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PROF.

DE FAZIO

Esofago
ANATOMIA

L’esofago è un tubo muscolare di circa 25 cm, che si estende dalla faringe allo stomaco. Classicamente è
distinto in tre porzioni, ossia cervicale, toracica ed addominale. Questa distinzione è fondamentale in quanto
lo stesso tipo di malattia può dare effetti completamente diversi a seconda della zona dove l’organo è colpito,
pur trattandosi sempre dello stesso organo. Pur essendo strutturalmente identico in ogni parte a seconda
della regione coinvolta l’organo ha diversa capacità di interagire con gli organi: questo genera differenti
quadri possibili di patologia.

Come tutti gli organi cavi, l’esofago ha una struttura pluristratificata, costituita da mucosa, sottomucosa e
tonaca muscolare; quest’ultima possiede uno strato longitudinale esterno e uno strato circolare interno. La
sierosa, invece, è presente solo a livello della porzione addominale. Quest’ultimo dato è rilevante perché,
mancando una guaina peritoneale, la parete è più sottile: di conseguenza, un qualunque tipo di patologia a
partenza esofagea può attraversare facilmente gli strati, diffondendo dall’organo in questione – l’esofago -
agli organi vicini: aorta, trachea (situata anteriormente) con la sua biforcazione. Esempio: un tumore di
trachea e laringe può sconfinare nella parete esofagea, dando dei problemi di tipo gastrointestinale che
possono costituire il primo sintomo del quadro patologico. Questo per i scarsi meccanismi di difesa di parete
esofagea.

Vascolarizzazione dell’esofago

è Vascolarizzazione arteriosa

Il professore non pretende che si conosca tutta la vascolarizzazione dell’esofago, ma gli interessa il concetto
che segue.

I rami citati nella slide irrorano l’esofago. Quel che è importante sapere è che la vascolarizzazione esofagea
è scarsa e segmentaria:
Scarsa: i vasi in questione sono così piccoli che, una volta lacerati, smettono subito di sanguinare. Non a caso,
l’emostasi chirurgica dell’esofago, attuata durante interventi chirurgici per evitare perdita di sangue, è molto
facile da eseguire, in quanto si tratta di vasi che si coartano subito.
- Segmentaria: qualunque distrettto esofageo è vascolarizzato esclusivamente da determinate arterie.
Ogni segmento ha le sue arterie, dunque non ci sono anatomosi che in caso di necessità possano
vicariare un apporto di sangue nella zona dove questo viene a mancare. È esattamente il contrario di
ciò che si verifica nello stomaco: l’anatomia gastrica prevede che lo stomaco sia un sacco
completamente circondato da arterie, che entrano nella piccola e grande curvatura,
anastomizzandosi tra di loro; con questo sistema vengono inviati dei collaterali che creano un
groviglio di anastomosi. La scarsa vascolarizzazione esofagea spiega una serie di patologie, come
l’ulcera peptica e le complicanze di quest’ultima. D’altro canto, tuttavia, una vascolarizzazione scarsa
consente di avere una certa facilità nelle procedure di asportazione dell’organo: basta una scarsa
emostasi, con coagulatori elettrici o ad ultrasuoni, ai fini di fermare un’emorragia; sempre in ambito
chirurgico, tuttavia, quando si va a fare una aportazione di una parte o di tutto l’esofago, la zona che
abbiamo tolto riceverà comunque poco sangue. Dal momento che la riparazione cicatriziale avviene
tramite protiene che arrivano tramite il circolo, maggiore è il sangue che arriva al distretto, piu facile
risulta la possibilità di ottenere una cicatrice. Per questo motivo, una sutura del cuoio capelluto si
effettua molto facilmente: si tratta di un distretto molto vascolarizzato, con possibilità di guarigione
elevatissime; per questo motivo, una sutura in questo territorio riesce a chiunque, anche a uno
studente alle pirme armi. A livello della parte anteriore della gamba, invece, la situazinoe si copmlica:
in corrispondenza della cresta tibiale il risultato non sarebbe per niente certo, in quanto in questa
zona il sottocute è scarso, dunque manca quello strato che fornisce vascolarizzazione. Pur trattandosi
di cute, abbiamo probabilità di guarigione completamente diverse a seconda del distretto. L’esofago
è uno di questi organi rognosi, che difficilmente si fa maneggiare, proprio a causa della scarsa
vascolarizzazione. Se in più il soggetto è anziano, quindi aterosclerotico, il sangue che arriva è
ulteriormente inferiore, quindi il problema si amplifica ulteriormente. Nelo stomaco perforato,
invece, la probabilità di guarigione è molto alta.
è Vascolarizzazione venosa
Il drenaggio venoso segue pedissequamente la distribuzione arteriosa. A livello dell’esofago inferiore e dello
stomaco, tuttavia, va considerato un ulteriore fattore complicante: la presenza di connessioni tra il sistema
venoso portale e il circolo venoso sistemico1. Queste anastomosi sono chiuse in condizioni normali. Questi
diventano pervi nel momento in cui aumenta la pressione nel sistema venoso portale, classica situazione
presente nei pazienti cirrotici: questi presentano un fegato artefatto dal punto di vista strutturale, in cui i vasi
vengono strozzati nei noduli di rigenerazione cellulare (causa: post-alcolica o post-virale). Si determina di
conseguenza, una ipertensione portale, che si scarica progressivamente a monte, colpendo quei distretti in
cui sono presenti le anastomosi porto-cavali. Uno di questi è il terzo inferiore dell’esofago, dove compaiono
colonne venose, rigide turgide e verticali chiamate varici venose. Queste sono strutture che decorrono nella
sottomucosa dell’organo e che si gonfiano di sangue, tendendo a distendere la mucosa sovrastante, che
diventa traslucida. Tale mucosa coinvolta diventa anche fragile: il passaggio di un bolo alimentare anche
leggermente più duro del normale può facilmente lesionare la colonna varicosa, determinando una cospicua
perdita di sangue. Questa perdita è cospicua, in quanto la vena non ha meccanismi di contrazione: una volta
rotta, il sangue continua a fuoriuscire fino a che non si effettuano interventi terapeutici (compressione con
palloncini, clip endoscopiche o sclerosi per via endoscopica).

è Drenaggio linfatico

Discorso diverso meritano i linfonodi. Mentre il sistema vascolare è un sistema abbastanza poco espresso, il
linfatico è, al contrario, molto ricco. Si estende in senso longitudinale, ma possiede una serie di
interconnessioni importanti. In virtù di queste numerosi anastomosi, una eventuale metastasi a partenza dal
tratto infraddominale può migrare verso l’alto: si conseguenza, si palpano linfonodi duri per la presenza di
una metastasi linfonodale che però ha partenza da un linfonodo del terzo inferiore dell’esofago. Non è
importante conoscere le stazioni linfonodali, né il loro numero, ma serve capire perché un paziente con
tumore del terzo inferiore ha metastasi al collo molto rapidamente.

Innervazione esofagea

1 Altre anastomosi porto-cavali sono presenti a livello di addome e sistema emorroidale


Come tutti gli organi non sottoposti al controllo volontario, anche l’esofago è sotto il governo del SNA, con
le sezioni orto- e parasimpatica. Sono due le reti nervose che si distribuiscono anatomicamente lungo il
decorso dell’organo: una è sottomucosa e l’altra è intramuscolare. Questa distribuzione riguarda sia la
componente simpatica, sia la parasimpatica. Nello specifico, il parasimpatico si estrinseca anatomicamente
tramite il nervo vago, che decorre lungo tutto il decorso dell’esofago.

GENERALITA’ SULLA SINTOMATOLOGIA GASTROINTESTINALE

- Disfagia: ostacolo al deflusso del bolo alimentare.


- Ematemesi: perdita di sangue attraverso la bocca, proveniente dall’apparato gastro-intestinale
- Melena: emissione con le feci di sangue digerito dall’HCl, di colore piceo, proveniente dal tubo
digerente e dalle ghiandole annesse. Di conseguenza, in caso di melena non si possono escludere
patologie provenienti dall’apparato digerente inteso in senso lato (fegato, colecisti, pancreas, vie
biliari e restante tratto GI).
Un paziente con ematemesi deve necessariamente avere melena, in quando una parte del sangue procede
in direzione aborale. Al contrario, non necessariamente un paziente con melena ha anche ematemesi:
dipende da quanto velocemente viene distesa la parete gastrica.
DIVERTICOLI ESOFAGEI
I diverticoli esofagei sono estroflessioni sacciformi della parete esofagea con base d’impianto parecchio
larga, comunicanti con il lume dell’organo. Creano la possibilità di una specie di via alternativa nel percorso
del bolo alimentare, decorrendo parallelamente all’asse maggiore esofageo.
Dal punto di vista strutturale di distinguono in:
- Diverticoli veri: partecipazione di tutte le strutture anatomiche della parete dell’organo; essi avranno
una tenuta migliore
- Diverticoli falsi: manca la componente muscolare della parete stessa; essi sono più deboli, dunque
hanno maggiore possibilità di lacerarsi in contatto con un bolo alimentare piuttosto duro.
Dal punto di vista anatomico, l’esofago si divide in tre porzioni: anche i diverticoli hanno 3 possibili sedi di
insorgenza:
- Cercivali o ipofaringei (del terzo superiore): sono i più frequenti e i più facili da diagnosticare dal
punto di vista clinico, specie se molto grandi. È infatti sufficiente la visita clinica, tipicamente, per far
diagnosi a questo livello.
- Parabronchiali o mediotoracici (del terzo medio): oggi sono diminuiti in termini di frequenza.
- Epifrenici (del terzo inferiore): grossomodo a livello del cardias, sono diagnosticati anche questi
facilmente.
Eziopatogenesi

Dal punto di vista eziopatogenetico ci sono due possibili meccanismi di formazione:


- Diverticoli da pulsione: riconoscono un duplice meccanismo di formazione.
o Esiste un locus minori resistentiae per costituzione vi è una minore resistenza dell’organo
(come a livello dell’anello inguinale, specie nel sesso maschile: zona attraverso cui passano
le gonadi e il deferente nella vita embrionale). A livello esofageo, in corrispondenza del terzo
superiore e del terzo inferiore, ci sono zone non completamente coperte da rivestimento
muscolare: in questi punti la tonaca muscolare è incompleta. Questo si riscontra in tutti i
soggetti.
o Tuttavia, affinché il diverticolo si formi, è necessaria una concomitante turba della motilità
legata a disfunzione neuromuscolare dell’esofago. Questo vuol dire che il paziente ha una
difficoltà nella deglutizione. Questo discorso sarà più chiaro con l’acalasia. Alla fine della
masticazione, involontariamente inneschiamo la deglutizione: il bolo è trasferito dalla bocca
all’orofaringe, da cui un meccanismo riflesso fa sì che si apra lo sfintere esofageo superiore;
il bolo passa in esofago, il quale si contrae conducendo il bolo al LES; quest’ultimo si apre
consentendo il passaggio del bolo dello stomaco. Da questo si comprende perché l’esofago
è poco vascolarizzato: è un organo che sostanzialmente deve solo contrarsi in maniera
ritmica e consentire il passaggio del bolo. Da questo si capisce che il bolo alimentare non
cammina solo grazie alla forza di gravità, ma ha la necessità di essere sospinto da una
contrazione ritmica efficace dell’esofago. Questi due fenomeni fanno sì che il bolo raggiunga
lo stomaco. Nel momento in cui manca uno di questi due fattori (gravità e/o contrazione
esofagea), si determina una difficoltà nella prosecuzione, generando disfagia.
Il triangolo di Killian, delimitato tra i muscoli costrittore della faringe, cricofaringeo e giunzione
faringo-esofagea è un punto dove si può far strada un particolare diverticolo, chiamato DIVERTICOLO
DI ZENKER DEL TERZO SUPERIORE: questo in quanto tale triangolo di Killian è un tipico locus minoris
resistentiae. La mancata apertura dello sfintere esofageo superiore crea una spinta importante della
mucosa in quella zona dove manca la muscolare. Quindi in questo livello la mucosa tende a sfiancarsi.
- Diverticoli da trazione: è il meccanismo principe dei diverticoli del terzo medio. Si crea una azione
di risucchio, di colla da parte delle zone circostanti nei confronti dell’esofago. Un tempo si realizzava
tipicamente per la presenza di grosse masse di linfonodi peribronchiali, esiti di tubercolosi non
trattate, in epoca pre-antibiotica. I linfonodi possono esercitare, per esiti cicatriziali, delle trazioni a
livello dell’esofago. Si tratta, in questo caso, di un diverticolo vero, perché l’azione di trazione è
esercitata sull’organo in toto, a partire dalla parte esterna, che è la tonaca muscolare. Quest’ultima
si porta con sé sottomucosa e mucosa. Questi diverticoli sono oggigiorno più rari, e possono
svilupparsi non più tanto in seguito a linfopatie infiammatorie, quanto neoplastiche: sono una
estrema conseguenza di metastasi linfonodali di carcinomi broncogeni. Questo tipo rappresenta il
minimo problema per un paziente che deve affrontare una situazione ben più grave come le
metastasi.
- Nel terzo inferiore esofageo, i diverticoli sono prevalentemente da pulsione, generati per mancata
apertura del LES con assieme uno spasmo esofageo diffuso o distale, solitamente secondario a RGE.
La chiusura del LES è la conditio sine qua non il paziente non abbia reflusso, causante un danno a
livello della mucosa esofagea. Quando arriva il bolo, il LES si dovrebbe aprire, ma la possibile risalita
dell’acido ne determina la chiusura. Quando vi è una difficoltà di apertura e chiusura del LES, si crea
una zona in cui l’esofago è eccessivamente stimolato, definendo la possibilità di generare diverticoli.
Tuttavia, non si esclude la possibilità di diverticoli a trazione a livello del terzo inferiore: questi sono
secondari a linfadenopatie dei linfonodi del legamento triangolare del polmone, aventi origine
neoplastica.

Sintomatologia
Spesso, il riscontro del diverticolo può essere un reperto occasionale in corso di indagini per altri motivi. Il
paziente si accorge ogni tanto di qualche disturbo deglutitorio, lo associa a nervosismo o a deglutizione di
determinati cibi, convivendo con questa problematica a lungo. Il tutto inconsapevolmente del fatto del
disturbo neuromuscolare.
Se la sintomatologia aumenta, lo fa soprattutto quando il diverticolo è di discrete dimensioni: esso arriva a
comprimere l’esofago, determinando un’ulteriore disfagia; quindi, man mano che il diverticolo si ingrossa, il
cibo inizia a prendere la via del diverticolo come via preferenziale: il diverticolo si riempie di ingesti duri, di
grossa consistenza. Di conseguenza, il diverticolo si addossa sulla parete dell’esofago, comprimendolo,
determinando un’accentuazione dei sintomi. Più grosso il diverticolo, più grossa la compressione
sull’esofago, più grave la sintomatologia.
I sintomi in questione sono:
- Disfagia episodica per solidi e liquidi, che col tempo diventa costante; non è soffocante per
mancanza di compressione della via respiratoria
- [Nel diverticolo di Zenker, del terzo superiore]: con l’aumento delle dimensioni, si genera una
tumefazione palpabile a livello latero-cervicale sinistro. Gli Zenker sono di facile diagnosi clinica,
proprio per questo motivo. La sede è latero cervicale sinistra perché questa è la zona preferenziale
di fuoriuscita del diverticolo dal triangolo di Killian. Inoltre si può affossare un dito dentro questa
tumefazione, provocando una decompressione; durante questa manovra si sente un gorgoglio, in
quanto il contenuto è misto di liquido e gas; il paziente percepirà un senso di ruminazione per il
ritorno nella bocca del contenuto
- Scialorrea.
- Rigurgiti alimentari: il segno del cuscino è un segno legato ai rigurgiti alimentari2
- Fetor ex ore: dovuta alla fermentazione batterica all’interno del diverticolo
- Disturbi respiratori, ossia bronchiti ripetute per fenomeni ab ingestis: molto spesso sono pazienti
che giungono in seconda battuta; infatti, non occupandosi dei sintomi in questione o avendo pochi
sintomi, si ritrovano a frequentare l’ambulatorio del MMG o dello pneumologo perché colpiti da
disturbi respiratori frequenti. Il fenomeno di ab ingestis si verifica durante la notte, dando
manifestazioni al risveglio. Lo pneumologo somministra l’antibiotico, in seguito a cui si verifica una
guarigione momentanea; la manifestazione però ritorna dopo qualche mese. Allora si accende la
lampadina.
Diagnosi
- Clinica: la diagnosi è fondamentalmente clinica, soprattutto per lo Zenker.
- Endoscopica: l’endoscopia in questi casi può essere pericolosissima, dunque va fatta solo da mani
esperte, in ambulatori dove se ne fanno in gran numero. Inoltre va fatta solo dopo un’accurata
anamnesi: nel referto deve essere chiaro ed evidente il sospetto di diverticolo. Nella gastroscopia il
tubo si mette in gola alla cieca, finché non prende la strada dell’esofago e non quella della laringe:
dopo il tubo fa per i fatti suoi. Lo Zenker è vicino all’imbocco della faringe: se il tubo è messo maniera
maldestra, può prendere facilmente la strada del diverticolo. Ed essendo questi dei diverticoli
tipicamente non completi e deboli per la mancanza della muscolare, si può rompere il diverticolo
creando problemi gravi.
- Radiologica: è preferibile partire quindi con la diagnosi radiologica: il mezzo di contrasto ingerito
dal paziente mette in mostra le dimensioni del diverticolo e l’eventuale presenza di reflusso, qualora
il diverticolo sia al terzo inferiore
- Manometria: col sondino manometrico (sottilissimo, inserito tramite il naso) vengono registrate le
onde di contrazione esofagea in seguito a stimoli deglutitori effettuati al paziente. Si registrano
pressioni, capacità di motilità ed eventuali dissinergie: in questo modo si documenta la causa alla
base della formazione del diverticolo, ossia il difetto di motilità.
- pH-metria: documenta presenza e durata di un pH anomalo in sede esofagea. L’esofago è nato per
essere a contatto con materiale a pH neutro, mentre con l’acido può restare a contatto solo per una
frazione di secondo. Non a caso, lo stimolo acido determina una chiusura riflessa del LES. Inoltre, il
pH acido in esofago spiega una serie di patologie importanti soprattutto a livello del LES. Questo tipo
di problematica è molto frequente e bisogna conoscerla nell’anamnesi del paziente.3
Complicanze

2vomito: emissione dalla bocca di materiale dello stomaco, che ha subito digestione dei succhi gastrici; rigurgito: emissione dalla
bocca di materiale non digerito dai succhi gastrici; nel rigurgito riconosco il cibo per le sue proprietà organolettiche, se è digerito
nel vomito non lo riconosco più.
3
Molti pazienti non sanno di avere una incontinenza del cardias e reflusso di succo gastrico. Il reflusso si verifica
spesso in clinostasi e il materiale tende a risalire, venendo inalato. Il succo gastrico così finisce in laringe e va ad
irritare notevolmente le corde vocali. Questa è una situazione abbastanza frequente di cui si deve tener conto dei
pazienti. Una delle complicanze più importanti nella chirurgia tiroidea è infatti la lesione dei nervi ricorrenti: giornate
dopo gli interventi i pazienti diventano afoni; questa cosa spaventa molto il chirurgo. In questi pazienti si fa
laringoscopia per valutare la motilità delle corde vocali; se sono sane, e si muovono, ma sono rosso vivo non si tratta
di una lesione dei ricorrenti, ma di reflusso di acido gastrico. Lo stress operatorio crea una ipersecrezione gastrica che
accentua il reflusso, iper-infiammando le corde vocali.
- infiammazione: il diverticolo è una mucosa a contatto continuamente con ingesti che a fermentano,
quindi si infiamma facilmente. Si tratta di una flogosi sempre più grande, che porta un’ulcera che può
determinare un’emorragia
- emorragia: si tratta sempre di un’emorragia lieve, mai di una ematemesi. È difficile che un vaso
esofageo (poco vascolarizzato) porti ad una grande emorragia. Si può avere uno sputo ematico, una
melena, una lenta anemia ipocromica, ma mai un’ematemesi!
- perforazione: più grave è la perforazione. Il paziente ha una zona più debole, soprattutto a livello dei
diverticoli falsi. La perforazione può essere interna od esterna:
o esterna: come nel caso del diverticolo di Zenker; in tale condizione, la perforazione è facile
da riparare: tramite un taglio sul collo, si può drenare facilmente il contenuto e trattare il
paziente. Il trattamento può essere effettuato anche in anestesia locale, tramite un piccolo
taglio.
o Interna: un diverticolo toracico va a riversare invece il suo contenuto nel mediastino,
dando una mediastinite, spesso mortale.

Queste sono immagini di diverticoli. In endoscopia, penseremmo che il buco più piccolo è costituito dal diverticolo
e il grande dal lume naturale dell’esofago. Questo ci induce ad un errore, in quanto in realtà si tratta della
situazione opposta. La zona più piccola è la strada giusta da seguire per procedere nel lume esofageo. Ma questa
è una cosa che sappiamo a posteriori. Di solito è meglio fare prima l’esame radiologico. Sulla base della lastra
radiologica, si apprezza come il lume naturale sia più stretto di quello diverticolare, in questo caso specifico. Può
essere anche il contrario.
Terapia
Si effettua una terapia solo nelle seguenti tre condizioni:
1) Se i pazienti sono sintomatici: sono pazienti che non mangiano più. Uno dei problemi più grandi da
affrontare in ambito gastrointestinale è la alimentazione del paziente. [Esempio riportato dal
professore, di un suo caso recente: c’è una paziente con guazzamento gastrico (mangia ma tutto
rimane nello stomaco); fatta una gastroscopia, si evidenzia una stenosi importante pre-pilorica. È una
stenosi con mucosa normale, il che significa che non si tratta di un carcinoma. Può trattarsi di linfoma
gastrico? o una stenosi infiammatoria su pregressa ulcera? O un altro tumore, il GIST? Fatta la
biopsia, è una neoplasia GIST. Il paziente non mangia da un mese con parenterale periferica;
l’internista vuole far fare la laparoscopia esplorativa. Ma che c’entra? Cosa si aspetta ad operare? Se
si tratta di tumore va trattato. Solo i linfomi non vanno trattati chirurgicamente. Ma comunque è una
regione prepilorica, che impedisce il trattamento. SE IL PAZIENTE NON SI ALIMENTA è ORRIBILE. Un
paziente che non riesce a mangiare perché non riesce, non ha mezzi, ha una strada ostruita. Questo
anche in tumori dell’esofago, o in caso di acalasia. Questo diventa insostenibile per un paziente.]
2) Se i diverticoli sono di grosse dimensioni
3) Se il diverticolo è complicato (emorragia, perforazione o infiammazione)
è Allora la terapia sarà chirurgica, che mira all’asportazione del diverticolo e alla correzione della
motilità di base.
L’obiettivo del trattamento è quello di asportare il diverticolo o di creare una situazione che renda il
diverticolo incapace di determinare la sintomatologia. Spesso si tratta di pazienti anziani: si tratterebbe di
una situazione in cui affrontare l’intervento chirurgico con un esofago che ha difficoltà a guarire e che ha
problemi di fistole, causanti infezioni ed eventuale sepsi.
Dove è possibile, si toglie il diverticolo, tramite approccio laparoscopico o tramite una piccola incisione a
livello del terzo superiore, in corrispondenza del bordo anteriore-sinistro del collo, al confine con lo SCM; tale
incisione crea possibilità di accesso al diverticolo. Quest’ultimo viene quindi isolato e poi asportato
chirurgicamente.

Queste immagini sono un disegno schematico. Il cordone giallo che si vede nella figura centrale sotto
l’esofago corrisponde al nervo ricorrente: bisogna fare molta attenzione a non lesionare questo nervo, specie
il sinistro, che decorre in questa zona. Una eventuale lesione darebbe, infatti, problemi di disfonia. Dal
disegno, inoltre, si nota come il diverticolo venga clampato tra due pinze, poi sezionato. Oggi questo tipo di
intervento viene eseguito tramite suturatrici meccaniche. Queste ultime (suturatrici meccaniche lineari, in
questo caso) sono posizionate lungo la linea di sezione del viscere interessato dalla resezione; tramite un
cursore che scorre in avanti ed indietro, essa effettua un taglio con una lama e, contestualmente, appone
clip di chiusura in titanio (una, due o tre file di clip: più il tessuto è abbondante e vascolarizzato – cfr. livello
gastrico-, maggiore è il numero di file di clip richieste). Effettuata la manovra, il pezzo viene via e il paziente
si ritrova una sutura già pronta.
APPROFONDIMENTO SULLE SUTURATRICI MECCANICHE
Esistono anche suturatrici meccaniche a forma circolare, che servono per suturare i visceri cilindrici come
a livello intestinale o per una gastrectomia totale, in cui si suturano il moncone inferiore dell’esofago con
un’ansa digiunale, che sostituisce lo stomaco. Esistono suturatrici di vario calibro. La tecnologia entra
prepotentemente in sala operatoria, garantendo grandi semplificazioni: una fila di punti messa da una
macchina che scorre uniformemente, con tensione uguale in ciascun mm della sutura, con punti
meccanicamente messi in maniera equidistante, offre una maggior garanzia nell’ambito della sicurezza dei
punti. Questo potrebbe essere anche effettuato manualmente, ma è evidente che le clip suturatrici
facilitino molto il compito del chirurgo. Tutto questo non garantisce però che i punti tengano: i punti
vengono messi perché il viscere rimanga chiuso finché non si crea la cicatrice: dopo è la cicatrice stessa
che mantiene la tenuta di quel tessuto. I tessuti fragili, poco vascolarizzati, comportano quindi il rischio
che la sutura possa non tenere.

Nel collo abbiamo, inoltre, la possibilità di mettere un drenaggio che sbocchi all’esterno e ci dia subito la
possibilità di renderci conto di quel che sta succedendo.
APPROFONDIMENTO SUL DREANGGIO
Il drenaggio è una spia assai utile, dal momento in cui l’intervento termina: al termine di quest’ultimo, i
tessuti sono ancora infiammati e continuano a produrre liquidi essudati che si accumulano, anche in
quantità importanti, che riversano nella zona dell’intervento chirurgico (collo, addome, cavo ascellare:
dipende dall’intervento). Il drenaggio rimane in sede ed ha due scopi: (1) portare all’esterno tutti quei
liquidi eccessivi che si vengano ad accumulare dal momento in cui suturiamo la ferita, fino a quando la
flogosi cessa, e con essa la produzione di liquidi; (2) fa da spia per far trasparire quel che accade all’interno
della zona coinvolta. In altre parole, non serve solo monitorare la quantità di liquido, ma anche la qualità
di tale liquido che si forma. Infatti, può trattarsi di liquidi di varia qualità: sieroematici, sierosi puri,
francamente ematici; possono fuoriuscire anche altri liquidi biologici: per esempio, a seguito di un
intervento sull’intestino, con sutura e drenaggio, può anche esserci, malauguratamente, una fuoriuscita di
liquido enterico o fecaloide. Questo significa che la sutura tra i capi intestinali non ha tenuto, quindi
fuoriesce del materiale enterico che in parte si accumula in peritoneo, in parte viene drenato. In base a
quel che succede e in base alle condizioni del paziente, a questo punto, si decide se rioperare il paziente o
se il drenaggio è sufficiente per eliminare questo quantitativo di materiale perso per poi garantire una
guarigione spontanea per seconda intenzione. Se, invece, dal drenaggio fuoriesce urina, potrebbe esserci
stata una rottura di uretere accidentale: in questo caso, è sufficiente uno stick urinario per verificare se si
tratta di urine. C’è anche la possibilità di prelevare un campione di liquido di drenaggio e dosare parametri
utili, quali amilasi e lipasi da un drenaggio seguente a una chirurgia pancreatica: questi offre informazione
sulla tenuta eventuale dell’anastomosi pancreatica. Infatti, la sutura pancreatica è quella più a rischio di
tutte, quindi è fondamentale monitorare l’andamento dell’evoluzione clinica del paziente.
Quindi un semplice tubo di plastica o silicone, che può avere diverse forme e caratteristiche, offre una
mano fondamentale per seguire clinicamente il decorso post-operatorio del paziente. Questo, però, non
significa che ci si possa fidare ciecamente del drenaggio. In effetti, i tubi di drenaggio possono
tranquillamente otturarsi: si immagini la fuoriuscita di sangue che crea un coagulo che ottura l’inizio del
tubo di drenaggio. Dopo qualche, giorno TUTTI i drenaggi tendono ad ostruirsi, dopo 24, 48, 72h massimo.
Di conseguenza, il paziente va visitato ogni giorno, due volte a giorno. Dall’andamento clinico, dall’esame
obiettivo e altri dati ci si rende poi conto di quel che sta succedendo; non è sufficiente il drenaggio.
I drenaggi possono essere inseriti anche nel corso di interventi superficiali: si immagini una fistola
sacrococcigea che si infetta, creando un ascesso sottocutaneo importante. Un ascesso sottocutaneo post-
iniezione intramuscolo è un’evenienza di discreta frequenza: si tratta di pazienti sottoposti a banali
iniezioni IM, a cui segue, per una situazione loco-regionale, un ascesso sottocutaneo. In questo caso è
necessario incidere l’ascesso (ubi pus ibi evacua); dal momento che la ferita tende a chiudersi
spontaneamente, si fa necessario un drenaggio che serva a tenere aperta la ferita al fine di drenare. Solo
una volta che la regione è completamente drenata, si può rimuovere il drenaggio e effettuare finalmente
l’intervento.
à Tipi di intervento a seconda dell’altezza del diverticolo
- A livello del collo, una volta effettuata la diverticulectomia del diverticolo di Zenker (terzo superiore
esofago), si completa l’intervento chirurgico incidendo i fasci muscolari in modo da rendere meno
continente l’anello sfinteriale superiore. Si ricordi che nella patogenesi del diverticolo di Zenker vi è
una incoordinazione motoria tra deglutizione e apertura dell’UES: si tratta di uno spasmo sfinteriale,
che comporta la determinazione di una zona di maggior pressione scaricata in un locus minori
resistentiae, quale il triangolo di Killian. Quindi, attraverso un’incisione per rendere meno continente
quella zona, si fa in modo che il paziente possa deglutire tranquillamente senza che nel tempo si
generi nuovamente la ricomparsa del diverticolo stesso.
- I diverticoli parabronchiali (oggi sempre più rari, successivi ad una patologia neoplastica che impone
un trattamento prioritario) si trovano a livello del terzo medio esofageo. In questi casi, si effettua
una diverticulectomia toracotomica (o toracoscopica) solo se strettamente indicato, ossia nei rari
casi di diverticoli enormi con gravi situazioni di ristagno.
- I diverticoli epifrenici vengono trattati come quelli di Zenker: si effettua una diverticulectomia, cui
segue una miotomia in corrispondenza del LES. Per evitare conseguenti episodi di RGE, tuttavia, si
confeziona una plastica antireflusso. (più approfondita nell’acalasia)

à Interventi alternativi alla diverticulectomia


Nei pazienti in cui può essere pericolosa l’asportazione del diverticolo può essere pericolosa possono essere
intraprese due strade:
- Diverticolopessi: si solleva il diverticolo, ribaltandolo per metterlo in posizione gravitaria; a seguito
di questo, esso viene suturato alla parte superiore dell’esofago. In questo modo il cibo non può più
ristagnare nel diverticolo.
Questa procedura serve ad evitare la sutura in quei pazienti anziani, dove creerebbe dei problemi.
Nel momento in cui si sottopone un paziente all’intervento chirurgico va fatta sempre una valutazione
pre-operatoria, che serve ad assegnare un rischio al paziente. In caso di interventi funzionali, che non
richiedono la necessità assoluta chirurgica, come un tumore maligno, la valutazione deve essere
molto accurata per capire quale è il vero beneficio e quali sarebbero i costi in caso di una eventuale
complicanza che può mettere a repentaglio la vita del paziente. Proprio in questi casi, serve valutare
alternative come la diverticolopessi.
- In endoscopia si può entrare all’interno del lume esofageo; di conseguenza, si crea un’interruzione a
livello del colletto del diverticolo, per tutta la sua lunghezza, al fine di generare una cloaca, ossia una
comunicazione tra lume del diverticolo e lume esofageo. Anche in questo modo il materiale
all’interno del diverticolo non ristagna ma prosegue verso il lume dell’esofago.

Considerando questa immagine -già vista prima nel capitolo diagnosi, ndr-. Questo intervento
prevede che a questo livello, in corrispondenza del “ponte di mucosa” che separa il diverticolo dal
lume esofageo vero, si crea una comunicazione, un canale, per tutta la sua lunghezza. In questo modo
è come se si ottenesse un unico lume, condiviso tra diverticolo e esofago propriamente detto, che
evita il ristagno del materiale intrappolato a livello diverticolare. È naturale che questo intervento,
ad ogni modo, indebolisce la parete esofagea, ma a volte è necessario.
Questi due interventi sono abbastanza complessi, quasi disperati, effettuati in pazienti in cui l’intervento
chirurgico potrebbe essere pericoloso.

ACALASIA
L’acalasia (dal greco: mancato rilasciamento, con α privativo + καλασις: rilasciamento) è una alterazione
neuromuscolare dell’esofago che causa un alterato rilasciamento del LES. Nel momento in cui il paziente
deglutisce, si apre lo UES; questo determina una contrazione ritmica dell’esofago; tale contrazione giunge
fino al LES, il quale si apre: il bolo passa e la risalita fisiologica dell’HCl genera uno stimolo che fa chiudere lo
sfintere. Questo si verifica normalmente in tutte le persone normali, con meccanismo funzionante. Nei
pazienti con acalasia è proprio questo il meccanismo alterato.
È una patologia cronica, lenta ed evolutiva, che però comincia a 30 anni; tuttavia, ai 30 non appare già in
maniera conclamata, ma hanno soltanto inizio i processi fisiopatologici. Per 2/3 colpisce pazienti di sesso
femminile. I pazienti convivono con questa patologia, convincendosi che sintomi e segni fanno parte della
loro costituzione, della loro personalità. L’andamento della patologia ha periodi di benessere alterati con
periodi di peggioramento, per cui viene imputata a fattori psicologici, erroneamente

Eziopatogenesi
Il primum movens è ignoto: tra le teorie vi sono una distruzione del nucleo ambiguo, una vagotomia, una
lesione dei plessi mioenterici (è stata osservata una riduzione dei neuroni dei plessi mienterici di Meissner e
Auerbach in corrispondenza del LES). Sta di fatto che tutta la motilità della parete esofagea è alterata: vi
un’assenza di onda peristaltica primaria e secondaria, con presenza di peristalsi terziaria, inefficiente. Io
paragono l’esofago dei pazienti acalasici a quelle persone che in discoteca cercano di ballare ma sono
assolutamente scoordinate, quindi creano di fatto ilarità di chi li guarda. L’esofago di questi pazienti è
altrettanto scoordinato. Le contrazioni primarie, normali, che creano un movimento armonico che insieme
alla gravità fa passare il bolo dalla bocca allo stomaco, vengono meno. Le contrazioni di peristalsi terziaria
sono inefficaci, dunque non sono in grado di generare quello stimolo fondamentale al LES per aprirsi. Il
bolo alimentare quindi rimane a livello dell’esofago, dando al paziente una sensazione di ostacolo, il cui
motivo non si comprende.

Sintomatologia
- Disfagia: è la manifestazione principale. È una disfagia non costante, in quanto all’inizio l’esofago ha
momenti in cui funziona meglio e momenti in cui funziona peggio. Per questo il paziente associa il
sintomo allo stato psichico. È tipico di questa disfagia il fatto che si auna disfagia paradossa: se una
sostanza non riesce a passare attraverso un buco, è evidente che questo succede per le dimensioni
della massa. Il lavandino si ottura perché si creano incrostazioni di calcare che per la loro massa
riducono il volume dello scarico, il che riduce il passaggio delle sostanze solide, mentre il liquido passa.
Qui la situazione è diametralmente opposta: all’inizio e per lunghi anni di patologia sono i solidi che
riescono a passare più facilmente delle sostanze liquide. Il liquido ha invece difficoltà a passare. Il
paziente sa che i liquidi, specie se in piccole quantità, creano fastidio: un sorso di acqua rimane
facilmente bloccato in esofago. Questo perché il liquido pesa poco, a differenza di un cibo solido: il
LES tende ad aprirsi a scatto quando la pressione a monte, legato al peso della sostanza ingerita,
supera la pressione di chiusura del LES. Un sorso di acqua consiste in una colonna idrostatica bassa,
che ha una pressione inadeguata alla apertura del LES. Per questo i pazienti devono bere grosse
quantità di liquidi, si dotano di bicchieroni da riempire fino all’orlo: questo crea una colonna
idrostatica con pressione superiore alla pressione di chiusura del LES. Per questo la disfagia viene
chiamata paradossa. Questa disfagia ai liquidi è un importante elemento per la diagnosi differenziale
rispetto al cancro.
- Rigurgito: dipende dalle fasi della malattia. Mano a mano che la patologia evolve, e che il paziente
ha una maggior quantità di ingesti ristagnante all’interno dell’esofago, il rigurgito si fa
progressivamente più importante. Nel caso del diverticolo, invece, il rigurgito è un segno
patognomonico, sempre presente. Qui, invece, affinché compaia, è necessaria una lunga durata della
malattia, con uno sfiancamento importante della parete dell’esofago.
- Calo ponderale: sono pazienti che, man mano che la patologia evolve, iniziano a considerare il pasto
come un qualcosa di spiacevole. Di conseguenza, iniziano a mangiare progressivamente meno.
Questo, insieme al ristagno nell’esofago, determina un calo ponderale, che porta a una cachessia
importante. Infatti, si confonde spesso questa situazione con una cachessia neoplastica.
- Dolore: è evidente che il ristagno continuo dei cibi all’interno dell’esofago crei una lesione da
decubito della mucosa. Questo determina una vera e propria esofagite di I, II o addirittura di III
grado, che con distacco e ulcerazione della mucosa può creare una situazione di dolore.
Si tratta di sintomi abbastanza banali. Tutti hanno un andamento leggermente irregolare e ingravescente
man mano che la malattia tende ad evolvere.
Stadi di malattia
Da un punto di vista squisitamente didattico, la patologia è divisa in tre stadi. Questo non significa che vi sia
una divisone rigida del decorso, ma serve esclusivamente a comprendere quale sia l’evoluzione della
patologia.

à Stadio 1
All’inizio vi è una modesta dilatazione dell’esofago, corrispondente a una modesta diminuzione delle cellule
gangliari. Vi sono ancora alcune onde primarie peristaltiche, ma contestualmente compaiono delle onde
sincrone segmentarie non propulsive, con mancato rilasciamento cardiale. La malattia è quindi in uno stadio
iniziale.
A questo stadio puramente anatomo-funzionale corrisponde una clinica con:
- Disfagia intermittente
- Dolori crampiformi retrosternali: dovuto alla contrazione dell’esofago per la mancata apertura del
LES.
- Peristalsi ancora parzialmente efficace
Questa fase iniziale può durare anche molti anni.

à Stadio II
Molto lentamente l’esofago inizia ad avere delle problematiche, incominciando a dilatarsi. Questo sforzo
continuo della muscolatura esofagea crea uno sfiancamento. Parallelamente, diminuiscono per atrofia le
cellule gangliari e sistematicamente aumentano le onde inefficaci (peristalsi terziaria) a discapito di quelle
propulsive.
La sintomatologia:
- Disfagia intermittente, ma sempre più frequente
- Scialorrea: ogni giorno, produciamo un quantitativo di saliva pari a circa 1L4; la saliva prodotta in
questa quantità, non trovando la possibilità di andare oltre il LES, rientra in esofago e refluisce in
bocca. Quindi non è un aumento di produzione di saliva, ma una impossibilità di smaltimento della
stessa.
- Rigurgito
- Dimagrimento
- Peristalsi che comincia ad essere non efficace

à Stadio III
È il quadro che si riscontra in pazienti che si sono trascurati per anni. Si riscontra un esofago completamente
dilatato, definito megaesofago, che rassomiglia ad un sacco di iuta pieno di ingesti. Si osserva inoltre una
ipotrofia muscolare, con cellule muscolari sfiancate, ormai annullate; l’esofago ha una consistenza molto
velata, tanto che si parla di esofago a carta velina: questo lo rende molto fragile e prono a rottura e
microperforazioni; si immagini che gli ingesti premano contro la parete sfiancata, creando una situazione di
debolezza, con possibilità di microperforazioni. Dal punto di vista nervoso, manca la presenza di strutture
gangliari (aganglia), e di conseguenza vi è una assoluta mancanza di attività motoria: è un sacco che non si
muove più e il cibo raggiunge l’estremo distale solo tramite gravità, rimanendo bloccato a livello inferiore,
dal momento che il LES non può più rilasciarsi.
Clinicamente, si osservano:

4
Invece di succo gastrico se ne producono 1,5 litri al giorno. Di bile 800mL. Di succo pancreatico 800mL. Di succo
enterico 6-8L. Facendo la somma algebrica di tutta questa quantità di liquidi, se ne ottiene un quantitativo
impressionante (10-13L): questo significa che ogni giorno questi liquidi vengono immesi nel tubo digerente; nel
momento in cui vengono immessi, non fanno più parte del patrimonio dell’organismo. Di conseguenza, ci deve essere
un meccanismo per recuperare questi 10-13L al giorno. Meccanismi che non consentono un buon riassorbimento
danno la possiblità che il paziente possa scompensarsi.
- Disfagia costante: qualunque cosa si mangi rimane bloccata a livello del LES;
- Rigurgiti tardivi
- Broncopolmoniti ab ingestis (specie nell’anziano): soprattutto in posizione supina, come durante il
sonno, la risalita di questi materiali può creare la possibilità di inalazione. Sono situazioni molto
difficili da gestire, che possono mettere il paziente a grave rischio di salute. Il trattamento è inoltre
difficile;
- Sindrome mediastinica (specie nell’anziano): lo slargamento dell’esofago crea un ingombro molto
importante a carico degli organi mediastinici

Diagnosi
Esistono una serie di presidi:
- RX torace: ha il solo compito di far comprendere quanto è slargato il mediastino, al fine di capire
quale è la fase di malattia

Si nota uno sfiancamento enorme dell’esofago. Di solito, la parte bianca rappresenta l’esofago.
- Esofagografia (con mdc): si valuta il diametro dell’esofago, il transito cardiale alterato e il
megaesofago (con sfiancamento e allungamento esofageo)

Immagini di esofago baritato. L’ultimo tratto dell’esofago finisce classicamente a coda di topo: è un
restringimento filiforme in cui il mezzo di contrasto passa appena, opacizzando solo la prima parte dello
stomaco.
- Esofagoscopia: va effettuata con grande attenzione. Permette di rilevare l’atonia e la distensione
dell’esofago, dal momento che si nota l’incapacità della parete esofagea di contrarsi. Inoltre, si
valuta la gravità di una eventuale esofagite: qualora la si rilevi, vanno fatte biopsie dal momento che
può insorgere un cancro.
- Manomatria esofagea: è il gold standard per effettuare una diagnosi precisa, dal momento che si
tratta di una malattia funzionale, in cui le onde non sono sincrone con inefficienza di contrazione
esofagea, specie durante e dopo deglutizione. Con la manometria si misura la quantità di onde
primarie, la presenza di onde terziarie e il mancato rilascio del LES. Questo consente di fare una
diagnosi specifica, a differenza degli altri esami, che servono solo a completare il quadro per
comprendere lo stato della patologia diagnosticata con manometria.

Onde manometriche inefficaci. Solo qualcuna è efficace: solo quelle con spike verso l’alto.
Complicanze
Le complicanze si dividono in generali e locali.
- Complicanze generali: pur trattandosi di una malattia d’organo, ci sono delle ripercussioni di tipo
generale:
o Dimagrimento
o Anemia: il paziente non si nutre adeguatamente, dunque compare l’anemia come segno di
malnutrizione; si tratta di anemia ipocromica iposideremica
o Cachessia: cfr. anemia; sembrano pazienti neoplastici per questo motivo;
o Complicanze polmonari: rappresentano una situazione molto grave che può condurre il
paziente ad esito infausto.
§ Bronchite cronica
§ Polmonite ab ingestis
§ Ascesso polmonare
- Complicanze locali: localmente, si possono avere delle situazioni anche abbastanza semplici da
curare:
o Esofagite: è facile da curare, ma va monitorata in quanto può evolvere in ulcere croniche.
Inoltre, se misconosciute, possono anche progressivamente evolvere verso il cancro (per
fortuna, in una bassa percentuale di casi)
o Emorragie: l’escoriazione della mucosa può dare emorragie
o Perforazione: l’esofago inizia ad avere una struttura a carta velina; è così delicato e poco
compliante per assenza di fibre muscolari, che si crea il rischio di microperforazioni. Una
microperforazione a livello dell’esofago toracico può creare una mediastinite, difficile da
trattare e mortale a prescindere dalla terapia.

Terapia
Esistono due possibili tipi di terapie, ossia medica e chirurgica.

à Terapia medica
Tende ad antagonizzare le problematiche.
- Calcio-antagonisti: la nifedipina serve ad impedire la contrazione del LES, che non si apre in un
paziente acalasico. Questo rilasciamento del LES, tuttavia, crea una possibilità di risalita di HCl: per
questo va associato a dosi massive di PPi per compensare questa situazione
- Nitroderivati: provocano un rilasciamento del LES; anche qui serve un’associazione con PPi
- Infiltrazioni di tossina botuliinica: creano una situazione di paralisi flaccida del LES.

à Terapia parachirurgica: le dilatazioni pneumatiche


Tutte queste situazioni di terapia medica non creano una risoluzione definitiva. per questo c’è la possibilità
di una terapia parachirurgica, che ci consentono di prendere tempo per procrastinare la chirurgia. È una
terapia bridge, che ci conduce verso una situazione chirurgica attraverso un miglioramento dello stato clinico
del paziente. Si tratta di una dilatazione pneumatica tramite un dilatatore endoscopico, non scevra da
complicanze.
Si tratta spesso pazienti anziani, in cui si cerca di capire tramite la dilatazione endoscopica i pazienti possono
tirare avanti, anche senza intervento chirurgico. In questa situazione, si mettono sotto stress quelle ultime
fibre muscolari residue che formano il cardias chiuso: si genera, di conseguenza, una incompetenza a livello
del LES. Il tutto consente di ottenere uno svuotamento dell’esofago e un miglioramento del trofismo della
mucosa esofagea, fortemente infiammata, garantendo quindi una buona preparazione del paziente alla
chirurgia, che è la soluzione definitiva. Tuttavia questa tecnica non è scevra da complicanze: si possono
verificare lacerazione della parete esofagea e una incontinenza completa del LES, generante una esofagite
da reflusso, da trattare.

à Terapia chirurgica

Nei pazienti fortemente sintomatici o nei pazienti in II fase, in cui si presuppone che l’evoluzione della
patologia determini la III fase con megaesofago, difficile da trattare perfino chirurgicamente, sarebbe meglio
convincere5 il paziente a sottoporsi a un intervento chirurgico. Questo consiste nell’andare ad incidere le
fibre muscolari sopra e in corrispondenza del livello del LES. In questa maniera diamo ampia apertura al LES
stesso. Questa è una miotomia extramucosa: come si nota nell’ultima foto a destra, la mucosa (biancastra)
è integra: anzi, bisogna fare attenzione a non bucarla. Questa tecnica prevede piuttosto una incisione della
muscolatura per indebolire completamente il LES, rendendolo beante. Con questa situazione noi abbiamo
risolto il problema del passaggio del bolo alimentare dall’esofago allo stomaco, ma ne abbiamo creato un
altro, consistente nella immediata risalita del succo gastrico in esofago. Si genera una patologia, la malattia
da reflusso, che può anche essere perfino più gravosa dell’acalasia dal punto di vista sintomatologico.
Oggi l’intervento di miotomia extramucosa viene ormai eseguito in laparoscopia. 6

La plastica antireflusso secondo Nissen viene effettuata alla fine dell’intervento di miotomia extramucosa.
Serve a costruire un neo-sfintere, realizzato facendo girare intorno all’esofago l’ala sinistra dello stomaco
(grande curvatura). Questa viene girata intorno, a cravatta, sull’esofago, per poi mettere punti di sutura:
durante l’intervento si mette una grossa sonda di caucciù all’interno dell’esofago, che funge da calibratore.
Questa sonda fornirà lo spessore utile per questa sutura. Se non avessimo una sonda dentro l’esofago che
funge da guida, si rischia di mettere dei punti troppo stretti o troppo larghi, determinando (1) se troppo

5
È una patologia cronica, quindi è difficile trasmettere al paziente l’idea che questa patologia, con cui si è convissuto
finora tranquillamente, possa portare a delle gravi conseguenze.
6
L’intervento è sempre lo stesso, ma cambia l’accesso: al posto di effettuare un’incisione che porta le mani del
chirurgo ad agire sull’organo, vengono fatti dei buchi di pochi cm, in cui vengono inseriti i trocar, che mantengono
pervio il buco di inserimento. Attraverso questi si inseriscono strumenti (forbici, pinze) che vengono manovrati dal
chirurgo dall’esterno; questo opera guardando una telecamera, inserita sempre da questi buchi: le immagini
compaiono su un monitor. L’intervento è sempre lo stesso, ma la ripresa del paziente è più rapida, viste le ridotte
dimensioni delle cicatrici che si formano. Già il giorno dopo il paziente potrebbe essere rimesso.
stretti, una costrizione dell’esofago, che determinerebbe una condizione simile a quella iniziale, ossia la
creazione di uno sfintere troppo stretto; (2) se troppo larghi, il succo gastrico potrà ancora refluire. Serve
quindi un tubo che ci funga da calibratore, che dia indicazioni, con le sue dimensioni, di quanto stringere i
punti. Si crea così uno sfintere artificiale; esso da un lato è facilmente apribile, in virtù dei tessuti di cui è
formato; d’altro canto riesce a comprimere in maniera adeguata la parte dell’esofago nel momento in cui il
bolo è passato, impedendo la risalita dal bolo alimentare stesso. Gli ulteriori punti che si vedono in immagine
vengono inseriti per ristabilire l’angolo di His: si tratta di una tecnica in cui alcuni credono, altri no.
Inoltre, queste plastiche possono essere confezionate anche in maniera diversa: quella appena descritta è
una plastica a 360°, completamente circondata dallo stomaco; tuttavia esiste la possibilità di porre soltanto
al davanti o soltanto al di dietro le suture con lo stomaco. L’efficacia non cambia in base alla tecnica, quanto
dalla dimestichezza del chirurgo nell’effettuare la tecnica in questione. Il risultato è funzionale: il paziente si
aspetta molto in termini di QOL; tutta la partita, qui, si gioca nel calibrare la giusta tensione tra i punti. Se i
punti hanno una tensione eccessiva o insufficiente, il quadro clinico cambia completamente e il paziente avrà
una serie di problemi che determineranno un insuccesso dell’intervento stesso. Se invece si seguono le regole
corrette, si garantisce una buona QOL e si evita, se effettuato precocemente, lo sfiancamento completo
dell’esofago che crea difficoltà gravi: si evita che il cibo non cada solo per gravità, ma venga aiutato dalla
presenza di qualche onda peristaltica, che ancora è presente: se interveniamo tardi, invece, la vis a tergo
propulsiva è completamente compromessa, al di là del ripristino della funzione sfinteriale.

CANCRO DELL’ESOFAGO
Nell’ambito delle patologie dell’esofago, una menzione a parte viene fatta per il cancro.

Epidemiologia
Si tratta quasi sempre patologie maligne, tranne in qualche raro caso di tumori di origine muscolare
(leiomiomi) e GIST. È un cancro che ha tassi di incidenza molto diversi da Paese a Paese: è molto alto in Cina
e Giappone (si consideri l’abitudine di mangiare cibi bollenti), Russia e Sud Africa, mentre in Italia l’incidenza
è bassa (0.8-5 casi/100.000 abitanti), tranne che in Friuli-Venezia-Giulia, dove vi è alto consumo di un certo
tipo di alcolico come la grappa; non a caso il più grande centro di chirurgia esofagea si trova in questa Regione.

Fattori di rischio
- Sostanze con nitrosamine: hanno una certa rilevanza anche nel cancro gastrico;
- Scarsa assunzione di ferro, magnesio e vitamina A
- Alcol e tabacco: l’alcol in maniera specifica, mentre il tabacco ha un peso leggermente inferiore
- Pregresse stenosi infiammatorie: le stenosi infiammatorie post-ingestione di sostanze caustiche
costituiscono un capitolo delicato della patologia esofagea. Questa condizione è legata ad una
ingestione di acidi o basi forti, che può essere accidentale o a scopo suicidario. In entrambi i casi le
soluzioni sono disastrose7. Il problema di questi pazienti è che, qualora sopravvivano, sono costretti
seguire un follow-up: l’esofago residuo è completamente trasformato in tessuto cicatriziale, ma
potrebbe esservi una progressiva evoluzione verso la neoplasia. Purtroppo sono pazienti giovani, che
accettano di buon grado il follow-up dei primi anni, ma tendono a scocciarsi nel tempo: questo li
porta a una progressiva riduzione dell’aderenza al follow-up, anche perché la gastroscopia è invasiva.
Purtroppo, alcuni di questi pazienti dopo 20-25 anni dal trauma tornano all’osservazione per
l’evoluzione della stenosi infiammatoria, che si trasforma in cancro. Questo andrebbe detto ai
pazienti, per invogliarli a essere complianti al follow-up.
- Esofago di Barrett: consiste in un rivestimento mucoso di tipico cilindrico, congenito o acquisito per
metaplasia; si ricordi che il normale epitelio esofageo è pavimentoso composto. In una piccola

7
Succede che accidentalmente sostanze tossiche sono presenti in bottiglie che dovrebbero contenere sostanze
innocue, come acqua minerale.
percentuale di casi, questa metaplasia va incontro ai progressivi gravi di displasia, che sono
l’anticamera della comparsa del cancro esofageo.

Classificazione macroscopica
Si fa luogo alla classificazione della società giapponese JSED:
- Tipo 0: superficiale
- Tipo 1: protrudente
- Tipo 2: ulcerato e localizzato;
- Tipo 3: ulcerato e infiltrante
- Tipo 4: infiltrante e diffuso
- Tipo 5: non classificabile

Classificazione microscopica
Dal punto di vista istologico, è chiara la differenza di due possibili istotipo:
- Carcinoma squamoso: l’epitelio pavimentoso composto da origine a questo istotipo.
- Adenocarcinoma: nelle zone in cui si era sviluppato l’esofago di Barrett, ha origine un
adenocarcinoma.
Il carcinoma del cardias è tenuto a parte in questa classificazione: siamo a cavallo tra stomaco e esofago,
quindi si può avere un adenocarcinoma o un carcinoma squamoso a seconda del versante in cui si sviluppa.

Vie di diffusione
La malattia segue le caratteristiche anatomiche dell’organo.
- Per via linfatica: è la prima strada, in quanto, come detto nel capitolo anatomico, le vie linfatiche
sono fortemente anastomizzate, anche tra distretti diversi. Per questo, i linfonodi latero-cervicali,
mediastinici e della piccola curvatura vengono facilmente aggrediti dalla patologia: in seguito,
tramite i canali di scambio che ci sono, è possibile che la neoplasia si diriga verso l’alto e verso il basso
- Per via ematica: attraverso le connessioni col circolo portale, si osservano metastasi epatiche anche
precoci, che rendono il tumore inoperabile
- Per contiguità: faringe, trachea, etc.

Sintomi
- Disfagia: il paziente ha come primo sintomo una disfagia; questa è lievemente peggiore rispetto a
una sintomatologia portata per anni: i pazienti hanno sempre avuto problemi esofagei, quindi non
sono in grado di quantificare facilmente la disfagia e di comprendere che la qualità di questa è
peggiorata rispetto a quella che hanno provato per anni. Per questo, la neoplasia viene rivelata
spesso per altri sintomi.
La disfagia è comunque il sintomo più frequente, e si tratta di una disfagia classica: dapprima
riguarda i cibi solidi, soltanto dopo anche i liquidi. Essa è inizialmente episodica, per poi diventare
costante. La causa è dovuta alla riduzione del calibro del lume esofageo.
- Scialorrea: aumentando la stenosi, la saliva ristagna e risale in cavo orale.
- Rigurgito
- Broncopolmoniti ab ingestis: può essere anche il primo segno. Sono segni aspecifici per cui il
paziente si rivolge allo pneumologo e poi, solo in seconda battuta, si viene a capo della situazione: la
ripetitività dell’episodio pneumologico richiama a indagini più specifiche che mettono tutto in chiaro.
- Dolore: può avere varie sedi, ossia (1) epigastrica e (2) retrosternale. Può essere dovuto a RGE per
rigidità cardiale o a infiltrazione tardiva delle radici nervose intercostali.
- Emorragia: è una emorragia grave, più rara, oppure uno stillicidio continuo, che porta a anemia del
paziente. Sono pazienti anziani che tollerano poco la capacità di resistere a questo tipo di situazione.
- Fetor ex ore: non è tipica come nella diverticolosi, ma anche nel cancro esofageo si ritrova una alitosi.
Questa è dovuta a un duplice meccanismo: (1) al ristagno di alimenti con loro fermentazione e (2) la
colliquazione delle sostanze neoplastiche, specie se il tumore è vegetante: la crescita importante di
tessuto tumorale prevede che i vasi non stiano al passo con la proliferazione cellulare, aprendo a un
quadro di necrosi; il tessuto necrotico ha un odore di tessuto morto, contribuendo al cattivo odore
dell’alito.
- Calo ponderale: questi sono pazienti che si riconoscono facilmente allo sguardo, in fase avanzata.
Sono molto compromessi dal punto di vista generale, in quanto mangiano poco, non assorbono,
dunque la loro facies è riconoscibilissima dal punto di vista clinico.
- Raucedine e/o disfonia: questo, in molti casi, può essere un segno iniziale. Il tumore può farsi strada
in tutta la parete e, superandola, può colpire il nervo ricorrente, causando questa sintomatologia. Il
paziente ha questo tipo di problema, dunque si rivolge all’otorino: con una laringoscopia si scopre la
paralisi delle corde vocali (generalmente la sinistra), che avrà poi necessità di un tipo di indagine
successiva.

