompersi in tre punti diversi durante la traslocazione: quindi io posso
avere un gene di fusione, e quindi un RNA messaggero che deriva da quel gene, che può
essere corto, di media lunghezza o molto lungo a seconda di dove si è rotto il gene PML.
Quindi posso avere tre trascritti che chiamo BCR1, BCR2 o BCR3 laddove BCR vuol dire
Breakpoint Cluster Region cioè il punto dove è avvenuta la rottura del gene PML. Il trascritto
BCR1 generalmente è il più frequente.
Fisiologicamente il gene RARalfa codifica per un fattore di trascrizione RARalfa che
recluta altri fattori di trascrizione e con essi promuove la trascrizione di geni che servono
a far differenziare la cellula del sangue. Questo manipolo di fattori di trascrizione reclutati
da RARalfa funziona solo in presenza della vitamina A, e quando funziona la cellula può
normalmente differenziarsi. Quando c'è questo gene di fusione PML-RAR, la nuova proteina
che viene generata sarà diversa da quella codificata da RAR, e questa proteina ha la
tendenza a non reclutare fattori che promuovono la trascrizione, giacchè recluta fattori che
reprimono la trascrizione. In questo modo si crea una sorta di multiproteina che blocca la
trascrizione. I cinesi hanno visto che aumentando la quota di vitamina A fisiologica, a questo
aumento di concentrazione della vitamina corrisponde una degradazione e rimozione di
questo complesso di inibizione trascrizionale. Quindi aumentando la quota di vitamina A
aumenta la possibilità di rimuovere questo complesso di inibizione. E come aumento la
quota di vitamina A? Utilizzando un derivato della vitamina A che si chiama acido
transretinoico. Esso non è un agente chemioterapico, ma è un agente differenziante in
quanto costringe la cellula a completare la differenziazione.

La leucemia acuta promielocitica è l'unica da cui si può guarire a patto che la patologia
venga subito identificata perchè il rischio della mortalità precoce è sempre molto alto.
Esiste, inoltre, un'altra sostanza che non è propriamente un chemioterapico, e che può
comunque funzionare da molecola di contrasto allo sviluppo neoplastico: il triossido di
arsenico (As2O3). Il triossido di arsenico funzione nella leucemia acuta promielocitica in
quanto a basse concentrazioni favorisce la degradazione di PML-RARalfa, cioè della
proteina di fusione. Ad alte concentrazioni, inoltre, è in grado di promuovere l’apoptosi.
Quindi sulla base di queste informazioni la leucemia acuta promielocitica può essere
completamente guarita usando acido transretinoico associato a triossido di arsenico
senza l’uso di alcun chemioterapico.

Ovviamente, favorire la degradazione di molecole di PML-RARalpha tramite il triossido di


arsenico vuol dire liberare RARalpha e dare, dunque, la possibilità a cellule di poter
promuovere l’espressione di geni che permettono di attivare quel profilo trascrizionale che
realizza il fenotipo mieloide della cellula. Il triossido di arsenico riesce a promuovere
l’apoptosi in quanto è capace di inibire l’attività del glutatione: a seguito di questa inibizione
c’è un accumulo di radicali liberi nella cellula che si traduce, in questo caso, in
un’alterazione del voltaggio elettrico della membrana mitocondriale. Questa
alterazione del voltaggio si traduce in un segnale rappresentato dal rilascio del citocromo
c. Tale rilascio è il punto di partenza per l’innesco del processo apoptotico, tramite
l’attivazione delle caspasi.

La leucemia promielocitica è sempre associata alla traslocazione 15;17 e quindi alla


formazione di questo gene di fusione PML-RAR; tuttavia c’è una piccolissima percentuale
di pazienti che può avere il gene RARalfa riarrangiato con un altro gene, diverso. In
questi casi è avvenuto un riarrangiamento cromosomico che sicuramente ha coinvolto il
cromosoma 17, e quindi RARalfa, ma al tempo stesso altri geni. Questo è un fatto
importante, in quanto ci sono delle circostanze nelle quali il prodotto di fusione che si crea
non è sensibile all’azione dell’acido transretinoico o all’azione del triossido di arsenico. Per
questo paziente la terapia differenziante non funziona pur avendo una leucemia
promielocitica. Quindi, è fondamentale l’analisi molecolare al fine di individuare la corretta
diagnosi, ma al tempo stesso impostare una terapia corretta. In questa condizione, dunque,
la traslocazione 15;17 non sarà evidente, ma in ragione dell’individuazione dei promielociti
sarà necessario individuare l’alterazione genica che si è resa responsabile della leucemia.
I pazienti che rientrano in questa categoria, a causa del diverso riarrangiamento, ovviamente
avranno una prognosi decisamente sfavorevole.

Neoplasie mieloidi croniche o neoplasie mieloproliferative croniche

Esse si distinguono in due categorie:

1. BCR-ABL+, che comprende una sola patologia


2. BCR-ABL-, che comprende una serie di patologie

BCR-ABL è un gene di fusione che si forma nella leucemia mieloide cronica, e quindi dal
momento che solo in questa patologia c’è questo gene di fusione, mentre nelle altre non
c’è, banalmente si è deciso di distinguere queste patologie croniche sulla base della
presenza/assenza di questa anomalia molecolare.

Tra le BCR-ABL negative, quelle che ci interessano sono la mielofibrosi primitiva, la


policitemia vera, trombocitemia essenziale, le altre sono abbastanza rare.

Trattando le neoplasie mieloproliferative croniche BCR-ABL negative vanno fatte delle


considerazioni, di seguito riportate.

In queste patologie (mielofibrosi primitiva, policitemia vera, trombocitemia essenziale) vi


sono caratteristiche cliniche e di laboratorio un po' sovrapponibili ed un po' peculiari
(specifiche); sono, quindi delle patologie diverse che possono essere identificate con dei
criteri specifici. La cosa strana è che queste tre patologie possono avere un denominatore
comune: l’anomalia molecolare. La stessa anomalia, cioè l’anomalia che colpisce un gene,
può causare tre fenotipi di malattia diversi. Ciò suggerisce che l’alterazione molecolare
non è sufficiente a realizzare il quadro clinico ma si somma a componenti ignote, ed insieme
a queste realizza il fenotipo di malattia.
1. Ad esempio, nella policitemia vera, c’è un’esuberante attività eritropoietica: il
paziente è eritrocitosico, ha molti globuli rossi, molta emoglobina. Questa
patologia è sempre- quasi sempre (98% dei casi) – associata alla mutazione del
gene JAK2.
2. Nella trombocitemia essenziale, l’attività esuberante riguarda la
megacariocitopoiesi, e quindi il paziente presenterà evidente piastrinosi
all’emocromo. Anche in questo posso avere la mutazione del JAK2, ma al
contrario della policitemia vera, JAK2 mutato non è presente nel 98% dei casi e
la mutazione, quindi, non è esclusiva di JAK2. È possibile, infatti, che sia mutato
un altro gene: il gene che codifica per la calreticulina CARL o quello che codifica
per la trombopoietina MPL. È possibile, ancora, che nessuno (20% casi) di
questi 3 geni appena citati sia mutato, nonostante il paziente abbia la malattia.
3. La mielofibrosi primitiva è caratterizzata da un’attività emopoietica
progressivamente sostituita da tessuto fibroso, e progressivamente a questo
incremento della componente fibrosa si associa anche una trasformazione a
leucemia. La mielofibrosi, infatti, nella sua storia naturale prevede l’evoluzione in
leucemia acuta. Anche in questo caso posso trovare l’alterazione di uno dei 3
geni citati, come posso anche non avere nessuno di questi 3 geni mutato
nonostante la presenza della malattia. Quindi, considerando solo JAK2 a partire
da JAK2 è possibile addirittura avere 3 malattie diverse: ci sono necessariamente
altri fattori, concomitanti che promuovono lo sviluppo della patologia.

Queste tre patologie hanno delle caratteristiche proprie ma hanno anche dei punti in
comune, il primo che abbiamo già individuato è la fase molecolare, cioè condividono alcune
caratteristiche molecolari. Oltre le caratteristiche molecolari, esse condividono anche dei
sintomi: in quasi tutti i casi di queste patologia vi è splenomegalia. In particolare nella
mielofibrosi essa è quasi sempre presente, mentre è ritrovabile nella metà dei casi,
circa, di policitemie e trombocitemia.

La splenomegalia che troviamo nella mielofibrosi viene descritta come massiva, cioè, è
un aumento di volume della milza molto importante che è riscontrabile in medicina solo in
poche altre patologie, quasi tutte appartenenti all’ematologia; queste altre patologie sono la
leucemia linfatica cronica, la leucemia mieloide cronica, la leucemia a cellule
capellute, e anche nella leishmaniosi (che, ovviamente, non è una malattia ematologica).
Quindi quando vedete in un paziente un polo inferiore della milza che può arrivare in sedi
anatomiche impensabili, bisogna pensare a una di queste patologie.

Il gene JAK2 codifica per una proteina, che generalmente è a stretto contatto con alcuni
recettori di membrana, caratterizzati da un dominio extracellulare e da un dominio
intracellulare. Quanto quest’ultimo dominio di questi recettori viene attivato, a seguito
dell’interazione con il ligando, il dominio intracellulare trasduce il segnale, lo trasmette a
JAK2, la quale è una chinasi e una volta attivata comincia a fosforilare i suoi substrati
(quindi si attiva JAK2 e a sua volta attiva i suoi substrati), attivando così tutta una serie di
segnali che generalmente promuovono la proliferazione delle cellule. Quando c’è una
mutazione JAK2 funziona da solo, non ha bisogno dell’attivazione del recettore; la
mutazione consente alla proteina JAK2 di svolgere la sua attività chinasica a
prescindere da quello che succede sulla superficie della cellula.

Il gene CAL-R detta anche calreticulina, codifica per una proteina che, normalmente,
troviamo adesa alle cisterne del reticolo; i compiti di questa proteina non sono del tutto
chiari, però certamente questa proteina ha un ruolo nel folding delle proteine. Quando le
proteine vengono sintetizzate e quindi cominciano ad emergere dalle cisterne del reticolo
tendono ad aggrovigliarsi, se si aggrovigliano troppo, questo aggrovigliamento estremo può
diventare un segnale di autodistruzione o malfunzionamento della proteina, quindi la
funzione della calreticulina è quello di “sbrogliare” questo folding. Per questo motivo la
calreticulina si trova sul reticolo, ed è mantenuta in questa posizione da un dominio che
si chiama K-DEL e dalla carica elettrostatica che si trova adiacente a questo dominio.
Quando c’è la mutazione succede che la proteina, a seguito della mutazione, assume una
conformazione diversa, innanzitutto perde il dominio grazie al quale può restare ancorata
alle cisterne del reticolo e cambia anche la sua carica elettrica. Cambiando alcune
proprietà, a seguito della mutazione, cambia anche la funzione, nel senso che non farà più
quello che faceva la proteina nativa, ma farà altro; la nuova proteina è libera nel citoplasma
e in questa conformazione può andare ad interagire con il recettore della trombopoietina,
il quale, attivato va ad attivare a sua volta JAK2, la quale attiverà la proteina STAT che
funge da fattore di trascrizione (favorendo la proliferazione cellulare).

Nel caso della mutazione del gene MPL succede la stessa cosa: la mutazione di questo
gene attiva JAK2 in sede intracellulare e fa partire quindi il segnale nel nucleo con STAT.
Quindi le mutazioni sono diverse, i geni mutati sono diversi ma tutti convergono verso il
JAK2.
Policitemia vera

Sotto il profilo clinico il paziente che ha una policitemia vera, nella maggior parte dei casi
non ha grossi problemi, va dal medico per disturbi lievi, come ad esempio il formicolio a
mani e piedi, parestesia, ronzii auricolari, cefalea, i famigliari gli dicono che è sempre
rosso in volto; oppure va dal medico perché ha avuto una trombosi, o ha avuto
un’emorragia, oppure perché ha un dolore al fianco sinistro che si acutizza soprattutto
con il passo. Ci sono una serie di sintomi non propriamente specifici che lo costringono ad
andare dal medico o a fare dei controlli.

L’emocromo di questi pazienti metterà in evidenza il “fatto eritrocitosico” cioè,


l’emoglobina sarà aumentata, l’ematocrito sarà aumentato, gli eritrociti saranno
aumentati, ma possono essere aumentati anche i leucociti e anche le piastrine. È
possibile quindi che tutte e 3 le linee siano aumentate: è possibile, però anche che siano
aumentati solo gli eritrociti o solo eritrociti+piastrine o eritrociti+leucociti (la costante sono
gli eritrociti).

A questo punto si procede con gli esami, tra i quali abbiamo la biopsia osteomidollare,
devo valutare se a questa iperproduzione periferica, corrisponde, istologicamente, anche
un’aumentata produzione del midollo, e quindi bisogna cercare uno dei criteri per fare
diagnosi, che è la panmielosi cioè l’iperplasia eritroide, granulocitaria,
megacariocitaria, ovvero tutte e tre le linee mieloidi sono iperplastiche.

Fatto questo poi, bisogna notare che un paziente che ha un’eritrocitosi o può avere questa
patologia (policitemia vera), o, più probabilmente ha quella che viene chiamata eritrocitosi
reattiva che è la conseguenza di un altro problema. L’eritrocitosi reattiva è sicuramente
molto più frequente della policitemia vera, e posso sospettarlo per via della frequenza
probabilistica, o interrogando il paziente che racconterà di una patologia respiratoria,
cardiaca, renale oppure posso fare il dosaggio delle eritropoietine sieriche; se si tratta di
un’eritrocitosi reattiva l’eritropoietina sarà aumentata, cioè, c’è un meccanismo di
compenso e c’è un’aumentata produzione di eritropoietina che far quindi aumentare il
numero degli eritrociti. Nella policitemia vera l’eritropoietina ha livelli diminuiti invece, e
questo è un criterio abbastanza importante; nella policitemia ha molta importanza l’analisi
molecolare, molto efficiente, perché abbiamo detto che questo tumore è associato, per il
98%, alla mutazione di un gene, se questa mutazione non c’è, probabilmente siamo di
fronte ad un’altra patologia. Abbiamo detto 98% perché il restante 2% ha la mutazione nello
stesso gene ma in una posizione diversa, quindi si può affermare che alla fine nel 100% dei
casi il gene JAK2 è mutato.

La diagnosi si basa sulla presenza o assenza di criteri. I criteri vengono divisi in criteri
maggiori innanzitutto:

1. l’emoglobina, quindi se ho un paziente che ha l’emoglobina superiore a 16 o


16.5g/dL, a seconda del sesso; allo stesso modo ci sarà un rialzo dell’ematocrito,
che sarà superiore a 48 o superiore a 49. Però, bisogna stare attenti, un emocromo
fatto in una condizione di disidratazione sarà legato allo stesso modo ad un rialzo
dell’ematocrito.
2. Biopsia osteomidollare, che deve mettere in evidenza la panmielosi.
3. Presenza della mutazione del gene JAK2.

Il criterio minore diagnostico è rappresentato dal:

1. livello di eritropoietina basso.

Per fare la diagnosi di policitemia vera dobbiamo avere, o tutti e tre i criteri maggiori, oppure
i primi due criteri maggiori (l’emocromo e il midollo) più il criterio minore.

Quando facciamo l’emocromo, oltre ad individuare mutazioni che riguardano la linea


eritroide, possiamo avere anche un aumentano numero di piastrine, di leucociti,
possiamo avere la basofilia (aumentato numero di basofili, può esser presente in tutte le
neoplasie mieloproliferative croniche). La cosa più importante da ricordare è che
normalmente l’eritropoietina è bassa, se è alta vuol dire che ci troviamo di fronte ad un’altra
patologia.

I sintomi sono legati, prevalentemente, al disturbo del microcircolo, perché aumentando


l’espressione cellulare del sangue, cioè i globuli rossi, aumenta la viscosità del sangue;
quindi il flusso ematico rallenta e determina un’aumentata possibilità di interazione tra le
cellule del sangue e le cellule endoteliali, con attivazione di processi trombotici (il paziente
può andare dal medico perché ha una trombosi). Possiamo avere, quindi:

- sudorazioni notturne
- vertigini
- parestesie
- angina
- prurito, in quanto forse l’aumento di densità causando una certa stasi favorisce il
rilascio di istamina
- ulcere duodenali
- rossore
- dispnea
- ulcere duodenali
- a volte splenomegalia

Le eritrocitosi secondarie possono essere associate ad una grande quantità di patologie,


quali i tumori epatici, tumori renali (tumori che cominciano a produrre impropriamente
citochine o eritropoietina), oppure malattie dell’apparato respiratorio, o malattie
cardiologiche. In passato la diagnosi di policitemia vera era molto difficile, perché vi era
una diagnosi per esclusione, oggi invece il percorso è al contrario, è sufficiente che si faccia
la valutazione del gene JAK2 e il dosaggio dell’eritropoietina per venire a capo del
motivo per cui il paziente è eritrocitosico.

Questa patologia è una neoplasia mieloproliferativa cronica che può evolvere in


leucemia acuta ma in una bassissima percentuale dei casi (siamo intorno all’1%); in
un paziente con questa patologia se la diagnosi viene fatta prima che arrivino le
complicazioni della patologia (rappresentate dalla trombosi e dall’emorragia), la
prognosi di questi pazienti è assolutamente buona, nel senso che hanno una qualità della
vita assolutamente normale.

Sotto il profilo terapeutico, questi pazienti devono assumere cardioaspirina (prendono


piccole dosi di acido acetilsalicilico) perché in virtù della eritrocitosi c’è la possibilità che si
faccia una trombosi (l’acido acetilsalicilico protegge da questa eventualità); bisogna,
inoltre, mantenere il valore dell’ematocrito sotto il valore di 45 (perché con questo valore
la probabilità di fare una trombosi è molto ridotta). Per mantenere l’ematocrito sotto il valore
45, ci affidiamo ad una pratica antica, ma molto valida, che è quella del salasso (ovviamente
non usando le sanguisughe, ma facendo come quando la gente va a donare un po’ di
sangue); il salasso è una metodica molto antica nella pratica della medicina, che veniva
utilizzato non solo per pazienti con la policitemia vera, veniva utilizzato perché si pensava
che il paziente non stava bene perché c’era qualcosa nel sangue e quindi bisognava
toglierle un po’, dopo questa pratica il paziente poteva sentirsi veramente meglio; ad
esempio se abbiamo un’insufficienza cardiaca, quindi il paziente ha un sovraccarico al
cuore, in questo caso il salasso alleggeriva l’attività cardiaca e il paziente stava meglio;
oppure se il paziente aveva una sovrabbondanza di metaboliti tossici nel sangue, perché i
suoi reni non funzionavano più, l’asportazione di questi metaboliti tossici faceva stare meglio
il paziente, quindi questa pratica era abbastanza utile.

Questi pazienti non devono fare alcuna terapia se non queste, a meno che non abbiano dei
fattori di rischio (rappresentati soprattutto da età>60 anni, presenza di trombosi): in questo
caso non possiamo affidarci solo al salasso per ridurre la massa eritrocitosica ma dobbiamo
rivolgerci ad un farmaco, l’idrossiurea, di cui abbiamo già accennato quando abbiamo
parlato dell’anemia falciforme (perché stimola la produzione di emoglobina fetale). In questa
patologia l’idrossiurea si lega al DNA e uccide le cellule, è un chemioterapico, ben
tollerato dal paziente (può essere assunto anche per molto tempo).

Trombocitemia essenziale

I sintomi sono molto simili a quelli della policitemia vera però il quadro patologico è
dominato dalla piastrinosi: il paziente ha un numero di piastrine superiore a 450mila; anche
questo paziente può avere la leucocitosi e può avere anche un aumento degli eritrociti,
però più spesso ha solo la piastrinosi.

I megacariociti sono presenti solo a livello del midollo osseo, e si dividono col processo
delle endomitosi, e per questo il megacariocita è pieno di nuclei in numero di pari. Essi
possono liberare circa 2 mila piastrine, le cellule alle quale è affidata la funzione. Le
piastrine hanno una durata di vita di circa 10 giorni e una grossa quota di piastrine è
conservata a livello splenico, motivo per cui in ogni circostanza in cui abbiamo liberazione
di adrenalina, come uno sforzo fisico, se a questo sforzo segue valutazione dell’emocromo
si noterà una piastrinosi (in quanto l’adrenalina correla ad una contrazione della milza e la
liberazione del pool piastrinico).

La produzione di piastrine può aumentare notevolmente a seconda delle necessità


dell’organismo, ad esempio quando c’è un’infezione, o quando c’è un intervento
chirurgico a seguito del quale c’è un’emorragia; quindi se un paziente ha 10 volte il numero
di piastrine normali, ciò può essere anche determinato da una condizione primaria alla
piastrinosi, che la causa in via secondaria.

La trombopoietina è la sostanza che regola la produzione di piastrine, e il recettore


della trombopoietina è espresso sia sulle piastrine che sui megacariociti; l’aumento di
trombopoietina (prodotta normalmente nel fegato) può essere influenzato dall’aumentata
produzione di altre citochine (tipo IL-6). Nelle infezioni aumenta IL-6 e ciò quindi stimola
l’aumento della trombopoietina la quale a sua volta aumenta l’attività megacariocitaria e
quindi la produzione di piastrine.

Quindi è possibile distinguere una piastrinosi reattiva e una piastrinosi clonale


(trombocitemia essenziale): ci rendiamo conto della differenza delle due cose attraverso
informazioni importanti nella storia del paziente. In linea generale, le piastrinosi reattive
non si accompagnano quasi mai a trombosi o emorragie, quindi anche se ho un
paziente con 1 milione di piastrine (per una qualsiasi causa) quel paziente quasi certamente
non farà trombosi. La splenomegalia generalmente è ritrovabile solo nella trombocitemia
essenziale, non nella piastrinosi reattiva.

