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DISPENSA MUSTO Ematologia AK
DISPENSA MUSTO Ematologia AK
Le cellule del sangue periferico, originano a livello del midollo osseo. Il midollo si trova
nelle cavità midollari dell’osso, dunque non è possibile ritrovare il midollo in tutte le ossa ma
solo in alcune ossa. All’interno del midollo osseo è possibile ritrovare le cellule staminali
emopoietiche.
Le cellule staminali, in generale, sono cellule che hanno una prerogativa diversa da quella
che hanno le altre cellule dell’organismo: si dividono per molto tempo, a lungo, e nella
divisione può dar luogo ad una auto-rigenerazione, in quanto da vita ad altre cellule uguali
a sé stessa. Per quanto riguarda, in particolare, le cellule staminali emopoietiche, ciò che
sappiamo a tal proposito, deriva dalla facilità di poter studiare il sangue ed il midollo osseo.
Si tratta di tessuti facilmente prelevabili per la natura stessa del tessuto stesso. L’ematologia
è la disciplina che più delle altre in medicina può, dunque, occuparsi di cellule staminali.
La cellula staminale emopoietica è una cellula staminale adulta, definita così per
differenziarla dalla cellula staminale embrionale. Queste due cellule sono totalmente diverse
tra loro, in quanto compaiono in periodi di sviluppo dell’individuo totalmente diversi. È
possibile distinguere, dunque:
In definitiva, è possibile riassumere vari gradi gerarchici di cellule staminali, in base alla
rispettiva potenza differenziativa:
Quando una cellula staminale emopoietica si divide essa segue il meccanismo di auto-
rigenerazione, tuttavia essa oltre che auto-rigenerarsi può anche differenziarsi.
- Auto-rigenerarsi: dando origine ad una cellula uguale alla madre, ovvero una cellula
staminale emopoietica.
- Differenziarsi: dando origine ad una cellula che non è uguale alla cellula madre,
definita cellula commissionata. Alla sua nascita tale cellula sa già che dovrà diventare
un eritrocita, una piastrina, un linfocita, o altro. Il suo destino è già segnato nel suo
DNA. Questa cellula è anche definibile progenitore emopoietico: esso nasce dalla
cellula staminale emopoietica, e successivamente non può autorigenerarsi, bensì
può solamente differenziarsi dividendosi. Ci sono della patologie, come tumori del
sangue, in cui il progenitore emopoietico acquisisce anche la capacità di
autorigenerarsi.
Il progenitore emopoietico, invece, quando si divide potrà dar vita solamente ad elementi
diversi da esso, in quanto differenziati. Può accadere però, che il midollo osseo ad un certo
punto non abbia bisogno né di elementi staminali emopoietici ne di progenitori: in tale
situazione le cellule staminali sono indirizzate verso l’apoptosi. L’apoptosi è un
meccanismo di morte cellula programmata, in cui viene usato ATP per far si che il processo
venga in modo ordinato e corretto. Al contrario, la necrosi avviene in modo involontario.
Esistono delle patologie in cui l’apoptosi viene disregolata nel midollo osseo, in quanto si
verifica in modo eccessivo: questo può portare, ad esempio, all’aplasia midollare, una
condizione di mancanza del tessuto emopoietico nel midollo.
Inoltre oggi sappiamo che se doniamo il sangue, il sangue si riforma grazie all’attività delle
cellule staminali in poche ore. Che il sangue fosse un tessuto che va incontro a meccanismi
di auto-rigenerazione oggi lo diamo per scontato ma in passato, chiaramente, doveva
essere dimostrato. In passato, era appurato che se si prendeva un topo e questi fosse
esposto ad una dose di radiazioni “letale”, il topo muore. Si era capito, inoltre, che queste
radiazioni avessero un impatto sull’attività proliferativa del midollo emopoietico. Le
radiazioni vanno a danneggiare il DNA, innescano dunque un meccanismo apoptotico e
questo tessuto si autodistrugge. I ricercatori dunque, hanno preso un topolino e lo hanno
esposto a radiazioni letali, dopo aver fatto questo hanno donato al topolino il tessuto
emopoietico di un altro topo, dimostrando che quel topo non moriva. Facendo l’esame
istologico delle cavità midollari del topo si è visto, inoltre, che vi era attività emopoietica.
Grazie a ciò, ad ogni modo, si è dimostrato che il sangue si autorigenerasse.
La cellula staminale emopoietica, come detto, ha una divisione asimmetrica: come è
possibile questa cosa? Può essere resa possibile da due meccanismi:
1. Si ipotizza che la cellula madre nel momento della divisione distribuisce in maniera
ineguale fattori di trascrizione alle cellule figlie, quindi le due cellule figlie hanno un
DNA sul quale agiranno fattori di trascrizione diversi, e dunque il profilo di
espressione genica delle cellule figlie è strettamente vincolato dai fattori di
trascrizione che ricevono alla nascita.
2. L’altra ipotesi è che le due cellule figlie alla nascita sono uguali, e dunque è possibile
che la divisione non sia davvero “asimmetrica”, però una delle cellule generate si trovi
in una parte della componente midollare in cui riceve stimoli differenziativi mentre
l’altra non riceve questi stimoli. Secondo questa ipotesi, quindi, la divisione sarà
simmetrica, e la differenza tra le due cellule è solamente frutto di stimoli differenti
che agiscono sulle cellule figlie.
Nel momento in cui si decide di donare, innanzitutto si fa un esame del sangue periferico
allo scopo di studiare il sistema HLA. Questo è un insieme di un centinaio di proteine,
codificate da gruppi genici ereditati in blocchi dai nostri genitori. Ognuno di noi si caratterizza
per un assetto HLA diverso. Quando facciamo un trapianto, dunque, il sistema HLA deve
essere analizzato al fine di individuare l’eventuale compatibilità con quello del donatore. È
impossibile che ci sia perfetta corrispondenza tra donatore e ricevente, ma ciò che ci
interessa è individuare la corrispondenza tra un piccolo numero di antigeni di questo
sistema, che devono essere identici. Nonostante si tratti di un piccolo numero di antigeni,
però, la perfetta corrispondenza di questi, a sua volta risulta essere particolarmente
improbabile, motivo per cui è difficile trovare la compatibilità richiesta.
Ipotizziamo di trovare un ricevente compatibile, in tal caso bisogna intraprendere la
circostanza della donazione, il cosiddetto “espianto”. La sede naturale in cui alberga
normalmente il tessuto emopoietico, come detto, sono le cavità midollari. Normalmente, in
clinica, i punti di repere per prendere il midollo osseo e poterlo analizzare sono due:
- Sterno
- Cresta iliaca, questa è una tuberosità del bacino che si trova immediatamente al di
sotto di due fossette poste immediatamente sopra i glutei. In corrispondenza di
queste fossette identifichiamo i punti di repere delle creste iliache. La procedura di
espianto non viene fatta a livello sternale in realtà in quanto l’osso è troppo fragile ed
ha una superficie troppo piccola per prelevare le quantità che servono. Dunque, in
diagnostica se dobbiamo vedere cosa succede nel midollo possiamo sfruttare sia un
puntato sternale che un prelievo dalla cresta iliaca. Per il trapianto, invece, non si fa
un puntato sternale.
Questa appena citata è una delle due modalità possibili, l’altra modalità possibile, invece, si
basa sul concetto che nel sangue periferico è possibile ritrovare cellule staminali
emopoietiche, e queste, ovviamente, provengono dal midollo osseo in quanto sussiste una
forte comunicazione tra i due compartimenti. Quindi, è possibile somministrare una
molecola, che normalmente viene prodotta dall’organismo, e che ho possibilità di ricostruire
in laboratorio come molecola ricombinante. Questa sostanza è il “fattore di crescita che
stimola le colonie granulocitarie”, o G-CSF (Granulocyte-Colony Stimulating Factor). Il
G-CSF normalmente viene prodotto dall’organismo per vari motivi, anche nell’ambito di
infezioni, in quanto in tale situazioni sono richiesti un maggior numero di neutrofili. Nel caso
specifico nostro, invece, esso promuove un meccanismo definito “mobilizzazione della
cellula staminale”: promuove lo spostamento della cellula staminale emopoietica dal
midollo osseo al sangue periferico. Quindi diamo questa sostanza che si inietta sotto cute e
poi contiamo le sue cellule staminali emopoietiche nel sangue con l’esame
citofluorimetrico. Quando il numero di queste cellule sarà sufficiente per fare il trapianto,
questo donatore sarà attaccato ad una macchina che permetterà di separare le cellule
staminali dal suo sangue.
Si noti che il G-CSF è una molecola usata, inoltre, in oncologia: il paziente usa spesso
farmaci che non sono specifici per la cellula neoplastica, ma che funzionano bloccando la
proliferazione cellulare. In questo modo, però, verrà bloccata la proliferazione non solo delle
cellule neoplastiche, giacchè saranno bloccate anche le cellule proliferanti del nostro
organismo. A causa di questo il paziente oncologico potrà andare incontro ad una
condizione di carenza di granulociti neutrofili, definita neutropenia, che espone questi ad
infezioni. A questo scopo diamo il G-CSG in quanto accelera la ripresa della riproduzione
dei granulociti neutrofili.
Quindi, in un modo o nell’altro, ottengo il materiale che può essere usato per il trapianto. Il
materiale ottenuto deve essere fornito al ricevente. Ciò viene fatto attraverso un’iniezione
endovenosa: ciò è basato sul principio dell’homing. Questa è un’altra proprietà della cellula
staminale la quale è in grado di “rientrare a casa”: la cellula, come detto, può essere
mobilizzata dal midollo al sangue, ma può fare anche il contrario, ovvero passare dal
sangue periferico al midollo osseo. Le cellule infuse per via endovenosa, quindi,
raggiungono per questa via le cavità midollari, a patto che le cavità midollari siano libere.
Prima di infondere le cellule staminali al paziente, infatti, vanno fatte una serie di cose che
vedremo in seguito, in quanto le cavità midollari non devono essere occupate dalle cellule,
bensì libere.
Come detto, la sede dell’attività emopoietica è rappresentata dalle cavità ossee, laddove la
superficie totale occupata da queste cavità nell’organismo è particolarmente ampia. Il
midollo emopoietico però occupa solamente un quarto, circa, delle cavità disponibili. Ci
sono delle patologie in cui questo ¼ può aumentare, o al contrario può diminuire. Le cavità
midollari sono impegnate a livello macroscopico anche da un altro tessuto: tessuto
adiposo. In passato si parlava di midollo osseo rosso e giallo, ormai questa definizione non
è più usata. La distribuzione dell’attività emopoietica nell’ambito delle cavità ossee cambia
a seconda dell’età dell’individuo ed in particolare nei bambini è molto sviluppata nelle ossa
piatte; ci sono delle patologie, come le talassemie, in cui l’attività emopoetica è esuberante
e questo determina un aumento dello spessore osseo, determinando delle deformazioni
scheletriche.
Microambiente midollare
Nel midollo osseo, ovviamente, vi è molto altro oltre alle semplici cellule del tessuto
emopoietico, anche cellule che genealogicamente non hanno nulla a che fare con il tessuto
emopoietico. L’attività emopoietica dipende, quindi, dalle interazioni che sussistono tra le
componenti qui presenti; se insorge una alterazione di tali interazioni può insorgere una
patologia, la quale molto spesso fa capo alla patologia neoplastica. Alcuni tumori del sangue
non sono soltanto risultato della trasformazione della cellula normale in cellula neoplastica,
ma è lo stesso microambiente che è trasformato al fine di realizzare l’espansione
neoplastica.
Mobilizzazione
Normalmente, come detto, le cellule staminali si trovano nella nicchia emopoietica e sono
come una “nave attraccata al porto attraverso l’ancora”, laddove l’ancora è la cellula
stromale. Quando questo legame per vari motivi viene rotto, ad esempio il G-CSF riesce a
spezzarlo, la cellula staminale prende la via dei vasi e attraversa i sinusoidi midollari. I
sinusoidi midollari sono vasi primitivi che si trovano nel microambiente midollare,
caratterizzati dal fatto di non avere una membrana basale, per cui sono attraversati molto
facilmente. La cellula staminale, quindi, raggiunge la circolazione periferica perché lascia la
nicchia rompendo il legame con la cellula stromale, prende la via dei sinusoidi midollari e va
nella circolazione periferica. L’aumento del numero di cellule staminali nel sangue periferico
può essere facilitato, come detto, da condizioni quali infezioni, stress, farmaci. Ovviamente
la migrazione delle cellule può essere favorita dalla modificazione di concentrazione di altre
molecole quali metalloproteinasi, molecole di adesione, è un meccanismo molto complesso,
e molto poco noto.
L’inverso della mobilizzazione è dato dall’homing delle cellule staminali introdotte nel
ricevente del trapianto. Una piccola parte di queste cellule, in realtà, può raggiungere sedi
improprie (fegato, polmoni, etc.), ma la maggior parte, effettivamente, raggiunge le cavità
midollari e se le nicchie emopoietiche ed altre condizioni sono ottimali, riescono ad occupare
le nicchie, stabilire interazioni con le cellule stromali ed iniziare a fare emopoiesi.
Quando una cellula staminale emopoietica si deve spostare in uno dei due sensi
(mobilizzazione o homing), dalla sua superficie vengono emessi dei piccoli prolungamenti
detti “microspikes”, per cui essa cambia forma. Questi piccolo prolungamenti possono
diventare molto più lunghi dei precedenti, diventando “proteopodi”. Grazie a questi
prolungamenti, se noi vediamo la cellula staminale che emette le protusioni citoplasmatiche
ciò vuol dire che è una cellula impegnata nell’homing o nella mobilizzazione. Se questa
capacità invece non c’è, ciò vuol dire che vi è una patologia.
Il progenitore emopoietico è allo stesso modo CD34+, ma risulta essere Lineage +: esso,
per definizione è una cellula che darà luogo a globuli rossi, bianchi, piastrine, etc. per cui
già alla sua nascita esso presenterà antigeni ricondubili alla linea eritrocitaria, granulocitaria
etc.
Quando faccio il trapianto, ovvero seleziono le cellule del donatore da dare al ricevente, si
fa in modo di selezionare cellule CD34+, siano esse Lineage+ o -, dando quindi sia cellule
staminali che progenitori. Le staminali servono affinchè il donatore costituisca il patrimonio
rigenerativo del tessuto, mentre il progenitore serve per ottenere subito cellule del sangue,
in quanto il ricevente non avrà cellule del sangue al momento del midollo e dunque il suo
patrimonio deve essere al più presto rigenerato in modo tale che non vada incontro a
infezioni e problematiche di altro genere. Per selezionare le cellule CD34+ userò la
cosiddetta selezione (sorting) cellulare attivata dalla fluorescenza. Se so che le cellule
CD34+ sono quelle che mi servono, userò un anticorpo monoclonale contro questo
antigene, e questo anticorpo sarà legato ad una sostanza fluorescenza. Quindi, l’anticorpo
anti-CD34 si legherà ovviamente solo alle cellule CD34+: tutte le cellule passano in una
macchina, un “selezionatore”, e vengono disposte in fila indiana. Tutte le cellule vengono
colpite da un raggio laser. Le cellule che avranno legato l’anticorpo, quando sono colpite dal
raggio, possono emettere una fluorescenza e contestualmente alla fluorescenza una carica
elettrica, che potrà essere positiva o negativa a seconda di quello che ho stabilito io a priori.
Quindi la macchina dividerà tutte le cellule fluorescenti CD34+ da tutte le altre. In questi
processo di selezione però, qualche cellula CD34- può essere erroneamente selezionata
dalla macchina. Si tratta prevalentemente di linfociti: la selezione di questi linfociti può
essere un vantaggio o un problema nell’ambito del trapianto, come vedremo.
Per quanto riguarda le cellule del sangue in linea generale bisogna notare che se
consideriamo la storia differenziativa di una cellula le cellule più indifferenziate sono sempre
più grandi di quelle maggiormente differenziate. Questa è una regola generale, ma ci sono
delle eccezioni.
Gli eritrociti, dunque, sono cellule molto facili da riconoscere, anucleate: appaiono come
dischetti con una regione più pallida al centro; questa regione pallida può aumentare e
quando aumenta ciò è espressione di una diminuzione delle molecole di Hb. Un eritrocita
vive in media 120 giorni.
Le piastrine abbiamo detto che sono cellule derivanti dai megacariociti, esse vivono in
media tra le due e le tre settimane (al contrario il neutrofilo vive al massimo 24 ore). Le
piastrine appaiono come dei corpuscoletti violacei, dove il colorito è determinato dalla
presenza degli acidi nucleici all’interno di queste. Gli acidi nucleici permettono alle piastrine
di svolgere le funzioni varie che esse possono assolvere (infiammazione, emostasi, etc.).
1. I più rappresentati nel sangue periferico sono i granulociti, cosi’ chiamati in quanto
nel citoplasma sono presenti delle granulazioni, diverse per le caratteristiche tintoriali
a seconda del granulocita che stiamo considerando (neutrofilo, eosinofilo, basofilo).
Questi si caratterizzano anche per la multi-lobatura del nucleo: la massima
espressione della multi-lobatura la ritroviamo nel granulocita neutrofilo; nell’eosinofilo
esso è generalmente bilobato, mentre nel basofilo solitamente il nucleo non è visibile
in quanto è coperto dalle granulazioni. In realtà anche qui, se basofilo degranula, si
può osservare il nucleo, il quale potrà apparire bilobato.
Osservando un granulocita neutrofilo inoltre, si può osservare il corpo di Barr, dunque
osservando un granulocita che sembra avere 5 lobi nell’immagine, in realtà si può
affermare che esso ha 4 lobi a cui si aggiunge il corpo di Barr (molto più piccolo).
Esso rappresenta la porzione di DNA del nucleo che è stata allontanata in quanto
inutile, disattivata seconda una regola basata sul caso, e che riguarda uno dei due
cromosomi X (si ricordi che il processo di disattivazione del corpo di Barr è definito
“lyonizzazione”). Morfologicamente il corpo di Barr, nei neutrofili ha un aspetto a
bacchetta di tamburo. Nel granulocito eosinofilo invece ha una forma detta a lenti
d’occhiali.
Chiaramente le granulazioni del granulocita neutrofilo servono ad esprimere
un’attività microbidica: esistono infatti delle patologie della differenziazione
emopoietica che portano ad una incompleta maturazione anche dei granulociti
neutrofili; questa incompleta maturazione si traduce in una assoluta difficoltà di
queste granulazioni nel poter svolgere la loro attività microbicida perché queste
granulazioni o (1) sono troppo poche, (2) non ci sono affatto, (3) se ci sono sono fatte
male. Questo accade anche in alcuni tumori del sangue oltre che in queste patologie
con incompleta maturazione.
Il granulocita eosinofilo ha un assetto per quanto riguarda la funzione delle
granulazioni molto simile a quello dei neutrofili, in quanto queste granulazioni servono
a richiamare altre cellule dell’infiammazione, come esprimere attività citotossica nei
confronti di elementi estranei. I granulociti eosinofili, a tal proposito, sono specializzati
nell’attività anti-elmintica e infatti ci sono delle parassitosi che si accompagnano ad
una spiccata eosinofilia all’emocromo di questi pazienti (si assiste ad un aumento dei
globuli bianchi, laddove la frazione di globuli bianchi particolarmente aumentata è
rappresentata dagli eosinofili).
Il granulocita basofilo ha una funzione differente invece. Le granulazioni sono più
grandi, più spesse, intensamente basofile e si sovrappongono al nucleo, motivo per
cui in situazioni normali non possiamo arrivare a vedere la forma del nucleo. Tuttavia
questi granulociti come tutti gli altri possono degranulare, in situazioni legate a
problematiche di tipo allergico (le granulazioni sono ricche in istamina e sostanze
vasoattive con un ruolo importante nell’ambito della risposta allergica). Quando si
verifica la degranulazione e quindi la liberazione del citoplasma di questi granuli
riusciamo a vedere il nucleo, che appare bilobato o a forma di fagiolo.
2. Linfociti: hanno una morfologia nel sangue periferico abbastanza eterogenea, per
quanto spesso sono piccoli, ovvero poco più grandi di un globulo rosso, sono cellule
con un nucleo/citoplasma nettamente a favore del nucleo. Normalmente i linfociti
maggiormente rappresentati nel sangue periferico sono i linfociti T. A partire dalla
morfologia è impossibile distinguere un linfocita B, T, o NK (se si vedessero dei
granuli si potrebbe pensare ad un T citotossico o ad un NK, ma si tratta di pure
supposizioni): per distinguerli è necessario un esame che prende il nome di
tipizzazione linfocitaria (o analisi dell’immunofenotipo). Essa è un’analisi che
viene fatta in citofluorimetria usando degli anticorpi monoclonali specifici per ogni
linea di linfociti.
3. Monociti: sono le cellule con le dimensioni più rilevanti nel sangue periferico, per
quanto può capitare che possano somigliare ad alcuni linfociti motivo per cui può
essere anche complicato riconoscerli. Il nucleo è generalmente un nucleo a fagiolo,
cornetta di telefono, rene (a nostro piacere) ed il citoplasma è generalmente senza
granuli per quanto può anche esprimerli.
4. Plasmacellula: non è una cellula che troviamo in condizioni normali nel sangue
periferico, per quanto è possibile ritrovarla in alcune circostanze quali infezioni. Essa
deriva dai linfociti B ed è deputata alla risposta anticorpale, ed infatti anche
nell’assetto morfologico del nucleo noi capiamo che questa è una cellula molto
operativa. Il citoplasma è intensamente basofilo a causa della notevole attività di
sintesi proteica anticorpale, ed inoltre a ridosso del nucleo, in posizione peri-nucleare,
c’è un alone bianco che rappresenta il Golgi qui particolarmente rappresentato. Il
nucleo è costituito da eucromatina ed è localizzato in posizione eccentrica.
ANEMIE
Possiamo definire:
1. Anemia: riduzione della quantità di emoglobina, e non di globuli rossi come spesso
erroneamente si afferma
2. Leucociti: leucocitosi o leucopenia, a seconda che aumentino o diminuiscono
3. Piastrine: trombocitopenie e trombocitosi, in quest’ultimo caso quando il numero
di piastrine è al di sopra di 450.000, mentre trombocitopenia quando è inferiore a
150.000
Indagini di laboratorio
Hct pz
% reticolociti
Hct normale
Aspetti morfologici
Sappiamo che il globulo rosso è un disco biconcavo di 8 µm, con pallore centrale al M/O;
quando manca Hgb il pallore si diffonde alla periferia del globulo rosso (ipocromia, con
riduzione dell’MCH). La morfologia può cambiare, possono esserci modificazioni più
importanti di quelle relative alle semplice modifiche cromatiche:
1. Possono comparire delle propaggini sulla superficie del globulo rosso, come nel
caso dell’echinocitosi. Il paziente con insufficienza renale, come conseguenza
dell’insufficienza renale va incontro ad un aumento di sostanze da eliminare che
rimangono nel sangue e danneggiano il globulo rosso. Tuttavia, anche l’esposizione
del vetrino per tempi non adeguati a dei reagenti può dare questo.
2. Stomatociti: hanno solo una concavità, con convessità dalla parte opposta. Al M/O
appaiono con un’area chiara centrale che ha le somiglianze con una bocca (uno
stoma). Si possono trovare in anemie congenite.
3. Acantociti: emazie a foglie d’acanto, con propaggini simili agli echinociti con la
differenza che in tal caso non sono distribuite su tutta la cellula ma solo il perimetro;
si ritrovano nelle epatopatie croniche alcoliche oppure in corso di deficit di
malassorbimento per cui sono da imputare a deficit di assorbimento di sostanze
fondamentali per il globulo rosso.
4. Sferociti: a forma sferica, nella sferocitosi ereditaria e in alcune anemie acquisite
come le anemie immunoemolitiche, in tal caso scompare l’area centrale pallida.
5. Schistociti: emazie frammentate che per patologie concomitanti subiscono dei
traumi e vengono frammentate; lo schistocita può essere una spia della CID,
dell’emolisi microangiopatica, in cui il globulo rosso deve superare delle zone ostruite
e dunque si frammenta. Sono presenti anche nei portatori di valvole cardiache
artificiali, o in caso di alterazioni del midollo osseo, quali dovute a neoplasie
metastatiche o mielofibrosi, per cui l’eritrocita per uscire dal midollo trova un ostacolo.
6. Ellissociti: le emazie sono delle ellissi; tale situazione può verificarsi in alcune
anemie congenite o nell’anemia sideropenica.
7. Drepanociti: emazie a falce, presenti nell’anemia falciforme. Le emazie appena nate
sono normali, ma per un difetto intrinseco dell’Hb, lo scheletro di membrana viene
alterato, sono cellule molto rigide che possono anche ostruire il flusso.
8. Codociti: emazie a bersaglio, cioè con area chiara molto estesa e con un punto
colorato centrale; presenti ad esempio in anemie sideropeniche o talassemie.