Diagnosi
- Clinica: soprattutto nelle fasi avanzate, la diagnosi può anche esser fatta clinicamente; si registra una
riduzione della QOL, difficoltà nella deglutizione (la disfagia non è più episodica) e un cambio delle
abitudini alimentari, con prevalenza di cibi liquidi che agevolano la possibilità di introdurre di cibo.
Le quantità di cibo assunte sono sempre inferiori e determinano decadimento delle condizioni
organiche.
è Effettuata questa ipotesi diagnostica, due sono gli esami che rimangono da fare: l’esame
radiologico e l’esame endoscopico.
- L’esame radiologico (RX TD prime vie con bario) indica la sede del tumore. Nonostante la sede possa
effettivamente essere rilevata anche con TC o con endoscopia, l’esame radiologico conferisce un’idea
di insieme, identificando estensione della neoplasia, caratteristiche dell’esofago in quell’istante,
dunque quanto l’esofago si è otturato e le sue caratteristiche anatomiche.
- L’esame endoscopico (esofagoscopia) è fondamentale per la diagnosi: è assolutamente
indispensabile, sempre, effettuare una diagnosi istologica. Infatti, questa procedura endoscopica
consente l’esecuzione di biopsie multiple, anche in profondità: talvolta neanche con 5-6 biopsie si fa
diagnosi, dunque è necessario che esse biopsie siano multiple e numerose. Inoltre, può tornare utile
la cromoendoscopia in corso di: (1) diagnosi precoce; (2) screening; (3) casi di sospetto; si consideri
però che dalle nostre parti la cromoendoscopia non si fa. Si tratta di un’endoscopia tramite cui si
riversa un colorante vitale in esofago, per poi raccogliere il liquido fuoriuscito. Questo colorante
dovrebbe colorare le cellule della mucosa superficiale consentendoci una diagnosi precoce. La
tecnica cromoendoscopica non si esegue dalle nostre parti, in quanto il cancro esofageo non rientra
nella priorità della sanità del territorio, per lo meno in termini di screening. Nei paesi asiatici, specie
Cina e Giappone, questa procedura è invece all’ordine del giorno, in quanto incidenza e prevalenza
di questa condizione sono nettamente più elevati.
La patente istologica è fondamentale, qualunque sia l’intervento che noi vogliamo fare: solo con
l’istologia siamo autorizzati a fare un intervento piuttosto che un altro. Questo scagiona il medico
anche da un punto di vista medico legale. Spesso la “frenesia di fare” ci fa omettere passaggi molto
importanti. Nessuno di noi farebbe o farà niente nei confronti di un malato senza averlo informato.
Tuttavia, quando le cose non vanno bene, l’unica maniera per giudicare se le cose siano state fatte in
modo corretto o sbagliato è analizzare i documenti: la cartella clinica e il suo contenuto. Serve sempre
una documentazione chiara, senza aggiunte senza cancellature (“falso materiale e falso ideologico”
ex c.p., cfr. Medicina Legale). Spesso si commettono reati di falso giusto perché presi dall’ansia, non
volontariamente. Le cose vanno fatte con calma e ritmicità, a partire dal consenso informato del
paziente.
- Esame citologico: si effettua col brushing, ma viene eseguito prevalentemente nelle aree
geografiche ad alto rischio, che non includono la nostra.
Ottenuta una diagnosi istologica e radiologica, va completato il quadro diagnostico con le seguenti
procedure:
- TC e RMN: utili per valutare stadiazione del tumore e operabilità del paziente. Il paziente deve essere
colpito da una malattia abbastanza limitata per poter pensare di sottoporlo direttamente a
intervento chirurgico
- Ecoendoscopia esofagea: è un endoscopio alla punta del quale è presente una sonda ecografica;
questa è in grado di studiare parete dell’organo, la stratificazione di questa ed eventuali metastasi
linfonodali che danno facilmente una quantificazione del rischio
- Broncoscopia: essa dà la capacità di valutare se c’è una compromissione dei bronchi per infiltrazione.
La neoplasia, crescendo, può infiltrare i bronchi per questo motivo.
- Laparoscopia diagnostica: a volte, la patologia è così subdola che vediamo un paziente in condizioni
generali scadenti, ma ciononostante TC/RMN non danno espressa evidenza di evoluzione della
malattia. Per questo, una laparoscopia diagnostica può essere importante da effettuare: ci si può
trovare davanti a pazienti (1) con carcinosi peritoneale di tipo miliariforme, ossia con tanti piccoli
puntini che l’imaging non rilevare, o (2) con ascite neoplastica in lieve quantità, prelevabile con
laparoscopia per effettuare un esame citologico, o (3) con linfonodi colpiti dalla malattia che
identifichiamo con laparoscopia. In questo modo la laparoscopia ci consente di stadiare
definitivamente il paziente.

Classica immagine del tubo esofageo, colpito da malattia.

SX: Si vede un’immagine RX di esofago; le frecce indicano una zona di restringimento, definita a morso di mela.
DX: la prima parte dell’esofago e molle e ritmica, mentre la parte interessata della neoplasia è iperdensa e irregolare.
Questo ci fa comprendere esattamente dove è il tumore, seppur l’endoscopio ci consenta poi di valutarla al meglio
misurandone i centimetri.

Immagini eco-endoscopiche che aiutano nella stratificazione, nell’estensione parietale e interessamento linfonodale
della neoplasia. Se la malattia è troppo estesa, infatti, non ha senso intervenire subito, ma occorre una terapia
neoadiuvante a cui segue una rivalutazione del paziente.

Classificazione TNM e stadiazione

Anche in questa neoplasia la classificazione TNM è di fondamentale aiuto. I giapponesi, tramite lo screening,
scoprono molti carcinomi esofagei in stadio Tis, o perfino in displasia; qui in Italia è difficilissimo intercettare
la neoplasia in questo stadio.
Dalla intersezione dei vari parametri T, N e M, si ottengono quattro possibili stadi.

Terapia
È chiaro che ci si trova di fronte a una malattia aggressiva, che va assolutamente curata in maniera invasiva.
NON SI PUO’ ESSERE BUONISTI NEI CONFONTI DI QUESTA MALATTIA (cit. camerata De Fazio). La terapia
chirurgica prevede da un lato una fase demolitiva, d’altro canto una fase ricostruttiva per ripristinare la
continuità esofagea.

- Fase demolitiva: consiste in


o Esofagectomia: asportazione dell’esofago in toto o in parte;
o Mediastinectomia posteriore: asportazione del mediastino posteriore
o Linfadenectomia: asportazione dei linfonodi
- Fase ricostruttiva: ripristina la continuità alimentare

à Radicalità chirurgica
Si impone la radicalità chirurgica. Questo significa:
1) Resecare almeno 6cm a monte del margine macroscopico della neoplasia. Se una neoplasia è estesa
4-5 cm, vanno rimossi 13-14 cm di esofago come minimo, per avere la sicurezza di un ampio margine.
Questo perché, istologicamente, il tumore manda propaggini microscopiche per diversi centimetri.
2) Eseguire una cellulo-mediastinectomia posteriore;
3) Eseguire una linfadenectomia locoregionale
Questi tre parametri sono fondamentali affinché l’intervento sia definito radicale.

à Sede del tumore e chirurgia


È chiaro che ci si trova di fronte ad un tumore che può colpire l’organo in distretti completamente diversi:
nel collo, nel torace o nell’addome. Questo condiziona il tipo di approccio chirurgico, la via, la radicalità e la
scelta dell’organo utilizzato in fase ricostruttiva.
- Sede cervicale: noi dobbiamo asportare tutta la parte cervicale più 6 cm. L’esofago sottostante che
residua dall’intervento non sappiamo come utilizzarlo, in quanto è troppo distante dalla bocca: esso
andrà sacrificato completamente. Questo vale anche per i tumori dello stomaco: un tumore del
cardias sul versante gastrico o del fondo, crea di necessità di asportare tutto lo stomaco. Quanto più
è basso il tumore, tanto maggiore è la possibilità di salvare la prima porzione. Questo un po’
dappertutto. È la porzione prossimale alla zona resecata ad essere ancora funzionale, quella distale
è inutile. Se è colpito l’esofago superiore, è necessario asportare tutto l’esofago, in quanto non c’è
possibilità di usare la parte inferiore residua: va sostituito l’intero esofago con un altro organo.
o Vie di accesso: si agisce nella zona dove è il tumore, per cui si effettua una cervicotomia,
tramite cui si raggiunge tanto la porzione cervicale (dove è presente il tumore), quanto la
porzione toracica, scendendo con le dita e con gli strumenti chirurgici.; tuttavia, dal
momento che è necessario asportare l’esofago nella sua interezza, si fa una laparotomia. La
resezione a livello addominale può essere fatta anche per via laparoscopica, in realtà.
o Intervento: esofagectomia totale o faringo-laringo-esofagectomia: è possibile togliere
anche la laringe, qualora questa sia coinvolta.
- Terzo superiore: il tumore può colpire non la parte cervicale, ma il terzo superiore; questo aggetta
direttamente nel torace. A questo punto il tumore potrebbe aver coinvolto strutture toraciche. Per
questo, la dissezione dell’organo deve considerare queste infiltrazioni di strutture circostanti.
Dobbiamo sempre fare una esofagectomia totale, perché è coinvolto il terzo superiore. Tuttavia,
cambia la via di accesso…
o Vie di accesso: bisogna entrare attreverso tutti e tre i distretti: cervicotomia (per
incominciare la dissezione), toracotomia destra o toracoscopia e laparotomia o
laparoscopia
- Terzo medio:
o Via di accesso: anche in questo caso potremmo aver bisogno di tutti e tre gli accessi
(cervicotomia, toracotomia destra/toracoscopia, laparotomia/laparoscopia).
oSe è coinvolta la parte bassa del terzo medio esofageo, potremmo pensare di salvare il tratto
superiore dell’organo, tramite una esofagectomia subtotale. Si consideri, tuttavia, il rischio
di mancata cicatrizzazione della sutura tra l’esofago e l’organo che scelgo per anastomizzare:
questo porterebbe a una deiscenza, con fuoriuscita di materiale gastrico e saliva, che finisce
nel mediastino, causando condizioni che mettono a rischio la vita del paziente: in tal caso,
meglio optare per una esofagectomia totale;
- Terzo inferiore:
o Intervento: in questo caso, l’intervento è a maggior ragione una esofagectomia subtotale,
dal momento che abbiamo una buona porzione di esofago, più craniale, che è possibile
preservare.
o Le vie d’accesso non richiedono una cervicotomia, essendo risparmiata la parte cervicale
dell’esofago. Sono sufficienti una toracotomia destra/toracoscopia e una
laparotomia/laparoscopia.
- Giunto esofago-cardiale: valgono gli stessi principi validi per il terzo inferiore; tuttavia, in questo caso
la toracotomia destra non è sempre necessaria. Esiste una buona tecnica chirurgica laparotomica e
laparoscopica che consente di togliere l’esofago, evitando di aprire il torace.
è Si consideri che maggiori sono le vie di accesso, maggiori saranno i tempi di recupero.

à Altri tipi di chirurgia


- Molte scuole hanno introdotto la videotoracoscopia e la laparoscopia addominale. Ormai fa parte
del bagaglio quotidiano dei centri dove questo tipo di intervento va fatto. La laparoscopia ha
modificato molto l’andamento postoperatorio di questi pazienti e consente di spingersi anche in
situazioni un tempo ritenute ai limiti della sopportabilità.
- Per i pazienti con early esophageal cancer, equivalente dell’early gastric cancer, esiste un accesso
per via transjatale o un trattamento locale con mucosectomia endoscopica.

à Fase ricostruttiva dell’intervento chirurgico


Una volta che l’organo è stato asportato, occorre sostituirlo sfruttando altri organi.
- Lo stomaco nei casi di esofagectomia totale per cancro del terzo superiore è l’organo che viene più
facilmente utilizzato. Esso facilmente si lascia trasportare verso l’alto ed è riccamente vascolarizzato,
dunque l’anastomosi è sicura. Tuttavia, questi pazienti si ritrovano ad avere lo stomaco in bocca, in
quanto l’anastomosi è fatta parecchio in alto. Verranno, inoltre, sottoposti in seguito a terapia con
protettori gastrici. Comunque, il principale fattore positivo è che viene riacquisita la capacità di
alimentarsi.
- Digiuno: quando non è possibile usare lo stomaco (es: è già stato resecato o ci sono difficoltà nel
muoverlo) si può usare un’ansa digiunale. Questa viene usata quando asportiamo la parte inferiore
dell’esofago, perché spesso è coinvolto anche lo stomaco dal tumore (resezione di esofago e stomaco
contemporaneamente).
- Colon: in alcune situazioni il digiuno non può essere utilizzato, perché non ha una vascolarizzazione
tale che gli consenta di essere tirato verso l’alto. A questo punto, non rimane altro – e questo
intervento si fa spesso in pazienti con cancro e traumatizzati in cui c’è stata una devastazione di
stomaco e altri organi – che usare il colon destro: lo si trasla verso l’alto, vengono interrotte le arterie
che poi vengono anastomizzate in microchirurgia con le arterie tiroidee, consentendo un ripristino
della vascolarizzazione dell’organo.
Questa tabella fa comprendere come eseguire la ricostruzione:
- Cancro cervicale: si fa uso di stomaco e colon (esofagogastroplastica, faringogastroplastica o
colonplastica)
- Terzo superiore: si utilizza lo stomaco (esofagoplastica cervicale)
- Terzo medio: si utilizza lo stomaco (esofagoplastica cervicale)
- Terzo inferiore: si utilizza lo stomaco (esofagoplastica intratoracica)
- Giunto esofago-cardiale: si possono utilizzare lo stomaco (esofagoplastica intratoracica) o il digiuno,
tramite una esofagodigiunoplastica intratoracica; quest’ultima deve avere lo iato aperto: noi
lasciamo aperto lo iato diaframmatico, con l’immissione di tubi di drenaggio che consentano, in caso
in cui la anastomosi non debba tenere, che la filtrazione vada in addome e da qui venga raccolta
tramite i drenaggi; è un tentativo di salvataggio del paziente qualora ci fossero complicanze.
- Nella esofago-gastro-anastomosi, lo stomaco viene tubularizzato, tramite un taglio in
corrispondenza della porzione della grande curvatura (come nella chirurgia bariatrica); questi
pazienti hanno un senso di sazietà molto precoce e cambia il loro stile di vita: dovranno alimentarsi
non 1-2 volte al giorno, ma 4-5 volte al giorno, non modificando la qualità degli alimenti, ma la loro
quantità; in 4-5 volte vanno distribuiti gli alimenti che venivano prima distribuiti in 1-2 volte.
- Nella esofago-digiuno-anastomosi intratoracica destra: è il classico intervento fatto per il cancro di
cardias o dello stomaco alto, in cui si asporta lo stomaco.
- Nella faringo-colon-gastro-anastomosi: si tratta di pazienti che hanno deglutito sostanze organiche,
causante di una distruzione degli organi che rende necessario l’utilizzo del colon. Si effettua anche
una cicatrice anche a livello del collo, in quanto a questo livello si reperiscono le arterie tiroidee per
effettuare l’anastomosi arteriosa.

à Strategie terapeutiche multimodali


Ogni paziente richiede una strategia terapeutica tailorata, ad hoc. Per esempio, la associazione di RT e CT
ha dimostrato di essere superiore rispetto ai trattamenti singoli o applicati in sequenza.
Può essere che il pazienta richieda una RT+CT pre-operatoria, cui segue una chirurgia più aggressiva e con
più chances per il paziente, in quanto la terapia neoaudiovante riduce il quantitativo di malattia da
combattere.

à Terapia palliativa
La terapia è la norma per alcuni tumori, come il pancreas. Non qui. Si tratta di pazienti in cui il tumore è
ormai inoperabile, come in caso di malattia localmente avanzata. Tale terapia va ad alleviare solo i sintomi,
non potendosi ottenere nulla nei confronti della patologia. Il sintomo predominante è la disfagia, la cui
risoluzione è l’obiettivo della terapia palliativa. Occorre quindi disostruire in qualche modo, garantendo
l’alimentazione. Per ottenere questo, esistono due possibili metodiche in base al tipo di neoplasia:
- Metodiche dilatanti:
o Dilatazioni: l’esofago è un tubo circolare, coartato a causa della neoplasia cresciuta. È
possibile fare una dilatazione progressiva del lume per via endoscopica tramite dei
dilatatori metallici di calibro crescente, in sedute endoscopiche ripetute. Questo approccio
è utile soprattutto in fase iniziale di trattamento: può essere proficuo dare, soprattutto
durate la terapia neoadiuvante, un aiuto al paziente per consentirgli di alimentarsi, proprio
tramite l’utilizzo di questi dilatatori. È una metodica che va eseguita da mani esperte in
quanto non scevra da complicanze: siamo difronte a un organo compromesso dal punto di
vista strutturale, che non può essere dilatato a nostro piacimento; non sappiamo se può
andare incontro a perforazione e fissurazione o – nel meno peggio dei casi – a piccole
emorragie intraluminali; l’emorragia preoccupa sicuramente di meno, in quanto
autolimitante (bassa vascolarizzazione).
o Endoprotesi: il trattamento ideale in pazienti che non possono sottoporsi a dilatatore è
quello della endoprotesi.
L’endoprotesi viene inserita per via endoscopica; è formata da un’anima metallica e ha dei
gancetti metallici sia nella porzione superiore sia in quella inferiore. Bisogna immaginare che
nel momento in cui la protesi viene fornita dalla ditta non è in questa situazione: una protesi
così, infatti, non potrebbe mai essere inserita in un canale stenotico come l’esofago
tumorale. Per questo motivo, la protesi è inizialmente accartocciata su sé stessa e rivestita
da un filo che la avvolge totalmente e la mantiene collabita a una dimensione
infinitesimale. Per inserirla, bisogna avere a disposizione da un lato l’endoscopio, dall’altro
un apparecchio radiologico, chiamato intensificatore di brillanza; quest’ultimo serve a
segnalare quale è l’altezza a cui fermarsi con la protesi.
Nella proceduta: l’endoscopista introduce l’endoscopio fin dove sta la stenosi, poi inserisce
un filo guida per superare la stenosi stessa. Superata la stenosi (lo valutiamo con
l’intensificatore di brillanza perché il filo guida è passato oltre), l’endoscopista inizia
l’inserimento di questa protesi. Questo inserimento si avvale naturalmente del filo guida: la
protesi scende lungo il filo guida e viene man mano spinta; raggiunge quindi l’altra estremità,
al che l’endoscopista inizia a sfilare l’avvolgimento che mantiene chiusa la protesi, facendo
in modo che questa si apra. I gancetti presenti a livello superiore ed inferiore consentono il
mantenimento in loco, ossia l’aggancio della protesi a monte e a valle della stenosi.
Questo è un trattamento utilissimo utilizzato per consentire al paziente di alimentarsi in
maniera semisolida e semiliquida, ma anche per tentare di far guarire le fistole esofago-
respiratorie, che possono essere state causate della neoplasia8. Ad ogni modo, terminata la
CT o guarita la fistola, si valuta se bisogna operare o se basta la protesi come trattamento
definitivo.
- Metodiche disostruttive: alcune volte non si riesce a far passare neanche il filo guida, tanto è serrata
la stenosi da parte della neoplasia. Questo impedisce il posizionamento della protesi. Quindi
falliscono le metodiche dilatanti: si fa necessaria una metodica disostruttiva, che mira a creare un
varco bruciando il tessuto neoplastico. Le tecniche che sono in grado di ottenere una riapertura
parziale della zona tramite energia termica che vaporizza il tessuto sono le seguenti:
o Laser Nd:YAG
o Terapia fotodinamica
o BICAP
o Bypass chirurgici: questi non li fa più nessuno. In tempi remoti non essendoci possibilità di
togliere l’organo si effettuava direttamente un bypass. Questi erano interventi gravati da una
mortalità enorme, ma erano l’unica chance per dare la possibilità al paziente di nutrirsi.

8 Le stesse fistole possono comparire dopo un intervento chirurgico, se la cicatrice non tiene e genera una zona di deiscenza (se ho
febbre e shock settico, a seguito di una RX mi accorgo della presenza della fistola): la fistola in questione non può essere trattata
chirurgicamente; si mette il paziente a digiuno, ma questo non basta, perché pur non passando il cibo, attraverso queste fistole
passa la saliva: per evitare questo l’unico modo è quello di posizionare il tubo.
Sono terapie molto complesse, che vanno condotte da mani esperte.

MALATTIA DA REFLUSSO GASTROESOFAGEO


La MRGE è un capitolo prettamente di pertinenza della Gastroenterologia; alla chirurgia generale compete
solo il trattamento chirurgico, specie delle complicanze.
Si tratta di una delle patologie più frequenti in assoluto, che merita un approccio di inquadramento
diagnostico: è necessario dunque saperla distinguere da patologie affini, ma non coincidenti, come ernia
iatale da scivolamento ed esofagite, con cui è spesso confusa.
L’esofago non è fatto per essere a contatto col succo gastrico; quando questo succede, si verifica un danno,
in quanto da un lato l’esofago è pavimentoso composto, d’altro canto il pH è estremamente acido. Il tutto
insorge a causa di una perdita del fisiologico equilibrio tra fattori aggressivi e protettivi. Questo equilibrio
si altera a favore dei fattori aggressivi, consentendo un prolungato contatto del materiale di provenienza
gastrica con la mucosa esofagea. Questo vuol dire solo che vi è uno squilibrio, non che vi è un aumento
effettivo della componente aggressiva: quest’ultima può essere anche normale, ma viene meno la barriera
di difesa esofagea.

Fisiopatologia
I fattori che creano fisiopatologicamente una barriera sono:
- LES disfunzionante: lo sfintere esofageo inferiore ha la funzione di rimanere chiuso. Ci possono
essere dei rilasciamenti transitori, ma questi devono essere istantanei e di breve durata. La maggior
parte dei reflussi (60-70%) son dovuti a dei rilasciamenti transitori, spontanei ed inappropriati del
LES, non evocati dalla deglutizione. Normalmente il LES si deve aprire solo a seguito della
deglutizione.
- Pilastri diaframmatici: normalmente, questi si oppongono agli aumenti pressori addominali. Questo
meccanismo viene solitamente ostacolato da una ernia iatale. Anche l’obesità crea dei problemi
sotto questo punto di vista: l’aumento della pressione addominale per la presenza di obesità crea
una apertura, una diminuzione della tenuta dei pilastri diaframmatici, con risalita del tessuto gastrico
in torace; questo crea una condizione di reflusso continuo e costante.
- Clearance esofagea dell’acido: la peristalsi dell’esofago è fondamentale per far transitare il bolo
alimentare, ma anche per far sì che la saliva contrasti la risalita del bolo stesso. Se l’esofago si
contrae male, si crea una possibilità di debolezza da parte del sistema stesso.
I fattori aggressivi sono:
- Agenti lesivi: sono costituiti da acido gastrico, Sali biliari, pepsina e dagli altri enzimi pancreatici;
questi infatti provocano un danno alla mucosa esofagea, creando un deficit della barriera epiteliale.
Dunque un aumento della secrezione gastrica e un reflusso dei Sali biliari creano uno squilibrio tra
quantità di secreto esofageo, fungente da barriera, e la quantità di agenti lesivi.
- Ritardato svuotamento gastrico: crea una ritenzione a livello dello stomaco e degli alimenti. Questo
è un fattore che può scatenare facilmente la patogenesi della malattia da MRGE
- Reflusso duodeno-gastrico: una dis-coordinazione antro-pilorica può creare un reflusso di succo
duodenale, che a sua volta risale in esofago. Siccome molto spesso in esofago riusciamo a ritrovare
anche tracce di bile, questa situazione deve essere messa in correlazione.

Anatomia patologico
A questo punto accade che compare una esofagite da reflusso; questa non è altro che una lesione legata
all’irritazione chimica della mucosa esofagea, in seguito al contatto con l’acido o con le strutture alcaline
duodenali. L’esofagite ha aspetti microscopici molto ben definite:
- Allungamento delle papille
- Aumento dello spessore dello strato basale epiteliale
- Presenza di infiltrato infiammatorio nella mucosa: è tipico dell’esofagite
- Comparsa di cellule squamose ingrandite, dotate di aspetto pallido
- Strato squamoso con spessore diminuito
Questi aspetti microscopici definiscono chiaramente l’aspetto anatomopatologico istologico di una esofagite.
Quando facciamo una biospia e ritroviamo questi aspetti siamo chiaramente in presenza di una esofagite da
reflusso.
Tuttavia, il quadro ha una gradatio di estrinsecazione (classificazione endoscopica di Savary Miller)
- Esofagite di I grado: eritemato-edematosa
- Esofagite di II grado: ulcero-emorragica
- Esofagite di III grado: sclero-cicatriziale
- Esofagite di IV grado: esofago con metaplasia ghiandolare; è la condizione peggiore dal punto di vista
prognostico e prende il nome di esofago di Barrett. È una situazione che deve essere monitorata nel
tempo. Il paziente non può più essere abbandonato a sé stesso, in quanto si tratta di una lezione che
nel 5-6% dei casi può determinare l’insorgenza di displasia sulla metaplasia. Questi casi, qualora il
paziente non si sottoponga con costanza e continuità ad una sorveglianza, può portare ad un
adenocarcinoma dell’esofago.

Queste immagini danno idea della diversa entità dell’esofagite

Sintomatologia
Di distinguono schematicamente sintomi tipici ed atipici
- Sintomi tipici: questi vengono facilmente correlati alla MRGE
o Pirosi
o Rigurgito
o Eruttazione
o Nausea e vomito
o Odinofagia
- Sintomi atipici: difficilmente li si correla a una MRGE, per lo meno in prima battuta.
o Anemia
o Ematemesi
o Disfagia
o Dolore retrosternale
o Disturbi respiratori (broncopolmonite frequenti, febbre, microascessi polmonari)
o Disturbi ORL

Diagnosi
- Esofagogastrografia con bario: da soltanto idea di quando avviene il reflusso
- Esofagoscopia: dà contezza della beanza del cardias e del reflusso gastroesofageo; in più, anche
mediante l’effettuazione di biopsie, si notano la presenza ed il grado dell’esofagite, oltre che
l’eventuale stenosi cicatriziale
- Manometria esofagea: documenta l’ipotono del LES
- pH-metria: effettuata nelle 24h ore, dà idea di come muti il pH a livello dell’esofago e documenta la
continua risalita di succo gastrico a livello dello stomaco. In questo modo si comprende la quantità
(in base all’entità dell’abbassamento di pH) e il numero degli episodi. Inoltre, valutando gli orari in
cui il paziente ha assunto cibo, si valuta se questo è strettamente correlato ai fenomeni di
deglutizione o se il LES è disfunzionante.

Complicanze
La MRGE è di pertinenza chirurgica solo quando compaiono le complicanze. In alcuni momenti la terapia
medica o i trattamenti parachirurgici (endoscopici) non sono più sufficienti per trattare il malato.
- Emorragia: le ulcere di II e III grado possono creare degli stillicidi ematici, portando ad anemia
ipocromica iposideremica. Questi pazienti imparano a convivere con bassi livelli di emoglobina,
perfino con 5-6g di Hb: si genera una sorta di assuefazione da parte del paziente; tuttavia, nel
momento in cui subentra una perdita di sangue massiva, si apre a condizioni molto gravi. Per questo
queste patologie possono portare a morte il paziente: l’anemia cromica iposideremica può cambiare
molto la storia clinica del paziente
- Esofago di Barrett: la metaplasia è un’evoluzione di questo tipo di patologia. Nel 5-6% dei casi questa
condizione evolve in displasia, da cui l’insorgenza di cancro;
- Stenosi: è importante dal punto di vista clinico, dal momento che, portando a un restringimento
concentrico del lume esofageo, genera una condizione di disfagia importante. È frutto di una serie
progressiva di episodi di esito cicatriziale. Non solo si crea una chiusura serrata del lume esofageo,
ma anche una retrazione longitudinale, che esita in una condizione definita esofago corto acquisito.
Questa condizione complica ulteriormente l’evoluzione della patologia.

Terapia
È evidente che non sia compito del chirurgo trattare questa patologia. L’associazione di terapia farmacologica
e terapia comportamentale è alla base. In questa maniera si va a curare l’effetto e non la causa della
patologia, tuttavia. Spesso ci si trova di fronte a situazioni di cui l’utilizzo di farmaci (antisecretori, H2
antagonisti, PPi) uniti all’assunzione di farmaci procinetici (che aiutano la vis a tergo dalla bocca all’ano) e
l’eliminazione di cibi pirogeni (grassi, cioccolata, alcol, the, limone). Una norma comportamentale
importante è quella di convincere il paziente a dormire in posizione semisupina, con cuscini e rialzi posti ai
piedi del letto dove giace la testa. Il paziente quindi dovrebbe dormire in discesa. Questo facilita moltissimo
la guarigione in questi pazienti: se il tutto è provocato dal reflusso, la posizione supina durante la notte facilita
il reflusso e quindi il danno sulla mucosa. Per questo si parla di sindrome di Penelope: di notte la condizione
peggiora, di notte migliora.
A un certo punto, vi sono dei pazienti che non rispondono più a questa terapia: hanno crisi di rimbalzo o
non guariscono mai nonostante la terapia. Quando la terapia medica fallisce perché il paziente non tollera
più questo tipo di situazione, subentra la necessità di una chirurgia. È chiaro che ci si trova di fronte a una
chirurgia per patologia funzionale, quindi i risultati attesi sono funzione dell’aspettativa del paziente: occorre
convincere il paziente che la chirurgia sia l’unica strada possibile, ma bisogna anche essere capaci di far
comprendere al paziente quali sono i risultati che ci aspettiamo e come il paziente stesso deve comportarsi.
Il paziente potrebbe anche rifiutare: tranne che nell’esofago di Barrett (dove è possibile evoluzione
tumorale), negli altri casi la sintomatologia dolorosa può anche essere tollerata. Per questo, la chirurgia deve
essere sempre migliorativa: un paziente che non migliora può lamentarsi. Quel che si propone al paziente è
l’esecuzione di una fundoplicatio. Questa è ormai eseguita soltanto in modalità laparoscopica, che riduce il
trauma chirurgico. L’obiettivo della terapia fatta in questa maniera è di creare intorno all’esofago una zona
di alta pressione, per stabilire una condizione fisiologica normale di equilibrio che si era venuta a rompere
tra fattori aggressivi e protettivi. Si crea un vero e proprio manicotto che può essere effettuata in diverse
maniere.
- Fundoplicatio secondo Nissen: plastica antireflusso con un manicotto gastrico, avvolto intorno
all’esofago a circonferenza a 360°; è simile al nodo di una cravatta: si gira la porzione superiore dello
stomaco, la si passa posteriormente all’esofago e la ribaltiamo sulla posizione anteriore. Questa
struttura viene poi cucita, suturata, tramite dei punti, generando la situazione qui presente in
immagine. La pressione di questa sutura sull’esofago è di estrema importanza nel far guarire il
paziente: non deve essere né troppo stretta, né troppo larga. Questo si ottiene inserendo dalla
bocca durante la chirurgia un sondone in caucciù, con un calibro prestabilito, che funge da guida. Si
mettono i punti intorno al sondone, che evita che essi siano troppo stretti (eccessivo collabimento)
o troppo larghi (inutile). Questo trattamento è il nostro preferito.

- Fundoplicatio secondo Dor: il manicotto gastrico avvolge l’esofago solo nella metà anteriore.
- Fundoplicatio secondo Toupet: il manicotto gastrico avvolge l’esofago solo nella metà posteriore

In queste ultime due maniere si riesce comunque ad ottenere una situazione di mantenimento dell’ambiente
pressorio. È chiaro che ognuno deve fare la plastica che gli riesce meglio tecnicamente, nell’interesse del
paziente.

à Risoluzione delle complicanze


- La terapia della stenosi cicatriziale consiste in una dilatazione endoscopica o in una esofagoplastica
transluminale con catetere a palloncino. Quest’ultimo consiste nella interruzione della stenosi
attraverso l’esercizio di pressioni crescenti tramite palloncini gonfiati tramite aria e soluzione
fisiologica. In questo modo si ripristina il canale alimentare
- La terapia dell’esofago di Barrett è sempre la plastica antireflusso. In questo caso, abbiamo
assolutamente la necessità di proporre al paziente questo tipo di terapia; tuttavia, spesso il paziente
la rifiuta: la terapia antireflusso è assolutamente indispensabile nei pazienti con Barrett, ma questi
sono asintomatici, quindi lo negano. È molto più facile convincere un paziente ad operarsi se ha dolore
o fastidio (cfr. reflusso importante, ma non ancora esofago di Barrett), rispetto a pazienti asintomatici
ma con metaplasia.
Pancreas

Il pancreas è un organo difficile da studiare e trattare. Se il buongiorno si vede dal mattino ìhìhìh.

ANATOMIA
Il pancreas è una ghiandola mista, parzialmente esocrina (produce secreti riversati nel duodeno),
parzialmente endocrina (isole di Langerhans, producenti ormoni). Siamo davanti ad un organo con molte
funzioni, di conseguenza molto ben vascolarizzato.

Suddivisione anatomica
Dal punto di vista anatomico, è diviso in tre porzioni:
- Testa: ha forma di C e si trova sulla destra; è inglobata nella curva duodenale, con cui forma un
tutt’uno.
- Istmo: zona di collegamento, che collega la testa con la parte distale dal pancreas. Da esso si diparte
il processo uncinato del pancreas
- Corpo
- Coda: va verso l’ipocondrio sinistro, sconfinando e raggiungendo rapporti anatomici con la milza e
col polo superiore del rene sinistro.

Rapporti
I rapporti importanti sono:
- Duodeno
- Via biliare
- Milza
- Polo superiore del rene sinistro
- Grossi vasi addominali: il pancreas ha rapporti di stretta vicinanza coi vasi mesenterici, in
corrispondenza dell’istmo panreatico
Lo studio di questi rapporti è fondamentale per definire la strategia terapeutica in alcuni casi.

Anatomia topografica
Il pancreas è in cavità addominale, ma è un organo retroperitoneale. Il peritoneo parietale, appiattito in
senso antero-posteriore, riveste solo la faccia anteriore del pancreas; la faccia posteriore, invece, non è
ricoperta da sierosa peritoneale. La fissità dell’organo, determinata dal fatto che il peritoneo lo schiaccia
sulle vertebre, crea impossibilità che il pancreas possa erniare, così come il duodeno, in una qualche
maniera: quando parleremo di ernie e laparoceli vedremo che qualunque organo addominale può entrare
nella costituzione dell’ernia (o laparocele, se insorto su cicatrice chirurgica): pancreas e testa del duodeno,
invece, non possono erniare.

Vascolarizzazione

La vascolarizzazione è affidata a un cospicuo numero di arterie:


- Corpo:
o Arterie pancreatico-duodenali superiore ed inferiore;
o Rami dell’arteria gastro-duodenale superiore ed inferiore
- Corpo e coda:
o Rami dell’arteria splenica
o Rami dell’arteria mesenterica superiore.
I rapporti vascolari sono molto importanti con duodeno e milza.

Innervazione

Il pancreas ha anche una ricca innervazione mediata dalle terminazioni nervose afferenti ai gangli celiaci,
situati ai lati della arteria aorta e mesenterica, che da questa origina. Questa innervazione rende conto della
sintomatologia dolorosa a sbarra che affligge i pazienti colpiti da patologie pancreatiche, sia benigne sia
maligne. Esempio clinico: l’ulcera peptica ha nel suo corteo sintomatologica il dolore a tempi (3 o 4),
caratterizzato da una circadianità del dolore che il paziente riferisce a seconda delle situazioni, se mangia o è
a digiuno. Una complicanza dell’ulcera è la sua penetrazione posteriore, che raggiunge il pancreas: quando
quest’ultimo è penetrato dall’ulcera, il dolore tipico dell’ulcera cambia atteggiamento; il paziente quindi
riferisce un dolore non più periodico e circadiano, ma fisso, estenuante e serio, che non peggiora né migliora
con nessun tipo di atteggiamento: il dolore a sbarra. Questo ci dà contezza del fatto che il dolore non è più un
problema dello stomaco, ma del pancreas, legato all’affezione dei gangli celiaci.

Drenaggio linfatico

I linfatici che drenano dal pancreas sono numerosissimi e si organizzano in diverse stazioni linfonodali, che
si trovano in corrispondenza di: l’ilo epatico, ilo splenico, tripode celiaco, asse mesenterico. Non è importante
conoscerle tutte, quanto comprendere come da qualunque porzione del pancreas abbia origine una
patologia, questa ha molte strade a disposizione per evolvere in tutte le direzioni. Per questo, le neoplasie
di origine pancreatica sono precocemente invasive: oltre a mancare un rivestimento peritoneale, oltre ad
avere una ricca vascolarizzazione, quest’organo ha una situazione linfonodale ben distribuita che consente
un passaggio rapido di cellule in ogni dove.

Caratteristiche peculiari del pancreas nella patologia pancreatica


Prima di parlare delle patologie pancreatiche, è necessario valutare una serie di caratteristiche importanti
che riguardano esclusivamente quest’organo e che danno contezza del motivo dell’evoluzione di molte
patologie:
1) Il pancreas ha una posizione fissa sulla colonna vertebrale: il pancreas è un organo che occupa
trasversalmente tutto l’addome e poggia su una struttura rigida, che è la colonna vertebrale. Si
osserva quindi il contatto tra una struttura rigida (osso) e una delicata (ghiandola pancreatica, con
consistenza parenchimatosa). Questo determina che, in una situazione di trauma, è il pancreas ad
avere la peggio: l’organo sbatte sulla colonna, come un martello su un’incudine. Un trauma frequente
è l’incidente stradale in cui il volante sbatte contro l’addome anteriore: il pancreas si trova schiacciato
tra il volante e la colonna, due strutture rigide. Per questo, il esso va incontro a frattura, tagliandosi
a metà.
2) Mancanza dei mesenteri: la presenza di guaina peritoneale (1) fa in modo che stomaco e intestino
abbiano dei mesenteri, a livello dei quali entrano ed escono dei vasi, e (2) consente un avvolgimento
a manicotto dell’organo stesso. Questo crea una situazione di protezione a favore dell’organo: una
sua patologia, prima di poter diffondersi a distanza per contiguità, deve superare la guaina. Nel caso
del pancreas, tale guaina peritoneale manca, in quanto posteriormente è totalmente nudo: questo
genera una certa facilità nella diffusione di cellule neoplastiche e di patologie, che dall’organo
raggiungano gli organi vicini. È molto importante che i vasi, in stretto rapporto con l’istmo, possano
essere aggrediti da una diffusione lenta.
3) Grandissima quantità di linfonodi: una neoplasia di origine pancreatica, per questo motivo, diffonde
rapidamente a livello sistemico, metastatizzando.
4) Rapporti vascolari congiunti con il duodeno: le arterie che irrorano la testa pancreatica si chiamano
pancreatico-duodenali, in quanto lo stesso vaso dà irrorazione arteriosa sia alla testa del pancreas,
sia al duodeno. Si tratta di due organi che sono strettamente legati non solo dal punto di vista
anatomico, ma anche nutrizionale/funzionale, in quanto irrorati dal medesimo vaso. Questo
determina delle particolari implicazioni nel momento in cui siamo costretti, per una patologia, a
sacrificare chirurgicamente uno dei due organi (tumore della testa del pancreas o tumore del
duodeno): la asportazione di un qualunque organo prevede come fase preliminare la legatura dei
vasi arteriosi e venosi che consentono la vita di quell’organo. Legati i vasi (chiusi con lacci, strumenti
di coagulazione elettrica, etc.) e isolato l’organo dal punto di vista vascolare, si può continuare
l’intervento con l’asportazione dell’organo. Questo vale per qualunque organo: per questo motivo,
un intervento demolitivo che riguarda la testa del pancreas, dunque, prevede un sacrificio congiunto
del duodeno; infatti, per asportare la testa del pancreas per motivi anatomici di vascolarizzazione
dobbiamo anche asportare la C duodenale. Si parla per questo di duodeno-cefalopancreasectomia.
Vale la stessa cosa al contrario, qualora si debba operare sul duodeno.
5) Rapporto con la via biliare principale nel tratto terminale: nella C duodenale è presente un organulo
sulla parete mediale, chiamato papilla di Vater. Questa consiste in uno sfintere che serve a gestire la
secrezione nel duodeno da parte di due dotti simultanei: dotto biliare (coledoco) e il dotto
pancreatico (di Wirsung). Ogni giorno vengono prodotti 800mL di bile e altrettanto di succo
pancreatico. Considerando queste basi anatomiche, nel momento in cui siamo costretti ad eliminare
la testa del pancreas, rimuoviamo non solo il duodeno, in aggiunta, ma tagliamo anche la via biliare:
dopo la fase demolitiva della chirurgica, permane un dotto epatico appeso, che va ricostruito per
consentire il deflusso della bile nell’intestino; nello specifico, lo sbocco non sarà più a livello del
duodeno, ormai rimosso, ma di altre porzioni di tenue da suturare con la via biliare.
ANEDDOTO SULLE SECREZIONI NELL’APPARATO GASTROINTESTINALE
Oltre agli 800mL di bile pancreatica e agli 800mL di bile epatica, vengono prodotti: 1.5L di succo
pancreatico, 800cc di saliva, 9L di succo intestinale. In totale, ogni giorno, 14-15L di liquido vengono
secreti dal tratto digerente. È una parte importante del nostro peso corporeo, che costituisce un quinto o
un quarto del peso totale. Questo ogni giorno, indipendentemente dal fatto che il paziente mangia o meno:
è un meccanismo di base. Questa produzione di secreto va a terminare nella cavità dell’apparato
digerente: si consideri che, una volta che questi liquidi si riversano nel lume, in quel momento non sono
più nostri, ma sono stati persi, per l’appunto secreti. Per riguadagnare questi liquidi è fondamentale il
riassorbimento di queste sostanze da parte dell’intestino tenue, insieme alle sostanze nutritizie ingerite.
Così a livello del crasso rimane da assorbire solo l’acqua restante. Infatti, nel momento in cui ci sono
patologie in cui viene meno il tenue, il paziente va nutrito artificialmente. Questo vuol dire che la quantità
di liquidi che abbiamo immesso nel tubo digerente è prestabilita e deve essere riassorbita in maniera
sequenziale dal tenue e poi dal crasso, in un certo arco di tempo necessario per garantire questo processo.
Il tutto viene riassorbito e rimane alla fine del percorso una quantità di sostanze inutili, che rappresentano
il materiale fecale, di 400-500g circa, che deve essere espulso.
Tutto questo è fondamentale nell’equilibrio elettrolitico del paziente. Se questa catena ben organizzata
si altera in uno dei suoi passaggi, otteniamo degli squilibri rilevanti. Esempio: se mangiamo un alimento
pieno di tossine (crema tenuta sotto il sole d’estate) i batteri rimasti vivi vanno a stimolare la peristalsi
intestinale: l’intestino si contrae molto più velocemente, dunque il tempo necessario per l’assorbimento
non è più sufficiente; l’intestino corre più velocemente, non dando il tempo per l’assorbimento. Il colon si
ritrova quindi una quantità di liquido superiore alle sue possibilità di riassorbimento: per questo compare
la diarrea. Essa è il risultato di un transito velocissimo. Viceversa, davanti a patologie che rallentano il
transito intestinale (es: pazienti anziani), l’intestino ha più tempo per riassorbire l’acqua: ne riassorbe più
di quella che dovrebbe, quindi rimane un pacchetto fecale di consistenza dura, completamente disidratato.

6) Rapporto posteriore coi gangli celiaci: non solo è responsabile della diffusione del dolore a sbarra o
cintura, ma anche della difficoltà nel trattamento di questo tipo di dolore mediante i FANS; si
consideri, infatti, che questo è un dolore di tipo centrale, che non recede coi normali farmaci: per
questo, sono necessari farmaci più potenti, come la morfina e altri derivati dell’oppio. In alternativa,
è necessario distruggere i gangli stessi per interrompere la trasmissione dell’impulso nervoso.

FISIOLOGIA
à Funzione esocrina
La funzione pancreatica esocrina (84% di tutto il volume) consiste in un liquido alcalino di pH 8 iso-osmotico,
secreto in quantità di 1500-3000 mL/die, ma che può aumentare in corso di processi infiammatori. Consiste
nella produzione di due tipi di secreti:
- Secreto acquoso: contiene bicarbonati, sostanze che immediatamente tamponano l’acido cloridrico.
In caso di una emorragia del tratto digerente, quando l’HCl passa in duodeno incontra
immediatamente i bicarbonati, quindi si combina stechiometricamente con essi non avendo più la
possiblità di legarsi alla Hb: per questo la melena è un segno di emorragia avvenuta nei tratti
prossimali del tratto GI, dove l’HCl incontra l’emoglobina prima di essere tamponata, formando il
cloridrato di ematina,
- Secreto enzimatico: interviene nei processi digestivi, in cui ogni enzima agisce su una specifica
sostanza (amilasi, lipasi, etc.). In questo caso, uno degli enzimi da considerare di più è quello che
interagisce con la parete dei vasi arteriosi: l’elastasi. L’elastina è una componente della parete dei
vasi arteriosi: questo è importante perché quando incomincia una pancreatite acuta, questa può
svilupparsi in una forma necrotica emorragica, detta tale perché vi è una emorragia importante di
grossi vasi, anche mortale, causata dall’autodigestione della parete dei vasi arteriosi tramite
l’elastasi.
à Funzione endocrina
La funzione endocrina prevede la presenza di cellule divise in base alla loro specificità, che producono
specifiche sostanze:
- Cellula α: glucagone
- Cellule β: insulina; sono localizzate nella parte centrale delle insule
- Cellule δ: somatostatina e gastrina; sono localizzate nella periferia insulare
- Cellule D1: le più rare; secernono polipeptidi, VIP e PP
Queste cellule crescono in maniera abnorme in caso di NET, tumori particolarmente difficili da trattare, in
quanto di difficile diagnosi: pur dando alterazioni funzionali, con sintomi importanti, la loro dimensione è
piccolissima e difficilmente identificabile.

DIAGNOSTICA DI LABORATORIO
Dal punto di vista di diagnosi di laboratorio, si effettuano:
- Dosaggio enzimatico in sangue e urine di enzimi prodotti: amilasi, lipasi, tripsina e
desossiribonucleasi. Amilasi e lipasi vengono quotidianamente richiesti per monitorare la situazione
clinica, specie in pazienti sottoposti a stress chirurgico, in quanto possono aumentare nel post-
operatorio. Occhio a questo concetto, spesso richiesto agli esami: la quantità di amilasi e lipasi NON
è indice di gravità di patologia. Un paziente con amilasi alta non ha una pancreatite acuta più grave,
anzi molto spesso è succede il contrario: la necrosi è così importante che il pancreas non è più in grado
di produrre enzimi, in quanto si esaurisce la capacità di secrezione di tale enzima. Non è la quantità
di enzimi che determina la gravità del processo infiammatorio del pancreas: i fattori prognostici sono
altri.
- Studio dei processi digestivi con esame coprologico: steatorrea, creatorrea1, amilorrea valutano
rispettivamente la quota di grassi, proteine e zuccheri indigeriti nelle feci. Questo è importante
perché dà idea di come funzioni il pancreas nelle sue funzioni digestive. Molto spesso, soprattutto in
pazienti che hanno avuto flogosi acute recidivanti, che hanno patologie croniche, o che hanno subito
un intervento demolitivo di parte o di tutto il pancreas, è necessario somministrare dei fermenti per
bocca: si tratta di enzimi che sostituiscono la funzionalità di un pancreas ormai non autosufficiente.
Inoltre è necessario valutare se il quantitativo di enzimi dati per bocca sia sufficiente a produrre una
buona digestione: per questo si effettuano gli esami coprologici. Se proteine, zuccheri e grassi sono
ampiamente presenti, vuol dire che il paziente non digerisce a sufficienza.
- Dosaggio ematico di glicemia, calcemia, insulinemia, glucagonemia, VIPemia e markers tumorali
come CA19.9, CEA, αFP: questi sono indicatori di come sta funzionando il pancreas. Un banale
prelievo ci dà la possibilità di misurare tutti questi parametri. I markers tumorali servono per
confermare la diagnosi e fare i follow-up di pazienti operati per un tumore pancreatico: se il CA19.9
era stato ritrovato alto in un paziente che poi è stato operato, il marker tende ad azzerarsi; se
aumenta, potrebbe esserci una recidiva.

ITER DIAGNOSTICO RADIOLOGICO


Oggi il pancreas si avvale di una serie di presidi che consentono di studiarlo in maniera più efficace.
- Ecografia (I istanza)
- TC multidetettore (II istanza)
- RMN (III istanza)
Un tempo questi tre presidi non erano disponibili, quindi si incontrava grande difficoltà nel studiare un
organo complesso come il pancreas, retroperitoneale e radiotrasparante: lo si studiava in maniera sommaria,
artigianale e tardiva, facendo una RX dell’esofago-stomaco con ingestione di mezzo di contrasto (pasto
baritato), per valutare la C duodenale; questa risultava slargata nel momento in cui si assisteva alla insorgenza
di un tumore della testa del pancreas.: se la C duodenale si è slargata, allora significa che il tumore ha
raggiunto dimensioni importanti. Tutto questo vuol dire, tuttavia, che si diagnosticava il tumore solo in una
fase tardiva, con prognosi ormai sfavorevole.

Ecografia
È un esame formidabile: qualunque tipo di approccio, anche negli ambulatori dei MMG, prevede l’uso di un
ecografo. È un esame che non causa alcun danno, dunque può essere effettuato in tutti i tipi di pazienti,
perfino le donne gravidiche. Tuttavia, è un esame che, proprio per la posizione del pancreas, è molto limitato
dai seguenti elementi:
- Meteorismo intestinale: il gas presente davanti al pancreas ne limita la visibilità;
- Obesità: un pannicolo adiposo molto ben espresso non consente una esecuzione ottimale del test
- Metodica operatore-dipendente
- Difficoltà nella valutazione di lesioni del corpo e della coda, in quanto sono presenti più
profondamente;
- Non si ha esatta contezza delle alterazioni peri-pancreatiche

1
Anomala escrezione di fibre muscolari nelle feci.
Si conclude che l’ecografia in teoria è un ottimo esame, tuttavia in pratica è una metodica che tuttavia ci
lascia molto interdetti. Vi invito a leggere dei referti di ecografia di parenti e amici: in corso di ecografie
addominali effettuate per svariate patologie, vedrete sempre da parte dell’ecografista minuziose descrizioni
di tutti gli organi addominali; tuttavia molto spesso, arrivati alla dizione “pancreas”, si trova sempre
”pancreas non valutabile” (bugia bro, in PS oggi ne ho visto uno tranquillamente, è che defazio non è capace
evidentemente.). Il collega si lava le mani su giudizi difficili da esprimere perché l’ecografia nei confronti del
pancreas trova limiti spesso insuperabili, spesso in pazienti obesi o meteorici in cui gli echi non passano
facilmente. In teoria, l’ecografia sarebbe fenomenale, in pratica ci dà poche informazioni.

Ad ogni modo, si ha la possibilità di apprezzare il pancreas tramite sonde che effettuano tagli longitudinali
e trasversali dall’epigastrio all’ipocondrio sinistro, con paziente in decubito supino. Si effettua facendo
inspirare profondamente il paziente, in modo che il lobo sinistro del fegato discenda e si collochi
anteriormente al pancreas: si crea in questo modo una finestra acustica che facilita la sua visualizzazione.
Ecografia fatta in paziente sano magrissimo, magari anche sottoposto a preparazione intestinale il giorno prima (non
ha né meteorismo, né un importante pannicolo adiposo). Si vede tutto: l’arteria mesenterica superiore (MSA), la vena
splenica, l’intero pancreas, la vena cava inferiore (IVC), l’aorta. Abbiamo una visione ecografica perfetta di un pancreas
normale. Ma si tratterà di un paziente di 50kg. In nove casi su dieci non è così.
È pur vero, però, che l’ecografia può mettere in evidenza alcune informazioni importanti, quali:
- Calcificazioni intraparenchimali, raccolte flogistiche peri-pancreatiche e lesioni espansive: si
immagini la condizione post-pancreatite acuta, con la presenza di raccolte infiammatorie
peripancreatiche. Situazione clinica: un paziente allettato in degenza che sviluppa febbre di tipo
settico ha verosimilmente sviluppato una raccolta peri-pancreatica in seguito all’episodio di
pancreatite acuta: piuttosto che sottoporre il paziente a TC, si può valutare il tutto con una ecografia,
che mette in mostra una raccolta che prima non c’era. Questo dà conferisce l’idea che quella febbre
sia un problema peripancreatico; magari, poi, approfondiamo il tutto con TC.
- Pancreatite acuta e cronica, cisti e pseudocisti, neoplasie
- Il dotto di Wirsung si vede bene nei pazienti magri, specie nei maschi. Esso appare come una sottile
linea anecogena a contorni netti nell’85% dei pazienti normali. Appare come una sottile immagine a
binario, specie a livello del corpo-coda, di un calibro inferiore ai 2mm
- Le vie biliari: l’ecografia può identificare una dilatazione delle vie biliari, che indicano la presenza di
un ostacolo. Questo è un elemento fondamentale per discernere un ittero misto, di competenza
medica, da un ittero ostruttivo, di competenza chirurgica. Il primo è legato a un danno agli epatociti,
tipico di una insufficienza epatica, che determina un aumento tanto della bilirubina indiretta – per
deficit di glucoronazione epatica – tanto della bilirubina diretta – per deficit di secrezione nei dotti
biliari; l’ittero ostruttivo o chirurgico è invece legato da un ostacolo che impedisce il deflusso di bile
nelle vie biliari. Quest’ultima condizione viene identificata proprio tramite ecografia, che mostra una
dilatazione delle vie.
- La parte più importante è l’Eco-color-Doppler: tramite questa tecnica si valutano bene i rapporti che
tra la ghiandola e i vasi situati posteriormente. Un tempo per questa osservazione era necessario lo
studio arteriografico, dunque un’indagine abbastanza invasiva. Questa oggi non viene praticamente
fatta più perché l’ecografia ci dà contezza in maniera efficace del rapporto ghiandola-vasi. Se
cerchiamo un’infiltrazione dei vasi, in fase di diagnosi precoce, per comprendere se il paziente è
trattabile chirurgicamente o se è meglio una terapia non chirurgica, si effettua un ColorDoppler.

TC multidetettore
Non ci si deve fermare all’ecografia, ma è necessaria una TC multistrato. Questa è un esame di seconda
istanza, pur se in termini pratici diventa una necessità assoluta per la patologia pancreatica.
La TC è infatti la tecnica più sensibile e specifica per la stadiazione delle pancreatiti, per la valutazione delle
copmlicanze e delle sue possibili cause. È fondamentale anche per identificare la sede delle lesioni: con la
sua panoramica distingue le lesioni pancreatiche da quelle extra-pancreatiche; in più, ne valuta la
consistenza: se sono solide, liquide, adipose o calcifiche, sulla base della densità dell’immagine radiologica.
Oggi esistono TC di ultima generazione che ti danno una risposta in 2-3 minuti, con o senza l’utilizzo di mezzo
di contrasto; si ottiene una elevatissima risoluzione spaziale tramite la collimazione sottile.

Immagine molto bella (cit. prof. De Fazio)


Risonanza magnetica
La risonanza magnetica è una ulteriore evoluzione. Essa ha un particolare programma per studiare le vie
biliari, la colangio-pancreatografia-RMN: si tratta di una tecnica che aiuta nello studio delle vie biliari e rileva
l’eventuale presenza di ostacoli. Il vantaggio della RMN sta nel fatto che, sfruttando i campi magnetici, non
fa uso di radiazioni, restando innocua. Tuttavia, oggigiorno esiste la necessità di avere contemporaneamente
sia TC sia RMN: esistono dei particolari che sono complementari nei due studi di imaging di TC con mdc e
RMN.
È chiaro che la RMN rappresenta un mezzo formidabile in:
- Tutti quei pazienti in cui i mezzi di contrasto diiodati non possono essere utilizzati: gli insufficienti
renali e pazienti con allergie gravi al mezzo di contrasto; se l’allergia non è tanto grave da provocare
uno shock (rarissimo), tuttavia, è possibile fare comunque uso della TC con mdc, previa l’esecuzione
1-6-12h prima di una preparazione specifica anti-allergica mediante assunzione di antistaminici e
cortisonici, con uno schema ben stabilito: questo diminuisce al massimo il numero di persone per cui
vi è una controindicazione al mdc.
- Pazienti che non possono essere esposti alle radiazioni ionizzanti: donne in gravidanza o che
sospettano di esserlo richiedono una RMN di prima battuta; naturalmente, se poi si sospetta una
neoplasia o si è già diagnosticata, il rischio di una TC si corre comunque.