Le cause reattive sono tantissime, sono molto frequenti, alcune sono legate a fatti non
prettamente patologici o, se patologici, facilmente superabili, ad esempio l’anemia da
carenza di ferro è associata alla piastrinosi, o ancora molte malattie su base
autoimmune, o alcune malattie infiammatorie croniche che si accompagnano ad una
piastrinosi.

Se devo fare diagnosi di trombocitemia essenziale, lo faccio valutando dei criteri maggiori:

1. Numero delle piastrine, che deve essere superiore a 450mila;


2. Biopsia osteomidollare, come nella policitemia vera. In questa situazione, però, va
messa in evidenza (1) aumentata produzione megacariocitaria, (2) alterazioni
morfologiche del megacariocita.
3. Esclusione di altre neoplasie mieloproliferative o ematologiche.
4. Dimostrazione della presenza dell’alterazione di uno dei tre geni.

Anche in questo caso abbiamo un criterio minore:

1. Stabilire, con certezza, l’assenza di una causa reattiva, oppure trovare un marker
clonale (un marker di clonalità, ovvero dimostrare che sto guardando un tumore, ad
esempio lo posso fare cercando ad esempio un’alterazione cromosomica).

Posso fare la diagnosi di trombocitemia se ho tutti e quattro i criteri maggiori, oppure i


primi tre criteri maggiori e un criterio minore. Dato che la piastrinosi è una condizione
abbastanza frequente, quando si fa la diagnosi di trombocitemia bisogna essere
assolutamente certi di non fare una diagnosi sbagliata.
I sintomi sono un po’ gli stessi della policitemia vera, forse sono un po’ più marcati i
disturbi del microcircolo, cioè il paziente lamenta cefalea, vertigini, acufeni, parestesia.
Anche in questo caso vi è, non sempre la splenomegalia, come anche il prurito, e
sudorazioni notturne e astenia (anche se Hb è normale, non si sa il meccanismo).

Tutti i pazienti assumono la cardioaspirina, che va data al paziente solo se ha un numero


di piastrine minore di 1,5milioni, perché quando il numero delle piastrine aumenta molto,
aumentano anche le possibilità di fare un’emorragia piuttosto che una trombosi.

- Se il paziente non ha un’età superiore a 60 anni e non ha già avuto una trombosi o
una emorragia esso non deve fare nient’altro, con una qualità di vita ottima: possiamo
definire una buona prognosi. La possibilità di avere una evoluzione leucemica sarà
più o meno come quella della policitemia vera.
- I pazienti che hanno più di 60 anni (quindi l’età è un fattore di rischio) o sono arrivati
all’attenzione del medico perché avevano una trombosi o un’emorragia, dovranno
fare una terapia, e anche in questo caso la terapia sarà risultata dall’idrossiurea che
avrà lo scopo di controllare e mantenere basso il numero delle piastrine.

Nella policitemia vera cosi come nella trombocitemia, dobbiamo controllare la mutazione
dei geni (JAK2, CALR, MPL) con la biologia molecolare. Nei soggetti colpiti da policitemia,
trombocitemia e mielofibrosi facciamo anche l’analisi del cariotipo, perché se non
riusciamo a trovare le alterazioni molecolari che documentano la clonalità del tumore, il
trovare un’alterazione del cariotipo, quindi un’alterazione cromosomica, risulta
analogamente utile.

L’eritromelalgia è un altro segno che possiamo trovare nell’ambito delle neoplasie


mieloproliferative croniche: gli arti cominciano ad arrossarsi, gonfiarsi, essere più dolenti
(sembra un quadro di trombosi). Essa non è altro che una difficoltà del flusso, molto denso,
espressa soprattutto nei distretti del microcircolo.

Abbiamo detto che i pazienti che hanno molte piastrine sono più soggetti ad emorragie
piuttosto che trombosi, questo è importante da sapere per capire bene se dare ad un
paziente l’anticoagulante o meno. Da cosa è causato ciò? La risposta è nel fattore di vW.

Il fattore di Von Willebrand è una proteina ritrovabile nel compartimento subendoteliale


(sotto il rivestimento endoteliale): quando l’endotelio si rompe, perché il vaso viene lacerato,
queste proteine cominciano ad affacciarsi nel lume vascolare e lì innescano un processo di
emostasi. Il fvW, però, può fare anche altro: può essere presente anche a livello del
plasma, ed in tal caso esso ha la funzione di veicolare il fattore VIII della coagulazione,
che non può girare da solo nel sangue (altrimenti si degrada subito). Quindi è importante
che venga associato, scortato dal fattore di von Willebrand. Quando questo fattore “gira”
nel sangue tende a polimerizzare, cioè ad unirsi ad altri fattori di Von Willebrand, e quando
viene a formarsi un polimero di buone dimensioni, questa circostanza comincia ad essere
pericolosa; ciò potrebbe essere motivo di formazione di un trombo, perché questo
polimero riesce ad attrare l’attenzione delle piastrine e comincia a formarsi una specie di
coagulo. Per evitare che questo processo vada avanti intervengono degli enzimi, le
metalloproteinasi, che distruggono questo polimero. Esistono delle patologie in cui le
metalloproteinasi o il fvW non funzionano più. Quando le piastrine aumentano di numero,
queste piastrine possono interagire con i polimeri del fattore di von Willebrand e formare
coaguli. Allora succede che, non si sa come, nella trombocitemia essenziale, nelle neoplasie
mieloproliferative croniche in generale, quando le piastrine aumentano di molto, si
acquisisce la capacità di distruggere i fattori, cioè fanno quello che fanno normalmente le
metalloproteasi; quindi questa situazione riduce la possibilità di fare una trombosi ma
aumenta grandemente la possibilità di avere un’emorragia. Il fattore di von Willebrand non
sarà più disponibile, quindi l’innesco per l’emostasi non ci sarà più, quindi il paziente avrà
quella che tecnicamente si chiama una sindrome di von Willebrand secondaria.

La malattia di vW è determinata da un difetto genetico per cui il fattore di von Willebrand


viene prodotto male, o poco e l’emostasi non funziona bene; la sindrome di vW secondaria,
invece, è così definita in quanto è determinata dal fatto che il fattore viene distrutto dalle
piastrine in

Tale sindrome è ritrovabile anche in patologie autoimmuni, dove ad un certo punto


l’organismo per motivi X, comincia a produrre autoanticorpi anti-von Willebrand; anche
in questa circostanza possiamo avere dei sanguinamenti spontanei. Quindi, un paziente
che ha la trombocitemia essenziale e molte piastrine (vicino a 1,5milioni) non deve fare
l’anticoagulante.

Mielofibrosi primitiva

La mielofibrosi primitiva, rispetto alle altre due, è una patologia molto più aggressiva, a
prognosi sfavorevole con tendenza a trasformarsi in leucemia acuta. Questa patologia sotto
il profilo prognostico e anche biologico ha dei caratteri di malignità molto più accentuati
rispetto alle altre patologie, e per questo rappresenta un problema sotto il profilo della
terapia possibile da offrire a questi pazienti (la ricerca sta facendo parecchi studi su questo
campo, ma al momento non ci sono terapie che consentono la guarigione del paziente,
questa patologia si dice essere orfana del trattamento).

La mielofibrosi è una malattia rara, colpisce, soprattutto ma non solo, soggetti che hanno
superato i 60 anni di età. Rispetto alle patologie appena viste, è una patologia con caratteri
di malignità molto marcati e alte probabilità di trasformarsi in una leucemia acuta (si noti che
è possibile che la policitemia e la trombocitemia possono, talora, trasformarsi in mielofibrosi
oltre che raramente in leucemia). In questi pazienti si innesca un processo che ha radici
patogenetiche ancora non note che trasforma l’attività emopoietica: nel midollo c’è una
trasformazione del tessuto emopoietico che inizia ad assumere caratteristiche proprie del
tessuto fibrotico, e a seguito di questa trasformazione l’emopoiesi comincia a diventare
stentata, insufficiente.

Il paziente, quindi, si rivolge al medico in quanto è:

1. Anemico
2. Piastrinopenico
3. Leucopenico

Il paziente, inoltre, è massivamente splenomegalico in quanto, essendo il midollo


emopoietico in notevole difficoltà, la funzione emopoietica viene demandata alla milza. La
milza, però, non riesce a fare emopoiesi (pur avendola fatta in passato), per cui aumenta di
volume ma non riesce a fare emopoiesi efficace.

Alla splenomegalia si accompagna la leucoeritroblastosi, inteso come la rilevazione nella


circolazione periferica di molti leucociti (leucocitosi), associati a eritrociti displastici
(hanno il nucleo, sono grossi, etc.), quindi immaturi.

Il paziente ha varie problematiche per cui si presenta dal medico: la notte non riesce a
dormire, ha dolori ossei, sudorazione, febbre che non passa e che compare solo la sera
mai il giorno, perde peso, ha un forte dolore al fianco sinistro per la splenomegalia, può
avere trombosi, può avere emorragia. Dunque egli ha una serie di sintomi che ben fanno
capire come la mielofibrosi sia una malattia sistemica, che quando si innesca deteriore
fortemente il paziente.
Diagnosi

Anche in questo caso tra i criteri diagnostici vi è la necessità di accertare la mutazione dei
3 geni per quanto è possibile anche non rilevare la mutazione di questi geni.

Criteri maggiori:

1. Biopsia osteomidollare: in cui troviamo proliferazione megacariocitaria, molti


megacariociti ma displastici; accanto a questo ci sarà aumentata presenza di fibre
reticoliniche o fibre collagene (fibrosi)
2. Esclusione di tutte le altre patologie simili oncoematologiche
3. Dimostrazione di una delle alterazioni dei 3 geni o la presenza di un altro marker di
clonalità, come ad esempio un’alterazione cromosomica in un cariotipo oppure
esclusione di una mielofibrosi reattiva. In quanto la mielofibrosi oltre ad essere
primitiva (tumore) può essere anche reattiva, nell’ambito di malattie croniche o
autoimmuni.

Criteri minori:

1. Anemia
2. Leucocitosi
3. Splenomegalia massiva
4. LDH aumentata
5. Leucoeritroblastosi

Per fare la diagnosi c’è bisogno di 3 criteri maggiori e 1 minore. La prova certa che stiamo
guardando un tumore chiaramente, però, viene dalla valutazione molecolare del cariotipo,
se non c’è questa non possiamo fare la diagnosi.

Dal punto di vista clinico, quindi il paziente ha molti sintomi, sistemici (malattia sistemica);
non ci sono sintomi specifici, ci sono solo sintomi che testimoniano il progressivo
deterioramento dello stato clinico del paziente.

L'unica terapia efficace che può vincere questa patologia sarebbe un trapianto di midollo
di cellule staminali, però abbiamo detto che questa è soprattutto una patologia dell'età
senile (il paziente spesso ha più di 60 anni) e in linea generale non sono fatti trapianti a
pazienti che hanno più di 70 anni, per cui una grossa fetta di pazienti con mielofibrosi resta
fuori dalla possibilità trapiantologica. In realtà, anche se potesse fare il trapianto il paziente
che lo fa ha una prognosi che resta sospesa in quanto il trapianto potrebbe non andare bene
per una serie di motivi, primo fra tutti è rappresentato dal fatto che la malattia non è solo nel
midollo ma anche nella milza. Quindi sono pochi i pazienti con questa patologia che fanno
il trapianto, gli altri che fanno? Valutiamo la presenza dei sintomi costituzionali (segni di
una malattia sistemica) comuni a tutte le patologie oncoematologiche che sono febbre,
perdita di peso, sudorazioni notturne, anemia, la leucocitosi e la presenza di blasti
(più blasti ci sono, sempre meno del 20% più la malattia è vicina alla leucemia e quindi la
prognosi sarà peggiore). L'insieme di questi fattori ci dà un rischio che noi numeriamo da 0
a +3:

o il paziente che ha rischio 0 vuol dire che è all'inizio della sua malattia e che nei
prossimi 5 anni non gli succederà nulla rispetto alla malattia e dunque posso solo
osservarlo;
o all'aumentare del rischio aumenta la probabilità che la malattia in un tempo medio
breve diventerà una leucemia acuta e allora ci sono i farmaci sperimentali, le
molecole che vengono provate e testate negli studi clinici che allungano la sua vita;
a questo si aggiunge la terapia convenzionale che è una terapia quasi palliativa, nel
senso che non ha lo scopo di curare la malattia ma solo quella di frenarla, e può
essere rappresentata dall'idrossiurea. Oggi, in realtà, ci sono dei farmaci ,classificati
come inibitori di JAK2 : sono delle molecole che vanno a spegnere l'attivazione
costitutiva di JAK2 che qui è mutato. Questi farmaci, però, riescono a rallentare la
malattia ma non la guariscono, anche perchè abbiamo detto all'inizio che la
mutazione è condivisa da tutte queste patologie e quindi probabilmente il farmaco,
l'inibitore di JAK2, contrasta la mutazione del gene ma non contrasta il resto che
governa la malattia. Quindi questo inibitore di JAK2 è un progresso ma non è al
momento la soluzione in quanto non offre al paziente la guarigione.

Leucemia mieloide cronica (BCR-ABL+)

In tal caso stiamo considerando la situazione BCR-ABL+: ciò significa che il cromosoma 9
ed il 22 si riarrangiano, e come risultato di questo riarrangiamento c’è una proliferazione
cellulare, dovuta al prodotto molecolare del riarrangiamento stesso. Quando il cromosoma
9 ed il 22 si scambiano reciprocamente il materiale, accade che si formano 2 geni di fusione:

1. ABL sul cromosoma 9


2. BCR sul cromosoma 22
Essi si fondono e si formano due geni di fusione:

1. Uno sul derivativo 22 (il nuovo cromosoma 22 nato dalla traslocazione): il derivativo
22 è un cromosoma molto più piccolo del 22 originale. Su questo cromosoma c’è il
gene di fusione BCR-ABL, che governa la malattia
2. Uno sul derivativo 9: il derivativo 9 è più grande rispetto al cromosoma normale. Esso
presenta l’altro gene di fusione, che però non è importante ai fini della patogenesi
della malattia in quanto esso non viene tradotto in proteina e quindi non ha
importanza patogenetica.

Il derivativo 22 nuovo prende anche il nome di cromosoma Philadelphia, perché in un


congresso a Philadelphia fu presentata questa anomalia cromosomica e questa è stata la
prima circostanza nella storia della medicina nella quale un tumore è stato associato
all'alterazione di un cromosoma , ciò è stato il punto di partenza per dire che i tumori sono
malattie genetiche, dei geni.

I geni BCR e ABL che hanno dei compiti fisiologici che riescono ad assolvere quando
conservano la loro residenza, quando cambiano sede e conformazione cominciano a fare
cose diverse. In un paziente con leucemia mieloide cronica se faccio uno striscio di sangue
anziché vedere tanti globuli rossi come normalmente dovrebbe essere, posso vedere tanti
globuli bianchi perchè la leucocitosi è il parametro di laboratorio che è sempre presente
quando ho la leucemia mieloide cronica (non esiste leucemia mieloide cronica senza
leucocitosi): il problema è che la leucocitosi è un segno molto diffuso.

La leucemia mieloide cronica è una malattia definita trifasica: se io guardo il paziente senza
dargli medicine vedrò 3 fasi della malattia:

1. la prima fase è quella cronica: l'emocromo evidenzia la presenza di una leucocitosi.


Tali cellule sono delle cellule abbastanza differenziate , questa è la grande differenza
tra neoplasie croniche e neoplasie acute, nelle neoplasie croniche le cellule
neoplastiche raggiungono un certo grado di differenziazione, mentre nelle neoplasie
acute sono totalmente indifferenziate . Quindi questo paziente nel sangue periferico
cosa avrà? Molti granulociti neutrofili fatti bene e un parte di questi granulociti
neutrofili sono invece immaturi. Sostanzialmente il paziente quindi non ha grossi
problemi di infezioni. A parte la leucocitosi, in fase cronica il paziente non ha dei
sintomi particolari, sta bene, al più può avere un fastidio al fianco sinistro sempre
legato alla splenomegalia massiva tipica.
Questa fase, se non do medicine al paziente dura 5/6 anni. Dopo questi anni la
malattia si trasforma perchè la qualità delle cellule che compongono il tumore cambia,
esse iniziano ad essere meno differenziate e si passa alla fase 2.
2. fase accellerata: il paziente che prima stava bene adesso ha la febbre un giorno si
e uno no, si sente stanco, ha dolori ossei. Cambia, infatti, l’assetto citologico del
sangue, in quanto iniziano a comparire i blasti , ci sono più cellule immature di
cellule mature. Dopo 3/6 mesi da questa fase arriva la fase blastica.
3. fase blastica o leucemica, nel paziente vedrò una vera e propria leucemia acuta
più spesso mieloide, più raramente linfoide; in questa fase, quindi, avrò la crisi
blastica. Sotto il profilo biologico succede che il genoma del paziente subisce, dalla
fase cronica a quella blastica, un continuo rimaneggiamento e quindi se all'inizio la
malattia era governata da BCR-ABL da questo momento in poi è governata da
un'altra serie di alterazioni che possono essere le più variabili.

Emocromo

o sempre leucocitosi
o può avere piastrinosi
o può avere anemia

Esami di laboratorio

- LDH sempre aumentato.

A questo si accompagna la splenomegalia. In questo paziente, inoltre, se cerco i parametri


di infiammazione, PCR e VES, troverà tutto normale per cui escludo che la leucocitosi sia
su base infiammatoria/infettiva.

A questo punto devo dimostrare, se ho il sospetto clinico che il paziente possa avere la
leucemia mieloide cronica, la presenza della traslocazione 9-22: la dimostro con l'esame
del cariotipo o con la Fish. Inoltre, posso dimostrare la presenza del gene di fusione BCR-
ABL con la biologia molecolare, con la PCR. Per fare la diagnosi di leucemia mieloide
cronica devo assolutamente cercare e trovare la presenza del gene di fusione altrimenti
non posso fare questa diagnosi.

Quindi gli esami che devo fare sono:

- la PCR è fatta a partire dall'RNA messaggero che si estrae dal paziente e viene
convertito in cDNA che viene sottoposto all'analisi molecolare. Sarà una RT-PCR
(dove RT sta per retrotrascrizione dell'mRNA in cDNA che vado a studiare per la
presenza o assenza di BCR-ABL). Questa procedura è molto più sensibile rispetto
alle altre in quanto lavora sui geni e non sui cromosomi.
- la Fish
- la citogenetica

Terapia

Per questa patologia c'è una terapia specifica che agisce in maniera specifica su BCR-
ABL: quindi potrò valutare se la mia terapia al paziente funziona andando a monitorare nel
sangue periferico le quantità di BCR-ABL. Questa quantizzazione la posso fare con un altro
esame di laboratorio; esso viene fatto tramite una PCR quantitativa e non qualitativa come
prima (la PCR qualitativa mi dice solo se ciò che cerco è presente o meno, la PCR
quantitativa mi da informazioni sulla quantità).

In passato la LCM è stata curata con vari approcci, ma nessuno di questi approcci
funzionava; addirittura è stata trattata con le radiazioni (lo stesso agente eziologico). In raltà
le radiazioni erano usate per ridurre le dimensioni della milza. Inizialmente veniva trattata
con il “beverone di Fowler”, in cui c’erano oppioidi e arsenico, che facevano stare meglio il
paziente in quanto l’arsenico favoriva l’apoptosi e gli oppioidi cancellava il dolore. In realtà
poi il paziente si affezionava al beverone e moriva avvelenato. È stato usato anche
l’interferone-alfa: circa il 10% dei pazienti riusciva a vivere a lungo con interferone-alfa che
funzionava con azione immuno-modulante.

Poi è arrivato l’imatinib, il primo farmaco con azione elettiva nei confronti della cellula
neoplastica. Grazie ad esso la patologia viene curata. ABL normale codifica per una
proteina tirosin-chinasica, una proteina che fosforila dei substrati ricchi in tirosina, usando
ATP. Quando c’è la trasformazione di ABL in BCR-ABL, la proteina è attiva costitutivamente,
ovvero non ha bisogno di un segnale esterno per attivarsi e fosforilare, giacchè fosforilare il
substrato a prescindere, il che porta alla trasformazione neoplastica. Fosforilando i substrati
infatti attiva vie di segnali, rappresentata da vie proliferative, di inibizione dell’apoptosi, etc.
l’imatinib va ad occupare la parte della proteina che lega l’ATP: esso quindi arriva prima
dell’ATP ad occupare il dominio chinasico di ABL e impedisce alla proteina stessa di poter
funzionare. Tramite questo meccanismo la cellula neoplastica viene spenta. C’è anche da
dire, però, che è quasi certo che accanto a questo meccanismo ce ne siano degli altri che
favoriscono la scomparsa della neoplasia che non conosciamo.
Quindi, in questo paziente l’iter prevede, in ordine:

1. diagnosi
2. trattamento farmacologico
3. follow-up per vedere se il paziente risponde al farmaco: doso la quantità di BCR-ABL
con una PCR quantitativa. Questa quantità, nel tempo, tende a diminuire fino a
scomparire. In tal caso il paziente sta rispondendo bene alla terapia. Può, però,
accadere che le cose non vadano così ma che ad un certo punto il paziente non
risponda più al farmaco.

Quando faccio la diagnosi posso anche ricavare la prognosi del mio paziente rispetto al
rischio di come il mio paziente potrà rispondere alla terapia, questo rischio prende il nome
di rischio Sokal. Esso è un parametro che deriva dall’analisi di vari altri parametri che
entrano in una equazione:

- l'età
- il grado di splenomegalia
- piastrine
- percentuale di blasti nel sangue periferico

Usando questi fattori potrà individuare un rischio basso<0,8, intermedio tra 0,8 e 1,2 e
alto >1,2. Nel caso di rischio alto il paziente è più vicino alla trasformazione leucemica della
malattia rispetto al rischio basso. L'analisi del rischio è una cosa che ancora oggi noi
facciamo però bisogna dire che l'imatinib e i nuovi farmaci hanno un po' annullato la validità
di questa classificazione, cioè un paziente ad alto rischio può avere comunque un'ottima
risposta farmacologica.