9. Dacriociti: emazie a lacrima, presenti nelle situazioni in cui nel midollo osseo
cominciano a crescere cellule o tessuti che normalmente sono assenti, come la
mielofibrosi, nelle metastasi neoplastiche midollari.
Manifestazione clinica
In termini clinici, la manifestazione dell’anemia è multiforme, dal momento che tutti i tessuti
vanno in sofferenza per la condizione di cattiva ossigenazione, alcuni tessuti prima, altri
dopo. Comunque già con l’ispezione si possono valutare i segni dell’anemie:
L’organismo, in un certo grado, risponde con un tentativo compensatorio che risiede nella
produzione dell’eritropoietina (EPO) renale, che viene secreta in risposta alla riduzione
della PaO2, aumentando la produzione di GR. Questo sistema viene meno nel caso di una
nefropatia o di insufficienza renale e questo è il motivo per cui pazienti nefropatici sono
anche anemici.
L’emoglobina viene sintetizzata a partire dal gruppo eme e dalle catene globiniche, per il
primo è necessario il ferro che deve necessariamente essere assunto con la dieta, in quanto
noi non siamo in grado di produrre ferro (mannò); oltretutto, non esiste nell’organismo un
sistema di escrezione del ferro. Quindi, tutto il ferro presente viene consumato/depositato,
anche se una piccola aliquota di ferro viene persa ed è legata al turnover delle cellule
epiteliali intestinali; un’altra piccola aliquota viene persa con la sudorazione o con
esfoliazione delle cellule epidermiche; tuttavia, se aumenta il ferro assunto non aumenta
la perdita con questi meccanismi, per cui vi possono essere condizioni di eccesso di ferro
per cui l’organismo non riesce a gestirlo in maniera adeguata.
Il ferro viene quasi totalmente impiegato per la formazione dell’emoglobina, una quota
minoritaria viene impiegata per enzimi che hanno una funzione importante a livello
neuronale: può accadere che un paziente con sideropenia, ancor prima di manifestare
anemi può manifestare dei disturbi comportamentali come espressione del fatto che il
ferro viene destinato in sideropenia all’emoglobina.
Il ferro non immediatamente utilizzato viene depositato. Comunemente si dice che la ferritina
sia il deposito del ferro, ma propriamente, la ferritina è una proteina della fase acuta
dell’infiammazione (solo come hobby partecipa al deposito di ferro). Quindi, il dosaggio
della ferritina in corso di anemia sideropenica e in corso di concomitante infiammazione
può risultare elevato.
Quindi:
1. Assorbimento del ferro: il ferro viene assorbito a livello del tratto gastroenterico sotto
forma ferrosa. La trasformazione dello ione ferrico a ferroso avviene a livello del tratto
gastroenterico, in particolar modo a livello gastrico, per cui è possibile che una
gastrite cronica possa interferire con questo meccanismo; ci sono altresì dei farmaci
che impediscono la conversione dello ione ferrico in ferroso (inibitori della secrezione
gastrica), per cui pur avendo una normale assunzione di ferro, il paziente ha un deficit
di ferro.
2. Estrusione dall’enterocita nel sangue del ferro, tramite la ferroportina, laddove
l’epcidina inibisce la funzione della ferroportina; l’eritroferrone stimola la funzione
della ferroportina.
Il ferro liberato dal compartimento intestinale viene legato mediante una proteina di trasporto
dal momento che il ferro non legato alle proteine può penetrare facilmente nella cellula e
facilitare la formazione dei radicali liberi, soprattutto a livello delle cellule epatiche,
pancreatiche e cardiache, causando una alterazione metabolica che si conclude con la
produzione di tessuto fibroso a seguito di necrosi precoce, per via della produzione di
ROS (reazione di Fenton). Quindi, il ferro viene legato alla transferrina che veicola
principalmente nel compartimento emopoietico il ferro.
La transferrina con il ferro legato viene valutata mediante un esame di laboratorio che è il
dosaggio della sideremia, mentre la transferrinemia ci dà invece idea di quanto impegnata
è la trasferrina a legare il ferro: se la transferrina è alta vuol dire che lega poco ferro, è altresì
valido il contrario.
La TF, normalmente, viene veicolata a livello cellulare per legare poi recettori di membrana
della TF, che sono particolarmente presenti a livello del comparto emopoietico (eritroide),
anche se si riscontra la presenza di recettori della TF anche in altre cellule ma con densità
minore. Esiste una forma solubile del recettore della TF, in completo equilibrio con
l’isoforma di membrana; quando vi è una carenza di ferro, il comparto emopoietico è in stato
di allarme, per cui le cellule aumenta l’espressione di recettore di membrana della TF, sicché
si abbia anche un aumento del recettore solubile. Quindi, nei casi di una diagnosi complessa
di anemia il dosaggio del recettore solubile aumentato può essere espressione di una
sideropenia. Al contrario un dosaggio del recettore solubile che sia normale, in caso di
anemia, sconfessa il sospetto clinico di anemia sideropenica.
Anemia sideropenica
È un’anemia che si realizza per la ridotta disponibilità del ferro, che riduce la possibilità di
produzione di Hb; le cause possono essere:
• Ridotta introduzione dietetica, carenza nella dieta di carni rosse (Mb nel muscolo),
di legumi
• Aumentata perdita, mediante perdita ematica, che si manifesta nei termini di
stillicidio ematico, con perdita di piccole aliquote di sangue periodicamente. Una
condizione frequentemente legata a questo è il ciclo mestruale, che espone al rischio
di anemia sideropenica. In questo caso si parla di menorragia (perdita ematica
abbondante con la mestruazione), mentre in altri casi si ha la metrorragia, quando
alterazioni endometriali comportano perdita ematica (a volte vi è la perdita mista,
come nel caso della meno-metrorragia). Ulcerazioni delle pareti del tratto GI, infezioni
urinarie (con microematuria) possono comportare questa situazione di stillicidio
ematico. L’anemia sideropenica non è di per sé una patologia, ma un segno di
patologia.
• Ridotto assorbimento, come alcuni farmaci che impediscono la riduzione del ferro
ferrico, quindi ne riducono l’assorbimento intestinale. Anche gastrectomie,
enteropatia glutine-indotta, sindromi da malassorbimento o gastriti autoimmuni.
• Aumentata richiesta, per accrescimento tissutale oppure per gravidanza.
• Glossite atrofica: infiammazione della lingua legata al fatto che le papille linguali
non hanno a disposizione ferro e quindi vanno incontro ad atrofia. La lingua è liscia,
lucida e arrossata.
• Coilonichia: le unghie appaiono concave.
• Perdita di capelli: solo nell’anemia sideropenica succede e non nelle altre anemie,
perché in questi casi la carenza di ferro si ripercuote sulla sintesi del DNA per cui
tessuti degli annessi che hanno un turnover accelerato soffrono di più.
L’emocromo non è sufficiente per la diagnosi quindi è necessario spingersi ad altre indagini;
questo è importante perché potremmo impostare erroneamente una terapia marziale con
l’assunzione di ferro; in questo caso si richiedono:
Terapia
Terapia marziale per OS o EV. In questi casi, è difficile che il paziente con anemia severa
possa ripristinare i valori con la dieta, per cui vanno avviati alla terapia farmacologica e
vanno invitati a migliorare la dieta. La terapia generalmente dura fino a quando i valori relativi
al ferro (ferritina, recettori TF) sono ristabiliti, e quindi solitamente la terapia dura un bel po'.
In ogni caso quando si comincia la terapia per OS, (l’incremento emoglobinico avviene molto
tempo dopo), può essere utile valutare i reticolociti dopo 10 giorni. In genere se tutto va
bene i reticolociti aumentano, anche se l’Hb non si è ripristinata.
Tra l’altro, essendo una spia di altre patologie, la diagnosi di anemia sideropenica deve
portare a richiedere altre indagini come visite ginecologiche, gastroscopia, colonscopia. Ad
esempio, nella teleangectasia ereditaria le malformazioni dei vasi cutanei fanno sì che il
paziente presenti una condizione di stillicidio ematico.
IRIDA
Nella pratica clinica, esistono delle condizioni in cui il soggetto presenta un metabolismo del
ferro poco chiaro. Viene definita come anemia da deficit di ferro refrattaria alla terapia
marziale/parenterale, spesso si tratta di soggetti giovani-adulti con una mutazione
congenita, che per motivi sconosciuti può manifestarsi nell’età giovane o adulta. La
mutazione dipende dal gene TMPRSS6, che codifica per la proteina matriptasi-2 che
degrada l’epcidina, per cui il soggetto presenta in questo casi un eccesso di epcidina, per
cui il paziente non può utilizzare il ferro, per cui sia il ferro assunto che quello somministrato
con terapia non può venire utilizzato per incapacità di estrusione e addirittura in questo caso
si verifica un danno da parte della terapia marziale. In questo caso è necessario fare una
valutazione molecolare di questo gene, che tuttavia non è un esame di routine.
• Infezioni
• Neoplasie
• Patologie autoimmuni (come alcune connettiviti).
Quasi sempre è l’epcidina ad essere aumentata in questi casi, il che impedisce la
distribuzione del ferro al comparto eritropoietico.
1. Hb ridotta
2. MCV quasi sempre normale (normocitosi), talora può essere diminuito
3. Reticolociti normali, l’eritropoiesi non ha problemi
4. Sideremia diminuita
5. Ferritina aumentata
6. Recettori solubili TF normali, in quanto il ferro c’è
Altre malattie croniche non producono IL-6 che inibisce l’epcidina ma comportano una
riduzione della produzione di EPO, come le malattie renali, o ancora patologie croniche che
producono IFN-g o TNF-a e IL-1, che inibiscono la sintesi di EPO (possono anche agire
direttamente sulle cellule emopoietiche con azione inibitoria); spesso questa condizione
viene scambiata per una anemia sideropenica, per cui prendono il ferro: capiamo bene che
se il paziente ha invece una infezione quel ferro in più che gli si somministra può favorire la
proliferazione batterica.
Non essendovi un esame standard per il dosaggio dell’epcidina, ci si avvale di altri strumenti
anche perché è pure difficile dosare le citochine di cui prima.
Si può fare la reazione Pearls che serve a mettere in evidenza i depositi di ferro nelle cellule,
particolarmente nei macrofagi: se sono abbondanti, allora il paziente non ha una anemia
sideropenica. A volte queste malattie possono entrare in diagnosi differenziale con delle
neoplasie ematologiche e allora in questo caso è necessario fare una BOM e quindi valutare
il ferro nei macrofagi con la reazione di Pearls (Blu di Prussia).
Quindi, la patogenesi delle anemie da infiammazione cronica può avere due meccanismi:
(1) riduzione diretta dell’eritropoiesi, cioè soppressione della produzione di EPO o (2)
aumento della produzione di epcidina per via dello stimolo citochinico pro-infiammatorio. Lo
stimolo infiammatorio, inoltre, influisce sull’eritropoiesi e nel contempo tutta l’attività normale
orientata a sostenere la fisiologica eritropoiesi viene dirottata verso la leucopoiesi, per cui
accanto al deficit di eritrociti, nell’emocromo di questi soggetti si verifica spesso una
leucocitosi, anche perché il meccanismo infettivo-infiammatorio comporta una
stimolazione della risposta immuno-infiammatoria. In questo caso, i leucociti non sono
aumentati necessariamente perché vi è un reale bisogno, ma soprattutto per dirottamento
dello stimolo citochinico.
Questi pazienti sono anemici perché la cobalamina viene utilizzata per i processi di sintesi
del DNA, per cui in assenza di B12 le cellule non possono replicarsi e questo è vero
soprattutto nel caso dei tessuti ad elevato turnover dei tessuti, per cui si verifica un
rallentamento del turnover a livello del tessuto emopoietico; questo significa che le cellule
vengono prodotte in maniera minore e il rallentamento si esprime propriamente in senso
fenotipico con un aumento del volume delle cellule del comparto emopoietico. Se
dovessimo fare una BOM (che normalmente non si fa) vedremmo delle cellule che sono di
dimensioni aumentate come espressione di sintesi del DNA rallentata.
Se non c’è la cobalamina l’acido folico non può essere usato dalla cellula. Esso, nella cellula,
viene conservato sotto forma di metil-tetraidrofolato, la cobalammina sostanzialmente
agisce rimuovendo il gruppo metilico trasformandolo in tetraidrofolato (acido folico) e
consente alla cellula di poter usare l’acido folico. In questa operazione importante viene
trasformata l’omocisteina in metionina. Dunque, quando manca la cobalammina non
possiamo sintetizzare nucleotidi, non possiamo usare l’acido folico e si accumula
omocisteina a discapito della metionina. Per il fatto che la prima carenza (vitaminica)
produce una seconda carenza (acido folico), questo circuito prende il nome di trappola del
folato. Essendo assente la cobalammina anche la disponibilità dell’acido folico resta
compromessa.
Emocromo
L’esame primario per la diagnosi è sempre l’emocromo, accanto al quale si osservano
alcuni altri esami di laboratorio.
Altri esami
4. Bilirubina indiretta: aumentata (è un aumento lieve), responsabile del subittero del
soggetto e dell’aspetto a cera vecchia. I globuli rossi prodotti, soprattutto le forme
immature, presentano molti difetti del DNA, per cui queste cellule vengono facilmente
indotti all’emolisi. Si realizza quella che è definita come eritropoiesi inefficace.
5. Sideremia: aumento lieve, per autodistruzione di una piccola quota di cellule eritroidi.
6. LDH: è un enzima abbondantemente espresso nei globuli rossi potendo aumentare
sia in aumento della proliferazione (tumori) che in condizioni di aumento della
distruzione.
7. Iperomocisteinemia: l’omocisteina è un fattore protrombotico, per cui aumenta la
possibilità che si sviluppi una trombosi se associato ad altre circostanze;
8. Dosaggio della B12: <100 pg/mL. Il dosaggio della B12 può dare falsi positivi o
negativi per cui gli esami di cui sopra sono importanti fa effettuare.
Deficit pediatrico
Le cause di deficit pediatrico, a parte le scelte scellerate dei vegani (ma che se fumano
boh), possono essere:
Anemia perniciosa
Non è sinonimo di deficit di B12 ma si intende in questo caso la presenza di un disordine
autoimmune, che induce la produzione di autoAb anti-IF o anti-cellule parietali gastriche,
quindi è caratterizzata da una carenza di B12 con patogenesi autoimmune. Per cui, in
questo caso si tratta di una forma particolare.
La terapia è una terapia sostitutiva per OS, oppure si preferisce fare le somministrazioni
per via intramuscolare.
La diagnosi differenziale si fa sul dosaggio dell’acido folico, che è più affidabile del
dosaggio di B12. Tuttavia, se in questo caso il folato è basso per la trappola dei folati e quindi
per carenza di B12 la somministrazione di folati, pur migliorando l’anemia peggiorerà i
disturbi neurologici. Nella pratica clinica, dunque, quando si individua una macrocitosi, si
chiede sia l’acido folico che la vitamina B12.
Cause:
Vi sono delle anemie che riguardano il difetto congenito di geni codificanti per le catene
globiniche. Le informazioni sull’assetto delle catene globiniche derivano dall’elettroforesi
dell’Hb. Sappiamo che fisiologicamente l’emoglobina è costituita da due catene alfa e due
catene beta. Una piccola parte può essere costituita da due catene alfa e due gamma o
delta.
ß-talassemie
Sono delle anemie da deficit congenito che dipende da mutazioni dei geni codificanti per le
catene globiniche BETA.
I geni codificanti per le catene beta partecipano alla sintesi dell’Hb e sono due come per la
maggior parte dei geni, noi ereditiamo due alleli da ciascuno dei nostri genitori. Quando uno
o tutti e due questi alleli non funzionano si realizza il quadro fenotipo della B-talassemia
(anemia mediterranea). Cosa può succedere? Il quadro è alquanto complesso: le mutazioni
in questione possono influire molto, molto poco o per niente sulla sintesi dell’Hb. Si definisce
ß0 la mutazione che su un gene annulla totalmente la sintesi della catena. In altri casi, la
mutazione può modificare l’attività del gene quasi del tutto oppure, il gene che ha subito la
mutazione può anche essere poco ridotto rispetto al normale. Si tratta di uno spettro di
attività genica che va da un valore di poco inferiore al normale ad un valore di poco
superiore a ß0: è questo il caso del gene ß+. A fronte di questa notevole variabilità si intuisce
come posso avere due pazienti ß0/ß+ con fenotipo particolarmente diverso, uno non riesce
mentre l’altro riesce a fare emoglobina.
1. Genotipo B-B+ o B-B0 (Hb>10): in tal caso il paziente se farà l’emocromo esso avrà
un po’ meno di emoglobina, i globuli rossi saranno un po’ piu’ piccoli (MCV basso) e
probabilmente il numero di globuli rossi sarà superiore alla norma. Questo individuo
avrà un trait talassemico. Esso non configura un fenotipo di malattia, giacchè si
tratta di una situazione molto diffusa che è individuabile all’analisi
emocromocitometrica. Nella popolazione, dunque, è facile individuare pazienti
portatori eterozigoti di alleli mutati. Questo genotipo può creare problema quando
l’individuo procrea con individuo con medesimo genotipo, per cui la commistione può
determinare genotipo patologico (prima della gravidanza si fanno le cosiddette prove
talassemiche)
2. Genotipo B0-B0, B0-B+ (dove il + significa che ne fa poche), B+-B+ (Hb<7) : si
instaura un’altra situazione ben più importante che si chiama Beta-talassemia
major, una condizione che genotipicamente non permette la sintesi fenotipica di
catene beta, per cui quando l’eritropoiesi comincia e si trova sfornita di catene beta,
essa va avanti col processo di sintesi emoglobinica con le sole catene alfa. Si
formano, dunque, tetrameri di sole catene alfa. Questi tetrameri, però, non sono
efficienti: sono instabili e a fronte di questa instabilità esse si rompono e favoriscono
la rottura delle cellule (citolisi) che, dunque, vanno in necrosi (eritropoiesi
inefficace). Le cellule muoiono, rilasciano tutto ciò che vi è al loro interno e
sostanzialmente favorisce un processo di infiammazione cronica. L’eritropoiesi,
dunque, non si realizza e l’organismo reagisce per tentare di recuperare la situazione:
il midollo aumenta lo spessore in seguito ad un notevole espansione del midollo
emopoieticamente attivo. Si verificheranno, dunque, tipicamente delle alterazioni
scheletriche. Nelle ossa del volto e del cranio il midollo logora la corticale dell’osso
e induce la neoformazione di osso, che all’Rx, determina il tipico aspetto a spazzola
delle ossa piatte.
L’aumento dell’emolisi (la catene di emoglobina alfa-tetrameriche precipitando
determinano danno ossidativo di membrana con conseguente distruzione intra-
midollare, ovvero eritropoiesi inefficace, e periferica, ovvero emolisi) comporta nel
soggetto una splenomegalia, anche perché la milza diventa una sede
supplementare di emopoiesi.
Inoltre, i pazienti necessitano di trasfusioni frequenti: per cui il ferro in eccesso ad
un paziente che non necessita ferro crea problemi, in quanto non esistono
meccanismi di smaltimento del ferro: la trasferrina è satura, il ferro gira da solo e si
accumula in organi determinando una condizione di emosiderosi secondaria. Ad
essa conseguono insufficienza d’organo epatiche, cardiache e pancreatiche. In
passato, infatti le trasfusioni erano causa di morte a lungo andare, e da diversi anni
esiste una terapia orale con agenti chelanti. Oggi è possibile fare anche una terapia
genica, nei pazienti B+ in particolare (sul B0 c’è poco da fare), in modo tale da
riattivare una corretta espressione genica incrementando la produzione di questo
allele.
La terapia può essere, quindi, (1) trapianto di midollo in bambini e giovani adulti
o (2) trasfusione e terapia chelante il ferro o (3) la terapia cellulare, cioè nei casi
di ß0ß+ si può stimolare il gene ad aumentare la produzione o ancora in alcuni casi
si può stimolare il genoma alla sintesi di HbF, anche se le terapie convenzionali sono
le prime due. In passato, ma ancora oggi, i pazienti muoiono per via
dell’insufficienza d’organo.
3. In tutti i casi intermedi tra treat talassemico e major si verifica la talassemia
intermedia.
A-talassemie
Derivano da mancata/alterata attività dei geni delle alfa globine, con due cose importanti da
considerare:
1. 3 geni funzionanti: portatore silente che non ha problemi, ma la prole può averne
se l’altro genitore è portatore o maggiormente compromesso.
2. 2 geni non funzionanti: trait alfa-talassemico; il paziente può avere lieve
microcitosi e Hb ridotta ma non richiede alcuna terapia, in quanto clinicamente tale
alterazione non determina problemi clinici.
3. 3 geni non funzionanti: deficit di catene alfa, non sufficienti a creare Hb con 2 catene
alfa, per cui si realizza la circostanza in cui l’Hb è costituita da catene ß
tetrameriche, perché le catene alfa sono deficitarie, il che significa che non tutte le
Hb possono avere catene alfa: ecco che per la maggior parte dell’Hb si creano
tetrameri ß, che sono più stabili dei tetrameri alfa per cui il globulo rosso sopravvive
di più, tuttavia ha un’affinità alta per l’O 2 che rilascia difficilmente l’ossigeno. Inoltre,
pur più stabile dei tetrameri alfa, è una HB instabile, per cui la vita media del globulo
rosso è inferiore a 120 giorni, per emolisi. Si parla in questo caso di malattia da
HbH (ß4).
4. 4 geni non funzionanti: si osserva nella vita fetale perché nella maggior parte dei casi
non è compatibile con la vita. Tutta l’emoglobina è costituita da catene gamma, per
cui in tal caso si parla di morte intrauterina. La situazione che si configura prende il
nome di idrope fetale di Bart; in realtà esistono nel mondo un centinaio di soggetti
oggi adulti che sono sopravvissuti a questa condizione ma con sequele neurologiche
e di insufficienza d’organo importante. Per cui il genotipo in una piccolissima
percentuale di casi è compatibile con la vita ma la qualità della vita in questo caso è
molto bassa.
La patologia dipende da una mutazione del gene codificante per le catene ß, si tratta di una
mutazione autosomica recessiva, per cui si manifesta in omozigosi, anche se vi sono
situazioni in cui un gene può avere una mutazione che riguarda la talassemia ß e l’altro
quello dell’anemia falciforme per cui il soggetto può avere una produzione di ß variamente
compromessa in situazione variegata. Questo può essere determinata dal fatto che le
popolazioni che portavano queste mutazioni si sono mescolate tra loro portando a condizioni
di doppie eterozigosi (due alleli mutati con mutazioni diverse tra loro).
1. Dolore toracico
2. Dolore alle estremità
3. Ischemia cerebrale
4. Ulcere cutanee soprattutto alle estremità
Le emazie, però, possono anche rompersi, liberando sostanze contenute al loro interno,
attivando quindi una risposta infiammatoria; oppure possono essere fagocitate dai
macrofagi in quanto inidonee a svolgere la loro attività, e quindi i macrofagi le fagocitano e
dopo la fagocitosi liberano sostanze che alimentano a loro volta il clima infiammatorio. Si
innesca tutta una serie di processi che vanno ben oltre l’anemia (si può sviluppare colelitiasi,
perché l’emolisi determina la formazione di più bilirubina e quindi la presenza di calcoli di
bilirubina).
I pazienti hanno spesso una sintomatologia algica soprattutto al torace, che non
regredisce con gli analgesici per cui in questi casi occorre avviare protocolli specifici di
terapia. Si ha un corteo di sintomi che dipendono dalla presenza di crisi vaso-occlusive.
L’HbS in questo caso tende a formare polimeri aghiformi che determinano precipitazione e
modifica anche del citoscheletro.
La sintomatologia algica si estende a tutti i distretti del corpo dotati di microcircolo, anche
se spesso il paziente si reca in pronto soccorso per via del dolore toracico con dispnea,
oppure per via dell’insufficienza renale che si sviluppa.
I micro-trombi possono anche colpire il microcircolo splenico, con ischemie o infarti
intestinali, che determinano atrofia splenica, che determina un aumento della
predisposizione alle infezione, le quali a loro volta favoriscono le modificazioni biochimiche
che inducono le crisi drepanocitiche, questo è un classico circolo vizioso.
Diagnosi
1. Elettroforesi dell’Hb, troverò HbS e HbF. L’HbF verrà prodotta in quantità più alta,
per compensare il deficit derivante dalla mutazione. Infatti, possiamo somministrare
farmaci come l’idrossiurea (normalmente usato in oncologia in quanto si lega alle
catene del DNA promuovendo l’apoptosi delle cellule che lo legano), che riesce a
promuovere l’espansione dei cloni di eritrocita e eritroblasti che tutti noi abbiamo ma
che rimangono spenti quando le cose vanno bene. L’idrossiurea amplifica la quantità
di questi cloni e fa sì che la quantità di emoglobina fetale aumenti. Tuttavia, accanto
a questa terapia vanno effettuate anche delle terapie profilattiche antibiotiche per
ridurre la tendenza alle infezioni cocciche per atrofia splenica e idratarsi bene.