à Colangio-pancreatografia-RMN (MRCP)
La risonanza magnetica con il programma colangiografico è un’ulteriore evoluzione che ci aiuta nello studio
specifico della via biliare e nello sbocco a livello del duodeno. È un esame che consente una diretta
visualizzazione dell’albero biliare e dei dotti pancreatici senza ricorrere al mezzo di contrasto: per questo, è
l’esame di prima scelta per lo screening di patologia biliare e dei dotti pancreatici. Inoltre rappresenta
un’ottima alternativa alla ERCP: oggi i pazienti in cui si sospettano problematiche nello sbocco delle vie biliari
e coinvolgimento della papilla del Vater non si sottopongono più ad ERCP, ma a una MRCP che dà un’idea
precisa della situazione del distretto in questione; solo qualora sia fatta una diagnosi, allora successivamente
si interviene con la ERCP.
Ad ogni modo, si utilizzano sequenze fortemente T2w per saturare il segnale dei tessuti circostanti: i fluidi
pancreatici e biliari appariranno iperintensi rispetto ad uno sfondo ipointenso, per la soppressione del
segnale dei piani adiposi.
COLANGIO-PANCREATOGRAFIA-RM
(MRCP)
La colangio-pancreatografia-RM è una tecnica di indagine diagnostica non invasiva che consente
la diretta visualizzazione dell’albero biliare e dei dotti pancreatici, senza ricorrere all’impiego del
m.d.c. Rappresenta l’esame di prima scelta per lo screening della patologia biliare e dei dotti
pancreatici; rappresenta inoltre una valida alternativa all’ERCP.
Si utilizzano sequenze pesate in T2w per saturare il segnale dei tessuti circostanti, di modo che i
fluidi biliari e pancreatici appaiano iperintensi rispetto allo sfondo, che appare invece ipointenso
per la sopressione del segnale dei piani adiposi.

Ne esiste anche una variante, cosiddetta dinamica, che prevede l’iniezione endovenosa di
secretina, al fine di stimolare la secrezione e la distensione dei dotti. In circa 4-10 minuti si ottiene
la dilatazione del dotto pancreatico, cui consegue un incremento temporaneo del tono dello
sfintere di Oddi, sempre favorito dalla secretina. Gli effetti sull’albero biliare sono invece più
modesti. La MRCP dinamica permette così una maggiore definizione anatomica dei dotti
pancreatici e, congiuntamente, la valutazione della funzione esocrina della ghiandola.
ESAME COLANGIO-PANCREATOGRAFICO RETROGRADO ENDOSCOPICO
(CPRE o ERCP)
L’ERCP è una tecnica che coniuga l’indagine diagnostica con la capacità di intervenire direttamente
sulle vie bilio-pancreatiche.
Le applicazioni pratiche di questa tecnica variano dalla rimozione di calcoli alla resecazione di
eventuali neoplasie (sempre che le dimensioni lo consentano), fino al posizionamento di
endoprotesi a supporto della pervietà dei dotti.

Esecuzione dell’esame
Ai fini dell’esecuzione dell’esame è necessario:
• Un gabinetto endoscopico;
• Un fluoroscopio digitale, munito di intensificatore di brillanza (noto anche come elefante),
dispositivo che migliora la risoluzione spaziale e l'efficienza di detenzione. Questa
strumentazione ci consente anche di scattare istantanee della procedura;
• Presenza del tecnico di radiologia;
• Adozione delle misure necessarie ai fini di radioprotezione.
L’endoscopio - sotto guida fluoroscopica - si fa strada attraverso le vie digerenti del paziente, fino
a raggiungere la seconda porzione del duodeno, ove è situata l’ampolla del Vater (altresì detta
epatopancreatica). Quest’ultima corrisponde in termini anatomici alla cavità in cui sboccano le
porzioni intramurali del coledoco e del dotto pancreatico maggiore (o di Wirsung). Le modalità di
confluenza di queste strutture anatomiche soggiacciono a una grande variabilità individuale, ma
nella maggior parte dei soggetti i due dotti si uniscono prima di sboccare nell’ampolla.
A questo punto si procede ad incidere lo sfintere di Oddi (sfinterotomia), dispositivo muscolare
con funzione di contenimento dei fluidi, al fine di poter consentire il passaggio dello strumento.
Mediante l’iniezione del m.d.c. si riesce ad opacizzare la via biliare e la via pancreatica. Il contrasto
percorre la strada inversa rispetto ai flussi biologici, per cui si parla di via retrograda.

Non si tratta di un esame scevro da complicanze, pertanto oggi è dedicato esclusivamente alla
terapia. Esistono una serie di complicanze connaturate all’esecuzione dell’esame:
• PANCREATITE: laddove si verifichi a livello dello sbocco del dotto di Wirsung una
commistione di succo pancreatico e succo gastrico derivante dal lume duodenale, tale che
si abbia un’attivazione dei proenzimi pancreatici. Questo conduce allo sviluppo di una
pancreatite, che può andare dalla semplice edematosa fino alla necrotico-emorragica, la
probabilità è dell’1,3%. I pazienti che compiono questa procedura devono infatti essere a
digiuno da almeno otto ore, per evitare che a livello duodenale si palesino residui di chimo.
Secondo le linee guida, è inoltre necessario astenersi dal fumo almeno dal giorno prima.
• COLANGITE: si opera in una zona dove c’è occlusione (es. in corso di un ittero chirurgico),
per cui la zona è già infetta e c’è la possibilità che i batteri possano risalire portando ad
infiammazione. 0.87% di probabilità.
• EMORRAGIE: prima di eseguire la procedura il paziente deve aver sospeso qualsivoglia
terapia antiaggregante e/o anticoagulante. La suddetta sfinterotomia può essere
complicata dal sanguinamento, che di norma viene arginato con la cauterizzazione.
Purtuttavia, è possibile che durante la procedura il movimento del catetere o di altri presidi
(fili, drenaggi) conduca alla caduta dell’escara formatasi o ad una soluzione di continuo con
successivo sanguinamento, che può andare dall’ematemesi a manifestazioni meno gravi.
0,75%.
• PERFORAZIONE: è una complicanza possibile, sebbene rara, che si verifica nei casi in cui ci
sia un substrato anatomico predisponente, come diverticoli o dotti particolarmente difficili
da incannulare. Il paziente prova un dolore a colpo di pugnale, fortissimo. 0,58%
(La perforazione dell’ulcera gastrica (non ho idea del perché sia arrivato qui), similmente
all’appendicite, si manifesta con dolore a livello periombelicale, che successivamente si irradia in
fossa iliaca destra, perché il succo gastrico tende a scendere e seguire le vie di deflusso,
localizzandosi in fossa iliaca destra dove irrita la sierosa peritoneale, questo è apprezzabile dopo
due-tre ore, cioè quando il paziente spesso perviene all’attenzione medica. Questo non è un
dubbio banale, perché l’approccio chirurgico varia enormemente in ragione delle ovvie
considerazioni topografiche. Per questo va richiesto un esame radiodiagnostico: Rx in ortostasi, e
tagliamo la testa al toro.)
ECOENDOSCOPIA

Un ulteriore mezzo diagnostico è l’ecoendoscopia, una metodica diagnostica di recente


introduzione.
Si tratta di un endoscopio alla cui sommità è posizionata una sonda ecografica, che ci fornisce un
quadro alquanto completo della situazione. L’ecografia dell’addome è infatti spesso poco prodiga
di informazioni, poiché la presenza di gas e adipe favoriscono una scarsa penetrabilità degli echi,
rendendo la visualizzazione l’organo pancreatico difficoltosa. Questa metodica consente di
superare i limiti dell’ultrasonografia classica, poiché posizionando la sonda a livello dello stomaco,
in direzione del pancreas, questa si troverà in diretta contiguità con quest’ultimo - mediante la
sola interposizione della parete gastrica, dei foglietti peritoneali e della capsula. Questo esame
consente la valutazione chiara delle strutture, specialmente dei linfonodi peripancreatici, che in
concomitanza con una neoplasia possono risultare ingrossati. Sono dati indispensabili per ottenere
un quadro diagnostico preciso.
PTC – COLANGIOGRAFIA PERCUTANEA TRANS-EPATICA

A volte, soprattutto nei pazienti fortemente itterici, si ha la necessità di risolvere in fretta la


situazione in ragione di talune complicanze sistemiche che si verificano in corso di ittero grave (si
parla di valori di bilirubina superiori ai 15 mg/dl, con riduzione della funzionalità renale,
alterazione del sistema della coagulazione, etc.) In tal senso, l’ERCP è fondamentale poiché
consente, mediante l’inserimento di un sondino di drenaggio che stabilisca una comunicazione tra
le vie biliari e l’esterno passando per le vie digerenti, la rinofaringe e le fosse nasali, di stabilizzare
la situazione (risolvere l’ittero) in attesa di un secondo intervento chirurgico. Si parla di un
trattamento “ponte.”
Tuttavia, la pratica clinica ci spinge ad ulteriori considerazioni. Si ponga il caso di un paziente che
necessiti di un trattamento che non può essere curativo, ma unicamente palliativo (volto alla
risoluzione del sintomo); è il caso di un tumore delle vie biliari, un tumore della papilla duodenale,
un tumore della testa del pancreas, un tumore del duodeno (che si manifesta in sede tipicamente
periampollare) e altri tumori periampollari. In questi pazienti si procede al posizionamento di
un’endoprotesi che mantenga la pervietà delle vie biliari.
Quando invece la situazione neoplastica o a volte infiammatoria crei una inaccessibilità a livello
della papilla (spesso in corso di ERCP ci si accorge che possibile drenare la bile con questa
metodica), c’è la possibilità di ricorrere alla colangiografia percutanea trans-epatica.
ESECUZIONE
• Si pratica un’anestesia locale a livello dell’ipocondrio destro;
• Con una sonda ecografica si scandaglia il parenchima epatico, ricercando la dilatazione
delle vie biliari, sia intraepatiche che extraepatiche. Si tratta di un presupposto
fondamentale per l’esecuzione di questa tecnica, poiché essa prevede il passaggio di un
ago molto sottile attraverso la cute, raggiungendo così il parenchima epatico a livello dei
dotti biliari;
• Si inietta un po’ di mdc e si valuta l’andamento di questo: se scompare immediatamente si
è finiti in un vaso arterioso, per cui bisogna uscire e rientrare, cercando di incanulare un
dotto biliare. Ecco perché devono bisogna accertarsi che i dotti siano dilatati, altrimenti si
rischia di giocare alla pesca magica;
• Trovato un vaso biliare, si inietta il m.d.c., che colora tutto l’albero, in quanto non può
defluire agevolmente a causa dell’ostruzione;
• A questo punto si cerca di raggiungere il dotto biliare principale e si rimuove la guida
inserendo un catetere per il drenaggio biliare all’esterno. Ovviamente, questa indagine è
più invasiva dell’ERCP e sottostà a maggiore possibilità di complicanze, si rende tuttavia
necessaria in situazioni spinose.
In pazienti terminali, questa soluzione può essere definitiva, con cateteri permanenti.
Alcuni autori ritengono che la PTC sia un intervento migliore rispetto all’ERCP nei pazienti che
richiedano una prima stabilizzazione, per una serie di ragioni. Ad esempio, qualora si posizioni una
endoprotesi per la risoluzione dell’ostruzione, la comunicazione che viene creata dall’ERCP con
l’apparato digerente a causa della sfinterotomia espone a problematiche infettive non indifferenti.
Con la PTC questa possibile complicanza viene elusa più facilmente.

EPIDEMIOLOGIA TUMORE DEL PANCREAS


Nonostante tutte queste possibilità diagnostiche, quando le utilizziamo arriviamo spesso troppo
tardi.
Il cancro del pancreas è una patologia seria, una di quelle eterne sconfitte dei medici, assieme ad
altre due o tre neoplasie molto aggressive e con scarsissima sopravvivenza. Il prof ha fatto la tesi di
specializzazione sulla sopravvivenza a lungo termine dei pazienti sottosposti a determinati
interventi chirurgici, rilevando che la mediana di sopravvivenza (il punto di mezzo in una serie di
campioni) nei pazienti non operabili era di 120 giorni. Questo all’inizio degli anni 90, oggi a
trent’anni di distanza la situazione non è migliorata di molto.
È un tumore la cui prevalenza è in aumento, sicuramente più frequente nel maschio.
La correlazione con il fumo non è lineare come avviene per il polmone, ma comunque molto
rilevante.
Una bufala: su una rivista importante una serie di autori pubblicarono che uno studio nel quale il
caffè veniva associato al rischio di cancro, provocando ripercussioni socio-economiche importanti
(consumo di caffè, mercato delle piantagioni, il terzo settore etc.), quindi per un certo periodo si
creò il panico totale. Alla fine, qualcuno si è preso la briga di cercare il bias, l’errore in fase di
impostazione dello studio che ne pregiudicava le conclusioni. Gli autori avevano infatti preso da un
lato i pazienti con cancro, valutandone le abitudini voluttuarie (tra cui consumo di caffè), e
dall’altro reclutato i pazienti controllo non dagli ospedali ma (per una questione di comodità) dai
reparti di gastroenterologia, che non consumavano caffè per ragioni terapeutiche.
Dunque, si invita a leggere sempre con coscienza gli studi, non sono il Vangelo.
De Fazio dice che la letteratura italiana non ha alcun valore, non ha alcun requisito di scientificità.
[CHAD]
Ci sono inoltre una pletora di lavori scientifici che si
contendono l’onere di individuare nel diabete una causa
o una conseguenza della neoplasia, al momento la
questione è da dirimere.
Da un punto di vista dell’anatomia patologica si
descrivono da un lato i tumori benigni, dall’altro i
maligni. Bisogna preoccuparsi dell’adenocarcinoma
pancreatico.
Immagine dello scienziato che capisce
tutto e scova il bias.

Come descritto, la componente neoplastica in realtà è più piccola rispetto al reperto radiologico e
macroscopico, in quanto la prolifica attività infiammatoria peritumorale amplifica le dimensioni
della lesione. Da ricordare l’importante reazione desmoplastica tipica di queste forme tumorali.
Quasi sempre, nel momento in cui si esegua diagnosi di carcinoma del pancreas, nell’80-90% dei
casi c’è già la presenza di metastasi linfonodali, presumendo che queste siano già andate oltre
(sistemiche).
La sintomatologia varia in base alla localizzazione.

Il paziente perde peso perché il tumore è fortemente catabolico e ha un effetto anoressigenico,


ovvero provoca inappetenza nel paziente; inoltre, tende ad occupare spazio a livello del duodeno,
opponendosi al flusso di cibo e provocando nausea e dimagramento.

Il dolore epigastrico è presto spiegato dalla peculiare innervazione della metà inferiore della testa,
che differisce dal resto dell’organo in quanto compete al nervo splancnico di destra.
L’ittero è spesso il sintomo che induce il paziente a rivolgersi al medico. Il segno di Courvoisier-
Terrier è un reperto semeiologico apprezzabile alla palpazione e corrisponde ad una tumefazione
teso-elastica in ipocondrio destro, spiegata dalla abnorme distensione della colecisti. Questo
segno si associa nella maggior parte dei casi alla neoplasia pancreatica, poiché nel caso in cui
l’ittero fosse determinato da calcoli la colecisti sarebbe quasi sempre sclerotica e irrigidita, a
seguito di episodi ripetuti di calcoli e infiammazione, per cui non si dilaterebbe. In quest’ultimo
caso il segno non si apprezzerà: il calcolo è infatti una patologia che spesso si presenta
acutamente, ma nella sua patogenesi contempla un lungo insulto infiammatorio a carico della
colecisti; più semplicemente, le concrezioni calcolotiche permangono a lungo a contatto con i
tessuti della colecisti, senza impegnare il dotto e determinare la classica sintomatologia. Solo nel
momento in cui un calcolo sufficientemente piccolo occluderà i dotti si avrà la sintomatologia.
Proseguendo, il fegato aumenterà di volume, con incremento dell’aia di ottusità epatica.
La steatorrea è invece imputabile ad insufficienza pancreatica.
I tumori della coda o del corpo sono invece caratterizzati da una crescita neoplastica che evolve in
senso tipicamente posteriore, per cui questi pazienti non avvertono segni se non tardivamente,
laddove può manifestarsi con un dolore a cintura esteso alla schiena, refrattario agli antidolorifici,
riferito all’infiltrazione dei gangli celiaci.
DIAGNOSI

L’ERCP non serve per la diagnosi, ma serve principalmente a:


• dosare i marker presenti nel secreto pancreatico (effettando un prelievo diretto);
• risolvere l’ostruzione.
La Rx del tubo digerente è un’indagine di importanza storica, oramai non si usa più.
STADIAZIONE
I linfonodi addominali vengono oggi a tutti gli effetti considerati come metastasi, per cui si
considerano praticamente come M1, nonostante siano N3.

TERAPIA
La terapia chirurgica va distinta in resettiva radicale e palliativa, potendo quest’ultima declinarsi in
una prassi chirurgica o parachirurgica. Il dato mortificante è che la resettiva del pancreas si esegue
a malapena sul 15-20% dei pazienti, tutti gli altri sono destinati al trattamento palliativo. Il
professor Rubino, uno dei padri della chirurgia barese, concludeva sempre le sue lezioni dicendo
“il cancro del pancreas: è meglio non averlo”, a distanza di 35 anni non è cambiato niente.
L’intervento cambia a seconda che il paziente sia affetto da tumori della testa o della coda:
• nel momento in cui il paziente è affetto da un tumore della testa si procederà alla
resezione della “c” duodenale, della testa e della parte finale delle vie biliari, le linee nere
nella slide corrispondono ai punti di resezione, dopo bisogna ricostruire tutto.

In nero le linee corrispondenti ai punti di resezione.

Questo intervento è noto come Duodeno-Cefalo-Pancreasectomia (Procedura di Whipple) e conta


numerosissime varianti. La prima, introdotta dallo stesso chirurgo statunitense, rende la resezione
dello stomaco opzionale, quando venga meno la possibilità di asportare la parte inferiore
dell’organo. Bisogna inoltre sapere che molte altre varianti conservano il piloro e suturano il
digiuno allo stomaco. Al termine della procedura, ci si trova di fronte alla necessità di suturare e
ricostruire il tutto. Le suture dovranno essere almeno tre:
• una a livello della via biliare;
• una tra intestino e stomaco;
• un’altra con il pancreas, per consentire a quest’ultimo di riversare il succo pancreatico
nell’apparato digerente.
Queste derivazioni possono essere fatte sulla medesima ansa o su anse diverse, vi sono diverse
tecniche. Succo pancreatico, via biliare e materiale gastrico si devono rincontrare ad un
determinato livello, al fine di completare il processo digestivo.
L’anastomosi tra pancreas e intestino, tuttavia, è quella che più facilmente si espone a
complicanze post-operatorie. Difatti questo intervento è gravato da una serie impressionante di
complicanze (deiscenze, piccole emorragie, raccolte peripancreatiche) e rappresenta l’intervento
più difficile della chirurgia addominale, se si eccettua il trapianto di fegato. La ricostruzione
consente il ripristino della situazione anatomica.

Laddove si operi invece su un tumore del corpo la difficoltà si riduce notevolmente: il chirurgo si
limita ad asportare la parte del corpo e la coda e l’unica complicanza corrisponde il diabete
iatrogeno post-operatorio, poiché queste regioni ospitano la gran parte delle isole endocrine
deputate alla sintesi di insulina.
Il paziente che subisce una resezione pancreatica è candidato all’assunzione di enzimi pancreatici
per ottimizzare il processo digestivo, questo riguarda generalmente i pazienti con tumore della
testa, in quanto il pancreas residuo in genere è minore.
Quando il paziente viene sottoposto a pancreasectomia distale (asportazione della coda e del
corpo), si asporta sempre la milza, in quanto per ragioni vascolari è impossibile risparmiare
quest’organo.
Questa è una fotografia che mostra come per la notevole estensione del tumore si sia dovuto
asportare tutto l’organo: si tratta di una pancreasectomia totale, un intervento possibile, ma in
questo caso il paziente necessiterà di una sostituzione completa della funzionalità pancreatica, sia
endogena che esogena.
L’80% dei pazienti subisce invece un trattamento palliativo per risolvere pricinpalmente tre
sintomi: ittero, vomito e dolore.
• VOMITO: impedisce l’alimentazione del paziente, va trattato in modo chirurgico o
parachirurgico. Se il duodeno è ostruito, è possibile intervenire anche laparoscopicamente
effettuando una gastro-entero-anastomosi o gastro-entero-stomia. Per via parachirurgica
si interviene posizionando nel duodeno una protesi per via endoscopica; purtuttavia, non
è un’opzione disponibile in tutti i casi poiché spesso la massa neoplastica non ne consente
il posizionamento.
• ITTERO: va risolto per via chirurgica o parachirurgica. Per via chirurgica si effettua una
sutura tra la via biliare e l’ansa intestinale o tra la colecisti e l’ansa, se la colecisti è pervia.
Questo è un intervento non scevro di complicanze e richiede ovviamente l’anestesia
generale. Per via parachirurgica si interviene con l’ERCP, posizionando una protesi.

• DOLORE: spesso non risponde nemmeno a somministrazioni elevate di morfina, per cui
bisogna intervenire o mediante cateterismo spinale (terapia del dolore) o alcolizzando i
gangli celiaci (distruzione mediante la somministrazione di alcol assoluto, neurolitico, via
TC oppure nel contesto dell’intervento chirurgico per alcolizzazione para-aortica).

Se un paziente ha, ad esempio, ittero e vomito, bisogna risolvere entrambi i problemi. Se il


paziente ha solo un sintomo (es. ittero ostruttivo senza nausea), il problema dell’ittero va risolto,
non si riesce a mettere la protesi, la PTC non si può fare in quanto peggiorerebbe troppo la qualità
di vita, quindi si effettua un bypass chirurgico.
Si crea dunque il problema: è bene intervenire in via anticipatoria effettuando un doppio bypass,
al fine di prevenire l’eventuale insorgenza (ad esempio) della nausea quando il tumore sarà
cresciuto?
Bisogna comprendere che l’esecuzione del doppio bypass comporta un raddoppio del rischio di
mortalità intra-operatoria, per cui occorre valutare oculatamente la situazione ad personam, di
paziente in paziente.
Il prof fa l’esempio di una paziente itterica con infiltrazione della vena porta, scoperta in corso di
intervento poiché allora l’ecodoppler non era in uso; quindi, le venne confezionato in ultima
istanza un drenaggio biliare con stomia cutanea. Erano convinti che la paziente avesse
un’aspettativa di vita bassa (pochi giorni), ma alla fine sopravvisse per due anni, pur con una
qualità di vita inficiata dall’inestetismo del sacchetto.
ERNIE
Si definisce ernia la fuoriuscita di un viscere (o di una parte di viscere), rivestito dai suoi tegumenti,
dalla cavità in cui è normalmente contenuto, attraverso un’area di debolezza della parete, o
attraverso un orifizio o un canale naturale
Il fatto che il viscere sia rivestito da tutti i suoi tegumenti è una caratteristica sostanziale in
quanto differenzia l’ernia dal prolasso.

CLASSIFICAZIONE:
1) CONGENITE: arresto di sviluppo di una porzione della parete addominale. Si imputa ad un
difetto di formazione delle pareti addominali, che determinano la fuoriuscite di un viscere
(onfalocele, gastroschisi); in dipendenza dell’età gestazionale in cui si verifica il danno
varierà tanto il quadro clinico tanto la prognosi. Le ernie congenite possono essere evidenti
fin dalla nascita o manifestarsi successivamente, potenzialmente a qualsiasi età;
2) ACQUISITE: aree di debolezza circoscritte della parete addominale, in seguito a sforzi che
aumentano la pressione endoaddominale.

In accordo con questa classificazione, si individuano due tipi di cause:


• CAUSE PREDISPONENTI: malformazioni congenite (pervietà dotto peritoneo-vaginale),
gravidanza,debolezza parete muscolare, dimagramento.
• CAUSE DETERMINANTI: sforzi e traumi

Queste sono delle immagini che rendono ragione della pluralità di manifestazioni riconducibili al
concetto di ernia:
• a sinistra onfalocele;
• a destra due ernie inguinali;
• in basso ernia inguino-scrotale permagna, si può immaginare che l’organo erniato sia il
sigma data la localizzazione a sinistra, ma probabilmente c’è anche altro. L’ernia è talmente
imponente da coprire del tutto il pene, presentazione che renderà l’intervento
particolarmente difficile.
Vi sono alcune regioni della parete addominale in cui le ernie si manifestano con massima
frequenza:
• la regione inguinale;
• la regione crurale;
• la regione ombelicale e la linea alba;
• la linea semilunare di Spigelio: è laterale;
• la regione lombare;
• la regione otturatoria.

Anatomia patologica
Gli elementi costitutivi fondamentali di un’ernia
sono:
• la porta
• il sacco, con gli involucri accessori
• il contenuto

Come deducibile da questa slide, l’ernia trascina con sé peritoneo e grasso peritoneale, dunque
non è affatto raro trovarsi di fronte ad un sacco erniario che non contenga visceri, ma solo sierosa
e ammassi cellulo-adiposi.
Bisogna inoltre considerare tutti gli involucri accessori, cute e sottocute, che rivestono il sacco
dall’esterno.
ANATOMIA PATOLOGICA: ELEMENTI DELL’ERNIA

RIDUCIBILE IRRIDUCIBILE

PORTA:orifizio attraverso cui fuoriesce il viscere erniato.I margini sono i Pilastri


SACCO:estroflessione del peritoneo parietale. Riveste il viscere erniato.E’
costituito da:COLLETTO, CORPO, FONDO.
INVOLUCRI:porzioni di tessuto muscolo-aponeurotico, connettivale ed adiposo
sospinti dal sacco e ad esso aderenti
CONTENUTO:visceri erniati.

La riducibilità è definita la capacità di riposizionare l’ernia, di farla regredire.


Si deve visitare il paziente sia in posizione ortostatica che clinostatica.
Le principali complicanze dell’ernia sono rappresentate da:
• Incarceramento: consiste essenzialmente nell’irriducibilità dell’ernia, ma non dà
manifestazione di sé a livello sintomatologico;
• Infiammazione: può essere acuta o cronica, determina l’arrossamento, la tumefazione e la
dolenzia del sacco erniario; questa può essere elicitata da infezioni oppure da traumatismi.
Si deve comprendere che l’erniazione espone l’organo interessato ad una quantità
significativamente maggiore di sollecitazioni meccaniche, che normalmente vengono
smorzate dai tessuti superficiali. Inoltre, l’infiammazione contribuisce a rendere irriducibile
l’ernia grazie all’imbibizione.
• Intasamento: è l’accumulo di contenuto intestinale nelle anse dell’intestino erniato, che
non può progredire nel lume. L’erniazione di un segmento intestinale inficia notevolmente
la normale progressione del contenuto luminale, che si ritrova a dover superare il punto cui
il viscere è erniato, uscire al di fuori della cavità addominale – venendo dunque esposto ad
una pressione differente – e successivamente rientrarvi. Questo fenomeno chiaramente
patologico determina un rallentamento del transito, con conseguente incremento
dell’assorbimento di acqua, disidratazione ed indurimento del contenuto luminale; questo
status espone a fenomeni sub-occlusivi che evolveranno in occlusione;
• Strozzamento: è determinato da improvvisa costrizione del peduncolo del contenuto
erniario a livello della porta, con conseguente grave ostacolo circolatorio a livello del
viscere erniato, che conduce alla gangrena del contenuto in poche ore. Viene dapprima
compromessa la componente venosa, per poi giungere ad una sofferenza vascolare
arteriosa. Il quadro anatomopatologico corrisponde all’infarto rosso.
• Rottura: è rara.

ERNIA INGUINALE
L’anatomia del canale inguinale è piuttosto complessa, bisogna inquadrarla spazialmente.
Anzitutto occorre capire quale percorso compiano queste ernie nel passaggio dalla cavità
addominale alla borsa scrotale. L’ernia inguinale è quasi esclusivamente appannaggio del sesso
maschile, nelle femmine è molto rara, al contrario delle ernie crurali. Il motivo di questa situazione
è presto spiegato dall’embriologia: nel maschio, infatti, le gonadi compiono un percorso di discesa
ben più complesso rispetto ai corrispettivi femminili, facendosi strada nel canale inguinale
attraverso il dotto peritoneo vaginale. Si viene dunque a creare de facto una comunicazione tra la
cavità addominale e la borsa scrotale.
Il canale inguinale maschile è considerato nobile, rispetto a quello femminile, in quanto nel
contesto dell’intervento chirurgico vanno ricercati degli elementi anatomici di grande importanza:
il condotto deferente, l’arteria testicolare, l’arteria deferente, che vanno preservati. Nel canale
femminile c’è il legamento rotondo, che può essere tranquillamente resecato (anche se lo si fa
raramente), senza grandi conseguenze.

Il canale inguinale va immaginato come una galleria, è lungo circa 5 cm, si porta in senso postero-
anteriore, latero-mediale, supero-inferiore. Presenta 4 PARETI:
- parete inferiore: LIG. INGUINALE (ispessimento inferiore dell’aponevrosi del m. obliquo
esterno)
- Parete superiore: margine inferiore dei mm. Obliquo interno e trasverso (medialmente si
uniscono nel tendine congiunto)
- Parete anteriore: aponevrosi del m. obliquo esterno
- Parete posteriore: Fascia Trasversalis. (Tale fascia medialmente è rinforzata dal tendine
congiunto e dal ligamento di Colle, lateralmente è rinforzata dal ligamento interfoveolare
di Hasselbach. La parte più debole è a livello intermedio.

Spazialmente origina dalla spina iliaca anteriore superiore, che rappresenta l’estremo laterale,
dirigendosi in maniera obliqua e medialmente verso il tubercolo del pube, che è situato in
corrispondenza del margine laterale della radice del pene nel maschio e del margine laterale delle
grandi labbra nella donna; questa linea immaginaria rappresenta la proiezione del canale
inguinale.
Descrivendo la parete addominale, in senso antero-posteriore si incontrano:
• Cute
• Sottocutaneo
• aponevrosi del m. obliquo esterno
• m. obliquo interno
• m. trasverso
• Fascia Trasversalis

L’immagine usata dal professore nella slide, ovviamente, si riferisce ad un inquadramento postero-anteriore della parete.
Quando si andrà ad incidere questa linea immaginaria il chirurgo si troverà di fronte anzitutto alla
parete anteriore del canale, dopo cute e sottocute segue l’aponeurosi del muscolo obliquo
esterno, dopodiché affiora il contenuto: il funicolo spermatico (dotto deferente, arteria
deferenziale, spermatica, grasso e muscolo che avvolgono il peduncolo) e successivamente la
fascia trasversale.
Durante un normale esame obiettivo, solo l’orifizio esterno del canale è palpabile. Lo si può
raggiungere con il dito e normalmente appare chiuso, sigillato.
Nel momento in cui sia presente un’erniazione, si assiste ad uno slargamento del canale, per cui il
dito può attraversare l’orifizio sfiancato e penetrarne il lume, riuscendo eventualmente ad
avvertire (chiedendo al paziente di fare un colpo di tosse) il movimento viscerale dell’ernia.

Nell’anatomia della parete addominale, l’elemento costituzionale più importante di tutti è


rappresentato dal peritoneo parietale, che aderisce perfettamente alle pareti osteo-muscolari
dell’addome. Tuttavia, quest’ultime non sono perfettamente uniformi e presentano salienze che
impediscono una perfetta aderenza della sierosa, venendo dunque a configurare zone di
fisiologica debolezza: i cosiddetti loci minoris resistentiae.
Si descriveranno dunque tre pliche, che delimitano altrettante fossette:
• Plica laterale: dei vasi epigastrici inferiori;
• Plica media: del residuo dell’arteria ombelicale;
• Plica mediale: del residuo dell’uraco.
Apprezzata la presenza di queste pliche, si osservi come queste, nel naturale passaggio dalla
verticalità della cavità addominale alla trasversalità che contraddistingue il pavimento pelvico, si
introflettano a formare delle fossette, che rappresentano zone di fisiologica debolezza.
Le tre fossette sono:
• Fossetta inguinale esterna: lateralmente alla plica dei vasi epigastrici inferiori. Corrisponde
all’ ANELLO INGUINALE INTERNO. Quando il sacco erniario entra da tale anello è Ernia
Inguinale OBLIQUA ESTERNA.
• Fossetta inguinale media: tra la plica laterale e la plica media. Ivi originano le Ernie Inguinali
DIRETTE.
• Fossetta Inguinale Interna: tra la plica media e la plica mediale. Offre passaggio alle Ernie
Inguinali OBLIQUE INTERNE (rare perché è rinforzata dal tendine congiunto).

Tra le tre, la più forte di tutte è l’inguinale interna, poiché rinforzata dal tendine congiunto.
Attraverso le fossette i visceri possono incunearsi e dare origine all’ernia.
A seconda della regione in cui l’ernia si fa strada si descriveranno tre tipi di ernie diverse:
• Oblique esterne: si fanno strada attraverso la fossetta inguinale esterna
• Dirette: si fanno strada attraverso la fossetta inguinale media
• Oblique interne: si fanno strada attraverso la fossetta inguinale interna

Nel caso dell’ernia diretta il viscere non entra mai nel lume del canale, bensì preme contro il suo
pavimento del canale dall’interno, sollevandolo e generando una tumefazione, un bozzo che
diviene apprezzabile all’esterno; l’organo può raggiungere la borsa scrotale, ma non passando
attraverso il lume del canale, bensì sfiancandone le pareti e giungendovi tramite l’interposizione di
questo. Infatti, durante l’intervento chirurgico il sacco non si troverà all’interno del canale e non
andrà isolato e poi spinto, facendolo rientrare attraverso il lume del canale stesso e il suo orifizio
interno (come accade per l’ernia obliqua esterna), ma semplicemente si dovrà spingere attraverso
la parete del canale. La medesima situazione si presenta per l’ernia obliqua interna, in cui però il
sacco non va mai aperto. Difatti, alle volte, nel caso in cui spingendo il sacco erniario questo non
ritorni in posizione, si è tentati di aprirlo per ridurlo dall’interno. Tuttavia, questo non va mai fatto
nel caso di un’ernia interna, in quanto c’è il rischio che nel sacco sia erniata la vescica, con
conseguente rischio di trauma urologico, rischiando di dover immobilizzare il paziente per giorni
con il catetere [“è un casino!”]
L’ernia si estende progressivamente, determinando un costante logorio a carico dei tessuti che
impegna, con conseguente sfiancamento e progressione del danno.
Nel caso delle ernie inguinali oblique esterne, in base all’estensione dell’ernia si può distinguere:
• punta d’ernia: quando il sacco occupa appena l’orifizio inguinale interno, non è
valutabile clinicamente, non si apprezza neanche con il colpo di tosse; si può
identificare unicamente con indagini strumentali;
• ernia interstiziale: il sacco discende fino ad impegnare il canale inguinale, si
apprezza facendo tossire il paziente;
• bubbonocele: il sacco attraversa completamente il canale inguinale e sporge nel
tessuto sottocutaneo fuoriuscendo dall’orifizio inguinale esterno, è clinicamente
manifesta e apprezzabile anche senza colpo di tosse;
• ernia inguino-scrotale: il sacco discende fino dentro allo scroto

Un quadro di presentazione alternativo è rappresentato dalla cosiddetta ernia a pantalone:


un’ernia OE omolaterale si fa strada nel canale, mentre un’ernia diretta sfonda il pavimento verso
il basso, creando una duplice via, a pantalone. Queste due ernie possono avere diversa entità (più
grande la diretta e più piccola l’oe, e viceversa). Molte volte i chirurghi sono convinti di aver risolto
il problema trattando l’ernia diretta, e invece sussiste contemporaneamente anche un’ernia oe,
per cui è sempre bene esplorare il canale inguinale in tutta la sua lunghezza e isolarne gli elementi
per sincerarsi che non vi siano altre lesioni. Per cui, quando si approccia un’ernia diretta occorre
sempre ipotizzare la coesistenza di una oe, per evitare una recidiva post-operatoria. Il contrario
non capita mai, perché in genere quando si tratta la oe si riposiziona anche il pavimento; quindi,
un’eventuale ernia diretta verrebbe riconosciuta e risolta.

Le oi sono rarissime, conviene sempre riposizionare in cavità l’ernia senza inciderla.


Ci sono le ernie congenite anche, che non sono in programma ma spesso si trovano.

SINTOMATOLOGIA
Il sintomo prevalente dell’ernia è la tumefazione, eventualmente accompagnata dal senso di peso
o di stiramento nella regione interessata, senza dolore. Se non si sono manifestate complicanze e
il paziente riferisce dolore, bisognerà ricercare una causa estranea all’ernia.
Il senso di peso e dolenzia succitati tendono ad irradiarsi al testicolo omolaterale, a causa dello
stiramento degli elementi nervosi del canale, che compare specificamente dopo un periodo in
ortostasi; se il paziente si stende, il dolore regredisce perché gli organi erniati allentano la loro
pressione.
Talora l’ernia può essere completamente asintomatica e rimane ridotta in cavo addominale,
fuoriuscendo solo in seguito a sforzi che aumentano la pressione endoaddominale.

DIAGNOSI
La diagnosi è clinica e si avvale di un esame obiettivo condotto sia in ortostasi che in clinostasi, al
fine di evidenziare la tumefazione. Può accadere che in un paziente la diagnosi non sia
particolarmente agevole e occorra porre l’ernia in differenziale con l’idrocele; in questi casi si
procede ad effettuare la transilluminazione della borsa scrotale.
Punti cardine dell’esame obiettivo:
• Ispezione e palpazione (anche facendo tossire) in ortostasi e in decubito supino;
• Transilluminazione (è opaca è DD con idrocele);
• Riducibilità (manovra di riduzione per taxis, si tratta di una procedura non chirurgica che si
effettua manualmente).
N.B. Il dito esploratore si infila a livello dell’orifizio inguinale esterno sospingendo la cute
dell’emiscroto.

La riducibilità si può valutare posizionando il paziente in posizione supina e verificando la riduzione


della tumefazione.
Dunque, ricapitolando:
• Anamnesi
• Esame obiettivo: tumefazione della parete dell’addome, di forma variabile ma
tendenzialmente rotondeggiante, di dimensioni variabili, con limiti che sfumano nel
tessuto sottocutaneo, ricoperta dalla cute. Importante valutare le modificazioni della
tumefazione alle variazioni della pressione endoaddominale
• Diagnosi differenziale:
Ø Varicocele: rappresenta una diagnosi differenziale di grande interesse, in quanto
presenta alcuni aspetti di presentazione comuni con l’ernia. Ad esempio, nel
passaggio dalla posizione ortostatica alla clinostatica, in entrambi i casi la
tumefazione si riduce (nel caso del varicocele a causa della riduzione della pressione
venosa). In questo caso, per dirimere la diagnosi, bisogna chiedere al paziente di
rimettersi in posizione ortostatica; a questo punto, solo guardando il paziente si può
fare la diagnosi: nel caso dell’ernia, questa per comparire dovrà ripercorrere il punto
di debolezza e comparirà dall’alto verso il basso, mentre il varicocele è frutto del
ristagno venoso, che comparirà quindi dal basso verso l’alto (come una bottiglia che
si riempie);
Ø Idrocele;
Ø Testicolo ritenuto: la differenziale con il testicolo ritenuto è rara, poiché tale
condizione viene in genere già riscontrata dal pediatra, e si rivolge soprattutto a
pazienti stranieri, provenienti da nazioni con scarso indice di sviluppo umano;
Ø Neoplasie testicolari;
Ø Linfoadenopatia inguinale: vi sono una serie di casi di linfonodi inguinali infiammati
difficilmente discernibili dall’ernia, può sembrare banale ma non lo è.

La linea di Malgaigne è un punto di repere immaginario teso tra spina iliaca anteriore superiore e
tubercolo pubico.
Come mostrato dall’immagine, introflettendo la borsa scrotale il dito arriva al massimo all’anello
inguinale esterno; se la punta dell’indice lo oltrepassa, si è di fronte ad un anello sfiancato, quindi
alla presenza di ernia. Se questa non si palpa direttamente, significa che è ancora all’inizio del
percorso, per cui si chiede al paziente di fare un colpo di tosse per avvertire lo spostamento della
massa.

REGIONE INGUINALE ED ERNIA INGUINALI

Margine lat. muscolo retto

OMBELICO
i c SIAS

Linea di Malgaigne

SINFISI PUBICA

LEGENDA
• i: ernia inguinale
• sinfisi pubica: dove arriva il dito nella manovra di esplorazione manuale;
• c: ernia crurale
Si può disegnare la linea di Malgaigne con la matita dermografica sul paziente, riproducendo lo
schema illustrato nella slide: se l’ernia compare superiormente, il medico è di fronte ad un’ernia
inguinale, se compare al di sotto l’ernia è crurale. Questo è importante, poiché il trattamento è
significativamente diverso.
L’ecografia aiuta a studiare meglio la situazione.

Il dolore inguinale, spesso attribuito all’ernia, va in realtà posto in differenziale con altre
problematiche di carattere ortopedico o internistico. Ad esempio, una manovra che consente
spesso di tagliare la testa al toro è la palpazione del tubercolo pubico: si chiede al paziente di
stendersi e si palpa con forza il tubercolo pubico controlaterale alla regione in cui viene avvertito il
dolore. Il paziente non dovrebbe avere alcun tipo di reazione. A questo punto, si ripete la stessa
operazione sul tubercolo omolaterale e il paziente salta: si tratta di un caso di pubalgia, trattabile
con una terapia antinfiammatoria o fisioterapica.
COMPLICANZE
• INCARCERAMENTO: irriducibilità per aderenze tra sacco, contenuto e porta. Si ricorda che
questa complicanza è del tutto asintomatica;
• STROZZAMENTO: da compressione del peduncolo vascolare, con evoluzione verso la
gangrena;
• INFIAMMAZIONE: da infezione o trauma (esempio del cinto erniario);
• INTASAMENTO: causa di subocclusione o occlusione.
Lo strozzamento va trattato d’urgenza, per ovvie ragioni. L’infiammazione si può trattare anche
solo con antinfiammatori. Esiste un dispositivo medico, il cosiddetto cinto erniario, che alcuni
pazienti, spaventati dall’intervento chirurgico, adoperano nella speranza di trattare l’ernia.
Tuttavia, questo cinto altro non fa che irritare la regione inguinale, portando ad infiammazione
dell’ernia e peggiorando la situazione.

Il cedimento delle strutture aponeurotiche e muscolari non può essere trattato senza chirurgia.
Terapia
• “Medica”:
applicazione del cinto erniario
• Chirurgica:
plastica della parete

L’obiettivo della terapia è quello di riparare il difetto anatomico che si è verificato. Attualmente, il
trattamento è stato totalmente modificato rispetto a quello di venti trent’anni fa. In passato, per
oltre un secolo, si effettuavano delle plastiche inventate alla fine dell’800, che adoperando i
muscoli stessi del paziente (Bassini, Mugnai Ferrari, Shouldice etc.), costruivano una barriera che
rinforzasse il canale inguinale.
La terapia può dunque essere;
• Conservativa: attesa, cinto erniario [“non serve a nulla”];
• Radicale: chirurgica:
- Plastiche della parete (Bassini, Mugnai Ferrari, Shouldice);
- Alloplastiche (uso di protesi in prolene, a rete): Trabucco, Liechtenstein.
Il principio della terapia chirurgica è quello di rinforzare la parete posteriore del canale inguinale e
di realizzare un anello inguinale interno continente.

Si apre il sottocute, poi la parete anteriore del canale e si isola il funicolo. Dopodiché, si rimette il
sacco in addome e successivamente si rinforza il canale utilizzando i muscoli trasverso dell’addome
e obliquo interno, suturandoli al legamento inguinale. L’intervento era brillante e nel secolo scorso
veniva effettuato anche a domicilio. Il problema era che questi pazienti soffrivano spesso di
recidive, per circa il 15-20% (secondo alcuni studi addirittura 30%), percentuali altissime.
Le complicanze non erano imputabili alla negligenza del chirurgo, ma legato al fatto che nel
confezionamento della plastica si usavano due strutture giacenti su piani anatomici diversi (nel
senso della profondità), quindi nel momento in cui queste si suturavano (unendole) al legamento,
erano sottoposte a linee di forza e resistenza diverse, si creavano così nuovi punti di debolezza che
esponevano a nuove erniazioni. A quel punto, non vi erano soluzioni per ovviare al problema.
Inoltre, quando la plastica di Bassini veniva svolta a domicilio, un punto di sutura messo “alla
cieca” poteva anche determinare sanguinamenti per lesione delle arterie epigastriche, con morte
a distanza di tempo per emorragie che spesso restavano misconosciute.
ERNIOPLASTICA SECONDO
TRABUCCO (con rete in polipropilene)

PLUG (tappo): Anello RETE in prolene


Inguinale Interno
L’ernioplastica secondo Trabucco rappresenta una soluzione a questo problema. Fu introdotta
quando le aziende farmaceutiche riuscirono a produrre delle protesi retiformi totalmente sicure
per il paziente.
In questo caso, ci si affida al posizionamento di protesi, reti, in polipropilene, modellate (o pre-
sagomate) sulla regione inguinale del paziente, in modo tale da sostenerlo. Si può inserire anche
un plug (tappo) nell’orifizio inguinale esterno, obliterandolo e impedendo all’ernia di riformarsi.
Questa è la prima fase del trattamento: il supporto. La seconda fase (che determina il successo
dell’operazione e la guarigione) è la reazione del paziente. Difatti, l’organismo riconosce la protesi
come corpo estraneo e dà adito ad una reazione fibrosa che circoscrive il dispositivo esogeno,
embricandosi a livello delle sue maglie e conferendo maggiore resistenza alla regione anatomica.

L’intervento più frequentemente adoperato oggi è una Trabucco modificata: la rete viene
posizionata sul pavimento, in modo tale da ottenere il trattamento più solido possibile (e trattare
eventuali altre ernie indirette). Se l’ernia diretta è piuttosto voluminosa, si applicano dei punti per
appianare il pavimento, introflettendolo, e si applica la rete.
Ciò che si apprezza in questa immagine, poggiato sulla fettuccia azzurra, è il funicolo spermatico,
che va a terminare nell’orifizio inguinale profondo. A seconda dei casi, il chirurgo può decidere di
inserire nell’orifizio interno un plug, risolvendo così l’ernia inguinale obliqua esterna, procedura
richiede l’isolamento del funicolo, ovviamente. I punti neri che si vedono in figura sono relativi
all’apertura del funicolo, che è rivestito dal muscolo cremastere; questo viene completamente
dissociato e aperto per isolare e riconoscere i componenti dell’organo. Il plug viene poi fissato alla
rete in propilene. In alternativa, si può utilizzare solo la rete, la quale è munita di due codette che
vanno dietro il funicolo, fissandosi proprio in corrispondenza dell’anello inguinale profondo, senza
necessità di doverlo obliterare con il plug (questo si fa quando l’orifizio non è molto sfiancato).
Si è visto che questo trattamento in generale ha la stessa percentuale di successo della procedura
eseguita con il plug. Quest’ultimo, infatti, pur essendo fissato corre il rischio di dislocarsi e,
accidentalmente, può finire nel cavo peritoneale dando adito a complicanze quali fistole o
aderenze. Dunque, è preferibile considerare l’uso del plug solo nei casi di grave sfiancamento
dell’orifizio interno.
Alle volte - nei casi particolarmente gravi - si cerca di avvicinare i muscoli della parte addominali, a
mo’ di plastica Bassini, in modo da rinforzare la contenzione della protesi.

COMPLICANZE DELL’USO DI PROTESI

• INFEZIONE: va somministrata una terapia antibiotico profilattica, poiché è stato introdotto


un corpo estraneo ed occorre prevenire una possibile sovra infezione; quest’ultima
sarebbe molto difficile da trattare, poiché la protesi viene circondata da tessuti fibrosi
reattivi, scarsamente vascolarizzati, che non possono convogliare efficacemente una
qualsivoglia terapia. Nei casi gravi si è costretti a rimuovere la rete, che non potrà essere
sostituita se non dopo la completa remissione della noxa patogena, esponendo il paziente
a rischio di recidive;
• REAZIONE INFIAMMATORIA E SIEROMI: la rete crea una reazione infiammatoria
importante, che potrebbe portare alla formazione di sieromi, che consistono in un
accumulo di liquido tra le maglie della protesi.
Questi aumentano l’entità dell’edema post-operatorio, la tumefazione, e la conseguente
dolenzia del paziente. Si ha la tentazione di aspirare il liquido con una siringa nel sottocute,
ma questa manovra potrebbe condurre all’ infezione di queste cavità neoformate, anche in
presenza di una antisepsi ottimale. I sieromi in genere non vengono rimossi e ci si limita a
trattare il paziente con antinfiammatorio, poiché è preferibile questa complicanza
all’infezione.
• LESIONI NERVOSE: dopo aver aperto la fascia dell’obliquo esterno è necessario riconoscere
due strutture nervose: l’ileo-inguinale e il genito-femorale, che partono dalla spina iliaca
superiore e si dirigono verso la borsa scrotale, questi vanno isolati per evitare di lederli o
intrappolarli nella rete/nei punti, dando origine ad una sintomatologia algogena
importante che altera significativamente la qualità di vita.
I pazienti con questa complicanza sono difficilissimi da trattare, è la problematica più
temibile a lungo termine, diversa dalla complicanza dovuta ai sieromi, che coinvolge il
paziente nelle prime 24-48 ore. Spesso il problema non si risolve neanche togliendo la rete,
poiché oramai il nervo è danneggiato.

L’alloplastica si può effettuare anche in day surgery, mentre nei casi di ernia più complessi o nei
pazienti anziani bisogna richiedere l’ospedalizzazione. Inoltre, si preferisce ricorrere all’anestesia
generale, che consente una migliore gestione del paziente.
A tal proposito, il professore è solito posizionare il catetere urinario in tutti i pazienti, poiché
l’utilizzo di farmaci anestetici provoca il blocco della funzione minzionale. È noto che le fibre che
smaltiscono prima l’anestetico siano quelle sensitive, per cui il paziente, dopo 6-8-12 ore avvertirà
prima una sensazione di dolore legato alla ritenzione di urina nella vescica, e successivamente sarà
in grado di mingere. Questo dolore, tuttavia, deve essere differenziato dal dolore post-operatorio,
per cui il catetere consente di dirimere la questione poiché esclude l’eventualità del globo
vescicale. Questo evita di somministrare al paziente un antidolorifico, imputandolo al dolore post-
operatorio, per poi aggravare la ritenzione urinaria. Dopo qualche ora, il catetere viene sfilato e il
paziente può riprendere ad urinare tranquillamente.
L’eventuale rischio di infezioni urinarie correlate al catetere è molto basso, dato che si inserisce in
un ambiente sterile (sala operatoria) e il paziente fa comunque la terapia antibiotica profilattica
per prevenire l’infezione della rete.

Oggi esistono reti con auto-grip che si ancorano ai tessuti senza necessità di fissarle con una
sutura.
È importante che l’industria continui nel tempo a introdurre reti a maglie sempre più larghe, pur
essendo resistenti. I buchi larghi servono all’organizzazione dei tralci connettivali e ad evitare
l’accumulo di piccole quantità di sangue o tessuto necrotico che favorirebbero fenomeni infettivi.

ERNIE CRURALI
Le ernie crurali colpiscono quasi esclusivamente le donne in età adulta (debolezza, gravidanze
etc.). Sono in genere molto piccole, poiché la regione anatomica interessata dall’erniazione è di
modeste dimensioni e favorisce una strozzatura precoce che si manifesta con dolore intensissimo.
L’area di debolezza è rappresentata dal CANALE CRURALE, delimitato:
Ø superiormente dal legamento inguinale;
Ø inferiormente dal muscolo pettineo e dal legamento di Cooper;
Ø medialmente dal legamento lacunare di Gimbernat;
Ø lateralmente dalla vena femorale

Le crurali venivano curiosamente appellate come “ernie della morte”, poiché l’intervento di
riparazione – eseguito in regime domiciliare nella più parte dei casi – si complicava con la lesione
della vena femorale o addirittura dell’arteria, con conseguente shock emorragico.
Clinicamente si manifestano con una tumefazione posta lateralmente al canale inguinale.

REGIONE INGUINALE ED ERNIA INGUINALI

Margine lat. muscolo retto

OMBELICO
i c SIAS

Linea di Malgaigne

SINFISI PUBICA

Oggi il problema si risolve in maniera semplice, in quanto si opera direttamente sopra l’ernia,
aprendola e apponendovi un piccolo punto.
Non è infrequente ritrovare nel canale inguinale noduli di endometriosi, che amplificano
esponenzialmente la sensibilità dolorosa; in questo caso, il dolore si manifesta ciclicamente.
Queste lesioni vanno ovviamente asportate per condurre un esame istologico.

ERNIE OMBELICALI
Si distinguono quattro varietà di ernie ombelicali:
• embrionale (o onfalocele): aplasia della parete addominale per arresto di sviluppo
e assente il peritoneo parietale;
• fetale: ampio difetto della parete anteriore dell’addome presente alla nascita. Il
rivestimento dei visceri erniati è rappresentato solo dal peritoneo e non dalla cute;
• neonatale: si manifesta entro pochi giorni o poche settimane dalla caduta del
moncone ombelicale. È ricoperta da cute;
• dell’adulto.

Questa classificazione inquadra le ernie dalla più facile da


diagnosticare alla più complessa. La fetale si manifesta dopo 1-2
mesi di vita, quando dovrebbe esserci la retrazione dell’ombelico
dopo la caduta del cordone ombelicale, purtroppo sopraggiunge
un’onfalite che è una vera e propria infiammazione del cordone, che
andrà trattata.

Nell’adulto compare molto frequentemente in pazienti con addome


voluminoso o sottoposti a continuo sforzo addominale (sportivi).

ALTRI TIPI DI ERNIE

• Ernie epigastriche
• Ernia di Spigelio
• Ernie lombari (a livello del triangolo di Petit e del quadrilatero di Grynfeltt)
• Ernie otturatorie

Si diagnosticano con minor frequenza.

Si ricorda che il triangolo di Petit corrisponde al cosidetto triangolo lombare inferiore, delimitato:
• Nel suo margine inferiore dalla cresta iliaca;
• Medialmente dal bordo anteriore del gran dorsale;
• Lateralmente dal bordo posteriore del muscolo obliquo esterno.
Il quadrilatero (secondo alcuni autori definito anche come pentagono) di Grynfeltt-Lesshaft è
anche detto triangolo lombare superiore e si descrive con i seguenti limiti anatomici:
• Il margine mediale formato dal muscolo quadrato dei lombi;
• Il margine laterale dal bordo posteriore del muscolo obliquo interno;
• Superiormente è limitato dalla dodicesima costa.

TRATTAMENTO IN URGENZA DELLE ERNIE

Il trattamento in urgenza delle ernie fa riferimento alla complicanza di strozzamento, la quale può
palesarsi in tutte i casi di dislocazione dei visceri addominali, non solo nella regione inguinale.
Il quadro clinico corrisponde ad importante addome acuto, dolore intensissimo, respiro
superficiale e cute arrossata.
L’urgenza sconvolge il quadro del normale intervento, complicandolo notevolmente, modifica la
storia della patologia e del paziente stesso.
Spesso nel momento in cui il paziente arriva in sala operatoria è trascorso già parecchio tempo,
per cui quando si incide il sacco erniario e si libera l’ansa ci si trova di fronte a diverse situazioni,
difficili da gestire.
L’ansa potrà apparire più o meno compromessa:
• Edematosa: se si ha la fortuna di fare l’intervento nelle primissime ore;
• Cianotica: a tre 3-4 ore dall’insorgenza della complicanza; l’ansa in questo caso va
riscaldata con soluzione fisiologica calda, palpata per verificarne la vitalità e riposizionata in
cavità addominale.
• Francamente compromessa: di colore grigiastro e che non partecipa alla peristalsi, vanno
sottoposte a scrupoloso management.
Si parla di interventi che raramente vengono performati su pazienti sani, difatti nella maggior
parte dei casi il chirurgo si ritrova a dover gestire casi complessi affetti da più comorbilità: BPCO,
diabete, cardiopatia, insufficienza vascolare, tachiaritmia etc. che ovviamente aumentano il rischio
di qualsivoglia procedura.
Di fronte ad un’ansa francamente compromessa si hanno due possibilità:
• La prima è avere la ragionevole certezza che quell’ansa possa riprendersi dalla
compromissione, per cui si decide di lasciarla, riducendo l’ernia senza asportazione;
• In altri casi, si giudica la necrosi irreversibile e si procede a resezione ed anastomosi.

Ci si ritrova ad esempio a fare una resezione in un paziente che sicuramente non avrà svolto il
processo di preparazione con clisteri e purganti osmotici richiesto dall’intervento; inoltre, il
paziente non è sicuramente stabilizzato, perché è in urgenza e non si ha tempo di farlo. Occorre
dunque tenere ben in considerazione che l’anastomosi è fonte di rischio addizionale, specie in
pazienti complessi.

Se il chirurgo pensa che l’ansa possa riprendersi con ragionevole certezza, bisogna sempre
escludere la resezione, poiché la susseguente anastomosi può complicarsi con deiscenze e fistole
che potranno mettere in pericolo la vita del paziente. [“è meglio sperare sempre che l’ansa si
riprenda.”]

In regime di urgenza spesso si opta per dividere l’intervento classico in due tempi ed inserire la
rete in un secondo momento, in quanto lo strozzamento è gravato da un elevatissimo rischio di
infezione.

LAPAROCELE
Si definisce come la fuoriuscita di visceri addominali attraverso una breccia muscolo-aponeurotica
della parete, in corrispondenza di una precedente incisione chirurgica.
La chirurgia laparoscopica riduce l’insorgenza del laparocele, ma il rischio è ugualmente presente.
Il 2% di frequenza mostrato nelle slide in realtà non vuol dire niente, perché la percentuale di
rischio varia enormemente in dipendenza del reparto e dei fattori di rischio del paziente. I reparti
più a rischio sono quelli che praticano solo chirurgia d’urgenza, chiaramente.

ANEDDOTO: appena entrato in specializzazione, il professore si ritrovò a dover assistere il primario


in un intervento di Miles con un paziente particolare: un ex professore di anatomia della facoltà di
Bari negli anni 40’. L’intervento di Miles esige il posizionamento di una colostomia a fine
intervento, eventualità non tollerata dal paziente, che per tutto il decorso operatorio si mise a
tossire apposta (pesava 100 kg ed era ex fumatore con BPCO) per provocarsi un laparocele. Il
nostro eroe si recò a visitarlo in casa il trentuno dicembre, per una sospetta deiscenza: trovò il
paziente supino che occupava la metà del suo letto, mentre nell’altra giaceva il suo intestino,
completamente erniato. Inoltre, l’addome, così svuotato, aveva perso la sua pressione positiva,
favorendo l’acquattamento del diaframma (pensare anche all’eventuale enfisema) e impedendo al
paziente di respirare. Venne operato d’urgenza. Finirono per il cenone.
Il paziente, che all’epoca dei fatti aveva 83 anni, sopravvisse altri 8 e morì di vecchiaia.