Come detto facciamo un monitoraggio che prevede che la quota di malattia che deve
diminuire, diminuisca non a caso ma rispetto a determinate quantità: cioè dopo 3 mesi la
malattia deve essere diminuita di tot, dopo 6 mesi di tot, dopo un anno deve essere
pochissima, dopo 2 anni non la devo vedere proprio. Se la malattia non segue questo
andamento vuol dire che la terapia non funziona bene e devo fare degli aggiustamenti,
correggere la dose, cambiare il farmaco.

Può accadere che il paziente risponda alla terapia però poi a un certo punto questa risposta
si perde: il paziente è diventato resistente. Ciò avviene perchè questo tumore, così come
gli altri tumori, non è una malattia monoclonale, non sono governate da un solo clone di
cellule, ma il tumore è una malattia policlonale.
Quando noi facciamo una terapia e questa terapia funziona è perchè il clone più
rappresentato è sensibile a quella terapia, mentre i cloni più piccoli non sono sensibili, quindi
succede che il clone che prima era il meno rappresentato adesso ha un sacco di spazio per
espandersi ed è per questo che i tumori possono recidivare dopo tanti anni, perchè la prima
terapia fa piazza pulita di un clone ma lascia spazio libero ai cloni che crescono più
lentamente.

Dunque, l'imatinib spazza via tutte le cellule possibili, restano quelle che non sono sensibili
e a partire da queste riprende la malattia, solo che questa volta il paziente non risponderà
alla terapia in quanto queste cellule non sono sensibili all'imatinib. Quindi dovrò cambiare
farmaco, in quanto esistono altri farmaci come l’imatinib. Esso appartiene alla categoria
degli inibitori tirosinchinasici, ed è un inibitori di 1° generazione. Inoltre, vi sono farmaci
di seconda e terza generazione, che posso usare quando il primo farmaco non funziona.
Perchè ci sono dei cloni sensibili e altri resistenti al farmaco?

1. Mutazione del dominio chinasico: perchè alcuni cloni, quelli piccoli, che
diventano grandi quando il paziente diventa resistente, hanno delle mutazioni. Essi
hanno la conformazione del dominio chinasico diversa per cui il farmaco non riesce
a legarsi, cioè il dominio chinasico di queste cellule è mutato. Questa mutazione la
posso trovare con indagini di biologia molecolare, studiando il pezzettino di DNA
che codifica per il dominio chinasico, trovando che questo avrà una sequenza mutata.
2. Evoluzione clonale: un altro motivo per cui il paziente può diventare resistente è
che quando la malattia evolve succedono cose al genoma e ai cromosoma del
paziente. Quindi lo scettro che governa la malattia passa dalle mani di BCR-ABL alle
mani di altre alterazioni cromosomiche o geniche che non sono sensibili all'azione
degli inibitori delle tirosinchinasi. Avviene la cosiddetta evoluzione clonale, cioè
la malattia si trasforma, il farmaco continua a legarsi al dominio chinasico ma a quel
punto non è la privazione di ATP sufficiente a bloccare la malattia perchè ci sono altri
meccanismi, alterazioni cromosomiche, alterazioni molecolari, la stessa mutazione
di p53, per esempio, che subentrano e che diventano il motore della malattia.
3. Un altro meccanismo di resistenza è favorito dall’amplificazione o overespressione
nel genoma del paziente del gene BCR-ABL. Per amplificazione si intende quando
nel genoma ci sono più copie del gene; per overespressione si intende che quel gene
non viene espresso 10 ma 1000 volte. Entrambe queste circostanze determinano
un’aumentata quantità di proteina BCR-ABL. Quando c'è l'amplificazione o
l'overespressione il farmaco funziona però il problema è che è aumentata la quota di
proteina ma al tempo stesso non posso aumentare la quota di farmaco perchè
significa aumentare l'effetto tossico del farmaco. L'amplificazione è una cosa che
posso identificare con la Fish, usando delle sonde marcate con sostanze
fluorescenti. Quindi quando vedo al microscopio i nuclei o il DNA vedrò: (1) un
puntino rosso che è ABL e (2) un puntino verde che è BCR. Se c'è il gene di fusione
vedrò la fusione tra rosso e verde cioè giallo; in ogni cellula vedrò un puntino giallo,
ma se ho l'amplificazione vedrò più puntini gialli.

NEOPLASIE LINFOIDI
Le neoplasie linfoidi possono avere origine cellulare varia: l’origine della cellula
neoplastica può esser rappresentata dai linfociti B, T, NK e ciascuna delle cellule che
rientrano in questi grandi famiglie. In linea generale, almeno nell’adulto, le patologie
neoplastiche linfoidi colpiscono soprattutto le cellule B.

I linfociti possono subire una trasformazione neoplastica in un qualsiasi momento della loro
differenziazione. Questo qualcosa, questo quid, che agisce operando la trasformazione
neoplastica può risiedere in un tessuto anche diverso dal midollo osseo. Finora abbiamo
visto che nelle neoplasie mieloidi tutto nasce nel midollo. In tal caso invece, per quanto
riguarda le cellule linfoidi, non nasce tutto nel midollo. Una parte delle cellule linfoidi
comincia la differenziazione nel midollo e la completa in altri organi, i linfonodi. Le cellule
T completano e iniziano la loro differenziazione nel timo. Si allarga quindi il fronte di
possibilità rispetto ai siti dove possono avvenire i processi di trasformazione neoplastica.

È bene tenere a mente i vari passaggi differenziativi delle cellule linfoidi: questo perché
quando ci si trova davanti ad un tumore e si deve capire quanto è o non è differenziato (e
questo dato è importante per attribuire un nome alla malattia osservata e per valutare la
prognosi del paziente), si andrà a cercare sulla superficie delle cellule l’espressione di
determinati antigeni. Il fatto che questi antigeni ci siano o non ci siano renderà consapevoli
della circostanza nella quale la cellula neoplastica ha subito la trasformazione, consentirà
cioè di capire in quale punto della sua vita la cellula ha subito la trasformazione.

La neoplasia linfoide in linea generale, ma non in linea assoluta, è una neoplasia che nasce
e permane nei tessuti linfoidi, linfonodi in primis. La manifestazione della malattia sarà quindi
un aumento di volume del linfonodo, con tumefazione se il linfonodo è superficiale e
compressione se il linfonodo è a sede profonda. Queste patologie però poi dai linfonodi
possono diffondersi e raggiungere organi non propriamente linfoidi oppure possono andare
ad interessare lo stesso midollo osseo.

Si vedano i passaggi maturativi della cellula B. Lo scopo della cellula B è quello di costruire,
durante il suo processo di differenziazione, un recettore che sia capace di riconoscere un
determinato antigene (BCR). Questo recettore nella fase finale della cellula diventerà
l’immunoglobulina. Questo processo comincia nel midollo e si conclude nel linfonodo. Il
linfocita B che esce dal midollo con un recettore più o meno formato, che però non è capace
di fare granché, è un linfocita con un recettore che deve essere addestrato. Questo
addestramento si compie nel linfonodo, in particolare nel centro germinativo del
linfonodo, dove vi sono cellule presentanti l’antigene, soprattutto le cellule follicolari
dendritiche, che vanno a testare la performance di questo recettore.

- Se il recettore è adatto viene migliorato, la sua attività cioè viene aumentata


modificando il DNA che codifica per il recettore: questo processo si chiama
ipermutazione somatica.
- Se invece in questa fase di test il recettore si dimostra inadatto, la cellula viene
distrutta. Se ad esempio durante questa fase di test il recettore risulta essere
autoreattivo, cioè riconosce strutture dell’organismo, la cellula viene distrutta.

Nel centro germinativo del linfonodo avviene, quindi, un processo di selezione che
seleziona i recettori più efficienti e permette dunque la progressione della differenziazione
della cellula B fino a plasmacellule, in maniera tale che quel recettore si possa
trasformare in immunoglobulina.

Gli anticorpi, diversi tra loro, che il nostro organismo può costruire sono svariati miliardi.
Questi anticorpi sono delle proteine e le proteine a loro volta sono codificate dai geni. Nel
genoma però sono presenti circa 20-30 mila geni. Nel DNA ci sono delle regioni che
codificano per la struttura dell’immunoglobulina. Queste regioni si riarrangiano tra di loro, si
ricombinano. Questa cosa avviene milioni di volte ogni giorno nel nostro organismo. Ciò è
vantaggioso in quanto in questo modo un singolo pezzo di DNA riesce a codificare per una
moltitudine di proteine, ma è allo stesso tempo un punto debole, poiché una ricombinazione
che avviene ogni giorno tante volte può ogni tanto fare un errore e quando fa un errore può
innescare una trasformazione neoplastica.
Vedremo, infatti, che nelle neoplasie linfoidi spesso ci sono delle alterazioni cromosomiche
che riguardano il cromosoma 14 nella regione del braccio lungo 3.2 che è la regione
dove mappa il locus che codifica per l’immunoglobulina.

Leucemia acuta linfoblastica


La leucemia acuta linfoblastica è una patologia che colpisce soprattutto l’età pediatrica,
per quanto possa interessare anche l’età adulta, caratterizzata dalla presenza di linfoblasti
(blasti linfoidi). È una patologia da riferire soprattutto alle cellule B, per quanto sia possibile
anche una LLA a cellule T.

In linea molto generale la sintomatologia è la stessa rispetto a quella vista per la leucemia
acuta mieloide, in quanto il meccanismo che genera questo tipo di leucemia ha gli stessi
effetti della LAM: il midollo viene popolato da blasti linfoidi e quindi ha un’attività emopoietica
totalmente insufficiente. Il paziente non ha neutrofili, non ha piastrine, non ha emoglobina,
quindi ha anemia, infezioni, emorragie.
Come carattere clinico distintivo nella Leucemia Acuta Linfoblastica possiamo avere:

• Linfoadenopatie (che invece nelle LAM sono più rare)

• Splenomegalia

• Dolori ossei (anche nella LAM)

• Sintomi neurologici (perché i blasti linfoidi hanno una spiccata tendenza a passare
la barriera ematoencefalica e quindi a dare localizzazioni della malattia anche in sedi
inattese)

Quando facciamo l’emocromo a questi pazienti, osserviamo che il paziente può avere (come
avevamo detto anche nella LAM) :

• Leucocitosi

• Leucopenia

• Numero di leucociti normali

In tal caso, però, quello che andiamo a leggere sull’emocromo, ovvero il valore dei leucociti
, è da riferire ai blasti, perché anche in questo caso il contaglobuli non è in grado di
distinguere una cellula per l’altra. In queste circostanze le macchine generano quello che
viene definito “allarme”. Più spesso c’è una leucocitosi, soprattutto per i bambini,
diversamente, negli adulti spesso troviamo una leucopenia.

Inoltre all’esame emocromocitometrico c’è:


• Anemia

• Piastrinopenia

• Aumento dell’LDH

• Indici di funzionalità renale ed epatica alterati, dovuti ad infezioni (per neutropenia)


oppure perché nel sangue si accumulano metaboliti, prodotti dalle stesse cellule
leucemiche, che non riescono ad essere smaltiti dagli organi emuntori e che
danneggiano questi ultimi.

Quando la malattia esordisce può esordire anche con un emocromo apparentemente


normale, però se vado a fare lo striscio periferico trovo i blasti. Magari questo paziente,
però, ha sintomi compressivi toracici o addominali a causa dell’aumento di volume dei
linfonodi.

Della leucemia acuta linfoblastica, così come in quella mieloide, la WHO ha individuato
diversi tipi di LAL, caratterizzati da alterazioni molecolari o da una alterazione citogenetica.
Esistono, però, anche LAL che non hanno queste alterazioni: vengono individuate come
“non altrimenti classificate”. Tra tutte le alterazioni che ci possono essere ve n’è una
uguale a quella della leucemia mieloide cronica: può esserci, dunque, una leucemia acuta
linfoblastica BCR- ABL positiva. In passato questa era considerata la più letale, oggi invece,
con il fatto che abbiamo gli inibitori delle tirosin chinasi, può essere trattata con farmaci
e il paziente può vivere a lungo. Perché la stessa mutazione genetica possa produrre due
fenotipi di malattia diversi non è noto.

Una caratteristica del blasto linfoide, sotto il profilo citochimico (le reazioni citochimiche
in citomorfologia sono quei saggi che ci consentono di capire l’assenza o presenza di alcune
attività enzimatiche nella cellula, per capire il loro livello di differenziazione), è la positività
per l’acido periodico di Schiff. Già solo con questa reazione citochimica, posso distinguere
il blasto mieloide da quello linfoide (al microscopio, infatti, non sempre è possibile fare
questa distinzione).

L’esame che mi consente, però, di individuare il blasto linfoide è la


immunofenotipizzazione della cellula effettuata con la citofluorimetria: vado a stabilire il
fenotipo immunologico, usando anticorpi monoclonali, guardando sulla superficie quali
antigeni di superficie sono espressi. In particolare, per esempio, per i blasti linfoidi, alcuni di
questi CD sono CD10, CD19 (per i linfociti B), CD2, CD3(per il linfociti T).
Prognosi
Anche in questo caso possiamo individuare fattori prognostici positivi o negativi:
generalmente la prognosi dei pazienti in età pediatrica è migliore di quella in età adulta,
questo perché (1) i bambini rispondono meglio ai trattamenti chemioterapici e poi perché il
(2) trapianto in età pediatrica risulta essere più efficace rispetto a quello fatto negli adulti.
Avere una traslocazione 9-22 oggi rappresenta un fattore prognostico positivo perché
vuol dire avere l’opportunità di una terapia specifica.

Negli adulti l’età è molto rilevante: quanto più anziano è il paziente tanto peggiore è la
sua prognosi. Nell’adulto può colpire varie fasce di età, però la leucemia acuta nell’adulto
è sempre più sbilanciata verso l’età senile.

Nell’adulto questa resta ancora una malattia mortale, sia nella fase della diagnosi, sia
dopo. I pazienti che possono guarire sono quelli che possono fare il trapianto allogenico,
per quanto questa sia comunque una procedura con un elevato tasso di mortalità (inoltre, il
paziente può anche recidivare). È una malattia che conserva ancora una prognosi
sfavorevole.

Leucemia linfatica cronica

È la patologia neoplastica ematologica più frequente. Il termine acuto e cronico si riferisce


alla sintomatologia: nella forma acuta il paziente spesso viene portato al pronto soccorso,
ect.; in tal caso invece il paziente, nella maggior parte dei casi, sta bene, scopre la malattia
solo per un fatto occasionale. Perché sta bene? Perché la cellula neoplastica, un linfocita
trasformato raggiunge un certo grado di maturazione, qui non ci sono i blasti, ci sono
cellule B e T che hanno fatto un pezzo importante di differenziazione, ma non tutta. Sono
cellule non completamente competenti, però il fatto che esse siano leggermente
differenziati , consente loro di svolgere la loro funzione “part time” e non “full time”.

È una patologia molto diffusa soprattutto nei paesi industrializzati, quindi l’Occidente. È
una malattia che posso riscontrare prevalentemente in età adulta e soprattutto negli
anziani, però è riscontrabile anche in pazienti più giovani. Il linfocita B è quello spesso
trasformato in questa patologia.

Un segno della malattia è la splenomegalia massiva, ma ci può essere anche


l’epatomegalia e la linfoadenomegalia, che può essere superficiale o profonda. Un’altra
caratteristica importante è la cosiddetta sindrome di Richter: è quella situazione nella
quale il paziente con LLC ha subito la trasformazione della malattia in una malattia più
aggressiva (linfoma aggressivo a grandi cellule).

Per fare diagnosi è necessario avere all’esame emocromocitometrico un numero di linfociti


superiore a 5000 per microlitro (devo avere una linfocitosi). Un paziente anziano, con
linfocitosi e splenomegalia massiva, quasi sempre avrà una LLC (serviranno esami per
dimostrarlo).

I linfociti, se li vado a guardare al microscopio, sono piccoli e sembrano tutti uguali: quando
la malattia popola il tessuto di un unico tipo di cellule parliamo di malattia clonale. Ma tra
una cellula e l’altra possiamo trovare delle anomalie, “cellule rotte”, che hanno subito un
trauma e questo reperto citologico prende il nome di “ombra di Gumprecht” ed è una
caratteristica di questo tipo di patologia. Che cos’è questa ombra? Si pensa che le cellule
della LLC siano più fragili di quelle normali e quindi quando noi li strisciamo (trauma
meccanico) possiamo avere la rottura di qualche cellula (osservabile al microscopio).
Questa condizione osservabile assieme alla leucocitosi, mi deve far pensare alla LLC.

Complicanze
Un’altra cosa importante è che nella maggior parte dei casi, questi pazienti non muoiono
per la malattia, ma per le complicanze della malattia, che sono:

• Infezioni, perché questa patologia è soprattutto dei linfociti B, che in teoria,


normalmente, producono Ig, ma questi linfociti B non sono capaci di farlo. Se
facciamo elettroforesi, infatti, troverò una ipo-ɣ- globulinemia.
• Autoimmunità: per lo stesso motivo, come detto, c’è un processo che non funziona
a carico della maturazione dei linfociti B. Alcuni abbiamo detto che non sono capaci
di produrre Ig, altri linfociti B, invece, saranno autoreattivi (selezionati in maniera
errata nel momento in cui la cellula va incontro a selezione clonale). Quindi il pz può
avere fenomeni autoimmuni (es. anemie emolitiche autoimmuni) che possono
rappresentare la causa di morte o infezione.

• Trasformazione (sindrome di Richter): il genoma delle cellule della LLC è


fortemente devastato e ad un certo punto i diversi riarrangiamenti genici si sommano
determinando una nuova malattia più aggressiva. La patologia, quindi, diventa un
linfoma aggressivo.

• Seconde neoplasie: legato alla circostanza che il sistema immunologico non


funziona, e quindi la trasformazione neoplastica avviene a livello di altri organi in
ragione della down-regulation della capacità del sistema immunitario di controllare i
cloni neoplastici.

Un dato importante, legato alla differenziazione della cellula, per la prognosi è lo stato
IgHV: è uno stato che sta ad identificare la presenza o meno di peculiari mutazioni sul locus
DNA che codifica per la regione delle catene pesanti delle Ig. Quando la cellula B deve
completare il suo percorso di maturazione, questo percorso si completa nel centro
germinativo, durante il quale il BCR viene reso più performante tramite delle operazioni sul
DNA. Nella LLC alcuni pazienti hanno cellule che hanno subito, fisiologicamente, le
operazioni di modificazione del centro germinativo e hanno uno stato mutazionale “IgHV
mutato”. Questo vuol dire che queste cellule sono passate dal centro germinativo e hanno
subito le corrette modificazioni: in questi pazienti la prognosi è migliore (probabilmente
perché le loro cellule hanno una differenziazione migliore o per altri motivi che non
sappiamo) di coloro le cui cellule non sono arrivate al centro germinativo e quindi non hanno
subito eventi mutazionali (è come se il linfocita sta ancora nel midollo osseo). In definitiva,
è possibile definire due opposti stati IgHV. Quando facciamo la diagnosi di questa malattia,
dobbiamo confrontare la diagnosi con questo dato, perché questo dato si riferisce alla
prognosi del paziente.

È chiaro che una linfocitosi possa essere determinata da diverse altre circostanze oltre ad
una leucemia di questo tipo: quindi è necessario dimostrare la clonalità della malattia, cioè
devo dimostrare che questi linfociti sono tutti uguali e questa dimostrazione mi viene offerta
dalla citofluorimetria. In citofluorimetria questi linfociti saranno tutti con lo stesso “numero
di targa” perché avranno tutti l’espressione del CD5, del CD19 e del CD23. Il CD5
normalmente sul linfocita B non c’è. I linfociti, dunque, sono:

- CD5+
- CD19+
- CD23+

Poi si rendono necessari l’ago aspirato midollare e la biopsia osteomidollare: con il


primo devo dimostrare che c’è una linfocitosi maggiore al 30%; la seconda ci dirà come i
linfociti nel midollo osseo si organizzano: se questo infiltrato si organizza formando follicoli,
noduli o è diffuso.

Prognosi
Per la prognosi, oltre allo stato mutazionale IgHV mi serve anche capire come sta messo
il gene p53: è un importante fattore prognostico perché nel passato i pazienti con la
mutazione del p53 erano pazienti con prognosi peggiore, perché non rispondevano alle
terapia. Diversamente, oggi possiamo utilizzare con questi pazienti farmaci specifici: sono
farmaci che lavorano meglio in pazienti con mutazione della p53. Questi farmaci hanno
migliorato la loro prognosi.

Fattori prognostici più importanti sono:

• Mutazione p53

• Stato mutazionale IgHV

A questi si aggiungono altri, quali la stadiazione, ma in generale p53 e IgHV sono


nettamente quelli più importanti.

• Stadiazione
• LDH, sempre indice di attività della malattia oncoematologica
• Tempo raddoppiamento linfocitosi periferica (molto importante, se non c’è
raddoppiamento il paziente va solo osservato)
• Tipo di infiltrazione midollare (diffuso o organizzazione nodulare in quanto nella loro
memoria hanno l’organizzazione del linfonodo)
• Alterazioni citogenetiche e molecolari
1. P53
2. Delezione 13q (prognosi buona)
3. Trisomia 12 (prognosi negativa)
4. Delezione 11q (prognosi negativa)

I pazienti con leucemia linfatica cronica hanno, oltre la mutazione p53, anche altre
alterazioni cromosomiche ricorrenti, come ad esempio la trisomia del 12, la delezione del
braccio lungo del cromosoma 11 (del11q); la delezione del braccio lungo del cromosoma 13
(del13q); la delezione del braccio corto del cromosoma 17 (del17p), dove mappa p53.
Quindi, in questa patologia, p53 può essere deleta o mutata.