2. Analisi molecolare del gene
1. Omozigosi per la mutazione, presentano una quota di HbF nel proprio corredo
elettroforetico, la quale funziona bene ma con alta affinità. Tuttavia l’HbF è di aiuto
nel pz in questione perché riduce la sintesi di emoglobina potenzialmente pericolosa.
2. Eterozigosi per la mutazione: in questo caso tutte le situazioni che stressano
l’eritropoiesi potrebbero creare squilibri perché tutta l’eritropoiesi poggia su di un
gene, ma propriamente questi non sono pazienti e quindi non devono fare terapia.
3. Doppia eterozigosi se vi sono due geni beta che portano due mutazioni caratteristiche
di malattie differenti, per cui i geni non funzionano o funzionano male, per cui sono
soggetti con un fenotipo misto.
Emolisi
Invecchiando, il globulo rosso diventa più rigido e quindi questa rigidità può diventare
pericolosa per l’organismo in quanto esso ha una difficoltà ad attraversare i vasi più piccoli.
La rigidità viene rilevata dall’organismo quando l’emazia raggiunge la milza ed il suo circolo
particolare in cui viene testata la performance del globulo rosso. La milza del resto è anche
piena di macrofagi, e quindi tutti gli eritrociti che attraversano difficilmente il letto splenico
verranno fagocitati dai macrofagi. Essi, quindi, si occupano (sistema reticolo-endoteliale)
di eliminare le emazie. Un’altra cosa che può accadere è che a compimento della senilità
del globulo rosso esso esponga in superficie molecole quali la fosfatidilserina, il che
favorisce la fagocitosi. Oppure sulla superficie del globulo rosso possono accumularsi
anticorpi e anche questo è un segno di invecchiamento che favorisce la fagocitosi.
Ci sono, dunque, vari meccanismi che si preoccupano ad eliminare i globuli rossi. Questa
funzione, l’emocateresi, è attribuita alla milza. L’emolisi fisiologicamente può avvenire in
due compartimenti:
1. Extravascolare: (90% della quantità) nella maggior parte dei casi fisiologicamente
avviene qui, ovvero nella milza ed in piccola parte anche nel fegato. Essa è il sistema
ottimale per distruggere i globuli rossi, in quanto è un sistema che fa sì che nulla
venga perduto dalla distruzione del globulo rosso (riciclo). A partire dal macrofago
splenico comincia l’operazione di recupero: in questa operazione viene prodotta
bilirubina, che viene recuperata per la maggior parte. Una piccola parte di questa
molecola finisce per essere eliminata tramite feci ed urine. Dunque, se aumenta
molto l’emolisi feci ed urine potrebbero essere più scuri, in quanto le rispettive
colorazioni dipendono dalla presenza di questa molecola.
2. Intravascolare: avviene per il 10% della quantità, ed è un’emolisi che avviene nel
vaso. Per quanto le operazioni di recupero in questa situazione sono chiaramente
più complesse, le componenti più importanti anche in tal caso possono essere
recuperate, tramite:
a. Emopessina
b. Aptoglobina
Esami di laboratorio:
Extravascolare Intravascolare
Reticolociti Aumentati (a seguito Aumentati
dell’aumento potrei vedere
un MCV aumentato, in
quanto sono più grandi, e
dunque si potrebbe vedere
all’emocromo anemia
macrocitica)
Bilirubinemia indiretta Aumentata Aumentata
Aptoglobina e emopessina Normali Diminuite, perché legano
l’emoglobina saturandosi.
Emoglobinuria Assente Presente
Emosiderinuria Assente Presente (se l’emolisi è
avvenuta da più giorni, per
cui l’emosideruria rivela un
fatto presente giorni
precedenti, per cui non si
valuta nelle crisi emolitiche)
LDH, aumenta sempre Aumentato Aumentato
quando siano presenti
meccanismi di aumento
proliferativo o di aumento
della morte cellulare
Epatosplenomegalia Presente, generalmente più Assente
facilmente apprezzabile la
splenomegalia
Le anemie emolitiche si distinguono primariamente in base alla sede di emolisi, anche se
una importante suddivisione riguarda i tipi di difetti che colpiscono il globulo rosso, potendo
essere definite extracorpuscolari o intracorpuscolari:
Sferocitosi ereditaria
Una forma congenita è costituita dalla sferocitosi ereditaria che è una anemia emolitica da
deficit di proteine del citoscheletro; alla sua nascita, genesi, il globulo rosso è normale, ha
una forma normale, ma l’alterazione del citoscheletro pur generando un globulo rosso
normale nell’aspetto determina una funzionalità alterata, perché si tratta di un’emazia
molto rigida che difficilmente si adatta ai diametri dei vasi da percorrere, quindi a causa
dei traumi cui incorre e per via dell’adattamento che ne consegue, perde porzioni di
membrana. Questa forma impedisce al globulo rosso il passaggio nei sinusoidi della milza,
per cui i macrofagi fagocitano le porzioni di membrana modificando definitivamente il
globulo rosso che diviene uno sferocita.
Tuttavia, la creazione degli sferociti non è solo presente nella sferocitosi congenita ma è
una situazione che può riscontrarsi anche durante il corso di ustioni che danneggiano
anche le superfici del globulo rosso, oppure nelle anemie immuno-emolitiche, in cui i
complessi immuni sui globuli rossi stimolano l’azione macrofagica in maniera tale da
fagocitare porzioni di membrana modificandone l’assetto e realizzando lo sferocita.
Comunque, nei soggetti con sferocitosi congenita, il quadro clinico è caratteristico: si tratta
spesso di soggetti giovani (malattia congenita) che possono avere crisi emolitiche; per
cui:
Si può decidere di intervenire con prevenzione delle crisi emolitiche, per cui in tal caso si
può operare una splenectomia, anche se essendo globuli rossi anomali, essi possono dare
trombosi, per cui va fatta anche terapia in questo senso.
Deficit di G6pDH
È un enzima fondamentale per il metabolismo delle specie reattive dell’ossigeno, per cui
una sua carenza induce un precoce invecchiamento patologico, che porta al
malfunzionamento della cellula che in alcune patologie (ma non in questa) si traduce in
degenerazione neoplastica perché le specie ROS hanno un effetto genotossico.
Trattasi di una patologia genetica con trasmissione X-linked, per cui in virtù di questo fatto,
la maggior parte dei soggetti affetti dovrebbe essere di sesso maschile anche se vi sono
anche pazienti donne affette perché non si riconoscono in maniera conclusiva le
alterazioni.
All’anamnesi, questi pazienti raccontano di aver preso un farmaco che mai avevano preso
prima e che magari era successa la stessa cosa in passato con un altro farmaco; in altri casi
può riferire di aver ingerito delle fave crude che conterrebbero niacina o altre sostanze con
effetto altamente ossidante. I farmaci che possono produrre crisi emolitiche in questi
soggetti sono numerosi, per cui buona regola sarebbe approfondire l’anamnesi
farmacologica per valutare quali farmaci assunti in passato abbiano dato complicanze.
Aspirina, antibiotici, antimalarici sono farmaci che possono rientrare in questa lista,
ancorché gli antimalarici siano farmaci poco comuni. Un fattore scatenante comune è
rappresentato dalle infezioni, in cui i radicali liberi sono prodotti dai leucociti attivati. Molte
infezioni possono provocare l’emolisi; l’epatite virale, la polmonite e la febbre tifoide sono
tra quelle più frequenti.
I soggetti giungono all’attenzione del medico perché hanno condizioni come la cefalea,
palpitazione, dispnea, vertigini, scotomi, nonché dolori addominali, dolori lombari oppure
insufficienza renale, emoglobinuria, ittero, per via dell’emolisi intravascolare.
All’emocromo mostreranno vari segni quali anemia, reticolociti, MCV potrebbe essere
alto per i reticolociti. Indagando tramite altri esami di laboratorio potremo trovare LDH
aumentato, bilirubina aumentata, aptoglobina diminuita.
In queste circostanze può essere utile lo striscio del sangue periferico, che evidenzierà
l’anomalia morfologica dipendente dal danno ad esempio sotto forma di schistociti.
Per motivi più o meno conosciuti, il sistema immunitario diviene disreattivo, rivolgendo le
azioni immunitarie sugli antigeni self, potendo iniziare a produrre degli autoanticorpi della
classe delle IgG che legano i globuli rossi a temperatura di 37°.
Dal punto di vista terapeutico in questi pazienti generalmente si può dare terapia
cortisonica, per reprimere la disreattività immunologica.
Si noti che il complemento, grazie alla deposizione delle immunoglobuline sulle emazie, in
parte viene attivato (già presente sulla membrana), ed in parte viene reclutato.
Il paziente in questione potrebbe avere anche dei fenomeni cianotici a livello del naso, dei
polpastrelli, della punta del piede, dove l’agglutinazione può avvenire con facilità perché
sono quelle più esposte al freddo.
Ig bitermiche (IgG)
Si può anche avere una situazione in cui sono presenti anticorpi bitermici e si tratta di IgG
che legano il GR a basse temperature e pur essendo IgG attivano il complemento a
temperature più elevate (corporea), per cui sono situazioni abbastanza complesse e
questo tipo di attività bitermica in passato era spesso legata alla malattia luetica, alla sifilide,
che ora è meno rappresentata. Ad oggi, la presentazione di questa malattia può appartenere
a giovani pazienti, anche pediatrici, che hanno infezioni virali (verso la guarigione avviene
l’inizio dell’emolisi) che causano questo tipo di anemia che può autolimitarsi. Quindi, che
succede? L’autoanticorpo IgG lega l’emazie nelle aree periferiche fredde del corpo; la lisi
complemento-mediata si verifica invece quando le cellule ricircolano nelle regioni centrali
calde, poiché la cascata del complemento funziona più efficacemente a 37°C.
La caratteristica di questa anemia è che è autolimitante, per cui si autolimita e non serve
fare terapia in quanto la prognosi è buona.
Anticorpi misti
Infine, vi sono situazioni in cui non si riesce a categorizzare gli anticorpi che agiscono, per
cui si definiscono anemie ad anticorpi misti, che creano per questo motivo delle
problematiche diagnostiche e terapeutiche.
• Test di Coombs diretto: dopo prelievo di sangue, saranno presenti dei globuli rossi
con anticorpi sulla superficie. i GR del paziente si incubano per un po’ di tempo con
un siero controllo specifico per le Ig umane (è un siero anti-globuline umane); è
chiaro che se il siero trova le Ig sulle superficie dei GR si verificherà una reazione tra
questi anticorpi del siero controllo e la porzione costante delle Ig del globulo rosso tal
che si abbia una agglutinazione che è visibile sul fondo della provetta. Nel momento
in cui preparo i globuli rossi del paziente separandoli dal resto delle strutture, le IgM
eventualmente legate sulla superficie è possibile che si stacchino in quanto non
hanno un legame forte, motivo per cui non è sufficiente fare solo questo test. Questo
test, dunque, risponde principalmente alla domanda relativa le IgG.
Il test di Coombs diretto può essere positivo anche in un individuo che non ha
un’emolisi, cioè nell’1% dei casi ci può essere un falso positivo. Per cui questo esame
deve essere chiesto non a caso, ma sulla base di un valido sospetto clinico.
• Test di Coombs indiretto: si analizza in questo caso il siero del paziente in cui
eventualmente saranno presenti anticorpi; si mescola il siero del paziente con delle
emazie controllo e se presenti anticorpi nel siero, questi si legheranno alle emazie
controllo. Fatto questo, si effettua una miscelazione con il siero controllo anti-Ig
umane per valutare l’eventuale presenza di agglutinazione. Questo test risponde
principalmente alla ricerca di IgM.
I due test sono entrambi utili, dal momento che se le IgG si saldano tenacemente sul GR, le
IgM non lo fanno e quindi possono sganciarsi dalle membrane durante la preparazione, il
che significa che è necessario fare tutti e due i test.
Il test di Coombs, oltre che in questo caso, è utile anche prima dell’effettuazione di una
trasfusione, per scongiurare eventuali forme di incompatibilità alla trasfusione.
• Per motivi di disreattività non noti del sistema immunitario, l’organismo produce
anticorpi che interagiscono con il farmaco laddove il farmaco presenta epitopi simili
al GR per cui si definisce una cross-reazione degli anticorpi con gli Ag del GR.
• Il farmaco aderisce alla superficie del globulo rosso e l’anticorpo verso il farmaco
aderisce sul farmaco adeso alla superficie del GR.
• L’Ig è specifica per una regione di giunzione che sta di mezzo tra il farmaco
aderente alla superficie del GR e la superficie del GR che va incontro a
modificazione e proprio questa regione modificata diviene il target dell’anticorpo.
Sono queste tre situazioni differenti tra di loro.
Più spesso le reazioni di questo tipo intervengono dopo la somministrazione di alcune classi
di farmaci anche frequenti, potendo dare luogo a reazioni che siano istantanee o tardive,
per cui in questo caso è necessario sospendere la somministrazione del farmaco
considerato. I farmaci possono essere soprattutto antibiotici ma non solo, anche anti-
ipertensivi o anti-psicotici.
Chiaramente il meccanismo immunologico può variare a seconda del farmaco, anche se più
spesso sono prodotti anticorpi caldi IgG che possono essere messi in evidenza con il test
di Coombs diretto: in questi casi la reazione emolitica post-somministrazione del farmaco
può insorgere dopo poco tempo o molto tempo oppure potrebbe protrarsi anche dopo la
sospensione del farmaco, soprattutto nei casi di cross-reazione in cui si manifesta la
necessità della presenza del farmaco solo nella prima fase di innesco della produzione
anticorpale.
La reazione emolitica più importante è quella che può essere generata da una trasfusione
di emoderivati (piastrine sangue, neutrofili). Questa reazione può avere diverse fasi
patogenetiche e anche queste influenzano i diversi quadri clinici di questa condizione
emolitica.
• Può capitare che il paziente venga trasfuso con un gruppo ematico non uguale al
suo. Succede che stiamo somministrando delle cellule all’individuo, al ricevente, che
ha già un sistema immune idoneo a riconoscere il non self. Quindi dando a un
individuo con gruppo sanguigno A delle emazie di gruppo B, quello avrà una reazione
perché il suo sistema immune è già pronto ad agire; le nuove emazie vengono subito
attaccate dalle immunoglobuline e c’è subito l’agglutinazione che avviene in tutti gli
organi e si traduce in un blocco del microcircolo, perché è come se il sangue
coagulasse in questi piccoli vasi negli organi.
• Più spesso però la reazione trasfusionale che avviene è un’altra, ovvero quella legata
a una incompatibilità tra antigeni che non vengono studiati o tra sostanze che
sono contenute nel sangue del donatore. Quindi il paziente trasfonde questa
sacca di sangue e ci sarà un antigene x che viene riconosciuto come non self e il
paziente comincerà a presenterà i primi sintomi dell’emolisi oppure può non avere
nulla e manifestare alcuni segni e sintomi dopo qualche giorno, oppure possono
accadere eventi e conseguenze più serie con dispnea, brividi molto forti, shock
ipotensivo, insufficienza renale. Quindi si crea una situazione importante perché
c’è qualche elemento, qualche antigene presente nella sacca del donatore che
non è compatibile con il sistema immune del ricevente.
Questo qualcosa, questo antigene dobbiamo cercare di scoprirlo e combatterlo.
Possiamo:
1. dare del cortisone al paziente ed esso serve anche a mantenere e regolare la
pressione.
2. diamo ossigeno al paziente perché esso favorisce la distensione della
contrattilità muscolare che si è verificata a seguito della liberazione di citochine
della risposta immunologica
3. poi diamo dei liquidi per mantenere il circolo e dei diuretici per conservare la
funzionalità renale
Tutti questi accorgimenti dobbiamo darli in breve tempo, perché se questi disturbi
durano molto, (quindi il paziente ha dolori, diventa cianotico ecc.) il paziente potrà
andare in contro a insufficienza renale o addirittura incontro a morte.
Quando c’è una crisi emolitica in seguito a una reazione trasfusionale possono accadere
diverse cose dipende sempre dal quid che ha scatenato la reazione però in generale viene
attivata la risposta umorale, la risposta infiammatoria, liberazione delle citochine, emolisi,
sovraccarico dei metaboliti tossici. C’è un quadro patogenetico che compare con fenotipo
clinico ben descritto con cianosi dispnea dolori pruriti ecc.
1. Brividi, sono generati da vari motivi in questo contesto, ma nella maggior parte dei
casi, le sostanze che entrano nell’organismo liberano sostanze come istamina ed
eparina, che inducono di fatto una reazione allergica. Nel caso della incompatibilità
AB0, i brividi hanno un altro significato, che riguarda la presenza di agglutinazione
dei GR che determinano vasocostrizione, iperincrezione adrenergica e i brividi sono
espressione di questa condizione di alterazione dell’apporto di ossigeno; vengono
definiti questi con il nome di brividi scuotenti.
2. Cianosi
3. Insufficienza respiratoria
4. Ipotensione e shock
5. Insufficienza renale
Nel caso dell’incompatibilità AB0 c’è poco da fare: l’agglutinazione si verifica pressoché in
ogni distretto vascolare, determinando spesso la morte del soggetto.
Emoglobinuria parossistica notturna
L’EPN può anche essere una patologia di emergenza ematologica, pur non essendo una
neoplasia ematologica presenta una caratteristica comune a queste dacché la mutazione
è acquisita, come nel caso delle neoplasie ematologiche. Si tratta di un disordine clonale
definito dalla mutazione di una staminale emopoietica a carico del gene PIGA coinvolto
nella formazione del GPI, che è una molecola che lega proteine estrinseche di membrana
come il CD55 e il CD59 che sono due inibitori del complemento. L’assenza del GPI
determina impossibilità di esposizione delle molecole in questione determinando una
attivazione impropria del complemento sulla superficie delle cellule del sangue; in questo
scenario patogenetico, si configurano:
• Emolisi intravascolare
• Emoglobinuria, che in passato veniva affiancata agli aggettivi parossistica e
notturna, anche se l’emolisi può verificarsi in qualsiasi momento della giornata, anche
se la dicitura notturna non è sbagliata dal momento che durante la notte si osserva
una acidificazione del pH a cui sono sensibili le cellule che non possono controllare
l’attivazione del complemento, che si attiva maggiormente in questo caso.
L’attivazione del complemento induce l’attivazione del complesso di attacco alle
membrane sicché si presenti una lisi della membrana cellulare e liberazione di sostanze,
che possono causare una serie di sintomi aggiuntivi rispetto ai classici sintomi dell’anemia.
• Trombosi: per via dell’attivazione del complemento che attiva anche il processo
emostatico (l’attivazione del processo emostatico potrebbe derivare dal sequestro di
NO da parte dell’Hb libera), che può configurarsi con:
a) TVP
b) Trombosi arteriosa
• Distonia del muscolo liscio: tipici della malattia sono gli spasmi esofagei, perché
vengono liberate sostanze che inducono scavenging dell’ossido nitrico. Un altro
problema di questa situazione è quella dei dolori addominali per contrazione viscerale
diffusa e il priapismo.
• Ipertensione polmonare: per i meccanismi di scavenging dell’ossido nitrico.
Il complemento non si attiva direttamente ma le circostanze che fanno in modo che queste
due proteine non ci siano, rendono più sensibile il complemento all'attivazione. Basterebbe
una riduzione di pH nel sangue, una riduzione della concentrazione di ossigeno, tutte
condizioni che si verificano di notte oppure quando c'è un'infezione. Questa patologia viene
chiamata notturna per la prevalenza dei casi riscontrati di notte ma in realtà può avere i suoi
sintomi anche di giorno.
● Anemia
● Trombosi
● Spasmo esofageo: dolore lancinante al petto simile al dolore dell'infarto, tipico di questa
patologia.
● Priapismo: per forte iperattività dei corpi cavernosi.
● Dolore addominale: sempre per la maggior contrazione della muscolatura liscia.
● Ipertensione polmonare: per via dell'aumento del tono della muscolatura liscia.
Diagnosi
La diagnosi si effettua con un esame citofluorimetrico con il quale vado a valutare
l'espressione delle proteine CD55 e CD59 e nel caso della emoglobinuria parossistica
notturna non troverò l'espressione di queste proteine.
Il paziente potrà essere salvato perché si può somministrare al paziente un medicinale,
chiamato Eculizumab, che si basa sull'azione di un anticorpo monoclonale che si va a
legare su alcune frazioni del complemento inattivandolo.
Questa patologia può raramente trasformarsi in leucemia acuta e ogni volta che io ho una
pancitopenia periferica (cioè emocromo ci dice che il paziente è anemico, piastrinopenico,
leucopenico) io devo escludere tutta una serie di patologie per riuscire a capire se la
diagnosi può essere un’aplasia midollare o un’altra.
Un farmaco che può funzionare prima del trapianto nei pazienti con aplasia midollare, è ad
esempio la ciclosporina. Essa deprime l’azione immunitaria e anche quella dei linfociti T.
Questi pazienti con aplasia però sono anche pancitopenici, cioè soggetti ad infezioni, e la
ciclosporina, essendo un immunosoppressore, ci porta a trovarci in una situazione difficile
da amministrare sotto il profilo terapeutico.
In questo caso la documentazione dello spegnimento dell’attività emopoietica è affidata alla
biopsia osteomidollare, che permette di valutare la situazione a carico del midollo osseo.
L’eziologia di questa patologia, come per la maggior parte delle malattie onco-ematologiche
non è nota. Valgono i soliti fattori ambientali, radiazioni, etc. in un quadro poco chiaro oggi
giorno. Alcuni pazienti che fanno una terapia al fine di curare un tumore X possono
presentare una mielodisplasia a livello midollare collegata alla terapia eseguita. Questo è
dovuto al fatto che i farmaci usati per curare quelle neoplasie sono farmaci che hanno
disturbato lo sviluppo delle cellule emopoietiche, favorendo la trasformazione neoplastica.
Come detto dal punto di vista clinico i problemi saranno infezioni, sanguinamenti, anemie;
la trasformazione in leucemia acuta è una causa di morte importante perché abbiamo
detto che a questa patologia ad oggi non c’è una terapia possibile per eradicare la malattia,
ci sono dei farmaci che possono stabilizzare la malattia ma non la possono eradicare.
C’è poi un’altra considerazione da fare e cioè che questa patologia colpisce soprattutto gli
anziani. Questi già portano con sé un bagaglio di malattie cardiovascolari o altre comorbilità
sulle quali si innesca anche la sindrome mielodisplastica con tutte le complicazioni che ciò
implica.
Quando abbiamo parlato della nicchia emopoietica si è detto che la cellula emopoietica
vive nella nicchia insieme a cellule stromali. Quando questo legame si rompe
patologicamente, anche la cellula emopoietica può non essere più protetta da altri fattori. La
cellula staminale non è più sotto il controllo della cellula stromale e inizia a subire una serie
di alterazioni che potrebbero trasformarla. Quindi possono essere coinvolte alterazioni
genetiche, del microambiente, immunologiche.
I sintomi più importanti sono quelli legati alle emorragie e alle infezioni che ovviamente se
incorrono con una certa frequenza possono rappresentare causa di morte (in questi pazienti
sono abbastanza frequenti infezioni che causano ascessi perirettali).
Prognosi
1. Un fattore prognostico importante è dato dalla presenza o meno di blasti. I blasti
sono le cellule immature del sangue e caratterizzano soprattutto le leucemie
acute, sono le cellule più immature che posso trovare nel sangue. Quando ho una
leucemia acuta, la percentuale di blasti nel midollo e nel sangue periferico è
superiore al 20%. Quindi nelle mielodisplasie la percentuale di blasti nel sangue
periferico e nel midollo sarà inferiore al 20%. Tutte le patologie che compongono le
mielodisplasie avranno una prognosi peggiore se il numero di blasti è vicino al 20%,
una prognosi migliore se è lontano dal 20%.
2. L’altro carattere riguarda le alterazioni dei geni o dei cromosomi: più alterazioni
dei geni o dei cromosomi avrò, peggiore sarà la prognosi della mielodisplasia.
3. Più il paziente è pancitopenico peggiore è la prognosi. Il paziente potrà avere solo
l’anemia e quindi andrà meglio di un paziente pancitopenico. Sarà possibile, dunque
una citopenia periferica mono, bi o trilineare.
Quindi tutte queste cose devono essere messe insieme nello stesso paziente potendo
ricavare uno score prognostico, cioè un sistema che ci dice questo paziente con queste
caratteristiche come sta rispetto ad un altro paziente.
Classificazione
• Delezione del braccio lungo del cromosoma 11u → si associa spesso alla
presenza di sideroblasti ad anello, che metto in evidenza attraverso una reazione
citochimica che si chiama Colorazione di Pearls;
• Monosomia del cromosoma 7 → determina la presenza di micromegacariociti;
• Delezione (17) (p13) → determina l’anomalia di Pelger-Huet, un grave difetto della
granulopoiesi;
• Del. (5) (q13 q33) → la delezione del braccio lungo del cromosoma 5 determina la
Sindrome 5q-, una mielodisplasia particolare ed importante da ricordare. Al contrario
di altre mielodisplasie essa gode di un trattamento terapeutico più efficace. Prende il
nome di “sindrome” perché racchiude in sé alcuni segni:
1. Alterazione cromosomica: da un punto di vista diagnostico, come cerco questa
alterazioni?