Fattori generali di rischio

• Età, sesso, multiparità;


• Obesità e iponutrizione: è una malattia seria, che aumenta di molto il quoziente di
difficoltà degli interventi e i rischi di complicanze. L’obesità si associa paradossalmente ad
iponutrizione, per cui i tessuti muscolari sono spesso poco trofici e sfiancati.
• Insufficienza respiratoria;
• Malattie dismetaboliche;
• Ipovitaminosi, etilismo, cirrosi, ittero;
• Elezione/urgenza.

Fattori tecnici di rischio

• Uso incongruo di divaricatori: alle volte sono posizionati in maniera impropria, cagionando
lo sfiancamento dei tessuti muscolo fasciali, oppure si adoperano divaricatori autostatici,
che si auto mantengono ma permanendo a lungo o aperti eccessivamente ledono i
muscoli;
• Sezione di strutture nervose e vascolari: il chirurgo può maldestramente recidere strutture
nervose o vascolari che preservano il trofismo muscolare; l’arteria maledetta è
l’epigastrica, che certe volte viene lesionata accidentalmente e per fermare l’emorragia si
richiede l’incisione dei muscoli addominali e la legatura dell’arteria, creando debolezza
importante;
• Contaminazione settica: in sala operatoria ci sono regole che vanno rispettate, bisogna
muoversi con circospezione, non bisogna mai toccare zone sterili che verranno
contaminate e faranno parte dell’intervento; ci sono specializzandi che a volte si girano di
spalle e con il grembiule toccano il carrello, che in questo modo non sarà più sterile,
oppure si pensi agli inevitabili frammenti cutanei e piliferi che cadono durante l’esecuzione
della manovra chirurgica;
• Difetti di tecnica;
• Tipo di sutura utilizzata: si usano materiali sempre più all’avanguardia, gli informatori
scientifici si divertono a proporre tutta una serie di nuovi ritrovati: questi alle volte,
purtroppo, possono rivelarsi delle porcherie. Il professore parla di un filo elastico che
veniva rifilato tempo fa con il vantaggio di non dover fare nodi e ridurre
conseguentemente la reazione infiammatoria, se non fosse che la sutura tendeva a
slargarsi e far passare di tutto e i pazienti tornavano con il laparocele. “Quell’informatore
scientifico lo stanno ancora cercando sepolto da qualche parte nel deserto.” Insistendo su
questo punto, quando si usano i fili riassorbibili occorre far attenzione ai tempi di
riassorbimento, se questo processo si verifica troppo rapidamente la sutura perde di forza;
• Esperienza ed abilità del chirurgo;
• Chirurgia laparoscopica.

[“Ovviamente se il paziente prende 27 kg in poco tempo non è colpa del chirurgo.”]

Nella semeiotica del laparocele, è bene osservare sempre con attenzione il drenaggio del paziente,
poiché può venirvi fuori di tutto: essudato sieroso a seguito del processo infiammatorio indotto
dalla chirurgia, sangue (che compare prima rosso vivo e poi coagula, potendo bloccare il
drenaggio), urine, feci. Alle volte la sacca si riempie d’aria: è segno di deiscenza con perdita
pneumatica dall’intestino, prima o poi fuoriusciranno anche feci. Oppure talora si ritrovano
quantità di liquido importanti (700 ml di drenaggio ad esempio), che possono conseguire ad ascite
o linforrea, specie in interventi in cui viene performata una demolizione estesa dell’addome.
Se si sospetta la presenza delle urine, banalmente si fa uno stick urinario sul liquido di drenaggio
per appurarne la natura.

Non si fa passare mai il drenaggio dalla lesione chirurgica,


poiché questa deve cicatrizzare completamente. Il
drenaggio, inoltre, nel suo passaggio può ledere vasi o
creare zone di minore resistenza.

Clinicamente, ci si trova di fronte a situazioni di piccoli laparoceli o laparoceli molto voluminosi con
problematiche gravi.

La cavità addominale è una cavità chiusa in cui i muscoli sono ancorati alle quattro pareti. In
presenza di una breccia nella cavità addominale (e conseguente diminuzione della pressione intra-
cavitaria), i visceri addominali non vengono più sospinti verso il diaframma e non sono più in grado
di tirare verso il basso il centro frenico. Ciò compromette l’adeguata e congeniale dinamica
respiratoria, la quale viene profondamente mutata. È per questo motivo che quando si parla di
laparocele è necessario andare oltre il concetto stesso di malattia di parete, in quanto trattasi di una
condizione dai connotati sistemici, già a partire dalla ridotta funzionalità respiratoria. Quest’ultima
viene differentemente compromessa a seconda del fatto che il laparocele sia riducibile o
irriducibile.

• LAPAROCELE RIDUCIBILE
In questo contesto, tra il viscere e la breccia non vi sono delle aderenze importanti, di modo che
sia concesso da parte del viscere il suo caratteristico movimento pendolare durante gli atti
respiratori. Si riscontra, poi, un notevole abbassamento della pressione endoaddominale con
assoluta asincronia tra i movimenti toracici e quelli addominali. Trattasi di una situazione
assolutamente sfavorevole alla dinamica respiratoria, con l’insorgenza di un ritmo respiratorio
paradosso. Quindi, sebbene da un punto di vista chirurgico questa condizione sia più facilmente
correggibile, clinicamente è molto preoccupante. Infatti, nel tempo, si può osservare l’instaurarsi di
una vera e propria malattia respiratoria.
Dunque:
§ durante l’inspirazione: il diaframma si abbassa non avendo più appoggi addominali e spinge
i visceri nel sacco;
§ durante l’espirazione: a causa della riduzione della pressione addominale, il diaframma non
va più verso l’alto e i visceri rientrano in addome (parzialmente).

• LAPAROCELE IRRIDUCIBILE
In questo caso, il viscere risulta essere incastrato nella breccia. La cavità addominale viene ampliata
grazie alla presenza della tasca celomatica, la quale si forma all’esterno della cavità addominale e
che contiene i visceri. Le pareti di tale tasca sono completamente aderenti al bordo della cavità
addominale e sono talmente aderenti da rendere il laparocele irriducibile. Scaricandosi su un
volume maggiore, la pressione addominale è, dunque, inferiore. Questa condizione non altera del
tutto il sincronismo col diaframma e, pertanto, il centro frenico riesce ancora ad essere abbassato.
La dinamica respiratoria è, sebbene in misura ridotta, conservata e l’insufficienza respiratoria è
modesta. Tuttavia, da un punto di vista chirurgico la situazione è complessa: infatti è necessario
porre estrema attenzione durante le manovre chirurgiche, in quanto i visceri sono anatomicamente
prossimi alla cute. Quanto più voluminoso è il laparocele, tanto più problematico sarà il decorso
post-operatorio, dato che sussiste una problematica legata allo spazio di ri-collocamento di questi
organi. L’aumento susseguente della pressione addominale si ripercuote dapprima sul diaframma
e, quindi, sulla compliance polmonare. Dopo la correzione chirurgica, pertanto, il diaframma non
dispone dello spazio sufficiente per potersi abbassare. La preparazione pre-operatoria e l’assistenza
post-operatoria giocano un ruolo importante in questi pazienti.
Laparoceli molto voluminosi (oltre i 5 cm) possono determinare anche una malattia circolatoria per
due fattori, quali (1) la stasi venosa sistemica per l’insufficienza della pompa diaframmatica e (2)
la stasi splancnica per diminuzione della pressione addominale. Debilitato nelle sue escursioni, il
diaframma non è più in grado di favorire il deflusso venoso. Complessivamente, la stasi a livello dei
visceri addominali determina l’aumento del volume dei visceri stessi, i quali occupano il volume
lasciato libero dai visceri contenuti nella tasca celomatica. Questa condizione di ristagno venoso
indubbiamente esporrà il paziente ad un aumentato rischio trombo-embolico.
• QUADRO CLINICO E DIAGNOSI
Il quadro clinico è variabile. Soprattutto per i laparoceli di dimensioni maggiori, la diagnosi è
facilmente eseguibile sin dall’esame obiettivo: sarà percepibile al tatto la presenza di una
tumefazione palpabile elastica, resa maggiormente evidente dalla produzione di colpi di tosse.
Però, soprattutto in fase iniziale, non è semplice riconoscere il laparocele; per questo motivo è
possibile condurre indagini come l’ecografia della parete addominale. A laparocele conclamato, sarà
possibile studiare al meglio il paziente mediante TC e RMN: informazioni importanti ricavabili,
soprattutto in fase pre-operatoria, possono essere lo stabilire quali siano i visceri all’interno della
cavità celomatica e lo studio quantitativo della breccia e dei capi muscolari (spessore).
Più è piccolo il laparocele, maggiore può essere il fastidio e il dolore, dato che più facilmente esso
potrà rimanere imbrigliato ed incastrato. Ciò provocherebbe uno stiramento improvviso dei nervi
o addirittura lo strozzamento di piccole strutture vascolari che determinerebbe un dolore molto
intenso, fino al rischio di crisi sincopali causate dallo stesso.
La maggior parte dei pazienti lamenta stipsi in virtù dell’alterata meccanica di tutto l’apparato
digerente. È sempre bene monitorare tale situazione per l’eventuale rischio di incorrere in un
quadro di occlusione intestinale.

• EVOLUZIONE E COMPLICAZIONI
L’evoluzione dipende da una serie di fattori. I determinanti sono:
- condizioni generali del paziente
- ampiezza della porta erniaria
- sede
- dimensioni
- trofismo cutaneo: la cute tende ad assottigliarsi e si dota di un colorito violaceo. Talvolta la
cute va incontro a macerazione con esposizione del viscere all’esterno.
- complicazioni viscerali (strozzamento, perforazione, infiammazione, intasamento)

• TRATTAMENTO CHIRURGICO
Prima di sottoporre il paziente ad intervento chirurgico è necessario dapprima effettuare diverse
valutazioni generali trans-disciplinari, dato che sussiste il rischio di mortalità e di complicanze serie,
soprattutto per pazienti ad alto rischio come i cirrotici.
1) ESAME CLINICO LOCALE
Esso è di competenza del chirurgo e si avvale della valutazione della cute e dell’effettuazione di
rilievi circa le dimensioni e le caratteristiche non solo del laparocele, ma anche della cavità
addominale. È bene sempre prevedere ciò che potrebbe accadere nel post-operatorio, al fine di
evitare quanto possibile il rischio di sindrome da costrizione respiratoria (e di annessa intubazione).

2) ESAME CLINICO GENERALE


Esso comprende la valutazione endocrinologica, dato che tra le malattie associate più frequenti vi
è il diabete. Tuttavia anche patologie epatiche, renali e polmonari devono essere correttamente
prese in considerazione.

3) VALUTAZIONE SPECIFICA
È necessario approfondire le problematiche respiratorie, attraverso l’esecuzione di (1) spirometrie,
(2) emogasanalisi dall’arteria radiale/femorale, (3) manometria trans-diaframmatica, (4) TC.

4) PREPARAZIONE ALL’INTERVENTO
La preparazione del paziente, che può durare anche settimane, passa da terapie antibiotiche locali
ad una accurata disinfezione cutanea: ciò viene effettuato per ridurre il rischio di infezione annesso
alla chirurgia. Già mesi prima il paziente può essere valutato anche per una eventuale correzione
dietetica, dato che di per sé l’obesità è un fattore di rischio per il re-laparocele.
Inoltre importante prima dell’intervento è la fisiochinesiterapia respiratoria che ha l’obiettivo di
reinsegnare al paziente i corretti movimenti funzionali ad un ottimale respiro.
Infine bisogna raggiungere il riequilibrio funzionale del paziente per quanto riguarda la glicemia, il
colesterolo, i trigliceridi, gli elettroliti, gli ormoni tiroidei.

5) TECNICA CHIRURGICA
Esistono differenti tecniche che si utilizzano per riparare il laparocele:
- plastica diretta semplice: è la tecnica più semplice e si basa sulla chiusura dei muscoli
addominali che hanno ceduto con dei punti semplici. Si utilizza per laparoceli di piccole
dimensioni (1-2 cm) in pazienti senza grosse problematiche;
- plastica a paletot: tramite questa tecnica si affronta un capo muscolare con l’interno del
capo muscolare opposto che viene ribattuto sull’altro capo ottenendo due linee di sutura.
Si usa quando il laparocele è di dimensioni maggiori rispetto al caso precedente (4-5 cm),
laddove la diastasi muscolare non è importante;
N.B. Tramite queste due tecniche il laparocele viene riparato utilizzando esclusivamente strutture
del paziente, senza l’utilizzo di dispositivi esterni.
- plastica indiretta autologa: si utilizza quando le strutture muscolari non sono sufficienti per
riparare il laparocele, ma è necessario utilizzare altre strutture, sempre del paziente, come
altri muscoli che vengono peduncolizzati, tramite la formazione di un lembo, e vengono
ruotati per essere portati nella sede del laparocele rinforzando la struttura muscolare.
Un’evoluzione di questa tecnica, nettamente più indaginosa ed effettuata in collaborazione
con i chirurghi plastici, è quella in cui viene utilizzato come rinforzo il tessuto adiposo del
paziente che viene asportato e posto al di sopra delle strutture muscolari per rinforzarle.
Si utilizza nelle donne obese, che vanno incontro a laparocele per interventi ginecologici o
parti ripetuti e sono interventi che hanno un ottimo risultato dal punto di vista estetico.
- plastica eterologa: in questa tecnica si utilizzano delle protesi (reti), scelte su misura, per la
riparazione del laparocele. E’ l’intervento più frequente in quanto la maggior parte dei
pazienti viene trattata quando la malattia è conclamata e le dimensioni del laparocele non
permettono più una riparazione mediante le sole strutture del paziente.
La rete può essere posizionata a vari livelli:
i) soprafasciale: la rete si pone al di sopra della fascia dei muscoli, dopo averli suturati, e
prima di suturare sottocute e cute. La rete soprafasciale garantisce la facilità di
apposizione e la brevità dell’intervento chirurgico, ma lo svantaggio è che la rete si trova
direttamente nel sottocute, per cui un qualsiasi evento sfavorevole esterno (mancato
consolidamento cute, piccolo trauma o infezione della cute) crea una noxa patogena per
la rete determinandone un’infezione tal che la rete deve essere rimossa;
ii) intraperitoneale: laddove non si riesce a suturare i muscoli sulla linea mediana, la rete si
sutura ad entrambi i capi muscolari riparando la discontinuità.
Lo svantaggio, in questo caso, è che la rete è a livello intraperitoneale e quindi
direttamente a contatto con i visceri per cui vi può essere la contaminazione della rete
che può facilmente infettarsi;
iii) intramuscolare: rappresenta il gold standard del trattamento chirurgico di plastica
eterologa. In questo tipo di intervento, dopo aver isolato i due muscoli retti dell’addome
(la parte destra e la parte sinistra), si separa il muscolo dalla guaina muscolare posteriore
in cui esso è contenuto. La guaina muscolare, di ambo i lati, viene avvicinata alla linea
mediana e la si sutura con la controlaterale ponendo l’unica struttura che si ottiene a
contatto con i visceri. A questo punto la rete si introduce nello spazio che si è creato tra
la guaina e il muscolo stesso.
In questa maniera la rete è protetta sia superiormente, dal muscolo, nei confronti del
sottocute, sia inferiormente, dalla guaina, nei confronti dei visceri giacché si minimizza
il possibile danno della rete rispetto alle due situazioni precedenti.
Inoltre tramite questa tecnica si vanno a formare 3 strati distinti e separati (muscolo,
rete e guaina) che meglio rispondono alle pressioni cui è sottoposto l’addome.
Vi sono alcune caratteristiche ideali delle reti che devono essere rispettate, infatti le reti
devono essere: (1) inerti all’infezione; (2) ipoallergeniche; (3) non cancerogene; (4)
radiotrasparenti, per evitare la presenza di un ostacolo in eventuali successive indagini
strumentali; (5) modellabili; (6) resistenti alle tensioni; (7) di facile approvigionamento; (8)
non modificabili nel tempo; (9) biocompatibili.
Esistono anche delle protesi biologiche, molto costose e costituite da intestino suino o
pericardio bovino, protesi biologiche che si utilizzano in casi selezionati, quando non è
possibile utilizzare le reti comuni, ovvero quando il paziente è caratterizzato da un laparocele
intasato o perforato in cui vi è sempre e comunque la presenza di un’infezione nel cavo
addominale che compromette la rete stessa. In tale circostanza la rete biologica diviene un
tutt’uno con i tessuti del paziente e verrà vascolarizzata in maniera tale che una terapia
antibiotica potrà essere efficace anche nei confronti della rete.
CHIRURGIA GENERALE 09/11/21 Prof. De Fazio

I noduli tiroidei necessitano di terapia chirurgica.


La ghiandola tiroide è una ghiandola pari poiché formata da due lobi, destro e sinistro, situati nella parte
anteriore del collo in posizione pretracheale e i due lobi spesso sono uniti da una lingua di tessuto chiamata
istmo. Tramite i suoi ormoni, la tiroide controlla il nostro metabolismo: essa possiede un asse di controllo a
feedback con l’ipofisi, a sua volta connessa con l’ipotalamo, e dalla relazione tra queste tre ghiandole si
ottengono gli ormoni tiroide t3 e t4. Gli ormoni tiroidei, unitamente al tsh, permettono di capire come
funziona la tiroide e il sistema di regolazione.

Queste sono forme maligne o francamente maligne che necessitano di asportazione chirurgica. Poi
vedremo quali sono i tipi di intervento e le problematiche associate. È importante preoccuparsi della
terapia sostitutiva dopo aver asportato la tiroide.
Dal punto di vista di inquadramento nosologico possiamo riconoscere (vedi slide)
- Carcinomi (in ordine di frequenza)
o Ca. Papillifero
o Ca. Follicolare
o Ca. Midollare
o Ca. Anaplastico
- Forme tumorali rare
o Angiosarcoma
o Linfoma primitivo
- Neoplasie metastatiche (rare, in ordine di frequenza): forme molto aggressive in cui la tiroide
rappresenta una delle possibili sedi di interesse del tumore
o Melanoma
o Rene
o Polmone
o Mammella
EPIDEMIOLOGIA

L’incidenza attualmente è notevolmente superiore a ciò che è scritto nella prima slide: ci sono dei fattori
ambientali che giustificano questo aumento, in primis l’inquinamento atmosferico, lo scoppio della centrale
di Chernobyl che ha determinato poi negli anni un aumento lento e progressivo dei tumori che si sono
verificati, non solo in quella zona geografica ma in tutta Europa. Il numero continua ad aumentare. Sono
colpite maggiormente le donne.

Il carcinoma midollare origina dalle cellule parafollicolari che secernono calcitonina, hanno un pattern
diagnostico e terapeutico diversi: non possono essere trattati con la radio-iodio terapia metabolica Perché
non ha nessun effetto.

Per fortuna molto raro è il carcinoma anaplastico: è uno dei carcinomi più devastanti che possono insorgere
nell’organismo, “crescono alla giornata” cit. (si visita il paziente la mattina e il giorno dopo il tumore può
essere visivamente aumentato di volume). È un tumore che lascia pochissimo spazio ad ogni tipo di
trattamento. Sono pazienti purtroppo condannati ad un decesso rapido, violento e abbastanza complicato.

In alcuni situazioni la ricchezza di iodio di alcuni territori può aumentare il rischio di ca. Papillifero: questo
non significa che non bisogna esporsi alla iodio ma si è visto statisticamente che in territori molto ricchi di
iodio è più frequente l’insorgenza di questo carcinoma. Respirare lo iodio aumenta la possibilità di favorire
la formazione dell’ormone stesso (per questo si pazienti con ipotiroidismo si consiglia di fare una
passeggiata vicino il mare).

Si è visto che nei carcinomi follicolari è importante la scarsezza di iodio e quindi quei noduli che si formano
in questi pazienti ne risentono molto, così come è statisticamente provato che la scarsezza di iodio assunto
da pazienti in qualunque forma incide molto sulla frequenza di comparsa di carcinomi sia follicare che
anaplastico.

CARCINOMA PAPILLIFERO

• Rappresenta il 50-80% delle neoplasie tiroidee


• Molto più frequente nel sesso femminile
• Età media di insorgenza piuttosto bassa: giovani donne soprattutto tra i 30 e i 50 anni
• Tumore multicentrico nel 20% dei casi: un altro dei motivi per i quali da una buona parte degli
Autori si continua a sostenere la necessità di una tiroidectomia totale. Spesso il paziente arriva
all’intervento con una diagnosi incerta e ciò rende ancora più complesso compiere una scelta che
abbia un razionale scientifico
• Metastatizza per via linfatica prevalentemente: quindi in alcuni casi è necessario fare lo
svuotamento linfonodale o laterò cervicale o del così detto comparto centrale (quella zona
aderente alla trachea che sta nei pressi dell’istmo della tiroide stessa). Il grasso del comparto
centrale viene asportato da alcuni Autori di routine e da altri soltanto a domanda: il problema è
che in questo grasso molto spesso si trovano le paratiroidi che possono essere asportate
accidentalmente. È chiaro che che se i linfonodi sono ipoteticamente metastatic I o francamente
bisogna correre il rischio perché abbiamo la necessità di essere radicali dal punto di vista
chirurgico. Altrimenti si può eseguire la tiroidectomia e completare il trattamento in differente
maniera (lo vedremo in seguito).
• Prognosi favorevole: normalmente i pazienti che vengono sottoposti a trattamento chirurgico poi
hanno una prognosi quoad vitam molto buona con una sopravvivenza lunghissima. Nella maggior
parte dei casi si può parlare di guarigione totale
• Fattori sfavorevoli: fattori che influenza la scelta del trattamento
o Diametro > 1 cm : la somma della neoplasia presente nel lobo tiroideo che è stato
asportato deve essere superiore al cm per determinare il fattore prognosticò negativo.
Questo significa che si possono trovare o noduli singoli di 1 cm (in questo caso siamo
ancora in una ambito di prognosi favorevole), o noduli singoli > 1 cm (prognosi
sfavorevole), o multipli noduli la cui somma dà una dimensione superiori al cm.
Quest’ultimo caso impone uno step terapeutico successivo alla terapia chirurgica.
o Multicentricità: rappresenta di per sé un fattore prognostico negativo
o Età avanzata alla diagnosi
o Estensione extratiroidea: interpretata sotto forma di infiltrazione della capsula e
infiltrazione vascolare.
Queste informazioni sono fornite dal referto anatomopatologico che alla fine dà un giudizio completo sulla
prognosi di questo paziente e aiuta poi nella decisione della strategia terapeutica da prendere.
(Le informazioni prognostiche permettono di formulare un giudizio prognostico che orienta sulla scelta
terapeutica).

CARCINOMA PAPILLIFERO

• Deriva dall’epitelio follicolare


• Architettura papillare simile a quella dei noduli iperplastici
• peculiarità del nucleo cellulare (visibili solo sul preparato fissato in paraffina e non al congelatore):
o inclusioni nucleari citoplasmatiche
o nucleo a vetro smerigliato otticamente vuoto
o nuclei posizionati a tegole
• presenza di psammomi

Tutte queste caratteristiche sono importanti affinché l’anatomopatologo dia la certezza che si tratti di un
carcinoma papillifero. La diagnosi di carcinoma è sempre postoperatoria. La chirurgia si avvale dell’esame
istologico estemporaneo, un esame istologico eseguito durante l’intervento chirurgico a paziente
addormentato. Il pezzo tissutale viene in mediamente mandato in anatomia patologica e congelato e viene
fatto un esame al congelatore: dopo venti o trenta minuti l’anatomopatologo dà una risposta di positività o
negatività relativamente alla presenza del tumore, questo poi guida nell’iter successivo.
L’esame estemporaneo è principalmente utilizzato nella chirurgia oncologica della mammella o dei
linfonodi, ma anche lesioni del pancreas, noduli epatici in un contesto di cancro al colon. È l’esame
estemporaneo che guida l’intervento chirurgico in questi pazienti.
Tutto ciò non si può fare con la tiroide: La tiroide ha dei criteri oncologici e anatomo patologici diversi da
altre ghiandole, per cui la malignità biologica cellulare di questo tipo di tumori può essere scoperta soltanto
con l’esame tradizionale e non quello al congelatore. Per cui non è possibile avere una diagnosi istologica
certa in sala operatoria durante un intervento sulla tiroide: la diagnosi sarà conosciuta definitivamente
dopo l’intervento chirurgico.
Prima dell’intervento chirurgico, ciò che permette di indirizzare il sospetto diagnostico è l’agoaspirato della
tiroide: può dare certezza di avere un nodulo francamente neoplastico se si ha un t5. Un t4 corrisponde ad
un 80% di probabilità di malignità e può essere trattato come un t5. I problemi sorgono con i t3, in
particolare con i t3, in particolare con i t3b in cui la possibilità che sia una neoplasia maligna è all’incirca del
50% (è affidata alla monetina cit.). Quindi quando si opera un paziente t3b (i quali sono molto
frequentemente sottoposti a intervento chirurgico), prima dell’intervento chirurgico non si può fare
certezza al paziente che quello sia un tumore. Bisogna procedere all’asportazione del lobo malato.
Dopodiché ci sono due visioni:
- visione americana recente che sostiene che l’asportazione del lobo sia sufficiente
- Visione europeista (che il prof Caputi sposa) che sostiene ci sia bisogno comunque dì procedere alla
tiroidectomia totale, per il semplice motivo che si tratta dì tumori multicentrici, che a distanza dì
tempo possono colpire l’altro lobo. In un paziente in cui è stato asportato mezzo lobo comunque si
ha un’alta probabilità dì dover supportare questo paziente con una terapia sostitutiva, poiché metà
tiroide difficilmente fa fronte alle esigenze totali del metabolismo del proprio organismo. A questo
punto che sento ha lasciare un lobo che da solo non ha molto probabilmente la capacità dì
supportare il paziente senza l’ausilio dì farmaci ma che ha in sé la possibilità dì evolvere in un’altra
patologia (la quale costringerà il paziente a distanza dì tempo a sottoporsi dì nuovo a chirurgia:
sono pazienti giovani, c’è il tempo necessario affinché lo stesso stimolo che ha generato il tumore
da una parte lo possa generare dall’altra)??

Inoltre c’è la possibilità che nel lobo lasciato in sede ci sia già un carcinoma occulto che non appare alle
indagini preoperatorie (ecografia).
Lasciare un lobo significa esporre il paziente ad una situazione che lo coinvolgerà comunque negli anni a
fare tanti controlli che possono allarmarlo e riportarlo dì nuovo alla stessa routine: compare un nodulo
nell’altro lobo, si fa l’agoaspirato, si ha dì nuovo un giudizio intermedio, il paziente va rioperato e i
reinterventi sul collo sono piuttosto complicati perché è una zona in cui si formano tante aderenze che
vanno a mascherare completamente i rapporti tra gli organi. Considerando che già in condizioni normali in
sala operatoria non è facile riconoscere le strutture che vanno preservate, la situazione è ancora più difficile
se ci sono reazioni fibrotiche e aderenze (è quasi impossibile riconoscere le strutture).

Quando si fa la lobectomia?
- Se il paziente, dopo aver ascoltato i rischi e le conseguenze dì un intervento dì tiroidectomia, si
rifiuta e chiede la rimozione di un solo lobo (excursus sull’importanza del “consenso informato” che
nella maggior parte dei casi porta alla sentenza di assoluzione)
- Alcuni casi specifici che vedremo successivamente

Dal punto dì vista anatomopatologico esistono varianti del carcinoma papillifero:


- Microcarcinoma Papillifero: tumore da cui si guarisce sempre per cui la sopravvivenza è
paragonabile a quella della popolazione normale
- Ca. Papillifero capsulato: necessita dì diagnosi differenziale con adenoma follicolare a struttura
papillare, anche questo ha una prognosi quasi identica a quello precedente
- Variante follicolare: ha una maggiore tendenza a metastatizzare per via linfonodale
- Variante solido-trabecolare: qualche volta è difficile la diagnosi differenziale anatomopatologica
rispetto ad un carcinoma anaplastico, non ci sono invece difficoltà dal punto dì vista prognostico
perché la prognosi è quella del papillifero ( “ha un aspetto cattivo a guardarlo ma biologicamente si
comporta come il carcinoma Papillifero)
- Variante oncocitaria: ha delle cellule “ossifile”
- Variante sclerosante diffusa: è la più rara ma anche la più aggressiva

Anche queste sottoclassificazioni aiutano a scegliere se c’è della terapia aggiuntiva da fare.

L’esame estemporaneo non si può utilizzare nel carcinoma tiroideo perché sono necessarie colorazioni
applicabili solo nell’esame tradizionale.

CARCINOMA FOLLICOLARE
• Variante con una frequenza leggermente inferiore: 20-40%
• Maggior frequenza nel sesso femminile
• Età dì incidenza leggermente superiore: 40-60 anni
• Metastatizza prevalentemente per via ematica: quindi è possibile che il paziente abbia metastasi a
livello dì altri organi (es. polmoni)
• Prognosi favorevole
• Fattori sfavorevoli
o Diametro > 1 cm
o Età giovanile o avanzata alla diagnosi: in età giovanile i tumori sono biologicamente più
aggressivi
o Multicentricità
o Estensione extra-tiroidea
Varianti anatomopatologiche:

• Ca. Follicolare minimamente invasivo o capsulato: molto frequentemente l’ago aspirato non è
diagnostico quindi ci si trova a dover operare un paziente senza una diagnosi precisa
• Ca. Follicolare francamente invasivo: c’è un’importanza estensione vascolare e capsulare. Queste
sono le forme che più facilmente danno metastasi.
• Ca. Follicolare ossifilo a cellule di Hurtle (pronuncia urtl): tumore che non capra iodio quindi non si
può avvalere in nessun modo della radioterapia iodiometabolica post operatoria. Rappresenta il
20% dei tumori follicolari. La prognosi è favorevole ma non quanto quella del minimamente
invasivo.

CARCINOMA MIDOLLARE
• Deriva dalle cellule C produttrici di calcitonina: la diagnosi spesso deriva da un aumento ematico dì
calcitonina
• 5-15% delle neoplasie tiroidee
• 2 forme
o Forma sporadica: 30-50 anni
o Forma familiare: 15-20 anni (nel contesto delle adenomatosi multiple endocrine di cui un
aspetto è proprio l’insorgenza del carcinoma midollare)
• Metastatizza per via linfatica ed ematica
• Prognosi intermedia:
o 60-70% sopravvivenza a 5 anni (oggi si arriva anche all’80-85%)
o 40-50% sopravvivenza a 10 anni ( non altissima)
• Esprime la calcitonina
• Nelle forme a grading più alto non viene espressa la calcitonina ma il CEA, il marcatore neoplastico
dei tumori del colon che quando è aumentato impone una colonscopia; dato che il CEA può essere
associato anche a cancro gastrico, se la colonscopia è negativa si impone una gastroscopi; se la
gastroscopia è negativa si ricerca qualcosa a livello epatico dove raramente lesioni neoplastiche
possono dare aumento del CEA (questo è l’iter seguito dal professore recentemente su un paziente
con CEA aumentato e piccoli noduli tiroidei con agoaspirsto non diagnostico, tramite il consenso
informato il paziente ha dato l’ok alla tiroidectomia e l’anatomoparologo ha trovato il carcinoma
midollare. Tolto il tumore il CEA si è azzerato)
• Neoplasia non capsulata
• Struttura lobulare o trabecolare
• Cellule fusate, poligonali o rotondeggianti

CARCINOMA ANAPLASTICO
Tumore estremamente aggressivo che cresce a vista d’occhio, ha un’altissima attività mitotica, un’altissima
quantità di tessuto che va in necrosi perché si crea una discrepanza tra richiesta di ossigeno tra l’enorme
numero di cellule prodotte dalla mitosi e la neoangiogenesi che non è altrettanto sviluppata. Ci si trova di
fronte ad una massa informe di tessuto parzialmente necrotico e parzialmente emorragico con una non
chiara determinazione delle cellule.
• Deriva da cellule epiteliali ma presenta aspetto sarcomatoso con cellule fusiformi, giganti o
squamoidi
• Alta attività mitotica, necrosi
• 5% neoplasie tiroidee
• Maggior incidenza nel sesso femminile
• Età media alla diagnosi 60-70 anni
• Metastatizzazione fulminante per via linfatica ed ematica
• Prognosi infausta a pochi mesi dalla diagnosi
Nella maggior parte dei casi non si riesce a intervenire. Talvolta si fa tracheostomia d’urgenza quando la
trachea viene schiacciata dal tumore in crescita. Anche se si mette la tracheostomia e il paziente può
respirare, nel frattempo compaiono metastasi ovunque e il paziente giunge a morte senza che vi sia
nessuna possibilità di trattamento. È un tumore devastante per cui non c’è soluzione.

CLASSIFICAZIONE TNM DEL CARCINOMA TIROIDEO


Il carcinoma primitivo viene valutato con il sistema TMN.

C’è la “p” davanti Perché la classificazione è solo anatomopatologica, prima dell’intervento non si può dare
alcun tipo di definizione. Nei tumori multipli si considera il modulo a diametro maggiore ma bisogna
sempre fare la somma di tutti i diametri.

DIAGNOSI CLINICA

La diagnosi di questi noduli non è complicata. È una di quelle patologie in cui è fondamentale l’anamnesi.
• Anamnesi Familiare: Prima di tutto bisogna escludere di trovarsi di fronte a forme familiari,
soprattutto nei carcinomi midollari
o MEN IIA: iperparatiroidismo primitivo + feocromocitoma + ca. Midollare
o MEN IIB: neurinomi multipli + feocromocitoma + ca.midollare
Ed escludere le forme familiari (rare) del carcinoma follicolare.
• Anamnesi Fisiologica: provenienza geografica del paziente (carenza di iodio). Talvolta i fattori
ambientali quali l’area geografica di provenienza e i fattori genetici sono presenti insieme. Si pensi
a famiglie in cui più soggetti manifestano lo stesso tumore.
• Anamnesi Patologica Remota: pregressa RT cervicale, esposizione a radiazioni (soprattutto militari
proveniente dalla ex Jugoslavia probabilmente esposti a sostanze nocive)
• Anamnesi Patologica Prossima:
o Età di insorgenza del nodulo tiroideo
o Velocità di accrescimento
o Presenza di dolore: può comparire soprattutto in caso di emorragia di un nodulo che poi si
scopre essere benigno, quindi di solito è un segno prognostico positivo, tuttavia può anche
essere associato a carcinoma Anaplastico
o Sintomi riferibili a iperfunzione tiroidea: paziente agitato o tachicardico
o Sintomi riferibili a ipofunzione tiroidea: perdita di capelli, secchezza delle mucose, astenia,
debolezza
o Presenza di gozzo di vecchia data con crescita rapida e improvvisa (trasformazione in ca.
Anaplastico)
Una volta fatta l’analisi si passa all’esame obiettivo locale, quindi all’esame del collo. Una tumefazione del
collo allarma subito il paziente: gli uomini si accorgono di non riuscire più ad allacciare la camicia, le donne
guardandosi più frequentemente allo specchio fanno più attenzione ai cambiamenti dell’anatomia del collo
e notano un eventuale aumento volumetrico.

• Ispezione: tumefazione sottoioidea, normalmente più sporgente da un lobo rispetto all’altro, quindi
essa rende il collo asimmetrico. Considerando che la tiroide segue i movimenti della deglutizione,
se il nodulo fa parte della tiroide alla deglutizione sarà mobile. Alcune volte invece alla deglutizione
tiroide e nodulo rimangono fissi con estrazione cutanea (infiltrazione): questi sono rari casi di
tumori aggressivi che rendono anche la pelle abbastanza aderente
• Palpazione: in condizioni normali la tiroide è un organo che non riusciamo a palpare. Nel momento
in cui c’è un aumento volumetrico della tiroide, il nodulo può essere palpabili e si puó notare
o Nodulo singolo o multiplo
o Consistenza (dura)
o Fissità
o Non dolorabile
o Presenza di linfoadenopatie regionali
• Auscultazione: non significativa

Quando ci si imbatte in un paziente, a maggior ragione se con nodulo tiroideo, bisogna conoscere la sua
situazione metabolica richiedendo esami funzionali tiroidei:
- TSH basale
- Frazione libera di triiodiotironina (fT3)
- Frazione libera di tiroxina (fT4)

In realtà bastano anche solo due dati: TSH e fT4/ fT3. Se il TSH è normale si ha una condizione dì
eutiroidismo. Semplicemente dosando il TSH ci si rende conto dì eventuali patologie tiroidee.

• Ipertiroidismo subclinico: situazione clinicamente non eclatante in cui c’è una maggior produzione
dì ormoni tiroidei che riesce a sopprimere la secrezione dì TSH. I valori di ft4 o ft3 sono nella norma.
• Ipertiroidismo manifesto: quando ft3 e ft4 sono elevati e il TSH è completamente soppresso, la
situazione diventa clinicamente evidente. Il paziente ha sintomatologia da ipertiroidismo: ciglia che
sbattono, ansia, frequenza cardiaca aumentata, ci può essere una pressione arteriosa aumentata, a
lungo andare può comparire esortalmo
• Ipotiroidismo subclinico: TSH elevato e fT4 normale che riesce a malapena a compensare perché ha
bisogno dì uno stimolo continuo dal TSH. Non sono ancora evidente tutti i sintomi dell’
ipotiroidismo ma dal punto di vista bioumorale lo si può diagnosticare.
• Ipertiroidismo manifesto: TSH elevato e fT4 inferiore alla norma. La tiroide non ce la fa a produrre
gli ormoni nonostante sia continuamente stimolata dal TSH. Se si fa una tiroidectomia totale e si va
a misurare il TSH una settimana dopo l’intervento e nel frattempo il paziente non ha preso ormoni
tiroidei, troveremo il TSH altissimo (“alle stelle”) perché l’ipofisi sta cercando dì dare un comando
ad una tiroide che non c’è più. Nella realtà la terapia sostitutiva ormonale si dà da subito.

MARKERS BIOUMORALI

I marcatori possono essere utili nella diagnosi, soprattutto un aumento di calcitonina che deve far subito
pensare ad un carcinoma midollare.

Ci sono una serie di sostanze che si dosano e possono aiutare a fare diagnosi. Sono situazioni molto rare,
nella maggior parte dei tumori non c’è una produzione di questi marcatori. Così come se non si è
nell’ambito delle MEN non si troveranno mai catecolammine o PTH aumentati.

Il fatto che la Tireoglobulina sia aumentata nel 90% dei casi dì neoplasie ben differenziate viene sfruttato
nel follow up dopo tiroidectomia totale. Dato che si tratta dì pazienti in terapia ormonale sostitutiva non si
possono dosare t3 e t4 per capire l’eventuale presenza di una recidiva o se ha un residuo di tiroide. Gli
ormoni dati dall’esterno non possono essere utilizzati a scopo diagnostico.
A questo punto si dosa la tireoglobulina, proteina che viene specificatamente prodotta dalle cellule
tiroidee. Quindi se la TG continua a essere presente nel post-operatorio vuol dire che ci sono ancora cellule
tiroidee nonostante la tiroidectomia totale: che queste siano maligne o no sarà poi da diagnosticare.
Normalmente dosata nel post-operatorio la TG scende a 0, se tende a risalire vuol dire che da quAlche
parte si sono riformate cellule tiroidee che determinano questa situazione

DIAGNOSI STRUMENTALE

Se si ha il dubbio che il paziente possa essere portatore dì un nodulo tiroideo si può fare l’ecografia, oggi
considerata un’indagine dì screening. La patologia tiroidea è in costante aumento e un’ecografia del collo
non si nega a nessuno (cit.).
• Nodulo iso-iperecogeno: nodulo benigno, no terapia
• Nodulo anecogeno: lesione cistica benigna che può risultare dubbia se ci sono al suo interno dei
gettoni solidi. Allora si può aspirare il contenuto e fare una valutazione citologica. L’aspirazione è
utile anche per ridurre il volume della tumefazione al fine di ottenere un miglioramento della loggia
del collo. Uno dei motivi che rendono l’intervento chirurgico necessario in caso di patologia tiroidea
è che il collo è una loggia chiusa con spazio limitato, vi è lo spazio esclusivamente per gli organi
fisiologicamente presenti nel collo (nervi, muscoli, tiroide, vasi ecc): qualunque impegno ulteriore
crea una crisi nello spazio, una lezione occupante spazio si accresce nel collo a discapito degli altri
organi. Alcune volte i noduli cercano di andare verso l’esterno ma altre volte deviano verso il basso
andando a impegnare lo stretto superiore del torace, si parla in questo caso di gozzo mediastinico.
L’organo che spesso subisce il danno è la trachea, la quale può subire una laterodeviazione
controlaterale per la crescita asimmetrica di uno dei due lobi tiroidei. La trachea assume un
andamento curvilineo che ostacola la respirazione e può spingere posteriormente sull’esofago
dando problemi di deglutizione. Ecco perché si fa l’intervento chirurgico anche in assenza di una
chiara diagnosi di malattia neoplastica.
• Nodulo ipoecogeno: sospetto di malignità soprattutto se associato alla presenza di
microcalcificazione e irregolarità dei margini. In questo caso si fa l’agoaspirato.
• Presenza di linfoadenopatie regionali: non parognomoniche ma suscettibili di malignità. Spesso
l’ecografista è in grado di distinguere una linfoadenopatia reattiva da lezioni neoplastiche. In caso
dì aspetto metastatico del linfonodo l’ecografista può procedere facendo l’agoaspirato del
linfonodo e questo darà un’idea più chiara.

Un utilizzo moderno e funzionale dell’ecografia è quello dì abbinarla al Doppler. Il Doppler dà notizie


importanti sul pattern di vascolarizzazione dei noduli ed oggi è indispensabile farlo per inquadrare dal
punto dì vista diagnostico i noduli tiroidei (la stessa metodica è utilizzata nell’ inquadramento dei miomi
uterini). Ci sono 4 tipi dì pattern vascolari.
I pattern I (assenza di segnale colore) e II (presenza di segnale colore perilesionale) sono associati a lesioni
benigne (anche nei miomi uterini che vengono così distinti dai sarcomi)
Il pattern III pone dei dubbi, sono noduli che vanno biopsizzati affinché si abbia una valutazione citologica
che ci possa aiutare a comprendere esattamente qual è la situazione
• IIIa: presenza di segnale colore intralesionale
• IIIb: presenza di segnale colore intra e perilesionale
Il pattern IV corrisponde ad un segnale colore presente e diffuso su tutta la ghiandola, indicativo di gozzo
iperfunzionante o morbo di Basedow o nodulo singolo di Plummer.
La scintigrafia oggi è utilizzata per
- Confermare la presenza di un nodulo caldo (nodulo ipercaptante)
- Nel postoperatorio per valutare la presenza dì un residuo dì tiroide

DIAGNOSI CITOLOGICA TRAMITE AGOASPIRATO (FNB)

Per quanto riguarda sensibilità e specificità della diagnosi citologica, il ca. Follicolare pone dei problemi.

Classificazione TIR:
TIR1 è non diagnostico Perché a volte capita dì prelevare solo sangue o altro materiale. Nel Tir1c abbiamo
una bassa valutazione e come nel tir1 l’agoaspirato andrà ripetuto.
TIR2: non è maligno, follow up
TIR3A: lesione indeterminata a basso rischio, c’è meno del 10% dei casi che possa essere un falso negativo.
Ripetere agobiopsia/ follow up clinico
TIR3B: lesione indeterminata ad alto rischio, c’è un 15-30% dì probabilità che questo paziente possa
nascondere la presenza di una neoplasia. È indicato l’intervento chirurgico: sono i pazienti che vengono
portati al tavolo operatorio senza sapere cosa si troverà, il giudizio finale sarà anatomopatologico1.
TIR4: malignità sospetta, ha già una diagnosi certa, chirurgia con valutazione delle sezioni congelate
TIR5: malignità, 95%, chirurgia

TERAPIA

La terapia del carcinoma tiroideo si basa su:


- Terapia chirurgica: con lo scopo evidente dì asportare la neoplasia. Può essere
o Conservativa: emitiroidectomia
o Demolitiva: tiroidectomia totale con o senza linfoadenectomia centrale e latero-cervicale
§ Linfoadenectomia centrale se il ca. non è accompagnato da segni di metastasi
linfonodali
§ Linfoadenectomia laterocervicale se ci sono linfoadenopatie clinicamente evidenti
- Scintigrafia total-body con I131 (dopo l’intervento chirurgico)
o Localizzazione metastasi a distanza
o Evidenza di residui tiroidei
- Terapia radiometabolica
o Neoplasie localmente avanzate
o Metastasi linfonodali e/o a distanza

In caso di TIR4/5 si è assolutamente giustificati a fare la tiroidectomia totale. Se TIR3B il professore opta per
la tiroidectomia totale con consenso informato del paziente.

Tramite la scintigrafia e l’istologia si decide l’iter successivo:


- Se il cancro è <1 cm, nodulo singolo, senza infiltrazione della capsula, senza infiltrazione vascolare:
il paziente con l’intervento chirurgico termina qualunque tipo di trattamento
- Se nell’esame istologico ci sono 1 o più fattori prognostici negativi: dimensioni elevate, infiltrazione
della capsula, multicentricità o infiltrazione capsulare, vi è l’assoluta indicazione a fare la terapia
radiometabolica

La terapia radiometabolica prevede che il paziente venga “affamato” dall’assunzione dello iodio: dopo
l’intervento chirurgico si dà lo iodio, prima della terapia radiometabolica non si dà lo iodio al paziente per
un certo numero di giorni. Questo affama le eventuali cellule tiroidee rimaste: a questo punto si ricovera il
paziente in un centro specializzato, gli viene dato lo iodio radioattivo, il paziente deglutisce lo iodio
radioattivo e quest’ultimo viene captato dalle cellule tiroidee residue (come un pesce che mangia l’esca e
poi rimane intrappolato nell’amo). Captando questo iodio, le cellule tiroidee residue si autodistruggono.
Una volta terminata questa terapia finisce l’iter terapeutico.
È una terapia che non dà effetti collaterali: non dà perdita di capelli, vomito, nausea, alterazioni emocromo
o altri effetti collaterali tipici della chemioterapia. Però questi pazienti devono rimanere in un centro isolato
per qualche giorno fin quando non vi è il dimezzamento dello iodio radioattivo che è stato dato.

1
Questi sono i pazienti che vanno coccolati dì più perché sono sfigati: se il reperto anatomopatologico dà tumore sono
scontenti per la notizia, se non dà tumore si arrabbiano e dicono “e per cosa lo abbiamo fatto a fare l’intervento?”
TERAPIA CHIRURGICA
- È un intervento che viene fatto in anestesia generale con intubazione oro-tracheale: perché si va ad
operare nel collo del paziente, bisogna intervenire sulla trachea per assicurare la respirazione del
paziente
- Recentemente al policlinico di Bari è presente una macchina che serve a evitare le complicanze più
frequenti della chirurgia tiroidea.

COMPLICANZE IN CHIRURGIA TIROIDEA


- Sanguinamento: è una complicanza di qualsiasi tipo di intervento ma a livello del collo può
diventare un problema gravissimo perché il sangue può schiacciare la trachea e il paziente può
andare in asfissia. Certe volte è successo di dover riaprire la ferita al letto del paziente per evacuare
il sangue e poi il paziente viene portato in sala operatoria e si completa l’intervento con
un’emostasi … (non si capisce)
- Asportazione accidentale ( o volontaria in alcuni casi) delle paratiroidi, responsabili della
regolazione del metabolismo del calcio. Questi pazienti nel postoperatorio hanno un abbassamento
della calcemia perché le paratiroidi, a volte anche se preservate, vanno incontro a sofferenza per
trauma chirurgico o per sofferenza ischemica Perché la vascolarizzazione con la tiroide è congiunta.
L’ipocalcemia è dovuta quindi anche ad un deficit di funzionalità delle paratiroidi dopo
l’intervento2. Questa ipofunzionalità post-operatoria (se le paratiroidi sono quindi ancora in sede)
termina dopo qualche giorno e quindi le paratiroidi riprendono a funzionare. Dopo l’intervento va
dato il calcio al paziente i primi giorni intravena e poi per bocca tramite bustine o compresse
effervescenti per trattare questa ipocalcemia temporanea. Poi lentamente le paratiroidi riprendono
a funzionare, si riduce e poi si sospende il calcio e si continua con l’ormone tiroideo.
- Lezioni nervi laringei inferiori o ricorrenti (sul totale dei nervi esposti): nervi che consentono dì
contrarre le corde vocali ma anche dì respirare
o Monolaterale: non è un danno grave perché grazie a esercizi dì riabilitazione il paziente
compensa e riprende una vita normale. Certe volte il timbro della voce rimane
completamente alterato a vita ma non vi sono alterazioni gravi perché l’altra corda vocale
compensa e si ha una rima sufficiente a far passare aria.
§ Temporanea
§ Definitiva
o Bilaterale: il danno è grave. Se le corde rimangono bloccate in posizione paramediana
impediscono completamente il passaggio dell’aria: questo porta in primis a fare una

2
Quando il Prof era giovane gli raccontavano che le paratiroidi smettevano di funzionare perché si offendevano ti
guardo il fatto che era stata tolta la loro fidanzata, ovvero la tiroide. Si dice che le paratiroidi rimangono “stupefatte”.
È un’insufficienza funzionale post-operatorio.
tracheotomia d’urgenza e poi una serie dì interventi riparatori che possano in qualche
maniera favorire il ritorno ad una vita che non sarà mai normale.
§ Temporanea
§ Definitiva monolaterale
§ Definitiva bilaterale
1% lezione definitiva

Da qualche anno a Bari è disponibile una macchina che consente di capire se la struttura che sta per essere
trattata chirurgicamente sia o meno un nervo. La macchina è formata da un generatore dì corrente che è
una specie dì monitor del computer che è collegato con una serie dì fili elettrici a loro volta attaccati al tubo
oro-tracheale che va nella bocca del paziente e fuoriescono dalla bocca. I fili sono collegata ad una placca
elettrificata che si trova intorno alla parte inferiore del tubo. L’anestesista deve far coincidere ed entrare in
contatto la parte del tubo con la placca con le corde vocali. Dopodiché il paziente non può parlare e non
può muovere le corde vocali, quindi si utilizza una specie di pennino durante l’intervento che eroga
corrente di 1-3 mAh. Quando la corrente viene erogata al paziente, se in quel momento con la punta del
pennino si tocca il nervo, il nervo funge da filo conduttore, per cui esso condurrà questa corrente e andrà a
stimolare la corda vocale, esattamente come se il paziente avesse voluto emettere un suono gutturale.
Spingendo in questa maniera il nervo, la corda vocale si contrae, sbatte contro la placca elettrica e quindi
genera un impulso sonoro che dà l’allarme e fa capire “fermati! Quello è il nervo non lo toccare”. Se invece
si toccano vasi, grasso o altri tessuti, la corda vocale non si contrae, la corrente viene comunque scaricata
fuori perché c’è una messa a terra ma il sistema dà un altro tipo dì suono.
Questo sistema aiuta molto.
Prima di iniziare l’intervento chirurgico è necessario valutare l’integrità del sistema: bisogna stimolare il
nervo vago per essere certi che tutto il circuito sia sano. Stimolando il nervo vago si ottiene la contrazione
della corda vocale.
Alla fine dell’intervento bisogna nuovamente valutare l’integrità del nervo vago, perché essendo un filo
elettrico può essere tagliato in qualsiasi punto ma se si stimola la parte a valle si avrà comunque l’impulso
(?). L’unica maniera anatomica e medico-legale che dà la certezza che alla fine dell’asportazione del lobo il
nervo è intatto, è quella di andare a stimolare di nuovo il vago : se dal vago l’impulso arriva fino alla corda
vocale vuol dire che tutto il sistema è sano. Questo dà la certezza che da quella parte non è stata causata
una lesione del ricorrente, quindi si passa a fare l’intervento dal lato opposto.

L’intervento quindi comincia dal lato malato, per cui alla fine si asporta il lobo sicuramente malato e si
controlla l’integrità del nervo. Se il nervo è sano ci si può permettere di operare dall’altra parte perché
quand’anche dall’altra parte si dovesse causare una lesione del ricorrente, sarebbe comunque una lesione
monolaterale assolutamente compatibile con una vita normale

Tramite un pennino USB che si usa con questo macchinario si possono registrare tutti gli eventi, più è
possibile stamparli e avere una registrazione di tutto quello che è stato fatto. Grazie a questo sistema si può
asportare un lobo in sicurezza anche se poi l’istologia rivelerà che non ha un tumore.

Se alla fine della lobectomi del lobo malato non si ottiene il segnale
- O perché abbiamo lesionato il nervo (e il segnale non comparirà più)
- O perché il tubo si è dislocato o il sistema si è alterato perché risente della quantità dì liquidi che ci
sono nel collo: certe volte il nervo viene stirato e quindi non è più in grado di condurre l’impulso
per un certo periodo di tempo (anche 20-30 minuti)

Se dopo una serie di tentativi il segnale non c’è più, ci si ferma: è stato tolto il lobo malato e si dirà al
paziente che è stata fatta la lobectomia perché non si era sicuri della situazione anatomica dì quella zona.
Quindi se abbiamo creato una lesione da una parte non bisogna correre il rischio di crearla anche dall’altra
parte.

Quindi si testano tramite 4 registrazioni:


- Nervo vago e nervo ricorrente del lato malato all’inizio dell’intervento
- Ricorrente del lato malato dopo l’asportazione
- Nervo vago del lato malato dopo l’asportazione
Se ci sono i segnali si passa dall’altro lato.
PROF. ALTOMARE

Occlusione intestinale

Si definisce occlusione intestinale l’interruzione del passaggio aborale del contenuto luminale,
conseguente a cause diverse; si tratta di un arresto della canalizzazione in cui si possono riconoscere
due ulteriori entità: ileo adinamico e ileo dinamico.