Stadiazione
La stadiazione, cioè sapere quanto è diffusa la malattia, è importante, perchè non tutti i
pazienti necessitano per forza di un trattamento. I pazienti che hanno la malattia nel suo
primo stadio (all’inizio) non fanno trattamento: non abbiamo un farmaco che possa
intervenire in questa fase della malattia, quindi qualunque cosa facessi sarebbe inutile;
posso, invece, aspettare che la malattia progredisca, fino a quando posso somministrare
farmaci, in grado di intervenire in quella fase della malattia.

È possibile distinguere due tipi di stadiazione:

1. Stadiazione di RAI: questa comprende 5 stadi da 0 a 4, che considerano:

• linfocitosi

• linfoadenopatia

• epatomegalia e splenomegalia

• valore emoglobina

• piastrine
2. Stadiazione di Binet: considera più o meno gli stessi fattori combinati in maniera
diversa, ovvero emoglobina, piastrine e sedi extramidollari coinvolte (da A a C)

I pazienti che sono allo stadio A (della stadiazione di Binet) e dello stadio 0-1 ( della
stadiazione di Rai), non fanno terapia, ma sono sottopposti a watch and wait: la malattia
viene osservata e si aspetta che essa cambi.

La sindrome di
Richter è quella fase
in cui il paziente che
aveva una leucemia
linfatica cronica, e
all’improvviso accusa
debolezza, dolori
ossei, febbre, una
serie di sintomi che
prima non accusava.
Procedendo con gli
esami di laboratorio osservo un quadro non più relativo ad un infiltrato di linfociti tipico della
leucemia linfatica cronica, ma si tratterà di una istologia di cellule di un linfoma aggressivo.
Questo paziente ha una prognosi negativa, nefasta: non esiste una terapia che possa
salvare il paziente. È quindi un linfoma aggressivo (potremmo considerarla una
complicanza equivalente alla crisi blastica della LMC)

Leucemia pro-linfocitica

La leucemia prolinfocitica è un’altra patologia che può avere carattere di cronicità, che
deriva sempre da alterata differenziazione del linfocita soprattutto B, ma anche T, NK. In
questa leucemia il sangue periferico e il midollo si arricchiscono di pro-linfociti, che sono
molto immaturi, il cui nucleo presenta il nucleolo, che li rende assolutamente caratteristici.
La leucemia prolinfocitica, rispetto alla leucemia linfatica cronica, è una malattia peggiore,
sia per la sintomatologia che per la prognosi, non abbiamo farmaci che funzionino sempre
bene. Il dato diagnostico importante è quello di rilevare la presenza di pro-linfociti. I sintomi
sono più o meno gli stessi della LLC ma è tutto più accelerato e meno graduale, il paziente
non sta bene.

Il problema è generalmente di natura infettiva o relativa a insufficienza d’organo, quale


fegato o rene. A questo poi si associa che questa infiltrazione di linfociti a livello del midollo
va ad inibire l’attività emopoietica, motivo per cui più spesso il paziente è marcatamente
anemico, piastrinopenico, neutropenico: il quadro clinico è più severo. A differenza della
precedente, però, essa è estremamente più rara.

Leucemia a cellule capellute (o tricoleucemia)

La patologia, anch’essa non molto frequente, colpisce pazienti molto giovani, ha delle
complicanze spesso mortali, quindi riconoscerla per tempo può salvare la vita del paziente.

In questa leucemia si verifica sempre trasformazione neoplastica delle cellule B che genera
una classe di cellule linfocitiche con citoplasma sfrangiato, da simulare capigliatura
(cellule capellute), ritrovabili sia in midollo che in sangue periferico.

La patologia presenza caratteristiche peculiari:

1- Classicamente questi pazienti presentano pancitopenia, per cui le complicazioni più


importanti sono le infezioni.
2- Un altro segno essenziale è una splenomegalia massiva.
3- Insolitamente, al contrario di altre patologie in cui tale segno è raro, questi pazienti
possono presentare una curiosa monocitopenia.
4- Possono essere presenti, inoltre, lesioni ossee o vasculiti.

Diagnosi

1- esame citofluorimetrico dimostrando la presenza di CD25 sui linfociti, rappresenta


un dato importante
2- soprattutto grazie alla biologia molecolare rileviamo il dato più importante, dato da
alterazione molecolare del gene BRAF-mutazione V600E , stessa mutazione
riscontrabile in melanoma o carcinoma papillare tiroideo.

Terapia

Farmaci con pentostatina che funzionano con un meccanismo non ancora chiaro: il
paziente ha lunghissimi periodi di remissione.

LINFOMI
La classificazione delle neoplasie linfoidi che usiamo oggi è quella dell’ organizzazione
mondiale della sanità. Sono tantissime e la maggior parte di queste patologie è
rappresentata da linfomi. I linfomi possono essere suddivisi su base istologica (la diagnosi
dei linfomi viene sempre fatta su base istologica, non ci si può basare solo sui dati clinici e
di laboratorio) in:

• LINFOMA DI HODGKIN

• LINFOMA NON HODGKIN

Queste due categorie sono completamente diverse tra di loro e all’interno di queste due
categorie c’è una moltitudine di altri linfomi.

Hodgkin ha introdotto l’uso del fonendoscopio nella pratica medica, del microscopio in
laboratorio ed è il medico che intuì che alcuni pazienti di quel periodo non fossero affetti da
tubercolosi o da sifilide, molto diffuse in quel periodo e con segno clinico tumefazioni
linfonodali, ma da altro. A fronte di questa intuizione molti anni dopo un suo allievo al
microscopio vide che questa malattia allora ancora non definita fosse governata da un altro
tipo di cellule. Nel tempo le nozioni si sono accumulate e quindi tutto quello che dal punto di
vista istologico non aveva le stesse caratteristiche del linfoma di Hodgkin fu classificato
come “non-Hodgkin”.

Il linfoma di Hodgkin è un linfoma che riguarda soprattutto i giovani ed è meno frequente.


Il non-Hodgkin, invece, non ha predilezione per l’età, è molto più frequente, in rapporto
1:10 con l’Hodgkin. Anche la prognosi è diversa: nell’Hodgkin il paziente guarisce, nel non-
Hodgkin tendenzialmente no.

Eziologia
Vi è un certo grado di incertezza, possono essere legati a:

1. Infezioni virali: HIV, EBV, HCV. Alcuni virus come l’HIV entrano nella patogenesi
del linfoma.
2. Infezioni batteriche: Helicobacter pylori, causa infiammazione cronica, o anche
Chlamydia

Localizzazione e diffusione

I linfomi nascono, generalmente parlando, nel tessuto linfoide (linfonodi o MALT),


essendo neoplasie di questi distretti. Da questo, poi si propagano attraverso varie strade
che sono:

• VIA LINFATICA: modalità classica e più frequente. Essa determina interessamento di


stazioni linfatiche successive le quali si trovano lungo il decorso dei linfatici che drenano
dal linfonodo colpito. Tale diffusione avviene generalmente dal basso verso l’alto.

• VIA EMATICA: è in genere la modalità di diffusione più tardiva e si accompagna ad una


generalizzazione della patologia o ad interessamento di organi extralinfatici come
midollo osseo, fegato, cute, rene, polmone, etc.

• PER CONTATTO, PER CONTINUITÀ: quando il linfonodo si trova vicino ad un altro tessuto e
ci può essere infiltrazione delle cellule nei distretti vicini in seguito a superamento della capsula
linfonodale.

Normalmente le sedi interessate sono i linfonodi e quando questo accade noi parliamo di
localizzazioni nodali (il termine nodale si riferisce al linfonodo). Se invece la localizzazione
è al di fuori del linfonodo noi abbiamo una localizzazione extranodale ed essa è più
frequente nei linfomi non Hodgkin, mentre è più rara nei linfomi di Hodgkin. Le localizzazioni
extranodali possono riguardare diversi distretti dell'organismo e spesso hanno delle sedi
privilegiate rappresentate dalla cute, dallo scheletro, dagli organi contenenti nella loro
struttura il tessuto MALT (quindi anche questi ultimi possono essere un punto di partenza
per la trasformazione linfomatosa. Dunque, il linfoma nodale può avere una localizzazione
ad esempio latero-cervicale, sovraclaveare, mentre il linfoma extranodale può essere
localizzato a livello della cute.

Stadiazione

Dopo aver fatto la diagnosi, è importante anche fare la stadiazione. La stadiazione mi serve
a capire quanto è diffusa la malattia, in quanto la diffusione della malattia ha una valenza
diagnostica: più la malattia è confinata e meglio è. La stadiazione prevede la distinzione di
quattro stadi, però attenzione: il concetto di stadiazione è diverso da quello che si riferisce
alle neoplasie solide, perchè lo stadio 4 del linfoma indica una patologia più complicata sì,
ma nei confronti della quale possiamo ancora intervenire con approcci adeguati allo stadio
complicato. La stadiazione, dunque, individua:

- Stadio 1: singola sede linfo o extralinfonodale


- Stadio 2: 2 o più stazioni linfonodali dallo stesso lato del diaframma oppure 1 o più
stazioni linfonodali e una sede extralinfonodale dallo stesso lato del diaframma
- Stadio 3: più stazioni linfonodali da entrambi i lati del diaframma (che può essere
accompagnato da interessamento localizzato di un organo o sede extralinfonodale:
3S se spleni-, 3E se extralinfonodale, 3ES entrambi);
- Stadio 4: coinvolgimento diffuso o disseminato di uno o più organi o sedi
extralinfonodali con o senza coinvolgimento di regioni linfonodali.

A ciò si aggiunge la presenza o assenza di sintomi come sottoclassificazione:

a. Stadio A: assenza sintomi


b. Stadio B: febbricola, sudorazioni notturne, prurito, perdita di peso

Questi sintomi ci dicono che la malattia è una malattia con una cinetica cellulare
importante, cioè le cellule replicano velocemente, e ci dicono anche che è una malattia a
carattere sistemico. Quindi dopo aver fatto la stadiazione, noi dobbiamo dire se ci sono i
sintomi clinici oppure se non ci sono e diremo per esempio stadio 4 A o B in base al fatto
che ci siano questi sintomi o meno. La presenza di questi sintomi ovviamente denota una
biologia più cattiva della malattia.

La stadiazione viene approntata tramite metodiche di indagine quali:


1. TAC
2. PET
3. RMN
4. Rx
5. Ecografia

Linfoma di Hodgkin

Situazione clinica
Come detto, per fare diagnosi di linfoma è NECESSARIA una valutazione istologica: per
fare diagnosi è necessario assolutamente analizzare il tessuto linfoide tramite esame
bioptico. Quindi il paziente verrà da noi perchè ha una tumefazione palpabile, oppure
perchè ha dei sintomi correlati a fenomeni di compressione, legati all'aumento di volume dei
linfonodi profondi (dolori addominali o dispnea per esempio). Se si tratta di una tumefazione
superficiale, il paziente vi dirà che ce l'ha da qualche tempo ma che non gli ha mai dato
fastidio (ecco perchè non ha ritenuto necessario andare dal medico prima), solo che dopo
un bel po' di tempo ha notato questa situazione in quanto tende ad aumentare di volume e
magari ha deciso di rivolgersi al medico per un fatto estetico magari. Quindi voi andate a
palpare questa tumefazione e, in effetti, già alla palpazione vedete che non è dolente;
inoltre, i linfonodi in genere possono anche spostarsi con difficoltà sui piani sottostanti (non
è sempre presente questa caratteristica). Il paziente riferirà di avere questa tumefazione da
più di un mese, se si tratta di un linfoma.

La linfoadenomegalia/linfoadenopatia è un fatto molto comune e rappresentato all’interno


della popolazione: se usiamo un rasoio, uno spray, oppure abbiamo un infezione, può
capitare di avere un aumento di volume, dunque una piccola tumefazione latero-cervicale o
inguinale, e ce ne accorgiamo subito in questo caso perché ci fa molto male. Questa
condizione di solito scompare nel giro di un mese, a volte potrebbe volerci anche di più,
però diciamo che non è nulla grave: in linea generale, se fa male è meglio. Insomma, la
presenza o meno del dolore è un dato clinico che deve guidarvi nella vostra diagnosi.

Quindi, se si presenta un paziente giovane con massa laterocervicale non dolente, da un


po' di tempo, posso farmi subito un’idea che si tratti di LH, ma vi è necessità di biopsiare il
linfonodo.
Detto questo, il linfoma di Hodgkin è un linfoma che possiamo avere in un distretto qualsiasi
dell’organismo, ma generalmente le stazioni linfonodali interessate hanno un andamento
lineare, ovvero seguono la propagazione della catena linfoide nel sistema linfatico (ad
esempio laterocervicale, sovraclaveare, ascellare). Invece, l’interessamento linfonodale
nel linfoma non Hodgkin è disordinato.

Istologia
Inoltre, nel linfoma di Hodgkin la nota istologica caratteristica è la cellula di Reed-
Stenberg, una cellula paragonata morfologicamente ad una civetta che innesca attorno a
sé una sorta di reazione infiammatoria (le cellule che ci sono attorno ad esse sono di varia
natura, generalmente cellule impegnate nell’infiammazione). Essa è una cellula grande, con
citoplasma ampio, acidofilia, due o più nuclei, membrana evidente e cromatina finemente
dispersa. Quindi, per individuare un linfoma di Hodgkin, ho bisogno di un’evidenza
istologica, che in questo caso ci viene fornita da una biopsia linfonodale (effettuata dal
chirurgo o dal radiologo interventista); la biopsia poi verrà analizzata dal patologo, il quale
sotto le mie indicazioni andrà tra le tante cose a cercare anche questa particolare cellula.

Classificazione
Il linfoma di Hodgkin individua almeno 5 istotipi, di cui 4 si riferiscono alla forma classica
mentre uno rappresenta la forma non classica.

1. La forma classica (90%), sotto il profilo istologico, è caratterizzata dall’espressione


di due antigeni, il CD30 e il CD15, quindi nella maggior parte dei casi il linfoma di
Hodgkin è caratterizzato dall’espressione di CD30 e CD15; inoltre fra i quattro istotipi
della forma classica (sono rispettivamente detti sclerosi nodulare 75%, a cellularità
mista 13%, a predominanza linfocitaria 8% e a deplezione linfocitaria 4%), il più
frequente è il primo, ovvero la forma sclerosi nodulare.
2. L’istotipo non classico, meno frequente, è invece CD30 e CD15 negativo ed è detto
nodulare a prevalenza linfocitaria (da non confondere col terzo istotipo classico
detto a predominanza linfocitaria). Esso, al contrario della forma classico è CD20+,
un marcatore B-linfocitario che indica una maggiore forma maturativa rispetto alle
cellule del precedente istotipo.

Diagnosi
Per quanto riguarda la diagnosi, abbiamo detto che deve passare per forza dall’indagine
istologica. Quello che bisogna fare per convincere il paziente circa la necessità di una
biopsia linfonodale, è servirsi delle indagini radiologiche e delle indagini di laboratorio.
Tuttavia, queste ultime non sono specifiche, non ci danno certezza che si tratti di linfoma.
Comunque sia sono parametri utilizzati per escludere altre cause e in genere c’è aumento
di LDH (anche VES); per la diagnosi differenziale ad esempio è usata la sierologia virale,
in quanto ci sono delle patologie che possono essere associate a linfoadenopatia come la
mononucleosi: se si fanno accertamenti e si dimostra che, effettivamente la linfoadenopatia
è dovuta alla mononucleosi, sto più tranquillo, ma se questa linfoadenopatia persiste per
molto tempo dopo la mononucleosi, anzi tende ad essere più rappresentata pur essendosi
esaurita la patologia primaria, allora può rappresentare un campanello d’allarme. Altro
ragionamento da fare è che ci sono linfoadenopatie che possono residuare dopo la
mononucleosi e che però non rappresentano nessun tipo di pericolo.

Prognosi
Stadiazione, diagnosi e prognosi sono strettamente correlate: avere uno stadio 1 o 2 di
linfoma Hodgkin rispetto all’avere uno stadio 4 fa la differenza perché cambiano anche i
fattori prognostici relativi agli stadi (iniziale IA-B-IIA, avanzato IIB ed oltre). Dunque è
importante avere queste informazione, anche perché ci possono tornare utili nella terapia.

Trattamento
Il linfoma di Hodgkin è un linfoma che oggi risponde bene al trattamento chemioterapico.
Il paziente in trattamento nella maggior parte dei casi (circa 70%) guarisce. Invece nel 20%
dei casi può recidivare o non rispondere al trattamento. La prognosi di quest’ultima
frazione di pazienti, tuttavia, è migliorata molto grazie all’impiego di alcuni farmaci che
intervengono sull’attività del sistema immunitario dato che il linfoma, come altre neoplasie
solide, ha un sistema immunitario “addormentato”. Immaginiamo lo sviluppo primordiale di
una neoplasia: cosa accade? Molto probabilmente accade che alcune cellule T si accorgono
che comincia ad esserci qualcosa che non va, che in atto c’è una trasformazione
neoplastica, e cominciano così ad agitarsi in quanto riconoscono una serie di antigeni che
normalmente non ci sono. A fronte di questo riconoscimento, queste cellule T si attivano
mediante le cellule presentanti l’antigene. Queste cellule che si attivano hanno sulla loro
superficie un recettore detto PD1 (sta per “morte programmata”) usato per riconoscere il
self. In seguito all’attivazione, la cellula T inizia a produrre una serie di citochine tra cui l’IFN-
: esso è una specie di sirena che risuona in tutto l’organismo e che avvisa tutte le cellule
che sta arrivando da ciascuna di esse per annusarle e capire se sono self o non self; in altre
parole, va a vedere se sulla superficie delle cellule c’è il ligando specifico per PD1. Allora,
tutte le cellule che avranno il ligando per PD1 non saranno distrutte, mentre quelle che non
ce l’hanno passeranno saranno distrutte. Alla luce di questo meccanismo apparentemente
perfetto, purtroppo anche le cellule neoplastiche percepiscono il richiamo da parte dell’IFN-
 e andranno ad esporre il ligando per il PD1, anzi le cellule neoplastiche saranno quelle più
ricche di ligando sulla superficie e paradossalmente saranno quelle più tutelate dal sistema
immunitario. Questa cosa succede in molte neoplasie solide e anche nei linfomi (in questi
ultimi succedono diverse cose al sistema immunitario, tra cui questa).

Oggi possiamo bloccare l’interazione tra PD-1 (recettore) e PD-L1 (ligando) evitando
che il sistema immunitario diventi promotore e protettore della neoplasia: in questo modo le
cellule neoplastiche possono essere riconosciute dal sistema immunitario attraverso altri
sistemi, diversi rispetto a quello di PD-1/PD-L1; oppure possono essere più facilmente
aggredite da farmaci. Dunque, oggi usiamo anticorpi monoclonali anti PD-1 e/o anti PD-
L1 che blocchino l’interazione tra queste due molecole in modo da far perdere la tutela della
cellula neoplastica da parte del sistema immunitario e permettere il riconoscimento della
cellula neoplastica da parte del sistema immunitario.

Nella cellula linfomatosa, e se parliamo nello specifico del linfoma di Hodgkin (abbiamo detto
che il linfoma di Hodgkin è caratterizzato dall’espressione in maniera costante del CD30 e
CD15) usiamo la chemioterapia che in molti casi sortisce effetto, ma in altri no. Non ha
effetto perché con i chemioterapici blocco alcuni circuiti (e quindi la cellula muore), ma ci
sono tanti altri circuiti alternativi che attivandosi in caso di necessità, permettono alla cellula
di sopravvivere. Quindi, oggi, nel caso del linfoma di Hodgkin possiamo colpire in maniera
specifica la cellula linfomatosa, riducendo contestualmente la tossicità del farmaco, usando
un anticorpo monoclonale (anti CD30)-farmaco coniugato (nome commerciale del
farmaco Adcetris®). Quindi, l’anticorpo monoclonale anti CD30 è legato ad un farmaco ad
attività citocida coniugato tramite una regione linker; nel linfonodo il legame al CD30
espresso sulla cellula linfomatosa non è sufficiente ad uccidere la cellula, ma l’anticorpo
deve essere internalizzato e, una volta nel citoplasma, diviene substrato di alcune specifiche
proteasi cellulari che degradano la regione linker, liberando il farmaco nella cellula: il
farmaco chemioterapico inibisce la polimerizzazione dei microtubuli, impedendo alla cellula
di dividersi e la cellula muore. Quindi, sfruttando la specificità di interazione (CD30/anti
CD30), veicoliamo un farmaco, che altrimenti dovremmo somministrare a dosi così elevate
da essere letali per il paziente. Questo nuovo trattamento è riservato per i pochi pazienti
che non hanno risposto alla chemioterapia standard: di questi alcuni rispondo molto bene
ed anche per lunghi periodi, altri invece no, sicuramente perché condividono solo l’aspetto
morfologico della malattia, ma la biologia della cellula neoplastica è completamente diversa
e ignota.

Linfoma non-Hodgkin

Sotto il nome di linfomi non Hodgkin sono raggruppate oltre 50-60 patologie diverse. Per
comodità nella pratica clinica classifichiamo i linfomi non Hodgkin in:

• linfomi a basso grado di malignità o indolenti:


• linfomi aggressivi
• linfomi davvero aggressivo
Dunque, diciamo che i linfomi non Hodgkin possono essere o a basso grado o ad alto grado
di malignità.

1. Linfomi a basso grado: rispondono bene alla chemioterapia, tendono


inevitabilmente a recidivare ma lo fanno dopo molto tempo. Perciò in generale il
paziente sopravvive alla sua malattia e muore per cause diverse. Si possono avere
complicazioni autoimmuni perché c’è un turbamento dei linfociti B.
2. Linfomi aggressivi: sono caratterizzati dalla possibilità di recidivare molto prima,
cioè rispondono alla chemioterapia, ma la risposta alla terapia dura poco. Il quadro
clinico è più importante e anche la linfoadenopatia, ovvero il volume dei linfonodi può
cambiare più velocemente rispetto a quelli indolenti.
I linfonodi sono spesso dolenti o danno sintomi legati alla compressione delle
strutture vicine. Spesso si tratta di masse voluminose (definite bulky quando
superano i 10cm) che possono estrinsecarsi in diverse sedi, ma che crescono a
dismisura in sede mediastinica o mesenterica, dove inizialmente non danno segni
di compressione.
Il paziente è spesso sintomatico sia per i sintomi sistemici (dimagrimento, febbre,
sudorazione notturna), sia per quelli legati alla compressione o alla rapida crescita
delle adenopatie. Ciò fa si che spesso questi linfomi si presentino in stadio di malattia
più localizzato rispetto ai linfomi indolenti.