- Analisi del cariotipo: che può essere difficile perché queste
cellule possono non crescere in coltura, come in molti tumori
del sangue e non, e, quindi, potrei non avere cellule da
bloccare in metafase in modo tale da analizzare i cromosomi
- Fish, utilizzo di una sonda specifico per quello che sto
cercando (una sequenza fluorescente complementare a ciò
che voglio localizzare); generalmente i segnali attesi sono
due perché sia che io cerchi un gene, sia che io cerchi un
cromosoma, nel nostro genoma tutto è rappresentato due
volte, per cui se mi ritrovo meno o più di due segnali, vuol
dire che è presente un’alterazione (in questo caso,
ovviamente, dovrò avere meno di due segnali per la
sindrome 5q-);
2. Riguarda donne di età molto giovane (rispetto all’età media delle donne affette
da SMD) con una anemia macrocitica (nelle mielodisplasie ci può essere
chiaramente anemia normocita) e una piastrinosi (nelle mielodisplasie c’è
normalmente piastrinopenia). L’alterazione 5q-, inoltre, si associa a
megacariociti monolobulati (mononucleati), più piccoli, e marcata
neutropenia.
• Alterazioni del cromosoma 3 → forti disturbi nella megacariocitopoiesi, per cui i
pazienti sono piastrinopenici o affetti da piastrinosi.
Nella mielodisplasia abbiamo detto che, come in tutti i tumori, oltre ad avere anomalie
cromosomiche, possono esserci anche anomalie ai singoli geni; si pensa che ogni
paziente con SMD abbia almeno 2/3 geni mutati:
• Solitamente questi geni codificano per proteine che fanno parte dello
SPLICEOSOMA, che si occupa dello splicing alternativo. Nel tumore è molto
importante lo splicing alternativo, perché un punto cardine della trasformazione
neoplastica potrebbe essere quello che ad un certo punto, nel nostro organismo, non
viene prodotta più una proteina composta, ad esempio, da 6 esoni, ma da 8 esoni,
per cui farà cose totalmente diverse, per cui quella che viene intaccata è la qualità
dell’mRNA.
• I geni che si occupano della metilazione del DNA sono deregolati e ciò risulta in un
GENOMA IPERMETILATO, che costituisce un problema epigenetico: questi gruppi
metilici funzionano da interruttore che spegne il processo di espressione del gene,
quindi la cellula va incontro ad una impedita differenziazione e si ha displasia.
• Fattori di trascrizione/trasduzione del segnale, p53, modificazioni istoniche.
Detto tutto questo, i FATTORI PROGNOSTICI nella SMD fanno i conti con la biologia della
malattia e con i fattori specifici del paziente, ossia le cosiddette comorbilità (un paziente
con comorbilità avrà prognosi diversa rispetto ad un paziente senza). Tutti i fattori che
abbiamo fin qui citato (blasti, alterazioni citogenetiche, alterazioni molecolari, comorbilità,
tipi di citopenia, etc.) messi insieme ci permettono di costruire degli score, o modelli,
prognostici. Questi score ci dicono quanto distante è il paziente dall’evoluzione leucemica
della malattia. Una paziente con una buona prognosi è un paziente stabile, che non mi
aspetto evolva in leucemia. In un pazienza con prognosi sfavorevole la displasia in un tempo
breve può evolversi in leucemia acuta.
La DIAGNOSI è molto difficile, perché la displasia del midollo osseo o del sangue
periferico, cosi come la citopenia nel sangue periferico, possono essere segno di tantissime
altre patologie, soprattutto infettive, infiammatorie croniche, autoimmuni. Quindi la diagnosi
differenziale è ardua.
La displasia del midollo, cioè le alterazioni morfologiche delle cellule non sono da sole un
carattere specifico della malattia. Nel caso, ad esempio, di una infezione c’è una
accelerazione della produzione di tutto (globuli rossi, globuli bianchi e piastrine), che si
accompagna ad anomalie morfologiche conseguenti. La diagnosi differenziale delle MD
è molto difficile, perché spesso il paziente è un paziente anziano che porta già un bagaglio
anamnestico ricco di patologie, di farmaci, in situazioni che possono creare una
sovrapposizione diagnostica con questa patologia.
Terapia
Ovviamente, la citopenia produce una sintomatologia, che noi possiamo migliorare. Se il
paziente è anemico, possiamo migliorare l’anemia con la somministrazione di
eritropoietina. Se il paziente è neutropenico, possiamo combattere le infezioni con gli
antibiotici. Ma tutto questo consiste solo in quella che viene chiamata TERAPIA DI
SUPPORTO, che non ha lo scopo di guarire il paziente, perché non esiste terapia del
genere, ma solo di alleviare i sintomi.
Quando abbiamo parlato della cellularità del midollo nelle MD, si è visto che nella maggior
parte dei casi il midollo è ipercellulare a cui si associa una citopenia periferica in antitesi.
Ma una parte dei pazienti con MD può avere midollo ipocellulato, generalmente in pazienti
molto più giovani o molto più anziani rispetto all’età media dei pazienti affetti da SMD.
L’ipo-cellularità midollare spesso suggerisce una patogenesi della malattia MD diversa:
in questi casi è possibile che la patologia sia stata innescata da un’alterazione
immunologica, ossia ci sia un clone di cellule (linfociti-T CD8+ ad azione citotossica) che
distrugge le cellule staminali emopoietiche (azione autoimmune). Quale sia il passaggio
fra questo fatto immunologico e la vera trasformazione mielodisplastica ancora non lo si
conosce; ma questi pazienti rispondono bene ai farmaci ad azione immunosoppressiva,
come la ciclosporina. Dunque, pazienti più giovani possono essere curati con la
Ciclosporina A (CyA) oppure con un Siero Antilinfocitario (ATG, costituito da
immunoglobuline di cavallo o di coniglio ad azione antilinfocitaria umana). Il principio su cui
si basano questi farmaci è che se riusciamo a bloccare l’innesco, blocchiamo la malattia.
È importante fare la DIAGNOSI perché seppur non esista una terapia specifica per le MD,
per alcune mielodisplasie esistono farmaci che paralizzano e stabilizzano la malattia,
senza garantire la guarigione, ma evitando che si trasformi in leucemia acuta. Un esempio
di questo tipo di farmaci è la Lenalidomide, un derivato della Talidomide. La Talidomide è
un farmaco che in passato (fine degli anni ’50-’60) veniva assunto dalle donne in gravidanza
per le sue proprietà antiemetiche (combatteva nausea, vomito, mal di testa), fino a quando
si è visto che l’assunzione del farmaco era associata alla presenza di alterazioni nei
nascituri, per cui si è capito fosse un farmaco teratogeno: i bambini nascevano con
malformazioni degli arti superiori ed inferiori. Fu, quindi, bandito come farmaco, fino a
quando non è stato recuperato agli inizi degli anni 2000, perché si è visto che nei tumori
esercitava proprietà antiangiogenetica. I tumori solidi, infatti, per mantenersi vivi e proliferare
hanno bisogno di risorse, che arrivano dai vasi che il tumore stesso costruisce attorno a sé
(angiogenesi patologica); questo derivato della talidomide contrasta l’angiogenesi tumorale,
ma in alcune patologie ha un effetto, in altre no.
Oggi, quello che sappiamo è che la talidomide nel tumore oncoematologico ha una funzione
immuno-modulante, ossia ha un azione modulante sul sistema immunitario, ma non
conosciamo con esattezza la modifica che apporta al sistema immunitario; l’unica cosa che
sappiamo con certezza è che interviene sullo sviluppo del processo neoplastico.
Prima del trattamento il paziente mostra megacariociti come li abbiamo finora descritti, dopo
il trattamento essi diventano normali. Vengono, così, ripristinate le normali attività
emopoietiche. Questo funziona per un periodo di tempo, anche abbastanza lungo, ma
inesorabilmente accade che il farmaco ad un certo punto non funziona più (succede
qualcosa nelle cellule neoplastiche staminali che osteggia i meccanismi di azione del
farmaco) e la malattia procede con il suo percorso naturale.
Per tutti gli altri pazienti con SMD, diversa dalla Sindrome del 5q-, cosa possiamo fare? Per
alcuni pazienti con altre SMD possiamo effettuare la somministrazione di IPOMETILANTI.
Abbiamo detto che la trasformazione della cellula emopoietica nelle SMD avviene
probabilmente anche perché nel genoma di queste cellule c’è una ipermetilazione che
blocca l’espressione dei geni colpiti, dunque lo stato di differenziazione della cellula resta
bloccato. Normalmente l’espressione di un gene è regolata da alcune regioni regolatorie
che si trovano sul gene; una di queste è rappresentata dalle cosiddette isole CpG, zone di
DNA ricche di C (citosina) e G (guanina). Queste regioni, però, possono subire metilazione
da parte delle metil-transferasi, di conseguenza non esercitano più nessun controllo
sull’espressione del gene. Dunque, usiamo inibitori delle metil-transferasi che vanno a
proteggere queste regioni, rendendole invulnerabili all’attacco delle metil-transferasi,
garantendo la permanenza dell’attività trascrizionale. Quindi, gli agenti ipometilanti
servono a demetilare il DNA o ad impedire che questo venga metilato, ripristinando lo stato
fisiologico del genoma dei nostri pazienti. I due agenti ipometilanti che oggi utilizziamo nella
pratica clinica sono:
• 5-AZACITIDINA
• DECITABINA
La terapia con questi due inibitori delle metil-transferasi stabilizza la malattia, rallentandone
l’evoluzione (ma ricordiamo che non promette la guarigione).
LEUCEMIE ACUTE
Nell’Oncoematologia un tema ricorrente è rappresentato dalle alterazioni genetiche (in
realtà, le alterazioni genetiche le ritroviamo in tutti i tumori, ma in Oncoematologia questa
nozione è stata precoce rispetto al resto della medicina, cioè la nozione che il tumore
potesse essere una malattia dei geni deriva dall’oncoematologia).
Un paradigma presente anche in altre neoplasie non ematologiche è l’alterazione della p53.
È importante, però, controllare l’assetto genetico delle mutazioni, perché un singolo gene
mutato non è capace di tutto questo potere trasformante.
Cosa potrebbe succedere ad una cellula staminale emopoietica nel momento in cui c’è un
quid che induce la trasformazione neoplastica della cellula? Questo quid molto spesso è
rappresentato da una lesione al DNA subita ad opera di un termine ignoto. Questa lesione
causa alterazione del DNA. Normalmente, a fronte di questa alterazione, dovrebbero entrare
in azione i meccanismi di riparo al DNA, oppure la cellula viene indotta all’apoptosi (se i
meccanismi di riparo non riescono a riparare il danno), ma quando c’è la trasformazione
neoplastica questi due meccanismi non funzionano. Ad ogni modo, una volta che
questo danno al DNA si propaga (viene trasmesso alla prole successiva) si crea un
problema: un DNA danneggiato ha la potenzialità di poter essere vittima di altri errori. Così,
nella cellula si accumulano una serie di mutazioni, che alla fine avranno anche un senso
evolutivo, infatti, di tutte queste mutazioni che cominciano a susseguirsi e si realizzano nella
cellula, viene selezionato l’assetto mutazionale “migliore” dal punto di vista evolutivo (ossia,
che la fa proliferare meglio, che la fa produrre più energia, ecc.).
Nel caso delle trasformazioni neoplastiche nei tumori del sangue, la trasformazione può
avvenire o a livello della (1) cellula staminale emopoietica o a livello del (2) progenitore.
Possiamo fare questa considerazione, perché guardando i tumori del sangue e guardando
anche le MD, vedremo che alcuni di questi tumori sono poco differenziati, altri sono molto
differenziati. Che il tumore sia più o meno differenziato è una circostanza che può
realizzarsi in un tempo x, a seconda che la lesione origine da una cellula staminale
emopoietica totalmente indifferenziata o se colpisce un progenitore emopoietico che per
definizione è una cellula già commissionata, già sa che diventerà un globulo rosso, bianco
o una piastrina. Il progenitore, inoltre, a differenza della cellula staminale emopoietica, non
è in grado di autorigenerarsi, ma quando subisce la mutazione acquista la capacità di
rigenerarsi.
Proprio come nella SMD, anche nelle leucemie acute ho una emopoiesi insufficiente, ma,
mentre nelle MD avevo un certo grado di differenziazione (per quanto fosse alterata), qui
non c’è per nulla: l’attività emopoietica è completamente in mano ai blasti, cellule totalmente
indifferenziate abbondanti nel midollo osseo e che possono abbondare anche nel sangue
periferico.
Emocromo
La patologia si chiama “leucemia” perché chi la osservò per primo notò che un incremento
nel numero dei leucociti determinava un cambiamento anche fisico del sangue stesso,
che da rosso diventava bianco; questo accade quando i blasti sono tanti (oppure quando
i leucociti più o meno maturi sono tanti, ma non è questo il caso, perché questo è il caso
di un’altra malattia che poi vedremo).
• Blasto mieloide: è una cellula con citoplasma più rappresentato, nel nucleo sono
evidenti i nucleoli, nel citoplasma trovo il cosiddetto CORPO DI AUER, un
bastoncino di granuli condensati, che quindi non funzionano (se è un blasto
mieloide, probabilmente questa cellula doveva diventare un granulocita. La
caratteristica dei granulociti sono i granuli, che nel blasto mieloide si condensano tra
di loro a formare un bastoncino). Se nulla fosse accaduto, questa cellula sarebbe
diventata un granulocita.
• Blasto linfoide: è una cellula un po’ più piccola del mieloblasto; il nucleo è più
rappresentato rispetto al citoplasma (rapporto N/C a favore del nucleo); non ci sono
corpi di Auer nel citoplasma. Se nulla fosse accaduto, questa cellula sarebbe
diventata un linfocita.
Gli altri esami che posso fare sono: l’Ago Aspirato Midollare (prelievo dallo sterno e dalla
cresta iliaca per un esame citologico) e la Biopsia Osteo-Midollare (mi consente di
prelevare un piccolo campione di osso dalla cresta iliaca, dandomi informazione relative
all’architettura del midollo). Questo genere di informazioni sono necessarie per la
diagnosi, ma servono anche per fare altre indagini, come l’analisi del cariotipo o l’analisi
molecolare, ma soprattutto devo porre particolare attenzione all’analisi
immunofenotipica. Quest’ultima, in citofluorimetria mi dice cosa c’è espresso sulla
superficie dei blasti; questa informazione mi aiuta a capire se quello che sto guardando è
una leucemia mieloide o linfoide. Se ci sono espressi antigeni mieloidi, come CD13 o
CD33, allora sto guardando una leucemia acuta mieloide; se ci sono espressi antigeni
linfoidi, come il CD19, allora sto guardando una leucemia acuta linfoide a cellule B. Se
invece trovo un CD3, CD7, CD2 (antigene linfoide di linea T), ad esempio, starò guardando
una leucemia acuta linfoide a cellule T. Distinguerle è molto importante, perché sotto il punto
di vista prognostico/terapeutico parlo di due patologie completamente diverse.
In sintesi, gli esami importanti da eseguire per diagnosticare una leucemia acuta linfoide o
mieloide sono:
Sotto il profilo delle alterazioni dei geni e dei cromosomi alla fine queste alterazioni
produrranno sempre la solita triade che è costante in quasi tutti i tumori e cioè
- aumento della proliferazione delle cellule indifferenziate
- diminuisce l'apoptosi, cioè il freno che controlla la proliferazione
- blocco della differenziazione
Quindi alla fine avrò un midollo osseo ricco di cellule indifferenziate che poi verranno
trasferite nel sangue periferico.
Oggi, tuttavia, non si usa più questo tipo di classificazione nella pratica clinica, in quanto
quella che viene usata è quella dell’OMS, la quale distingue le leucemie acute mieloidi in
base alla presenza o assenza di alterazioni che riguardano cromosomi e geni.
Accanto alle alterazioni ricorrenti sui cromosomi, poi, è possibile avere individuare
alterazioni ricorrenti di mutazioni di geni (es. gene della nucleofosmina, gene per la
tirosinchinasi FLT3).
Le leucemie mieloidi vengono classificate in base a queste alterazioni perchè in base
all'alterazione che c'è ci sarà una prognosi diversa. Ad esempio, i pazienti che hanno le
traslocazioni hanno una prognosi migliore rispetto a quelli che non ce l’hanno; i pazienti che
hanno la mutazione di NPM1 (NUCLEOFOSMINA) vanno meglio rispetto a quelli che non
hanno tale mutazione; i pazienti che hanno la mutazione del gene FLT3 vanno peggio
rispetto a quelli che non ce l’hanno.
Questa categorizzazione non solo ci serve a fare diagnosi, ma ci serve anche a definire la
prognosi e in alcuni casi anche ad organizzare la terapia migliore per il paziente. Alcune
di queste anomalie sono sensibili ad alcuni farmaci e quindi il paziente risponde meglio ad
una terapia piuttosto che ad un'altra. Quindi categorizzare la leucemia acuta mieloide è
importante per la diagnosi, per la prognosi e per la terapia.
Sotto il profilo clinico questi pazienti avranno dei sintomi che saranno tra i più vari e
saranno tutti riconducibili ad un'insufficiente attività emopoietica, in quanto questi pazienti
sono:
1. anemici
2. neutropenici
3. piastrinopenici
Quindi avranno tutti i segni dell'insufficienza d'organo legata a una mancata disponibilità
di ossigeno, le infezioni (es. aspergillosi) e le emorragie: la malattia si chiama acuta
proprio perchè per queste circostanze il paziente può morire improvvisamente. Il paziente
può sviluppare, dunque, aspergillosi ad esempio, o ipertrofia gengivale (a seguito della
localizzazione dei blasti). In sintesi, possiamo trovare:
Diagnosi
Si è detto che deve essere assolutamente rispetto il criterio del 20% dei blasti. L’unica
eccezione a questo criterio è rappresentata dalla presenza delle traslocazioni 8;21, 16;16,
15;17. Se ho queste traslocazioni posso avere anche un numero di blasti inferiore ma posso
comunque fare la diagnosi di leucemia acuta mieloide: questi sono tutti gli esami che devo
fare per categorizzare la leucemia acuta mieloide. La categorizzazione serve a: (1)
diagnosi , (2) prognosi, (3) terapia. Stiamo parlando di un paziente in pericolo di vita e
devo farlo nel più breve tempo possibile anche se alcuni esami richiedono alcuni tempi
tecnici che non possono essere superati, quindi per questo è importante avere prontamente
il sospetto diagnostico in maniera tale da non perdere ulteriore tempo.
TRASLOCAZIONE 15;17
Quale era il motivo per cui pazienti con la leucemia acuta promielocitica morivano subito
(ancora prima degli altri pazienti con LMA)? Il paziente che ha questa patologia ha una
serie di complicanze soprattutto emorragiche, perchè i suoi blasti sono ricchi nel
citoplasma di granuli. Questi blasti si chiamano promielociti leucemici, ovvero
assomigliano ai promielociti (una fase maturativa fisiologica di una cellula che deve
diventare granulocita). Il promielocita blocca il suo processo di differenziazione, si ferma in
questa fase e subisce delle trasformazioni. Quindi il promielocita leucemico è ricco di granuli
che sono a loro volta ricchi di sostanze che hanno attività procoagulante. Una di queste
sostanze è rappresentata dal fattore tissutale, una molecola con elevata attività
procoagulante, cioè attiva le piastrine e promuove la loro aggregazione, innesca tutte
una serie di attività che clinicamente realizzano un'ostruzione del microcircolo, quindi questo
tipo di leucemia è associato fortemente alla CID coagulazione intravascolare
disseminata. Il paziente, quindi, all'inizio ha una trombosi del microcircolo, a cui segue
inevitabilmente la problematica di natura emorragica a causa del consumo di piastrine
(quelle poche piastrine che ha si consumano) e fattori della coagulazione.
1. microscopio: perchè vediamo nel sangue periferico e nel midollo osseo che ci
sono queste cellule promielocitiche leucemiche ricche di granuli
2. alterazione genetica con analisi cariotipo: per la traslocazione 15;17;
3. alterazione molecolare: formazione del gene di fusione PML-RARalfa, generato a
causa della traslocazione. Sul cromosoma 15 si trova il gene PML, laddove sul 17
troviamo il gene RAR-alfa. Questi due geni si fondono nella traslocazione,
codificando per una proteina con una nuova attività. L’analisi molecolare viene fatta
con una PCR o con Fish.
Il gene PML può rompersi in tre punti diversi durante la traslocazione: quindi io posso
avere un gene di fusione, e quindi un RNA messaggero che deriva da quel gene, che può
essere corto, di media lunghezza o molto lungo a seconda di dove si è rotto il gene PML.
Quindi posso avere tre trascritti che chiamo BCR1, BCR2 o BCR3 laddove BCR vuol dire
Breakpoint Cluster Region cioè il punto dove è avvenuta la rottura del gene PML. Il trascritto
BCR1 generalmente è il più frequente.
Fisiologicamente il gene RARalfa codifica per un fattore di trascrizione RARalfa che
recluta altri fattori di trascrizione e con essi promuove la trascrizione di geni che servono
a far differenziare la cellula del sangue. Questo manipolo di fattori di trascrizione reclutati
da RARalfa funziona solo in presenza della vitamina A, e quando funziona la cellula può
normalmente differenziarsi. Quando c'è questo gene di fusione PML-RAR, la nuova proteina
che viene generata sarà diversa da quella codificata da RAR, e questa proteina ha la
tendenza a non reclutare fattori che promuovono la trascrizione, giacchè recluta fattori che
reprimono la trascrizione. In questo modo si crea una sorta di multiproteina che blocca la
trascrizione. I cinesi hanno visto che aumentando la quota di vitamina A fisiologica, a questo
aumento di concentrazione della vitamina corrisponde una degradazione e rimozione di
questo complesso di inibizione trascrizionale. Quindi aumentando la quota di vitamina A
aumenta la possibilità di rimuovere questo complesso di inibizione. E come aumento la
quota di vitamina A? Utilizzando un derivato della vitamina A che si chiama acido
transretinoico. Esso non è un agente chemioterapico, ma è un agente differenziante in
quanto costringe la cellula a completare la differenziazione.
La leucemia acuta promielocitica è l'unica da cui si può guarire a patto che la patologia
venga subito identificata perchè il rischio della mortalità precoce è sempre molto alto.
Esiste, inoltre, un'altra sostanza che non è propriamente un chemioterapico, e che può
comunque funzionare da molecola di contrasto allo sviluppo neoplastico: il triossido di
arsenico (As2O3). Il triossido di arsenico funzione nella leucemia acuta promielocitica in
quanto a basse concentrazioni favorisce la degradazione di PML-RARalfa, cioè della
proteina di fusione. Ad alte concentrazioni, inoltre, è in grado di promuovere l’apoptosi.
Quindi sulla base di queste informazioni la leucemia acuta promielocitica può essere
completamente guarita usando acido transretinoico associato a triossido di arsenico
senza l’uso di alcun chemioterapico.
BCR-ABL è un gene di fusione che si forma nella leucemia mieloide cronica, e quindi dal
momento che solo in questa patologia c’è questo gene di fusione, mentre nelle altre non
c’è, banalmente si è deciso di distinguere queste patologie croniche sulla base della
presenza/assenza di questa anomalia molecolare.
Queste tre patologie hanno delle caratteristiche proprie ma hanno anche dei punti in
comune, il primo che abbiamo già individuato è la fase molecolare, cioè condividono alcune
caratteristiche molecolari. Oltre le caratteristiche molecolari, esse condividono anche dei
sintomi: in quasi tutti i casi di queste patologia vi è splenomegalia. In particolare nella
mielofibrosi essa è quasi sempre presente, mentre è ritrovabile nella metà dei casi,
circa, di policitemie e trombocitemia.
La splenomegalia che troviamo nella mielofibrosi viene descritta come massiva, cioè, è
un aumento di volume della milza molto importante che è riscontrabile in medicina solo in
poche altre patologie, quasi tutte appartenenti all’ematologia; queste altre patologie sono la
leucemia linfatica cronica, la leucemia mieloide cronica, la leucemia a cellule
capellute, e anche nella leishmaniosi (che, ovviamente, non è una malattia ematologica).
Quindi quando vedete in un paziente un polo inferiore della milza che può arrivare in sedi
anatomiche impensabili, bisogna pensare a una di queste patologie.