• ILEO ADINAMICO
L’ileo adinamico è l’interruzione del passaggio aborale del contenuto gastrointestinale conseguente
a una interruzione della motilità per cause funzionali. In tal caso, quindi, è l’arresto della peristalsi
che non consente la progressione del contenuto luminale e può riconoscere due principali
situazioni:
1. Ileo adinamico postoperatorio: dopo un intervento chirurgico, la motilità GI è bloccata per
un periodo variabile.
2. Ileo adinamico postmeccanico: rappresenta l’evoluzione di una occlusione di tipo
meccanico.
Per quanto riguarda l’eziologia, l’ileo adinamico può conseguire a cause intraperitoneali ed
extraperitoneali; entrambi i gruppi di cause sono annoverati nell’ambito delle cause intraddominali
di ileo adinamico, in contrapposizione alle quali si descrivono delle cause extraddominali, cioè che
conseguono a patologie non di interesse del chirurgo addominale, ma che possono
secondariamente coinvolgere questa figura professionale a seguito della interruzione della
progressione aborale del contenuto intestinale.
1. Cause intraperitoneali:
a) Uroperitoneo: sindrome clinica caratterizzata dall’accumulo di urina all’interno del
cavo peritoneale, ad eziologia traumatica (p. Es.: traumi della vescica, traumi
ureterali) o iatrogena (p. Es.: deiscenza postoperatoria della vescica).
b) Coleperitoneo: sindrome clinica, assai rara e altrettanto grave, caratterizzata dalla
presenza di bile nel cavo peritoneale, che causa quella che prende il nome di
peritonite biliare idiopatica. In altri casi, l’accumulo peritoneale della bile può
conseguire a complicanze della chirurgia (p. Es.: perdita biliare di una anastomosi
biliare).
c) Emoperitoneo: condizione clinica caratterizzata dall’accumulo di sangue all’interno
del cavo peritoneale, per cause traumatiche o vascolari (p. Es.: la rottura di un
aneurisma dell’aorta addominale).
d) Traumi addominali chiusi;
e) Infiammazioni dei visceri: un ileo adinamico può conseguire alla presenza di una
patologia infiammatoria dell’appendice o della colecisti.
f) Infarto intestinale;
g) Ileo adinamico postoperatorio: è una conseguenza della manipolazione dei visceri
e rappresenta una delle principali cause di ileo adinamico.
2. Cause extraperitoneali:
a) Traumi spinali;
b) Colica renale;
c) Pancreatite acuta: gli enzimi pancreatici, in particolare la lipasi pancreatica, possono
determinare digestione del tessuto adiposo peripancreatico e del peritoneo parietale
e quindi causare una irritazione peritoneale che causa un ileo adinamico.
3. Cause extraddominali:
a) Ictus;
b) Polmonite;
c) Infarto del miocardio.
Soprattutto nei pazienti sottoposti ad intervento di PTCA, a seguito dell’applicazione
dello stent, il paziente presenta una riduzione della motilità intestinale, che spesso viene
trascurata, in quanto si tende a conferire molta maggiore importanza proprio alla
funzione cardiaca e alla sua ripresa. Questo tipo di alterazione della funzionalità
intestinale può determinare una lunga paralisi dell’intestino che può a propria volta
evolvere verso una stipsi importante e verso una eventuale formazione di fecalomi.
4. Cause generali:
a) Ipopotassiemia
b) Ipotiroidismo: nella sua massima esaltazione, quella di evoluzione nel coma
mixedematoso, un ipotiroidismo può indurre un ileo paralitico.
c) Diabete scompensato: può determinare tanto una neuropatia autonomica severa a
livello dell’intestino quanto una gastroparesi.
d) Farmaci: in particolare, vi sono alcuni farmaci che possono causare importante stipsi
come effetto collaterale poiché riducono la trasmissione dell’onda peristaltica o,
addirittura, bloccano ancor più a monte nella via nervosa l’impulso.
i. Oppioidi
ii. Ganglioplegici
iii. Anticolinergici
iv. Antistaminici
Dal punto di vista clinico, l’ileo adinamico si presenta con una serie di reperti, sia sintomi che segni
clinici. Anzitutto, vi è distensione addominale, per accumulo di aria e di feci, con scarsa dolenzia
addominale: all’ispezione si riscontra un addome disteso e non dolente, eventualmente
accompagnato da una sensazione di malessere scarsamente localizzato e localizzabile. È presente
solitamente nausea, mentre il vomito è un reperto più raro.
All’ascoltazione delle anse intestinali, l’addome è silente (≠occlusione meccanica): non si ravvisano
borborigmi spontanei e anche quando si tenti di smuovere l’addome, non si suscitano movimenti
peristaltici apprezzabili auscultatoriamente. L’arresto della progressione aborale del contenuto
luminale si esprime con una assenza di evacuazioni e di emissione di gas.
La diagnosi è per larga parte clinica, effettuata mediante il ricorso all’anamnesi e all’esame obiettivo.
Elementi anamnestici dirimenti sono rappresentati soprattutto dal fatto che il soggetto abbia
appena subito un intervento chirurgico, oppure che assuma farmaci che arrestano la progressione
gastrointestinale.
1. Esame obiettivo:
a) Ispezione: addome disteso, simmetrico, talora con estroflessione della cicatrice
ombelicale.
b) Palpazione: non induce reazione peritoneale e contrattura di difesa, né un vero
dolore localizzato, il paziente ha solo malessere dovuto a distensione del viscere.
Ovviamente, questo è vero a meno che alla base non ci sia una peritonite/irritazione
peritoneale.
c) Percussione: addome timpanico per accumulo di aria nell’intestino.
d) Auscultazione: assenza di borborigmi.
2. Storia clinica:
a) Precedenti interventi chirurgici: chirurgia addominale, interventi che possano
comportare una deiscenza della vescica (quindi uroperitoneo), interventi di
formazione di fistole biliari (possono causare coleperitoneo).
b) Farmaci assunti: prestare particolare attenzione a farmaci ganglioplegici,
anticolinergici, antistaminici e oppioidi.
c) Altre patologie: un ipotiroidismo grave, una neuropatia diabetica autonomica severa
possono causare un ileo adinamico.
d) Trauma subito: traumi addominali chiusi, traumi ureterali o vescicali (per
uroperitoneo), possono causare eventualmente un ileo adinamico.
3. Diretta dell’addome: evidenzia un aumento dell’aria addominale. È un esame che deve
essere effettuato in ortostatismo. Le anse intestinali sono molto distese, non si vedono livelli
idro-aerei (≠occlusione meccanica), masse e altre immagini chiare all’RX e chiaramente
riconducibili ad una eziologia meccanica dell’occlusione -a meno che l’ileo adinamico non
rappresenti l’evoluzione di un ileo meccanico. Quando l’ileo adinamico è conseguenza di un
versamento peritoneale, in questi casi è opportuno eseguire una TC con mdc addominale
poiché le sezioni trasverse che questo esame offre permetterebbero di vedere la distensione
delle anse non visibili all’RX per via del versamento peritoneale (ricordare che quando si
richieda la TC addome va richiesto utilizzo del mdc per vedere l’intestino).
La terapia dell’ileo adinamico si vale di due possibili approcci: vigile attesa e trattamento di
supporto.
La vigile attesa è la regola nel trattamento dell’ileo adinamico: un paziente con questo tipo di
occlusione non va portato in sala operatoria, perché quasi sicuramente non ha ostacoli che
impediscono la progressione aborale del contenuto luminale. Anzi, indicando la chirurgia in un
paziente del genere si rischia di intraprendere un intervento in laparotomia difficile da chiudere per
via della distensione delle anse intestinali.
Per quanto riguarda la gestione, buona regola è quella di introdurre un sondino naso-gastrico
cosicché almeno lo stomaco venga liberato dall’accumulo di aria che causa distensione. Liberando
lo stomaco si dà un grande sollievo al paziente (la distensione dello stomaco stimola il vomito). Per
il blocco della funzione alimentare, si introducono per via endovenosa fluidi ed elettroliti; i fluidi,
oltreché vicariare l’alimentazione enterale sono necessari per garantire idratazione e assicurare la
funzione renale e il mantenimento della volemia; gli elettroliti si somministrano laddove questi siano
alterati (p. Es.: in ipocloremia causata da vomito o in corso di ipopotassiemia).
• OCCLUSIONE MECCANICA
L’occlusione meccanica, o ileo meccanico, è una interruzione della progressione aborale del
contenuto luminale dovuta alla presenza di un ostacolo.
Il blocco della progressione è legato ad un vero ostacolo che può collocarsi a vari livelli nel tubo GI,
dal duodeno fino al grosso intestino distale. Il livello dell’ostruzione è correlato alla gravità del
quadro clinico e, come regola generale, possiamo asserire che un’occlusione quanto più è
prossimale, tanto più è grave e richiede un trattamento quanto più è possibile immediato, anche di
tipo chirurgico. L’ileo meccanico è sempre un’emergenza, quantunque le occlusioni meccaniche
basse possano essere gestite con più calma rispetto alle occlusioni alte, nelle quali si richiede di agire
con maggior sollecitudine, poiché si realizzano perdite di liquidi ed elettroliti imponenti e importanti
rispetto, per esempio, ad occlusioni del colon sinistro. Infatti, nelle occlusioni basse, parte delle
sostanze intestinali può essere -e viene- assorbita. Consideriamo che, indipendentemente
dall’introduzione dei liquidi per bocca, vengono riversati molti fluidi biologici nell’intestino (bile,
succhi gastrici, succhi pancreatici, saliva, succhi enterici, per un totale di 3-6 L/die di fluidi biologici,
eccettuando quello che viene ingerito) e gran parte di questi 3-6 L viene riassorbita nel tenue
intestino e in parte anche nel cieco. Ovviamente, quanto più prossimale è l’ostruzione tanta
maggiore sarà la parte di intestino esclusa dal riassorbimento, il che causa delle ingenti perdite idro-
elettrolitiche, alle quali si sommano quelle dovute al vomito incoercibile, che, per esempio, è
frequente nelle occlusioni meccaniche molto alte, a livello gastrico.
Nelle occlusioni basse, per esempio del sigma, nei primi giorni il paziente continua ad assorbire
liquidi, sebbene sia sofferente e abbia dolore e quindi questa occlusione bassa può essere gestita in
uno-due giorni, mentre una occlusione alta va trattata in poche ore.
In termini di eziologia, riconosciamo cinque meccanismi diversi di occlusione meccanica:
ostruzione, stenosi, compressione, strangolamento e angolazione.
1. Ostruzione: si intende con l’espressione di ostruzione
la presenza di un ostacolo intraluminale:
a) Tumori vegetanti
b) Corpi estranei
c) Fecaloma
d) Ileo biliare: arresto della progressione aborale
del contenuto, conseguente alla presenza di
un calcolo nel lume intestinale. Ovviamente,
non ci si può aspettare che un calcolo giunga
in intestino a mezzo dello sfintere di Oddi (se
fosse di dimensioni sufficientemente piccole
da attraversare lo sfintere, allora non
potrebbe occludere nessun altro segmento
dell’intestino). Infatti, il meccanismo con cui si
può instaurare un ileo biliare origina da una
Figura 1: RX con clisma opaco di un tumore
colecistite calcolosa. Un calcolo causa una vegetante che non prende contrasto. Si
infiammazione della colecisti, particolarmente apprezza la riduzione del lume del lume.
a livello del fondo. La colecisti è vicina al
duodeno e sia il duodeno che altre parti, soprattutto dell’ileo, possono creare delle
aderenze. In buona sostanza, la flogosi della colecisti si diffonde a livello dell’intestino
per via del decubito del fondo della colecisti stessa sulla parete duodenale o ileale; si
verifica una perforazione della parete della colecisti, con formazione di una
comunicazione con il tenue intestino, che consente al calcolo di passare nel lume,
progredendo fino alla valvola ileocecale dove determina ostruzione e occlusione a
monte. Si tratta di una causa abbastanza rara di occlusione intestinale, la cui
soluzione è quella di identificare il punto dell’ostruzione ed effettuare una ileotomia
o una colotomia: l’incisione del viscere tubulare va fatta trasversalmente e non
sull’asse maggiore perché l’incisione longitudinale a seguito della sutura restringe il
lume.
2. Stenosi: si intende con l’espressione di stenosi un’occlusione dovuta alla presenza di un
corpo che infiltra la parete restringendola progressivamente nel lume fino ad occluderlo:
a) Tumori stenosanti: in particolar modo i carcinomi del colon sinistro.
b) Morbo di Crohn: in particolar modo nella forma ad evoluzione stenosante. Nella RCU,
a differenza del Crohn, non può esservi una stenosi come complicanza, dal momento
che la flogosi non interessa a tutto spessore la parete.
c) Diverticolite cronica: per risposta fibro-cicatriziale conseguente a progressivi
attacchi acuti.
d) Sarcoma del tenue intestino: i tumori del tenue sono evenienze rare e, in questa
rarità, i tumori non-epiteliali sono relativamente più frequenti, seguono per
frequenza i GIST, mentre i carcinomi nel tenue intestino sono molto rari.
FOCUS: SEDI PIU’ FREQUENTI DI TUMORE GASTROINTESTINALE:
1. Esofago: carcinoma del terzo distale;
2. Stomaco: carcinoma dell’antro;
3. Grosso intestino: carcinoma del retto, del sigma e del cieco.
Le zone di collocazione più frequente sono anche quelle in cui gli ingesti stazionano per più tempo.
3. Compressione: masse occupanti spazio che comprimono le anse intestinali dall’esterno. Si
tratta sostanzialmente di tumori retroperitoneali:
a) Fibrosarcomi
b) Tumore desmoide
c) Fibromatosi aggressiva
d) Tumore di rene
4. Angolazione: è la causa più frequente di occlusione intestinale del tenue dovuta alla
formazione di aderenze viscerali o viscero-addominali, che si creano dopo qualsiasi
intervento di chirurgia addominale (in realtà le aderenze si formano anche dopo guarigione
di colecistite, appendicite, salpingite). Tralci di connettivo fibroso o cotenne fibrose formano
aderenze tra le anse o tra anse e parete, offrendo anche delle problematiche per eventuali
successivi interventi chirurgici (il reintervento è più problematico). Nell’ambito
dell’occlusione intestinale, le aderenze divengono francamente patologiche quando causino
ostruzione meccanica. Nel caso delle infiammazioni, le aderenze fibrose sono protese a
circoscrivere il processo infiammatorio se questo ha un decorso non particolarmente
aggressivo. In patologie come le appendiciti e le colecistiti si ha essudazione, in caso di
cruentazione chirurgica si ha trasudazione e tutti questi liquidi contengono protrombina,
fibrinogeno e la protrombina viene normalmente lisata dagli enzimi che regolano la
fibrinolisi e inibiscono la coagulazione, che sono abbondantemente prodotti dalla sierosa
peritoneale: questa attività peritoneale si perde quando il mesotelio viene esposto
all’esterno configurando una mancata inibizione del processo coagulativo (per questo
motivo le aderenze si formano e per questo la laparoscopia che esclude l’esposizione esterna
e in cui la manipolazione è meno accentuata, dà molte meno aderenze).
5. Strangolamento: può essere causato da un’ernia strangolata, un volvolo o una
intussuscezione addominale. Nello specifico, si definisce erniazione il passaggio dell’ansa
intestinale attraverso una porta erniaria, con realizzazione di una sofferenza vascolare che è
dovuta ad erniazione del meso che contiene vasi arteriosi e venosi. In tal caso, prima di tutto
viene ostruito il deflusso venoso, si ha stasi venosa, essudazione edematosa, che causa un
aumento del volume del viscere, per poi compromettersi anche il flusso arterioso, causando
infarto intestinale. L’intussuscezione si verifica quando un tratto del viscere si invagina nel
tratto successivo (il meso viene compresso, si ostacola il flusso venoso e poi anche quello
arterioso). L’intussuscezione può verificarsi quando la parte che si invagina presenta un
grosso polipo, magari peduncolato, che risente della peristalsi, la quale tende a farlo
progredire distalmente ma poiché il polipo è attaccato alla mucosa intestinale si trascina
dietro anche la parete, provocando l’intussuscezione di un tratto prossimale in un tratto
distale; è rara nell’adulto, più frequente nei bambini. Se l’intussuscezione è presa di infilata
in RX, l’immagine che si produce è quella di due segmenti circolari radiopachi -che
rappresentano la parete invaginante e la parete invaginata, separate da un’area
radiotrasparente nel mezzo. La terapia chirurgica dell’intussuscezione prevede svolgimento
della stessa e, eventualmente, asportazione del tratto che presenta polipo. Il volvolo è una
condizione in cui si ha torsione del viscere intorno all’asse vascolare, che provoca un blocco
del transito intestinale e anche della vascolarizzazione. In questo caso, la necrosi è un
problema frequente (l’intestino peraltro va in necrosi completa entro quattro ore e dove vi
sia un blocco dell’afflusso vascolare, la necrosi arriva precocemente e il tratto interessato
non è più recuperabile).
Le manifestazioni cliniche dell’occlusione intestinale sono in parte dovute all’arresto del transito
intestinale del contenuto e in parte alle complicanze che da questa rinvengono.
1. Dolore colico: è il dolore tipico di un viscere cavo quando si abbia un ostacolo alla
progressione del contenuto da questi veicolato. È un quadro a insorgenza acuta,
caratterizzato dal raggiungimento dell’acme, dalla risoluzione e dalla riproposizione ciclica,
dovuto alla distensione improvvisa e alla contrattura spastica di un viscere cavo (che sia un
dotto biliare, salivare, l’uretere oppure anche l’intestino)
2. Addome disteso: per via della presenza di feci e gas.
3. Vomito: più intenso quanto più è prossimale l’ostruzione e di tipo diverso in base alla sede
dell’occlusione (gastrico, biliare cioè più scuro, stercoraceo se è ancor più distale).
4. Chiusura dell’alvo a feci e gas: alcune volte, se l’ostruzione è relativamente più prossimale,
il paziente potrebbe avere dei movimenti intestinali del colon a valle e quindi emettere delle
feci o del gas dovuto al transito intestinale ante-occlusione.
5. Complicanze:
a) Disidratazione
b) Squilibrio idro-elettrolitico: per vomito e sequestro di liquidi nel tratto GI.
c) Compromissione respiratoria: il diaframma non compie escursioni importanti per via
della distensione addominale che ne determina compressione; il respiro diviene
corto e frequente.
d) Ischemia o perforazione spontanea: il colon si può distendere così tanto da andare
incontro a sfiancamento e perforazione per la legge di Laplace. I gas che comprimono
la parete possono determinare una chiusura meccanica dei vasi, con conseguente
quadro di ischemia di parete.
Il cloro è uno ione che entra nell’equilibrio acido-base e quindi l’ipocloremia -causata da un vomito
gastrico, conseguente ad una occlusione molto prossimale- causa una alcalosi metabolica, che si
associa spesso a ipocalcemia. Alcalosi e ipocalcemia possono portare ad un quadro di tetania
muscolare. L’occlusione può anche determinare una ipopotassiemia, che si esprime con astenia,
letargia, anomalie della conduzione cardiaca (p. Es.: allungamento dell’intervallo QT); peraltro,
l’alcalosi metabolica trova come suo meccanismo di compenso l’attivazione dello scambiatore H+/K+
espresso pressoché da tutte le cellule dell’organismo: il tentativo compensatorio in tal caso prevede
un aumento dell’esternalizzazione di protoni in favore di un aumento dell’intake cellulare di
potassio, il che partecipa ulteriormente all’instaurarsi di una ipopotassiemia.
L’iposodiemia a propria volta determina un sequestro di acqua, motivo per cui il paziente occluso è
classicamente un soggetto disidratato (se ne riscontrano i segni a livello cutaneo e della mucosa
linguale); ovviamente, la disidratazione causa una ipotensione, che può, a propria volta indurre una
riduzione della pressione di perfusione glomerulare che si esprime con oliguria e, nel paziente
anziano e defedato, anche una evoluzione verso un’IRA funzionale (o pre-renale). La disidratazione
causa anche un aumento dell’azotemia (v.n. urea plasmatica < 50 mg/dL).
Per quanto riguarda la diagnosi dell’occlusione meccanica:
1. Esame clinico:
a) Raccolta anamnestica: ricercare nella storia clinica eventuale tumore, storia di
interventi chirurgici, di morbo di Crohn, ernia inguinale, laparocele.
b) Monitoraggio della sintomatologia
c) Esame obiettivo:
i. Ispezione: addome disteso e meteorico
ii. Palpazione: addome elastico (percezione tattile di peristalsi)
iii. Percussione: suono timpanico.
iv. Auscultazione: borborigmi intestinali intensi per esagerata attivazione
peristaltica finalizzata a forzare l’occlusione, silenzio addominale in fase
avanzata per esaurimento funzionale dovuto ad alterazioni elettrolitiche che
fa subentrare uno stato paretico.
v. DRE: massa nel retto, fecaloma se l’occlusione intestinale è bassa.
2. Diagnostica per immagini: la metodica di primo livello per la diagnosi di un’occlusione
meccanica è l’RX addome in ortostasi; l’ortostasi permette di vedere i livelli idro-aerei in
proiezione anteroposteriore (il liquido si porta in parti declivi per gravità). Se il paziente è
allettato, non può stazionare in ortostatismo, si dovrà ripetere/effettuare la diretta addome
a paziente disteso in proiezione laterolaterale o richiedere una TC con mdc.

Nell’ostruzione meccanica, inoltre, si deve approfondire lo studio intestinale per


programmare l’intervento chirurgico, al fine di chiarire la causa e la sede dell’occlusione.
Quindi, si possono effettuare:
a) Ecografia: può essere utile, ma non è la metodica diagnostica più informativa.
b) EGDS: in caso di occlusioni intestinali alte, per tumore dello stomaco, stenosi
conseguente a ulcera peptica.
c) Colonscopia: per occlusioni intestinali basse, consente di individuare la sede,
ma anche di fare biopsia e addirittura in alcuni casi consente di introdurre uno
stent terapeutico, una cannula a maglie autodilatante per risolvere
temporaneamente il problema dell’occlusione e portare al tavolo operatorio
il paziente con un colon non disteso.
d) Laparoscopia: in caso di occlusione intestinale non sempre è consigliata;
bisogna iniettare aria in cavità addominale per far entrare gli strumenti; ma
se tutta la cavità addominale è distesa, lo spazio disponibile per l’inserimento
degli strumenti è poco e i trocar potrebbero facilmente perforare un viscere,
quindi, è preferibile non eseguirla.
Per quanto riguarda il trattamento, la risoluzione della causa è l’obiettivo primario e l’unico
intervento terapeutico utile in tal senso è la chirurgia.
1. Parametri vitali:
a) Monitoraggio della pressione
b) ECG
c) Diuresi
2. Trattamento di supporto:
a) Digiuno
b) Liquidi ed elettroliti
c) Sondino nasogastrico per detendere lo stomaco ed evitare polmoniti ab ingestis.
3. Chirurgia: è la terapia per la risoluzione della causa, poiché consente la rimozione
dell’ostacolo e dipende dalla causa:
a) Adesiolisi:
b) Rimozione dell’ostacolo.
L’adesiolisi è una metodica chirurgica indicata se la causa sia rappresentata da aderenze o da
un’ernia non necrotica ma solo irriducibile (lo strangolamento è di per sé indicazione alla chirurgia
asportativa).
Invero, nella maggior parte dei casi, è necessario rimuovere l’ostacolo mediante asportazione di un
tratto di intestino: l’asportazione rappresenta la parte demolitiva dell’intervento. Alla parte
demolitiva segue sempre una parte ricostruttiva, volta a ripristinare la canalizzazione intestinale. In
questo scenario, davanti al chirurgo si pone una decisione clinica difficile circa la scelta di (1)
ristabilire la continuità intestinale con un’anastomosi o (2) effettuare una derivazione del segmento
intestinale all’esterno mediante colostomia o ileostomia. Questa scelta alle volte è obbligata, perché
magari c’è un’importante sproporzione di calibro tra il segmento a monte, che è dilatato, e quello a
valle o perché l’occlusione provoca una sofferenza vascolare sul segmento dilatato incidendo
negativamente sulla perfusione dell’anastomosi e sul processo di guarigione, determinando
insorgenza di un leak anastomotico che predispone ad una peritonite stercoracea, che soprattutto
in pazienti anziani è evento temibile.
Malattia diverticolare

Per malattia diverticolare si intende quella in cui si realizza una protrusione della parete che può
essere sede di processi infiammatori, particolarmente a livello del colon, dove questi diverticoli
solitamente si realizzano.
Precisiamo fin da subito che esiste una differenza terminologica tra quello che prende il nome di
“vero diverticolo” e quello che prende il nome di “falso diverticolo”. Il vero diverticolo, come il
diverticolo di Meckel o il diverticolo esofageo è una estroflessione sacciforme della parete del
viscere costituita da tutt’e tre le tonache del viscere stesso; invece, il falso diverticolo è una
estroflessione sacciforme della mucosa e della sierosa, per cui la sua struttura istologica non
prevede la presenza di una tonaca muscolare, il che, evidentemente, rende ragione dell’intrinseca
fragilità di tale estroflessione: quelli propri della malattia diverticolare sono i falsi diverticoli.
Si stima che circa il 10% della popolazione sia portatrice di diverticoli del colon, sebbene occorra
precisare che, in base all’esperienza clinica, trovare nelle nostre regioni un ultrasessantenne che
abbia un diverticolo è condizione abbastanza frequente, anche legata all’età e all’invecchiamento
dei tessuti.
In termini di distribuzione geografica, la malattia diverticolare si riscontra maggiormente nella
popolazione occidentale -e questo sarebbe un dato epidemiologico a favore della relazione
esistente tra lo sviluppo della malattia diverticolare e la dieta-, mentre nei paesi asiatici questa
malattia è quasi sconosciuta, verosimilmente per la diversa dieta che tale popolazione conduce. In
alcune regioni dell’Asia, dove c’è una crescente introduzione di abitudini occidentali nella dieta, si
osserva un aumento dell’incidenza della diverticolosi.
Dunque, in termini di eziologia, viene riconosciuto un ruolo alla dieta a basso contenuto di fibre,
che costringe il colon a contrazioni più intense per la progressione del bolo alimentare (la massa
fecale è meno idrata), provocando un aumento anomalo delle pressioni endoluminali che sono alla
base della patogenesi. Altri fattori sono stati di volta in volta presi in considerazione, ma nessuno di
questi sembrerebbe avere un ruolo nell’eziologia della malattia diverticolare.

• FISIOPATOLOGIA E PATOGENESI
Il colon e il sigma, che sono i segmenti che maggiormente sono interessati dalla presenza di questi
diverticoli, sono vascolarizzati da una serie di vasi che decorrono nei mesi e si diramano in vasa recta
che attraversano a tutto spessore la parete: per favorire l’ingresso dei vasa recta e assecondare la
pulsazione del vaso arterioso, la parete, proprio in corrispondenza di questi vasi, presenta una zona
di tonaca muscolare di maggior lassità, nella quale appunto si formano i diverticoli.
La maggioranza dei diverticoli si colloca nel sigma, più raramente nel colon destro, difficilmente nel
colon trasverso e non esistono diverticoli rettali, per due motivi: (1) in gran parte è un organo
extraperitoneale e (2) la distribuzione delle tonache muscolari nel retto è completamente diversa
dalle tenie che caratterizzano il colon.
Secondo la legge di Laplace, la pressione endoluminale è inversamente proporzionale al raggio e
questo spiega perché il sigma sia la zona più suscettibile poiché questo segmento intestinale è
soggetto a pressioni endoluminali elevate e poiché il calibro di questa regione del grosso intestino
è ridotto. A questo si associa, nella patogenesi, l’insieme delle contrazioni sincrone che possono
insorgere in due diverse zone del colon: il colon è dotato di movimenti di peristalsi, retroperistalsi e
segmentazione ma esistono anche situazioni in cui due tratti del colon vanno in contrazione sincrona
causando un aumento della pressione nel tratto di colon interposto alle due zone di contrazione,
favorendo l’aumento della pressione che a propria volta può essere fattore favorente
all’estroflessione della mucosa e della sierosa con formazione del diverticolo.
I diverticoli, che connotano la diverticolosi, possono infiammarsi per via di ostruzioni da parte di
fecaliti e dare luogo a quella che prende il nome di diverticolite, che insorge inizialmente per un
fatto meccanico e ostruttivo. Infatti, il colon è sede di ricchissima flora batterica che va incontro a
virulentazione a seguito dell’ostruzione da parte del fecalita, offrendo sostegno alla flogosi che può
evolvere in vari modi. Lo stesso processo infiammatorio che evolva in forma acuta, con l’aumento
della pressione endoluminale, può determinare una perforazione che può essere libera o, se il
processo infiammatorio in parte si organizza, si può avere un ascesso o una peritonite saccata.
Esiste anche una ulteriore problematica, che è quella dell’emorragia: i diverticoli corrispondono
praticamente sempre ad una zona prossima a quella di un’arteriola, la cui parete può essere
coinvolta dalla flogosi.

La diverticolosi può rimanere asintomatica (70% dei casi) o complicarsi con sanguinamento (5% dei
casi) o diverticolite (25% dei casi); a propria volta, la diverticolite può essere semplice -alle volte
paucisintomatica con dolore in fossa iliaca destra, febbricola e buona risposta alla terapia antibiotica
e al riposo dall’alimentazione- o complicata (25% delle diverticoliti): se la diverticolite si esprime
con una flogosi acuta e aggressiva possono riscontrarsi perforazioni libere, ascessi o peritoniti, se,
invece, la flogosi si esprime in maniera meno aggressiva possono formarsi fistole o aversi delle
ostruzioni.
L’ascesso si definisce come la deposizione di essudato purulento in una cavità neoformata, nello
spessore della parete del colon, da cui può aversi la propagazione e l’evoluzione in una peritonite
purulenta. Se c’è perforazione libera il contenuto si riversa ovviamente all’esterno, determinando
una peritonite stercoracea.
Per quanto riguarda le complicanze croniche, queste si esprimono con (1) occlusioni o (2)
formazione di fistole.
Quando la diverticolite guarisce -il che accade dopo qualunque tipo di flogosi-, la riparazione
cicatriziale determina deposizione di tessuto fibroso: se la diverticolite diviene recidivante, la
parete colica interessata si ispessisce a scapito del lume, che si restringe, causando un’occlusione
intestinale. L’altra possibilità è che la flogosi che coinvolge la sierosa si trasmetta anche alla sierosa
adiacente, cosicché i due visceri entrino in contatto: se il processo flogistico porta alla necrosi di
parete, si avrà una perforazione che non sarà più libera nel peritoneo ma in un altro organo. Lo
scenario che consegue a questa perforazione è variabile e dipende essenzialmente dall’organo con
cui si forma l’aderenza: se ad aderire è un'altra ansa intestinale si può avere la formazione di una
fistola sigmoido-ileale o, più frequentemente, se ad aderire è la sierosa vescicale si possono
formare delle fistole colo-vescicali o, nelle donne che abbiano avuto isterectomia, si può avere una
fistola colo-vaginale. La fistola colo-vaginale può causare una vaginite con secrezioni vaginali
purulente e possibile interessamento del meato uretrale che può evolvere in una IVU -pollachiuria,
stranguria, disuria- per via della contiguità. La fistola colo-vescicale può dare cistite e soprattutto
pneumaturia. Un quadro di pneumaturia è patognomonico di una fistola colo-vescicale che può
realizzarsi anche in altre patologie fistolizzanti, per esempio nella malattia di Crohn, oppure un
tumore in stato avanzato che abbia superato tutte le tonache del sigma e che si perfori nella vescica.
Per quanto riguarda le fistole ileo-coliche, nell’ileo è presente materiale intestinale, come chimo,
succhi enterici (il materiale ileale è molto fluido, perché la maggior parte dell’acqua viene riassorbita
nel cieco e nel colon). E allora, il paziente con fistola ileo-colica lamenterà emissione di feci molto
liquide -con diarrea estremamente importante-, con una sindrome malassorbitiva -steatorrea,
diarrea, alterazioni del profilo lipidico, possibile ipoalbuminemia- e perdita notevole di elettroliti.

• CLINICA
Nella maggior parte dei casi, la malattia diverticolare è asintomatica: questo accade nel 70% dei casi,
circa. L’esordio clinico della malattia si ha nel momento in cui questa dovesse evolvere in un
sanguinamento del diverticolo ovvero in una diverticolite, che nella maggioranza dei casi è una
diverticolite semplice acuta, talora complicata in maniera acuta (ascessi, peritonite purulenta o
perforazione libera e peritonite stercoracea) o cronica (ostruzione o fistola).
1) DIVERTICOLITE ACUTA
Il sintomo caratteristico della diverticolite acuta è il dolore, solitamente in fossa iliaca sinistra,
persistente e continuo (diverso dal dolore colico). Un dato anamnestico importante è quello degli
episodi dolorosi ricorrenti -il dolore regredisce con il riposo o la terapia antibiotica. Altri sintomi che
si associano in qualunque flogosi intestinale sono nausea, vomito, stipsi o anche diarrea. Quando
coinvolta la vescica possono comparire dei sintomi urinari.
L’esame fisico documenta resistenza alla palpazione nel quadrante infero-sinistro, qualche volta si
apprezza una massa (20% dei casi e perlopiù quando la diverticolite è cronica); quando il dolore e la
contrattura di difesa siano generalizzati siamo davanti ad una peritonite o a una perforazione (la
perforazione si diagnostica con certezza mediante percussione dell’aia di ottusità epatica, che
scompare).
FOCUS: CLINICA DELLA PERITONITE ACUTA
La peritonite acuta si caratterizza per la presenza di alcuni sintomi e segni generali e di alcuni sintomi e segni
addominali. Innanzitutto, nel paziente con peritonite acuta sono presenti febbre, tachicardia e respiro corto e
superficiale -le escursioni diaframmatiche comprimono il peritoneo infiammato, esacerbando il dolore addominale.
Il paziente con peritonite acuta è classicamente un paziente in decubito antalgico, immobile e si presentano dei
sintomi e segni locali, rappresentati dal dolore che diviene generalizzato e associato ad un addome ligneo con
contrattura di difesa della parete addominale. È presente, eventualmente, una dolorabilità da rimbalzo (segno di
Blumberg positivo). La mancata emissione di feci e gas, la distensione addominale e il silenzio auscultatorio possono
essere presenti se la peritonite determina un ileo adinamico.
FOCUS: CLINICA DELLA PERFORAZIONE ADDOMINALE
Nell’ambito di una perforazione addominale, l’esordio è quello di un dolore violento, a carattere trafittivo (“a colpo
di pugnale”), che tende progressivamente a divenire costante e generalizzato. Si associano tutti i sintomi e i segni di
una peritonite, cui si aggiunge, come segno patognomonico la scomparsa dell’aia di ottusità epatica, che peraltro è
anche documentabile all’RX in ortostatismo dell’addome, che mette in evidenza una falce aerea subfrenica.
È presente febbre, variabile da febbricola a casi di febbre settica, che nelle forme non complicate
risponde bene alla terapia antibiotica con ceftriaxone (o cefotaxime) e metronidazolo.
Agli esami di laboratorio, si riscontrano leucocitosi neutrofila, aumento della VES e della PCR, le
transaminasi sono normali e l’amilasi (o la lipasi) talvolta elevata. In questi casi di addome acuto, è
possibile trovare aumenti delle amilasi e delle lipasi pancreatiche che non correlano con quadri di
pancreatite acuta, che deve essere sempre esclusa nei pazienti con addome acuto. Le amilasi e le
lipasi spesso anche dopo intervento chirurgico prolungato possono muoversi e non sono indice di
pancreatite, sebbene possano allarmare falsamente il chirurgo o il medico che abbia in carico il
paziente (l’amilasemia ha un valore normale di 100-200 U/L, mentre in pancreatite acuta il valore
dell’amilasi può arrivare anche a 4-5 volte rispetto al valore normale o anche molto di più). In un
caso come questo, sicuramente si ritrovano valori fuori dal range di normalità, ma non tanto elevati
quanto quelli che si riscontrano in una pancreatite, dove i rialzi sono molto più importanti. Va
precisato, tuttavia, che amilasi e lipasi non sono indice di severità del danno pancreatico in corso di
pancreatite acuta: vi sono quadri con necrosi estensiva del parenchima pancreatico in cui i valori di
amilasi e lipasi sono normali o addirittura ridotti, semplicemente perché tutto il pancreas è andato
incontro a necrosi e non vi sono più cellule che producano/rilascino gli enzimi pancreatici.
2) DIVERTICOLITE CRONICA
Per quanto riguarda la diverticolite cronica, innanzitutto c’è stipsi che evidentemente prima non vi
era (attenzione a pazienti che solo alcuni mesi prima sono diventati stitici, perché potrebbero avere
un tumore del colon-retto o una diverticolite cronica, la stipsi di recente insorgenza in pazienti
ultrasessantenni è sempre sintomo di allarme: fare una colonscopia come prima indagine in tal
caso). Può esservi la clinica di una occlusione intestinale o di fistole. Le fistole entero-enteriche si
manifestano con diarrea imponente e steatorrea, le fistole entero-vaginali con sintomi di vaginite,
le fistole entero-vescicali con un segno tipico che è la pneumaturia -interruzione del mitto.
FOCUS: CLINICA DELL’OCCLUSIONE INTESTINALE
Le manifestazioni cliniche dell’occlusione intestinale sono in parte dovute all’arresto del transito intestinale del
contenuto e in parte alle complicanze che da questa rinvengono.
1. Dolore colico: è il dolore tipico di un viscere cavo quando si abbia un ostacolo alla progressione del
contenuto da questi veicolato. È un quadro a insorgenza acuta, caratterizzato dal raggiungimento dell’acme,
dalla risoluzione e dalla riproposizione ciclica, dovuto alla distensione improvvisa e alla contrattura spastica
di un viscere cavo (che sia un dotto biliare, salivare, l’uretere oppure anche l’intestino, la manifestazione è
sempre la stessa)
2. Addome disteso: per via della presenza di feci e gas.
3. Vomito: più intenso quanto più è prossimale l’ostruzione e di tipo diverso in base alla sede dell’occlusione
(gastrico, biliare cioè più scuro, stercoraceo se è ancor più distale).
4. Chiusura dell’alvo a feci e gas: alcune volte, se l’ostruzione è relativamente più prossimale, il paziente
potrebbe avere dei movimenti intestinali del colon a valle e quindi emettere delle feci o del gas dovuto al
transito intestinale ante-occlusione.
5. Complicanze:
a) Disidratazione
b) Squilibrio idro-elettrolitico: per vomito e sequestro di liquidi nel tratto GI.
c) Compromissione respiratoria: il diaframma non compie escursioni importanti per via della
distensione addominale che ne determina compressione; il respiro diviene corto e frequente.
d) Ischemia o perforazione spontanea: il colon si può distendere così tanto da andare incontro a
sfiancamento e perforazione per la legge di Laplace. I gas che comprimono la parete possono
determinare una chiusura meccanica dei vasi, con conseguente quadro di ischemia di parete.
Il cloro è uno ione che entra nell’equilibrio acido-base e quindi l’ipocloremia -causata da un vomito gastrico,
conseguente ad una occlusione molto prossimale- causa una alcalosi metabolica, che si associa spesso a ipocalcemia.
Alcalosi e ipocalcemia possono portare ad un quadro di tetania muscolare. L’occlusione può anche determinare una
ipopotassiemia, che si esprime con astenia, letargia, anomalie della conduzione cardiaca (p. Es.: allungamento
dell’intervallo QT); peraltro, l’alcalosi metabolica trova come suo meccanismo di compenso l’attivazione dello
scambiatore H+/K+ espresso pressoché da tutte le cellule dell’organismo: il tentativo compensatorio in tal caso
prevede un aumento dell’esternalizzazione di protoni in favore di un aumento dell’intake cellulare di potassio, il che
partecipa ulteriormente all’instaurarsi di una ipopotassiemia.
L’iposodiemia a propria volta determina un sequestro di acqua, motivo per cui il paziente occluso è classicamente
un soggetto disidratato (se ne riscontrano i segni a livello cutaneo e della mucosa linguale); ovviamente, la
disidratazione causa una ipotensione, che può, a propria volta indurre una riduzione della pressione di perfusione
glomerulare che si esprime con oliguria e, nel paziente anziano e defedato, anche una evoluzione verso un’IRA
funzionale (o pre-renale). La disidratazione causa anche un aumento dell’azotemia (v.n. urea plasmatica < 50 mg/dL).
3) SANGUINAMENTO DEL DIVERTICOLO
La terza possibilità di appalesamento clinico di una malattia diverticolare è quella del
sanguinamento: in realtà, non ci sono segni premonitori, il paziente solitamente non ha dolore o
altre manifestazioni, bensì presenta perdita di sangue che spesso si arresta spontaneamente, ma
alle volte causa importante ipovolemia, che impone il ricovero urgente del paziente. L’esame fisico,
in tal caso, è assolutamente negativo per dolore, dolorabilità palpatoria. Nei casi di grave shock
ipovolemico, per fare una diagnosi di urgenza e capire che la perdita proviene da un diverticolo
intestinale si può fare una TC con mdc -la colonscopia non è effettuabile (1) perché il colon non è
preparato, (2) perché il sangue non farebbe vedere nulla e (3) perché l’endoscopio potrebbe
peggiorare la situazione.
In altri casi, la perdita ematica è cronica e si rende evidente agli esami ematochimici con una
anemizzazione -anemia normocitica e normocromica. In tal caso, richiedere la ricerca del SOF è
possibile, a patto che, ovviamente, non ci sia evidenza clinica della presenza di sangue nelle feci.

• DIAGNOSTICA
In tutte le forme di diverticolite l’esame diagnostico è la TC con mdc (ricordare di richiedere sempre
il contrasto per le indagini dell’intestino altrimenti non si vede nulla). Il clisma opaco può essere
un’altra indicazione purché non ci sia una flogosi acuta in atto che porta al rischio di perforazione
per l’aria che viene insufflata. L’ecografia potrebbe essere utile soprattutto nelle forme di ascesso
diverticolitico, così come utile può essere nelle diverticoliti croniche con stenosi.
La TC può anche essere un mezzo di ausilio per la terapia invasiva come il drenaggio percutaneo TC-
guidato (c’è una tendenza in alcune forme di flogosi circoscritta e ascessuale a effettuare un
drenaggio percutaneo e lavaggio della zona che avrebbe effetto di controllare l’evoluzione settica
del quadro clinico e consentire di accedere alla terapia chirurgica in elezione e non in urgenza con
complicazioni dello stato generale del paziente).

• TERAPIA
La terapia della malattia diverticolare dipende da una classificazione, che è la classificazione di
Hinchey, in base alla quale viene stabilito il trattamento più idoneo a seconda dello stadio in cui la
malattia venga a trovarsi.
1. Stadio I: ascesso pericolico confinato, terapia conservativa antibiotica. In tutte le flogosi
intestinali si associa una cefalosporina di terza generazione con metronidazolo, che ha uno
spettro d’azione molto preciso verso Gram- anaerobi, che sono i batteri più virulenti presenti
nella flora batterica intestinale. Per questo motivo, qualunque terapia per una flogosi colica
o qualunque profilassi deve prevedere sempre la somministrazione del metronidazolo.
2. Stadio II: ascesso retroperitoneale o pelvico, si potrebbe trattare con drenaggio TC- o eco-
guidato o mediante laparoscopia.
3. Stadio III: peritonite generalizzata; si tratta di un’emergenza chirurgica.
4. Stadio IV: peritonite stercoracea con perforazione libera. Anche questa è da considerarsi
alla stregua di un’emergenza chirurgica, tenendo, soprattutto, conto del fatto che si tratti
spesso di pazienti anziani con alta percentuale di mortalità operatoria.
Le IBD in chirurgia

Le malattie infiammatorie croniche intestinali sono delle patologie caratterizzate da una flogosi
cronica a carico della parete intestinale, di diversa entità a seconda che si parli della rettocolite
ulcerosa e della malattia di Crohn. Queste due patologie sono di competenza gastroenterologica e
vengono gestite da questa figura professionale: nel management delle IBD la figura del chirurgo
addominale è chiamata in causa solo nel momento in cui si realizzino le complicanze della malattia,
che sono rappresentate principalmente da stenosi, ascessi e fistole per la malattia di Crohn e da
megacolon tossico e carcinoma colorettale per la RCU.

● MALATTIA DI CROHN
È una malattia infiammatoria cronica intestinale, potenzialmente ubiquitaria nel tratto
gastrointestinale, ad interessamento transmurale e ad espressione francamente granulomatosa.
Per la prima volta descritto da Morgagni, la sua caratterizzazione è stata definita da un
gastroenterologo americano che definì questa malattia come “ileite intestinale” perché è questa la
localizzazione più caratteristica, sebbene la malattia possa esprimersi con un interessamento
sincrono di vari distretti. Il morbo di Crohn è, infatti, una patologia che può anche localizzarsi,
oltreché nel tubo digerente, anche a livello perineale e sono stati segnalati casi, rari, di Crohn
cutaneo anche in altri distretti.
Epidemiologicamente, la malattia colpisce soprattutto i giovani, nella terza decade di vita ma viene
descritto un secondo picco di incidenza intorno alla settima decade di vita.
1) IPOTESI PATOGENETICHE
La malattia di Crohn è una patologia della quale ancora oggi gli intimi dettagli meccanicistici che ne
sottintendono la patogenesi non sono ancora del tutto noti e questo, ovviamente, ha una sua
rilevanza pratica giacché la terapia di cui oggi si dispone non è una terapia che ha la pretesa di curare
la malattia ma è, essenzialmente, una terapia sintomatica. È noto che vi contribuiscano fattori che
hanno a che vedere con la suscettibilità genetica, in particolare coinvolgendo alcuni geni che
predispongono ad una risposta immune alterata. Altri fattori chiamati in causa sono i fenomeni di
regolazione epigenetica, l’alterazione della flora batterica intestinale che gioca un ruolo anche in
queste patologie e verosimilmente è essa stessa in qualche maniera correlata alla presenza di una
disregolazione della risposta immune,
Ricordiamo che la tonaca sottomucosa del tubo gastroenterico è particolarmente ricca di cellule
immunocompetenti così come il sottocute, come la mucosa e la sottomucosa respiratoria, dal
momento che questi sono organi che vengono in contatto con l’ambiente esterno e con le possibili
noxe esogene. Una particolare abbondanza di cellule immunocompetenti, soprattutto linfociti T,
sono il motivo per cui il trapianto di questi organi è molto complesso e continua a rappresentare
una grande sfida, soprattutto a livello intestinale.
Uno tra i possibili geni che risulterebbero coinvolti nel determinismo patogenetico della malattia di
Crohn è il gene CARD15 (o NOD2) che è un gene molte volte mutato nel Crohn. Tra i fattori esogeni,
vi sono fattori legati all’ambiente, come l’utilizzo dei contraccettivi orali, lo stato socioeconomico,
l’abuso di FANS come fattori precipitanti e il fumo di sigaretta, che è un importante fattore di rischio
per la malattia di Crohn, sia per la sua instaurazione che per le recidive postoperatorie, specificando,
comunque, che la chirurgia nella malattia di Crohn non abbia alcun ruolo curativo.
2) ISTOPATOLOGIA
Istopatologicamente, la malattia di Crohn si caratterizza per una flogosi transmurale e ad
estensione segmentaria, che esita nella formazione di ulcere aftoidi e serpiginose che conferiscono
l’aspetto endoscopico “acciottolato”; sebbene queste siano lesioni caratteristiche della malattia di
Crohn, il marker istologico di questa patologia è costituito dai granulomi epitelioidei.
L’anatomia patologica della malattia di Crohn, inoltre, consente di eseguire una classificazione che
sia basata sulla localizzazione della malattia, da un lato, o sull’evoluzione della flogosi.
1. Localizzazione di malattia:
a) Ileale (30% dei casi);

b) Ileocolica (50% dei casi);

c) Colica (20% dei casi);

d) Malattia perianale.

2. Evoluzione della Flogosi:


a) Malattia stenosante;
b) Malattia infiammatoria;
c) Malattia penetrante (o fistolizzante).

Va precisato che con una frequenza non trascurabile (20-30% dei casi) il Crohn può colpire anche la
regione perianale determinando la formazione di fistole, ascessi e lesioni ragadiformi che sono
assolutamente tipiche della malattia perianale. In questo caso, ovviamente, è doveroso fare
riferimento al fatto che a livello anale altri tipi di fistole, cioè le fistole criptoghiandolari, possono
comunque formarsi. Le fistole perianali della malattia di Crohn sono accompagnate da edemi,
arrossamenti, disepitelizzazione della cute perianale, in cui l’obiettivo è quello della gestione del
processo infiammatorio acuto: il trattamento migliore che si può effettuare in questi pazienti è
quello di posizionare dei setoni, cioè dei lacci che passano attraverso l’orifizio esterno consentendo
lo scarico dell’essudato purulento, accompagnato al trattamento antinfiammatorio intenso.
Ovviamente, le fistole criptoghiandolari sono molto più frequenti di quella del Crohn, in cui si
accompagnano anche fissurazioni, edemi, ulcere, orifizi multipli e flogosi importante della zona
perianale, con lesioni ragadiformi associate che nelle fistole criptoghiandolari non si hanno, ma
sono, per contro, tipiche di un Crohn anale. Importante è ricordare che il comportamento biologico
della malattia può avere tre tipi di evoluzione: stenosante, infiammatorio-ascessualizzante e
fistolizzante; ognuna di queste tre evoluzioni spiega le possibili complicanze della malattia di Crohn.
3) MANIFESTAZIONI EXTRAINTESTINALI
La malattia di Crohn può determinare una serie di manifestazioni extraintestinali e tra quelle più
frequenti vi sono le spondiloartriti sieronegative; le spondiloartriti sieronegative sono delle
patologie infiammatorie dell’asse o delle articolazioni periferiche, definite in questa maniera in
contrapposizione all’artrite reumatoide, che è da lungo tempo considerata l’artrite sieropositiva.
Ebbene, si descrive una particolare entità nosografica nell’ambito delle spondiloartriti sieronegative
che è l’artrite enteropatica, che può esprimersi con un dolore infiammatorio localizzato a livello del
rachide o di alcune articolazioni periferiche. Possibile è la presenza di un coinvolgimento oculare,
che si esprime particolarmente con uveiti anteriori -caratterizzate da dolore bulbare, fotofobia,
annebbiamento della vista- o episcleriti. Tra le manifestazioni cutanee possibili sono l’eritema
nodoso e il pioderma gangrenoso. Possono facilmente insorgere delle trombosi venose profonde
e molto frequente è la comparsa di litiasi biliare: l’alterazione del circolo enteroepatico determina
riduzione del riassorbimento dei Sali biliari, con conseguente aumento della saturazione del
colesterolo nella bile e precipitazione dello stesso (si descrive nel Crohn anche un’aumentata
tendenza alla nefro-urolitiasi). Differentemente dalla RCU, nella malattia di Crohn molto meno
frequente è la comparsa della colangite sclerosante primitiva.
Queste manifestazioni extraintestinali talora sono così importanti da essere predominanti rispetto
alla malattia di base e possono rappresentare l’esordio della malattia e la prima diagnosi prima che
vi sia la chiarezza del quadro morfologico di base.
4) CLINICA
Dal punto di vista clinico, il sintomo principale della malattia di Crohn è il dolore addominale non
continuo, spesso accompagnato da diarrea, febbricola, astenia, nausea, anoressia, calo ponderale,
presenza di sangue e muco nelle feci in particolare se si ha a che fare con soggetti giovani.
Ricordiamo che segni laboratoristici o clinici come anemia o sangue evidente nelle feci, calo
ponderale, segni di malassorbimento (p. Es.: steatorrea, alterazioni del profilo lipidico e dell’assetto
proteico) devono far sospettare che la diarrea in questione nel soggetto non sia una diarrea di tipo
funzionale, bensì di tipo organico. Un altro sintomo d’allarme che aiuta in tal senso, è la presenza
del dolore notturno, che spesso sveglia il paziente. In proposito dell’anemia, quest’ultima può
dipendere, nella malattia di Crohn sia da una perdita ematica cronica causata dall’infiammazione
della mucosa, che dalla presenza di un malassorbimento di cobalammina -in tal caso si avrà a che
fare con un’anemia tipicamente macrocitica e megaloblastica, che invece mai si ha nella RCU. È
chiaro che in presenza delle manifestazioni extraintestinali, i sintomi e i segni di questi
coinvolgimenti arricchiranno il quadro clinico. Così, potranno comparire episodi suggestivi di una
colica biliare, il paziente potrebbe riferire la presenza di un dolore notturno e mattutino associato a
rigidità al risveglio e localizzato a livello del rachide lombare o della regione glutea -in caso di artrite
enteropatica ad interessamento assiale- o, alternativamente, potrebbe descrivere un dolore
infiammatorio delle articolazioni periferiche, spesso asimmetrico e caratteristicamente migrante e
non-aggiuntivo, ma sostitutivo, in caso di interessamento artritico delle articolazioni periferiche.
Per quanto riguarda l’esame obiettivo, l’addome è tipicamente privo di reperti obiettivabili a meno
che non si tratti di una situazione in cui siano già comparse le complicanze della malattia di Crohn,
vale a dire ascessi, fistole e/o occlusione. Potrebbero essere obiettivabili, tuttavia, aspetti legati alle
manifestazioni extraintestinali della patologia, per esempio l’eritema nodoso e il pioderma
gangrenoso.
5) COMPLICANZE LOCALI DELLA MALATTIA DI CROHN
Le complicanze locali della malattia di Crohn rappresentano un aspetto fondamentale, dal momento
che sono di per loro indicazione al trattamento chirurgico. Un concetto di base nel management del
morbo di Crohn è legato a quando indicare l’esecuzione dell’intervento chirurgico; nella gestione di
tale patologia, infatti, un punto critico alla base è la cooperazione tra gastroenterologo e il chirurgo:
non è infrequente che il tentativo di protrarre troppo a lungo la terapia medica porti il paziente
all’attenzione del chirurgo con un quadro già molto complicato. Le tre complicanze principali della
malattia di Crohn sono rappresentate dall’occlusione intestinale, dalle fistole e dagli ascessi.
1. Occlusione meccanica: la fibrosi stenosante che consegue alla flogosi transmurale e la
deposizione di tessuto fibroso determinano un ispessimento della parete a spese del lume,
con quadri di ostruzione intestinale più o meno completa, che si manifestano con dolore
colico, distensione addominale, ipertimpanismo percussorio, e intensi borborigmi
all’auscultazione dell’addome.
2. Fistola (20-40% dei casi): si definisce, con l’espressione di fistola, una comunicazione non
anatomica e preternaturale tra due comparti, di norma non comunicanti, rivestiti di epitelio.
La fistola è conseguenza della flogosi transmurale e dell’estensione della flogosi dalla sierosa
dell’ansa interessata ad una sierosa adiacente. La comparsa di aderenze tra i visceri è un
aspetto fondamentale nella patogenesi delle fistole: le due sierose infiammate aderiscono
per via dell’essudazione della fibrina e dei fattori della coagulazione, cui si associa una
inibizione dell’attività proteolitica dell’uPA. L’essudazione fibrinosa e l’inibizione dell’uPA
facilitano la formazione delle aderenze: è questa la premessa per la formazione delle fistole.
La fistola può interessare due segmenti intestinali, la vagina (soprattutto nelle pazienti che
abbiano effettuato isterectomia) o la vescica esitando in tal caso in pneumaturia associata
a infezione urinaria. Le fistole entero-cutanee sono possibili e si formano tra la cute e le anse
intestinali del tenue in diversi segmenti; si tratta di fistole ad alta gittata (il paziente perde
grande quantità di liquidi, elettroliti, Sali biliari, nutrienti). Le fistole entero-cutanee
rappresentano un grande problema gestionale nei pazienti con morbo di Crohn, poiché sono
difficili da curare rispetto ad altre tipologie di fistole.
3. Ascessi: richiedono un drenaggio chirurgico e terapia antibiotica. Generalmente, la
comparsa di ascessi è definita dall’esordio con una febbre settica.
4. Sanguinamento: nella malattia di Crohn normalmente la perdita ematica è minima, ma vi
sono casi in cui nella fase acuta la mucosa sanguina a nappo, per via del coinvolgimento di
più vasi che si rendono responsabili di un sanguinamento difficile da controllare.
Ovviamente, il sanguinamento può essere clinicamente evidente ovvero essere non-
evidente; in quest’ultimo caso, il segno laboratoristico del sanguinamento è rappresentato
dall’anemizzazione.
Non va, poi, dimenticato che la malattia di Crohn sia una patologia infiammatoria cronica e tutti i
processi infiammatori cronici rappresentano una condizione favorente alla carcinogenesi: il rischio
di cancro del colon è tre volte maggiore rispetto ad un soggetto normale. Quando si stabilisce una
infiammazione cronica, l’organo può più facilmente sviluppare una trasformazione neoplastica e
questo vale non solo per il grosso intestino, ma anche per altri distretti (p. Es.: colecistite cronica/
colangite sclerosante primitiva e colangiocarcinoma, epatocarcinoma e cirrosi, RCU e carcinoma
colorettale, gastrite cronica atrofica/ulcera peptica ed adenocarcinoma gastrico, esofago di Barrett
e carcinoma dell’esofago). Questo accade perché durante la rigenerazione dell’epitelio dallo strato
basale della mucosa si verificano errori del DNA sulle cellule non differenziate che vanno incontro a
trasformazione a seguito dell’accumulo di mutazioni, che possono comportare una perdita di
funzione dei geni dell’apoptosi o un guadagno di funzione dei geni che governano la proliferazione
cellulare: cancer stem cell.
Tuttavia, non ci sono tantissimi casi di evoluzione del Crohn in carcinoma colorettale, sebbene, lì
dove tale evoluzione si abbia, il carcinoma esordisca più precocemente rispetto al classico cancro
del colon.
Un problema importante nei pazienti per anni in cura per un Crohn perianale è rappresentato dal
carcinoma squamoso dell’ano. Il carcinoma dell’ano, in questi pazienti, è abbastanza difficile da
gestire. Solitamente, il protocollo di trattamento del carcinoma anale prevede, soprattutto negli
istotipi squamosi, il ricorso a chemioterapia e radioterapia. Tuttavia, nei pazienti con Crohn
perianale la flogosi cronica complica l’esecuzione di queste terapie per cui in questi casi si è spesso
costretti a eseguire l’amputazione del retto e dell’ano per via addominale (intervento di Miles).
6) ESAMI DIAGNOSTICI
Nel percorso diagnostico del morbo di Crohn, dirimente è l’esecuzione dell’endoscopia; prima di
procedere con l’endoscopia, se il paziente lamenta un problema, si può dapprima effettuare una
visita proctologica (circa il 20% dei casi esordisce con una malattia perianale) e un’anoscopia perché
magari vi sono delle lesioni tipiche nella mucosa rettale. L’esame gold standard per la diagnosi è,
tuttavia, la colonscopia completa con visualizzazione retrograda dell’ultima ansa ileale
(l’endoscopista è solitamente in grado di raggiungere gli ultimi 20-30 cm dell’ileo). La colonscopia è
indicata nei pazienti giovani che presentino sintomi suggestivi di malattia infiammatoria intestinale
in presenza di sintomi/segni d’allarme, vale a dire calo ponderale, anemia, segni di malassorbimento
intestinale; nei soggetti ultracinquantenni che presentino alterazioni alvine persistenti da almeno
tre mesi è necessario indicare l’esecuzione della colonscopia completa.
Lì dove si ipotizzi un coinvolgimento dello stomaco (p. Es.: dispepsia o dolore epigastrico in presenza
di sintomi/segni d’allarme), si può eseguire una gastroscopia. Il clisma opaco con solfato di bario è
ormai un esame obsoleto, largamente sostituito dalla TC con enteroclisi, sebbene tra le indagini
radiologiche, l’indagine più accurata per lo studio del tenue intestino sia la entero-MRI.
Ovviamente, va considerato che nella malattia di Crohn non sempre l’endoscopia è diagnostica, dal
momento che vi sono casi in cui la flogosi si localizza in zone del tenue intestino non raggiungibili né
con la colonscopia né con la EGDS. In questi casi, per esplorare il tenue intestino si può effettuare
l’esame con videocapsula endoscopica, che tuttavia è controindicato in caso di sospetta stenosi
con (sub)occlusione intestinale.
7) ESAMI DI LABORATORIO
Gli esami di laboratorio documentano la presenza di uno stato infiammatorio e sono molto
informativi.
1. Emocromo:
a) Anemia (normocitica, se causata da perdita ematica cronica; macrocitica se dovuta
ad un deficit di vitamina B12).
b) Leucocitosi reattiva
c) Piastrinosi
2. Indici di flogosi:
a) VES ↑
b) PCR ↑
c) Ipergammaglobulinemia policlonale
d) Ipoalbuminemia (se presente un malassorbimento intestinale)
e) ASCA+
3. Esami coprologici:
a) Calprotectina fecale ↑ (indice molto sensibile di infiammazione)
b) Coprocoltura negativa
c) Coproparassitocoltura negativa
La valutazione dell’assetto marziale può essere utile per definire la presenza di una sindrome
malassorbitiva, dovuta all’interessamento del tenue intestino da parte della malattia di Crohn.
8) VALUTAZIONE DELL’ATTIVITA’ DI MALATTIA
La valutazione dell’attività di malattia del Crohn consente di discriminare quattro stadi in termini di
gravità della malattia.
Grado di malattia Caratteristiche cliniche
Malattia lieve-moderata Il paziente è in grado di alimentarsi
autonomamente per via orale
Distensione addominale, masse dolorose,
ostruzione, perdita di peso maggiore del 10%
Malattia moderata-severa Il paziente non è responsivo al trattamento
Febbre, perdita di peso significativa, diarrea,
dolore addominale, nausea, vomito, anemia
Malattia severa-fulminante Sintomi persistenti
Febbre alta, vomito, evidenza di ostruzione
intestinale, dolorabilità da rimbalzo, cachessia,
evidenze della presenza di un ascesso
Remissione Il paziente è asintomatico e non ha sequele
infiammatorie.
Esiste, inoltre, una classificazione della malattia di Crohn, basata sulla localizzazione e l’età di
esordio che prende il nome di classificazione di Vienna, cui sono state apportate delle modifiche,
nella cosiddetta classificazione di Montreal.