La distinzione dipende da una differente cinetica cellulare a cui corrisponde un quadro


clinico diverso.

Esistono molte forme di linfomi non Hodgkin perché possono succedere tante cose durante
il processo di maturazione del linfocita. Quindi, essendo il processo maturativo del linfocita
B articolato, molti possono essere gli eventi che possono accadere durante questo percorso
e che possono tradursi in un fenotipo diverso di malattia.

Anche nei linfomi avremo alterazioni molecolari, alterazioni di geni e alterazioni


cromosomiche, che posso metter in evidenza con la PCR, con la FISH e con il cariotipo.

Nel linfoma non Hodgkin, inoltre, è turbato il meccanismo immunitario che è addestrato a
rispondere alla neoplasia. In realtà abbiamo visto che, più che turbamento, si tratta di una
capacità della cellula neoplastica di adeguarsi rispetto agli strumenti che ha il sistema
immunitario. Normalmente uno degli strumenti che abbiamo per difenderci dalle cellule
trasformate è quello delle cellule NK. Le cellule NK hanno un duplice sistema di recettori di
membrana:

• recettori che attivano il killeraggio della cellula target (recettori attivatori o KAR= killer
activation receptors)
• recettori che lo inibiscono (recettori inibitori o KIR)

Generalmente il recettore attivatore (KAR) viene disattivato dal secondo quando il KIR rileva
sulla cellula una molecola attesa, quale una molecola MHC1: quando i recettori inibitori non
avranno ligandi, non potranno inibire l’attività di killeraggio mediata dai recettori attivatori.
Quindi con tutti i suoi recettori la cellula NK studia la cellula bersaglio e, se questa esprime
molecole MHC1, supera il checkpoint e viene risparmiata. Se invece la cellula bersaglio non
esprime sulla superficie molecole MHC1, dopo la fase di controllo viene distrutta: questo è
quello che normalmente accade quando la cellula è infettata dai virus o nell’ambito di una
trasformazione neoplastica.
Cosa succede quando c’è la trasformazione neoplastica di una cellula B del linfoma? La
cellula B di linfoma perde molti ligandi per i recettori delle cellule NK, diventando così
“invisibile”: non può essere controllata ed elude in tal modo il controllo immunitario.

Sintomatologia

La sintomatologia è in gran parte, ma non solo, dipendente dall’estensione delle masse


linfonodali: quindi il paziente può presentare una coorte di sintomi abbastanza variegata
come dispnea, disfagia (se masse mediastiniche), dolori addominali (masse addominali),
sintomi neurologici. Nei linfomi aggressivi ci sono poi sintomi tipici quali calo ponderale,
febbricola, prurito cosiddetto “sine materia”, dolori ossei: tali sintomi sono in relazione alle
varie citochine che le cellule linfomatose producono.

Linfoma B diffuso a grandi cellule


È un linfoma aggressivo, ed è il più frequente fra quelli aggressivi. Generalmente riguarda
le cellule B. Può interessare pazienti giovani ed anziani indistintamente.

Sotto il profilo molecolare in molti casi c’è l’alterazione del gene Bcl-6, che normalmente
nel linfocita B maturo non viene più espresso. Nel linfoma è overespresso o perché mutato
o perché traslocato, mentre invece dovrebbe essere silente.

Nel linfoma diffuso a grandi cellule utilizziamo una serie di parametri che insieme
identificano il cosiddetto indice prognostico internazionale o IPI. L’IPI considera:
• età
• stadio della malattia
• livelli di LDH sierica
• performance status: indica come sta messo il paziente, cioè se riesce a fare
autonomamente le attività quotidiane, se non riesce e di quanto aiuto ha bisogno
• numero delle stazioni extranodali
Queste informazioni mi danno un punteggio: più è basso, migliore sarà la prognosi per il
paziente e viceversa:

• 0-1 punto: basso rischio


• 2-3 punti: rischio intermedio
• 4-5 punti: alto rischio

Una caratteristica importante la posso così notare: se somministro a 100 pazienti lo stesso
protocollo chemioterapico (che consiste in più farmaci diversi) vedrò che solo una metà
risponde alla terapia: eppure hanno tutti la stessa malattia! In realtà hanno sì lo stesso nome
perché istologicamente sono simili, ma sotto il profilo molecolare sono diversi. Oggi diciamo
che la cellula di origine del linfoma diffuso a grandi cellule può essere diversa: a
seconda delle caratteristiche della cellula di origine possiamo aspettarci la risposta alla
terapia. Come facciamo a stabilire la cellula di origine? Tramite l’analisi del profilo di
espressione genica: cioè vedo quali geni sono espressi studiando l’mRNA delle cellule
linfomatose. Distinguiamo due sottogruppi:

• variante delle cellule B del centro germinativo [variante GCB (Germinal Center
B-Cell)]: ovvero il profilo di espressione di questo gruppo è molto simile a quello dei
linfociti B normali del centro germinativo; essa ha prognosi migliore (i pazienti
rispondono bene alla terapia)
• variante delle cellule B attivate [variante ABC (Activated B-Cell)]: la prognosi di
questi pazienti è diversa, peggiore, perché il profilo di espressione di queste cellule
è diverso da quello delle cellule normali (i pazienti non rispondono bene alla terapia)

Quindi le due varianti presentano istologia simile ma biologia molecolare differente. L’analisi
di espressione è importante perché possiamo prevedere la risposta alla terapia e, in base a
questa previsione, offrire una terapia diversa a questo secondo gruppo di pazienti, che
garantirà una risposta più efficace. Oggi si sta cercando un sistema per definire la cosiddetta
‘cellula di origine’ ed il suo profilo, attraverso indagini di immunoistochimica sul pezzo
istologico. Teoricamente, i pazienti con profilo con cellula di origine riconducibile ad ABC
dovrebbero godere di una terapia diversa da quella standard fallimentare, ossia una terapia
sperimentale.

Il gene spesso alterato in questo genere di Linfomi è BCL-6, gene che normalmente viene
espresso durante la emopoiesi B, ma successivamente silenziato fisiologicamente perché
la sua espressione non serve più. Qui invece l’espressione viene conservata o perché c’è
una mutazione a livello del promotore del gene, oppure il gene viene traslocato su
regioni cromosomiche diverse facilmente trascritte. Altri geni deregolati in questa
patologia sono BCL-2, che codifica per una proteina inibitrice dell’apoptosi, e MYC
(oncogene che si trova sul cromosoma 8) che subisce anch’esso fenomeni di
riarrangiamento cromosomico che ne determinano l’overespressione. I riarrangiamenti
coinvolgono, oltre questi geni, contestualmente anche la regione del genoma che codifica
per le catene pesanti delle Ig (IgH). Quindi ad esempio posso avere un riarrangiamento
tra Myc e IgH, secondo una traslocazione 8;14; o ancora, una traslocazione 14;18 che
favorisca l’interazione tra BCL2 e IgH. In tutti questi casi non si forma un gene di fusione,
ma la regione IgH finisce patologicamente nei pressi di una regione non normalmente
trascritta, per cui questa regione x verrà poi trascritta (IgH è fortemente trascritta).

Linfomi mantellari
I linfomi mantellari appartengono sempre alla categoria dei linfomi aggressivi. Il termine
“mantellare” si riferisce ad una regione del follicolo linfatico dove normalmente ha luogo la
maturazione dei linfociti B. La trasformazione neoplastica, quindi, riguarda il momento nel
quale i linfociti durante la maturazione arrivano al mantello.

Mentre la patologia precedente poteva affliggere indistintamente il giovane e l’adulto qui


parliamo di una patologia prevalentemente dell’adulto (over 50).

Sotto il profilo clinico c’è splenomegalia e linfoadenomegalia. Eventuali localizzazioni


gastroenteriche devono essere sempre prese in considerazione. In buona percentuale di
casi questo linfoma può ‘leucemizzare’: le cellule del linfoma le potremmo trovare anche nel
sangue periferico e nel midollo, dove avrà preso il controllo dell’emopoiesi (tanto che il
paziente potrà presentarsi con anemia, piastrinopenia etc.). Quando ciò accade posso
affermare che il linfoma è leucemizzante: la patologia ha preso il controllo anche
dell’emopoiesi.

La diagnosi ovviamente è istologica tramite biopsia linfonodale. Se, invece, devo andare
a caratterizzate la malattia leucemizzata si potrà notare che essa è caratterizzata da cellule
neoplastiche del linfoma mantellare con espressione del CD5 (come nella LLC). In questo
caso io dovrò fare diagnosi differenziale con la Leucemia Linfatica Cronica tramite indagini
dell’immunofenotipo in citofluorimetria (riscontrerò che il Linfoma Mantellare sarà
CD23 o CD200 negativo, mentre la Leucemia sarà CD23+ CD200+).
Il Linfoma Mantellare può presentare una forma ‘classica’, e una forma ‘trasformata’ che
invece avrà carattere di ulteriore malignità più spesso esordendo già con una forma
leucemizzante.

Nel tempo, infatti, la patologia può peggiorare ad una forma blastoide, in quanto
l’aumentata proliferazione determinato dall’overespressione della ciclina D1 favorisce
mutazioni geniche a cui correla l’evoluzione aggressiva della malattia.

→Patogenesi
Il linfoma mantellare si sviluppa a causa di una traslocazione t(11;14)(q13;q32), che vede
protagonista il gene della ciclina D1, proteina coinvolta nella regolazione del ciclo cellulare.
In questo caso, il gene si giustappone a quello che codifica per le catene pesanti delle
immunoglobuline; queste, nei linfociti, sono fisiologicamente iperespresse: per questo
motivo, a causa della traslocazione in situ, si verifica una iperespressione della ciclina
D1. Questo conduce a una eccessiva regolazione negativa dell’apoptosi, responsabile di
una espansione proporzionale delle cellule.
Come regola generale quando si parla di un riarrangiamento cromosomico nel cromosoma
14 a livello del braccio lungo (14 q3.2) con molta probabilità si sta guardando il referto o di
un Linfoma o di un Mieloma. Quando c’è riarrangiamento del cromosoma 14 non avviene
la formazione di un gene di fusione come avviene nelle leucemie acute, ma
semplicemente si verifica una riattivazione della regione non trascritta che verrà over
espressa (generalmente questa regione codifica per la Ciclina D1).

Linfoma di Burkitt
E’ un linfoma aggressivo che colpisce dalle nostre parti pazienti molto giovani (anche
pazienti anziani) ed è sotto il profilo biologico caratterizzato dalla traslocazione 8-14
(evidenziabile al cariotipo o con la FISH, o con un eventuale biologia molecolare), che
conduce all’avvicinamento del gene MYC alla regione IgH che è la regione sul braccio
lungo del cromosoma 14 che codifica per le catene pesanti delle immunoglobuline. A
fronte di questo riarrangiamento MYC viene iperespresso e determina la trasformazione
neoplastica. Possiamo avere anche un riarrangiamento di MYC, meno spesso, con il
cromosoma 2 dove si trovano le regioni che codificano per le catene leggere delle Ig.

Istologicamente questo linfoma è stato descritto come un ‘cielo stellato’, perché ci sono
dei macrofagi in attività, chiari e rappresentanti le stelle, che si intercalano su uno sfondo di
infiltrato linfoide blu (importante rappresentanza del nucleo). È possibile distinguere due
forme del Burkitt:

1. una endemica, legata ad infezione del virus Epstein Barr che colpisce pazienti molto
molto giovani (rara nei nostri territori)
2. una sporadica tipicamente nostrana, che interessa più fasce di età. Questa forma
può leucemizzare ed essere identificata sia nel midollo che nel sangue periferico.
Osservando le cellule linfomatose appaiono come grosse cellule che hanno un
nucleo molto grande, un citoplasma molto basofilo ma soprattutto ricco di vacuoli
(probabilmente un tentativo non riuscito di Ig).

Ricapitolazione linfomi aggressivi


Nei linfomi aggressivi ricordiamo:

1. Linfomi diffuso a Grandi Cellule che rappresenta la forma più frequente. Esiste una
distinzione di almeno 2 tipi di linfomi in questa categoria, con una prognosi differente.
Ci sono alterazioni di più geni (BCL 6, BCL2, MYC). Sono abbastanza frequenti.
2. I Linfomi Mantellari sono più rari rispetto al linfoma diffuso a grandi cellule. Non
sempre ma spesso a questi linfomi è associata una traslocazione 11-14q3.2. Nei
linfomi mantellari è anche frequente l’interessamento gastro-enterico. Mentre nei
Linfomi a Grandi Cellule la prognosi dipendeva dalla cellula d’origine, nel linfoma
mantellare la prognosi è sempre severa a causa della carenza di farmaci efficaci.
3. I Linfomi di Burkitt nelle sue 2 forme, di cui a noi interessa quella sporadica che
può essere associata ad INFEZIONE DI HIV (immunosoppressione determina ridotto
controllo immunologico sui cloni neoplastici) ma non sempre. Una caratteristica
clinica di questo linfoma sono le masse BULKY, voluminose masse linfonodali che
indicano una malattia con cinetica cellulare elevata. Sono linfomi tipicamente
associati a traslocazione 8-14.

Introduzione linfomi indolenti, non aggressivi


Per quanto riguarda i linfomi indolenti in linea generale il paziente arriva alla nostra
attenzione senza criticità, la malattia generalmente è già molto diffusa.

1. Il soggetto può avere dolori addominali, mancanza di appetito, alterazioni


dell’assorbimento dei nutrienti, febbre ed infezioni.
2. La caratteristica di questi linfomi è di rispondere bene alle terapie ma tendono a
ripresentarsi.
3. Sono caratterizzati anche da fenomeni di disreattività immunologica, patologie
autoimmuni come la frequente anemia emolitica, con produzione di Ig alterate che
attaccheranno e liseranno i GR.

Linfoma follicolare (CD20+ CD10+)


Il linfoma indolente più frequente è il linfoma follicolare. Esso è il più frequente tra i linfomi
NH (rappresenta il 15-20% di tutti i linfomi), seguito dal diffuso a grandi cellule. Esso è
spesso indolente all’esordio, motivo per cui viene di solito diagnosticato già in fase avanzata.
Il paziente può presentarsi dal medico perché ha dolori, o infezioni a carattere recidivante,
quindi sintomi generici, e la diagnosi può essere solo istologica.

E’ una patologia dell’adulto caratterizzata da una traslocazione non sempre presente


(14.18). Cosa c’è sul 18? BCL-2, che verrà quindi overespresso determinando una
protezione dalla apoptosi. Esso viene giustapposto alla regione enhancer delle Ig
provocando un aumento dell’espressione di questa proteina antiapoptotica. La
traslocazione 14.18 può essere presente anche nell’individuo normale. Ci sono dei
riarrangiamenti cromosomici che possiamo avere che rappresentano un difetto del controllo
del sistema immunitario, o comunque dei sistemi di controllo che si occupano di rimuovere
cellule che portano questi errori: l’unico dato certo è che in questi individui la traslocazione
non è associata al linfoma follicolare.

Il linfoma follicolare è a basso grado di malignità, i linfociti trasformati sono quelli del centro
germinativo, e quindi quando crescono riproducono la struttura del follicolo. Dal punto di
vista istologico sono individuabili centrociti o centroblastici, linfociti più piccoli o più
grandi rispettivamente.

Tale patologia risponde alle terapie, anche a lungo. Il problema, al massimo, è


rappresentato dalle recidive, per quanto in genere le recidive sono molto tardive. Nel
linfoma follicolare abbiamo uno strumento che si chiama FLIPI (Follicular Lymphoma
International Prognostic Index) con cui facciamo una stima secondo punteggio della
sopravvivenza del paziente. Esso genera un punteggio a partire da dati di laboratorio e
della malattia del paziente. Ci sono pazienti che posso anche non trattare, secondo il
meccanismo del watch & wait.
E’ stato dimostrato che aggredire un linfoma follicolare di piccole dimensioni non dà
vantaggi rispetto a non intervenire, pertanto si rischia solo di indurre nel paziente una inutile
tossicità farmacologica. Si può intervenire anche con la radioterapia nel caso di lesioni
localizzate e di certi distretti corporei che possono facilmente essere aggrediti dalla
radioterapia; per tutti gli altri si usa la chemio-immunoterapia.

Linfoma marginale

Origina dalla trasformazione neoplastica dei linfociti della zona marginale, una delle zone
più periferiche della maturazione follicolare. Una caratteristica dei linfomi marginali è quella
di riguardare milza e MALT (MALT-oma). Esiste una forte possibilità, quindi, che il linfoma
marginale possa riguardare una sede extralinfonodale, quindi un altro tessuto o organo.
Posso avere però anche una forma linfonodale.

Un linfoma marginale con interessamento splenico determinerà splenomegalia e linfociti


neoplastici che presentano dei prolungamenti citoplasmatici come nella leucemia a cellule
capellute, che entrerà quindi in diagnostica differenziale. Nel linfoma splenico questi linfociti
subiscono una trasformazione neoplastica, diventano villosi e quindi simili ai linfociti della
leucemia a cellule capellute. La diagnostica differenziale si baserà sulla citofluorimetria,
in modo da valutare l’assetto antigenico della cellula e vedere se è coerente con una
patologia di questo tipo. La forma splenica può leucemizzare e finire nel sangue periferico
e midollo.

Linfoma gastrico

Il linfoma gastrico nella maggior parte dei casi nasce dalla trasformazione neoplastica della
zona marginale del MALT ma può essere raramente anche un linfoma diffuso a grandi
cellule. La progressione neoplastica di quest’ultimo fa si che il tessuto gastrico si deteriori
più facilmente con ulcere, sanguinamenti, sintomi più importanti, etc ; se il linfoma è
indolente la sintomatologia è sovrapponibile a malattie non neoplastiche dello stomaco. La
sintomatologia quindi è definibile ad alterazioni della funzione gastrica.

L’ecografia (eco-endoscopia) ci consente di vedere l’interessamento della parete gastrica,


il grado, il profilo, le caratteristiche. La diagnosi sarà fatta con l’analisi istologica del
tessuto.
E’ stabilita l’associazione tra la stimolazione infiammatoria cronica da H.Pylori e la
trasformazione neoplastica. Si avrà accumulo di ROS in seguito all’ infiammazione, che
eserciteranno un danno sul DNA delle cellule, che subirà una traslocazione 11-18 classica
in questo tipo di linfoma, che porta alla deregolazione di alcuni geni che sotto il profilo
funzionale si traducono in una iperattivazione dell’NFKB.

SI è visto che in alcuni pazienti affetti da infezione da Helicobacter, la completa eradicazione


dell’infezione ha determinato anche la scomparsa del linfoma, con semplice antibiotico.
Ovviamente non tutti i pazienti affetti da Helicobacter avranno un linfoma gastrico, si tratta
di una complicanza a lungo termine.

Approccio terapeutico
La maggior parte di queste malattie viene trattata con lo stesso protocollo chemioterapico
con un anticorpo monoclonale, nella maggior parte dei casi un anti-CD20.

Posso avere anticorpi che risvegliano l’espressione immunitaria, innescando una


citotossicità mediata da cellule effettrici del sistema immunitario e complemento;
Oppure, l’anticorpo uccide direttamente la cellula perché coniugato con un farmaco
radioattivo, e parlo di anticorpi radio-coniugati. La radiazione potrà arrivare anche su
altre cellule neoplastiche non legate dall’ anticorpo direttamente (effetto a fuoco
incrociato).

L’ anticorpo più utilizzato è il Rituximab, ha cambiato radicalmente la prognosi dei pazienti


affetti da linfomi non-Hodgkin, non sappiamo con certezza come faccia a distruggere i
linfociti neoplastici, ma segue sicuramente i meccanismi:

- Trasmette segnali di apoptosi


- Lisi cellulare complemento-mediata (CDC)
- Citotossicità cellulare anticorpo-mediato (ADCC)
- Effetto “vaccinale” ritardato

Genera anche un altro fenomeno, l’effetto vaccinale ritardato. Si è visto che i pazienti che
hanno nel loro protocollo terapeutico questo anticorpo, avevano lunghi periodi di remissione
della malattia anche quando non facevano l’anticorpo, come se la terapia avesse una sorta
di effetto protettivo, non lunghissimo ma comunque prolungato. Tale protezione è
probabilmente legata al fatto che nel momento in cui l’ anticorpo va ad innescare uno dei
meccanismi suddetti alla base della distruzione della cellula neoplastica, ad esempio
l’intervento della prima cellula effettrice, che va a fagocitare la cellula bersagliata dall’
anticorpo e restituisce i prodotti di digestione della cellula distrutta e li presenta a una classe
di linfociti T citotossici che saranno temporaneamente addestrati a riconoscere altre cellule
linfomatose. Questo sistema funziona soprattutto se la malattia si ripresenta in piccole
quantità.
Un altro tipo di anticorpo monoclonale sono gli anticorpi bispecifici usati soprattutto nelle
leucemie acute linfoblastiche. Gli anticorpi sono specifici per due target: uno la cellula
neoplastica, oppure no, e l’altro è un sito specifico che riguarda una cellula del sistema
immunitario. Gli anticorpi bispecifici di questo tipo hanno lo scopo di costringere le cellule
del nostro sistema immunitario ad avvicinarsi e ad interagire con le cellule neoplastiche, e
a fronte di questa costrizione si innesca un processo di distruzione delle cellule
neoplastiche. Quindi si sfrutta un nuovo concetto terapeutico che forza un sistema
immunitario pigro, cioè che non è nelle condizioni di lavorare efficacemente, e tenta di
sforzare quelle capacità del sistema immunitario che sono ancora conservate.