Il gene JAK2 codifica per una proteina, che generalmente è a stretto contatto con alcuni
recettori di membrana, caratterizzati da un dominio extracellulare e da un dominio
intracellulare. Quanto quest’ultimo dominio di questi recettori viene attivato, a seguito
dell’interazione con il ligando, il dominio intracellulare trasduce il segnale, lo trasmette a
JAK2, la quale è una chinasi e una volta attivata comincia a fosforilare i suoi substrati
(quindi si attiva JAK2 e a sua volta attiva i suoi substrati), attivando così tutta una serie di
segnali che generalmente promuovono la proliferazione delle cellule. Quando c’è una
mutazione JAK2 funziona da solo, non ha bisogno dell’attivazione del recettore; la
mutazione consente alla proteina JAK2 di svolgere la sua attività chinasica a
prescindere da quello che succede sulla superficie della cellula.
Il gene CAL-R detta anche calreticulina, codifica per una proteina che, normalmente,
troviamo adesa alle cisterne del reticolo; i compiti di questa proteina non sono del tutto
chiari, però certamente questa proteina ha un ruolo nel folding delle proteine. Quando le
proteine vengono sintetizzate e quindi cominciano ad emergere dalle cisterne del reticolo
tendono ad aggrovigliarsi, se si aggrovigliano troppo, questo aggrovigliamento estremo può
diventare un segnale di autodistruzione o malfunzionamento della proteina, quindi la
funzione della calreticulina è quello di “sbrogliare” questo folding. Per questo motivo la
calreticulina si trova sul reticolo, ed è mantenuta in questa posizione da un dominio che
si chiama K-DEL e dalla carica elettrostatica che si trova adiacente a questo dominio.
Quando c’è la mutazione succede che la proteina, a seguito della mutazione, assume una
conformazione diversa, innanzitutto perde il dominio grazie al quale può restare ancorata
alle cisterne del reticolo e cambia anche la sua carica elettrica. Cambiando alcune
proprietà, a seguito della mutazione, cambia anche la funzione, nel senso che non farà più
quello che faceva la proteina nativa, ma farà altro; la nuova proteina è libera nel citoplasma
e in questa conformazione può andare ad interagire con il recettore della trombopoietina,
il quale, attivato va ad attivare a sua volta JAK2, la quale attiverà la proteina STAT che
funge da fattore di trascrizione (favorendo la proliferazione cellulare).
Nel caso della mutazione del gene MPL succede la stessa cosa: la mutazione di questo
gene attiva JAK2 in sede intracellulare e fa partire quindi il segnale nel nucleo con STAT.
Quindi le mutazioni sono diverse, i geni mutati sono diversi ma tutti convergono verso il
JAK2.
Policitemia vera
Sotto il profilo clinico il paziente che ha una policitemia vera, nella maggior parte dei casi
non ha grossi problemi, va dal medico per disturbi lievi, come ad esempio il formicolio a
mani e piedi, parestesia, ronzii auricolari, cefalea, i famigliari gli dicono che è sempre
rosso in volto; oppure va dal medico perché ha avuto una trombosi, o ha avuto
un’emorragia, oppure perché ha un dolore al fianco sinistro che si acutizza soprattutto
con il passo. Ci sono una serie di sintomi non propriamente specifici che lo costringono ad
andare dal medico o a fare dei controlli.
A questo punto si procede con gli esami, tra i quali abbiamo la biopsia osteomidollare,
devo valutare se a questa iperproduzione periferica, corrisponde, istologicamente, anche
un’aumentata produzione del midollo, e quindi bisogna cercare uno dei criteri per fare
diagnosi, che è la panmielosi cioè l’iperplasia eritroide, granulocitaria,
megacariocitaria, ovvero tutte e tre le linee mieloidi sono iperplastiche.
Fatto questo poi, bisogna notare che un paziente che ha un’eritrocitosi o può avere questa
patologia (policitemia vera), o, più probabilmente ha quella che viene chiamata eritrocitosi
reattiva che è la conseguenza di un altro problema. L’eritrocitosi reattiva è sicuramente
molto più frequente della policitemia vera, e posso sospettarlo per via della frequenza
probabilistica, o interrogando il paziente che racconterà di una patologia respiratoria,
cardiaca, renale oppure posso fare il dosaggio delle eritropoietine sieriche; se si tratta di
un’eritrocitosi reattiva l’eritropoietina sarà aumentata, cioè, c’è un meccanismo di
compenso e c’è un’aumentata produzione di eritropoietina che far quindi aumentare il
numero degli eritrociti. Nella policitemia vera l’eritropoietina ha livelli diminuiti invece, e
questo è un criterio abbastanza importante; nella policitemia ha molta importanza l’analisi
molecolare, molto efficiente, perché abbiamo detto che questo tumore è associato, per il
98%, alla mutazione di un gene, se questa mutazione non c’è, probabilmente siamo di
fronte ad un’altra patologia. Abbiamo detto 98% perché il restante 2% ha la mutazione nello
stesso gene ma in una posizione diversa, quindi si può affermare che alla fine nel 100% dei
casi il gene JAK2 è mutato.
La diagnosi si basa sulla presenza o assenza di criteri. I criteri vengono divisi in criteri
maggiori innanzitutto:
Per fare la diagnosi di policitemia vera dobbiamo avere, o tutti e tre i criteri maggiori, oppure
i primi due criteri maggiori (l’emocromo e il midollo) più il criterio minore.
- sudorazioni notturne
- vertigini
- parestesie
- angina
- prurito, in quanto forse l’aumento di densità causando una certa stasi favorisce il
rilascio di istamina
- ulcere duodenali
- rossore
- dispnea
- ulcere duodenali
- a volte splenomegalia
Questi pazienti non devono fare alcuna terapia se non queste, a meno che non abbiano dei
fattori di rischio (rappresentati soprattutto da età>60 anni, presenza di trombosi): in questo
caso non possiamo affidarci solo al salasso per ridurre la massa eritrocitosica ma dobbiamo
rivolgerci ad un farmaco, l’idrossiurea, di cui abbiamo già accennato quando abbiamo
parlato dell’anemia falciforme (perché stimola la produzione di emoglobina fetale). In questa
patologia l’idrossiurea si lega al DNA e uccide le cellule, è un chemioterapico, ben
tollerato dal paziente (può essere assunto anche per molto tempo).
Trombocitemia essenziale
I sintomi sono molto simili a quelli della policitemia vera però il quadro patologico è
dominato dalla piastrinosi: il paziente ha un numero di piastrine superiore a 450mila; anche
questo paziente può avere la leucocitosi e può avere anche un aumento degli eritrociti,
però più spesso ha solo la piastrinosi.
I megacariociti sono presenti solo a livello del midollo osseo, e si dividono col processo
delle endomitosi, e per questo il megacariocita è pieno di nuclei in numero di pari. Essi
possono liberare circa 2 mila piastrine, le cellule alle quale è affidata la funzione. Le
piastrine hanno una durata di vita di circa 10 giorni e una grossa quota di piastrine è
conservata a livello splenico, motivo per cui in ogni circostanza in cui abbiamo liberazione
di adrenalina, come uno sforzo fisico, se a questo sforzo segue valutazione dell’emocromo
si noterà una piastrinosi (in quanto l’adrenalina correla ad una contrazione della milza e la
liberazione del pool piastrinico).
Le cause reattive sono tantissime, sono molto frequenti, alcune sono legate a fatti non
prettamente patologici o, se patologici, facilmente superabili, ad esempio l’anemia da
carenza di ferro è associata alla piastrinosi, o ancora molte malattie su base
autoimmune, o alcune malattie infiammatorie croniche che si accompagnano ad una
piastrinosi.
Se devo fare diagnosi di trombocitemia essenziale, lo faccio valutando dei criteri maggiori:
1. Stabilire, con certezza, l’assenza di una causa reattiva, oppure trovare un marker
clonale (un marker di clonalità, ovvero dimostrare che sto guardando un tumore, ad
esempio lo posso fare cercando ad esempio un’alterazione cromosomica).
- Se il paziente non ha un’età superiore a 60 anni e non ha già avuto una trombosi o
una emorragia esso non deve fare nient’altro, con una qualità di vita ottima: possiamo
definire una buona prognosi. La possibilità di avere una evoluzione leucemica sarà
più o meno come quella della policitemia vera.
- I pazienti che hanno più di 60 anni (quindi l’età è un fattore di rischio) o sono arrivati
all’attenzione del medico perché avevano una trombosi o un’emorragia, dovranno
fare una terapia, e anche in questo caso la terapia sarà risultata dall’idrossiurea che
avrà lo scopo di controllare e mantenere basso il numero delle piastrine.
Nella policitemia vera cosi come nella trombocitemia, dobbiamo controllare la mutazione
dei geni (JAK2, CALR, MPL) con la biologia molecolare. Nei soggetti colpiti da policitemia,
trombocitemia e mielofibrosi facciamo anche l’analisi del cariotipo, perché se non
riusciamo a trovare le alterazioni molecolari che documentano la clonalità del tumore, il
trovare un’alterazione del cariotipo, quindi un’alterazione cromosomica, risulta
analogamente utile.
Abbiamo detto che i pazienti che hanno molte piastrine sono più soggetti ad emorragie
piuttosto che trombosi, questo è importante da sapere per capire bene se dare ad un
paziente l’anticoagulante o meno. Da cosa è causato ciò? La risposta è nel fattore di vW.
Mielofibrosi primitiva
La mielofibrosi primitiva, rispetto alle altre due, è una patologia molto più aggressiva, a
prognosi sfavorevole con tendenza a trasformarsi in leucemia acuta. Questa patologia sotto
il profilo prognostico e anche biologico ha dei caratteri di malignità molto più accentuati
rispetto alle altre patologie, e per questo rappresenta un problema sotto il profilo della
terapia possibile da offrire a questi pazienti (la ricerca sta facendo parecchi studi su questo
campo, ma al momento non ci sono terapie che consentono la guarigione del paziente,
questa patologia si dice essere orfana del trattamento).
La mielofibrosi è una malattia rara, colpisce, soprattutto ma non solo, soggetti che hanno
superato i 60 anni di età. Rispetto alle patologie appena viste, è una patologia con caratteri
di malignità molto marcati e alte probabilità di trasformarsi in una leucemia acuta (si noti che
è possibile che la policitemia e la trombocitemia possono, talora, trasformarsi in mielofibrosi
oltre che raramente in leucemia). In questi pazienti si innesca un processo che ha radici
patogenetiche ancora non note che trasforma l’attività emopoietica: nel midollo c’è una
trasformazione del tessuto emopoietico che inizia ad assumere caratteristiche proprie del
tessuto fibrotico, e a seguito di questa trasformazione l’emopoiesi comincia a diventare
stentata, insufficiente.
1. Anemico
2. Piastrinopenico
3. Leucopenico
Il paziente ha varie problematiche per cui si presenta dal medico: la notte non riesce a
dormire, ha dolori ossei, sudorazione, febbre che non passa e che compare solo la sera
mai il giorno, perde peso, ha un forte dolore al fianco sinistro per la splenomegalia, può
avere trombosi, può avere emorragia. Dunque egli ha una serie di sintomi che ben fanno
capire come la mielofibrosi sia una malattia sistemica, che quando si innesca deteriore
fortemente il paziente.
Diagnosi
Anche in questo caso tra i criteri diagnostici vi è la necessità di accertare la mutazione dei
3 geni per quanto è possibile anche non rilevare la mutazione di questi geni.
Criteri maggiori:
Criteri minori:
1. Anemia
2. Leucocitosi
3. Splenomegalia massiva
4. LDH aumentata
5. Leucoeritroblastosi
Per fare la diagnosi c’è bisogno di 3 criteri maggiori e 1 minore. La prova certa che stiamo
guardando un tumore chiaramente, però, viene dalla valutazione molecolare del cariotipo,
se non c’è questa non possiamo fare la diagnosi.
Dal punto di vista clinico, quindi il paziente ha molti sintomi, sistemici (malattia sistemica);
non ci sono sintomi specifici, ci sono solo sintomi che testimoniano il progressivo
deterioramento dello stato clinico del paziente.
L'unica terapia efficace che può vincere questa patologia sarebbe un trapianto di midollo
di cellule staminali, però abbiamo detto che questa è soprattutto una patologia dell'età
senile (il paziente spesso ha più di 60 anni) e in linea generale non sono fatti trapianti a
pazienti che hanno più di 70 anni, per cui una grossa fetta di pazienti con mielofibrosi resta
fuori dalla possibilità trapiantologica. In realtà, anche se potesse fare il trapianto il paziente
che lo fa ha una prognosi che resta sospesa in quanto il trapianto potrebbe non andare bene
per una serie di motivi, primo fra tutti è rappresentato dal fatto che la malattia non è solo nel
midollo ma anche nella milza. Quindi sono pochi i pazienti con questa patologia che fanno
il trapianto, gli altri che fanno? Valutiamo la presenza dei sintomi costituzionali (segni di
una malattia sistemica) comuni a tutte le patologie oncoematologiche che sono febbre,
perdita di peso, sudorazioni notturne, anemia, la leucocitosi e la presenza di blasti
(più blasti ci sono, sempre meno del 20% più la malattia è vicina alla leucemia e quindi la
prognosi sarà peggiore). L'insieme di questi fattori ci dà un rischio che noi numeriamo da 0
a +3:
o il paziente che ha rischio 0 vuol dire che è all'inizio della sua malattia e che nei
prossimi 5 anni non gli succederà nulla rispetto alla malattia e dunque posso solo
osservarlo;
o all'aumentare del rischio aumenta la probabilità che la malattia in un tempo medio
breve diventerà una leucemia acuta e allora ci sono i farmaci sperimentali, le
molecole che vengono provate e testate negli studi clinici che allungano la sua vita;
a questo si aggiunge la terapia convenzionale che è una terapia quasi palliativa, nel
senso che non ha lo scopo di curare la malattia ma solo quella di frenarla, e può
essere rappresentata dall'idrossiurea. Oggi, in realtà, ci sono dei farmaci ,classificati
come inibitori di JAK2 : sono delle molecole che vanno a spegnere l'attivazione
costitutiva di JAK2 che qui è mutato. Questi farmaci, però, riescono a rallentare la
malattia ma non la guariscono, anche perchè abbiamo detto all'inizio che la
mutazione è condivisa da tutte queste patologie e quindi probabilmente il farmaco,
l'inibitore di JAK2, contrasta la mutazione del gene ma non contrasta il resto che
governa la malattia. Quindi questo inibitore di JAK2 è un progresso ma non è al
momento la soluzione in quanto non offre al paziente la guarigione.
In tal caso stiamo considerando la situazione BCR-ABL+: ciò significa che il cromosoma 9
ed il 22 si riarrangiano, e come risultato di questo riarrangiamento c’è una proliferazione
cellulare, dovuta al prodotto molecolare del riarrangiamento stesso. Quando il cromosoma
9 ed il 22 si scambiano reciprocamente il materiale, accade che si formano 2 geni di fusione:
1. Uno sul derivativo 22 (il nuovo cromosoma 22 nato dalla traslocazione): il derivativo
22 è un cromosoma molto più piccolo del 22 originale. Su questo cromosoma c’è il
gene di fusione BCR-ABL, che governa la malattia
2. Uno sul derivativo 9: il derivativo 9 è più grande rispetto al cromosoma normale. Esso
presenta l’altro gene di fusione, che però non è importante ai fini della patogenesi
della malattia in quanto esso non viene tradotto in proteina e quindi non ha
importanza patogenetica.
I geni BCR e ABL che hanno dei compiti fisiologici che riescono ad assolvere quando
conservano la loro residenza, quando cambiano sede e conformazione cominciano a fare
cose diverse. In un paziente con leucemia mieloide cronica se faccio uno striscio di sangue
anziché vedere tanti globuli rossi come normalmente dovrebbe essere, posso vedere tanti
globuli bianchi perchè la leucocitosi è il parametro di laboratorio che è sempre presente
quando ho la leucemia mieloide cronica (non esiste leucemia mieloide cronica senza
leucocitosi): il problema è che la leucocitosi è un segno molto diffuso.
La leucemia mieloide cronica è una malattia definita trifasica: se io guardo il paziente senza
dargli medicine vedrò 3 fasi della malattia:
Emocromo
o sempre leucocitosi
o può avere piastrinosi
o può avere anemia
Esami di laboratorio
A questo punto devo dimostrare, se ho il sospetto clinico che il paziente possa avere la
leucemia mieloide cronica, la presenza della traslocazione 9-22: la dimostro con l'esame
del cariotipo o con la Fish. Inoltre, posso dimostrare la presenza del gene di fusione BCR-
ABL con la biologia molecolare, con la PCR. Per fare la diagnosi di leucemia mieloide
cronica devo assolutamente cercare e trovare la presenza del gene di fusione altrimenti
non posso fare questa diagnosi.
- la PCR è fatta a partire dall'RNA messaggero che si estrae dal paziente e viene
convertito in cDNA che viene sottoposto all'analisi molecolare. Sarà una RT-PCR
(dove RT sta per retrotrascrizione dell'mRNA in cDNA che vado a studiare per la
presenza o assenza di BCR-ABL). Questa procedura è molto più sensibile rispetto
alle altre in quanto lavora sui geni e non sui cromosomi.
- la Fish
- la citogenetica
Terapia
Per questa patologia c'è una terapia specifica che agisce in maniera specifica su BCR-
ABL: quindi potrò valutare se la mia terapia al paziente funziona andando a monitorare nel
sangue periferico le quantità di BCR-ABL. Questa quantizzazione la posso fare con un altro
esame di laboratorio; esso viene fatto tramite una PCR quantitativa e non qualitativa come
prima (la PCR qualitativa mi dice solo se ciò che cerco è presente o meno, la PCR
quantitativa mi da informazioni sulla quantità).
In passato la LCM è stata curata con vari approcci, ma nessuno di questi approcci
funzionava; addirittura è stata trattata con le radiazioni (lo stesso agente eziologico). In raltà
le radiazioni erano usate per ridurre le dimensioni della milza. Inizialmente veniva trattata
con il “beverone di Fowler”, in cui c’erano oppioidi e arsenico, che facevano stare meglio il
paziente in quanto l’arsenico favoriva l’apoptosi e gli oppioidi cancellava il dolore. In realtà
poi il paziente si affezionava al beverone e moriva avvelenato. È stato usato anche
l’interferone-alfa: circa il 10% dei pazienti riusciva a vivere a lungo con interferone-alfa che
funzionava con azione immuno-modulante.
Poi è arrivato l’imatinib, il primo farmaco con azione elettiva nei confronti della cellula
neoplastica. Grazie ad esso la patologia viene curata. ABL normale codifica per una
proteina tirosin-chinasica, una proteina che fosforila dei substrati ricchi in tirosina, usando
ATP. Quando c’è la trasformazione di ABL in BCR-ABL, la proteina è attiva costitutivamente,
ovvero non ha bisogno di un segnale esterno per attivarsi e fosforilare, giacchè fosforilare il
substrato a prescindere, il che porta alla trasformazione neoplastica. Fosforilando i substrati
infatti attiva vie di segnali, rappresentata da vie proliferative, di inibizione dell’apoptosi, etc.
l’imatinib va ad occupare la parte della proteina che lega l’ATP: esso quindi arriva prima
dell’ATP ad occupare il dominio chinasico di ABL e impedisce alla proteina stessa di poter
funzionare. Tramite questo meccanismo la cellula neoplastica viene spenta. C’è anche da
dire, però, che è quasi certo che accanto a questo meccanismo ce ne siano degli altri che
favoriscono la scomparsa della neoplasia che non conosciamo.
Quindi, in questo paziente l’iter prevede, in ordine:
1. diagnosi
2. trattamento farmacologico
3. follow-up per vedere se il paziente risponde al farmaco: doso la quantità di BCR-ABL
con una PCR quantitativa. Questa quantità, nel tempo, tende a diminuire fino a
scomparire. In tal caso il paziente sta rispondendo bene alla terapia. Può, però,
accadere che le cose non vadano così ma che ad un certo punto il paziente non
risponda più al farmaco.
Quando faccio la diagnosi posso anche ricavare la prognosi del mio paziente rispetto al
rischio di come il mio paziente potrà rispondere alla terapia, questo rischio prende il nome
di rischio Sokal. Esso è un parametro che deriva dall’analisi di vari altri parametri che
entrano in una equazione:
- l'età
- il grado di splenomegalia
- piastrine
- percentuale di blasti nel sangue periferico
Usando questi fattori potrà individuare un rischio basso<0,8, intermedio tra 0,8 e 1,2 e
alto >1,2. Nel caso di rischio alto il paziente è più vicino alla trasformazione leucemica della
malattia rispetto al rischio basso. L'analisi del rischio è una cosa che ancora oggi noi
facciamo però bisogna dire che l'imatinib e i nuovi farmaci hanno un po' annullato la validità
di questa classificazione, cioè un paziente ad alto rischio può avere comunque un'ottima
risposta farmacologica.
Come detto facciamo un monitoraggio che prevede che la quota di malattia che deve
diminuire, diminuisca non a caso ma rispetto a determinate quantità: cioè dopo 3 mesi la
malattia deve essere diminuita di tot, dopo 6 mesi di tot, dopo un anno deve essere
pochissima, dopo 2 anni non la devo vedere proprio. Se la malattia non segue questo
andamento vuol dire che la terapia non funziona bene e devo fare degli aggiustamenti,
correggere la dose, cambiare il farmaco.
Può accadere che il paziente risponda alla terapia però poi a un certo punto questa risposta
si perde: il paziente è diventato resistente. Ciò avviene perchè questo tumore, così come
gli altri tumori, non è una malattia monoclonale, non sono governate da un solo clone di
cellule, ma il tumore è una malattia policlonale.
Quando noi facciamo una terapia e questa terapia funziona è perchè il clone più
rappresentato è sensibile a quella terapia, mentre i cloni più piccoli non sono sensibili, quindi
succede che il clone che prima era il meno rappresentato adesso ha un sacco di spazio per
espandersi ed è per questo che i tumori possono recidivare dopo tanti anni, perchè la prima
terapia fa piazza pulita di un clone ma lascia spazio libero ai cloni che crescono più
lentamente.
Dunque, l'imatinib spazza via tutte le cellule possibili, restano quelle che non sono sensibili
e a partire da queste riprende la malattia, solo che questa volta il paziente non risponderà
alla terapia in quanto queste cellule non sono sensibili all'imatinib. Quindi dovrò cambiare
farmaco, in quanto esistono altri farmaci come l’imatinib. Esso appartiene alla categoria
degli inibitori tirosinchinasici, ed è un inibitori di 1° generazione. Inoltre, vi sono farmaci
di seconda e terza generazione, che posso usare quando il primo farmaco non funziona.
Perchè ci sono dei cloni sensibili e altri resistenti al farmaco?
1. Mutazione del dominio chinasico: perchè alcuni cloni, quelli piccoli, che
diventano grandi quando il paziente diventa resistente, hanno delle mutazioni. Essi
hanno la conformazione del dominio chinasico diversa per cui il farmaco non riesce
a legarsi, cioè il dominio chinasico di queste cellule è mutato. Questa mutazione la
posso trovare con indagini di biologia molecolare, studiando il pezzettino di DNA
che codifica per il dominio chinasico, trovando che questo avrà una sequenza mutata.
2. Evoluzione clonale: un altro motivo per cui il paziente può diventare resistente è
che quando la malattia evolve succedono cose al genoma e ai cromosoma del
paziente. Quindi lo scettro che governa la malattia passa dalle mani di BCR-ABL alle
mani di altre alterazioni cromosomiche o geniche che non sono sensibili all'azione
degli inibitori delle tirosinchinasi. Avviene la cosiddetta evoluzione clonale, cioè
la malattia si trasforma, il farmaco continua a legarsi al dominio chinasico ma a quel
punto non è la privazione di ATP sufficiente a bloccare la malattia perchè ci sono altri
meccanismi, alterazioni cromosomiche, alterazioni molecolari, la stessa mutazione
di p53, per esempio, che subentrano e che diventano il motore della malattia.
3. Un altro meccanismo di resistenza è favorito dall’amplificazione o overespressione
nel genoma del paziente del gene BCR-ABL. Per amplificazione si intende quando
nel genoma ci sono più copie del gene; per overespressione si intende che quel gene
non viene espresso 10 ma 1000 volte. Entrambe queste circostanze determinano
un’aumentata quantità di proteina BCR-ABL. Quando c'è l'amplificazione o
l'overespressione il farmaco funziona però il problema è che è aumentata la quota di
proteina ma al tempo stesso non posso aumentare la quota di farmaco perchè
significa aumentare l'effetto tossico del farmaco. L'amplificazione è una cosa che
posso identificare con la Fish, usando delle sonde marcate con sostanze
fluorescenti. Quindi quando vedo al microscopio i nuclei o il DNA vedrò: (1) un
puntino rosso che è ABL e (2) un puntino verde che è BCR. Se c'è il gene di fusione
vedrò la fusione tra rosso e verde cioè giallo; in ogni cellula vedrò un puntino giallo,
ma se ho l'amplificazione vedrò più puntini gialli.
NEOPLASIE LINFOIDI
Le neoplasie linfoidi possono avere origine cellulare varia: l’origine della cellula
neoplastica può esser rappresentata dai linfociti B, T, NK e ciascuna delle cellule che
rientrano in questi grandi famiglie. In linea generale, almeno nell’adulto, le patologie
neoplastiche linfoidi colpiscono soprattutto le cellule B.