9) DIAGNOSI DIFFERENZIALE CON LA RCU

La diagnosi differenziale tra le due è fondamentale anche e soprattutto perché la colectomia risolve
la RCU, mentre nella malattia di Crohn è solo in grado di risolvere le complicanze, ma non la malattia
in sé.

● TERAPIA DELLA MALATTIA DI CROHN


La terapia della malattia di Crohn è sostanzialmente medica; alla chirurgia si ricorre solo ed
esclusivamente in presenza di complicanze. La terapia, in ogni caso, ha come obiettivi:
1. Indurre la remissione di sintomi
2. Mantenere la remissione
3. Prevenire complicanze
4. Migliorare la qualità di vita
5. Livello più alto di terapia è svezzare il paziente dall’uso di steroidi.
6. Evitare ospedalizzazione
7. Mantenere stato di nutrizione
La chirurgia è chiamata in causa in presenza di complicanze intestinali della malattia di Crohn: le
complicanze principali della malattia di Crohn sono rappresentate da ascessi, stenosi ostruttive e
fistole.
In questo setting clinico-gestionale, la complicanza più frequente per la quale è chiamato in causa il
chirurgo è quella della risoluzione delle stenosi ostruttive. In realtà, l’obiettivo in tal caso è duplice,
poiché si richiede (1) di risolvere il quadro occlusivo senza (2) ridurre eccessivamente la lunghezza
dell’intestino, al fine di evitare l’insorgenza della SBS (Short Bowel Syndrome, sindrome
dell’intestino corto). È una condizione clinica estremamente temibile che si verifica ogni volta che ci
sia un “intestinal failure” che si riscontra quando si abbiano resezioni estese del tenue intestino, che
ha funzione di assorbimento e digestione dei nutrienti. Questa funzione è particolarmente
importante nel tratto prossimale, cioè nel digiuno poiché la sua funzione non può essere vicariata
da nessun altro tratto intestinale. La rimozione del digiuno avviene, per esempio, quando in corso
di malattia di Crohn il chirurgo sia costretto ad una resezione estesa o quando ci sia un infarto
dell’arteria mesenterica superiore che manda in necrosi tutto il tenue oppure, ancora, quando i
desmoidi interessano il mesentere, compreso quello digiunale, in maniera massiva. Come
anticipato, la SBS è una condizione temibile e molto grave e rappresenta una delle principali
complicanze dell’asportazione del tratto stenotico in corso di malattia di Crohn ad evoluzione
occlusiva. Oggi, abbiamo la possibilità della nutrizione artificiale che può essere un trattamento
ponte e l’altra è quella del trapianto intestinale spesso multiorgano. Sono presidi terapeutici
estremi, molto complessi e che hanno mortalità altissima, soprattutto il trapianto intestinale, che
peraltro è gravato da una elevata probabilità di insuccesso.
Le stenosi dell’ileo secondarie alla malattia di Crohn normalmente si collocano a livello della valvola
ileocecale che può essere dilatata endoscopicamente mediante una dilatazione pneumatica (viene
inserito con l’endoscopio un palloncino, che gradualmente viene gonfiato): stricturoplastica non
operatoria. La stricturoplastica endoscopica non operatoria è un trattamento non definitivo, con
alto rischio di recidiva e, inoltre, possibile solo quando la stenosi sia di tipo edematoso e
infiammatorio in cui il trattamento antinfiammatorio coadiuva lo spegnimento della flogosi
facilitando la dilatazione del tratto (sub)occluso poiché edematoso: questo intervento non ha
successo nelle stenosi fibrotiche inveterate.
Normalmente, le stenosi fibrotiche vengono trattate con interventi chirurgici di stricturoplastia
operatoria. Ci sono varie modalità di intervento, quella più semplice eseguibile anche in altre stenosi
(p. Es.: la stenosi pilorica del bambino o dell’adulto per ulcera peptica evoluta), è la stricturoplastica
secondo Heineke-Mikulizt: in tal caso si incide longitudinalmente il tratto stenotico, si apre e
successivamente si avvicinano i due lembi della ferita chirurgica in modo da eseguire una sutura
trasversale: con questo artificio, si riesce a dilatare il tratto stenotico.
La stricturoplastica può anche essere eseguita secondo un’altra procedura: stricturoplastica
secondo Finney, che è una procedura indicata soprattutto nel caso in cui il tratto stenotico sia esteso
(p. Es.: 8-10 cm; in tal caso effettuare la stricturoplastica secondo Heineke-Mikulizt non è possibile
poiché è difficilissimo poter riavvicinare trasversalmente tratti così lunghi). La stricturoplastica
secondo Finney prevede l’incisione longitudinale del viscere sul versante antimesenterico; si ripiega
l’ansa su sé stessa, si avvicinano i bordi incisi e si pratica la sutura.

La terza possibilità è quella della stricturoplastica secondo Michelassi, che è particolarmente


indicata in soggetti che presentino delle stenosi di lunghezza maggiore di 10 cm. Questa procedura
prevede che i due tratti vengano accostati, incisi e poi venga ricreata una ampia comunicazione.
Questa terapia evita la re-stenosi e previene anche l’accorciamento dell’intestino; addirittura, talora
si è anche dimostrato esservi un recupero delle alterazioni istologiche presenti nella regione della
stenosi.
Importante da considerare è che nelle stenosi con localizzazione nell’ileo terminale, in passato si
era costretti a praticare un intervento di emicolectomia destra che prevedeva asportazione anche
di una parte importante di colon. Questo intervento si effettuava dal momento che la procedura
operatoria prevedeva la legatura dell’arteria ileocolica. Il fatto di essere costretti ad asportare anche
il colon dipendeva dal fatto che venisse legata l’arteria responsabile della vascolarizzazione del
colon, dal momento che spesso l’arteria colica di destra è incostante o addirittura mancante. Per
ovviare a questo problema, viene effettuata, oggi, per le stenosi dell’ileo terminale una
stricturoplastica ileocolica, che prevede di incidere l’ileo terminale sul versante antimesenterico,
per poi anastomizzarlo con il cieco.

Tuttavia, lì dove non si può fare questo, si deve effettuare una resezione ileocecale, evitando di
legare l’arteria ileocolica, mediante un trattamento molto periferico che, di fatto, si limita a togliere
l’ileo terminale e il cieco con la valvola.
Quando c’è interessamento massivo del colon, l’intervento prevede l’esecuzione di una colectomia
subtotale, in tal caso si risparmiano l’ileo terminale e il retto per effettuare una anastomosi
ileorettale.
Quando questo non è possibile perché è interessato anche il retto o addirittura anche l’ano, si è
costretti a fare una proctocolectomia totale e ad effettuare una ileostomia.

● MALATTIA DI CROHN PERIANALE


Si definisce con l’espressione di Crohn perianale l’interessamento della cute della regione perianale.
Il Crohn perianale nel 20-30% dei casi rappresenta l’esordio della malattia di Crohn; se ne ravvisa
presenza circa nel 33% dei pazienti con malattia di Crohn in fase attiva e, inoltre, circa i due terzi dei
pazienti con malattia di Crohn intestinale presenta una espressione perianale di malattia sincrona o
metacrona rispetto alla diagnosi di Crohn intestinali.
Si tratta di una forma molto grave, che si esprime prevalentemente con la presenza di fistole e orifizi
fistolosi secondari, con diffuso edema, arrossamenti e disepitelizzazione della cute perianale. Per
questo tipo di interessamento, l’obiettivo è quello di gestire la flogosi acuta. Ovviamente, lì dove
siano presenti delle raccolte di pus, queste vanno drenate e il trattamento migliore possibile che
può effettuarsi per questo tipo di interessamento è quello di posizionare dei setoni, dei lacci che
passano attraverso anale esterno ed interno, che mantenendo aperto il tramite consentano lo
scarico delle secrezioni. Contemporaneamente, si effettua una intensa terapia antinfiammatoria.
Le lesioni tipiche della malattia perianale sono:
1. Marische edematose infiammate
2. Emorroidi
3. Lesioni ragadiformi: differentemente dalla ragade anale, che si forma sempre sulla linea
mediana, non determinano il tipico dolore della ragade anale, sono multiple.
4. Fistole;
5. Stenosi anali;
6. Carcinoma anale.
Le fistole perianali classiche, note come fistole cripto-ghiandolari, originano dalle ghiandole che
sboccano nelle cripte del Morgagni sulla linea dentata; si tratta di ghiandole ramificate che
producono una secrezione lubrificante fortemente maleodorante, che ha lo scopo di lubrificare il
canale anale. Le ghiandole in questione si collocano nella tonaca sottomucosa e prendono il nome
di ghiandole di Hermann: da queste ghiandole, a seguito di fenomeni infettivi, originano le classiche
fistole cripto-ghiandolari.
Differentemente, nel Crohn perianale le fistole originano a livello delle ghiandole annesse ai follicoli
piliferi e sebacei della cute perianale e, infatti, molto spesso i batteri coinvolti non sono i classici
enterobatteri, ma piuttosto sono batteri che popolano la cute, come gli stafilococchi. Tali fistole
hanno un percorso molto più superficiale, che non coinvolge il canale anale come nel caso delle
fistole cripto-ghiandolare.

● RETTOCOLITE ULCEROSA
È una malattia infiammatoria cronica intestinale, limitata al grosso intestino, ad interessamento
mucoso e, al più, sottomucoso, con estensione continuativa delle lesioni flogistiche.
Differentemente dalla malattia di Crohn, non può localizzarsi in ogni tratto del tenue intestino, anzi,
mai si colloca nel piccolo intestino, ma trattasi di una patologia confinata al solo colon-retto, che si
caratterizza per la possibilità di risoluzione a seguito dell’asportazione totale del colon e del retto,
che è quasi sempre interessato.
Colpisce soggetti in seconda-quarta decade di vita con secondo picco tra sessant’anni e ottant’anni.
La prevalenza è maggiore in Nordeuropa e Norditalia, forse per esposizione ad alcuni agenti
ambientali o per il ruolo protettivo della dieta mediterranea, che renderebbe ragione della minore
prevalenza nelle regioni del Sud Italia.
Nella patogenesi della malattia sarebbero accettate ipotesi che prendono in considerazione l’azione
congiunturale di fattori genetici e fattori ambientali. Quindi, un ruolo nell’eziopatogenesi è
attribuito alla familiarità, sebbene vada precisato che, come per la malattia di Crohn, non esiste un
singolo gene coinvolto nella patogenesi della malattia. Piuttosto si accetta il ruolo di una
ereditarietà poligenica, cioè di un complesso di disordini genetici che altererebbero la sintesi di
proteine coinvolte nella flogosi e nel controllo della risposta immune mucosale. Un ruolo si ammette
che lo possa avere anche la flora batterica intestinale, sebbene siano stati studiati virus e batteri e
le rispettive modificazioni senza che si sia giunti a delle conclusioni convincenti. Nondimeno, esiste
una alterazione immunitaria, confermata da una serie di evidenze che chiamerebbero in causa il
ruolo di linfociti T CD4+ e di macrofagi e si assocerebbero alla perdita di tolleranza per il microbiota
intestinale.
Tra i fattori ambientali, avrebbero rilevanza lo stress, il consumo di cibi raffinati o molto grassi (p.
Es.: fast food).
Conoscere questi aspetti dalla patogenesi è importante da considerare, giacché questi possono
rappresentare dei possibili target da sfruttare con beneficio nella terapia della RCU.
Sulla flora batterica intestinale si può agire mediante antibiotici e probiotici; si può favorire la
protezione dell’epitelio del colon mediante somministrazione di SCFA che vengono poi convertiti
nell’acido butirrico che è il reale carburante energetico dei colociti.
Resta, comunque, il fatto che, come per la malattia di Crohn, l’eziologia della RCU è sconosciuta e
multifattoriale motivo per cui non si ha una terapia eziologica e curativa.
La malattia è caratterizzata da alternanze di periodi di attività e remissione, a volte di guarigione
spontanea; le erosioni e le ulcere sono lesioni da cui esitano riparazioni polipoidi sempre limitate
alla mucosa e alla sottomucosa.
Anzitutto, la RCU interessa quasi costantemente il retto e, molto frequentemente, il colon sinistro
mentre più rara è l’espressione della pancolite ulcerosa.
Dal punto di vista clinico, nella maggior parte dei casi la RCU ha un andamento intermittente (75%
dei casi) con alternanza di fasi di remissione e fasi di recrudescenza della malattia. In una
percentuale di casi sensibilmente inferiore (circa 20% dei casi), la patologia ha un andamento
cronico-continuo; rari sono i casi di esordio acuto-fulminante con complicanze importanti come il
megacolon tossico e la perforazione.
Soprattutto per il monitoraggio internistico della malattia, esiste un indice di attività della RCU, che
valuta (1) il numero di evacuazioni, (2) la presenza di sangue nelle feci, (3) condizioni generali del
paziente e (4) il Mayo-Score endoscopico (grado 0, mucosa normale; grado 1, mucosa iperemica;
grado 2, mucosa sanguinante; grado 3, mucosa con erosioni/ulcerazioni).
Gli esami di primo livello, che possono essere utili nella definizione diagnostica e nella
quantificazione della gravità del quadro clinico sono rappresentati da:
1. Emocromo:
a) Anemia da perdita ematica
b) Leucocitosi reattiva
2. Assetto marziale:
a) Ferro ridotto (per perdita ematica)
b) Ferritina ridotta (per perdita ematica)
3. Indici di flogosi:
a) PCR aumentata
b) VES aumentata
4. Esami coprologici:
a) Calprotectina fecale aumentata
b) Coprocoltura
c) Coproparassitocoltura
d) Ricerca del SOF (solo da effettuarsi nel caso in cui non ci siano tracce di sangue nelle
feci, altrimenti è inutile).
Le indagini di secondo livello sono quasi tutte esami di imaging (fatta eccezione per il dosaggio
sierologico degli ANCA, che in tal caso sono spesso positivi, come positivi sono gli ASCA nel morbo
di Crohn, sebbene questi autoanticorpi presentino scarsa sensibilità e specificità). È dibattuto il ruolo
dell’ecografia addominale, che potrebbe essere utile nella valutazione del megacolon tossico, ma,
certamente, l’esame gold standard per la diagnosi è la pancolonscopia, fondamentale per la
caratterizzazione endoscopica di questa malattia e per la possibilità di effettuare biopsie della
mucosa, anche per valutare il rischio neoplastico sulla base dell’eventuale insorgenza di displasia (in
questi casi, si potrebbe fare la colonscopia virtuale, ma va ricordato che in tutti i casi in cui vi sia un
rischio oncologico, che impone la necessità di eseguire delle biopsie, la colonscopia virutale è un
esame non utile). La videocapsula endoscopica è indicata nel sospetto di MC intestinale, con
localizzazione prossimale all’ultima ansa ileale, e non di RCU. La tomografia computerizzata è
indicata per confermare/escludere interessamento di strutture extramurali; la TC con bario a doppio
contrasto è un esame molto meno eseguito oggigiorno che in passato era comunque utilizzato per
fornire una immagine delle alterazioni morfologiche che il colon sviluppa in questa malattia.
La colonscopia virtuale ha, come anticipato, scarso interesse, mentre fondamentale è la colonscopia
totale per porre la diagnosi precisa, per effettuare biopsie e avere riscontro istologico della
patologia. La mucosa, in endoscopia, appare sanguinante, granulare, edematosa, erosa, con
vasodilatazione capillare e petecchie.
La biopsia documenta, nella RCU, la presenza di una flogosi con localizzazione mucosa e, al più,
sottomucosa, caratterizzata in fase attiva dalla presenza di ascessi criptici nel fondo delle ghiandole
intestinali e di atrofia ghiandolare e distorsione ghiandolare, con scarsa presenza di mucina sulla
superficie della mucosa, durante la fase riparativa della flogosi, durante la quale compaiono anche
dei polipi, quale tentativo riparativo. Nel Crohn, oltre alla flogosi transmurale vi è come figura
istologica fondamentale il granuloma epitelioideo, senza necrosi caseosa centrale. In realtà, nel
mondo reale la differenziazione tra RCU e MC non è sempre così ovvia perché esiste tutto uno
spettro di condizioni note come coliti indeterminate in cui neanche l’istologia consente di dare una
risposta certa. Ovviamente, la distinzione tra RCU e Crohn è fondamentale, anche per l’eventuale
approccio chirurgico dal momento che nel Crohn dopo proctocolectomia non è indicata mai l’ileo-
anostomia perché l’ileo e l’ano sono coinvolti, mentre nella RCU l’ileo-anostomia è possibile giacché
né l’ileo né l’ano sono solitamente coinvolti.
La RCU è una condizione che può condurre ad una precancerosi per cui è possibile che insorga una
displasia che evolve in neoplasia la quale può aversi in più punti tanto da determinare insorgenza di
neoplasie sincrone. Nel colon, la mucosa è quella cilindrica semplice, con nucleo in posizione basale
della cellula; quando si osservi una evoluzione displastica della mucosa, si inizia ad intravedere una
lieve atipica cariologica, che progressivamente diviene sempre più marcata come espressione
dell’accumulo di mutazioni genetiche, tal che si abbia un cambiamento della morfologia, che si
esprime con nuclei al polo apicale delle cellule o, addirittura, con “nuclei a sigaro”, fino a che non si
verifichi la chiara evoluzione neoplastica con presenza di nuclei di dimensioni elevate, con rapporto
nucleoplasmatico in favore del nucleo e comparsa di figure mitotiche aberranti, rappresentate dalla
presenza di fusi tripolari o tetrapolari.

Quando si ravvisi la presenza di una displasia grave in diversi campioni bioptici, questo costituisce
indicazione alla proctocolectomia totale profilattica.
Nella RCU ancor più che nel Crohn sono presenti manifestazioni extraintestinali che vanno dalla
colangite sclerosante primitiva (frequente, che può dare indicazione al trapianto di fegato), artriti
delle grandi articolazioni, eritema nodoso, pioderma gangrenoso, alterazioni oculari come uveite ed
episclerite.
La colangite sclerosante compare nel 5% dei casi e può portare a progressivo deterioramento della
funzione biliare con evoluzione itterica intraepatica e insufficienza epatica, oltreché
colangiocarcinoma: la terapia definitiva è il trapianto del fegato.
Differentemente dal Crohn, nel quale le principali complicanze sono rappresentate dalla formazione
di fistole, ascessi e dalla stenosi, nella RCU le principali complicanze sono rappresentate dalla
perforazione, dal megacolon tossico e dal carcinoma. L’insorgenza di una stenosi -e del
consequenziale quadro occlusivo- è reperto pressoché straordinario nella RCU dal momento che si
tratta di una patologia che coinvolge la mucosa e la sottomucosa e non coinvolge a tutto spessore
la parete del colon e proprio questo aspetto giustifica anche perché non si possa avere nella RCU
una evoluzione fistolizzante che è invece reperto frequente nella malattia di Crohn.
Per quanto riguarda le complicanze della RCU, quindi:
1. Colite fulminante: condizione acuta in cui la flogosi determina compromissione dello stato
generale del paziente con stato settico e che non risponde a terapia medica. Il paziente
lamenta diarrea mucosanguinolenta, febbre, compromissione generale dello stato di salute
che rappresentano indicazione per l’intervento chirurgico d’urgenza.
2. Megacolon tossico e perforazione: si definisce megacolon tossico l’aumento del diametro
colico al di sopra di 5.5 cm in associazione a febbre, tachicardia e tossicità sistemica. Il
megacolon tossico rappresenta una complicanza dovuta, da una parte, alle modifiche
strutturali dell’attività contrattile del colon e, dall’altra, alla modifica della flora batterica che
porta all’accumulo di gas che distendono il colon fino a facilitarne la perforazione spontanea.
3. Carcinoma colorettale: il rischio di carcinoma del colon-retto nei pazienti con RCU aumenta
in presenza di alcuni fattori:
a) Durata della malattia
b) Coinvolgimento del colon
c) Storia familiare di CRC (ColoRectal Cancer)
d) Età d’esordio giovane
e) Colangite sclerosante primitiva (aumenta il rischio sia di colangiocarcinoma che di
CRC)
f) Severità della flogosi
Il rischio di cancro è elevato, molto di più di quanto (non) sia nel morbo di Crohn, e il cancro che ivi
si ravvisa di per sé è aggressivo; si consiglia proctocolectomia profilattica in tutti i pazienti con
multiple lesioni displastiche e sorveglianza endoscopica per tutti i pazienti dall’esordio.
Lo screening endoscopico dovrebbe essere iniziato in tutti i pazienti con una durata di malattia di
8-10, almeno. La sorveglianza regolare dovrebbe iniziare in tutti i pazienti dopo 8-10 anni di colite
estesa o dopo 15-20 di colite sinistra. Quando la sorveglianza endoscopica non documenti lesioni,
la successiva colonscopia dovrebbe essere effettuata con cadenza triennale nella seconda decade
di vita e con cadenza biennale nella terza. Va tenuto conto che nei pazienti con RCU e CSP sussiste
un rischio di CRC molto maggiore, motivo per cui tali pazienti dovrebbero effettuare controlli
endoscopici annuali. Ovviamente, durante i controlli endoscopici dovrebbero essere campionate
almeno 2-4 aree di mucosa ogni 10 cm di colon e dovrebbe essere effettuata biopsia di ogni tratto
di mucosa sospetto.
● TERAPIA CHIRURGICA DELLA RETTOCOLITE ULCEROSA
La maggior parte dei pazienti dopo quattro anni di malattia subisce intervento chirurgico.
L’indicazione chirurgica per il paziente è legata al fatto che le malattie infiammatorie intestinali sono
di competenza gastroenterologica ma divengono chirurgiche in presenza di complicanze:
1. Malattia non-responsiva alla terapia medica.
2. Complicanze: stenosi, fistole, malattia perianale sono più tipiche del MC, le complicanze
caratteristiche della RCU, sono:
a) Perforazione
b) Megacolon tossico
c) Displasia grave
d) Colite fulminante
Nei pazienti con RCU, prima di poter giungere all’intervento chirurgico, è necessario ridurre il rischio
legato alla malattia prima dell’operazione: la RCU è una malattia che si associa a flogosi molto
intensa per cui se, da un lato, si rende necessario spegnere l’infiammazione dove possibile, dall’altro
va considerato che è necessario svezzare il paziente dal cortisone, dal momento che questo è
gravato da effetti collaterali di immunosoppressione sistemica e ridotta sintesi del collageno che
aumentano il rischio operatorio. La preparazione intestinale si effettua se non c’è diarrea, e si
accompagna alla profilassi antibiotica (includere sempre il metronidazolo) e la profilassi
tromboembolica, che differentemente dalla preparazione intestinale si devono effettuare sempre.
Le opzioni chirurgiche sono diverse:
1. Proctocolectomia totale con ileostomia;
2. Colectomia con ileo-rettostomia;
3. Colectomia con ileostomia;
4. Proctocolectomia ristorativa:
a) Con J pouch
b) Con S pouch
c) Con W pouch
La proctocolectmia totale prevede che si asportino retto e colon; l’ileo terminale rimane in sede e
viene abboccato alla parete addominale: ileostomia iliaca destra. Si tratta di un intervento
abbastanza lineare da eseguire per il chirurgo esperto, che non espone a particolari complicazioni
postoperatorie, ovviamente, lo svantaggio principale è che il paziente avrà la stomia per tutta la
vita, il che naturalmente ne deteriora non poco la qualità della vita. Infatti, le secrezioni ileali nei
primi mesi sono molto abbondanti e liquide e possono favorire disidratazione o insufficienza renale
acuta funzionale, in alcuni casi di perdita particolarmente grave.
È fondamentale in questo intervento capire dove localizzare lo stoma: il paziente deve avere la
stomia in un punto in cui l’addome non crea una plica perché il posizionamento in una regione in
cui vi è una plica può esitare in una serie di complicanze come il distacco, la dermatite peristomale
(per presenza di enzimi digestivi che fuoriescono), il prolasso, l’ernia paraileostomica, la stenosi, e
la retrazione che peggiorano la qualità della vita del soggetto più di quanto la sola stomia non faccia.
L’ileostomia continente secondo Kock non è un intervento che si effettua più, ormai: prevedeva
l’invaginazione della mucosa, a creare una sorta di valvola e serbatoio in cui il materiale ileale
ristagnava e aveva difficoltà ad uscire creando una pseudocontinenza della stomia.
La proctocolectomia ristorativa, dopo la rimozione del colonretto, prevede che si ristabilisca la
continuità con l’ano mediante una ileo-anostomia. La proctocolectomia ristorativa risponde solo ad
alcune indicazioni:
1. Esclusione certa del morbo di Crohn: la proctocolectomia ristorativa prevede che l’ileo e
l’ano, i due segmenti coinvolti nella stomia, siano sani, motivo per cui tale intervento
chirurgico nel Crohn non è possibile.
2. Continenza dello sfintere anale: alle volte dopo la rimozione del retto, si procurano delle
lesioni dell’innervazione autonomica o somatica dello sfintere anale.
3. Età < 70 anni;
4. Motivazione del paziente a evitare il ricorso all’ileostomia.
L’ultima ansa dell’ileo viene piegata su sé stessa, aperta e risuturata, al fine di creare quella che
prende il nome di pouch, o serbatoio al fine di favorire uno stazionamento del contenuto per più
tempo e facilitare l’assorbimento. Nell’ano, precedentemente chiuso con una sutura, si introduce
una suturatrice meccanica, che si incastra con la testina lasciata nella pouch ileale; si avvicinano i
due segmenti e si effettua poi la suturazione tra i due.
Esistono tre tipi di pouch ileale, cioè J-pouch, S-pouch e W-pouch; le ultime due sono state ideate
allo scopo di disporre di serbatoi di più grandi dimensioni che favorissero un aumento della
compliance del serbatoio e riducessero la frequenza delle scariche. In realtà, se, teoricamente S-
pouch e W-pouch dovrebbero essere più vantaggiose da questo punto di vista, in realtà l’intervento
tra i tre che si preferisce è quello con J-pouch, poiché più semplice e poiché risultati funzionali in
studi comparativi hanno evidenziato che dopo due o tre anni la compliance e le frequenze di
scariche con J-pouch si sovrappongano a quelle delle altre due pouch. Perciò a fronte di un risultato
funzionale a due-tre anni sovrapponibile si preferisce la J-pouch perché semplice e perché ha rischi
di complicanze minori a netto di vantaggi paragonabili a due anni dall’intervento.

Dal punto di vista funzionale, occorre, tuttavia, ricordare che il colon e il retto saranno entrambi
rimossi mediante questo intervento, per cui la continenza non sarà massima; il materiale è
comunque fluido sebbene la pouch lo addensi. D’altra parte, questa zona ha compliance limitata ad
accogliere il bolo fecale: maggior frequenza della defecazione (5-6/die o addirittura di notte) e non
infrequentemente si possono avere episodi di urgenza defecatoria.
Le pouch, peraltro, possono dare problemi, come fistole con la vagina per esempio, ascessi,
sanguinamenti, stenosi anastomotiche ma una entità nosologica nuova nata con questa chirurgia
è la pouchite che viene riconosciuta come patologia infiammatoria da ovegrowth di anaerobi con
metaplasia colica della mucosa ileale; si riscontra con frequenza alta (anche 40% dei casi). Determina
diarrea mucosanguinolenta, peggiorando il quadro defecatorio in maniera importante ma risponde
spesso bene alla terapia medica con metronidazolo e probiotici con antinfiammatori topici come
mesalazina e cortisone.
La chirurgia, oggigiorno, si può effettuare anche in laparoscopia o chirurgia robotica, riducendo il
trauma, sebbene vada considerato che l’intervento laparoscopico o robotico in tal caso riguarda più
di un quadrante addominale, motivo per cui si richiede il riposizionamento continuo dei trocar per
poter lavorare in diverse zone, cosicché i tempi operatori si allungano particolarmente.
La RCU è una malattia del giovane, per cui dobbiamo sempre pensare che ogni volta che si fa una
terapia medica e chirurgica i pazienti vadano inquadrati anche dal punto di vista della fertilità
soprattutto se mettiamo mano chirurgicamente nella pelvi, potendo indurre aderenze, lesioni
neurologiche e cause di infertilità di vario tipo.
Emorragie digestive

Le emorragie digestive, di per loro, non sono delle patologie, ma rappresentano un segno di
patologia, tra i più comuni nella pratica clinica del chirurgo addominale. Le emorragie digestive sono
sempre da considerarsi come un segno d’allarme, che deve spingere il medico ad approfondire la
causa del sanguinamento.

• ASPETTI CLASSIFICATIVI
Dal punto di vista classificativo, si distinguono emorragie del tratto digestivo superiore (UGIB, Upper
Gastro-Intestinal Bleeding, o EDS) e del tratto digestivo inferiore (LGIB, Lower Gastro-Intestinal
Bleeding, o EDI).
Le UGIB sono meno frequenti, ma molto più spesso sono gravi e portano il paziente
all’ospedalizzazione o all’esecuzione di interventi di emergenza. Le LGIB sono, altresì, più frequenti,
di entità minore e solo in una percentuale che non arriva al 20% richiedono ospedalizzazione. La
classificazione delle emorragie digestive in EDS ed EDI è sì fatta in relazione alla localizzazione del
sanguinamento rispetto al legamento del Treitz, o legamento sospensore del duodeno.
Le emorragie digestive, a seconda della localizzazione, possono dare luogo a manifestazioni cliniche
che vanno sotto nomi diversi:
1. Ematemesi: emissione di sangue con il vomito, rosso vivo se si parla di ematemesi
propriamente detta, o a mo’ di vomito caffeano se trattasi di sangue parzialmente digerito,
derivante, verosimilmente, da una emorragia più modesta, che presuppone lo
stazionamento del sangue per un certo arco di tempo in contatto con l’acido gastrico, che
ne determina la parziale digestione. Un paziente che ha ematemesi, necessariamente ha
anche melena, poiché comunque sempre una parte del sangue attraversa la regione pilorica
e si avvia all’espulsione con le feci.
2. Melena: emissione di feci nere, di consistenza poltacea, untuose e brillanti, di odore
caratteristico. Se l’ematemesi si associa necessariamente a melena, il contrario non è vero,
in quanto la melena può anche rappresentare un sintomo isolato, che si riscontra a seguito
di perdite di almeno 80 mL di sangue, e indipendente dall’ematemesi, se il sanguinamento è
modesto e non vi è quell’accumulo di sangue nello stomaco in grado di suscitare il vomito.
3. Enterorragia: evacuazione rettale massiva di sangue rosso vivo, dovuto ad una fonte di
sanguinamento distale rispetto al legamento del Treitz. Solitamente, le sedi principali in cui
si verifica il sanguinamento che esita in enterorragia sono rappresentate dal colon distale.
4. Rettorragia;
5. Ematochezia.
Le emorragie digestive possono anche essere classificate in relazione all’entità dell’emorragia:
1. Sanguinamento occulto: si evidenzia con delle reazioni immunochimiche sulle feci;
2. Sanguinamento minore;
3. Sanguinamento maggiore:
a) Perdita ≥ 750 mL (15% della volemia)
b) Perdita = 1500 mL (20-30% della volemia)
c) Perdita > 1500 mL (> 30% della volemia)

• MANIFESTAZIONI CLINICHE
Le manifestazioni cliniche dipendono dal volume di sangue perduto e dalla velocità della perdita,
dal momento che in presenza di perdite di velocità estrema, non vi è possibilità che si instaurino
meccanismi di compenso emodinamico. Per esempio, vi sono pazienti con perdita di sangue su base
emorroidaria e con emoglobina di 5 g/dL che non sono in shock e possono, viceversa, esservi dei
pazienti in shock emorragico, con emoglobina pari a 7 g/dL per via del fatto che abbiano perso una
notevolissima quantità di sangue in pochissimo tempo.
Le manifestazioni cliniche in emorragie digestive gravi sono rappresentate da ipotensione,
tachicardia compensatoria e da tutti quei sintomi associati alla vasocostrizione riflessa innescata
dall’iperattivazione dell’ortosimpatico, al fine di dirottare il flusso agli organi nobili; si manifestano,
quindi: sudorazione fredda (non stimolata dal caldo, ma dall’increzione adrenergica compensatoria
verso il calo pressorio; la stessa vasocostrizione periferica causa la sensazione di freddo, associata
alla sudorazione) pallore, riduzione del termotatto e contrazione della diuresi.
In tutti i casi in cui non ci sia una perdita rapida o elevata, cioè in tutti quei casi in cui la perdita sia
minore di 500 mL difficilmente si hanno manifestazioni cliniche correlabili ad uno stato emorragico,
a meno che non si tratti di soggetti di per loro già anemici o anziani.

• MANAGEMENT DELLE EMORRAGIE DIGESTIVE SUPERIORI


Innanzitutto, quando un paziente giunga all’attenzione medica con i sintomi e i segni di una
emorragia digestiva grave, è necessario monitorare i parametri vitali:
1. Pressione arteriosa
2. Frequenza cardiaca
3. Pressione venosa centrale
4. Contrazione della diuresi
5. Sensorio obnubilato
Nei pazienti in stato di shock già instauratosi, occorre prendere un accesso centrale a livello venoso,
per il monitoraggio della PVC. La contrazione della diuresi è un altro aspetto che si associa
costantemente allo shock emorragico, per riduzione della perfusione renale e della pressione di
perfusione glomerulare; l’obnubilamento del sensorio è un reperto che consegue all’ipoperfusione
cerebrale.
Quando si abbia a che fare con una emorragia del tratto digestivo superiore, perché c’è stato un
episodio di ematemesi o di melena, si dovrebbe posizionare un sondino nasogastrico ed effettuare
una gastrolusi per diluire il sangue con la soluzione fisiologica: questo accorgimento consente di
comprendere se il sanguinamento si sia arrestato o meno in base al fatto che il sangue rimanga
diluito o si concentri nuovamente dopo il lavaggio. L’esplorazione digito-rettale consente di valutare
se il sangue sia o meno già giunto a livello del retto sotto forma di melena. Per l’inquadramento
clinico:
1. Anamnesi: soprattutto, quando vi sia ematemesi in atto, sapere che il paziente ha una storia
clinica di cirrosi epatica indirizza verso il sanguinamento delle varici esofagee; altresì, sapere
che il paziente ha una storia di abuso di FANS, ha una gastrite cronica atrofica da HP, oppure
presenta una storia personale di abuso di alcol o di fumo di sigaretta potrebbe indirizzare
verso il sanguinamento dell’ulcera peptica. Ancora, sapere se il paziente facesse uso di
TAO/NAO o fosse portatore di deficit congeniti o acquisiti della coagulazione può
anch’essere un aspetto fondamentale per la diagnosi.
2. Esame obiettivo: conferisce già informazioni sullo stato di compromissione emodinamica,
quando si abbia la presenza di un polso piccolo e tachicardico, con sudorazione fredda e
pallore cutaneo.
3. Indagini urgenti di laboratorio:
a) Emocromo
b) Elettroliti sierici
c) Azotemia e creatininemia: per valutare l’eventuale progressione verso un’IRA pre-
renale.
d) Emogruppo, per inoltrare richieste di emotrasfusione.
e) Studio della coagulazione (PTINR, aPTT);
f) ECG: l’ECG consente (1) di valutare la tachicardia presente sia o meno sinusale e (2)
se la perdita elettrolitica abbia determinato l’insorgenza di disturbi del ritmo, della
conduzione o della ripolarizzazione cardiaca.
A fronte di una EDS, le ipotesi diagnostiche possibili sono rappresentate, ovviamente da
sanguinamenti a livello esofageo, gastrico o duodenale.
1. Ulcera peptica (50-60% dei casi):
a) Gastrite da HP
b) Abuso di FANS
c) Abuso di alcol e fumo
2. Varici esofagee (10-20% dei casi): da sospettare in pazienti con ipertensione portale, la cui
causa più frequente è rappresentata dalla cirrosi epatica.
3. Gastriti emorragiche acute (10% dei casi):
a) FANS
b) Condizioni stressogene (ulcera di Cushing o ulcera di Curling)
c) Sindrome di Zollinger-Ellison (gastrinoma)
Precisiamo che, quando si faccia riferimento all’ulcera si parla di una perdita di sostanza che si
approfonda oltre la muscolaris mucosae, mentre un’erosione è una perdita di sostanza più
superficiale, che si localizza al massimo a livello della muscolaris mucosae. In questi termini, è
evidente che le gastriti acute erosivo-emorragiche siano delle condizioni che individuano come
lesione istopatologica alla base una perdita di sostanza più superficiale rispetto all’ulcera. L’ulcera
peptica trova due sedi caratteristiche: la giunzione corpo-antro a livello della piccola curvatura dello
stomaco (=ulcera gastrica) e il bulbo duodenale (=ulcera duodenale). Tra le due, la prognosi è
peggiore nelle ulcere gastriche, anzitutto perché sono quelle da cui può svilupparsi un cancro dello
stomaco -una percentuale importante, come il 20%, circa, può evolvere verso un carcinoma gastrico
o addirittura essere già un carcinoma gastrico all’esordio con sintomatologia emorragica.
Le varici esofagee dovute all’ipertensione portale rappresentano la seconda causa, dopo l’ulcera
peptica di EDS e frequentemente si manifestano mediante un episodio imponente di ematemesi.
In questi casi, un trattamento salvavita per il paziente potrebbe essere il posizionamento di una
sonda di Sengstaken-Blakemore, che è una sonda che solitamente si introduce a livello del naso. È
dotata di due palloncini, l’uno gastrico, gonfiato per primo per ancorare la sonda a livello del cardias,
e l’altro esofageo, che viene gonfiato dopo il precedente, a seguito del posizionamento in esofago.
Mediante il gonfiaggio del palloncino esofageo, la sonda di Sengstaken-Blakemore consente di
perseguire una emostasi per compressione delle varici. È un trattamento salvavita poiché dà al
chirurgo e al personale di Pronto Soccorso il tempo per prendere una vena centrale, infondere
liquidi, valutare l’emogruppo per avviare la procedura di trasfusione.
Vi sono poi una serie di cause che, comprensivamente rappresentano circa il 5-10% delle cause di
emorragia digestiva superiore:
1. Sindrome di Mallory-Weiss: è una lesione caratterizzata da una perdita di sostanza lineare
a livello esofageo, che si verifica nei pazienti alcolisti cronici.
2. Esofagiti da reflusso;
3. Diverticoli esofagei o duodenali;
4. Ernia iatale;
5. Carcinoma gastrico: è abbastanza infrequente che un carcinoma dello stomaco determini
ematemesi, anche perché l’infiltrazione progressiva della neoplasia soprattutto a livello della
sottomucosa causa una obliterazione dei vasi piuttosto che casi di sanguinamento massivo.
6. Polipi gastrici;
7. Gastropatia ipertrofica di Menetrier;
8. Lesioni da caustici: spesso conseguono a tentativo di suicidio. Possono verificarsi, in tal caso
dei fenomeni emorragici, sebbene il danno esofago-gastrico sia di ben altra natura, associato
alla presenza di fenomeni necrotici. Nei casi più favorevoli, in cui il tempo di contatto è breve,
l’evoluzione è piuttosto quello di una stenosi cicatriziale che può compromettere
notevolmente la qualità della vita del paziente.
9. Teleangectasie ereditarie;
10. Ingestione di corpi estranei;
11. Fistole aortoduodenali o aortoesofagee: si tratta di condizioni quasi sempre fatali; questo
tipo di patologia è il risultato di processi flogistici che coinvolgono l’esofago e
successivamente coinvolgono l’aorta o, più spesso, è il risultato di un intervento sull’aorta,
per via di tutte quelle patologie dell’arco aortico che comportano interventi di chirurgia
vascolare e in cui le suture si trovano in contiguità con la parete dell’esofago. Per sfortunati
eventi, queste suture possono andare incontro ad un’apertura, stabilendo una
comunicazione con l’esofago, determinando insorgenza di una massiva e irrefrenabile
ematemesi che porta a morte il soggetto in pochi minuti.
12. Crohn gastrico o esofageo.
13. Ulcera anastomotica: in passato, la chirurgia dell’ulcera peptica, che ora non si opera quasi
più, poteva determinare l’insorgenza di ulcere anastomotiche. Nelle zone di collegamento
tra stomaco e digiuno potevano crearsi delle lesioni ulcerative sanguinanti per il fatto che il
secreto gastrico venisse direttamente a contatto con la parete digiunale, portando a facile
insorgenza di ulcere anastomotiche e proprio questo è il motivo per cui nella ricostituzione
della continuità digestiva a seguito di gastrectomia subtotale si crea un bypass entero-
enterico per evitare che le secrezioni biliopancreatiche passino nello stomaco. Quello che
più frequentemente si effettua è una gastrodigiunostomia con ansa ad omega, in cui l’apice
dell’omega viene anastomizzato con lo stomaco. Questo, tuttavia, consentirebbe il passaggio
delle secrezioni a livello gastrico, motivo per cui viene effettuato un bypass entero-enterico.
14. Pancreatite acuta.
Una causa rara di emorragia digestiva superiore è rappresentata dall’emobilia: è una situazione
clinica in cui si realizza una comunicazione anomala tra il torrente circolatorio e le vie biliari a livelli
intraepatico. Queste comunicazioni possono formarsi per cause iatrogene (p. Es.: in corso di biopsie
con aghi di grosse dimensioni nel parenchima epatico), per traumi epatici chiusi, aneurismi
intraepatici che possono rompersi ed inondare la via biliare. In tal caso, il sangue ad alte pressioni,
riversandosi nella via biliare, sbocca nel duodeno in quantità così importante da procurare non solo
una melena ma addirittura un’ematemesi. La diagnosi di emobilia è complessa, anche perché
l’emobilia può essere intermittente, tanto che possono esservi temporanee e complete remissioni
di malattia: in questi casi, la gastroscopia è negativa, a meno che non ci si trovi nel momento stesso
del sanguinamento (si vedrà la fuoriuscita di sangue dalla papilla del Vater). In questi casi, solo
l’angio-TC del distretto superiore è totalmente dirimente, poiché mette in evidenza la regione
epatica in cui si trova l’anomala comunicazione.
La diagnosi di emorragia digestiva superiore è sempre basata sull’esecuzione della EGDS e, lì dove
questa non fosse dirimente per la diagnosi, soprattutto per impossibilità di esplorazione del tratto
distale del duodeno, vi sono delle metodiche alternative, come l’angio-TC e l’arteriografia selettiva
del tripode celiaco. La scintigrafia con emazie marcate con 99mTc è un’indagine accurata per lo
studio dei sanguinamenti, ma che richiede del tempo per la preparazione sia delle emazie marcate
che del paziente stesso e va considerato che una EDS è sempre da considerarsi un setting clinico
emergenziale.
Difatti, alla scintigrafia con emazie marcate si ricorre solo e soltanto nel caso in cui neanche
l’arteriografia risulti dirimente per la diagnosi.

• EMORRAGIE DIGESTIVE INFERIORI


Le emorragie digestive inferiori sono quelle che si realizzano distalmente al legamento del Treitz e
possono esordire clinicamente con episodi di enterorragia, di proctorragia o ematochezia e, proprio
in virtù di questo, possono essere classificate.
Enterorragia Ematochezia/Proctorragia
Cause Tumori del grosso intestino Emorroidi
Polipi e poliposi Ragadi
RCU e MdC Carcinoma del retto
Colite indeterminata Polipi rettali
Angiodisplasie Ulcera solitaria del retto
Infarto intestinale Proctite attinica
Colite ischemica Prolasso rettale esterno
Diverticoli del colon
Diverticolo di Meckel
La colite ischemica si caratterizza per la presenza di una enterorragia che si associa ad un dato
anamnestico estremamente importante per la diagnosi: la claudicatio mesenterica o angina
abdominis, che è un dolore addominale di natura ischemica, da occlusione dell’arteria mesenterica
superiore o inferiore, che insorge sistematicamente in fase postprandiale, che è il periodo in cui si
realizza la maggior richiesta di ossigeno da parte dell’intestino e in cui emerge lo squilibrio domanda-
offerta di ossigeno.
Le angiodisplasie sono delle anomalie arteriose conseguenti ad ostruzione parziale delle vene della
sottomucosa nel loro passaggio tra la tonaca muscolare longitudinale e quella circolare. Col passare
del tempo, in questo tipo di lesioni si realizza una massiva dilatazione capillare, con formazione di
comunicazioni arterovenose. Dal punto di vista endoscopico, le angiodisplasie sono visibili come
delle chiazze di dimensione compresa tra 2-5 mm e di colore rosso vivo, con bordi irregolari.
Le lesioni possono talora divenire di maggiore dimensione e apparire come delle aree eritematose,
di diametro maggiore di 5 mm, con margini irregolari; le angiodisplasie possono andare, anche,
incontro ad evoluzione ulcerativa, probabilmente per necrosi ischemica.
Tuttavia, le più frequenti cause di emorragia digestiva inferiore sono rappresentate dalle cause di
proctorragia/ematochezia, in particolar modo da tutte quelle patologie che afferiscono alla
proctologia, come le emorroidi, le ragadi anali -che sanguinano molto meno e meno
frequentemente delle emorroidi- e l’ulcera solitaria del retto. L’ulcera solitaria del retto non è una
patologia così rara come si pensi e, anzi, frequentemente è causa di una erronea diagnosi di
carcinoma del retto in fase non avanzata: si riscontra la presenza di una perdita di sostanza con
bordi irregolari. Queste lesioni sono la risultanza, soprattutto ma non esclusivamente delle donne,
di una stimolazione traumatica cronica della mucosa rettale per un processo di intussuscezione
retto-anale. Nel caso dell’ulcera solitaria del retto, quest’ultimo si invagina nel canale anale,
sottoponendosi a dei traumatismi cronici che possono causare tale ulcerazione.
I diverticoli della malattia diverticolare del colon possono sanguinare e questo accade circa nel 5%
dei casi; la sede più frequente del sanguinamento diverticolare è rappresentata dal colon sinistro,
mentre nel colon destro l’emorragia è meno frequente, ma più grave e facilmente identificabile con
l’esecuzione dell’angiografia.
La diagnosi di questo tipo di patologie è sempre basata sulla colonscopia, mentre angio-TC e
arteriografia selettiva dell’arteria mesenterica superiore e inferiore sono utili esclusivamente
quando ci sia un sanguinamento in atto, durante il quale la visualizzazione della sede con la
colonscopia è difficile da effettuarsi. Diversamente, in assenza di un sanguinamento in atto, sia
l’angio-TC che l’arteriografia non consentono visualizzazione di dettagli decisivi per la diagnosi e per
il trattamento. La capsula endoscopica viene utilizzata nel sospetto di sanguinamenti che siano tra
il secondo segmento del duodeno e l’ultima ansa ileale: questo tratto intestinale non è esplorabile
né con la colonscopia né con l’EGDS. La scintigrafia con eritrociti marcati con 99Tc è un’alternativa
diagnostica, riservata ai casi in cui non sia possibile risalire alla causa e alla sede del sanguinamento
mediante tutte le altre indagini. Esiste, inoltre, una metodica, nota come “push enteroscopy”, che
è una metodica ancora in fase di perfezionamento tecnologico, che consente di esplorare tratti
sempre più estesi del tenue intestino, durante la quale il colonscopio viene inserito attraverso la
valvola ileo-ciecale e, mediante un sistema, i tratti prossimali di tenue intestino vengono avvicinati
alla videocamera del colonscopio per poter essere visionati.
Carcinoma del colon-retto

Il carcinoma del colon retto (CRC) è la terza neoplasia al mondo in entrambi i sessi (11%) ed è causa
del 10% dei decessi al mondo per cancro in entrambi i sessi; presenta un’incidenza di 62.5/100.000
abitanti (M) e di 45.9 casi/100.000 abitanti (F) e prevale, dunque, nel sesso maschile (M/F circa pari
a 3:2). La mortalità è di 25.7/100.000 abitanti (M) e 17.9/100.000 abitanti (F), mentre la
sopravvivenza globale a 5 anni del 63% e un ruolo fondamentale, in questo è riconosciuto nella
diagnosi precoce, che risulta fondamentale.

● FATTORI DI RISCHIO
Il carcinoma del colon retto è in aumento nei paesi occidentali e la sua incidenza sembra correlata
a:
1. dieta ricca di grassi e zuccheri e povera di fibre
2. sovracrescita batterica: promuove il rilascio di sostanze tossiche
3. uso di contraccettivi orali
4. abuso di alcol e fumo
Fattori protettivi invece sono
1. dieta povera di grassi e zuccheri e ricca di fibre
2. attività fisica
3. acido folico
Il carcinoma del colon retto sporadico si associa a diverse altre condizioni
1. irradiazione pelvi
2. ureterosigmoidostomia
3. colecistectomia: l’assenza del serbatoio biliare favorisce un riversamento continuo della bile
nell’intestino, con aumento della sua attività irritativa.
4. IBD (1%):
o RCU
▪ degenerazione tumorale della mucosa nel 7-15% dei casi
▪ rischio di degenerazione tumorale è aumentato in presenza di
● pancolite (5-10x)
● malattia di lunga durata
● attività di malattia elevata
● associazione con CSP
● displasia nella mucosa interessata dalla RCU in corso di follow up
o MdC
▪ degenerazione tumorale meno frequente di RCU
▪ rischio è aumentato in presenza di
● pancolite
● malattia di lunga durata
● malattia in giovane età
Molti studi negli ultimi anni hanno destato clamore circa il ruolo delle carni rosse nell’eziopatogenesi
del CRC, sebbene l’utilizzo moderato di carni non abbia alcuna relazione con il determinismo
patogenetico della malattia.
Tra gli altri fattori di rischio, sono stati considerati sia l’obesità che alcuni aspetti ormonali correlati
all’attività degli estrogeni. Anche la colecistectomia è stata implicata nella maggior incidenza sul
cancro del colon destro, a seguito della cronica attività irritante che i Sali biliari potrebbero avere
sulla mucosa e particolarmente sullo strato basale.
Sicuramente, nell’ambito dei fattori di rischio per cancro del colon-retto non possono non essere
annoverati i fattori genetici e proprio sulla base della relazione esistente con i fattori genetici, i
carcinomi del colon si suddividono in:
1. Casi sporadici: 75-80%
2. Casi familiari/ereditari: 20%
o HNPCC: 15% (Hereditary Non-Polyposis Colon Cancer, o syndrome di Lynch)
▪ patologia ereditaria autosomica dominante caratterizzata dalla
degenerazione di un singolo polipo adenomatoso soltanto (Lynch I) oppure
con un associato aumentato rischio di sviluppare altre neoplasie (Lynch II)
▪ da sospettare se:
● CRC diagnosticato in un paziente < 50 aa
● presenza sincrona o metacrona di CRC e altri tumori associati a
sindrome di Lynch, a prescindere dall’età, nel paziente o in familiari di
primo grado
Di sindrome di Lynch ve ne sono, come detto, due tipologie; nella sindrome di Lynch
I, si riscontrano spesso polipi e carcinomi in sede prossimale alla flessura splenica
(70% dei casi), che possono insorgere in maniera sincrona o metacrona; nella
sindrome di Lynch II si hanno le medesime caratteristiche, ma con aumentata
tendenza all’insorgenza di tumori dell’ovaio, tumori endometriali mentre
l’associazione con tumori dello stomaco, del rene o della vescica, o, ancora, del tenue
intestino è più rara. In tal caso, il tumore del colon non sempre anticipa quello
dell’endometrio o dell’ovaio.
Ancora, nei pazienti con HNPCC l’esordio è molto più precoce (intorno ai 50 anni),
con una familiarità sempre presente -estendere le indagini genetiche anche ai
familiari. Figure frequenti in questi pazienti sono la presenza di tumori del colon
metacroni, la presenza di tumori in altra sede tipica di Lynch II (p. Es.; ovaio e/o
endometrio), la presenza di istotipi tumorali non differenziati e mucinosi che più
frequentemente ricorrono nel colon destro: sono questi gli elementi dirimenti per
inquadrare un soggetto nell’ambito della sindrome di Lynch.
o FAP: <1%, dovuta a mutazione del gene APC. Una variante della FAP è ritenuta essere
la sindrome di Gardner. In questa sindrome si associano al CRC dei tumori
mesenchimali, come gli osteomi o le fibromatosi aggressive che sono delle neoplasie
particolarmente temibili quando insorgano nello spessore dei mesi, poiché, pur non
avendo attività metastatica, infiltrano le strutture circostanti, richiedendo interventi
demolitivi. Questi pazienti, quando il desmoide ha infiltrato il meso, vengono
indirizzati a trapianti d’intestino che sono gravati da una elevata mortalità. Le
fibromatosi aggressive, inoltre, non sono prevenibili come il CRC. Ancora, i desmoidi
sono tumori che recidivano frequentemente, anche per via del trauma indotto dalla
ferita chirurgica. Questi tumori, inoltre, sono scarsamente responsivi alla
radioterapia e alla chemioterapia poiché sono tumori scarsamente cellularizzati, che
possono essere eventualmente trattati con una terapia ormonale a base di
antiestrogeni.
o sindromi poliposiche amartomatose: <0,1%, rappresentate principalmente dalla
sindrome di Peutz-Jeghers e dalla sindrome di Cowden; gli amartomi sono delle
lesioni benigne, caratterizzate dalla presenza dei medesimi tessuti rappresentati
nell’organo in cui l’amartoma insorge ma presenti in una organizzazione e
successione disordinate. La sindrome di Peutz-Jeghers è una poliposi amartomatosa
caratterizzata dalla presenza di poliposi del colon, iperpigmentazione della mucosa
geniena, del palmo della mano e della pianta del piede, con aumentato rischio di CRC
e di melanoma.
Per quanto riguarda la patogenesi, sono state individuate le precise tappe che a partire da una
semplice proliferazione dell’epitelio portano allo sviluppo di un piccolo adenoma prima fino ad un
carcinoma del colon invasivo vero e proprio e ognuna di queste tappe è sostenuta da una precisa
mutazione genetica: tale è il modello di Vogelstein che introduce il concetto del “multi-hit” cioè
della somma di diverse mutazioni genetiche in protooncogeni od oncosoppressori che
progressivamente determinano la transizione da forme con minor rischio neoplastico a lesioni con
maggior rischio neoplastico, fino all’approdo al carcinoma vero e proprio.
Accanto a questa ipotesi, ne esisterebbe una seconda che è l’ipotesi dell’instabilità dei microsatelliti.
Un aspetto particolare dell’epidemiologia è quello per cui l’incidenza di questa neoplasia sia
aumentata in Cina e Giappone, il che ovviamente non può essere supportato da ipotesi genetiche.
Similmente alla Cina e al Giappone, anche l’Africa è una regione del globo storicamente definita a
bassa endemia per il CRC, sebbene sia stato dimostrato che pazienti africani immigrati in zone ad
alta endemia assumano il medesimo rischio degli originari di queste regioni e ovviamente neanche
questo è un aspetto spiegabile con l’assetto genetico. In questo scenario epidemiologico, grande
importanza è stata attribuita al rapporto tra la dieta e la flora batterica: nella flora batterica della
popolazione europea vi è ricca presenza di Bacteroides (che vengono stimolati dall’introito proteico
e di grassi animali), mentre nella popolazione africana prevalgono le Prevotelle, stimolate
dall’introito di carboidrati con la dieta. In topi geneticamente modificati con mutazione di K-Ras e
quindi predisposti allo sviluppo di carcinomi, si è visto che una dieta ricca di grassi realizza un
cambiamento della flora batterica intestinale e un aumento del rischio di cancerogenesi.
Ancora, nei pazienti che presentino una mutazione genetica di APC, cioè pazienti con poliposi
adenomatosa intestinale, la medesima mutazione è presente in tutte le altre cellule, ma il rischio
maggiore di cancerogenesi si realizza a livello del colon-retto per via della presenza di una flora
batterica quali-quantitativamente differente rispetto a quella che si riscontra, per esempio, a livello
del tenue intestino e, evidentemente, l’interazione del microbiota con le cellule epiteliali del colon
rappresenta un aspetto cruciale nella patogenesi del cancro del colon-retto.
Nell’ambito del CRC, è anche riconosciuto un ruolo da parte di alcuni recettori ormonali degli
estrogeni, tanto che correnti molto moderne di pensiero individuano nel ruolo dei fitoestrogeni
delle potenzialità circa la prevenzione del tumore stesso.