Il primo di questi anticorpi si chiama Blinatumomab (riguardo ai nomi dei farmaci,


solitamente quelli che terminano con MAB sono anticorpi monoclonali) e nella sua struttura
possiede una porzione che riconosce l’anti-CD3 (è l’antigene che normalmente viene
espresso dai linfociti T) e una porzione che riconosce l’anti-CD19 (è l’antigene che nel caso
della leucemia acuta linfoblastica viene espresso dalle cellule leucemiche ) e poi in mezzo
c’è una striscetta detta linker, costruita artificialmente e che mette in comunicazione queste
due regioni. Quindi questo anticorpo monoclonale raggiunge la cellula neoplastica,
riconosce il CD19 ma al contempo anche il CD3, e a fronte di questo avvicinamento viene
attivato il linfocita T con conseguente non solo distruzione della cellula neoplastica, ma
soprattutto attivazione delle altre cellule T. Nel momento in cui viene attivata la prima questa
emette sostanze che permettono l’attivazione anche delle altre cellule T nelle vicinanze.
Questa tecnologia, quindi, va non solo ad attaccare la cellula neoplastica, bensì attiva il
sistema immunitario accompagnandolo lì dove ci sono le cellule bersaglio.
Gammapatia monoclonale MGUS
Prima di trattare il mieloma multiplo dobbiamo parlare di un’altra condizione che non
necessariamente rappresenta una patologia ma che si pensa possa rappresentare, in una
piccola percentuale di casi, un passaggio obbligato della trasformazione neoplastica
della cellula mielomatosa: la gammopatia monoclonale ha un significato indeterminato,
cosa significa? Il termine gammopatia monoclonale vuol dire che sostanzialmente a un certo
punto nel nostro organismo vengono prodotte delle gamma globuline, quindi degli anticorpi
monoclonali, derivanti da un unico clone di cellule B. ll motivo per cui ciò accade non è noto;
emerge un clone che produce una quantità maggiore di una specifica immunoglobulina.
Tale condizione può essere messa in evidenza tramite una elettroforesi sierica delle
proteine.

Tramite questo esame otteniamo un tracciato elettroforetico diviso in bande, ognuna delle
quali rappresenta una certa categoria di proteine con diverse caratteristiche fisico e
chimiche.. Normalmente la regione gamma (ultima banda, quella delle immunoglobuline)
del tracciato elettroforetico presenta una curva con una base ampia, e non è molto alta.
Quando invece c’è una situazione di gammapatia monoclonale, la curva presenta una base
stretta e presenta un picco molto alto simile a quello della banda dell’albumina.

Perché questa condizione ha un significato clinico incerto? Perché nella maggior parte dei
casi questa evidenza laboratoristica non corrisponde a un reale fenotipico patologico.

Quando si parla di gammopatia monoclonale? Come la distinguiamo dal mieloma? Per


distinguerla da altre circostanze simili dobbiamo quantificare l’immunoglobulina
monoclonale prodotta (essa prende il nome di COMPONENTE MONOCLONALE). La
componente monoclonale viene quantificata mediante un altro esame di laboratorio che è
rappresentato dall’immunofissazione. L’immunofissazione in generale può riguardare il
siero o le urine; con l’immunofissazione, oltre ad avere la caratterizzazione, cioè capire
quale tipo di immunoglobulina viene prodotta in eccesso, si capisce quanta effettivamente
ne viene prodotta.

Per valori inferiori a 3g siamo nella circostanza di poter parlare di gammapatia


monoclonale a significato indeterminato. Tuttavia, questi valori quantitativi possono non
essere sufficienti, perché per fare diagnosi differenziale con il mieloma abbiamo bisogno di
altre informazioni che vedremo in seguito.

I pazienti con una gammapatia monoclonale sono soprattutto pazienti anziani; è possibile
trovarla anche in pazienti più giovani ma con comorbilità su base immunologica.

La maggior parte di questi pazienti, con gammapatia monoclonale, non ha un alto rischio di
sviluppare una neoplasia, anzi generalmente la possibilità che un gammapatia monoclonale
diventi un mieloma è pari all’1% per anno. La componente monoclonale può riguardare tutte
le immunoglobuline, più spesso riguarda la immunoglobulina G, A e M. Oggi ci sono degli
studi (ancora di ricerca, non basati su dati clinici) che affermano che nel lungo periodo i
pazienti che hanno una gammopatia monoclonale di questo tipo possono avere più problemi
(del tipo osteoporosi, infezioni, tumori, etc.) rispetto a chi non presenta tale condizione.

Poi possiamo avere della gammopatie monoclonali che sono associate a delle situazioni
cliniche, ad esempio:

- Gammapatia monoclonale a significato renale


- Gammapatia monoclonale a significato osseo
- Gammapatia monoclonale a significato neurologico o dermopatico
Quindi posso avere il quadro della gammapatia monoclonale, nel contesto di un paziente
che ha anche altri problemi; mentre per alcune situazioni (come quella renale) tale
correlazione è dimostrata, per altre è in fase sperimentale.

Mieloma multiplo

Il mieloma multiplo rappresenta uno scenario totalmente diverso rispetto a quello


precedente.
Il paziente col mieloma multiplo si fa l’elettroforesi sierica delle proteine e scopre di avere
un picco monoclonale. Questa quantità potrebbe essere più alta dei 3 gr che abbiamo visto
(si quantifica con l’immunofissazione del siero o delle urine), però ancora il fatto di
superare la soglia dei 3 gr non è sufficiente per dire che il paziente ha un mieloma multiplo.

Il paziente che ha il mieloma va dal medico per lo più perché presenta (1) dolori ossei,
importanti, che possono riguardare qualsiasi distretto corporeo, possono tradursi anche in
lesioni ossee (crolli vertebrali, fratture spontanee o conseguenti ad incidenti non tali da
poter determinare una frattura), tant’è che poi questa sintomatologia dolorosa regredisce
con molta difficoltà con i normali antidolorifici. Il paziente può anche avere (2)) infezioni
recidivanti, che non passano (con l’antibiotico la febbre scende ma dopo due giorni ritorna):
la neoplasia riguarda le cellule B, ed in particolare l’ultima fase della maturazione delle
cellule B, quindi sono cellule che non sono capaci di produrre anticorpi efficienti. Inoltre, il
paziente può anche avere (3) problemi legati all’emocromo (anemia, piastrinopenia
eccetera), perché nel midollo osseo crescono le cellule neoplastiche del mieloma, oppure
può accadere che (4) la componente monoclonale in eccesso vada a finire nel filtro renale
determinando un’insufficienza renale (nefropatia mielomatosa).

In seguito, quindi, all’evidenza di una serie di sintomi, parte l’indicazione per una serie di
esami.

Facciamo l’elettroforesi delle proteine e troviamo il picco monoclonale, andiamo a fare


l’immunofissazione e vediamo che quantificando abbiamo più di 3 gr. A questo punto
scatta l’allarme per fare una diagnosi differenziale con ciò che è simile a questa situazione:
la componente monoclonale a significato indeterminato (MGUS).

Dobbiamo, quindi, cercare le plasmacellule: nel mieloma lo stato di differenziazione si


blocca al livello delle plasmacellule, nel midollo osseo, quindi la cellula che viene trasformata
è la plasmacellula, che conserva la sua morfologia, ma ne viene alterata del tutto la sua
funzione. Quindi nel midollo osseo ci saranno tantissime di queste plasmacellule
(normalmente invece queste sono poche, in una percentuale inferiore al 5%). Con un ago
aspirato midollare ed una biopsia osteomidollare vedo quante plasmacellule sono
presenti: se queste superano il 10% allora devo tenere in conto la possibilità che sia un
mieloma, se sono inferiori al 10% sono in quel range in cui ancora il mieloma non c’è.
Poi devo dimostrare l'assenza dei sintomi e segni di CRAB, un acronimo che sta ad indicare:
calcemia, insufficienza renale, anemia e lesioni osteolitiche. Cioè se il paziente ha uno
di questi segni posso ipotizzare la presenza di un mieloma, se non c’è nessuno di questi
segni allora posso pensare ad un’altra cosa.

La calcemia aumenta per la presenza di erosioni ossee, l’insufficienza renale è


determinata sia dalla stessa ipercalcemia che dai prodotti che le plasmacellule in questa
circostanza realizzano, compresa la componente monoclonale, che va a danneggiare il
rene. L’anemia risulta da un’anomala crescita plasmacellulare nel midollo che impedisce
una normale emopoiesi. Poi le lesioni osteolitiche abbiamo detto sono un elemento
fondamentale di questa patologia. Una volta che sono andato a vedere la componente
monoclonale, quindi, devo andare a contare le plasmacellule ed a cercare i segni CRAB:

• se appunto le componenti monoclonali sono sopra i 3 gr, ho uno dei segni CRAB e
le plasmacellule sono sopra il 10% faccio diagnosi di mieloma;
• se la componente monoclonale è sotto i 3 gr, non ho i segni CRAB e le plasmacellule
sono sotto il 10% allora si parla di MGUS;
• è presente anche una situazione intermedia in cui la componente monoclonale è
sopra i 3 gr, non ho i CRAB, ma le plasmacellule sono superiori al 10 %: in questo
caso si parla di “mieloma multiplo asintomatico”, cioè c'è la malattia, il mieloma,
ma è quiescente, dorme (smoldering multiple myeloma, SMM). Quindi
sostanzialmente rispetto alla componente monoclonale la differenza forte la fa la
presenza o assenza dei sintomi CRAB, se sono presenti avrete un mieloma, rispetto
alla percentuale di plasmacellule lo smoldering è più del 10% plasmacellule ma fino
al 17%, il mieloma è oltre il 17%, ma se ci sono i sintomi CRAB è sempre mieloma
(anche se ha il 15%).

Questa è la situazione di esami di laboratorio rispetto al fenotipo che si realizza. Quando


non sappiamo se il paziente ha una MGUS o un mieloma multiplo o un mieloma multiplo
asintomatico dobbiamo andare a cercare tutte le cose che abbiamo detto, comprese le
lesioni ossee, che cercheremo con la radiografia o meglio ancora con la TAC.

Poi faremo una serie di esami di laboratorio che riguardano la calcemia, l’emocromo, i
parametri di funzionalità renale, etc, tutto ciò che ci serve per fare diagnosi, la biopsia
osteomidollare, così come l’aspirato osteomidollare.

Un altro parametro che possiamo usare per fare non tanto la diagnosi ma per graduare
(anche per fare diagnosi in realtà) rispetto a queste tre entità sono le catene leggere libere
nel siero. La sintesi compiuta delle immunoglobuline è derivata dall’assemblaggio delle
catene pesanti e leggere: nel processo del mieloma ma anche in altre patologie ci può
essere uno sbilanciamento rispetto alla produzione di queste catene leggere, queste
possono essere prodotte in eccesso, e questo eccesso posso misurarlo nel plasma: questo
dato posso utilizzarlo nella diagnosi, ma devo tener presente che questa alterata
produzione può anche essere presente in altre patologie, come nelle infezioni, nelle
patologie renali, quindi questo esame va contestualizzato, va fatto dopo tutti gli altri, non
può essere fatto da solo.

Nel mieloma le plasmacellule mielomatose crescono, si moltiplicano nel midollo (ma non
solo perché posso avere anche manifestazioni della malattia fuori dal midollo, è un fatto
raro ma che ci può anche essere): se ho la proliferazione e la trasformazione di cellule che
si occupano della produzione di immunoglobuline è chiaro che ciò che sarà compromesso
è il sistema immunitario, quindi i pazienti saranno bersagliati da infezioni, avranno una
distruzione ossea e quindi segni di dolore e crolli vertebrali; conseguentemente anche
insufficienza renale per ipercalcemia, e per l’aumentata quota di proteina monoclonale
gestita dal filtro renale. Possono anche esserci difetti della coagulazione per aumento
della componente monoclonale nel plasma, che crea problemi ai fattori della coagulazione,
quindi questi pazienti avranno una facilità dei fatti emorragici; l’accumulo di componenti
monoclonali mi danno anche neuropatia (alterazioni nel processo di sintesi di mielina).
Quindi si innesca, a partire da una trasformazione neoplastica del midollo osseo, un circuito
di attività patologiche della cellula mielomatosa che esce dai confini emopoietici e che dà il
segno clinico di sé anche con altre insufficienze d’organo.
Sotto il profilo clinico osservando le lesioni ossee queste sono caratterizzate da un
caratteristico aspetto osteolitico: radiologicamente queste lesioni appaiono come puntini,
buchini, che posso avere in qualsiasi distretto osso, anche cranico, e che sono abbastanza
tipiche di mieloma. È possibile trovarle anche in altre patologie, per quanto la più
caratteristicamente associata ad esse è il mieloma. Quindi si determina aumentata fragilità
dell’osso fino alla sua distruzione, al crollo della struttura ossea, liberazione di calcio, sintomi
quindi legati all’ipercalcemia (nausea, vomito, stato confusionale), compresa
l’insufficienza renale. Quindi il paziente può arrivare alla nostra attenzione disorientato
rispetto all’ambiente, al tempo, a se stesso. Le lesioni ossee sono la parte più importante
dei sintomi del paziente, con dolore.

La cellula neoplastica mielomatosa comincia a produrre una serie di citochine. Si faccia,


prima, una premessa: la trasformazione neoplastica non è solo della cellula, ma di tutto il
microambiente, e questo rende la patologia una patologia al momento irriducibile, perché
dobbiamo lottare contro le cellule ed anche l'ambiente in cui vivono le plasmacellule. La
plasmacellula mielomatosa subisce una trasformazione e questa a sua volta trasforma il
microambiente a sua immagine e somiglianza.

1. Essa comincia a produrre l'interleuchina, l’IL-6, insieme ad altre citochine, che


promuove a sua volta l’attivazione, tramite l’attivazione di fattori di trascrizione, di
un meccanismo che garantisce alle cellule mielomatose l’aumentata sopravvivenza
e la proliferazione. La cellula mielomatosa produce IL-6 e ne riceve essa stessa
beneficio.
2. Anche il TNF-alfa è una citochina molto importante perché insieme all’IL-6 regola
l’emivita del fattore di trascrizione nfKB (nuclear factor KB). Esso è una proteina che
in queste circostanze, cioè all’aumentare di interleuchina 6 e di TNF-alfa, viene
prodotto in grandi quantità ed attivato passa dal citoplasma nel nucleo ove attiva un
programma di trascrizione favorendo l’espressione di geni che garantiscono la
sopravvivenza della cellula mielomatosa.
3. Un’altra molecola molto importante è il RANK-L. Il RANK è un recettore, che attiva
nfKB, che si trova sulla superficie degli osteoclasti. Nel mieloma viene prodotta
una grande quantità di RANK-L, che attiva RANK che, una volta attivato, attiva il
nfKB. Questo RANK-L può essere prodotto sia dalle cellule mielomatose che da
altre cellule quali cellule stromali del midollo osseo ed osteoblasti. L’attivazione
di RANK determina anche, oltre all’attivazione di nfKB sotto il profilo molecolare, sul
profilo pratico, l’attivazione osteoclastica. Ciò favorisce l’attivazione del
rimaneggiamento osseo nel senso della distruzione, conducendo alle erosioni
ossee.
RANK è espresso quindi soprattutto sugli osteoclasti, che quindi vengono attivati.
Fisiologicamente RANK-L è anche prodotto ed espresso dagli osteoblasti e dai
linfociti T, laddove nel mieloma è prodotto dalle cellule mutate in gran quantità.
Quindi fisiologicamente se l’osteoclasta dovesse essere attivato, l’attivazione,
l’interazione RANK-RANK-L, sarebbe condivisa con l’osteoblasto, quindi c’è un
equilibrio tra sintesi e distruzione dell’osso a seconda delle necessità. In tal caso
invece RANK-L promuove la differenziazione osteoclastica ed impedisce
l’apoptosi degli osteoclasti. Cioè fisiologicamente a fronte di questa interazione tra
osteoclasti ed osteoblasti tramite RANK e RANK-L segue una attivazione
osteoclastica. Nel mieloma questo equilibrio viene sovvertito perché, con l’aumentata
produzione di RANK-L, questa regolazione viene sbilanciata a favore dell’erosione
dell’osso.
Non solo le cellule mielomatose producono tanto RANK-L sia sulla loro superficie
che in forma libera, ma costringono anche le altre cellule del microambiente ad
esprimerlo in gran quantità. Quindi alla fine abbiamo un microambiente midollare
che subisce una totale deregolazione rispetto alla produzione di RANK-L.
Accanto a questo meccanismo noi fisiologicamente abbiamo un altro meccanismo
che controlla l’attività di RANK-L: questo meccanismo è fisiologicamente affidato
all’osteoprotegerina. Questa normalmente si lega a RANK-L e ne impedisce
l’interazione con RANK, impedendo così la distruzione dell’osso. Proprio per questo
le plasmacellule producono molecole che inibiscono la stimolazione e la produzione
di osteoprotegerina da parte di altre cellule; non solo, sulla loro superficie compare
l’antigene CD138 che lega l’osteoprotegerina e la distrugge. Quindi, nel mieloma
l’osteoprotegerina viene prodotta in quantità minori perché le cellule mielomatose
producono delle citochine e creano un microambiente citochinico che non favorisce
l’espressione di geni che regolano la produzione di osteoprotegerina: inoltre, sulle
plasmacellule mielomatose compaiono dei recettori in grado di distruggere
l’osteoprotegerina. Dunque, è chiaro che, alla luce di ciò, c’è uno sbilanciamento
totale a favore della distruzione dell’osso, il quale poi si traduce delle lesioni
osteolitiche che possono essere dappertutto in un paziente con mieloma (teca
cranica, ossa lunghe, etc.) e vanno contraddistinguere in maniera inequivocabile
questa malattia.

Un’altra cosa che molto spesso è associata al mieloma sono particolari alterazioni genetiche
e molecolari: il più delle volte, abbiamo delle alterazioni cromosomiche a livello del
cromosoma 14 nella regione in cui c’è il locus 3.2. Si tratta soprattutto di traslocazioni
che però non portano alla formazione di geni di fusione, ma semplicemente spostano alcune
aree cromosomiche vicino alla regione IGH (regione trascrizionalmente attiva); tuttavia,
possiamo anche avere delle delezioni o delle alterazioni numeriche riguardanti altri
cromosomi. In definitiva si può affermare che le lesioni genetiche e molecolari nel mieloma
sono molto abbondanti: il genoma della cellula mielomatosa è estremamente riarrangiabile.
La pericolosità del mieloma viene esacerbata inoltre se noi andiamo a considerare la
policlonalità di questa malattia. All’interno della popolazione cellulare mielomatosa, vi sono
varie famiglie di cellule neoplastiche e ciò rende ancora più complessa la lotta conto
questa malattia, in quanto essa recidiva facilmente, considerando che tolto di mezzo il
clone più rappresentato, ci sono gli altri pronti a entrare in scena.

Anche per il mieloma esiste una stadiazione, che ci serve più che altro a stabilire il rischio
e la prognosi e non a capire quanto è diffusa la malattia. Questa stadiazione prende in
considerazione soprattutto parametri di laboratorio.

Parlando invece della diagnosi differenziale, essa non è molto complicata perché riguarda
elementi che abbiamo già detto e che sono abbastanza precisi: per esempio, consideriamo
la plasmocitosi del midollo osseo, che non è una situazione molto frequente al di fuori del
mieloma, però ci può essere in altre condizioni (soprattutto nelle infezioni o in altri tumori).
Tuttavia, rispetto a queste circostanze possiamo documentare la policlonalità delle
plasmacellule tramite indagine citofluorimetrica.

Per quanto concerne la terapia questi pazienti purtroppo non possono guarire dalla loro
malattia, però sono disponibili molti farmaci che permettono di allungare la sopravvivenza.

• Le molecole farmacologiche chiave sono rappresentate dai derivati della


talidomide (es: lenalidomide, pomalidomide) che hanno un’attività
immunomodulante.
• Un altro farmaco da ricordare è il Bortezomib, che funge da inibitore del proteasoma
(il proteasoma è quella struttura all’interno della cellula deputata a degradare tutta
una serie di elementi cellulari e dunque ha lo scopo di mantenere giovane la cellula,
di non arricchirla di ROS e di poter riciclare i prodotti di degradazione). Questo
farmaco va a bloccare l’attività del proteasoma e impedisce la degradazione di tutti
quegli elementi deputati a degradare il nfKB (nuclear factor KB); di conseguenza,
l’emivita del nfKB si riduce, dato che viene allungata l’emivita di alcune proteine con
attività inibitoria nei confronti del nfKB stesso.
• Generalmente i pazienti al di sotto dei 65 anni, insieme alla terapia fanno anche un
autotrapianto: dopo aver risposto positivamente alla terapia farmacologica,
consolidano questo beneficio ottenuto dai farmaci con un autotrapianto. I pazienti che
invece hanno più di 65 anni fanno solamente la chemioterapia.
• Oggi, vengono inoltre utilizzati nella terapia degli anticorpi monoclonali, e tra questi
ricordiamo il Daratumumab il quale rappresenta un anticorpo anti-CD38 (esso
innesca la distruzione della cellula mielomatosa attraverso l’attivazione del
complemento, l’attivazione delle cellule effettrici del sistema immunitario e
l’attivazione dell’apoptosi).
• Un altro anticorpo monoclonale è l’Elotuzumab, che va a interagire con una proteina
situata sulle cellule NK detta SLAM-F7, determinando l’attivazione della cellula NK,
la quale poi si andrà a preoccupare di distruggere la cellula mielomatosa (è un
anticorpo che opera mirando al risveglio del sistema immunitario). Esso può (1)
attivare la cellula NK, (2) attivarla portandola vicino alla cellula mielomatosa.