I linfociti possono subire una trasformazione neoplastica in un qualsiasi momento della loro
differenziazione. Questo qualcosa, questo quid, che agisce operando la trasformazione
neoplastica può risiedere in un tessuto anche diverso dal midollo osseo. Finora abbiamo
visto che nelle neoplasie mieloidi tutto nasce nel midollo. In tal caso invece, per quanto
riguarda le cellule linfoidi, non nasce tutto nel midollo. Una parte delle cellule linfoidi
comincia la differenziazione nel midollo e la completa in altri organi, i linfonodi. Le cellule
T completano e iniziano la loro differenziazione nel timo. Si allarga quindi il fronte di
possibilità rispetto ai siti dove possono avvenire i processi di trasformazione neoplastica.
È bene tenere a mente i vari passaggi differenziativi delle cellule linfoidi: questo perché
quando ci si trova davanti ad un tumore e si deve capire quanto è o non è differenziato (e
questo dato è importante per attribuire un nome alla malattia osservata e per valutare la
prognosi del paziente), si andrà a cercare sulla superficie delle cellule l’espressione di
determinati antigeni. Il fatto che questi antigeni ci siano o non ci siano renderà consapevoli
della circostanza nella quale la cellula neoplastica ha subito la trasformazione, consentirà
cioè di capire in quale punto della sua vita la cellula ha subito la trasformazione.
La neoplasia linfoide in linea generale, ma non in linea assoluta, è una neoplasia che nasce
e permane nei tessuti linfoidi, linfonodi in primis. La manifestazione della malattia sarà quindi
un aumento di volume del linfonodo, con tumefazione se il linfonodo è superficiale e
compressione se il linfonodo è a sede profonda. Queste patologie però poi dai linfonodi
possono diffondersi e raggiungere organi non propriamente linfoidi oppure possono andare
ad interessare lo stesso midollo osseo.
Si vedano i passaggi maturativi della cellula B. Lo scopo della cellula B è quello di costruire,
durante il suo processo di differenziazione, un recettore che sia capace di riconoscere un
determinato antigene (BCR). Questo recettore nella fase finale della cellula diventerà
l’immunoglobulina. Questo processo comincia nel midollo e si conclude nel linfonodo. Il
linfocita B che esce dal midollo con un recettore più o meno formato, che però non è capace
di fare granché, è un linfocita con un recettore che deve essere addestrato. Questo
addestramento si compie nel linfonodo, in particolare nel centro germinativo del
linfonodo, dove vi sono cellule presentanti l’antigene, soprattutto le cellule follicolari
dendritiche, che vanno a testare la performance di questo recettore.
Nel centro germinativo del linfonodo avviene, quindi, un processo di selezione che
seleziona i recettori più efficienti e permette dunque la progressione della differenziazione
della cellula B fino a plasmacellule, in maniera tale che quel recettore si possa
trasformare in immunoglobulina.
Gli anticorpi, diversi tra loro, che il nostro organismo può costruire sono svariati miliardi.
Questi anticorpi sono delle proteine e le proteine a loro volta sono codificate dai geni. Nel
genoma però sono presenti circa 20-30 mila geni. Nel DNA ci sono delle regioni che
codificano per la struttura dell’immunoglobulina. Queste regioni si riarrangiano tra di loro, si
ricombinano. Questa cosa avviene milioni di volte ogni giorno nel nostro organismo. Ciò è
vantaggioso in quanto in questo modo un singolo pezzo di DNA riesce a codificare per una
moltitudine di proteine, ma è allo stesso tempo un punto debole, poiché una ricombinazione
che avviene ogni giorno tante volte può ogni tanto fare un errore e quando fa un errore può
innescare una trasformazione neoplastica.
Vedremo, infatti, che nelle neoplasie linfoidi spesso ci sono delle alterazioni cromosomiche
che riguardano il cromosoma 14 nella regione del braccio lungo 3.2 che è la regione
dove mappa il locus che codifica per l’immunoglobulina.
In linea molto generale la sintomatologia è la stessa rispetto a quella vista per la leucemia
acuta mieloide, in quanto il meccanismo che genera questo tipo di leucemia ha gli stessi
effetti della LAM: il midollo viene popolato da blasti linfoidi e quindi ha un’attività emopoietica
totalmente insufficiente. Il paziente non ha neutrofili, non ha piastrine, non ha emoglobina,
quindi ha anemia, infezioni, emorragie.
Come carattere clinico distintivo nella Leucemia Acuta Linfoblastica possiamo avere:
• Splenomegalia
• Sintomi neurologici (perché i blasti linfoidi hanno una spiccata tendenza a passare
la barriera ematoencefalica e quindi a dare localizzazioni della malattia anche in sedi
inattese)
Quando facciamo l’emocromo a questi pazienti, osserviamo che il paziente può avere (come
avevamo detto anche nella LAM) :
• Leucocitosi
• Leucopenia
In tal caso, però, quello che andiamo a leggere sull’emocromo, ovvero il valore dei leucociti
, è da riferire ai blasti, perché anche in questo caso il contaglobuli non è in grado di
distinguere una cellula per l’altra. In queste circostanze le macchine generano quello che
viene definito “allarme”. Più spesso c’è una leucocitosi, soprattutto per i bambini,
diversamente, negli adulti spesso troviamo una leucopenia.
• Piastrinopenia
• Aumento dell’LDH
Della leucemia acuta linfoblastica, così come in quella mieloide, la WHO ha individuato
diversi tipi di LAL, caratterizzati da alterazioni molecolari o da una alterazione citogenetica.
Esistono, però, anche LAL che non hanno queste alterazioni: vengono individuate come
“non altrimenti classificate”. Tra tutte le alterazioni che ci possono essere ve n’è una
uguale a quella della leucemia mieloide cronica: può esserci, dunque, una leucemia acuta
linfoblastica BCR- ABL positiva. In passato questa era considerata la più letale, oggi invece,
con il fatto che abbiamo gli inibitori delle tirosin chinasi, può essere trattata con farmaci
e il paziente può vivere a lungo. Perché la stessa mutazione genetica possa produrre due
fenotipi di malattia diversi non è noto.
Una caratteristica del blasto linfoide, sotto il profilo citochimico (le reazioni citochimiche
in citomorfologia sono quei saggi che ci consentono di capire l’assenza o presenza di alcune
attività enzimatiche nella cellula, per capire il loro livello di differenziazione), è la positività
per l’acido periodico di Schiff. Già solo con questa reazione citochimica, posso distinguere
il blasto mieloide da quello linfoide (al microscopio, infatti, non sempre è possibile fare
questa distinzione).
Negli adulti l’età è molto rilevante: quanto più anziano è il paziente tanto peggiore è la
sua prognosi. Nell’adulto può colpire varie fasce di età, però la leucemia acuta nell’adulto
è sempre più sbilanciata verso l’età senile.
Nell’adulto questa resta ancora una malattia mortale, sia nella fase della diagnosi, sia
dopo. I pazienti che possono guarire sono quelli che possono fare il trapianto allogenico,
per quanto questa sia comunque una procedura con un elevato tasso di mortalità (inoltre, il
paziente può anche recidivare). È una malattia che conserva ancora una prognosi
sfavorevole.
È una patologia molto diffusa soprattutto nei paesi industrializzati, quindi l’Occidente. È
una malattia che posso riscontrare prevalentemente in età adulta e soprattutto negli
anziani, però è riscontrabile anche in pazienti più giovani. Il linfocita B è quello spesso
trasformato in questa patologia.
I linfociti, se li vado a guardare al microscopio, sono piccoli e sembrano tutti uguali: quando
la malattia popola il tessuto di un unico tipo di cellule parliamo di malattia clonale. Ma tra
una cellula e l’altra possiamo trovare delle anomalie, “cellule rotte”, che hanno subito un
trauma e questo reperto citologico prende il nome di “ombra di Gumprecht” ed è una
caratteristica di questo tipo di patologia. Che cos’è questa ombra? Si pensa che le cellule
della LLC siano più fragili di quelle normali e quindi quando noi li strisciamo (trauma
meccanico) possiamo avere la rottura di qualche cellula (osservabile al microscopio).
Questa condizione osservabile assieme alla leucocitosi, mi deve far pensare alla LLC.
Complicanze
Un’altra cosa importante è che nella maggior parte dei casi, questi pazienti non muoiono
per la malattia, ma per le complicanze della malattia, che sono:
Un dato importante, legato alla differenziazione della cellula, per la prognosi è lo stato
IgHV: è uno stato che sta ad identificare la presenza o meno di peculiari mutazioni sul locus
DNA che codifica per la regione delle catene pesanti delle Ig. Quando la cellula B deve
completare il suo percorso di maturazione, questo percorso si completa nel centro
germinativo, durante il quale il BCR viene reso più performante tramite delle operazioni sul
DNA. Nella LLC alcuni pazienti hanno cellule che hanno subito, fisiologicamente, le
operazioni di modificazione del centro germinativo e hanno uno stato mutazionale “IgHV
mutato”. Questo vuol dire che queste cellule sono passate dal centro germinativo e hanno
subito le corrette modificazioni: in questi pazienti la prognosi è migliore (probabilmente
perché le loro cellule hanno una differenziazione migliore o per altri motivi che non
sappiamo) di coloro le cui cellule non sono arrivate al centro germinativo e quindi non hanno
subito eventi mutazionali (è come se il linfocita sta ancora nel midollo osseo). In definitiva,
è possibile definire due opposti stati IgHV. Quando facciamo la diagnosi di questa malattia,
dobbiamo confrontare la diagnosi con questo dato, perché questo dato si riferisce alla
prognosi del paziente.
È chiaro che una linfocitosi possa essere determinata da diverse altre circostanze oltre ad
una leucemia di questo tipo: quindi è necessario dimostrare la clonalità della malattia, cioè
devo dimostrare che questi linfociti sono tutti uguali e questa dimostrazione mi viene offerta
dalla citofluorimetria. In citofluorimetria questi linfociti saranno tutti con lo stesso “numero
di targa” perché avranno tutti l’espressione del CD5, del CD19 e del CD23. Il CD5
normalmente sul linfocita B non c’è. I linfociti, dunque, sono:
- CD5+
- CD19+
- CD23+
Prognosi
Per la prognosi, oltre allo stato mutazionale IgHV mi serve anche capire come sta messo
il gene p53: è un importante fattore prognostico perché nel passato i pazienti con la
mutazione del p53 erano pazienti con prognosi peggiore, perché non rispondevano alle
terapia. Diversamente, oggi possiamo utilizzare con questi pazienti farmaci specifici: sono
farmaci che lavorano meglio in pazienti con mutazione della p53. Questi farmaci hanno
migliorato la loro prognosi.
• Mutazione p53
• Stadiazione
• LDH, sempre indice di attività della malattia oncoematologica
• Tempo raddoppiamento linfocitosi periferica (molto importante, se non c’è
raddoppiamento il paziente va solo osservato)
• Tipo di infiltrazione midollare (diffuso o organizzazione nodulare in quanto nella loro
memoria hanno l’organizzazione del linfonodo)
• Alterazioni citogenetiche e molecolari
1. P53
2. Delezione 13q (prognosi buona)
3. Trisomia 12 (prognosi negativa)
4. Delezione 11q (prognosi negativa)
I pazienti con leucemia linfatica cronica hanno, oltre la mutazione p53, anche altre
alterazioni cromosomiche ricorrenti, come ad esempio la trisomia del 12, la delezione del
braccio lungo del cromosoma 11 (del11q); la delezione del braccio lungo del cromosoma 13
(del13q); la delezione del braccio corto del cromosoma 17 (del17p), dove mappa p53.
Quindi, in questa patologia, p53 può essere deleta o mutata.
Stadiazione
La stadiazione, cioè sapere quanto è diffusa la malattia, è importante, perchè non tutti i
pazienti necessitano per forza di un trattamento. I pazienti che hanno la malattia nel suo
primo stadio (all’inizio) non fanno trattamento: non abbiamo un farmaco che possa
intervenire in questa fase della malattia, quindi qualunque cosa facessi sarebbe inutile;
posso, invece, aspettare che la malattia progredisca, fino a quando posso somministrare
farmaci, in grado di intervenire in quella fase della malattia.
• linfocitosi
• linfoadenopatia
• epatomegalia e splenomegalia
• valore emoglobina
• piastrine
2. Stadiazione di Binet: considera più o meno gli stessi fattori combinati in maniera
diversa, ovvero emoglobina, piastrine e sedi extramidollari coinvolte (da A a C)
I pazienti che sono allo stadio A (della stadiazione di Binet) e dello stadio 0-1 ( della
stadiazione di Rai), non fanno terapia, ma sono sottopposti a watch and wait: la malattia
viene osservata e si aspetta che essa cambi.
La sindrome di
Richter è quella fase
in cui il paziente che
aveva una leucemia
linfatica cronica, e
all’improvviso accusa
debolezza, dolori
ossei, febbre, una
serie di sintomi che
prima non accusava.
Procedendo con gli
esami di laboratorio osservo un quadro non più relativo ad un infiltrato di linfociti tipico della
leucemia linfatica cronica, ma si tratterà di una istologia di cellule di un linfoma aggressivo.
Questo paziente ha una prognosi negativa, nefasta: non esiste una terapia che possa
salvare il paziente. È quindi un linfoma aggressivo (potremmo considerarla una
complicanza equivalente alla crisi blastica della LMC)
Leucemia pro-linfocitica
La leucemia prolinfocitica è un’altra patologia che può avere carattere di cronicità, che
deriva sempre da alterata differenziazione del linfocita soprattutto B, ma anche T, NK. In
questa leucemia il sangue periferico e il midollo si arricchiscono di pro-linfociti, che sono
molto immaturi, il cui nucleo presenta il nucleolo, che li rende assolutamente caratteristici.
La leucemia prolinfocitica, rispetto alla leucemia linfatica cronica, è una malattia peggiore,
sia per la sintomatologia che per la prognosi, non abbiamo farmaci che funzionino sempre
bene. Il dato diagnostico importante è quello di rilevare la presenza di pro-linfociti. I sintomi
sono più o meno gli stessi della LLC ma è tutto più accelerato e meno graduale, il paziente
non sta bene.
La patologia, anch’essa non molto frequente, colpisce pazienti molto giovani, ha delle
complicanze spesso mortali, quindi riconoscerla per tempo può salvare la vita del paziente.
In questa leucemia si verifica sempre trasformazione neoplastica delle cellule B che genera
una classe di cellule linfocitiche con citoplasma sfrangiato, da simulare capigliatura
(cellule capellute), ritrovabili sia in midollo che in sangue periferico.
Diagnosi
Terapia
Farmaci con pentostatina che funzionano con un meccanismo non ancora chiaro: il
paziente ha lunghissimi periodi di remissione.
LINFOMI
La classificazione delle neoplasie linfoidi che usiamo oggi è quella dell’ organizzazione
mondiale della sanità. Sono tantissime e la maggior parte di queste patologie è
rappresentata da linfomi. I linfomi possono essere suddivisi su base istologica (la diagnosi
dei linfomi viene sempre fatta su base istologica, non ci si può basare solo sui dati clinici e
di laboratorio) in:
• LINFOMA DI HODGKIN
Queste due categorie sono completamente diverse tra di loro e all’interno di queste due
categorie c’è una moltitudine di altri linfomi.
Hodgkin ha introdotto l’uso del fonendoscopio nella pratica medica, del microscopio in
laboratorio ed è il medico che intuì che alcuni pazienti di quel periodo non fossero affetti da
tubercolosi o da sifilide, molto diffuse in quel periodo e con segno clinico tumefazioni
linfonodali, ma da altro. A fronte di questa intuizione molti anni dopo un suo allievo al
microscopio vide che questa malattia allora ancora non definita fosse governata da un altro
tipo di cellule. Nel tempo le nozioni si sono accumulate e quindi tutto quello che dal punto di
vista istologico non aveva le stesse caratteristiche del linfoma di Hodgkin fu classificato
come “non-Hodgkin”.
Eziologia
Vi è un certo grado di incertezza, possono essere legati a:
1. Infezioni virali: HIV, EBV, HCV. Alcuni virus come l’HIV entrano nella patogenesi
del linfoma.
2. Infezioni batteriche: Helicobacter pylori, causa infiammazione cronica, o anche
Chlamydia
Localizzazione e diffusione
• PER CONTATTO, PER CONTINUITÀ: quando il linfonodo si trova vicino ad un altro tessuto e
ci può essere infiltrazione delle cellule nei distretti vicini in seguito a superamento della capsula
linfonodale.
Normalmente le sedi interessate sono i linfonodi e quando questo accade noi parliamo di
localizzazioni nodali (il termine nodale si riferisce al linfonodo). Se invece la localizzazione
è al di fuori del linfonodo noi abbiamo una localizzazione extranodale ed essa è più
frequente nei linfomi non Hodgkin, mentre è più rara nei linfomi di Hodgkin. Le localizzazioni
extranodali possono riguardare diversi distretti dell'organismo e spesso hanno delle sedi
privilegiate rappresentate dalla cute, dallo scheletro, dagli organi contenenti nella loro
struttura il tessuto MALT (quindi anche questi ultimi possono essere un punto di partenza
per la trasformazione linfomatosa. Dunque, il linfoma nodale può avere una localizzazione
ad esempio latero-cervicale, sovraclaveare, mentre il linfoma extranodale può essere
localizzato a livello della cute.
Stadiazione
Dopo aver fatto la diagnosi, è importante anche fare la stadiazione. La stadiazione mi serve
a capire quanto è diffusa la malattia, in quanto la diffusione della malattia ha una valenza
diagnostica: più la malattia è confinata e meglio è. La stadiazione prevede la distinzione di
quattro stadi, però attenzione: il concetto di stadiazione è diverso da quello che si riferisce
alle neoplasie solide, perchè lo stadio 4 del linfoma indica una patologia più complicata sì,
ma nei confronti della quale possiamo ancora intervenire con approcci adeguati allo stadio
complicato. La stadiazione, dunque, individua:
Questi sintomi ci dicono che la malattia è una malattia con una cinetica cellulare
importante, cioè le cellule replicano velocemente, e ci dicono anche che è una malattia a
carattere sistemico. Quindi dopo aver fatto la stadiazione, noi dobbiamo dire se ci sono i
sintomi clinici oppure se non ci sono e diremo per esempio stadio 4 A o B in base al fatto
che ci siano questi sintomi o meno. La presenza di questi sintomi ovviamente denota una
biologia più cattiva della malattia.
Linfoma di Hodgkin
Situazione clinica
Come detto, per fare diagnosi di linfoma è NECESSARIA una valutazione istologica: per
fare diagnosi è necessario assolutamente analizzare il tessuto linfoide tramite esame
bioptico. Quindi il paziente verrà da noi perchè ha una tumefazione palpabile, oppure
perchè ha dei sintomi correlati a fenomeni di compressione, legati all'aumento di volume dei
linfonodi profondi (dolori addominali o dispnea per esempio). Se si tratta di una tumefazione
superficiale, il paziente vi dirà che ce l'ha da qualche tempo ma che non gli ha mai dato
fastidio (ecco perchè non ha ritenuto necessario andare dal medico prima), solo che dopo
un bel po' di tempo ha notato questa situazione in quanto tende ad aumentare di volume e
magari ha deciso di rivolgersi al medico per un fatto estetico magari. Quindi voi andate a
palpare questa tumefazione e, in effetti, già alla palpazione vedete che non è dolente;
inoltre, i linfonodi in genere possono anche spostarsi con difficoltà sui piani sottostanti (non
è sempre presente questa caratteristica). Il paziente riferirà di avere questa tumefazione da
più di un mese, se si tratta di un linfoma.
Istologia
Inoltre, nel linfoma di Hodgkin la nota istologica caratteristica è la cellula di Reed-
Stenberg, una cellula paragonata morfologicamente ad una civetta che innesca attorno a
sé una sorta di reazione infiammatoria (le cellule che ci sono attorno ad esse sono di varia
natura, generalmente cellule impegnate nell’infiammazione). Essa è una cellula grande, con
citoplasma ampio, acidofilia, due o più nuclei, membrana evidente e cromatina finemente
dispersa. Quindi, per individuare un linfoma di Hodgkin, ho bisogno di un’evidenza
istologica, che in questo caso ci viene fornita da una biopsia linfonodale (effettuata dal
chirurgo o dal radiologo interventista); la biopsia poi verrà analizzata dal patologo, il quale
sotto le mie indicazioni andrà tra le tante cose a cercare anche questa particolare cellula.
Classificazione
Il linfoma di Hodgkin individua almeno 5 istotipi, di cui 4 si riferiscono alla forma classica
mentre uno rappresenta la forma non classica.
Diagnosi
Per quanto riguarda la diagnosi, abbiamo detto che deve passare per forza dall’indagine
istologica. Quello che bisogna fare per convincere il paziente circa la necessità di una
biopsia linfonodale, è servirsi delle indagini radiologiche e delle indagini di laboratorio.
Tuttavia, queste ultime non sono specifiche, non ci danno certezza che si tratti di linfoma.
Comunque sia sono parametri utilizzati per escludere altre cause e in genere c’è aumento
di LDH (anche VES); per la diagnosi differenziale ad esempio è usata la sierologia virale,
in quanto ci sono delle patologie che possono essere associate a linfoadenopatia come la
mononucleosi: se si fanno accertamenti e si dimostra che, effettivamente la linfoadenopatia
è dovuta alla mononucleosi, sto più tranquillo, ma se questa linfoadenopatia persiste per
molto tempo dopo la mononucleosi, anzi tende ad essere più rappresentata pur essendosi
esaurita la patologia primaria, allora può rappresentare un campanello d’allarme. Altro
ragionamento da fare è che ci sono linfoadenopatie che possono residuare dopo la
mononucleosi e che però non rappresentano nessun tipo di pericolo.
Prognosi
Stadiazione, diagnosi e prognosi sono strettamente correlate: avere uno stadio 1 o 2 di
linfoma Hodgkin rispetto all’avere uno stadio 4 fa la differenza perché cambiano anche i
fattori prognostici relativi agli stadi (iniziale IA-B-IIA, avanzato IIB ed oltre). Dunque è
importante avere queste informazione, anche perché ci possono tornare utili nella terapia.
Trattamento
Il linfoma di Hodgkin è un linfoma che oggi risponde bene al trattamento chemioterapico.
Il paziente in trattamento nella maggior parte dei casi (circa 70%) guarisce. Invece nel 20%
dei casi può recidivare o non rispondere al trattamento. La prognosi di quest’ultima
frazione di pazienti, tuttavia, è migliorata molto grazie all’impiego di alcuni farmaci che
intervengono sull’attività del sistema immunitario dato che il linfoma, come altre neoplasie
solide, ha un sistema immunitario “addormentato”. Immaginiamo lo sviluppo primordiale di
una neoplasia: cosa accade? Molto probabilmente accade che alcune cellule T si accorgono
che comincia ad esserci qualcosa che non va, che in atto c’è una trasformazione
neoplastica, e cominciano così ad agitarsi in quanto riconoscono una serie di antigeni che
normalmente non ci sono. A fronte di questo riconoscimento, queste cellule T si attivano
mediante le cellule presentanti l’antigene. Queste cellule che si attivano hanno sulla loro
superficie un recettore detto PD1 (sta per “morte programmata”) usato per riconoscere il
self. In seguito all’attivazione, la cellula T inizia a produrre una serie di citochine tra cui l’IFN-
: esso è una specie di sirena che risuona in tutto l’organismo e che avvisa tutte le cellule
che sta arrivando da ciascuna di esse per annusarle e capire se sono self o non self; in altre
parole, va a vedere se sulla superficie delle cellule c’è il ligando specifico per PD1. Allora,
tutte le cellule che avranno il ligando per PD1 non saranno distrutte, mentre quelle che non
ce l’hanno passeranno saranno distrutte. Alla luce di questo meccanismo apparentemente
perfetto, purtroppo anche le cellule neoplastiche percepiscono il richiamo da parte dell’IFN-
e andranno ad esporre il ligando per il PD1, anzi le cellule neoplastiche saranno quelle più
ricche di ligando sulla superficie e paradossalmente saranno quelle più tutelate dal sistema
immunitario. Questa cosa succede in molte neoplasie solide e anche nei linfomi (in questi
ultimi succedono diverse cose al sistema immunitario, tra cui questa).
Oggi possiamo bloccare l’interazione tra PD-1 (recettore) e PD-L1 (ligando) evitando
che il sistema immunitario diventi promotore e protettore della neoplasia: in questo modo le
cellule neoplastiche possono essere riconosciute dal sistema immunitario attraverso altri
sistemi, diversi rispetto a quello di PD-1/PD-L1; oppure possono essere più facilmente
aggredite da farmaci. Dunque, oggi usiamo anticorpi monoclonali anti PD-1 e/o anti PD-
L1 che blocchino l’interazione tra queste due molecole in modo da far perdere la tutela della
cellula neoplastica da parte del sistema immunitario e permettere il riconoscimento della
cellula neoplastica da parte del sistema immunitario.