● SCREENING DEL CANCRO DEL COLON-RETTO


L’efficacia dello screening rientra tra le grandi sfide dell’oncologia moderna, intendendosi con
l’espressione di “efficacia” la possibilità di individuare la neoplasia quando sia ancora pienamente
curabile. Lo screening è un programma organizzato di sorveglianza, finalizzato alla diagnosi precoce,
condotto su una popolazione asintomatica e a rischio standard che è attivamente invitata ad
effettuare un esame di controllo. Oggigiorno, lo screening di massa si effettua mediante la ricerca
del SOF. La ricerca del sangue occulto nelle feci (in sigla SOF) viene consigliata dal Ministero della
Salute ogni due anni nelle persone tra i 50 e i 69 anni. Se questo esame rileva la presenza di sangue
occulto, il protocollo degli screening invita a sottoporsi a una colonscopia -quando negativa, la
colonscopia ha una valenza di dieci anni. Questo esame, che consiste nella visualizzazione
dell'intestino tramite un sottile tubo dotato di telecamera, è in grado di confermare o escludere la
presenza di polipi. Nel primo caso, consente di rimuoverli nella stessa seduta. Circa il 55% dei tumori
del colon-retto si sviluppa nella parte finale dell'intestino, ossia il sigma e il retto. Per questo in alcuni
programmi di screening è in uso, in luogo della ricerca del sangue occulto nelle feci, la
rettosigmoidoscopia (o rettoscopia). Si tratta di un esame analogo alla colonscopia, ma che esplora
soltanto questa porzione dell'intestino.
Rispetto alla colonscopia si tratta di un esame più accettabile per il paziente, dal momento che
richiede una preparazione meno fastidiosa nei giorni precedenti all'esame e dura circa la metà del
tempo. Inoltre, ha un'efficacia diagnostica maggiore rispetto alla ricerca di sangue occulto e
consente di rimuovere nella stessa seduta gli eventuali polipi riscontrati. La rettosigmoidoscopia
viene effettuata una sola volta nella vita, tra i 58 e i 60 anni e se risulta negativa non deve essere
ripetuta. Gli studi fin qui condotti, infatti, suggeriscono che offra una protezione superiore ai 10
anni. Nonostante questi vantaggi, che si traducono in una riduzione della mortalità per cancro al
colon del 45%, la rettoscopia ha un limite significativo: non è in grado di individuare i polipi e i tumori
che insorgono nella parte più alta del colon-retto.
Anche per questa ragione, nelle persone che presentano alla rettoscopia polipi di dimensioni di 1
cm o più oppure anche più piccoli, ma con caratteristiche particolari (p. Es.: vari gradi di displasia),
viene consigliata una colonscopia.
Se fosse l'efficacia diagnostica l'unico parametro da considerare nell'adozione di un esame
all'interno di un percorso di screening, la colonscopia sarebbe il test ideale nella diagnosi precoce
del tumore del colon-retto: consente di rilevare quasi la totalità dei polipi ed eventualmente di
rimuoverli. Inoltre, è pratica perché può essere effettuata una volta sola nella vita.
Tuttavia, non è così. La scelta di un'indagine da impiegare in un contesto di screening è sempre il
frutto della valutazione del rapporto tra benefici e costi. E se la colonscopia ha altissimi benefici,
altrettanto alti sono i costi, sia per il paziente, sia per il servizio sanitario.
Innanzitutto, a causa della sua invasività, la colonscopia è un test difficilmente accettabile da una
popolazione fino a prova contraria sana: comporta disagi legati alla sua preparazione e alle modalità
di esecuzione. Inoltre, seppur rari e per lo più ridotti, non è esente da rischi. Infine, il tempo di
esecuzione del test (e di conseguenza il numero di specialisti da dedicare) lo rendono un esame
costoso dal punto di vista economico. Per tutte queste ragioni, a oggi, la colonscopia non è
impiegata all'interno di programmi organizzati di screening. Tuttavia, si sta esplorando la possibilità
dell'impiego della colonscopia virtuale, vale a dire una TC in grado di fornire una visualizzazione
tridimensionale della parete interna dell'intestino, sebbene anche questo esame abbia un grosso
limite, cioè quello di non consentire l’esecuzione della biopsia né tantomeno di asportare durante
la seduta dell’esame i polipi che eventualmente dovessero riscontrarsi.
Una delle proposte più moderne è rappresentata dalla possibilità di eseguire un test del respiro;
l’idea di questo tipo di screening è legato alla bassa compliance del paziente alla ricerca del sangue
occulto fecale, che blocca molto spesso molti soggetti dall’eseguire allo screening. Se a questo
aggiungiamo la scarsa sensibilità della metodica di ricerca del SOF, si può comprendere come questo
programma di screening non sia di per sé efficace. Il Breath test si basa sul concetto che il tumore
abbia un metabolismo differente, per cui produce cataboliti quali-quantitativamente differenti
rispetto a quelli prodotti dalle cellule normali e che rappresentano la metabolomica, cioè l’insieme
delle molecole normalmente prodotte. Tali sostanze prendono anche il nome di VOCs, cioè prodotti
volatili che possono essere ben individuati mediante analisi dell’espirato con spettrofotometria, dal
momento che queste sostanze vengono immesse nel sangue e successivamente vengono eliminate
con l’espirazione.
Questo tipo di metodica, molto innovativa, comunque presuppone diversi passaggi (raccolta
dell’espirato, trasporto, analisi spettrofotometrica e successiva lettura dei picchi emessi), per cui la
moderna prospettiva è quella di cercare di disporre di una tecnologia in grado, con un singolo
apparecchio, di effettuare tutti i vari passaggi.

● STADIAZIONE
La stadiazione oggi in uso per il carcinoma del colon-retto è la stadiazione TNM, sebbene sia
doveroso, per motivi storici, citare la stadiazione elaborata da Dukes, un anatomopatologo che fu il
primo a comprendere che l’invasione linfogena rappresenti uno dei principali, se non il principale,
fattore prognostico per i pazienti con CRC.
Modernamente, la stadiazione vigente è la stadiazione TNM, che è definita completa nel momento
in cui sia effettuato l’esame istologico su pezzo operatorio. Si distinguono, infatti, un cTNM, cioè
una stadiazione clinica, effettuata in fase preoperatoria con gli esami diagnostici (colonscopia per la
diagnosi del tumore primitivo, TC total-body e MRI per i secondarismi linfonodali e/o metastatici) e
il pTNM che rappresenta la reale stadiazione con implicazioni sia prognostiche che terapeutiche.
Quando un tumore è in fase precoce, conoscere se questi coinvolga la mucosa, la sottomucosa o la
muscolaris mucosae è fondamentale in termini prognostici, il che non è facilmente individuabile con
gli esami diagnostici convenzionalmente effettuati nel preoperatorio. Allo stesso modo, se
l’identificazione di grossi linfonodi metastatici è cosa abbastanza agevole, lo stesso non può dirsi dei
linfonodi metastatici di dimensioni minori e anche in tal caso è l’esame istologico dei linfonodi
asportati ad essere dirimente per la prognosi e per la stadiazione.
La stadiazione TNM si traduce anche in una stadiazione clinica della malattia in cinque stadi, che
vanno dallo stadio 0, quello del carcinoma in situ, fino allo stadio IV.
1. Stadio I: include tumori che sono confinati alla parete ma non vanno mai oltre la muscolaris
mucosae, non invadono i linfonodi e non presentano localizzazioni metastatiche:
a) T2 al massimo
b) N0
c) M0
2. Stadio II: include tumori che invadono la tonaca muscolare, interessando la subsierosa o i
tessuti pericolici/perirettali non peritonealizzati o tumori che invadono la sierosa viscerale o
direttamente organi e strutture viciniori:
a) T3-4
b) N0
c) M0
3. Stadio III: include tumori in cui, indipendentemente del coinvolgimento della parete
intestinale vi sia un coinvolgimento linfonodale (N1, se al massimo tre linfonodi coinvolti, N2
se coinvolti almeno quattro linfonodi pericolici o perirettali, N3 se metastasi in qualunque
linfonodo lungo un tronco vascolare) in assenza di localizzazioni metastatiche:
a) Qualunque T
b) N1-3
c) M0
4. Stadio IV: in presenza di almeno una metastasi a distanza, quindi:
a) Qualunque T
b) Qualunque N
c) M+
In realtà, anche la stadiazione TNM, per quanto valida, non sempre è così precisa in termini
prognostici: si possono osservare pazienti che, nella medesima stadiazione TNM, in corso di follow-
up alcuni sviluppano metastasi a differenza di altri. Alcuni studi effettuati su queste popolazioni
documenterebbero la presenza di una maggiore tendenza metastatica per via della mutazione di
alcuni geni del pathway della β-catenina o di WNT, le quali favoriscono la transizione epitelio-
mesenchimale. La transizione epitelio-mesenchimale rappresenta un meccanismo di
trasformazione fenotipica della cellula epiteliale che acquisisce una capacità fibrinolitica e
metalloproteinasica, raggiungendo il circolo e acquisendo motilità, per colonizzare il tessuto
ectopico ed attuare una transizione inversa, mesenchimo-epiteliale. Potenzialmente,
l’overespressione di questi geni rappresenterebbe un fattore prognostico. Un altro aspetto su cui si
sta lavorando è quello del linfonodo sentinella, un concetto mutuato dall’oncologia del cancro della
mammella, che permetterebbe di avere ulteriori indicazioni prognostiche. Tuttavia, nel cancro del
colon-retto vi sono diverse e distinte stazioni linfonodali su cui possa essere presente una
metastatizzazione.
Nel lontano 1992, ancora, fu pubblicato un lavoro secondo cui vi era la presenza nel midollo osseo
di cellule epiteliali tumorali in pazienti senza alcun interessamento linfonodale e il significato di
questo studio è proprio quello per cui anche i pazienti N0 possono sviluppare dei secondarismi
metastatici.

● LOCALIZZAZIONE ANATOMICA E ISTOPATOLOGIA DEL CANCRO DEL COLON RETTO


In termini di localizzazione, più della metà (55% dei casi) di CRC interessa il retto o il sigma; nello
specifico, il retto rappresenta la localizzazione del 30% dei casi di CRC, mentre il sigma circa il 25%.
Seguono, poi, in termini di frequenza di localizzazione, il cieco (15% dei casi) e il colon destro (10%
dei casi), quindi il colon trasverso (8% dei casi) mentre il colon sinistro rappresenta solo il 3% delle
localizzazioni. Una percentuale di casi, anch’essa poco rappresentata, si localizza a livello delle due
flessure, epatica (5% dei casi) e splenica (3% dei casi). Rimane il concetto secondo cui vi è un maggior
tempo di contatto degli ingesti con la mucosa.
Dal punto di vista istologico, la maggior parte dei tumori epiteliali maligni del colon è rappresentata
da adenocarcinomi (95% dei casi), mentre le forme di carcinoma mucinoso scarsamente
differenziato, particolarmente del colon destro, sono caratteristiche della sindrome di Lynch.
Macroscopicamente, i tumori del colon si distinguono in due grandi categorie, rappresentate dai
tumori vegetanti, con crescita esofitica, e dai tumori stenosanti, con crescita endofitica.
I tumori vegetanti sono delle masse che protrudono nel lume del colon e più frequentemente si
riscontrano a livello del colon destro, mentre le forme stenosanti che si accrescono determinando
un restringimento anulare del lume, sono più frequenti a livello del colon sinistro e sono quelli che
in maniera relativamente più frequente possono appalesarsi clinicamente con insorgenza di un
quadro occlusivo, quantunque raramente un CRC esordisca con una emergenza chirurgica com’è un
ileo meccanico.
Per quanto riguarda il comportamento biologico, il CRC presenta tre differenti vie di diffusione:
1. Via ematogena:
a) Fegato
b) Vertebre
c) Polmone
d) Encefalo
2. Via linfatica;
3. Per contiguità

● DIAGNOSI
Innanzitutto, va considerato che spesso il carcinoma del colon-retto sia asintomatico o
paucisintomatico, motivo per cui i pochi sintomi che da questa neoplasia possono rinvenire vanno
assolutamente indagati già a partire dalla raccolta anamnestica. Inoltre, l’eventuale presentazione
clinica dipende strettamente dalla sede in cui il tumore stesso si colloca.
Neoplasia Clinica
“Early CRC” Sintomi scarsi o assenti
Neoplasia del retto Tenesmo rettale, sanguinamento rettale,
modificazioni dell’alvo
Neoplasia del colon sinistro Dolore addominale, esordio occlusivo
(soprattutto nei tumori molto avanzati, che
determinano una stenosi importante del lume),
sanguinamento, modificazioni dell’alvo
Neoplasia del colon destro Asintomatico, anemia da perdita ematica
cronica con SOF+, modificazioni dell’alvo
Neoplasie avanzate Calo ponderale, astenia, esordio con
perforazione o occlusione intestinale.
La clinica del CRC non sempre è eclatante, ma può certamente fornire importanti indicazioni; spesso
il sintomo d’allarme è rappresentato dalla perdita ematica: in tutti i pazienti ultracinquantenni che
presentino un sintomo d’allarme come la perdita ematica è necessario effettuare una colonscopia.
Sicuramente, nell’attesa di eseguire la colonscopia è possibile effettuare una esplorazione digito-
rettale (i tumori del retto rappresentano isolatamente il 30% del totale dei CRC) e, a seguire,
un’anoscopia, per escludere che la causa sia la patologia emorroidaria. Ovviamente, in questi casi,
quando il paziente lamenti egli stesso la perdita di sangue, la ricerca del SOF è inutile. La ricerca del
sangue occulto ha senso solo quando il sangue non si veda e se ne colga l’anemizzazione all’esame
emocromocitometrico: l’anemia da perdita ematica è un segno di sospetto nel paziente
ultracinquantenne e spesso nel contesto del CRC è il cancro del colon destro ad appalesarsi
clinicamente in questa maniera; sarà questo il caso in cui richiedere la ricerca del SOF. Importante
è chiedere al paziente che lamenti perdita di sangue con le feci se accanto a questa vi sia anche
perdita di muco. Soprattutto nei pazienti più giovani che lamentino queste perdite, occorre
approfondire l’anamnesi ricercando anche la presenza di dolori ed episodi di diarrea che possono
deporre a favore di una IBD o, ancora, vi sono degli adenomi villosi che possono addirittura
determinare una diarrea acquosa.
Allo stesso modo, anche in presenza di sintomi d’allarme come la stipsi da almeno tre mesi o la
comparsa di stipsi improvvisa nel paziente ultracinquantenne rappresentano di per loro una
indicazione per la colonscopia. Nella raccolta anamnestica, i cambiamenti dell’alvo sono sempre un
sospetto da approfondire. Ricordiamo, tuttavia, che un tumore del retto, differentemente dai
tumori del colon, possa esordire non con cambiamenti dell’alvo, bensì con tenesmo.
Il calo ponderale e, soprattutto, la perforazione sono manifestazioni cliniche che si realizzano in fase
abbastanza avanzata. Infatti, raramente l’esordio è con una emergenza chirurgica come la
perforazione o l’occlusione.
L’esame fisico dell’addome è solitamente negativo, a meno che il paziente non abbia perso peso in
maniera così tanto importante da consentire l’apprezzamento di una massa in addome.
L’esplorazione digito-rettale potrebbe, eventualmente, essere positiva, per apprezzamento di una
massa o di un sanguinamento nei casi (30%) di carcinoma del retto. L’EDR, infatti, qualche volta
consente di apprezzare nel retto una massa di consistenza dura rispetto alla sofficità della mucosa
rettale. L’esplorazione digito-rettale andrebbe, comunque, effettuata almeno una volta all’anno
dopo i quarant’anni nelle famiglie a rischio per CRC.
Tra gli esami di laboratorio, solo il CEA (se positivo) e una anemia inspiegabile (con SOF+) possono
rappresentare elementi di sospetto. L’antigene carcino-embrionario, quando positivo, fornisce un
forte sospetto di CRC, ma va considerato che circa il 50% dei casi di CRC non esprima il CEA, motivo
per cui la sua negatività non è in grado di escludere la diagnosi di cancro del colon-retto.
La diagnostica, comunque, è sostanzialmente strumentale e si basa sul ricorso all’endoscopia -per
contro, la colonscopia virtuale non è un esame che va effettuato, dal momento che non consente di
campionare delle biopsie.
La TC è utilizzata per la stadiazione del cancro del colon, mentre nel cancro del retto vengono
utilizzate perlopiù la MRI e la US che nelle fasi precoci consente di definire in maniera molto accurata
l’invasione dei vari strati della parete, in maniera anche più accurata della MRI.
L’endoscopia è l’esame gold standard per la diagnosi di cancro del colon-retto e per l’individuazione
di eventuali tumori sincroni (2-8% dei casi), dal momento che oltre alla visualizzazione endoscopica
consente di effettuare biopsie per confermare la diagnosi. L’esame istologico è sempre dirimente;
alle volte una massa in endoscopia può essere misconosciuta e scambiata con una diverticolite
cronica che provoca una stenosi del colon e può simulare sintomatologicamente ed
endoscopicamente una neoplasia a crescita endofitica: solo l’esame istologico consente la diagnosi
differenziale. Vi sono, poi, lesioni ischemiche, soprattutto del sigma, che possono dare un quadro
simil-neoplastico, con alterazione della mucosa, anche se in genere si estendono per 15 cm, quindi,
hanno una estensione maggiore rispetto ad una neoplasia del colon, che tende a non avere
diffusione longitudinale. Un’altra diagnosi differenziale endoscopica è rappresentata dall’ulcera
solitaria del retto: questa lesione si localizza nelle donne ma anche nei maschi nella parete anteriore
del retto, presentandosi come un’area di consistenza aumentata, sanguinante e ulcerata proprio
come un tumore, ma è risultato di un traumatismo cronico della mucosa rettale sottoposta a ripetuti
episodi di intussuscezione del retto (nella più parte dei pazienti, vi è un quadro di defecazione
ostruita in cui il retto si invagina in sé stesso durante il ponzamento); questo processo alterante
della dinamica defecatoria determina traumatismi ripetuti della mucosa rettale che va incontro a
flogosi cronica: la diagnosi differenziale con il carcinoma del retto è solo istologica e spesso, dopo la
diagnosi, la biopsia viene ripetuta.
L’endoscopia può anche risolvere una occlusione intestinale da cancro in pazienti che non possono
essere operati perché cardiopatici, sotto anticoagulanti. L’endoscopia, utilizzata come “bridging
surgery”, consente di applicare una protesi autodilatante per poi operare il paziente in regime di
elezione, poiché effettuare l’intervento in urgenza in un paziente neoplastico occluso, aumenta
notevolmente il rischio operatorio. Ancora, vi sono casi in cui il paziente è in fase terminale e in cui
l’endoscopia autodilatante potrebbe essere l’unico trattamento -magari non si fa intervento di
eradicazione perché il soggetto è terminale.
Oltre all’endoscopia, l’esame radiologico, la TC e la MRI sono utili per la diagnosi del tumore e,
rispettivamente, per la stadiazione delle metastasi e del parametro N; la MRI nei tumori del retto
in fase avanzata è accurata per la stadiazione del parametro T. La TC deve sempre essere richiesta
con mezzo di contrasto e consente, eventualmente, di vedere una stenosi neoplastica o una
ostruzione neoplastica.
Nei tumori del retto non stenosanti, l’ecografia endorettale tridimensionale è una metodica molto
utile per la stadiazione del tumore primitivo, cioè del grado di penetrazione della neoplasia negli
strati della mucosa del retto; la US, tuttavia, non è ideale per studiare il colon. Diversamente,
l’ecografia transrettale è molto utile per fornire informazioni circa l’infiltrazione degli strati della
mucosa del retto per valutare se il tumore è in fase precoce -trattabile per via endoscopica
transanale- dal momento che l’ecografia consente di distinguere abbastanza chiaramente i vari
strati della parete del retto.
L’RX con bario consente di individuare la sede del tumore: il clisma opaco spesso difficilmente
consente di distinguere una zona di stenosi neoplastica da una stenosi determinata da una
contrattura spastica ma quello che consente di diagnosticarla è la persistenza della zona di
ostruzione mentre nel caso della contrazione peristaltica, il viscere si dilata e riacquista il lume. Il
clisma opaco suggerisce la presenza di immagini con irregolarità della parete o, ancora, immagini in
cui il bario non impregna il lume in determinate zone del colon per via della presenza di una
stenosi/ostruzione di carattere neoplastico.

● TRATTAMENTO DEL CRC


Anzitutto, è necessaria una preparazione del paziente. Infatti, se presente un’anemia grave, questa
va corretta con un’emotrasfusione (un’anemia di 10 g/dL non viene corretta con emotrasfusione, in
genere si dà un po’ di ferro e acido folico per favorire maturazione degli eritrociti).
Bisogna correggere eventuali problemi cardiorespiratori (p. Es.: fibrillazione, compenso dei
problemi respiratori e se non correggibili, l’anestesista dovrà assistere in una certa maniera la
respirazione). Vanno corretti gli elettroliti, che non infrequentemente possono essere alterati per
via della presenza di una occlusione intestinale.
Quello del consenso informato è un aspetto fondamentale sia in questa che in tutte le altre forme
di chirurgia; il consenso informato, in tal caso, deve esplicitare anche l’eventualità di una colostomia
o di disfunzioni urogenitali soprattutto se si lavora con il retto (p. Es.: per motivi operatori di
anastomosi ad alto rischio di deiscenza, bisogna alle volte correggere con ileostomia o colostomia,
che è una scelta non sempre preventivabile e prevedibile nel preoperatorio, perciò va chiesto il
consenso al paziente per fare questo tipo di derivazione). Le disfunzioni urogenitali potrebbero,
soprattutto nei tumori del retto, per possibili infiltrazioni o per tecnica chirurgica imperfetta,
determinare delle lesioni dell’innervazione pelvica sia della vescica che degli organi genitali e questo
può portare a incontinenza urinaria, ritenzione urinaria, disfunzione erettile o eiaculazione
retrograda. Il consenso deve essere anche rivolto ad eventuali emotrasfusioni che possano rendersi
necessarie per sanguinamento intraoperatorio.
Bisogna prevenire le trombosi perché questi sono pazienti predisposti a fare trombi, perché sono
fermi per ore allettati, possono avere di per sé dei deficit della fibrinolisi e vanno protetti con LMWH
o addirittura, in maniera obbligatoria negli obesi, con delle calze/compressioni pneumatiche degli
arti inferiori per riattivare il ritorno venoso.
Il colon, rispetto agli altri organi, deve essere preparato meccanicamente: è argomento ancora
dibattuto; tradizionalmente il paziente da sottoporsi a intervento chirurgico del colon deve svuotare
completamente il colon (assunzione di 4 L di una soluzione lassativa energica). Questa procedura
viene ancora fatta ma è stata messa in discussione da studi controllati e randomizzati che
dimostravano alcuni vantaggi nel non fare preparazione del colon. Il razionale è che mediante
preparazione viene alterato pesantemente il microbiota, la cui salute è essenziale per la buona
ripresa del paziente, per l’ottimizzazione delle risposte immunitarie. Va però considerato che la flora
batterica in questi pazienti è comunque danneggiata dalla profilassi antibiotica, che si effettua
contro Gram- anaerobi con metronidazolo, che viene iniziata nel preoperatorio e viene protratta
nel postoperatorio per diversi giorni, alterando profondamente la flora di questi pazienti.
Oggigiorno nelle nuove linee guida si prevede che si dia una terapia antibiotica preoperatoria per
via orale che porterebbe ad una riduzione delle infezioni del sito chirurgico.
Quando parliamo di CRC dobbiamo assolutamente considerare che esistono interventi radicali ed
interventi palliativi.
L’intervento palliativo ha la finalità di risolvere eventuali complicanze, come la perforazione o
l’occlusione meccanica del colon, per cui c’è sempre indicazione alla chirurgia, quale intervento
radicale o quale resezione palliativa della neoplasia.
Il ricorso alla chirurgia laparoscopica e robotica consente una ripresa più rapida, determina meno
dolore postoperatorio e riduce il rischio di complicanze legate alla ferita chirurgica: l’incidenza di
laparoceli nelle procedure laparotomiche è pari circa al 20% dei casi.
1. Vantaggi della chirurgia laparotomica/robotica:
a) Ripresa più rapida
b) Minore dolore postoperatorio
c) Ridotto rischio di complicanze
2. Svantaggi della chirurgia laparotomica/robotica:
a) Costo
b) Curva di apprendimento
c) Metastasi nel sito della ferita (svantaggio oramai superato)
d) Radicalità (svantaggio oramai superato)
In passato, quando fu introdotta la chirurgia laparoscopica, alcune casistiche negli USA riportarono
la presenza di metastasi cutanee nei punti di inserimento del trocar, che si è poi compreso essere
dovute ad una tecnica non adeguata soprattutto durante la fase di uscita del tumore: oggi la ferita
chirurgica viene protetta da device che isolano completamente rispetto alla neoplasia. Moltissimi
studi mostrano equivalenza o migliore possibilità di radicalità con laparoscopia o robotica.
Dal punto di vista tecnico, la demolizione deve comprendere sia il segmento intestinale che sia sede
della neoplasia che dei margini di sicurezza sufficientemente ampi: va infatti assicurato un margine
di almeno 5-7 cm a monte e a valle per le resezioni di colon e di almeno 5-7 cm a monte e 2-3 cm a
valle nelle resezioni di retto. Sicuramente, assicurare il margine di sicurezza a monte è sempre
possibile, ma lo stesso non vale per il margine a valle nelle resezioni di retto in cui spingere la
resezione troppo a valle potrebbe determinare una serie di complicanze postoperatorie che hanno
a che vedere con la perdita della continenza.
Oltre ai margini di resezione, l’intervento radicale necessita dell’asportazione del mesentere e delle
rispettive stazioni linfonodali di drenaggio locoregionali, fino alle stazioni intermedie, almeno.
Per quanto riguarda il tipo di intervento chirurgico, ovviamente, esistono delle differenti procedure
a seconda della localizzazione del tumore.
Nelle neoplasie del cieco (e anche del colon destro), l’intervento prevede una emicolectomia
destra, con asportazione del colon destro fino alla flessura epatica, dal momento che in tal caso la
procedura chirurgica prevede la legatura dell’arteria ileocolica che è il ramo dell’arteria mesenterica
superiore che vascolarizza non solo l’ileo e il cieco, ma spesso anche il colon destro, giacché l’arteria
colica di destra -che stando all’anatomia normale dovrebbe vascolarizzare il colon destro- è spesso
incostante o, addirittura, mancante. Per questo motivo, durante la legatura, il colon destro rimane
non vascolarizzato e si è costretti ad asportarlo per poi effettuare una ileo-trasversostomia.
Nei tumori del discendente, è necessaria asportazione della flessura sinistra e del sigma: in tal caso,
si necessita della legatura dell’arteria mesenterica inferiore, tal che per tutto il tempo
dell’operazione sia il discendente che il sigma rimangano devascolarizzati.
Nel caso di neoplasie del retto prossimale, l’arteria mesenterica inferiore viene legata a valle
dell’arteria colica di sinistra, il che fa sì che durante l’intervento non si deprivi il colon discendente
della sua vascolarizzazione: in tal caso la legatura devascolarizza il sigma e il retto superiore e medio,
mentre il moncone distale del retto, che riceve altra vascolarizzazione non viene asportato e viene
quindi effettuata una colo-rettostomia bassa.
Nei tumori del retto basso, che coinvolgano un segmento estremamente distale, con
coinvolgimento dello sfintere anale esterno e/o con coinvolgimento dei muscoli del pavimento
pelvico trova indicazione l’esecuzione dell’amputazione addomino-perineale di Miles, che è un
intervento che comporta asportazione del discendente distale, del sigma, del retto e dell’ano nella
sua interezza (cioè canale anale, cute circostante, apparato sfinteriale, muscoli elevatori dell’ano e
tessuto adiposo delle fosse ischio-rettali); quindi, si instaura una colostomia definitiva in fossa iliaca
sinistra.
Ovviamente, vi sono casi in cui si rende necessaria l’esecuzione di una proctocolectomia totale (p.
Es.: FAP, displasia grave e multipla in pazienti con RCU), cui può seguire una ileostomia definitiva in
fossa iliaca destra oppure la formazione di una J-pouch, cioè di un serbatoio confezionato con l’ileo,
poi anastomizzato all’ano. In tal caso, l’ileo terminale viene ripiegato su sé stesso, aperto sul
versante antimesenterico e poi risuturato al fine di formare un vero e proprio serbatoio. In questo
modo, si aumenta la compliance del segmento ileale, di modo che si abbia una maggior capacità di
assorbimento del contenuto: il contenuto ileale è di norma molto liquido, presenta ancora bile e
succhi enterici che potrebbero dare una diarrea continua e fortemente irritante per la cute; di fatto,
il confezionamento di una pouch è un espediente per migliorare la continenza favorendo un
maggiore tempo di stazionamento del contenuto nel serbatoio.
In base all’esito dell’istologia, ovviamente, va impostata una terapia medica con farmaci
chemioterapici, con farmaci biologici o con immunoterapici.

● CHIRURGIA DEL RETTO


La chirurgia del retto è un argomento a sé stante rispetto alla chirurgia del resto dei tumori del
colon, anche perché trattasi di una chirurgia ultraspecialistica che richiede un training molto
specifico.
Halsted ha avuto un ruolo fondamentale nella chirurgia oncologica, dal momento che per primo ha
stabilito i criteri di radicalità oncologica, che consistono nel (1) rimuovere interamente il tessuto
neoplastico, (2) rimuovere interamente le stazioni di drenaggio linfatico e (3) resecare i margini di
sicurezza nel tessuto sano.
Un altro nome decisivo nella chirurgia del retto è quello di Ernest Miles, che propose una procedura
di intervento chirurgico, che prende ancora oggi il nome di amputazione addomino-perineale di
Miles. La procedura proposta da Miles prevede che l’intervento sia gestito da due equipe, l’una che
si occupa della parte addominale e l’altra della parte perineale asportando completamente l’ano, i
muscoli elevatori, il tessuto adiposo, il retto e parte del sigma, con una successiva colostomia
definitiva. Questo intervento, in passato, veniva effettuato anche per i tumori in sede più alta, cioè
i tumori del sigma.
Per il cancro del retto vi sono dei criteri ben definiti per la radicalità oncologica dell’intervento:
1. Assenza di metastasi
2. Clearance distale > 2 cm: è stato dimostrato che lo spessore dell’infiltrazione sottomucosa
non supera mai il centimetro rispetto al margine macroscopico.
3. TME (Total Mesorectal Excision)
4. Clearance laterale > 2 cm
5. Linfonodi asportati almeno 12, per ottenere una corretta stadiazione del parametro N.
Per quanto riguarda la clearance distale, in passato si riteneva che dovesse essere di almeno 5 cm e
questo significa che tutti i tumori a 5 cm dallo sfintere anale dovessero subire l’amputazione
addomino-perineale di Miles. Successivamente, diversi studi hanno dimostrato che la diffusione
distale dei tumori del retto non supera il centimetro dal limite macroscopico e hanno, dunque,
portato ad una completa rivoluzione nella pratica chirurgica, tanto che da quel momento in poi la
percentuale di tumori del retto approcciati con la tecnica chirurgica di Miles è calata drasticamente,
in favore di un aumento del numero di approcci con resezione anteriore (definita in questo modo
in contrapposizione all’approccio praticato nei primi anni del Novecento per via transacrale).
Un contributo decisivo alla chirurgia del retto l’ha fornito il prof. Heald che ha stabilito che parte
della radicalità chirurgica nel retto passa attraverso la necessità di eseguire una escissione completa
del mesoretto, cioè di quel tessuto adiposo che si trova tra il retto e la fascia sacrale del Waldayer.
Per effettuare questa asportazione bisogna seguire un piano anatomico, noto come “holy plane”,
che è un piano completamente avascolare. Questo tipo di evidenza ha rivoluzionato completamente
l’approccio, dal momento che consente di effettuare una resezione di tutti i linfonodi del mesoretto,
senza pericolo di danneggiamento delle strutture nervose e vascolari.
Ebbene, ad oggi, i tumori che si trovano a 2-3 cm dalla linea dentata vengono effettuati con
procedura di Miles, mentre tutti quelli che si trovano più a monte vengono oggi trattati mediante
resezione anteriore, prevedendo per entrambi gli interventi una TME.
L’intervento di Miles prevede, dopo la parte demolitiva, una fase di confezionamento della stomia,
che, precisamente, è una colostomia definitiva in fossa iliaca sinistra. C’è stato, tuttavia, un periodo
della chirurgia di questo intervento in cui si è tentato di effettuare la colostomia a livello perineale,
ovviamente con problemi importanti di continenza, dal momento che l’amputazione addomino-
perineale di Miles prevede anche l’asportazione dello sfintere anale. In questo contesto, per ovviare
a questo problema, si prelevava il muscolo gracile dalla coscia, per avvolgerlo attorno al neoretto
per dotarlo di un nuovo sfintere fissato sulla tuberosità ischiatica dopo averlo avvolto intorno al
colon. Questa tecnica (graciloplastica dinamica) prevedeva la successiva elettrostimolazione del
muscolo, dal momento che l’assenza d’innervazione ne avrebbe determinato l’atrofia da disuso.
D’altro canto, essendo questo un muscolo scheletrico, facilmente sviluppa fatica a seguito della
contrazione duratura, rilasciandosi, per cui si è pensato di installare degli elettrodi connessi ad un
pacemaker con lo scopo di fornire una stimolazione tale da favorire la riprogrammazione fenotipica
delle cellule muscolari in fibre di tipo I, cioè fibre a metabolismo aerobio, altamente resistenti alla
fatica e dotate di una caratteristica contrazione duratura. Questa tecnica, sebbene funzionante, è
stata abbandonata per motivazioni economiche (l’azienda che produceva gli elettrodi non aveva un
ritorno economico sufficiente a giustificare la produzione).
Nella chirurgia del retto, un aspetto importante riguarda la residua funzione sessuale, che
rappresenta uno degli elementi di maggiore rilevanza nell’ambito della qualità della vita successiva
all’intervento. Infatti, il plesso ipogastrico contiene una serie di nervi che non solo raggiungono il
retto, ma anche gli organi genitali. Oggi, infatti, vengono utilizzate delle tecniche di “nerve sparing”
che si basano sul ricorso ad una tecnologia che consente il riconoscimento dei plessi nervosi e il loro
risparmio.
Un altro problema della chirurgia del retto è legato al fatto che anastomosi troppo basse
determinano dei disturbi della defecazione che oggi sono stati ben codificati in una entità nosologica
nota come sindrome da resezione anteriore del retto (LARS, Low Anterior Resection Syndrome),
che è caratterizzata da defecazione incompleta e ripetuta, incontinenza e tenesmo e per questo
motivo vi è stata anche la proposta di confezionare una J-pouch con il colon, similmente a quanto si
faceva con l’ileo a seguito di interventi di proctocolectomia totale; oggigiorno, questa tecnica è stata
del tutto abbandonata.
Priorità del cancro del retto è quello di rimuovere il tumore e tutti i linfonodi locoregionali, nonché
quella di prevenire le recidive locali, mediante un protocollo radioterapico.
La radioterapia del retto può essere neo-adiuvante, adiuvante o intraoperatoria, a seconda che sia
effettuata prima, dopo o durante l’intervento. La radioterapia intraoperatoria prevede l’irradiazione
della pelvi subito dopo l’asportazione, ma si tratta di una procedura molto complessa, che prevede
problemi logistici legati al trasporto dei soggetti in un ambiente che sia adeguato all’irradiazione.
L’effetto della radio-chemioterapia neo-adiuvante è tale da ridurre il volume della neoplasia o di
ridurne lo stadio, cosicché si abbia la possibilità di eseguire interventi tecnicamente più radicali, o
del tutto radicali, e, eventualmente, di risparmiare lo sfintere anale, dopo 8-12 settimane. Tuttavia,
non tutti i tumori vanno incontro a regressione dopo radioterapia neo-adiuvante, per cui diversi
studi si sono proposti di stabilire i vari fattori prognostici di risposta. Modernamente la radio-
chemioterapia preoperatoria è indicata per tumori del retto T3 e T4, che sono quelli per i quali è
possibile praticare la radio-chemioterapia neoadiuvante, mentre si discute molto ancora per i
tumori T2.
Proctologia

Le patologie proctologiche sono di estremo interesse clinico dal momento che (1) sono molto
frequenti e (2) rappresentano tra le principali cause di sanguinamenti digestivi inferiori.
Il retto riceve la propria vascolarizzazione sia dall’arteria mesenterica inferiore che contribuisce alla
formazione delle arterie emorroidarie superiori, sia dall’ipogastrica (o iliaca interna), che origina le
emorroidarie medie, che dall’arteria pudenda interna. Il tratto anorettale è riccamente provvisto di
vascolarizzazione motivo per cui vi è una elevata tendenza al sanguinamento.

• PATOLOGIA EMORROIDARIA
La patologia emorroidaria è una patologia esclusiva del genere umano ed è talmente frequente che
la popolazione si divide, grossolanamente, in soggetti che hanno le emorroidi e soggetti che ne
avranno in futuro. Una precisazione terminologica: con l’espressione di “emorroidi” si intende una
struttura fisiologica, mentre con l’espressione di “patologia emorroidaria” si intendono i
sintomi/segni della patologia associata a presenza di una anomalia della struttura fisiologica.
Rappresenta una delle patologie più conosciute e con il retaggio storico più antico tra le patologie
mediche, già descritta da Ippocrate e oggetto di studi di molti grandi medici del passato.
Una delle convinzioni più radicate nei pazienti e spesso anche nei medici curanti è che la patologia
emorroidaria sia una patologia ereditaria, sebbene, in realtà, il fatto che un familiare sia affetto non
rappresenta un dato a favore dell’ereditarietà, dal momento che si tratta di una patologia
frequentissima, talmente frequente che è molto facile che un paziente abbia un familiare affetto.
Tra i fattori di rischio, vi è la stipsi, quale situazione che comporta l’abitudine ad un ponzamento
protratto (pensare alle lunghe sedute in toilette), dal momento che la posizione di squatting è una
posizione favorente per il peggioramento della patologia emorroidaria. La gravidanza rappresenta
un fattore di rischio per patologia emorroidaria, per via della pressione idrostatica che viene
esercitata dall’utero sulle vene pelviche e sulle vene emorroidarie: queste vene, infatti, non
possiedono un sistema di valvole a nido di rondine, motivo per cui un aumento della pressione
endoaddominale si scarica facilmente sulle vene emorroidarie.
Vi è poi il discorso legato alla dieta, tanto che spesso i medici curanti consigliano l’astensione dai
cibi piccanti in presenza della patologia emorroidaria. Invero, i dati di letteratura sulla correlazione
tra dieta e patologia emorroidaria non sono così convincenti e quelli presenti dimostrano che non
esista alcuna base scientifica circa la relazione tra il consumo di cibi piccanti e
l’insorgenza/peggioramento della sintomatologia emorroidaria. Peraltro, l’epidemiologia di questa
malattia è uguale nelle aree ad alto consumo di cibi piccanti (p. Es.: Messico o Calabria) e nelle aree
in cui non si ha questo ingente consumo di cibi piccanti.
Nell’inquadramento della patologia emorroidaria, di estrema importanza è, anzitutto, considerare
l’anatomia normale del canale anale. Il canale anale è una struttura molto complessa che deriva
dalla differenziazione di due strutture embrionali di origine diversa, cioè dall’ectoderma -dal quale
origina una piega introflessa che prende il nome di proctodeo- e dall’entoderma -che origina
l’intestino primitivo e il retto. In epoca embrionaria, queste due strutture sono separate da una
membrana che va poi incontro ad apoptosi, istituendo la comunicazione tra il retto e il canale anale
e tanto è vero questo che nei pazienti in cui questa perforazione non dovesse verificarsi si
realizzerebbe una condizione nota come “ano imperforato”, una patologia molto penosa, che
necessita di una colostomia alla nascita per garantire l’emissione del meconio. La successiva
ricostruzione del canale anale è, anch’esso, un intervento molto delicato con notevoli alterazioni
funzionali e sequele che il soggetto si porta dietro anche nella vita adulta.
In ogni caso, il residuo, nella vita adulta, del punto in cui il proctodeo e l’intestino primitivo
istituiscono la comunicazione è rappresentato dalla linea dentata di Morgagni, che è la zona in cui
si realizza la transizione tra l’epitelio squamoso pluristratificato non cheratinizzato del canale anale
e l’epitelio cilindrico semplice del retto. Nelle pliche della linea dentata sboccano le ghiandole che
producono un secreto lubrificante e che sono, peraltro, chiamate in causa nella patogenesi delle
fistole cripto-ghiandolari e dei rispettivi ascessi. Ebbene, a livello della linea dentata vi sono delle
zone rilevate della mucosa chiamate emorroidi, che sono delle strutture fisiologicamente presenti
già alla nascita e che hanno anche un ruolo nel mantenimento del tono sfinteriale a riposo, cioè
perfezionano la chiusura del canale anale ovviando ad eventuali episodi di incontinenza minore, cioè
di perdita di secrezioni. Di fatto, le emorroidi sono degli ispessimenti della mucosa a livello della
linea dentata, al di sotto dei quali sono contenute numerose venule, con anastomosi arteriolari e
tessuto connettivo lasso particolarmente ricco di fibre elastiche. Le emorroidi sono solidali con il
tessuto muscolare dello sfintere anale interno e del retto distale e in condizioni fisiologiche non si
spostano dalla loro normale posizione.
Al netto delle varie teorie eziopatogenetiche, è importante sottolineare che le emorroidi non siano
delle varici rettali; sicuramente, esistono delle varici a livello rettale, che si formano come
meccanismo di compenso nel contesto dell’ipertensione portale ma certamente non hanno a che
vedere assolutamente con la patologia emorroidaria. Le varici emorroidarie sono la risultanza di un
meccanismo di bypass del circolo portale in corso di ipertensione portale, lì dove mediante lo scarico
del sangue venoso nel plesso emorroidario medio e inferiore, il sangue può raggiungere
direttamente la circolazione venosa sistemica a mezzo della vena pudenda e delle vene iliache. Le
varici emorroidarie sono delle anomalie vascolari che non devono assolutamente essere oggetto di
trattamento chirurgico e hanno un aspetto assolutamente diverso della patologia emorroidaria.
Oggigiorno, l’ipotesi patogenetica presa in considerazione è quella del prolasso retto-anale di
Thompson, che riprendeva una ipotesi patogenetica già formulata negli anni Cinquanta. Tale
prolasso sarebbe facilitato dal deterioramento delle fibre elastiche che normalmente
garantirebbero la persistenza in sede delle emorroidi a livello della zona della linea dentata.
Il problema è che, parlando di perdite anali di sangue, molto spesso si riconducono le cause alle
emorroidi, ma questo approccio potrebbe misconoscere un tumore del retto, un polipo
adenomatoso o altre patologie che possano dare sanguinamento anale.
I sintomi tipici della patologia emorroidaria sono:
1. Proctorragia
2. Dolore anale (solo in caso di trombosi)
3. Prurito (per via del prolasso della mucosa)
4. Ano umido (per via del prolasso della mucosa).
Il dolore è una evenienza fortunatamente infrequente che depone a favore di una complicanza delle
emorroidi. I quadri più preoccupanti sono quelli della trombosi del prolasso rettale.
Il sintomo clinico caratteristico della patologia emorroidaria è il sanguinamento; il dolore può far
parte del corredo sintomatologico delle emorroidi, ma la sua insorgenza si ha solo nel momento in
cui si abbia una complicanza della patologia emorroidaria che è rappresentata dalla trombosi
emorroidaria. Tra gli altri sintomi, cioè prurito, ano umido, senso di peso anale sono correlati ad un
altro aspetto del quadro emorroidario che è il prolasso, cioè l’affacciarsi della mucosa al di fuori
dell’orifizio anale esterno o il persistere esternamente a questo. La mucosa in prolasso, essendo in
grado di secernere muco, determina il senso di umidità anale e, essendo questa una zona facilmente
abitata da batteri, facilmente si possono sviluppare delle dermatiti anali che determinano lo
sviluppo dei sintomi pruriginosi.
La diagnosi si effettua mediante l’esecuzione della visita proctologica, che si esegue sempre nella
posizione di Sims e non in posizione genupettorale, come in passato. La posizione genupettorale è
una posizione piuttosto scomoda per il paziente e per l’operatore e, soprattutto, non adeguata
all’ottimale visualizzazione del canale anale durante l’anoscopia. Una volta posto il paziente in
posizione di Sims, viene effettuata un’anoscopia, che mette in evidenza delle protuberanze della
mucosa. L’anoscopia è esame fondamentale per la diagnosi di patologia emorroidaria, dal momento
che nei soggetti che presentino i sintomi della patologia, associati alla presenza di un grado 1° o 2°,
in base alla classificazione di Golingher, la patologia emorroidaria non è visibile all’ispezione esterna
dell’ano.
Occorre, tuttavia, fare molta attenzione alle diagnosi differenziali, con le marische anali, i polipi
dell’ano-retto, il prolasso della mucosa rettale che prolassa in parte all’esterno. Ancora, va posta
diagnosi differenziale con i condilomi o i carcinomi anali e l’ascesso perianale, senza dimenticare le
ragadi anali che spesso vengono scambiate con una patologia emorroidaria, sebbene lo scenario
clinico di una ragade anale sia completamente diverso.
La patologia emorroidaria è soggetta ad una classificazione nota come classificazione di Golingher,
in base alla quale si distinguono quattro gradi diversi:
1. Grado 1°: il gavocciolo emorroidario protrude nel lume dell’ano, rimane in posizione interna,
cioè non fuoriesce durante il ponzamento.
2. Grado 2°: il gavocciolo emorroidario prolassa all’esterno del canale anale durante il
ponzamento, ma, poiché le fibre elastiche non sono completamente deteriorate, rientra
dopo lo sforzo.
3. Grado 3°: al verificarsi di un ulteriore deterioramento delle fibre elastiche, il ponzamento
provoca una esteriorizzazione del gavocciolo emorroidario, che può rientrare solo mediante
una manovra digitale.
4. Grado 4°: il prolasso del gavocciolo emorroidario è tale da impedire il riposizionamento
anche con le manovre digitali, per coinvolgimento delle strutture della cute perianale.
La complicanza più temibile della patologia emorroidaria è la trombosi emorroidaria: compaiono
dei noduli bluastri che devono essere distinti, ispettivamente, dalle trombosi perianali dovute a
interessamento dei rami emorroidari tributari della pudenda. Entrambe le lesioni sono dolorose,
l’aspetto è differente: il trombo emorroidario è rivestito da una mucosa, per cui è lucido, rispetto
alla trombosi perianale, che può essere brillantemente risolta incidendo la cute e drenando il
trombo, con un intervento ambulatoriale di pochi minuti che detendendo la zona risolve la
sintomatologia del paziente.
La terapia medica consiste anzitutto nella somministrazione di lassativi (dal momento che il bolo
fecale duro e la defecazione prolungata sono due elementi che più di tutti facilitano il prolasso
emorroidario), in particolare lassativi formanti massa, lubrificanti o emollienti. Nella terapia
medica standard si utilizzano con successo una serie di sostanze decongestionanti, antiossidanti e
capillaro-protettrici: oxerutina e bioflavonoidi sono quelli usati con più successo, possono anche
essere utilizzati cumarina e quercitina e sono tutti di derivazione vegetale. Sono indicati in presenza
di sanguinamento: se il paziente non sanguina e vi è solo prolasso, non servono a molto, ma
comunque non hanno la pretesa di curare il quadro emorroidario, ma hanno il significato della
terapia sintomatica. Sono quindi efficaci, ma devono poi essere integrati nella chirurgia. I fibrinolitici
(defibrotide) ed eparinoidi sono utilizzati per lisare il trombo emorroidario. Gli anestetici locali, il
cortisone e gli antiedemigeni (escina) possono essere somministrati solo in presenza di trombosi
emorroidaria: in genere è la trombosi emorroidaria ad essere molto invalidante e proprio in tal caso
questi farmaci sono utili. Ma questi farmaci non vanno somministrati nei pazienti senza trombosi:
le pomate a base di anestetici e cortisone non devono essere somministrati per lungo periodo, dal
momento che la somministrazione prolungata del cortisone a livello anale può facilitare l’insorgenza
di alcune infezioni da virus opportunistici, papillomavirus in particolare, e molti di questi pazienti
che facciano uso prolungato di questi farmaci sviluppano condilomi.
Studi dimostrano che l’aggiunta di fibre alla dieta, con finalità di ottenere un bolo fecale più
morbido, riduce i sintomi emorroidari e il sanguinamento e lo stesso vale per i flavonoidi. Argomento
oggetto di discussione è sempre il trattamento in gravidanza, poiché spesso la patologia
emorroidaria compare spesso nel terzo trimestre di gravidanza ed è molto debilitante, ma per
timore di poter danneggiare il feto le terapie per via sistemica vengono quasi mai utilizzate, sebbene
oggi alcune aziende supportino l’uso dei bioflavonoidi in fase di trombosi emorroidaria, ma non
perché sia indicato, perché semplicemente non vi è esclusione a questa indicazione. Di studi in tal
senso ve ne sono pochi, due hanno confrontato l’efficacia dei flavonoidi per via orale verso il placebo
e nella valutazione dell’outcome che è la salute del feto, vi è stata una morte fetale nel gruppo
controllo e una malformazione congenita nel gruppo in trattamento non ben spiegabile, ma per
questo il trattamento sistemico nei pazienti in gravidanza non è indicato.
La terapia chirurgica può valersi di molte forme, oggigiorno distinguiamo la terapia in base alla
stadiazione delle emorroidi. La crioterapia con sonde anali, che si basava sulla possibilità di indurre
una necrosi della mucosa sulla base del trauma fisico, è oramai stata abbandonata dopo aver vissuto
un periodo di grande utilizzo: il problema di creare un tessuto necrotico con il freddo senza
possibilità di controllo portava ad effetti disastrosi nel breve e nel lungo termine.
La legatura elastica consiste nell’introduzione di un anoscopio attraverso cui si fa entrare una pinza
che consente di tirare dentro il lume il gavocciolo emorroidario. La pinza è dotata di una molla che
va letteralmente a strozzare il gavocciolo. La procedura viene ripetuta in tutti i punti di prolasso
dell’emorroide. La cosa importante è che la legatura va fatta abbondantemente sopra la linea
dentata in una zona in cui non ci sia una innervazione somatica nocicettiva: il paziente non avverte
nulla e quindi non si usa nemmeno anestesia locale, è una procedura sicura.
La coagulazione a raggi infrarossi, molto utilizzata in Francia e in USA, consiste in una coagulazione
della mucosa e dei vasi a monte delle emorroidi: la finalità di questa procedura è di produrre una
necrosi selettiva di una piccola zona che viene riparata con tessuto cicatriziale che porterà alla
fusione della mucosa con la muscolaris sottostante, riducendo e bloccando la mobilità del
gavocciolo emorroidario, arrestando i sintomi che sono dovuti proprio al prolasso.
La scleroterapia si vale della creazione di un processo chimico-flogistico al di sotto delle emorroidi,
in maniera tale che questo spinga la deposizione di tessuto fibroso.
Vi sono poi tecniche mininvasive con dolore postoperatorio ridotto e i gavoccioli, in queste
procedure, non vengono asportati. Sono due le tecniche principali e sono tecniche in cui con un
Doppler si identificano le arteriole emorroidarie terminali, di solito in numero di 5-6, si effettua
legatura con un anoscopio e successivamente si effettua una sutura della mucosa che tende a
prolassare, ovviamente sempre eseguendo la sutura a monte della linea dentata. La sutura viene
poi legata e si crea un lifting del gavocciolo emorroidario portandolo all’interno del canale anale da
cui si è dislocato. La tensione del nodo della sutura crea una progressiva ischemia e necrosi della
zona legata, che viene sostituita da un tessuto riparativo, riducendo l’afflusso arterioso alle
emorroidi (riducendo il sanguinamento) e dall’altra previene il prolasso, riducendo i sintomi che ad
esso sono legati.
L’altra tecnica molto in voga fino ad una decina di anni fa, diffusasi poi molto rapidamente nel
mondo, prende il nome di emorroidopessi media: è una pessia del prolasso emorroidario che non
porta a dolore. Consiste nell’introduzione di uno speciale anoscopio con dilatatore anale che
consente una sutura a borsa di tabacco, cioè una sutura circolare 3-4 cm prossimalmente alla linea
dentata, cioè lì dove vi è il retto. Questa sutura prende esclusivamente la mucosa e viene chiusa
intorno ad una suturatrice meccanica che viene poi sparata e nella procedura tutta la mucosa del
retto al di sopra del gavocciolo viene escissa e suturata.

La finalità è quella di riportare le emorroidi in sede mediante l’asportazione di un tratto di mucosa


rettale. I vantaggi dell’emorroidopessi erano quelli del minore dolore postoperatorio rispetto
all’asportazione delle emorroidi; inoltre, venendo risparmiato l’anoderma, che è molto importante
per la sensibilità anale e che è premessa essenziale per la continenza, si ha una ripresa funzionale
migliore. Tuttavia, l’intervento è costoso e può, raramente, associarsi a delle complicanze gravi che
possono compromettere la vita del paziente. A distanza di anni dall’esplosione di questo intervento,
si è visto che le recidive del quadro emorroidario iniziano ad essere alte (10-15% dei casi). Le
complicanze di questa chirurgia, ancora utilizzata da alcuni centri, sono suddivisibili in due tipologie:
frequenti o rare.
Il sanguinamento è una complicanza frequente non solo dell’emorroidopessi ma di tutta la chirurgia
emorroidaria, ma occorre fare attenzione perché il sanguinamento della maggior parte degli
interventi è esterno, in questa tecnica il sanguinamento è all’interno perché la linea di sutura è nel
retto e quando la sutura inizia a sanguinare, si accumula nel retto e ce ne si accorgerà solo quando
il paziente avrà perso ingenti quantità o magari sarà in shock.
Se la sutura, per errore del chirurgo cade non a 2-3 cm dalle emorroidi e 3-4 cm dalla linea dentata
ma cade più vicina o la intrappola, l’epitelio estremamente sensibile provoca un dolore molto forte,
che addirittura potrebbe non regredire neanche a seguito della rimozione delle clips metalliche.
Ancora, esiste una forma di dolore, diverso dal precedente che è acuto, e si tratta di un dolore
cronico dall’eziopatogenesi non conosciuta.
Altra complicanza e ultima tra quelle frequenti è l’urgenza defecatoria dal momento che la camera
dell’ampolla rettale viene ridotta a seguito dell’intervento.
Raramente, la suturatrice può provocare ematomi pararettali che sono alimentati da un’arteria per
cui si accrescono progressivmaente, portando anche a shock emorragico importante e difficilmente
trattabile.
L’intrappolamento della vagina nella sutura può determinare la formazione di fistole retto-vaginali
molto difficili da trattare. In alcuni casi, il lume della sutura, se la suturatrice è posizionata male, può
obliterarsi, per sutura della parete anteriore e posteriore, provocando una occlusione intestinale
totale. Ancora, è possibile la formazione di uno pseudodiverticolo rettale.
Sintomi funzionali di incontinenza e ostruita defecazione sono possibili ma i casi più gravi sono quelli
di sepsi e pneumoperitoneo o pneumomediastino, dall’eziopatogenesi non molto conosciuta. Non
si sa per quale motivi c’è la sepsi, ma pneumoperitoneo e pneumomediastino dipendono dalla
produzione di gas da batteri anaerobi.
La chirurgia escissionale di Milligan-Morgan è indicata per le emorroidi di IV grado con
sanguinamenti recidivanti e importanti e ha un lungo retaggio storico. Questa tecnica prevede
l’asportazione dei gavoccioli emorroidari che vengono esteriorizzati, dissecati, legati con doppio
punto trasfisso al peduncolo (anche se non tutti lo fanno) oppure vengono coagulati direttamente
con le radiofrequenze o con il laser. La terapia ha due aspetti tecnici: lasciare dei ponti mucosi tra
una zona e l’altra di cute cruentata e non coinvolgere nella dissezione gli sfinteri anali per prevenire
le complicanze di incontinenza.
Il risvolto di questa tecnica è che il dolore è intenso, persiste per due-tre settimane ed è dovuto a
cruentazione della cute dell’anoderma: si richiede terapia analgesica. Complicanza può essere
l’incontinenza, se vengono inclusi nell’escissione gli sfinteri. Tra le zone cruentate devono
necessariamente esservi ponti mucosi, altrimenti la cicatrice circolare tende a ritrarsi e a chiudere il
canale anale causando una stenosi che impedisce la defecazione.
Le recidive locali sono rarissime con questa tecnica (2-3%) e poi vi sono complicanze rare segnalate
in letteratura ma trascurabili come sepsi, perforazione.