Linfoma linfoplasmacitico o MACROGLOBULINEMIA DI WALDENSTRÖM

1. Il linfoma linfoplasmocitico è una condizione caratterizzata dalla proliferazione di una


categoria di cellule neoplastiche dette linfoplasmocitoidi (sono a metà tra i linfociti
e le plasmacellule). Questa trasformazione neoplastica comporta l’aumento di questa
componente cellulare nei linfonodi, che posso riconoscere attraverso la
caratterizzazione immunoistochimica e in istologia.
2. Questa patologia nella maggior parte dei casi è caratterizzata dall’alterazione di un
gene che si chiama Mib88 (esso assolve delle importanti funzioni nell’ambito della
regolazione dei meccanismi dell’immunità innata).
3. Quando questa trasformazione linfoplasmocitica è presente anche nel midollo
osseo, la malattia prende il nome di Macroglobulinemia di Waldenström. Questa
patologia, comunque, è caratterizzata (sia che parliamo della prima che della
seconda forma) di una gammopatia monoclonale di tipo IgM e il paziente con MW
ha spesso leucopenia, piastrinopenia, infezioni ricorrenti ed
epatosplenomegalia. Si tratta di una malattia rara ed è un linfoma quando riguarda
solo i linfonodi, mentre cambia nome se riguarda anche il midollo osseo. Le
caratteristiche sono però le stesse: c’è la mutazione del gene, la presenza della
componente monoclonale, in più se la malattia riguarda il midollo osseo ci sono dei
sintomi più accentuati.

TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI

Parliamo di trapianto di cellule staminali e non di midollo osseo perché come abbiamo già
detto le cellule staminali posso prenderle sia dal midollo che dal sangue periferico. Rispetto
alle sorgenti, cioè al materiale da trapiantare, possiamo prendere le cellule dal midollo
osseo, dal sangue periferico o dal cordone ombelicale.

Dal punto di vista del donatore noi abbiamo:

Ø Trapianto tra consanguinei (effettuato tra membri della stessa famiglia)

Ø Trapianto tra non consanguinei

Ø Autotrapianto (donatore e ricevente coincidono)

Il trapianto allogenico è quello che viene fatto tra due individui diversi (io posso avere un
famigliare che è più o meno simile a me da un punto di vista genetico oppure posso avere
un estraneo). Tuttavia, il trapianto allogenico deve rispettare la regola della compatibilità
del sistema HLA: il donatore e il ricevente devono essere simili, non uguali rispetto ad
alcuni antigeni del sistema HLA (non possono essere uguali perché nessuno di noi può
essere uguale a un altro individuo in termini di HLA).

Il trapianto singenico invece individua una fattispecie molto rara di trapianto, in cui il
donatore e il ricevente sono geneticamente uguali, dunque nel loro caso il sistema HLA è
lo stesso (non più simile). Questo è un trapianto che può avvenire solo in una situazione,
ovvero quella che si realizza tra i gemelli.

Nel trapianto autologo invece le cellule trapiantate sono le cellule del paziente, che
vengono prelevate quando il paziente non ha la malattia, dunque ha delle cellule staminali
che potrebbero essere buone per ricostruire la funzione emopoietica che è stata interrotta
dalla trasformazione neoplastica.

Ogni tipo di trapianto ha comunque un problema e/o un vantaggio:

1. Trapianto allogenico: è la soluzione generalmente più efficace e che si cerca di


fare maggiormente, però ci sono varie complicazioni, tra cui la mortalità. Se noi
consideriamo tutte le malattie oncoematologiche per cui è possibile fare un
trapianto allogenico, il 30% dei pazienti che fanno questo trapianto morirà. Il
grado di mortalità può dipendere da vari fattori come il Graft Versus Host
Disease (GVHD), ovvero “malattia da trapianto contro l’ospite”: nel momento in
cui io faccio un trapianto di questo tipo, sto andando a trapiantare delle cellule
staminali (tradotto in funzione, sto andando a trapiantare un sistema emopoietico
e un sistema immunitario), per cui il ricevente avrà un nuovo sistema immunitario,
il quale tuttavia si trova in un nuovo ambiente che non è il suo solito e che dunque
può riconoscere come non self e aggredire.
Altro problema è quello di trovare dei donatori compatibili: abbiamo detto che
nel trapianto allogenico è necessario avere una somiglianza in termini di HLA
rispetto ad un basso numero di antigeni HLA che noi andiamo a studiare; questo
sembra abbastanza facile, ma in realtà è molto complicato, perché se noi
usciamo fuori dal nostro nucleo famigliare, la possibilità di trovare questa
somiglianza è molto bassa (es: la possibilità di trovare un individuo che abbia
sei/dieci antigeni HLA come i nostri a Bari è quasi nulla, se lo cerchiamo in Puglia
o addirittura in tutto il Meridione è altrettanto impossibile). Per questo, esiste il
cosiddetto “registro dei donatori”: chi vuole donare cellule staminali, midollo
osseo, etc. si iscrive in questo registro che ha una copertura mondiale e in questa
maniera si amplifica la possibilità di trovare un donatore HLA compatibile per chi
ne ha bisogno.
2. Trapianto singenico: sembrerebbe una modalità migliore perché qui non c’è il
GVHD perché il donatore e il ricevente hanno lo stesso sistema HLA, quindi non
c’è la possibilità che il sistema immunitario non riconosca il self (esso si trova in
un individuo diverso ma comunque riconosce se stesso). Tuttavia, in tal caso
manca la Graft versus Leukemia (GvL): quando io faccio un trapianto di midollo
e lo faccio allogenico, abbiamo detto che il ricevente prende un nuovo sistema
immunitario che non ha mai incontrato le cellule neoplastiche, ma se le vede le
riconosce subito e le distrugge (come se fosse un vaccino). Questo fenomeno
viene detto appunto Graft versus Leukemia ed è il motivo per cui i trapianti
allogenici funzionano. Invece, nel trapianto singenico che viene fatto tra individui
uguali geneticamente, cioè tra gemelli, la GvL non c’è, ma non si è capito il motivo
della sua assenza: è probabile che il sistema immunitario abbia un difetto e non
sia in grado di svolgere la sua funzione. Se un gemello si ammala, vuol dire che
il suo sistema immunitario ha fallito; intanto, nel gemello sano, che ha lo stesso
sistema immunitario, non ci si aspetta che il suo sistema immunitario possa
riconoscere una cellula neoplastica e quindi trapiantato nel gemello malato non
funzionerà. Quindi nel trapianto singenico io non avrò la GVHD (perché gli
individui sono geneticamente uguali) ma non avrò neanche la GvL.
3. Trapianto autologo: non ci sarà la GVHD perché donatore e ricevente sono la
stessa persona, non avrò la GvL per lo stesso motivo, perché quello stesso
sistema immunitario è stato oggetto a trasformazione neoplastica. Tuttavia, avrò
il rischio aumentato di recidiva della malattia perché manca la GvL ma anche
perchè nelle cellule staminali che andrò a raccogliere dal sangue periferico e dal
midollo osseo del paziente, ci sarà sempre la possibilità che tra tutte quelle cellule
ci sia anche una sola cellula neoplastica capace di ricostituire la malattia.

Quindi, i punti più nodali del trapianto sono due:


-presenza della “Graft-versus-host disease”, che è una circostanza che troviamo solo nel
trapianto allogenico
-presenza della “Graft-versus Leukemia”, che troviamo anch’essa soltanto nel trapianto
allogenico.
Esse rappresentano rispettivamente lo svantaggio e il vantaggio di un trapianto

Ogni volta che noi facciamo un trapianto e utilizziamo cellule staminali midollari o
progenitori midollari e cellule del sangue periferico selezionando queste cellule
utilizzando markers come CD34, noi abbiamo bisogno di una quantità di cellule che sia
proporzionata alle dimensioni dell’individuo: questo per garantire la buona riuscita della
procedura del trapianto.
L’altro elemento importante del trapianto allogenico è l’assetto di istocompatibilità.
Abbiamo detto che il trapianto allogenico tiene in considerazione gli individui che non
possono essere uguali geneticamente ma devono essere simili. Questa somiglianza è
basata sulla condivisione di alcuni antigeni HLA. Gli antigeni HLA sono quasi tutti
rappresentati sulla superficie di molte cellule dell’organismo. Noi selezioniamo il donatore-
ricevente sulla base dell’affinità di una decina di questi antigeni e, se questa situazione
è possibile, quel tipo di donatore rappresenta un donatore ottimale. Ciò significa non che il
donatore sia uguale al ricevente ma è compatibile e che questa compatibilità può essere
relativa in quanto poi dietro c’è un’altra schiera di antigeni che non possono essere studiati
e che potrebbero essere la causa della Graft-versus-host disease.
Gli antigeni di istocompatibilità li ereditiamo dai nostri genitori e questi antigeni in termini
genetici li ereditiamo per blocchi cioè per aplotipi (siamo il risultato di un aplotipo paterno
e uno materno, l’insieme fa di noi delle persone uniche rispetto ai nostri genitori).
Nel trapianto allogenico noi prima selezioniamo il paziente che deve essere trapiantato.
Trapiantiamo il paziente che ha un problema onco-ematologico sostanzialmente per due
motivi:
- per avere la possibilità di utilizzare farmaci o radiazioni a un dosaggio tale da
essere sicuri di distruggere per sempre il suo compartimento staminale. Se
dopo questa operazione noi non potessimo fare il trapianto, il paziente morirà perché
la sua emopoiesi non si ripristinerà più da sola. Quindi utilizziamo l’allotrapianto per
poter agire pienamente con il meglio che abbiamo della terapia in termini di dosaggio,
per essere certi di riuscire a far fuori le cellule leucemiche/neoplastiche insieme però
all’emopoiesi. Quindi noi facciamo una maxichemioterapia, una maxiradioterapia che
si chiama terapia di condizionamento, a seguito della quale il paziente avrà un
periodo di circa 4 settimane durante il quale non avrà la possibilità di fare emopoiesi,
a meno che una volta che realizziamo questa cancellazione infondiamo le nuove
cellule staminali del donatore; queste cellule arriveranno alla cavità midollare e,
nell’arco di tempo di qualche settimana, cominciano a fare emopoiesi. Se tutto è
andato bene, è questo quello che accade. Se qualcosa va male, il paziente potrebbe
non recuperare l’emopoiesi per vari motivi.

Generalmente il trapianto di cellule staminali non si fa in pazienti che hanno più di 70 anni
e anche l’età del donatore non deve essere di molto in avanti con gli anni, perché il paziente
molto anziano ha una emopoiesi che per invecchiamento è meno performante. Ovviamente
il donatore deve essere selezionato in maniera precisa rispetto alla sua anamnesi
patologica, non deve avere malattie sessualmente trasmissibili, genetiche trasmissibili,
tumori etc.
Quindi facciamo l’infusione, e si possono realizzare cose buone ovvero l’attecchimento:
le cellule staminali raggiungono le cavità midollari, si insediano, stabiliscono rapporti con le
cellule stromali, cominciano a fare emopoiesi; oppure trovano le nicchie occupate da
cellule leucemiche o staminali, che non sono state eradicate dalla terapia di
condizionamento; oppure ci sono problemi nell’insediamento; oppure posso avere la
Graft-versus-host disease; oppure tutto può andar bene ma funziona per un periodo breve
di tempo e la malattia ricompare, perché una cellula neoplastica è sopravvissuta al
condizionamento e ha avuto bisogno di un tempo x per rigenerarsi e ricostituire
un’emopoiesi patologica.
Per le regole genetiche della trasmissione dei caratteri, la possibilità di trovare un individuo
che sia compatibile nei termini che noi abbiamo detto è maggiore nell’ambito del nucleo
familiare e questa probabilità si abbassa notevolmente al di fuori di esso ed è per questo
che noi cerchiamo i donatori con l’ausilio di registri mondiali, cioè un database in cui viene
raccolta la disponibilità e i caratteri genetici di tutti i donatori. Lì dove vi fosse la necessità di
uno specifico assetto HLA, quel donatore verrà contattato e gli verrà chiesto di confermare
o meno la disponibilità che aveva dato anche anni prima. L’assetto HLA viene ereditato
per blocchi materni e paterni, per aplotipi.

Graft-versus-host disease (malattia da trapianto contro l’ospite)


Quando facciamo un trapianto, facciamo una terapia di condizionamento, utilizziamo dei
farmaci a un dosaggio tale da cancellare l’attività emopoietica. Questi farmaci sono
chemioterapici, non agiscono in maniera elettiva contro le cellule tumorali o emopoietiche
ma colpiscono tutte le cellule che hanno la caratteristica di essere ciclanti cioè che
proliferano; quindi, insieme al tessuto emopoietico, verranno colpite le mucose: per questo
i pazienti che fanno la chemioterapia e soprattutto quella di condizionamento perdono i
capelli, hanno nausea, vomito, proprio perché c’è un arresto della crescita di tutti quei
compartimenti proliferanti, anche le cellule del fegato. Questi compartimenti hanno anche
un’altra caratteristica biologica, cioè sono ricchi sulla loro superficie di antigeni HLA.
Quindi terapia di condizionamento, arresto della crescita dei tessuti che sono ciclanti ed
esprimono elevati livelli di antigeni HLA. Quindi, quando questi tessuti vengono danneggiati
dalla terapia di condizionamento, vediamo perdita di capelli, nausea, vomito, transaminasi
che si alzano (questi valori di transaminasi ci dicono che c’è una sofferenza epatica e così
via).
Quando noi infondiamo le cellule staminali del donatore, infondiamo cellule CD34 positive
però, in realtà, insieme a queste cellule ci sono linfociti T del donatore, che non riusciamo
a selezionare in maniera propria ma nella mischia sfuggono. Questi linfociti T del
donatore, una volta che si trovano nel ricevente, percepiscono la sofferenza dei tessuti di
cui abbiamo detto. In che maniera? I tessuti, soffrendo, liberano citochine e, tra quelle
liberate, c’è l’IL-2 che richiama in quella sede i linfociti T che, studiando le mucose, si
accorgono che l’assetto HLA non è quello atteso e scatenano una risposta infiammatoria
contro quei tessuti. Quindi quei tessuti che prima erano stati danneggiati dai farmaci,
adesso sono danneggiati dai linfociti T del donatore e quindi libereranno ancora più citochine
(TNF e altre IL-), che richiameranno altre cellule infiammatorie in quella sede: si innesca la
malattia di Graft versus host. Come si traduce clinicamente questa malattia? I tessuti colpiti
sono cute, mucose, fegato, lo stesso midollo osseo: i pazienti avranno fenomeni
cutanei, avranno problemi nell’assorbimento intestinale e si tratta di complicazioni che
sono anche causa di morte dei pazienti.

La Graft-versus-host disease può essere acuta o cronica a seconda del tempo di latenza
rispetto al trapianto. Quindi 100 giorni acuta, 400 giorni cronica e interessa la maggior
parte dei pazienti che vengono trapiantati. È più probabile quanto è più grande la differenza
in termini di HLA tra paziente e donatore.
Quello che noi vediamo esternamente sono le lesioni cutanee, perché questi pazienti
presentano lesioni cutanee come papule, eritemi su tutto il corpo e queste lesioni possono
interessare tutto lo spessore della cute e possono rappresentare un pabulum per le
infezioni, perché questi pazienti ancora non hanno un sistema immunitario che li possa
mettere a riparo dalle infezioni.
Quindi si ha una situazione clinica molto delicata, per questo il trapianto allogenico di per sé
è una procedura che, in molte malattie onco-ematologiche, è fondamentale per salvare la
vita dei pazienti ma per la sua natura può essere l’innesco per una complicazione fatale.
Quindi lesioni di vario tipo, segno di una aggressione dei linfociti, sulle quali si possono
innescare processi infettivi. La cute perde la sua elasticità, integrità, le mucose lo stesso.
Il paziente può arrivare a insufficienza epatica, del tratto gastroenterico in toto e spesso
questi processi non sono reversibili. Cosa possiamo fare per questi pazienti? Due cose:
- Farmacologicamente, usando la ciclosporina: è un immunosoppressore che agisce
con due meccanismi in questo contesto. Da un lato inibisce la sintesi del recettore
per l’interleuchina sui linfociti T, dall’altro inibisce la sintesi/il rilascio di IL-2. Si ha
quindi un’interruzione del circuito dell’IL-2 che regola il richiamo delle cellule nei
tessuti sofferenti. Questa terapia funziona ma non ha un effetto duraturo nel tempo,
la sua efficacia terapeutica in alcuni casi tende ad estinguersi.
- Trapianto T-depleto: se il problema del trapianto è dato dalla presenza dei linfociti
T nel materiale che andiamo a dare al ricevente, allora, prima di infondere le
staminali, elimino i linfociti T, cioè faccio un’operazione precendente all’iniezione che
si preoccupa di eliminare i linfociti T e ciò si chiama trapianto T depleto.
Togliere i linfociti T dal materiale da trapiantare al ricevente, non è un’operazione
sicura perché (1) i linfociti T del donatore hanno la funzione di accompagnare le
cellule staminali alla nicchia, laddove avrebbero da sole difficoltà a raggiungerla e a
insediarsi. Inoltre, quando abbiamo parlato della Graft-versus Leukemia, cioè della
possibilità dopo il trapianto da parte del nuovo sistema immunitario di riconoscere
eventuali cellule neoplastiche, questo riconoscimento viene effettuato dai linfociti T
del donatore e quindi (2) il trapianto T depleto perde la possibilità della Graft-versus
leukemia. Un’altra circostanza era rappresentata dalle infezioni: ci sono delle
infezioni che possono essere, sotto il profilo cellulare, osteggiate solo dai linfociti. Il
paziente che fa il trapianto, prima di fare linfociti nuovi ci mette del tempo; se ha quelli
del donatore, è meglio perché, tramite questi, riesce a proteggersi. (3) Il paziente che
fa il trapianto T depleto è più esposto al rischio infettivo, alla morte per infezioni.
Quindi alla fine non avrò a che fare con la Graft-versus-host disease, ma avrò a che
fare con altri problemi; quindi questo trapianto T depleto non presenta la migliore
soluzione, ma un’alternativa.
Quale potrebbe essere una soluzione? Può essere rappresentata dai cosiddetti
linfociti ingegnerizzati: so che la Graft-versus-host disease è imputabile ai linfociti
T del donatore e allora, prima di darli a questo paziente, questi linfociti T li manipolo,
inserisco nel loro DNA un pezzo di DNA estraneo che codifica per una proteina virale,
cioè faccio una operazione di ingegneria genetica. Quindi il nuovo linfocita avrà sulla
sua superficie un recettore che normalmente non c’è ed è un recettore virale. Quindi
dò al paziente questi linfociti e, nel momento in cui dovesse comparire una Graft-
versus-host disease, io darò al paziente un antivirale che distruggerà tutti i
linfociti T. È una cosa che oggi si riesce a fare soprattutto nei trapianti pediatrici.
La difficoltà di questa operazione è che non si riesce a fare su tutti i linfociti, alcuni
non riescono ad essere modificati, sfuggono a quest’operazione.
Rigetto
Il rigetto qui è da intendersi come una difficoltà della cellula staminale a fare emopoiesi e
tale difficoltà dipende o dall’incapacità di insediarsi nelle nicchie emopoietiche, perché
non ci sono i linfociti T, perché le nicchie sono occupate da altre cellule o per altri motivi che
non sappiamo o perché le cellule durante l’homing si perdono e vanno in altri posti, oppure
l’emopoiesi non si riesce a realizzare a causa di una incompatibilità delle HLA molto
rappresentata che impedisce al nuovo tessuto di incominciare a fare emopoiesi; questa
incapacità è direttamente proporzionale alla diversità in termini HLA tra donatore e
ricevente.

Quindi considerate che, generalmente, l’emopoiesi comincia nel paziente circa dopo due
settimane dal trapianto e, per la normalizzazione delle funzioni immunitarie, ci vogliono
almeno 4 mesi e che devono passare circa 3 anni prima che il paziente diventi davvero
immunocompetente. Quindi questi pazienti, fino ad allora, vengono seguiti in ambulatorio,
monitorati rispetto alla GVHD, rispetto alla possibilità di avere infezioni, fanno profilassi
antibiotiche, antivirali, fanno dosaggi rispetto a sierologia virale.

Trapianto singenico, abbiamo già detto.

Trapianto delle cellule dal cordone


Anche nel cordone ombelicale ci sono cellule staminali ed è questo il motivo per cui, quando
una coppia sta per avere della prole, viene invitata a donare il cordone piuttosto che
conservarselo, che è una cosa totalmente inutile per vari motivi. Innanzitutto la legge italiana
impedisce di potersi conservare, a spese dello stato, il cordone (quindi se ve lo volete
conservare, dovete fare voi un investimento su questo cordone, dovete spendere circa 5000
euro per contattare una banca del cordone che in genere ha sede in Svizzera o Inghilterra,
poi questo cordone viene preso, spedito e non ne sapete più niente).
Le cellule staminali contenute nel cordone sono molto poche e abbiamo detto che, quando
devo fare un trapianto, devo avere un numero di cellule adeguato alla superficie corporea
dell’individuo. Quindi, in linea generale, dalle cellule che provengono da un cordone si riesce
a fare un trapianto per un bambino; per un adulto ci vogliono almeno due cordoni. Ci sono
dei vantaggi nell’usare cellule da cordone: queste cellule sono meno sensibili alle differenze
dell’HLA, sono più tollerate e tolleranti, quindi qui non c’è un ragionamento sull’assetto HLA
stringente che bisogna fare. Quindi oggi il tema della ricerca è: se io ho delle cellule staminali
anche dal cordone, come faccio a creare una banca di cellule staminali a partire da un solo
cordone? Qual è il segreto per amplificare le cellule staminali in laboratorio e, a partire da
un donatore, avere cellule staminali per tutti? Questo è uno dei temi della ricerca, quindi
trovare la ricetta magica per amplificare le cellule staminali del cordone e averle per tutti e
ottenere cellule capaci di raggiungere la nicchia, fare emopoiesi ecc, ma ad oggi ciò non è
possibile quindi dobbiamo utilizzare un cordone per un bambino e due per un adulto.