Nella cellula linfomatosa, e se parliamo nello specifico del linfoma di Hodgkin (abbiamo detto
che il linfoma di Hodgkin è caratterizzato dall’espressione in maniera costante del CD30 e
CD15) usiamo la chemioterapia che in molti casi sortisce effetto, ma in altri no. Non ha
effetto perché con i chemioterapici blocco alcuni circuiti (e quindi la cellula muore), ma ci
sono tanti altri circuiti alternativi che attivandosi in caso di necessità, permettono alla cellula
di sopravvivere. Quindi, oggi, nel caso del linfoma di Hodgkin possiamo colpire in maniera
specifica la cellula linfomatosa, riducendo contestualmente la tossicità del farmaco, usando
un anticorpo monoclonale (anti CD30)-farmaco coniugato (nome commerciale del
farmaco Adcetris®). Quindi, l’anticorpo monoclonale anti CD30 è legato ad un farmaco ad
attività citocida coniugato tramite una regione linker; nel linfonodo il legame al CD30
espresso sulla cellula linfomatosa non è sufficiente ad uccidere la cellula, ma l’anticorpo
deve essere internalizzato e, una volta nel citoplasma, diviene substrato di alcune specifiche
proteasi cellulari che degradano la regione linker, liberando il farmaco nella cellula: il
farmaco chemioterapico inibisce la polimerizzazione dei microtubuli, impedendo alla cellula
di dividersi e la cellula muore. Quindi, sfruttando la specificità di interazione (CD30/anti
CD30), veicoliamo un farmaco, che altrimenti dovremmo somministrare a dosi così elevate
da essere letali per il paziente. Questo nuovo trattamento è riservato per i pochi pazienti
che non hanno risposto alla chemioterapia standard: di questi alcuni rispondo molto bene
ed anche per lunghi periodi, altri invece no, sicuramente perché condividono solo l’aspetto
morfologico della malattia, ma la biologia della cellula neoplastica è completamente diversa
e ignota.
Linfoma non-Hodgkin
Sotto il nome di linfomi non Hodgkin sono raggruppate oltre 50-60 patologie diverse. Per
comodità nella pratica clinica classifichiamo i linfomi non Hodgkin in:
Esistono molte forme di linfomi non Hodgkin perché possono succedere tante cose durante
il processo di maturazione del linfocita. Quindi, essendo il processo maturativo del linfocita
B articolato, molti possono essere gli eventi che possono accadere durante questo percorso
e che possono tradursi in un fenotipo diverso di malattia.
Nel linfoma non Hodgkin, inoltre, è turbato il meccanismo immunitario che è addestrato a
rispondere alla neoplasia. In realtà abbiamo visto che, più che turbamento, si tratta di una
capacità della cellula neoplastica di adeguarsi rispetto agli strumenti che ha il sistema
immunitario. Normalmente uno degli strumenti che abbiamo per difenderci dalle cellule
trasformate è quello delle cellule NK. Le cellule NK hanno un duplice sistema di recettori di
membrana:
• recettori che attivano il killeraggio della cellula target (recettori attivatori o KAR= killer
activation receptors)
• recettori che lo inibiscono (recettori inibitori o KIR)
Generalmente il recettore attivatore (KAR) viene disattivato dal secondo quando il KIR rileva
sulla cellula una molecola attesa, quale una molecola MHC1: quando i recettori inibitori non
avranno ligandi, non potranno inibire l’attività di killeraggio mediata dai recettori attivatori.
Quindi con tutti i suoi recettori la cellula NK studia la cellula bersaglio e, se questa esprime
molecole MHC1, supera il checkpoint e viene risparmiata. Se invece la cellula bersaglio non
esprime sulla superficie molecole MHC1, dopo la fase di controllo viene distrutta: questo è
quello che normalmente accade quando la cellula è infettata dai virus o nell’ambito di una
trasformazione neoplastica.
Cosa succede quando c’è la trasformazione neoplastica di una cellula B del linfoma? La
cellula B di linfoma perde molti ligandi per i recettori delle cellule NK, diventando così
“invisibile”: non può essere controllata ed elude in tal modo il controllo immunitario.
Sintomatologia
Sotto il profilo molecolare in molti casi c’è l’alterazione del gene Bcl-6, che normalmente
nel linfocita B maturo non viene più espresso. Nel linfoma è overespresso o perché mutato
o perché traslocato, mentre invece dovrebbe essere silente.
Nel linfoma diffuso a grandi cellule utilizziamo una serie di parametri che insieme
identificano il cosiddetto indice prognostico internazionale o IPI. L’IPI considera:
• età
• stadio della malattia
• livelli di LDH sierica
• performance status: indica come sta messo il paziente, cioè se riesce a fare
autonomamente le attività quotidiane, se non riesce e di quanto aiuto ha bisogno
• numero delle stazioni extranodali
Queste informazioni mi danno un punteggio: più è basso, migliore sarà la prognosi per il
paziente e viceversa:
Una caratteristica importante la posso così notare: se somministro a 100 pazienti lo stesso
protocollo chemioterapico (che consiste in più farmaci diversi) vedrò che solo una metà
risponde alla terapia: eppure hanno tutti la stessa malattia! In realtà hanno sì lo stesso nome
perché istologicamente sono simili, ma sotto il profilo molecolare sono diversi. Oggi diciamo
che la cellula di origine del linfoma diffuso a grandi cellule può essere diversa: a
seconda delle caratteristiche della cellula di origine possiamo aspettarci la risposta alla
terapia. Come facciamo a stabilire la cellula di origine? Tramite l’analisi del profilo di
espressione genica: cioè vedo quali geni sono espressi studiando l’mRNA delle cellule
linfomatose. Distinguiamo due sottogruppi:
• variante delle cellule B del centro germinativo [variante GCB (Germinal Center
B-Cell)]: ovvero il profilo di espressione di questo gruppo è molto simile a quello dei
linfociti B normali del centro germinativo; essa ha prognosi migliore (i pazienti
rispondono bene alla terapia)
• variante delle cellule B attivate [variante ABC (Activated B-Cell)]: la prognosi di
questi pazienti è diversa, peggiore, perché il profilo di espressione di queste cellule
è diverso da quello delle cellule normali (i pazienti non rispondono bene alla terapia)
Quindi le due varianti presentano istologia simile ma biologia molecolare differente. L’analisi
di espressione è importante perché possiamo prevedere la risposta alla terapia e, in base a
questa previsione, offrire una terapia diversa a questo secondo gruppo di pazienti, che
garantirà una risposta più efficace. Oggi si sta cercando un sistema per definire la cosiddetta
‘cellula di origine’ ed il suo profilo, attraverso indagini di immunoistochimica sul pezzo
istologico. Teoricamente, i pazienti con profilo con cellula di origine riconducibile ad ABC
dovrebbero godere di una terapia diversa da quella standard fallimentare, ossia una terapia
sperimentale.
Il gene spesso alterato in questo genere di Linfomi è BCL-6, gene che normalmente viene
espresso durante la emopoiesi B, ma successivamente silenziato fisiologicamente perché
la sua espressione non serve più. Qui invece l’espressione viene conservata o perché c’è
una mutazione a livello del promotore del gene, oppure il gene viene traslocato su
regioni cromosomiche diverse facilmente trascritte. Altri geni deregolati in questa
patologia sono BCL-2, che codifica per una proteina inibitrice dell’apoptosi, e MYC
(oncogene che si trova sul cromosoma 8) che subisce anch’esso fenomeni di
riarrangiamento cromosomico che ne determinano l’overespressione. I riarrangiamenti
coinvolgono, oltre questi geni, contestualmente anche la regione del genoma che codifica
per le catene pesanti delle Ig (IgH). Quindi ad esempio posso avere un riarrangiamento
tra Myc e IgH, secondo una traslocazione 8;14; o ancora, una traslocazione 14;18 che
favorisca l’interazione tra BCL2 e IgH. In tutti questi casi non si forma un gene di fusione,
ma la regione IgH finisce patologicamente nei pressi di una regione non normalmente
trascritta, per cui questa regione x verrà poi trascritta (IgH è fortemente trascritta).
Linfomi mantellari
I linfomi mantellari appartengono sempre alla categoria dei linfomi aggressivi. Il termine
“mantellare” si riferisce ad una regione del follicolo linfatico dove normalmente ha luogo la
maturazione dei linfociti B. La trasformazione neoplastica, quindi, riguarda il momento nel
quale i linfociti durante la maturazione arrivano al mantello.
La diagnosi ovviamente è istologica tramite biopsia linfonodale. Se, invece, devo andare
a caratterizzate la malattia leucemizzata si potrà notare che essa è caratterizzata da cellule
neoplastiche del linfoma mantellare con espressione del CD5 (come nella LLC). In questo
caso io dovrò fare diagnosi differenziale con la Leucemia Linfatica Cronica tramite indagini
dell’immunofenotipo in citofluorimetria (riscontrerò che il Linfoma Mantellare sarà
CD23 o CD200 negativo, mentre la Leucemia sarà CD23+ CD200+).
Il Linfoma Mantellare può presentare una forma ‘classica’, e una forma ‘trasformata’ che
invece avrà carattere di ulteriore malignità più spesso esordendo già con una forma
leucemizzante.
Nel tempo, infatti, la patologia può peggiorare ad una forma blastoide, in quanto
l’aumentata proliferazione determinato dall’overespressione della ciclina D1 favorisce
mutazioni geniche a cui correla l’evoluzione aggressiva della malattia.
→Patogenesi
Il linfoma mantellare si sviluppa a causa di una traslocazione t(11;14)(q13;q32), che vede
protagonista il gene della ciclina D1, proteina coinvolta nella regolazione del ciclo cellulare.
In questo caso, il gene si giustappone a quello che codifica per le catene pesanti delle
immunoglobuline; queste, nei linfociti, sono fisiologicamente iperespresse: per questo
motivo, a causa della traslocazione in situ, si verifica una iperespressione della ciclina
D1. Questo conduce a una eccessiva regolazione negativa dell’apoptosi, responsabile di
una espansione proporzionale delle cellule.
Come regola generale quando si parla di un riarrangiamento cromosomico nel cromosoma
14 a livello del braccio lungo (14 q3.2) con molta probabilità si sta guardando il referto o di
un Linfoma o di un Mieloma. Quando c’è riarrangiamento del cromosoma 14 non avviene
la formazione di un gene di fusione come avviene nelle leucemie acute, ma
semplicemente si verifica una riattivazione della regione non trascritta che verrà over
espressa (generalmente questa regione codifica per la Ciclina D1).
Linfoma di Burkitt
E’ un linfoma aggressivo che colpisce dalle nostre parti pazienti molto giovani (anche
pazienti anziani) ed è sotto il profilo biologico caratterizzato dalla traslocazione 8-14
(evidenziabile al cariotipo o con la FISH, o con un eventuale biologia molecolare), che
conduce all’avvicinamento del gene MYC alla regione IgH che è la regione sul braccio
lungo del cromosoma 14 che codifica per le catene pesanti delle immunoglobuline. A
fronte di questo riarrangiamento MYC viene iperespresso e determina la trasformazione
neoplastica. Possiamo avere anche un riarrangiamento di MYC, meno spesso, con il
cromosoma 2 dove si trovano le regioni che codificano per le catene leggere delle Ig.
Istologicamente questo linfoma è stato descritto come un ‘cielo stellato’, perché ci sono
dei macrofagi in attività, chiari e rappresentanti le stelle, che si intercalano su uno sfondo di
infiltrato linfoide blu (importante rappresentanza del nucleo). È possibile distinguere due
forme del Burkitt:
1. una endemica, legata ad infezione del virus Epstein Barr che colpisce pazienti molto
molto giovani (rara nei nostri territori)
2. una sporadica tipicamente nostrana, che interessa più fasce di età. Questa forma
può leucemizzare ed essere identificata sia nel midollo che nel sangue periferico.
Osservando le cellule linfomatose appaiono come grosse cellule che hanno un
nucleo molto grande, un citoplasma molto basofilo ma soprattutto ricco di vacuoli
(probabilmente un tentativo non riuscito di Ig).
1. Linfomi diffuso a Grandi Cellule che rappresenta la forma più frequente. Esiste una
distinzione di almeno 2 tipi di linfomi in questa categoria, con una prognosi differente.
Ci sono alterazioni di più geni (BCL 6, BCL2, MYC). Sono abbastanza frequenti.
2. I Linfomi Mantellari sono più rari rispetto al linfoma diffuso a grandi cellule. Non
sempre ma spesso a questi linfomi è associata una traslocazione 11-14q3.2. Nei
linfomi mantellari è anche frequente l’interessamento gastro-enterico. Mentre nei
Linfomi a Grandi Cellule la prognosi dipendeva dalla cellula d’origine, nel linfoma
mantellare la prognosi è sempre severa a causa della carenza di farmaci efficaci.
3. I Linfomi di Burkitt nelle sue 2 forme, di cui a noi interessa quella sporadica che
può essere associata ad INFEZIONE DI HIV (immunosoppressione determina ridotto
controllo immunologico sui cloni neoplastici) ma non sempre. Una caratteristica
clinica di questo linfoma sono le masse BULKY, voluminose masse linfonodali che
indicano una malattia con cinetica cellulare elevata. Sono linfomi tipicamente
associati a traslocazione 8-14.
Il linfoma follicolare è a basso grado di malignità, i linfociti trasformati sono quelli del centro
germinativo, e quindi quando crescono riproducono la struttura del follicolo. Dal punto di
vista istologico sono individuabili centrociti o centroblastici, linfociti più piccoli o più
grandi rispettivamente.
Linfoma marginale
Origina dalla trasformazione neoplastica dei linfociti della zona marginale, una delle zone
più periferiche della maturazione follicolare. Una caratteristica dei linfomi marginali è quella
di riguardare milza e MALT (MALT-oma). Esiste una forte possibilità, quindi, che il linfoma
marginale possa riguardare una sede extralinfonodale, quindi un altro tessuto o organo.
Posso avere però anche una forma linfonodale.
Linfoma gastrico
Il linfoma gastrico nella maggior parte dei casi nasce dalla trasformazione neoplastica della
zona marginale del MALT ma può essere raramente anche un linfoma diffuso a grandi
cellule. La progressione neoplastica di quest’ultimo fa si che il tessuto gastrico si deteriori
più facilmente con ulcere, sanguinamenti, sintomi più importanti, etc ; se il linfoma è
indolente la sintomatologia è sovrapponibile a malattie non neoplastiche dello stomaco. La
sintomatologia quindi è definibile ad alterazioni della funzione gastrica.
Approccio terapeutico
La maggior parte di queste malattie viene trattata con lo stesso protocollo chemioterapico
con un anticorpo monoclonale, nella maggior parte dei casi un anti-CD20.
Genera anche un altro fenomeno, l’effetto vaccinale ritardato. Si è visto che i pazienti che
hanno nel loro protocollo terapeutico questo anticorpo, avevano lunghi periodi di remissione
della malattia anche quando non facevano l’anticorpo, come se la terapia avesse una sorta
di effetto protettivo, non lunghissimo ma comunque prolungato. Tale protezione è
probabilmente legata al fatto che nel momento in cui l’ anticorpo va ad innescare uno dei
meccanismi suddetti alla base della distruzione della cellula neoplastica, ad esempio
l’intervento della prima cellula effettrice, che va a fagocitare la cellula bersagliata dall’
anticorpo e restituisce i prodotti di digestione della cellula distrutta e li presenta a una classe
di linfociti T citotossici che saranno temporaneamente addestrati a riconoscere altre cellule
linfomatose. Questo sistema funziona soprattutto se la malattia si ripresenta in piccole
quantità.
Un altro tipo di anticorpo monoclonale sono gli anticorpi bispecifici usati soprattutto nelle
leucemie acute linfoblastiche. Gli anticorpi sono specifici per due target: uno la cellula
neoplastica, oppure no, e l’altro è un sito specifico che riguarda una cellula del sistema
immunitario. Gli anticorpi bispecifici di questo tipo hanno lo scopo di costringere le cellule
del nostro sistema immunitario ad avvicinarsi e ad interagire con le cellule neoplastiche, e
a fronte di questa costrizione si innesca un processo di distruzione delle cellule
neoplastiche. Quindi si sfrutta un nuovo concetto terapeutico che forza un sistema
immunitario pigro, cioè che non è nelle condizioni di lavorare efficacemente, e tenta di
sforzare quelle capacità del sistema immunitario che sono ancora conservate.
Tramite questo esame otteniamo un tracciato elettroforetico diviso in bande, ognuna delle
quali rappresenta una certa categoria di proteine con diverse caratteristiche fisico e
chimiche.. Normalmente la regione gamma (ultima banda, quella delle immunoglobuline)
del tracciato elettroforetico presenta una curva con una base ampia, e non è molto alta.
Quando invece c’è una situazione di gammapatia monoclonale, la curva presenta una base
stretta e presenta un picco molto alto simile a quello della banda dell’albumina.
Perché questa condizione ha un significato clinico incerto? Perché nella maggior parte dei
casi questa evidenza laboratoristica non corrisponde a un reale fenotipico patologico.
I pazienti con una gammapatia monoclonale sono soprattutto pazienti anziani; è possibile
trovarla anche in pazienti più giovani ma con comorbilità su base immunologica.
La maggior parte di questi pazienti, con gammapatia monoclonale, non ha un alto rischio di
sviluppare una neoplasia, anzi generalmente la possibilità che un gammapatia monoclonale
diventi un mieloma è pari all’1% per anno. La componente monoclonale può riguardare tutte
le immunoglobuline, più spesso riguarda la immunoglobulina G, A e M. Oggi ci sono degli
studi (ancora di ricerca, non basati su dati clinici) che affermano che nel lungo periodo i
pazienti che hanno una gammopatia monoclonale di questo tipo possono avere più problemi
(del tipo osteoporosi, infezioni, tumori, etc.) rispetto a chi non presenta tale condizione.
Poi possiamo avere della gammopatie monoclonali che sono associate a delle situazioni
cliniche, ad esempio:
Mieloma multiplo
Il paziente che ha il mieloma va dal medico per lo più perché presenta (1) dolori ossei,
importanti, che possono riguardare qualsiasi distretto corporeo, possono tradursi anche in
lesioni ossee (crolli vertebrali, fratture spontanee o conseguenti ad incidenti non tali da
poter determinare una frattura), tant’è che poi questa sintomatologia dolorosa regredisce
con molta difficoltà con i normali antidolorifici. Il paziente può anche avere (2)) infezioni
recidivanti, che non passano (con l’antibiotico la febbre scende ma dopo due giorni ritorna):
la neoplasia riguarda le cellule B, ed in particolare l’ultima fase della maturazione delle
cellule B, quindi sono cellule che non sono capaci di produrre anticorpi efficienti. Inoltre, il
paziente può anche avere (3) problemi legati all’emocromo (anemia, piastrinopenia
eccetera), perché nel midollo osseo crescono le cellule neoplastiche del mieloma, oppure
può accadere che (4) la componente monoclonale in eccesso vada a finire nel filtro renale
determinando un’insufficienza renale (nefropatia mielomatosa).
In seguito, quindi, all’evidenza di una serie di sintomi, parte l’indicazione per una serie di
esami.
• se appunto le componenti monoclonali sono sopra i 3 gr, ho uno dei segni CRAB e
le plasmacellule sono sopra il 10% faccio diagnosi di mieloma;
• se la componente monoclonale è sotto i 3 gr, non ho i segni CRAB e le plasmacellule
sono sotto il 10% allora si parla di MGUS;
• è presente anche una situazione intermedia in cui la componente monoclonale è
sopra i 3 gr, non ho i CRAB, ma le plasmacellule sono superiori al 10 %: in questo
caso si parla di “mieloma multiplo asintomatico”, cioè c'è la malattia, il mieloma,
ma è quiescente, dorme (smoldering multiple myeloma, SMM). Quindi
sostanzialmente rispetto alla componente monoclonale la differenza forte la fa la
presenza o assenza dei sintomi CRAB, se sono presenti avrete un mieloma, rispetto
alla percentuale di plasmacellule lo smoldering è più del 10% plasmacellule ma fino
al 17%, il mieloma è oltre il 17%, ma se ci sono i sintomi CRAB è sempre mieloma
(anche se ha il 15%).
Poi faremo una serie di esami di laboratorio che riguardano la calcemia, l’emocromo, i
parametri di funzionalità renale, etc, tutto ciò che ci serve per fare diagnosi, la biopsia
osteomidollare, così come l’aspirato osteomidollare.
Un altro parametro che possiamo usare per fare non tanto la diagnosi ma per graduare
(anche per fare diagnosi in realtà) rispetto a queste tre entità sono le catene leggere libere
nel siero. La sintesi compiuta delle immunoglobuline è derivata dall’assemblaggio delle
catene pesanti e leggere: nel processo del mieloma ma anche in altre patologie ci può
essere uno sbilanciamento rispetto alla produzione di queste catene leggere, queste
possono essere prodotte in eccesso, e questo eccesso posso misurarlo nel plasma: questo
dato posso utilizzarlo nella diagnosi, ma devo tener presente che questa alterata
produzione può anche essere presente in altre patologie, come nelle infezioni, nelle
patologie renali, quindi questo esame va contestualizzato, va fatto dopo tutti gli altri, non
può essere fatto da solo.
Nel mieloma le plasmacellule mielomatose crescono, si moltiplicano nel midollo (ma non
solo perché posso avere anche manifestazioni della malattia fuori dal midollo, è un fatto
raro ma che ci può anche essere): se ho la proliferazione e la trasformazione di cellule che
si occupano della produzione di immunoglobuline è chiaro che ciò che sarà compromesso
è il sistema immunitario, quindi i pazienti saranno bersagliati da infezioni, avranno una
distruzione ossea e quindi segni di dolore e crolli vertebrali; conseguentemente anche
insufficienza renale per ipercalcemia, e per l’aumentata quota di proteina monoclonale
gestita dal filtro renale. Possono anche esserci difetti della coagulazione per aumento
della componente monoclonale nel plasma, che crea problemi ai fattori della coagulazione,
quindi questi pazienti avranno una facilità dei fatti emorragici; l’accumulo di componenti
monoclonali mi danno anche neuropatia (alterazioni nel processo di sintesi di mielina).
Quindi si innesca, a partire da una trasformazione neoplastica del midollo osseo, un circuito
di attività patologiche della cellula mielomatosa che esce dai confini emopoietici e che dà il
segno clinico di sé anche con altre insufficienze d’organo.
Sotto il profilo clinico osservando le lesioni ossee queste sono caratterizzate da un
caratteristico aspetto osteolitico: radiologicamente queste lesioni appaiono come puntini,
buchini, che posso avere in qualsiasi distretto osso, anche cranico, e che sono abbastanza
tipiche di mieloma. È possibile trovarle anche in altre patologie, per quanto la più
caratteristicamente associata ad esse è il mieloma. Quindi si determina aumentata fragilità
dell’osso fino alla sua distruzione, al crollo della struttura ossea, liberazione di calcio, sintomi
quindi legati all’ipercalcemia (nausea, vomito, stato confusionale), compresa
l’insufficienza renale. Quindi il paziente può arrivare alla nostra attenzione disorientato
rispetto all’ambiente, al tempo, a se stesso. Le lesioni ossee sono la parte più importante
dei sintomi del paziente, con dolore.
Un’altra cosa che molto spesso è associata al mieloma sono particolari alterazioni genetiche
e molecolari: il più delle volte, abbiamo delle alterazioni cromosomiche a livello del
cromosoma 14 nella regione in cui c’è il locus 3.2. Si tratta soprattutto di traslocazioni
che però non portano alla formazione di geni di fusione, ma semplicemente spostano alcune
aree cromosomiche vicino alla regione IGH (regione trascrizionalmente attiva); tuttavia,
possiamo anche avere delle delezioni o delle alterazioni numeriche riguardanti altri
cromosomi. In definitiva si può affermare che le lesioni genetiche e molecolari nel mieloma
sono molto abbondanti: il genoma della cellula mielomatosa è estremamente riarrangiabile.
La pericolosità del mieloma viene esacerbata inoltre se noi andiamo a considerare la
policlonalità di questa malattia. All’interno della popolazione cellulare mielomatosa, vi sono
varie famiglie di cellule neoplastiche e ciò rende ancora più complessa la lotta conto
questa malattia, in quanto essa recidiva facilmente, considerando che tolto di mezzo il
clone più rappresentato, ci sono gli altri pronti a entrare in scena.
Anche per il mieloma esiste una stadiazione, che ci serve più che altro a stabilire il rischio
e la prognosi e non a capire quanto è diffusa la malattia. Questa stadiazione prende in
considerazione soprattutto parametri di laboratorio.
Parlando invece della diagnosi differenziale, essa non è molto complicata perché riguarda
elementi che abbiamo già detto e che sono abbastanza precisi: per esempio, consideriamo
la plasmocitosi del midollo osseo, che non è una situazione molto frequente al di fuori del
mieloma, però ci può essere in altre condizioni (soprattutto nelle infezioni o in altri tumori).