Trapianto aplo-identico
Abbiamo detto che uno dei problemi del trapianto allogenico è la compatibilità e la rarità
della compatibilità. Oggi questa circostanza è resa meno complicata dalla possibilità di fare
un trapianto aplo-identico: vuol dire che è sufficiente che io sia compatibile con un altro
individuo solo per metà, solo per un aplotipo rispetto agli antigeni HLA che abbiamo detto
prima e questo rende molto più semplice la ricerca. Sicuramente, nella mia famiglia c’è il
donatore che ha uno dei due aplotipi che possiedo e questo fatto ha reso il trapianto
allogenico molto più diffuso.
Qui resta sempre un problema immunologico, che si riesce a controllare andando a
intervenire su quella frazione linfocitaria che può essere responsabile della GVHD. Quindi
noi, ai pazienti che devono fare trapianto aplo-identico, diamo prima e dopo il trapianto, dei
farmaci che sono capaci di modulare la presenza e assenza di varie classi di linfociti.
Per esempio sono farmaci che aumentano i linfociti T regolatori (inibiscono il sistema
immunitario, lo addormentano) e riduciamo la quota dei T citotossici. Quindi, utilizzando
le caratteristiche genetiche dell’individuo aplo-identico ed intervenendo farmacologicamente
sul sistema immunitario, riusciamo a fare trapianti tra individui diversi semplificando la
procedura di ricerca del donatore. Con questo sistema oggi tutti possiamo fare il trapianto
allogenico, perché tutti abbiamo un donatore a partire dal nostro nucleo familiare. Capita
molto spesso che in un famiglia con dieci fratelli non ce ne sia nemmeno uno HLA
compatibile con il vecchio sistema; con la ricerca dell’aplo-identico ce ne sono a partire dai
genitori.

Poi ci sono le cellule NK: si pensa che se il donatore e il ricevente sono diversi rispetto alla
configurazione dei geni che codificano per i recettori KIR, la Graft-versus Leukemia sarà
migliore. Quindi quanto più diversi sono gli NK del donatore e del ricevente tanto migliore
sarà la prestazione rispetto alla Graft versus Leukemya.

Trapianto autologo
Vuol dire che donatore e paziente sono la stessa persona. Il paziente diventa donatore di
se stesso, nel momento in cui non ha più la malattia ematologica cioè quando ha una
remissione. Quindi, nel momento in cui ha una remissione, io cerco la malattia nel suo
midollo andando a cercare alterazioni cromosomiche, molecolari, utilizzando marker della
malattia. Se questo marker non c’è, raccolgo le sue cellule staminali, gli faccio la terapia di
condizionamento e gli restituisco le sue cellule. Questo fatto lo faccio soprattutto se non ho
la disponibilità di un donatore. Succede che, quando raccolgo le sue cellule staminali,
può capitare che, tra tutte queste cellule, ci possa essere una cellula neoplastica e, a partire
da questa, s’innesca il processo di recidiva della malattia. Quindi, in questo tipo di trapianto,
io non avrò il problema della Graft-versus-host disease ovviamente, ma non avrò neanche
la Graft-versus Leukemia, però la probabilità di recidiva della malattia sarà molto alta.

Car-T
L’ultima frontiera del trapianto sono le CAR-T cells.
Le CAR-T cells sono dei linfociti del paziente che vengono ingegnerizzati con la finalità di
costruire un recettore che in natura non esiste. Questo recettore deve avere delle priorità
che stabiliamo noi a priori, cioè deve essere non solo capace di riconoscere una cellula
neoplastica ma anche di attivarsi dopo il riconoscimento e, a fronte di questa attivazione, la
cellula deve avere una reazione, cioè distruggere la cellula neoplastica.
Ho bisogno di costruire un recettore con queste funzioni: riconosce, attiva e promuove
l’uccisione. Una volta che l’ho costruito, questa proteina verrà codificata dalla sequenza di
DNA e questa sequenza di DNA, io la prendo e la metto nel DNA dei linfociti del paziente.
Quindi questi linfociti nuovi saranno capaci di fare tutte le operazioni dette. Il problema è
che questa tecnica non va bene se la patologia riguarda i linfociti T, perché queste cellule
sono linfociti T. L’altro problema è: quanto vivono queste cellule nel paziente? Ancora non
si sa, probabilmente dipende dalla patologia, dall’età dell’individuo, dipende da un sacco di
variabili che non sappiamo. Quando porto i linfociti T nel mio laboratorio e li devo
trasformare, questa trasformazione non riesce in tutti i linfociti, in alcuni sì e in altri no e
quindi, anche il fatto che questa operazione riesca o meno, pesa molto sull’efficacia.
CAR-T sta per “chimeric antigen receptor T”, dove “chimerico” è un termine per dire che
è un recettore che non esiste in natura, costruito nel laboratorio e, a partire dalla
sequenza di DNA che inserisco nel genoma della cellula, quel DNA potrà codificare anche
per questa proteina. Questa operazione la faccio tramite un virus non pericoloso che porta
questo pezzettino di DNA, lo integra nel DNA della cellula T e, a partire da questa
integrazione, io avrò l’espressione del recettore sulla cellula T.
Questa procedura non viene largamente applicata per tutta una serie di fattori: poter
realizzare queste cellule non è semplice, lo devono fare laboratori che hanno tecnologie per
farlo e questa non è una situazione rappresentata in nessuna parte del mondo. Anche il
paziente che fa questo tipo di trapianto deve essere seguito in centri attrezzati, perché ci
possono essere complicazioni inusuali e importanti che devono essere risolte; quindi deve
essere una struttura che deve avere la neurologia, la rianimazione, l’ematologo che deve
avere esperienza nei trapianti. Una terapia del genere ha dei costi attualmente non
sostenibili per nessun paese, stiamo parlando di costi molto importanti e poi considerate
che l’infusione non viene fatta una sola volta ma a cicli però, in questo momento, la difficoltà
maggiore non è il costo ma la tecnologia.
Oggi si sta cercando di utilizzare le cellule non del donatore ma di un altro individuo oppure
addestrare cellule diverse dai linfociti ad esempio i macrofagi, quindi si sta allargando il
fronte di azione delle terapie che in questo momento sembrano funzionare benissimo ma
solo nei tumori ematologici e non nelle neoplasie solide, dove al momento ci sono dei
problemi da risolvere. Queste terapie funzionano anche nei linfomi (che possiamo
categorizzarle come neoplasie solide rispetto a tutte le altre che abbiamo visto) ma, il profilo
biologico della malattia, consente l’intervento di questa categoria di cellule.

EMOSTASI, TEST DELLA COAUGULAZIONE E PATOLOGIE


Già abbiamo idea per sommi capi, di ciò che accade quando un vaso si rompe: si crea una
breccia vascolare e accadono una serie di cose volte a minimizzare la fuoriuscita di sangue;

• VASOCOSTRIZIONE: il vaso tenta di far fronte all’evento, ordinando la contrazione


alla sua componente muscolare liscia (nei vasi di grosso calibro ciò stenta ad avere
successo) per guadagnare un po' di tempo.
• Intanto sono entrate in gioco le PIASTRINE e l’endotelio:
- Tutte le strutture sub-endoteliali EMERGONO ed entrano in contatto con il flusso
ematico, entro cui ci sono anche le piastrine;
- Tra i fattori sub-endoteliali prodotti/attivati in seguito ad una lesione c’è soprattutto
il fattore di Von-Willebrand (che troviamo anche in circolo, ove lega il fattore
VIII, che altrimenti da solo non potrebbe circolare poiché finirebbe con il
degradarsi). Il fattore di VW si affaccia dalla breccia e come una “canna da pesca”
entra in contatto con il flusso, quindi con le piastrine tramite uno specifico
recettore piastrinico.
Tale interazione crea un cambio radicale nella piastrina, diventa una cellula
ATTIVATA: inizia ad aggregarsi, ad aderire, a secernere sostanze che
richiamano altre piastrine affinché si formi un COAGULO.
Il coagulo, in prima istanza fatto dalle sole piastrine, non ha la forza necessaria
per proteggere il vaso, ha bisogno di una integrazione data dalla GENERAZIONE
DELLA FIBRINA.
Come avviene? Formatosi il coagulo piastrinico, sulla superficie delle piastrine
compare il recettore FATTORE PIASTRINICO III: da questo momento in poi
entrano in gioco i FATTORI DELLA COAUGULAZIONE (dovranno generare
TROMBINA e da qui mediare il passaggio da FIBRINOGENO a FIBRINA).
- I fattori della coagulazione seguono due vie: la via ESTRINSECA (è così detta
perché non viene attivata direttamente, ma attraverso una sostanza che è liberata
dopo la rottura del vaso: TF fattore tissutale). La via INTRINSECA invece si attiva
direttamente, per contatto con elementi danneggiati del vaso (la via
ESTRINSECA è più semplice da ricordare, ha in sé solo un fattore che è l’VII).
Le due vie si incontrano al livello del FATTORE X nella VIA COMUNE.
Il X lavora insieme al V, ioni calcio e fosfolipidi (ovvero le piastrine) per attivare
la protrombina in trombina; qualora mancasse anche solo un elemento il
processo non potrebbe continuare.
La trombina poi trasforma il fibrinogeno (grossa molecola) in fibrina, fatta da
parti più piccole che si mischiano al coagulo piastrinico, precedentemente
formato, rinforzandolo.

• Contestualmente ha luogo un processo opposto, che ha lo scopo di distruggere


l’eccesso di fibrina, la VIA FIBRINOLITICA.
Essa parte da delle proteine che si occupano di attivare il plasminogeno e di
trasformarlo in plasmina (come un sarto taglia la fibrina in eccesso nel coagulo),
ovvero la molecola che degrada la fibrina.
La distruzione è contemporanea alla sintesi poiché si deve prevenire la formazio ne
di un coagulo esagerato che esiterebbe in una TROMBOSI. Ci sono patologie in cui
ci sarà un eccesso dell’attivazione fibrinica a causa di un deficit della via fibrinolitica,
il chè favorisce la trombosi.

Ma perché i fattori della coagulazione devono seguire due vie? Non ne bastava una che
agisse comunque sul fattore x?
No, perché la ridondanza del meccanismo è utile nel caso in cui una dovesse venire a
mancare uno.

Test su piastrine

Come prima cosa devo verificare la qualità e la quantità delle piastrine.

- Attraverso l’esame emocromocitometrico possiamo valutarne la quantità e


definire o meno una PIASTRINOPENIA (piastrine al di sotto delle 150.000, dal
punto di vista clinico il cut-off, invece, è 100.000)
- Mentre la qualità è affidata a: il TEST DI AGGREGAZIONE, TEST DI ADESIONE,
(entrambe riproducono in vitro ciò che accade in vivo) ed il TEMPO DI
EMORRAGIA (prevede una piccola incisione sulla superficie volare
dell’avambraccio e da ciò si calcola il tempo di arresto del sanguinamento; se
eccessivo si imputa o alle piastrine o a ciò che porta alla creazione del coagulo
piastrinico; ovviamente prima di questo test non devo prendere farmaci, che
potrebbero interferire con la funzione piastrinica).
Quando c’è un deficit qualitativo parlo di PIASTRINOPATIA (hanno un carattere
congenito; ma più frequentemente sono acquisite, specie “da farmaci” es.
l’aspirina, antibiotici).

Test della coagulazione: PT e PTT


Passo poi a questi test, che sono molto richiesti nella pratica clinica soprattutto insieme.

- PT: tempo di protrombina


Il laboratorio verifica in vitro la funzionalità della VIA ESTRINSECA, basandosi su
del sangue in una provetta con dell’anticoagulante (citrato di sodio, per cui il
laboratorio lavorerà col cosiddetto “plasma citratato”), che chela gli ioni calcio così
da impedire la formazione della trombina.

Si deve quindi ricostruire la VIA ESTRINSECA in vitro usando una sostanza che
imiti l’azione del TF e che interagisca con il fattore VII, ovvero la
TROMBOPLASTINA.
Il laboratorista aggiunge al plasma del paziente la TROMBOPLASTINA, aggiunge
poi gli ioni calcio (ricalcifica il campione) e calcola il tempo per la formazione di
trombina.
- PTT: tempo di tromboplastina parziale
Valutiamo ora la funzionalità della VIA INTRINSECA: aggiungo sempre ioni calcio
al campione ematico, per dissolvere l’azione dell’anticoagulante ed una sostanza
che mimi il “contatto” che genera l’attivazione dei fattori della coagulazione: es. il
CAOLINO.
Dopo ciò faccio partire il cronometro e vedo in quanto tempo è attivata la
trombina.

Se un paziente ha il PT allungato (ovvero anomalo) ma un PTT normale: ha un problema


nella VIA ESTRINSECA. E viceversa con PTT allungato e PT normale, il problema è nella
VIA INTRINSECA. Se sono allungati PT e PTT ha un problema nella VIA COMUNE.

Piastrinopenie

Sono più spesso acquisite (ad esempio dopo una infezione (H.Pylori), neoplasie, o da
alterata distruzione) ma non mancano i casi congeniti in età pediatrica.
Tra le acquisite molto frequentemente troviamo quella a eziologia immune:
PIASTRINOPENIA IMMUNE, molto difficile da diagnosticare (di solito si procede per
esclusione) e che colpisce preferibilmente pazienti giovani.
L’organismo d’improvviso inizia a produrre autoanticorpi rivolti verso le PIASTRINE (si
legano in circolo, insieme vanno alla milza e sono legate dai MACROFAGI).
Ci sarebbe un test per individuare gli autoanticorpi ma in realtà questo test non è affidabile,
motivo per cui la diagnosi è fatta per esclusione con tutte le altre cause.
Tale patologia viene trattata con (1) i CORTICOSTEROIDI che reprimono il sistema
immunitario, (2) con alcune sostanze che mimano l’attività della TROMBOPOIETINA (che
fa aumentare le piastrine) e (3) con le IMMUNOGLOBULINE UMANE che “saziano” i
macrofagi della milza evitando che essi attacchino quelle che si sono formate in circolo, in
complesso con gli autoanticorpi (questa terapia però non è durevole, serve solo a fare
rialzare il numero di piastrine per qualche settimana). In passato si faceva la splenectomia
ma poi si dovevano fare i conti con tutte le complicanze annesse, perciò oggi non si fa più.

Piastrinopenia indotta da eparina


Una terapia eparinica postintervento chirurgico può dare trombosi e piastrinopenia.
Perché?
Le piastrine fisiologicamente producono il FATTORE PF4, che va a legarsi alle superfici
anioniche dei batteri, le opsonizza e così tale complesso viene facilmente individuato dal
sistema immunitario e rimosso.
In questo caso, l’eparina invece lega il PF4 e tale complesso viene captato anche dalle
piastrine (che cominciano ad aggregarsi): ottengo trombosi e successiva piastrinopenia.
La trombosi avviene anche perché il complesso PF4-eparina va a stimolare anche i
monociti; l’attivazione dei monociti e delle cellule endoteliali genera TF con attività
procoagulante.
Paradossalmente la terapia eparinica che doveva proteggere il paziente operato dalla
trombosi è invece la causa dopo un certo tempo, di un duplice effetto: trombosi e
piastrinopenia.
La diagnosi si fa ricostruendo la storia farmacologica e dosando anticorpi anti PF4.

Porpora trombotica trombocitopenica


E’ una patologia dovuta ad un alterato consumo delle piastrine, con un quadro generale
molto severo legato ad un disturbo del microcircolo, dove ci sono numerosi fatti trombotici
che ad un certo punto si traducono in insufficienza d’organo renale, epatica,etc.
(clinicamente la patologia è completamente sovrapponibile alla CID).

Normalmente in circolo c’è il fattore di Von-Willebrand che ha tendenza all’aggregazione


con altri fattori di Von-Willebrand e questi aggregati possono a catturare a loro volta con
le piastrine. Tale miscela aggregati fW-piastrine è molto pericolosa, poiché può
rappresentare l’innesco di una trombosi. L’organismo però ha creato una via apposta a
protezione, affidata alle metallo-proteinasi ADAM13, che distruggono tali AGGREGATI
ogni volta che ne incontra in circolo.
Nel patologico manca ADAM13 (o perché il paziente ha una alterazione del gene di
ADAM13, o nei casi più frequenti l’enzima manca perché distrutto da anticorpi
antiADAM13 creati dall’organismo; spesso la produzione di autoanticorpi segue una
pregressa infezione virale con antigeni simili ad ADAM13), il paziente sta molto male ed è
destinato a morire in poco tempo se non trattato; la differenza fondamentale tra PTT e CID
è che nella PORPORA ho una terapia, nella CID no.

La terapia dipende ovviamente dall’eziologia; se deriva dalla presenza di anticorpi ANTI-


ADAM13 si adotta la PLASMAFERESI: molto semplicemente rimuovo il plasma dal
paziente e gliene do del nuovo, contenente ADAM13 e privo della componente
IMMUNOGLOBULINICA; unitamente faccio anche una terapia immunosoppressiva. Così
facendo il paziente potrebbe farcela, per quanto la prognosi sia molto severa.

La diagnosi si basa sulla anamnesi (eventuali riferimenti a disreattività immunologica) e


sul dosaggio di ADAM13 che risulta diminuito.

CID
Dal punto di vista clinico è sovrapponibile, ma in tal caso la coagulazione intravascolare si
gene perché c’è una noxa patogena (infezione, tumore, complicanza gravidanza, etc) che
promuove il rilascio di TF che è un pro-coagulante: si consumano così piastrine
(piastrinopenia) e fattori della coagulazione.
In tal caso già dall’esordio tutti i parametri della coagulazione (PT, PTT, fibrinogeno
diminuito, dimeri aumentati, etc.) sono alterati, invece nella PORPORA TROMBOTICA
TROMBOCITOPENICA no. E’ chiaro che se la PTT continua anche tali fattori saranno
alterati, ma all’esordio non lo saranno. L’LDH sarà aumentato in entrambi i casi, come in
entrambi i casi ci sarà piastrinopenia.
Non esiste terapia specifica per la CID, posso solo intervenire sulla noxa patogena o in
maniera sintomatica. Quindi, un paziente con problematica di tipo trombotico gliela tratto,
di tipo emorragico gliela tratto, dipende, chiaramente con tutte le complicazioni del caso.

Malattia di vW
E’ una malattia genetica molto diffusa, dovuta ad una mutazione sul gene che codifica per
la proteina di Von Willebrand: il deficit si esprime in termini o quantitativi o qualitativi.
Individuiamo 3 gruppi: il 1^ (il più comune, nel quale di fattore di VW ne ho poco) e il 3^ (il
fattore di WV è assente): in entrambe i casi sono difetti quantitativi. Il 2^ tipo, vede invece
un difetto qualitativo nella produzione di un fattore di WV, difettivo.
Il paziente avrà emorragia disseminate, specie delle mucose. È una patologia molto
rappresentata nella popolazione.
Il reperto è occasionale, il paziente trova delle emorragie inspiegabili legati ad una (1)
diminuita adesività piastrinica in più (2) gli manca la protezione del FATTORE VIII che
ne risulterà compromesso (dunque il PTT è allungato).
La terapia per il 1^ tipo (difetto di produzione) si basa sulla somministrazione di
DESMOPESSINA, che promuove l’esocitosi dai depositi delle cellule endoteliali di fattore
VW preformato.
Nel 3^ tipo, il fattore VW manca totalmente, dunque la DESMOPESSINA non ha effetto, lo
stesso nel 2^ tipo ( ove il fattore VW non è funzionale seppur è prodotto). In questi casi
posso somministrare dei derivati ematici, ricchi di fattore di VW.
NB. La malattia di VW può anche essere acquisita (lo abbiamo visto anche nelle neoplasie
mieloproliferative), specie nel bel mezzo di patologie autoimmuni ad esordio tardivo.

Emofilia
L’emofilia A è una patologia X-linked, che riguarda la produzione alterata del FATTORE
VIII il cui gene è dunque presente su cromosoma X. Essendo il fattore VIII alterato il PTT
sarà allungato.
Il fenotipo di malattia si realizzerà nella prole di sesso maschile;
inoltre esso dipende dall’entità del deficit di FATTORE VIII, se eccessivo si manifesta già
alla nascita; se minimo, non è clinicamente rilevabile. Nella donna, in ragione del
fenomeno di lyonizzazione, essa potrà andare a produrre una certa quantità di fattore VIII.
A seconda del difetto ci sarà una sintomatologia relativa:
- I difetti più gravi (no produzione fattore) possono essere evidenti già alla nascita,
in seguito a lesioni nell’ambito del dislocamento del parto anche. Inoltre, le lesioni
emorragiche possono comparire già in età pediatrica a seguito di incidenti già
banali. In vita adulta possono esserci emorragie che interessano i muscoli e
articolazioni degli arti inferiori (emartro)
- Il difetto è minimo è non dà problematica clinicamente evidente (al massimo si
rileva nell’ambito di un intervento chirurgico).
L’emofilia B vede invece un interessamento del FATTORE IX. A parte il fattore interessato
è completamente sovrapponibile a quella A.
Esistono poi delle Sindromi -acquisite- emofiliche, da auto anticorpi che agendo nei
confronti dei fattori della coagulazione, mimano la carenza di fattore VIII e IX.

DIFFERENZE TRA LE DUE PATOLOGIE fW-emofilia:

- differenza di sesso: una donna che sanguina, difficilmente è affetta da emofilia;


- l’indagine dell’emofilia si fa mediante tecniche molecolari, mentre nella malattia di
VW uso tecniche che ricerchino e quantifichino il fattore di VW.
- l’emorragia della EMOFILIA è caratteristica. Nella vW l’emorragia è tipica delle
mucose, mentre nell’emofilia potrà interessare lo spessore muscolare, le cavità
articolari, e soprattutto essa inizia già in età pediatrica.

Potrebbero piacerti anche