Tuttavia, rispetto a queste circostanze possiamo documentare la policlonalità delle
plasmacellule tramite indagine citofluorimetrica.
Per quanto concerne la terapia questi pazienti purtroppo non possono guarire dalla loro
malattia, però sono disponibili molti farmaci che permettono di allungare la sopravvivenza.
Parliamo di trapianto di cellule staminali e non di midollo osseo perché come abbiamo già
detto le cellule staminali posso prenderle sia dal midollo che dal sangue periferico. Rispetto
alle sorgenti, cioè al materiale da trapiantare, possiamo prendere le cellule dal midollo
osseo, dal sangue periferico o dal cordone ombelicale.
Il trapianto allogenico è quello che viene fatto tra due individui diversi (io posso avere un
famigliare che è più o meno simile a me da un punto di vista genetico oppure posso avere
un estraneo). Tuttavia, il trapianto allogenico deve rispettare la regola della compatibilità
del sistema HLA: il donatore e il ricevente devono essere simili, non uguali rispetto ad
alcuni antigeni del sistema HLA (non possono essere uguali perché nessuno di noi può
essere uguale a un altro individuo in termini di HLA).
Il trapianto singenico invece individua una fattispecie molto rara di trapianto, in cui il
donatore e il ricevente sono geneticamente uguali, dunque nel loro caso il sistema HLA è
lo stesso (non più simile). Questo è un trapianto che può avvenire solo in una situazione,
ovvero quella che si realizza tra i gemelli.
Nel trapianto autologo invece le cellule trapiantate sono le cellule del paziente, che
vengono prelevate quando il paziente non ha la malattia, dunque ha delle cellule staminali
che potrebbero essere buone per ricostruire la funzione emopoietica che è stata interrotta
dalla trasformazione neoplastica.
Ogni volta che noi facciamo un trapianto e utilizziamo cellule staminali midollari o
progenitori midollari e cellule del sangue periferico selezionando queste cellule
utilizzando markers come CD34, noi abbiamo bisogno di una quantità di cellule che sia
proporzionata alle dimensioni dell’individuo: questo per garantire la buona riuscita della
procedura del trapianto.
L’altro elemento importante del trapianto allogenico è l’assetto di istocompatibilità.
Abbiamo detto che il trapianto allogenico tiene in considerazione gli individui che non
possono essere uguali geneticamente ma devono essere simili. Questa somiglianza è
basata sulla condivisione di alcuni antigeni HLA. Gli antigeni HLA sono quasi tutti
rappresentati sulla superficie di molte cellule dell’organismo. Noi selezioniamo il donatore-
ricevente sulla base dell’affinità di una decina di questi antigeni e, se questa situazione
è possibile, quel tipo di donatore rappresenta un donatore ottimale. Ciò significa non che il
donatore sia uguale al ricevente ma è compatibile e che questa compatibilità può essere
relativa in quanto poi dietro c’è un’altra schiera di antigeni che non possono essere studiati
e che potrebbero essere la causa della Graft-versus-host disease.
Gli antigeni di istocompatibilità li ereditiamo dai nostri genitori e questi antigeni in termini
genetici li ereditiamo per blocchi cioè per aplotipi (siamo il risultato di un aplotipo paterno
e uno materno, l’insieme fa di noi delle persone uniche rispetto ai nostri genitori).
Nel trapianto allogenico noi prima selezioniamo il paziente che deve essere trapiantato.
Trapiantiamo il paziente che ha un problema onco-ematologico sostanzialmente per due
motivi:
- per avere la possibilità di utilizzare farmaci o radiazioni a un dosaggio tale da
essere sicuri di distruggere per sempre il suo compartimento staminale. Se
dopo questa operazione noi non potessimo fare il trapianto, il paziente morirà perché
la sua emopoiesi non si ripristinerà più da sola. Quindi utilizziamo l’allotrapianto per
poter agire pienamente con il meglio che abbiamo della terapia in termini di dosaggio,
per essere certi di riuscire a far fuori le cellule leucemiche/neoplastiche insieme però
all’emopoiesi. Quindi noi facciamo una maxichemioterapia, una maxiradioterapia che
si chiama terapia di condizionamento, a seguito della quale il paziente avrà un
periodo di circa 4 settimane durante il quale non avrà la possibilità di fare emopoiesi,
a meno che una volta che realizziamo questa cancellazione infondiamo le nuove
cellule staminali del donatore; queste cellule arriveranno alla cavità midollare e,
nell’arco di tempo di qualche settimana, cominciano a fare emopoiesi. Se tutto è
andato bene, è questo quello che accade. Se qualcosa va male, il paziente potrebbe
non recuperare l’emopoiesi per vari motivi.
Generalmente il trapianto di cellule staminali non si fa in pazienti che hanno più di 70 anni
e anche l’età del donatore non deve essere di molto in avanti con gli anni, perché il paziente
molto anziano ha una emopoiesi che per invecchiamento è meno performante. Ovviamente
il donatore deve essere selezionato in maniera precisa rispetto alla sua anamnesi
patologica, non deve avere malattie sessualmente trasmissibili, genetiche trasmissibili,
tumori etc.
Quindi facciamo l’infusione, e si possono realizzare cose buone ovvero l’attecchimento:
le cellule staminali raggiungono le cavità midollari, si insediano, stabiliscono rapporti con le
cellule stromali, cominciano a fare emopoiesi; oppure trovano le nicchie occupate da
cellule leucemiche o staminali, che non sono state eradicate dalla terapia di
condizionamento; oppure ci sono problemi nell’insediamento; oppure posso avere la
Graft-versus-host disease; oppure tutto può andar bene ma funziona per un periodo breve
di tempo e la malattia ricompare, perché una cellula neoplastica è sopravvissuta al
condizionamento e ha avuto bisogno di un tempo x per rigenerarsi e ricostituire
un’emopoiesi patologica.
Per le regole genetiche della trasmissione dei caratteri, la possibilità di trovare un individuo
che sia compatibile nei termini che noi abbiamo detto è maggiore nell’ambito del nucleo
familiare e questa probabilità si abbassa notevolmente al di fuori di esso ed è per questo
che noi cerchiamo i donatori con l’ausilio di registri mondiali, cioè un database in cui viene
raccolta la disponibilità e i caratteri genetici di tutti i donatori. Lì dove vi fosse la necessità di
uno specifico assetto HLA, quel donatore verrà contattato e gli verrà chiesto di confermare
o meno la disponibilità che aveva dato anche anni prima. L’assetto HLA viene ereditato
per blocchi materni e paterni, per aplotipi.
La Graft-versus-host disease può essere acuta o cronica a seconda del tempo di latenza
rispetto al trapianto. Quindi 100 giorni acuta, 400 giorni cronica e interessa la maggior
parte dei pazienti che vengono trapiantati. È più probabile quanto è più grande la differenza
in termini di HLA tra paziente e donatore.
Quello che noi vediamo esternamente sono le lesioni cutanee, perché questi pazienti
presentano lesioni cutanee come papule, eritemi su tutto il corpo e queste lesioni possono
interessare tutto lo spessore della cute e possono rappresentare un pabulum per le
infezioni, perché questi pazienti ancora non hanno un sistema immunitario che li possa
mettere a riparo dalle infezioni.
Quindi si ha una situazione clinica molto delicata, per questo il trapianto allogenico di per sé
è una procedura che, in molte malattie onco-ematologiche, è fondamentale per salvare la
vita dei pazienti ma per la sua natura può essere l’innesco per una complicazione fatale.
Quindi lesioni di vario tipo, segno di una aggressione dei linfociti, sulle quali si possono
innescare processi infettivi. La cute perde la sua elasticità, integrità, le mucose lo stesso.
Il paziente può arrivare a insufficienza epatica, del tratto gastroenterico in toto e spesso
questi processi non sono reversibili. Cosa possiamo fare per questi pazienti? Due cose:
- Farmacologicamente, usando la ciclosporina: è un immunosoppressore che agisce
con due meccanismi in questo contesto. Da un lato inibisce la sintesi del recettore
per l’interleuchina sui linfociti T, dall’altro inibisce la sintesi/il rilascio di IL-2. Si ha
quindi un’interruzione del circuito dell’IL-2 che regola il richiamo delle cellule nei
tessuti sofferenti. Questa terapia funziona ma non ha un effetto duraturo nel tempo,
la sua efficacia terapeutica in alcuni casi tende ad estinguersi.
- Trapianto T-depleto: se il problema del trapianto è dato dalla presenza dei linfociti
T nel materiale che andiamo a dare al ricevente, allora, prima di infondere le
staminali, elimino i linfociti T, cioè faccio un’operazione precendente all’iniezione che
si preoccupa di eliminare i linfociti T e ciò si chiama trapianto T depleto.
Togliere i linfociti T dal materiale da trapiantare al ricevente, non è un’operazione
sicura perché (1) i linfociti T del donatore hanno la funzione di accompagnare le
cellule staminali alla nicchia, laddove avrebbero da sole difficoltà a raggiungerla e a
insediarsi. Inoltre, quando abbiamo parlato della Graft-versus Leukemia, cioè della
possibilità dopo il trapianto da parte del nuovo sistema immunitario di riconoscere
eventuali cellule neoplastiche, questo riconoscimento viene effettuato dai linfociti T
del donatore e quindi (2) il trapianto T depleto perde la possibilità della Graft-versus
leukemia. Un’altra circostanza era rappresentata dalle infezioni: ci sono delle
infezioni che possono essere, sotto il profilo cellulare, osteggiate solo dai linfociti. Il
paziente che fa il trapianto, prima di fare linfociti nuovi ci mette del tempo; se ha quelli
del donatore, è meglio perché, tramite questi, riesce a proteggersi. (3) Il paziente che
fa il trapianto T depleto è più esposto al rischio infettivo, alla morte per infezioni.
Quindi alla fine non avrò a che fare con la Graft-versus-host disease, ma avrò a che
fare con altri problemi; quindi questo trapianto T depleto non presenta la migliore
soluzione, ma un’alternativa.
Quale potrebbe essere una soluzione? Può essere rappresentata dai cosiddetti
linfociti ingegnerizzati: so che la Graft-versus-host disease è imputabile ai linfociti
T del donatore e allora, prima di darli a questo paziente, questi linfociti T li manipolo,
inserisco nel loro DNA un pezzo di DNA estraneo che codifica per una proteina virale,
cioè faccio una operazione di ingegneria genetica. Quindi il nuovo linfocita avrà sulla
sua superficie un recettore che normalmente non c’è ed è un recettore virale. Quindi
dò al paziente questi linfociti e, nel momento in cui dovesse comparire una Graft-
versus-host disease, io darò al paziente un antivirale che distruggerà tutti i
linfociti T. È una cosa che oggi si riesce a fare soprattutto nei trapianti pediatrici.
La difficoltà di questa operazione è che non si riesce a fare su tutti i linfociti, alcuni
non riescono ad essere modificati, sfuggono a quest’operazione.
Rigetto
Il rigetto qui è da intendersi come una difficoltà della cellula staminale a fare emopoiesi e
tale difficoltà dipende o dall’incapacità di insediarsi nelle nicchie emopoietiche, perché
non ci sono i linfociti T, perché le nicchie sono occupate da altre cellule o per altri motivi che
non sappiamo o perché le cellule durante l’homing si perdono e vanno in altri posti, oppure
l’emopoiesi non si riesce a realizzare a causa di una incompatibilità delle HLA molto
rappresentata che impedisce al nuovo tessuto di incominciare a fare emopoiesi; questa
incapacità è direttamente proporzionale alla diversità in termini HLA tra donatore e
ricevente.
Quindi considerate che, generalmente, l’emopoiesi comincia nel paziente circa dopo due
settimane dal trapianto e, per la normalizzazione delle funzioni immunitarie, ci vogliono
almeno 4 mesi e che devono passare circa 3 anni prima che il paziente diventi davvero
immunocompetente. Quindi questi pazienti, fino ad allora, vengono seguiti in ambulatorio,
monitorati rispetto alla GVHD, rispetto alla possibilità di avere infezioni, fanno profilassi
antibiotiche, antivirali, fanno dosaggi rispetto a sierologia virale.
Trapianto aplo-identico
Abbiamo detto che uno dei problemi del trapianto allogenico è la compatibilità e la rarità
della compatibilità. Oggi questa circostanza è resa meno complicata dalla possibilità di fare
un trapianto aplo-identico: vuol dire che è sufficiente che io sia compatibile con un altro
individuo solo per metà, solo per un aplotipo rispetto agli antigeni HLA che abbiamo detto
prima e questo rende molto più semplice la ricerca. Sicuramente, nella mia famiglia c’è il
donatore che ha uno dei due aplotipi che possiedo e questo fatto ha reso il trapianto
allogenico molto più diffuso.
Qui resta sempre un problema immunologico, che si riesce a controllare andando a
intervenire su quella frazione linfocitaria che può essere responsabile della GVHD. Quindi
noi, ai pazienti che devono fare trapianto aplo-identico, diamo prima e dopo il trapianto, dei
farmaci che sono capaci di modulare la presenza e assenza di varie classi di linfociti.
Per esempio sono farmaci che aumentano i linfociti T regolatori (inibiscono il sistema
immunitario, lo addormentano) e riduciamo la quota dei T citotossici. Quindi, utilizzando
le caratteristiche genetiche dell’individuo aplo-identico ed intervenendo farmacologicamente
sul sistema immunitario, riusciamo a fare trapianti tra individui diversi semplificando la
procedura di ricerca del donatore. Con questo sistema oggi tutti possiamo fare il trapianto
allogenico, perché tutti abbiamo un donatore a partire dal nostro nucleo familiare. Capita
molto spesso che in un famiglia con dieci fratelli non ce ne sia nemmeno uno HLA
compatibile con il vecchio sistema; con la ricerca dell’aplo-identico ce ne sono a partire dai
genitori.
Poi ci sono le cellule NK: si pensa che se il donatore e il ricevente sono diversi rispetto alla
configurazione dei geni che codificano per i recettori KIR, la Graft-versus Leukemia sarà
migliore. Quindi quanto più diversi sono gli NK del donatore e del ricevente tanto migliore
sarà la prestazione rispetto alla Graft versus Leukemya.
Trapianto autologo
Vuol dire che donatore e paziente sono la stessa persona. Il paziente diventa donatore di
se stesso, nel momento in cui non ha più la malattia ematologica cioè quando ha una
remissione. Quindi, nel momento in cui ha una remissione, io cerco la malattia nel suo
midollo andando a cercare alterazioni cromosomiche, molecolari, utilizzando marker della
malattia. Se questo marker non c’è, raccolgo le sue cellule staminali, gli faccio la terapia di
condizionamento e gli restituisco le sue cellule. Questo fatto lo faccio soprattutto se non ho
la disponibilità di un donatore. Succede che, quando raccolgo le sue cellule staminali,
può capitare che, tra tutte queste cellule, ci possa essere una cellula neoplastica e, a partire
da questa, s’innesca il processo di recidiva della malattia. Quindi, in questo tipo di trapianto,
io non avrò il problema della Graft-versus-host disease ovviamente, ma non avrò neanche
la Graft-versus Leukemia, però la probabilità di recidiva della malattia sarà molto alta.
Car-T
L’ultima frontiera del trapianto sono le CAR-T cells.
Le CAR-T cells sono dei linfociti del paziente che vengono ingegnerizzati con la finalità di
costruire un recettore che in natura non esiste. Questo recettore deve avere delle priorità
che stabiliamo noi a priori, cioè deve essere non solo capace di riconoscere una cellula
neoplastica ma anche di attivarsi dopo il riconoscimento e, a fronte di questa attivazione, la
cellula deve avere una reazione, cioè distruggere la cellula neoplastica.
Ho bisogno di costruire un recettore con queste funzioni: riconosce, attiva e promuove
l’uccisione. Una volta che l’ho costruito, questa proteina verrà codificata dalla sequenza di
DNA e questa sequenza di DNA, io la prendo e la metto nel DNA dei linfociti del paziente.
Quindi questi linfociti nuovi saranno capaci di fare tutte le operazioni dette. Il problema è
che questa tecnica non va bene se la patologia riguarda i linfociti T, perché queste cellule
sono linfociti T. L’altro problema è: quanto vivono queste cellule nel paziente? Ancora non
si sa, probabilmente dipende dalla patologia, dall’età dell’individuo, dipende da un sacco di
variabili che non sappiamo. Quando porto i linfociti T nel mio laboratorio e li devo
trasformare, questa trasformazione non riesce in tutti i linfociti, in alcuni sì e in altri no e
quindi, anche il fatto che questa operazione riesca o meno, pesa molto sull’efficacia.
CAR-T sta per “chimeric antigen receptor T”, dove “chimerico” è un termine per dire che
è un recettore che non esiste in natura, costruito nel laboratorio e, a partire dalla
sequenza di DNA che inserisco nel genoma della cellula, quel DNA potrà codificare anche
per questa proteina. Questa operazione la faccio tramite un virus non pericoloso che porta
questo pezzettino di DNA, lo integra nel DNA della cellula T e, a partire da questa
integrazione, io avrò l’espressione del recettore sulla cellula T.
Questa procedura non viene largamente applicata per tutta una serie di fattori: poter
realizzare queste cellule non è semplice, lo devono fare laboratori che hanno tecnologie per
farlo e questa non è una situazione rappresentata in nessuna parte del mondo. Anche il
paziente che fa questo tipo di trapianto deve essere seguito in centri attrezzati, perché ci
possono essere complicazioni inusuali e importanti che devono essere risolte; quindi deve
essere una struttura che deve avere la neurologia, la rianimazione, l’ematologo che deve
avere esperienza nei trapianti. Una terapia del genere ha dei costi attualmente non
sostenibili per nessun paese, stiamo parlando di costi molto importanti e poi considerate
che l’infusione non viene fatta una sola volta ma a cicli però, in questo momento, la difficoltà
maggiore non è il costo ma la tecnologia.
Oggi si sta cercando di utilizzare le cellule non del donatore ma di un altro individuo oppure
addestrare cellule diverse dai linfociti ad esempio i macrofagi, quindi si sta allargando il
fronte di azione delle terapie che in questo momento sembrano funzionare benissimo ma
solo nei tumori ematologici e non nelle neoplasie solide, dove al momento ci sono dei
problemi da risolvere. Queste terapie funzionano anche nei linfomi (che possiamo
categorizzarle come neoplasie solide rispetto a tutte le altre che abbiamo visto) ma, il profilo
biologico della malattia, consente l’intervento di questa categoria di cellule.
Ma perché i fattori della coagulazione devono seguire due vie? Non ne bastava una che
agisse comunque sul fattore x?
No, perché la ridondanza del meccanismo è utile nel caso in cui una dovesse venire a
mancare uno.
Test su piastrine
Si deve quindi ricostruire la VIA ESTRINSECA in vitro usando una sostanza che
imiti l’azione del TF e che interagisca con il fattore VII, ovvero la
TROMBOPLASTINA.
Il laboratorista aggiunge al plasma del paziente la TROMBOPLASTINA, aggiunge
poi gli ioni calcio (ricalcifica il campione) e calcola il tempo per la formazione di
trombina.
- PTT: tempo di tromboplastina parziale
Valutiamo ora la funzionalità della VIA INTRINSECA: aggiungo sempre ioni calcio
al campione ematico, per dissolvere l’azione dell’anticoagulante ed una sostanza
che mimi il “contatto” che genera l’attivazione dei fattori della coagulazione: es. il
CAOLINO.
Dopo ciò faccio partire il cronometro e vedo in quanto tempo è attivata la
trombina.
Piastrinopenie
Sono più spesso acquisite (ad esempio dopo una infezione (H.Pylori), neoplasie, o da
alterata distruzione) ma non mancano i casi congeniti in età pediatrica.
Tra le acquisite molto frequentemente troviamo quella a eziologia immune:
PIASTRINOPENIA IMMUNE, molto difficile da diagnosticare (di solito si procede per
esclusione) e che colpisce preferibilmente pazienti giovani.
L’organismo d’improvviso inizia a produrre autoanticorpi rivolti verso le PIASTRINE (si
legano in circolo, insieme vanno alla milza e sono legate dai MACROFAGI).
Ci sarebbe un test per individuare gli autoanticorpi ma in realtà questo test non è affidabile,
motivo per cui la diagnosi è fatta per esclusione con tutte le altre cause.
Tale patologia viene trattata con (1) i CORTICOSTEROIDI che reprimono il sistema
immunitario, (2) con alcune sostanze che mimano l’attività della TROMBOPOIETINA (che
fa aumentare le piastrine) e (3) con le IMMUNOGLOBULINE UMANE che “saziano” i
macrofagi della milza evitando che essi attacchino quelle che si sono formate in circolo, in
complesso con gli autoanticorpi (questa terapia però non è durevole, serve solo a fare
rialzare il numero di piastrine per qualche settimana). In passato si faceva la splenectomia
ma poi si dovevano fare i conti con tutte le complicanze annesse, perciò oggi non si fa più.
CID
Dal punto di vista clinico è sovrapponibile, ma in tal caso la coagulazione intravascolare si
gene perché c’è una noxa patogena (infezione, tumore, complicanza gravidanza, etc) che
promuove il rilascio di TF che è un pro-coagulante: si consumano così piastrine
(piastrinopenia) e fattori della coagulazione.
In tal caso già dall’esordio tutti i parametri della coagulazione (PT, PTT, fibrinogeno
diminuito, dimeri aumentati, etc.) sono alterati, invece nella PORPORA TROMBOTICA
TROMBOCITOPENICA no. E’ chiaro che se la PTT continua anche tali fattori saranno
alterati, ma all’esordio non lo saranno. L’LDH sarà aumentato in entrambi i casi, come in
entrambi i casi ci sarà piastrinopenia.
Non esiste terapia specifica per la CID, posso solo intervenire sulla noxa patogena o in
maniera sintomatica. Quindi, un paziente con problematica di tipo trombotico gliela tratto,
di tipo emorragico gliela tratto, dipende, chiaramente con tutte le complicazioni del caso.
Malattia di vW
E’ una malattia genetica molto diffusa, dovuta ad una mutazione sul gene che codifica per
la proteina di Von Willebrand: il deficit si esprime in termini o quantitativi o qualitativi.
Individuiamo 3 gruppi: il 1^ (il più comune, nel quale di fattore di VW ne ho poco) e il 3^ (il
fattore di WV è assente): in entrambe i casi sono difetti quantitativi. Il 2^ tipo, vede invece
un difetto qualitativo nella produzione di un fattore di WV, difettivo.
Il paziente avrà emorragia disseminate, specie delle mucose. È una patologia molto
rappresentata nella popolazione.
Il reperto è occasionale, il paziente trova delle emorragie inspiegabili legati ad una (1)
diminuita adesività piastrinica in più (2) gli manca la protezione del FATTORE VIII che
ne risulterà compromesso (dunque il PTT è allungato).
La terapia per il 1^ tipo (difetto di produzione) si basa sulla somministrazione di
DESMOPESSINA, che promuove l’esocitosi dai depositi delle cellule endoteliali di fattore
VW preformato.
Nel 3^ tipo, il fattore VW manca totalmente, dunque la DESMOPESSINA non ha effetto, lo
stesso nel 2^ tipo ( ove il fattore VW non è funzionale seppur è prodotto). In questi casi
posso somministrare dei derivati ematici, ricchi di fattore di VW.
NB. La malattia di VW può anche essere acquisita (lo abbiamo visto anche nelle neoplasie
mieloproliferative), specie nel bel mezzo di patologie autoimmuni ad esordio tardivo.
Emofilia
L’emofilia A è una patologia X-linked, che riguarda la produzione alterata del FATTORE
VIII il cui gene è dunque presente su cromosoma X. Essendo il fattore VIII alterato il PTT
sarà allungato.
Il fenotipo di malattia si realizzerà nella prole di sesso maschile;
inoltre esso dipende dall’entità del deficit di FATTORE VIII, se eccessivo si manifesta già
alla nascita; se minimo, non è clinicamente rilevabile. Nella donna, in ragione del
fenomeno di lyonizzazione, essa potrà andare a produrre una certa quantità di fattore VIII.
A seconda del difetto ci sarà una sintomatologia relativa:
- I difetti più gravi (no produzione fattore) possono essere evidenti già alla nascita,
in seguito a lesioni nell’ambito del dislocamento del parto anche. Inoltre, le lesioni
emorragiche possono comparire già in età pediatrica a seguito di incidenti già
banali. In vita adulta possono esserci emorragie che interessano i muscoli e
articolazioni degli arti inferiori (emartro)
- Il difetto è minimo è non dà problematica clinicamente evidente (al massimo si
rileva nell’ambito di un intervento chirurgico).
L’emofilia B vede invece un interessamento del FATTORE IX. A parte il fattore interessato
è completamente sovrapponibile a quella A.
Esistono poi delle Sindromi -acquisite- emofiliche, da auto anticorpi che agendo nei
confronti dei fattori della coagulazione, mimano la carenza di fattore VIII e IX.