• RAGADE ANALE
È una patologia comune e frequentissima, facile da diagnosticare anche solo sulla base
dell’anamnesi e della storia clinica. È una soluzione di continuo dell’anoderma (non serve andare a
vedere dentro l’ano), che tipicamente si posiziona alle ore 6, quindi posteriore (80-90% dei casi) o
alle ore 12 (soprattutto nelle donne); più rara è la localizzazione a ore 6 e ore 12. Quando la
soluzione di continuo non corrisponde a questa localizzazione bisogna avere seri dubbi che sia la
ragade la diagnosi. Altri elementi che caratterizzano le ragadi anali sono il nodulo sentinella, che è
una zona della cute anale che precede la ragade e che è edematosa tanto da sembrare un quadro
emorroidario. All’interno del canale anale, se possibile, con l’anoscopio, vi è anche la possibilità di
individuare una papilla ipertrofica che è espressione della flogosi indotta dalla ragade anale.
La ragade anale entra in diagnosi differenziale con tutte le lesioni di continuo dell’ano: lesione da
trauma, MdC, carcinoma in fase iniziale, linfoma, tutte possono dare soluzione di continuo ma
nessuna ha la localizzazione precisa della ragade e nessuna ha la caratteristica anamnestica tipica
della ragade anale. I pazienti con ragade anale lamentano un dolore urente di grande intensità che
insorge tipicamente dopo la defecazione, dopo qualche minuto, che raggiunge un’acme e rimane
per alcune ore molto intenso (alcuni pazienti lo paragonano ad “un taglio da vetri”) e che risponde
poco alla terapia analgesica. L’anamnesi è già diagnostica poiché l’andamento del dolore da ragade
è caratteristico. Si riacutizza ad ogni defecazione e spesso i pazienti si rifiutano di defecare.
Differentemente, la trombosi emorroidaria determina un dolore acuto, alle volte scatenato dalla
defecazione, ma che persiste fino a che l’edema non si riduca e non si modifica per diversi giorni,
sempre di intensità costante, inizia a ridursi dopo 3-4 giorni quando inizi il riassorbimento
dell’edema: il paziente lamenta dolore e avverte la tumefazione dolente che fuoriesce dall’ano nella
trombosi emorroidaria, in cui il dolore peggiora a seguito della digitopressione. L’altra situazione
che determina dolore anale è l’ascesso anale, ma nel caso dell’ascesso anale il dolore inizia
lentamente e può progredire fino a raggiungere un’acme che non regredisce fino a che l’ascesso
non viene inciso o drenato o finché non si apra spontaneamente. In un quadro di ascesso, ci si
aspetta anche febbre, malessere per via di uno stato infiammatorio acuto che non ha niente a che
vedere con la ragade anale.
La ragade, dal punto di vista classificativo, viene classificata in acuta e cronica: una ragade acuta è
tale se presente da meno di tre mesi e all’ispezione proctologica presenta dei bordi lineari non
ispessiti o callosi ed è un tipo di ragade superficiale che tende a guarire spontaneamente anche in
pochi giorni se il paziente non stimola la zona con defecazioni dure.
Spesso però la ragade è cronica, la guarigione spontanea è pressoché impossibile: insieme al nodulo
sentinella e papilla ipertrofica, altri indicatori di una ragade cronica sono i bordi spesso ispessiti o
callosi e la profondità della lesione, tanto che si riescono alle volte a intravedere le fibre dello
sfintere anale interno.
La patogenesi dipende da un evento traumatico che supera la resistenza dei tessuti determinandone
lacerazione, quasi sempre risultato di una defecazione con bolo fecale duro. Tipicamente, la zona di
minore resistenza è la linea mediana per via di una predisposizione. Il motivo per cui una ragade
non guarisce spontaneamente quando diviene cronica è un motivo ischemico poiché la linea
mediana fisiologicamente è la parte meno irrorata, che riceve dai due lati dei vasi di piccolo calibro
-rappresenta la regione più distale di vascolarizzazione- e soprattutto la conseguenza dell’intenso
dolore è la contrattura di difesa del canale anale che provoca di per sé un ipertono della muscolatura
liscia e dell’intero pavimento pelvico, che spesso impedisce l’EDR e provoca una ischemia da
contrazione dell’anoderma: la perfusione capillare si riduce e si realizza una ischemia; essendo
deficitaria la vascolarizzazione, anche la tendenza alla guarigione spontanea è evento straordinario
da osservarsi.
Stante questa patogenesi la terapia della ragade anale non è la cauterizzazione come in passato ma
si basa sulla riduzione del tono anale, inducendo un miorilasciamento soprattutto della muscolatura
liscia. Per fare questo, si possono utilizzare delle pomate con principi farmacologici che inibiscono il
tono anale (calcioantagonisti, ad esempio) o si può fare una sfinterotomia chirurgica interna. La
sfinterotomia laterale interna è una procedura ambulatoriale, che utilizza un bisturi a punta: si entra
nello spazio intersfinterico e con un dito guida nell’ano si raggiunge il livello dello sfintere anale
interno. Quindi, si incide di quel tanto che basta per ridurre il tono e avviare la guarigione che
comunque è un processo molto lungo.
PROF. CAPUTI

Ittero chirurgico e colelitiasi


L’ittero è un segno clinico caratterizzato da un’iperpigmentazione cutanea di colorito giallastro delle
mucose e delle sclere determinata da un aumento al di sopra dei 3 mg/dL di sangue di bilirubina.
Quando la bilirubina presenta valori nel sangue compresi tra 1,5 mg/dL e 3 mg/dL di sangue si parla,
invece, di sub-ittero.

Normalmente la bilirubinemia totale si aggira intorno ai valori di 0,8-1,3 mg/dL di sangue e questa,
in particolare, è composta sia da bilirubina indiretta (o non coniugata) col valore normale di 0,4
mg/dL di sangue sia da bilirubina diretta (o coniugata con l’albumina) col valore normale di 0,8
mg/dL di sangue.
L’aumento di bilirubina totale nel sangue, dunque, può essere legato sia ad un aumento di bilirubina
diretta che di bilirubina indiretta. Gli itteri a bilirubina diretta (o coniugata) sono causati dal fatto
che la funzione epatica di coniugazione viene conservata ma le particelle di bilirubina già coniugata
non vengono ad essere escrete nei canalicoli biliari, o comunque vi è un fenomeno di “back-flow”
di bile conseguente ad una ostruzione a livello delle vie biliari, la quale bile ritornando indietro verso
il fegato e le vie biliari intraepatiche va ad accumularsi nel sangue.

Quando si fa riferimento all’ittero ostruttivo si parla propriamente di un ittero a bilirubina diretta


(o coniugata).
Non esiste un solo tipo di ittero ostruttivo ma a seconda della sede del blocco di escrezione della
bilirubina si riconoscono differenti tipi di ittero ostruttivo:
- Sede epato-canalicolare: questo tipo di ittero ostruttivo vede come meccanismo
patogenetico un’interferenza con la funzione biligenetica epatocitaria conseguente a epatiti
acute o croniche oppure a danno epatico da farmaci.
- Sede nei dotti biliari intraepatici: questo tipo di ittero ostruttivo vede come meccanismo
patogenetico un’ostruzione meccanica conseguente, ad esempio, a neoplasie epatiche,
fibrosi periduttale, noduli cirrotici.
- Sede nel VBP (Via Biliare Principale), perlomeno alle ramificazioni di primo ordine di queste:
questo tipo di ittero ostruttivo vede come meccanismo patogenetico un’ostruzione
meccanica conseguente a litiasi biliare, stenosi e compressione estrinseca (neoplastica).
Sostanzialmente, sia l’ittero ostruttivo epato-canalicolare sia l’ittero ostruttivo dei dotti biliari
intraepatici danno come conseguenza una colestasi intraepatica (medica) a differenza dell’ittero
ostruttivo delle VBP che ha come conseguenza una colestasi extraepatica (chirurgica).
Quindi ittero ostruttivo e ittero chirurgico non sono sinonimi, bensì l’ittero chirurgico è solamente
un tipo di ittero ostruttivo.
Quindi sostanzialmente, l’interesse chirurgico è rivolto prevalentemente (se non esclusivamente)
all’ittero ostruttivo di tipo chirurgico, ovvero l’ittero generato da un’ostruzione meccanica a livello
delle vie biliari principali (ramificazioni di primo ordine).

Le conseguenze strutturali della colestasi, sia medica che chirurgica, sono importanti da conoscere
e sono:
- Depositi di componenti biliari, soprattutto pigmenti, nel parenchima epatico.
- Dilatazione dei canalicoli biliari con appiattimento, distorsione e riduzione del numero dei
microvilli.
- Proliferazione e distorsione delle pareti duttali: è importante ai fini della diagnostica di
laboratorio.
- Deposizione di tessuto fibroso, fino alla cirrosi biliare secondaria.

Le conseguenze funzionali della colestasi, invece, sono dovute all’aumento in circolo di due
sostanze durante la condizione itterica:
1. Sali Biliari: questo comporta una riduzione della loro concentrazione a livello intestinale con
conseguente malassorbimento di lipidi e vitamine liposolubili (vitamina K) che
determineranno nel paziente colestatico sintomi quali steatorrea, malnutrizione,
osteodistrofia e sindrome emorragica. Quest’ultima è una condizione molto importante dal
pdv chirurgico in quanto i pazienti itterici devono essere valutati con estrema attenzione dal
pdv della coagulazione e dell’emostasi in quanto vi è un deficit marcato dell’assorbimento
della vitamina K (vitamina liposolubile) e bisogna intervenire con la somministrazione di
vitamina K esogena per correggere questo deficit. D’altro canto, invece, i Sali biliari vengono
ritenuti maggiormente in circolo a livello sistemico e determinano un effetto irritante sulle
terminazioni neurosensoriali con conseguente prurito manifestato dai pazienti itterici (i
quali si manifestano all’attenzione medica con importanti lesioni da grattamento), ma non
solo, in quanto l’aumentata concentrazione in circolo di Sali biliari determina la loro
aumentata filtrazione a livello glomerulare (per aumentata concentrazione in circolo) con
conseguente disfunzione della funzione tubulare renale.
2. Bilirubina: questo comporta un aumento anche della bilirubina (oltre che dei Sali biliari) in
circolo a livello sistemico con conseguente accumulo a livello di cute e sclere e
manifestazione propria di quello che è l’ittero -ovvero la colorazione giallastra di cute e
sclere-, ma non solo, in quanto determina anche un aumento della filtrazione glomerulare
di bilirubina stessa a livello renale con conseguente distress del riassorbimento tubulare e
peggioramento della funzione tubulare renale, già compromessa dall’aumento in circolo
dei Sali biliari. Questa situazione, inoltre, viene resa manifesta da un segno molto importante
nel paziente itterico che sono le urine ipercromiche e iperpigmentate (color brunastro) per
l’elevata presenza di bilirubina e Sali biliari nell’ultrafiltrato renale. D’altro canto, però, la
secrezione di bilirubina all’interno del circolo entero-epatico è notevolmente ridotta e
questo vede come conseguenza un segno importantissimo nei pazienti itterici ovvero l’acolia
fecale con feci che si mostrano ipocromiche e giallastre (color argilla) a causa della presenza
massiva di grassi e lipidi che non sono stati efficacemente assorbiti a livello intestinale per la
mancanza della bilirubina.

Per quanto riguarda l’ittero medico, questo può essere generato da due condizioni differenti:
- Ittero emolitico (pre-epatico): secondario all’eritrocateresi patologica ed alla conseguente
incrementata produzione di pigmento emoglobinico. Si manifesta durante crisi emolitiche
e/o altre condizioni quali il deficit della G6PDH (favismo).
- Ittero epatocellulare: secondario ad epatiti infettive o tossiche, quindi ad alterazioni morfo-
funzionali parenchimali del fegato.
Entrambe queste due tipologie di ittero medico sono caratterizzate dall’aumento soprattutto di
bilirubina indiretta (o non coniugata) per la riduzione della captazione e glucuronazione da parte
degli epatociti oppure possono essere a bilirubina mista in cui vi è una componente indiretta, in cui
gioca un ruolo fondamentale la mancata captazione della bilirubina da parte degli epatociti, e una
componente diretta dovuta alla mancata escrezione di bile a livello dei dotti biliari intraepatici.

Differentemente, l’ittero chirurgico è un tipo di ittero caratterizzato esclusivamente da


un’ostruzione secondaria ad un ostacolo meccanico al deflusso biliare dall’epatocoledoco e dalle
VBP. Dunque, è un ittero puramente colestatico e, di conseguenza, è un ittero nel quale si innalzano
i valori di bilirubina diretta (o coniugata con l’albumina) in quanto le normali funzioni di
coniugazione epatica sono preservate ma ciò che viene a mancare è il normale deflusso della
bilirubina coniugata all’interno delle vie biliari con conseguente stasi e accumulo di bilirubina
diretta nel circolo sanguigno. Ovviamente, nel corso della patologia itterica ci potrà essere una
seconda fase in cui si potrà avere un innalzamento anche dei livelli di bilirubina indiretta dovuta al
progressivo blocco e saturazione dei meccanismi di captazione e soprattutto glucuronazione degli
epatociti, con conseguente ittero a bilirubina mista tardivo.
• Triangolo di Calot

È molto importante avere presente dal punto di vista anatomo-chirurgico il triangolo di Calot che
sarebbe lo spazio esistente tra il fegato, la via biliare principale e la via biliare accessoria: i suoi lati
sono costituiti dal fegato, dal dotto cistico con il colletto della colecisti, e dalla via biliare principale
(dotto epatico comune o dotto epatico destro). È di fondamentale importanza riconoscere il
triangolo di Calot quando si deve eseguire un intervento laparoscopico di colecistectomia.
Il consiglio del professore è quello di liberare quanto più possibile il triangolo di Calot e, in seguito,
andare a legare il più vicino possibile alla colecisti le varie strutture facenti parte del triangolo di
Calot, durante una colecistectomia.

• Bilirubina
Ritornando alle note di fisiopatologia, la bilirubina deriva ovviamente per la maggior parte (80-85%)
dal catabolismo dell’emoglobina contenuta nei globuli rossi e per la minor parte dal meccanismo
di eritropoiesi inefficace (15-20%). La bilirubina vinee trasportata nel plasma e circola legata
all’albumina sottoforma di quella che viene definita come bilirubina coniugata (diretta).
Per quanto riguarda il metabolismo epatico della bilirubina, esso vede tre fasi: (1) captazione, (2)
coniugazione e (3) escrezione.

In particolar modo, la bilirubina è prodotta attraverso l’ossidazione dell’eme contenuto all’interno


dell’emoglobina dei globuli rossi e dalla riduzione della risultante biliverdina.

Una volta che la bilirubina è stata liberata e una volta che viene captata a livello epatico, essa viene
coniugata ed escreta. Normalmente, essa viene escreta attraverso il sistema biliare nell’intestino
dove può svolgere la sua funzione di emulsione dei lipidi per favorirne la migliore e corretta
digestione ed il loro assorbimento, nonché l’attivazione dei coenzimi pancreatici. Una parte di
questa bilirubina va a depositarsi anche all’interno della colecisti dove va incontro ad un processo
di concentrazione (riassorbimento della componente acquosa della bile) e conseguente
precipitazione della bilirubina, e questo a ragione del fatto che è proprio a tale livello che avviene
la formazione del processo litiasico biliare colecistico. Una parte di questa bilirubina viene
comunque riassorbita dalla circolazione entero-epatica che permette il ritorno al fegato e il riciclo
della bilirubina.
Ovviamente, nel momento in cui dovesse insorgere, per qualsiasi causa, un blocco di questo flusso
di bile e bilirubina si verrebbe a creare un “back-flow” di quest’ultima con ritorno a livello del fegato,
stasi e aumento della bilirubinemia.

• Cause di ittero chirurgico


Tenendo in considerazione che l’ittero chirurgico consegue ad una ostruzione delle VBP, le cause di
ittero chirurgico sono per la maggior parte extraepatiche (litiasi, tumore di Klatskin, pancreatite,
tumore cefalo-pancreatico, tumore della papilla del Vater, emobilia, idatidosi, stenosi flogistiche
della VBP, stenosi iatrogena) ma ci sono anche delle cause intraepatiche (idatidosi,
colangiocarcinoma, litiasi biliare intraepatica, metastasi epatiche) che comprimono i rami
principali (di primo o secondo ordine al massimo) e che possono avere un’indicazione chirurgica al
trattamento.
A proposito delle stenosi iatrogene, bisogna ricordare che la bile è un notevole stimolante della
produzione di collagene e come tale, quando ci sono delle interruzioni di parete, si possono creare
delle guarigioni stenotiche che sono definite iatrogene e che possono essere dovute all’opera mal
accorta di un chirurgo che precedentemente aveva lavorato sulle vie biliari e che possono causare
un ittero chirurgico post-operatorio.

• Colelitiasi
Si intende con l’espressione di colelitiasi la presenza di concrezioni calcolotiche nella colecisti,
essendo una manifestazione di sede della litiasi biliare, che si definisce come una patologia
metabolica ad eziopatogenesi multifattoriale conseguente allo squilibrio esistente tra fattori litogeni
e anti-litogeni, la quale quando si manifesti a livello della colecisti prende appunto il nome di
colelitiasi.
In termini epidemiologici, la colelitiasi è una patologia frequente, con una prevalenza stimata del
10-20% della popolazione nei paesi occidentali; in studi autoptici si è notato che nel 17% delle donne
e nell’8% degli uomini si riscontra calcolosi della colecisti clinicamente inevidente, dal momento che
in circa il 50% dei casi si tratta di una patologia silente.
I fattori di rischio possono essere suddivisi in due categorie, cioè i fattori di rischio non-modificabili
e i fattori di rischio modificabili:
1. Fattori di rischio non-modificabili:
a) Sesso femminile: si tratta di un fattore di rischio importante, dal momento che il
rapporto F/M è pari circa a 2:1. E questa differente incidenza sembrerebbe correlata
agli ormoni sessuali endogeni che aumentano l’escrezione di colesterolo e riducono
la saturazione biliare dello stesso.
b) Etnia
c) Familiarità
d) Età: sussiste un rischio maggiore per le donne ultracinquantenni.
2. Fattori di rischio modificabili:
a) Obesità
b) Dieta ipercalorica
c) Sindrome metabolica
d) Sedentarietà
e) Gravidanza
f) Sindromi emolitiche croniche: tra le malattie emolitiche, una di quelle che
frequentemente determina l’insorgenza di una colelitiasi è costituita dalla malattia
drepanocitica (anemia falciforme), per via della massiva emolisi e dell’elevata
concentrazione di bilirubina che viene immagazzinata a livello colecistico,
determinando la formazione di calcoli di bilirubinato di calcio.
g) IBD: in particolare il morbo di Crohn con coinvolgimento dell’ileo distale dal
momento che comporta un coinvolgimento infiammatorio della mucosa intestinale
preposta al riassorbimento dei sali biliari che vengono in misura minore veicolati al
fegato, sicché il rapporto tra sali biliari e il colesterolo si sposti in favore di questi
determinandone un aumento della tendenza a precipitare.
h) Chirurgia gastrica: in particolare la gastrectomia totale, per via della recisione del
ramo anteriore del nervo vago dal quale parte una branca che va al fegato ed alla
colecisti.
i) Nutrizione parenterale totale (NPT): è possibile riscontrare molto frequentemente
una calcolosi della colecisti (può essere accompagnata anche da pancreatite acuta)
dovuta alla stasi biliare.
j) Infezioni della via biliare: ci sono numerosi batteri che producono la β-glucuronidasi
con scissione del glucuronide in acido glucuronico e bilirubina con conseguente
precipitazione dei calcoli.
Il massimo rischio di insorgenza di una calcolosi della colecisti si riscontra nei soggetti che
presentano le cosiddette cinque F (Familiar, Fatty, Fifty, Fertility, Female): le donne obese con età
superiore a 50 anni, con familiarità per la patologia litiasica e che hanno avuto gravidanze in passato
sono i soggetti maggiormente esposti al rischio di colelitiasi.

Sulla base della composizione chimica si riconoscono tre tipi di calcoli della colecisti che sono
importanti da conoscere:
1. Calcoli di colesterina: costituiscono il 15% dei calcoli biliari, presentandosi costituiti dalla
presenza di solo colesterolo e appaiono radiotrasparenti. La maggior parte dei calcoli si
forma nella cistifellea a seguito di uno squilibrio dei fattori che mantengono in sospensione
il colesterolo nelle micelle (fosfolipidi e Sali biliari) con precipitazione di questo a formare
dei cristalli colesterinici sulla superficie delle micelle che costituiranno il core dei calcoli di
colesterolo dei calcoli. Il presupposto necessario affinché si formino questi calcoli è quello
della super-saturazione della bile, da aumentata produzione epatica di colesterolo, alla
quale probabilmente contribuirebbe il ruolo genetico nella malattia litiasica, in associazione
all’obesità, alla terapia estrogenica che aumenterebbe la sintesi di colesterolo epatico e
l’immissione di questo nei sali biliari.
2. Calcoli pigmentari (bilirubinici): si tratta di calcoli formati da bilirubina e calcio, sono neri o
bruni, con superficie spesso definita a morula. I calcoli pigmentari si formano a livello
colecistico a causa di un eccesso di bilirubina all’interno della bile, che polimerizza in
bilirubinato di calcio, essendo tipici dei pazienti con anemie emolitiche croniche, cirrosi
alcolica e anziani. È abbastanza significativo riscontrare nei soggetti che soffrano di una
malattia drepanocitica la presenza di una colica biliare, determinata proprio dalla massiva
presenza di bilirubina derivante dall’emolisi; soprattutto la presenza di una colica biliare da
litiasi spesso è un elemento di sospetto, insieme a molti altri aspetti come la presenza di crisi
vaso-occlusive, per la diagnosi dell’anemia falciforme.
3. Calcoli misti: costituiscono l’80% dei calcoli e sono formati in termini di composizione
biochimica da colesterolo, sali di calcio e pigmenti biliari.

Da un punto di vista patogenetico la patologia colelitiasica può conseguire a:


1. Saturazione della bile da parte del colesterolo: diete ipercaloriche, ipercolesterolemia
familiare, obesità.
2. Difetti enzimatici su base genetica di captazione e di catabolismo del colesterolo e della
bilirubina.
3. Alterata motilità della colecisti e della sua funzione secretoria ed assorbente.
Tutte queste situazioni portano ad un aumento della cosiddetta concentrazione micellare critica.

Quello che accade a livello della colecisti riguarda i livelli di concentrazione dei componenti che
costituiscono la bile ovvero: (1) colesterolo, (2) Sali biliari e (3) lecitina e fosfolipidi. Ebbene, nel
momento in cui le concentrazioni di colesterolo e/o di Sali biliari superano la concentrazione di
solubilità questo favorisce la precipitazione dei soluti all’interno della bile con conseguente
formazione di calcoli. Difatti, nel “triangolo di Admirand e Small” sopra rappresentato possiamo
valutare come il “punto A” cada nella zona di solubilità, mentre il “punto B” vada a cadere nella
zona di sovrasaturazione e corrisponde idealmente alla condizione favorente alla precipitazione del
colesterolo e alla formazione di calcoli di colesterolo.
Dunque, nella bile si possono presentare tre situazioni:
- Rapporto colesterolo/Sali biliari in equilibrio.
- Rapporto colesterolo/Sali biliari ridotto.
- Rapporto colesterolo/Sali biliari aumentato.
È proprio quest’ultima situazione che favorisce la sovrasaturazione della bile con conseguente
difetto di formazione delle micelle e formazione di vescicole multi-lamellari ricche di colesterolo
che sono il preludio alla formazione di cristalli di colesterolo che, per effetto di fattori nucleanti (ad
esempio, le infezioni), portano alla formazione del calcolo di colesterolo nella colecisti.
Dunque, in ultima analisi, la bile può diventare satura di colesterolo quando vi sia (1) una minore
produzione di Sali biliari (riduzione della funzionalità della colesterolo 7-α-reduttasi); (2) minore
riassorbimento entero-epatico dei Sali biliari (resezione dell’ileo terminale, morbo di Crohn); (3)
alterata motilità della colecisti.

In termini di storia naturale, la litiasi della colecisti può evolvere in maniera assai differente e tanto
è vero questo che una litiasi asintomatica con diagnosi occasionale in ecografie dell’addome
eseguite per altri motivi si riscontra nel 50% dei casi e solo 10% ed il 20% dei pazienti sviluppa
sintomi a 5 e 20 anni rispettivamente, che possono essere tipici oppure atipici e occasionalmente la
colelitiasi può presentarsi clinicamente mediante dei sintomi che sono ascrivibili alle complicanze
della colelitiasi.
1. Paziente asintomatico/paucisintomatico: nell’80-85% dei casi
a) Sintomi assenti
b) Sintomatologia aspecifica:
i. gonfiore post-prandiale
ii. sonnolenza
iii. dolore addominale ai quadranti superiori
c) Concomitanza GERD o intestino irritabile
In questi casi è consigliabile un approccio attendista altro che nei casi in cui sussistano alcuni fattori
di rischio, come l’insorgenza della litiasi in un soggetto in età pediatrica, o con calcoli di dimensioni
superiori a 3 centimetri, o in cui coesista anche la presenza di polipi intestinali per i quali è indicato
un approccio chirurgico alla colelitiasi.
2. Paziente sintomatico: nel 15% dei casi, quando si riscontri la presenza di una colelitiasi
sintomatica il paziente mostra la presenza di una colica biliare, che si definisce come
l’espressione clinica e fisiopatologica della contrazione spastica della colecisti finalizzata a
forzare l’ostacolo, cioè il calcolo. I meccanismi eziopatogenetici del dolore biliare sono
fondamentalmente l’infiammazione, la distensione e lo spasmo del viscere.

Normalmente si manifesta in maniera strutturata dal momento che il paziente riferisce e presenta
l’intero quadro di segni e sintomi tipico della colica:
a) Dolore epigastrico:
i. Sordo e profondo (viscerale)
ii. Irradiazione ipocondriaca destra
iii. Irradiazione sottoscapolare destra (spalla)
b) Nausea e vomito
c) Insorgenza notturna
Esiste una chiara correlazione con i pasti, dal momento che frequentemente la colica biliare insorge
a seguito di una cena ricca in grassi assumendo un caratteristico andamento crampiforme che si
caratterizza per la comparsa improvvisa, per il raggiungimento di un’acme e per la riduzione
dell’intensità fino al raggiungimento dell’intervallo libero dal dolore. Pur se questo sia il quadro
clinico caratteristico della colica biliare strutturata, esistono delle eccezioni, come nel caso in cui
siano presenti delle migrazioni nella via biliare del calcolo, che determinano la prevalenza di un
dolore epigastrico anteriore. Peraltro, nel caso dei pazienti anziani e di età pediatrica, il quadro
clinico della colica biliare non è così ben strutturato, mentre nei pazienti immunodepressi si
riscontrano alle volte sintomi di lieve entità con una colica non strutturata anche a fronte di calcolosi
gravi.
Ci possono essere anche dei sintomi vegetativi associati come: nausea, vomito alimentare, pallore,
diarrea, febbre, sudorazione.

Le complicanze della colelitiasi ricorrono con una frequenza che è pari circa all’1-3% annuo nel
paziente sintomatico e pari invece allo 0.1-0.3% annuo nei soggetti asintomatici e possono essere
suddivise sostanzialmente in complicanze meccaniche e complicanze infiammatorie:
1. Complicanze meccaniche:
a) Coledocolitiasi
b) Pancreatite acuta biliare
c) Idrope della colecisti
d) Sindrome di Mirizzi
2. Complicanze infiammatorie:
a) Colecistite acuta
b) Colecistite cronica
c) Colangite ascendente (angiocolite)
d) Fistole
Accade talora che nel proprio tentativo di forzare il calcolo mediante contrazione della muscolatura
della colecisti, si verifichi una migrazione di questo nella via biliare principale (VBP). Quindi, in caso
di migrazione del calcolo o microlitiasi che portano ostruzione della porzione terminale del coledoco
possono verificarsi delle coledocolitiasi. Generalmente, il coledoco non è sede di formazione in situ
di calcoli, che nella più parte dei casi si formano nella colecisti e successivamente migrano a livello
della via biliare principale (VBP). La coledocolitiasi è tanto maggiormente probabile quanto minore
è il diametro dei calcoli, dal momento che per raggiungere il coledoco debbono attraversare il dotto
cistico che ha un diametro di circa 4 mm, motivo per cui la probabilità di migrazione è estremamente
elevata per la cosiddetta micro-litiasi, espressione che intende la presenza di calcoli
omogeneamente di dimensioni uguali o inferiori a 3 mm. Molto più raramente, la coledocolitiasi si
definisce primitiva allorché consegua alla formazione in situ nella via biliare principale del calcolo e
questa è più frequentemente rappresentata nei paesi asiatici per stasi biliare, infezioni della via
biliare, dilatazioni cistiche o stenosi papillari.
Può accadere, soprattutto nei calcoli di dimensioni molto piccole (micro-litiasi) che si verifichi una
ostruzione dello sfintere di Oddi (papilla del Vater) che non solo determina una stasi del flusso
biliare ma anche dei succhi pancreatici, potendovi risultare un reflusso (back-flow) dello stesso nel
dotto di Wirsung prima, e ancor più a monte poi (perché la pressione nella via biliare è sempre
maggiore rispetto alla pressione nel dotto di Wirsung), risultandovi una flogosi del pancreas, per
attivazione intra-pancreatica dei pre-enzimi pancreatici, che prende il nome di pancreatite acuta
biliare. La possibilità di una pancreatite acuta biliare è una complicanza temibile della litiasi biliare
e tanto è vero questo che quando il paziente presenti una storia personale di colica biliare e presenti
altresì l’improvvisa comparsa di ittero, a completamento della richiesta degli indici di colestasi è
pratica frequente richiedere anche il dosaggio dell’amilasi e della lipasi pancreatica. È questo uno
dei motivi per cui bisogna intervenire d’urgenza in queste situazioni andando ad aprire la papilla di
Vater con sfinterotomia dello sfintere di Oddi e rimozione urgente del calcolo.

Con l’espressione di idrope della colecisti si intende una distensione ed un aumento di volume della
colecisti che si instaura lentamente, dovuto ad un’ostruzione da parte di un calcolo dell’infundibolo
o del dotto cistico, con riassorbimento della bile ed aumento della produzione di muco. In questi
casi spesso, dopo la colica biliare il paziente lamenta un senso di peso in ipocondrio destro, senza
dolore, febbre e segni di infiammazione.
La sindrome di Mirizzi si verifica allorché la colecisti tenti di espellere il calcolo nelle vie biliari,
talvolta però il calcolo si incunea nell’infundibolo della colecisti ed è capace di comprimere la via
epatica comune ostruendone il lume. In questa situazione vi è una doppia ostruzione, sia della via
biliare accessoria che della via biliare principale Si tratta di una stenosi benigna poiché è sufficiente
rimuovere il calcolo per risolvere il problema. Di sindrome di Mirizzi se ne distinguono due varianti:
1. Sindrome di Mirizzi di tipo I: il calcolo incuneato nel dotto cistico o a livello infundibolare
comprime il dotto epatico comune e determina infiammazione e ittero;
2. Sindrome di Mirizzi di tipo II: caratterizzato dalla presenza di una fistola colecisto-
coledocica, conseguente all’erosione indotta dal calcolo decubitato tra il cistico e il coledoco.
Per quanto riguarda le complicanze infiammatorie, quella maggiormente frequente è costituita
dalla colecistite acuta litiasica, che corrisponde ad una flogosi della colecisti conseguente
all’incuneazione di un calcolo che in maniera brusca determini una ostruzione del flusso,
conseguendovi un processo infiammatorio-infettivo con iperproliferazione della flora batterica. La
colecistite acuta è una complicanza frequente che si manifesta nel 15-20% dei pazienti portatori di
calcolosi della colecisti. Il quadro clinico è definito dai sintomi e segni della colica biliare associati a
segni e sintomi della colecistite:
1. Colica biliare:
a) Dolore epigastrico
b) Irradiazione ipocondriaca destra
c) Irradiazione sottoscapolare sinistra
d) Insorgenza dopo pasti ricchi di grassi
2. Segni e sintomi della colecistite acuta:
a) Segno di Murphy
b) Febbre
c) Indici di flogosi aumentati:
i. Leucocitosi
ii. VES
iii. PCR
d) Segno di Boas
In questo caso, alla palpazione del punto cistico, che si individua all’incrocio tra l’arcata costale di
destra e la emiclaveare destra, il paziente durante l’inspirazione presenterà un dolore tale da
bloccare l’atto respiratorio. Talvolta è rilevabile una banda di parestesia localizzata tra il decorso
posteriore della IX e dell´XI costa di destra (segno di Boas).
L’evoluzione della colecistite acuta è variabile potendosi avere circostanze in cui si riscontra
semplicemente l’edema della parete fino a casi in cui si riscontri una massiva deposizione di
essudato purulento in quello che prende il nome di empiema della colecisti, che può a sua volta
evolvere fino alla gangrena della colecisti con successiva perforazione della parete, risultandovi il
quadro clinico dell’addome acuto che necessita di un intervento di chirurgia d’urgenza.
Occasionalmente, può verificarsi un quadro patologico che viene definito come colecistite
enfisematosa, dal momento che risulta, con una frequenza approssimativamente dell’1% dei casi,
dalla produzione di gas prodotto dalla proliferazione di batteri produttori come E. coli, Clostridium
perfringens e Klebsiella, nelle pareti della colecisti. A causa dell’alta probabilità di evoluzione in
gangrena e di perforazione è consigliabile eseguire la colecistectomia d’urgenza. Il paziente con
colecistite acuta è un candidato alla colecistectomia che è un intervento che deve eseguirsi una
volta risolto l’episodio flogistico, che viene trattato mediante digiuno, somministrazione di
antibiotici e mediante la somministrazione di farmaci antinfiammatori.
La seconda complicanza infiammatoria della colelitiasi è costituita dalla colecistite cronica che è
quasi costantemente associata alla presenza di litiasi.
La mucosa può presentare fenomeni di atrofia di diversa intensità, con appiattimento o scomparsa
dei villi, oppure con iperplasia degli stessi, che possono assumere aspetto polipoide, risultandovi
due quadri patologici differenti di colecistite cronica che sono:
1. Colecistite cronica sclero-atrofica: è un quadro di colecistite cronica con atrofia e sclerosi
della parete; la colecisti non accoglie più la bile e diventa una sorta di grande cicatrice intorno
al calcolo (entra in diagnosi differenziale con il cancro della colecisti).
2. Colecistite sclero-ipertrofica: in questo contesto è inquadrabile la colecisti a porcellana, in
cui i fenomeni calcifici parietali divengono prevalenti. Questa rara condizione è associata ad
un’elevata incidenza (12-61%) di cancro della colecisti.
La manifestazione clinica più frequente della colecistite cronica è rappresentata da attacchi
ricorrenti di dolore a carico dei quadranti addominali superiori, anche se numerosi pazienti con
colecistite cronica possono restare asintomatici per molti anni. Gli episodi di colecistite calcolotica
ricorrente che si ripete nel tempo possono portare sino alla distrofia della parete della colecisti la
quale può esitare nel cancro della colecisti. Ad ogni modo, con l’avvento della video-laparoscopia,
che ha permesso un più facile management di tali situazioni, si è assistito ad un crollo dell’incidenza
epidemiologica del cancro della colecisti.
Le turbe dispeptiche dominano comunque il quadro clinico e sono caratterizzate da senso di peso
e distensione epigastrica postprandiale, che regrediscono temporaneamente dopo eruttazioni
acide, cui possono aggiungersi nausea, alterazioni dell’alvo e rigurgito acido.
Accade talora che il calcolo decubitando per lungo tempo sulla parete della colecisti ne determini
quindi un’infiammazione; la colecisti è un organo che è rivestito da una superficie sierosa del
peritoneo viscerale. Ebbene, è possibile che questa superficie si infiammi a seguito della flogosi a
tutto spessore della parete della colecisti che entrando in contatto con un’altra superficie sierosa
può estendervi la flogosi per contiguità risultandovi la formazione di una aderenza che esprime
l’ulteriore possibilità che si formi una fistola. Con l’espressione di fistola si intende una
comunicazione non-anatomica e preternaturale tra due comparti di norma non comunicanti e che
in questo caso consegue alla perforazione della parete della colecisti impegnata nella formazione
dell’aderenza. È chiaro che, in considerazione di quale sia l’organo con cui entra in rapporto la parete
della colecisti si possano verificare fistole tra loro diverse, che sono espressione della presenza di
una differente sintomatologia evidentemente: le più frequenti fistole si formano con il duodeno e
con il colon trasverso (flessura destra del colon), essendo quindi definite fistole colecisto-duodenali
e fistole colecisto-coliche, rispettivamente con una frequenza del 70% e del 15%.
1. Fistola colecisto-colica:
a) 15% delle fistole
b) Colangite ascendente o angiocolite (per infezione ascendente dal colon)
c) Malnutrizione:
i. Diarrea
ii. Steatorrea
In questi casi, la fistola colecisto-colica comporta un’immissione di bile direttamente nel colon,
risultandovi chiaramente indisponibilità nel tenue intestino della bile, tal che quindi ne risulti un
malassorbimento che spesso si manifesta con diarrea e steatorrea, quest’ultima soprattutto in
considerazione del fatto che sussista un’indisponibilità dei sali biliari che di norma adiuvano la
digestione lipidica. Peraltro, episodi gravi di colangite (angiocolite) si verificano secondariamente
alla presenza della fistola colecisto-colica per il tramite della migrazione ascendente della flora
batterica del colon nella via biliare.
2. Fistola colecisto-duodenale:
a) Ileo biliare
b) Occlusione intestinale acuta
c) Aerobilia
In questi casi, la presenza della fistola presuppone una comunicazione preternaturale tra il lume
della colecisti e il duodeno potendovi risultare come conseguenza un attraversamento della fistola
da parte del calcolo che può essere estruso nel duodeno. Normalmente in assenza di una fistola
l’immissione del calcolo nel duodeno non si verifica dal momento che lo sfintere di Oddi (papilla del
Vater) ha un diametro tale che al massimo venga ostruito, ma mai consente il passaggio della
concrezione calcolotica. Ebbene, quando il calcolo che raggiunge il duodeno per il tramite della
fistola sia grosse dimensioni si ha un’ostruzione del lume del piccolo intestino o della valvola
ileocecale, tal che ne risulti il quadro dell’occlusione intestinale acuta (ileo biliare). In questi casi, il
paziente dopo un evento di colica biliare ha la regressione dei sintomi, salvo poi presentare a
distanza di giorni un dolore addominale acuto, che si associa ad una serie di reperti all’Rx diretta
dell’addome:
a) Area radiopaca: in genere in regione ileo-cecale si apprezza un’area radiopaca
dovuta alla presenza del calcolo.
b) Livelli idroaerei: sono dovuti al ristagno dei liquidi e del gas nelle anse intestinali e
spiegano anche il rilievo semeiologico della distensione addominale e
dell’ipertimpanismo percussorio.
c) Aerobilia: si intende con aerobilia la presenza di aria nelle vie biliari (soprattutto
quelle intraepatiche) derivante dal duodeno.
Il percorso diagnostico della colelitiasi si basa sull’integrazione di diversi aspetti clinici e
strumentali, innanzitutto legati alla possibilità di individuare la sintomatologia tipica della colica
biliare. Vanno inquadrati come soggetti ad elevato rischio di colelitiasi soprattutto le donne obese,
ultracinquantenni o in gravidanza (5F). In questo caso gli esami ematochimici e i test di laboratorio
epatologici risultano nella norma: non si riscontra un aumento degli indici di colestasi né tantomeno
ittero semplicemente perché il calcolo si trova a livello della colecisti e non a livello della via biliare
principale. Pur tuttavia, è indicato eseguire gli esami di laboratorio per escludere le complicanze
della calcolosi, che possono modificare il trattamento della patologia. Ad esempio, gli indici di
flogosi nella norma confermano l’assenza di colecistite acuta, che è una delle possibili complicanze
della colelitiasi.
Nella calcolosi biliare e nell’ittero ostruttivo chirurgico (dovuto a ostruzione extraepatica) le
transaminasi non sempre aumentano; l’aumento delle transaminasi si verifica quando sussista una
distensione acuta di tutto l’albero biliare in seguito all’ostruzione dello sfintere di Oddi o nella
coledocolitiasi tale da indurre un danno epatocitico importante e acuto (le transaminasi sono
marker di danno cellulare epatico): in questi casi l’aumento delle transaminasi è associato ad
aumento della bilirubinemia, della g-GT e della fosfatasi alcalina. Al contrario, se l’ostruzione
litiasica interessa il dotto cistico, la distensione acuta si produce solo nella colecisti e i valori di
laboratorio sopracitati risultano generalmente normali.
Le fosfatasi alcaline sono dei metallo-enzimi ubiquitari le cui fonti maggiori sono il fegato, l’osso,
l’intestino e la placenta. I valori normali variano in base all’età ed al sesso ( maggiore negli uomini,
nelle donne in menopausa e negli anziani). Le fosfatasi alcaline si elevano in corso di epatopatie di
diversa natura, soprattutto in caso di colestasi intra- o extra- epatica e tumori primitivi e metastatici.
Per quanto riguarda gli esami strumentali utilizzati nella diagnosi della calcolosi della colecisti, il
primo esame di indubbia rilevanza da eseguire è l’ecografia, che è considerato come un esame di I
livello per la diagnosi della litiasi biliare. I vantaggi dell’ecografia della via biliare è quella di
permettere di visualizzare i calcoli che appaiono come delle strutture iperecogene con un cono
d’ombra con posizione che varia in funzione del decubito. L’ecografia ha peraltro il vantaggio di
permettere uno studio abbastanza preciso della morfologia della colecisti, potendovi documentare
anche alle volte un ispessimento che è espressione della presenza di una colelitiasi complicata con
colecistite acuta. Diversamente, la via biliare principale, soprattutto la porzione retro-pancreatica e
retro-duodenale del coledoco, è scarsamente esplorabile con l’ecografia. Dunque, sostanzialmente,
con l’ecografia è possibile osservare:
- Se le vie biliari sono dilatate o sono conservate.
- Sede precisa dell’ostruzione.
- Tipo e causa di ostruzione.
Gli esami di II livello sono degli esami più costosi ma che permettono di meglio studiare la
morfologia della via biliare, come la colangio-RMN e la colecistografia che è un esame radiologico
che consente di opacizzare la colecisti dopo assunzione (per bocca) di un mezzo di contrasto iodato
e che permette di valutare alcuni aspetti:
1. Presenza di calcoli
2. Opacizzazione della colecisti
3. Contrazione della colecisti
I calcoli appaiono come immagini radiotrasparenti nel contesto della colecisti opacizzata e si
muovono con i cambiamenti di decubito del paziente: il riscontro di una colecisti opacizzata indica
sia la pervietà del dotto cistico (che permette il passaggio del mezzo di contrasto) sia una buona
capacità di concentrazione della bile (da parte della mucosa colecistica). Diversamente, la riduzione
delle dimensioni della colecisti in corso di colecistografia dopo assunzione di un pasto grasso è indice
di una buona contrazione del viscere.
In colecistografia, la mancata opacizzazione della colecisti ("colecisti esclusa") depone per
l’ostruzione del dotto cistico e/o per una flogosi della parete colecistica.
Questo esame diagnostico, tuttavia è sempre da considerarsi in presenza di un esito negativo
dell’ecografia della colecisti e in presenza di un forte sospetto clinico; l’accuratezza della
colecistografia nella diagnosi della colelitiasi (85-90%) è di poco inferiore a quella dell'ecografia ma
bisogna comunque considerare che l'esame radiologico comporta maggiore fastidio per il paziente,
richiede più tempo, può causare effetti indesiderati (nausea, diarrea, disuria) ed espone il paziente
a radiazioni, per cui diventa improponibile in giovani donne, bambini e nel caso in cui vi sia bisogno
di esami ripetuti nel tempo. La colecistografia conserva tuttavia un ruolo importante nella selezione
di quei pazienti da trattare con terapia litolitica orale e/o litotrissia con onde d'urto extracorporee
(ESWL).
La TC (esame di II livello) ha un’importanza relativa in quanto grazie alla TC addome completa è
possibile valutare lo status degli altri organi limitrofi alle vie biliari e alla colecisti come il pancreas,
che potrebbe essere affetto da uno screzio pancreatico oppure da una pancreatite acuta biliare
(complicanza temibile della colelitiasi), o il fegato e l’addome in generale.
Gli esami di III livello per la diagnosi di colelitiasi sono indagini invasive come l’ecoendoscopia e
soprattutto la colangio-pancreatografia retrograda endoscopica (ERCP), che tuttavia è un esame
che per la sola diagnosi di colelitiasi difficilmente viene indicato. A questi va aggiunta anche la PTC
(Percutaneous Trans-Hepatic Colangiography) ovvero una colangiografia con mezzo di contrasto
iniettato tramite puntura transepatica delle vie biliari.
La ERCP è un’indagine diagnostica endoscopica, con possibile risvolto terapeutico, che consiste
nell’immissione di uno speciale gastroscopio che contiene un canale operativo all’interno del quale
si immette una guida. Quindi, si giunge al duodeno con il gastroscopio e si spinge questa guida
all’interno della papilla del Vater, per poi iniettare un mezzo di contrasto che rende radiopaco tutto
l’albero biliare. Questa tecnica invasiva ha anche una valenza terapeutica perché permette di
applicare le endoprotesi ed eventualmente rimuovere direttamente i calcoli. Dunque, l’ERCP è una
procedura endoscopica che consente di individuare e incannulare la papilla di Vater, di iniettarvi
un mezzo di contrasto e quindi di ottenere una visualizzazione radiologica della via biliare e
pancreatica a scopo diagnostico, e di attuare numerose procedure terapeutiche (sfinterotomia,
estrazione di calcoli e litotrissia, posizionamento di endoprotesi e stent, biopsie, prelievi e drenaggi).
Attualmente la distinzione in ERCP diagnostica e ERCP terapeutica è ritenuta obsoleta in quanto
l’ERCP si è trasformata da metodica esclusivamente diagnostica a fenomeno prevalentemente
terapeutico. Le indicazioni all’ERCP sono:
1. Ittero colestatico.
2. Assenza di ittero con coliche biliari, colestasi e dilatazione ecografica delle vie biliari.
3. Pancreatite cronica.
4. Neoplasie pancreatiche.
5. Fistole biliari e pancreatiche.
6. Sindrome post-colecistectomia.
7. Coledocolitiasi.
8. Neoplasie maligne della via biliare, del fegato, della papilla e della testa del pancreas.
9. Stenosi benigne della via biliare e della papilla del Vater (postoperatoria, flogistica).
10. Pancreatite biliare.
Le controindicazioni all’ERCP sono date da pazienti in cui è accertata l’ipersensibilità a mezzi di
contrasto; pazienti le cui condizioni cliniche sono di notevole gravità (IMA, ictus, peritonite, coma);
pazienti con gravi turbe della coagulazione.
Per quanto riguarda l’ecoendoscopia, essa è una comune ecografia effettuata con impulso
ultrasonoro la cui sorgente però è presente all’interno di un gastroscopio che viene fatto passare
fino allo stomaco o al duodeno ed in questo modo può entrare a contatto stretto con le pareti degli
organi cavi, in maniera tale da studiare gli organi vicini e le pareti del viscere cavo che è stato
incannulato andando ad eliminare uno dei maggiori svantaggi dello studio ultrasonografico esterno,
ovvero la presenza di aria fra le varie strutture in esame. Con tale tecnica endoscopica si possono
studiare le vie biliari in maniera accurata andando ad effettuare anche biopsie (linfonodali).
Rimane però una tecnica invasiva.
Infine, il professore cita “ad cazzum” il Colangiocarcinoma di Klatskin e la sua classificazione
secondo Bismuth-Corlette, evidentemente per citare un’altra causa di ittero ostruttivo chirurgico
da causa intraepatica.
IPERTENSIONE PORTALE
È interessante scoprire come le sue conseguenze siano entrate nell’immaginario collettivo tanto è vero che
alcune maledizioni richiamavano complicazioni legate a questo tipo di patologia:
“Ca put scett u sangu da nganne” =ematemesi conseguenza di rottura di varici esofagee.
“Ca putesse murì sicc e panzout” =quadro di ascite scompensata.
La patologia epatica infettiva è stata endemica per un certo periodo per cui molto frequente nella
popolazione pugliese

ANATOMIA CHIRURGICA - SUDDIVISIONE IN SEGMENTI


È possibile suddividere il fegato in due parti emifegato di dx e di sn separate da una linea immaginaria che
parte dalla cava sovraepatica e arriva in basso al peduncolo portale che corrisponde alla vena sovraepatica
media.

L’emi fegato di dx è diviso in due settori mediale e laterale da una linea immaginaria che parte sempre dalla
vena cava e scende giù fino al fondo della colecisti, questo corrisponde al decorso della vena sovraepatica di
dx.
L’emi fegato di sn è diviso in due settori mediale e laterale dal legamento falciforme che corrisponde al
decorso profondo della vena sovraepatica sn.
Ciascun settore si divide in un segmento postero-superiore e uno antero-inferiore.

Il lobo caudato è in parte di spettanza dx in parte sn. [Da qui partono le vene sovraepatiche accessorie molto
piccole e fragili fonte di lacerazione e sanguinamenti (temute dai chirurghi)].

Secondo la classificazione di Couinaud


§ il segmento I corrisponde al lobo caudato
§ il segmento II corrisponde al segmento postero-superiore del settore laterale sn
§ il segmento III corrisponde al
segmento antero-inferiore del
settore laterale di sn
§ i segmenti IVa e IVb
corrispondono a tutto il
settore mediale di sn
§ il segmento V corrisponde al
segmento antero-inferiore del
settore mediale di dx
§ il segmento VI corrisponde al
segmento antero-inferiore del
settore laterale di dx
§ il segmento VII corrisponde al
segmento postero-superiore
del settore laterale di dx
§ il segmento VIII corrisponde
al segmento postero-
superiore del settore mediale
di dx.
ANATOMIA
La vena porta è formata dall’unione della vena mesenterica superiore e della vena splenica*. Drena nel fegato
il sangue del tratto addominale del sistema GI, della milza e del pancreas.
*C’è anche una vena mesenterica inferiore che sbocca prima della vena splenica.

La vena porta fornisce circa il 75% del flusso ematico del fegato e circa il 60% del suo fabbisogno di O2.
Il fegato riceve sangue venoso ricco di O2. e metaboliti.
In condizioni patologiche si può avere una arterializzazione del fegato, meccanismo di compenso messo in
atto dall’organismo per garantire un adeguato apporto di O2 agli epatociti ed evitare un ulteriore
progressione del danno.

All’ilo epatico la vena porta si divide nei suoi rami segmentali; a livello sinusoidale il sangue proveniente dalle
venule portali terminali confluisce con il sangue dell’arteria epatica, per passare poi nelle vene sovra
epatiche, che drenano a loro volta nella cava inferiore.

IPERTENSIONE PORTALE
DEFINIZIONE
Si definisce ipertensione portale l’aumento della pressione della vena porta oltre il valore normale di 5-10
mmHg. Si considera l’intervallo 5-10 mmHg poiché fisiologicamente in condizioni post-prandiali è di circa
10mmHg in condizioni di digiuno circa 5mmHg.

La pressione portale normale è bassa (5-10mmHg) perché la resistenza vascolare nei sinusoidi epatici è
minima. L’ipertensione portale >10mmHg è causata nella maggior parte dei casi da un aumento delle
resistenze al flusso portale.

EZIOLOGIA
Un aumento delle resistenze si può verificare a tre livelli diversi rispetto ai sinusoidi:
§ PRE sinusoidale dovuta a cause
- PRE epatiche
o Fistola splenica AV à può portare sangue arterioso aumentando il flusso della vena
splenica e portale in maniera esorbitante
o Trombosi portale o splenica à generalmente aumento pressione distrettuale (es
neoplasia pancreatica che invade la vena splenica)
o Splenomegalia à ipertensione portale da iper-afflusso, aumenta il sangue
proveniente dalla milza
- INTRA epatiche (patologie che aumentano progressivamente le resistenze intra epatiche)
o Sarcoidosi
o Schistosomiasi
o Iperplasia nodulare rigenerativa
o Fibrosi epatica congenita
o Fibrosi portale idiopatica
o Disordini mielo proliferativi
§ INTRA sinusoidale (fase reversibile iniziale, irreversibile in fase avanzata con crollo della struttura
lobulare e proliferazione del tessuto collagene che strozza i sinusoidi con ulteriore aumento
resistenze periferiche)
o Cirrosi conclamata
o Epatite alcolica
§ POST sinusoidale
- INTRA epatiche
o Sclerosi ialina alcolica terminale
o Malattia veno-occlusiva
- EXTRA epatiche
o Sindrome di Budd-Chiari (trombosi vene sovra epatiche)
o Scompenso cardiaco dx
o Pericardite costrittiva

RESISTENZE SINUSOIDALI
NORMALE CIRROSI
Pressione vena porta: 7 mmHg Pressione vena porta: 30 mmHg
Pressione vene sovra epatiche: 3 mmHg Pressione vene sovra epatiche: 3 mmHg
Flusso epatico: 1,2 L/min Flusso epatico: 1,5 L/min
è 3,3 mmHg/L/min è 18 mmHg/L/min

LEGGE DI OHM
PRESSIONE PORTALE = FLUSSO SPLANCNICO x RESISTENZA PORTALE

Per cui un aumento della pressione portale può dipendere da:


§ Incremento delle resistenze
- Intraepatico: fenomeni strutturali irreversibili o di vaso costrizione*
- Portale e mesenterica
- Nei circoli collaterali
* l’aumento della resistenza non è solo la conseguenza meccanica legata ai noduli di
rigenerazione che comprimono i sinusoidi (condizione irreversibile), ma ha anche una
componente dinamica causata dalla contrazione attiva dei miofibroblasti setto/portali, cellule
muscolari lisce dei vasi portali (condizione reversibile: queste resistenze possono regredire nel
momento in cui viene meno la noxa patogena, o con la somministrazione di nitrati)
§ Incremento del flusso
- Vasodilatazione sistemica e splancnica, prodotta da un eccessivo rilascio di vasodilatatori
endogeni; Ciò spiegherebbe perché l’ipertensione persiste nonostante l’apertura di diversi
shunt.
- Ritenzione di Na+
- Aumento del volume di sangue
- Stato di circolazione iperdinamica, l’ipovolemia splancnica inizialmente stimola con
iperaldosteronismo la ritenzione di Na+

DIAGNOSI
La dimostrazione di un’ipertensione portale richiederebbe la misurazione della pressione portale, che viene
però raramente eseguita (si tratta di un vaso splancnico difficilmente valutabile); l’evidenza clinica è infatti,
di solito, sufficiente.
Di solito, comunque, l’ipertensione portale è sospettata, in un pz affetto da epatopatia cronica, per la
presenza dei circoli collaterali, della splenomegalia, dell’ascite o dell’encefalopatia porto-sistemica.
In passato si eseguiva:
§ la spleno-porto-grafia, metodica molto pericolosa a rischio di emorragia;
§ altra possibilità era la puntura delle varici esofagea, ma anche questa metodica è molto pericolosa;
§ è possibile l’utilizzo di tecniche angiografiche che mediante l’accesso giugulare permette il
raggiungimento della cava superiore, atrio, cava inferiore e una delle vene sovra-epatiche. Con un
catetere bloccato (pallone gonfiato) si va a misurare la pressione a cui si sottrae il valore ottenuto a
catetere libero (pallone sgonfio) = HVPG (Hepatic Venous Pressure Gradient) rappresenta il gradiente
pressorio venoso tra la vena porta e vene sovra epatiche. È il fattore che maggiormente riflette la
pressione portale nella maggior parte delle malattie epatiche.

Ad oggi la misurazione del valore della pressione portale è possibile mediante metodiche non invasive.
L’ecografia o la TC spesso mostrano i circoli venosi intra-addominali dilatati e l’ecodoppler può accertare la
pervietà della vena porta e la direzione del suo flusso.
*La radiologia vascolare invasiva fornisce maggiori dettagli, ma di solito non è necessaria.

UTILITÀ HVPG
§ le varici gastro-esofagee non si sviluppano finché l’HVPG non raggiunge il valore di 10-12 mmHg;
mantenendo l’HPVG <12mmHg con terapie farmacologiche è possibile prevenire il sanguinamento
da varici gastro-esofagee e/o ridurre il grado delle varici stesse (prevenzione primaria);
§ complicanze come ascite ed emorragie si manifestano quando l’HPVG supera i 12 mmHg;
§ un aumento dell’HVPG oltre 16mmHg è associato ad alta mortalità;

CIRCOLI COLLATERALI
Parliamo di shunt che normalmente non ci sono o sono molto piccoli, ma in situazione di ipertensione portale
si formano circoli collaterali a rischio di rottura.
Circoli collaterali più frequenti:
1. Circolazione collaterale gastro-esofagea
a. Varici esofagee prendono il sangue dalla vena gastrica sn (à v azigos à v cava superiore);
b. Varici gastriche presenti nel fondo gastrico, prendono il sangue dalla vena splenica;
2. Circoli spleno-renali
3. Circoli emorroidari
a. Varici emorroidarie/rettale anastomosi tra circolo collaterale proveniente dalla mesenterica
inferiore che riceve sangue dal plesso emorroidale superiore che a sua volta si connette al
plesso emorroidale medio- inferiore che a sua volta porta sangue alle vene ipogastriche à
alla vena iliaca interna à v iliaca comune à v cava
4. Circoli ombelicali e para ombelicali
a. Caput medusae visibile sull’addome; possibile ricanalizzazione delle vene ombelicali, o le
vene paraombelicali possono rappresentare una via di shunt tra v la porta e la v cava
superiore (mediante mammarie interne) o v cava inferiore (mediante le epigastriche
inferiori)
5. Sistema di Retzius meno visibile perché completamente interno; sistema di vasi a ponte tra organi
retroperitoneali e intraperitoneali.
Es. il così detto sifone pancreatico. La parte anteriore del pancreas è intraperitoneale, quella
posteriore è retroperitoneale, tra questi settori si può creare una condizione di inversione di flusso
che va verso il peritoneo; diventa una vera e proprio valvola di sfogo che può limitare la formazione
di varici esofagee.
Es. colon ascendente e discendente che presentano parete retroperitoneale. Basta vedere un pz con
ipertensione portale che ha una colostomia si nota come la intorno si possono formre dei circoli
collaterali.
Es tecnica di omentopessi in pz con fegato sano (soprattutto in età pediatrica – frequente in passato
per fenomeni di trombosi della vena porta secondario a cateterismi infettanti del cordone ombelicale
eseguiti per trasfusioni, per incompatibilità materno-fetale). Si eseguiva scarificazione del peritoneo
parietale favorendo l’adesione del grande omento (di spettanza portale) sulla parete addominale (di
spettanza sistemica).
6. Sistema delle vene porte accessorie
7. Vene di Sappey vene di circoli che riguardano le aderenze tra la cupola epatica e le vene
diaframmatiche. In questi casi quando c’è asportazione di fegato (epatectomia) per trapianto si ha
una importante emorragia.

/!\ Il sanguinamento si può avere nel pz con ipertensione portale anche in assenza di varici, ecco perché è
molto importante fare uno studio della fonte reale di sanguinamento. Possono essere legate ad una
condizione di gastropatia congestizia, da cui può derivare un sanguinamento acuto (per ulcera che perfora
un vaso) o cronico.
La gastropatia può essere:
§ media (caratteristico pattern a mosaico),
§ severa (red-points lesions),
§ formazione di ectasie vascolari nell’antro gastrico che si dispongono a raggiera intorno al piloro
(watermelon stomach)

Termina a slide 48
MANIFESTAZIONI IPERTENSIONE PORTALE
• VARICI ESOFAGEE
Inizia a slide 53 […] perché questo comporta un atteggiamento distrofico della mucosa esofagea. Le due teorie esplosiva
ed erosiva cominciano ad unificarsi.

CLASSIFICAZIONE GIAPPONESE DELLE VARICI ESOFAGEE: ogni varice la possiamo classificare in base a:
§ Sede
o terzo superiore,
o terzo medio,
o terzo inferiore
*via via che le varici si estendono verso l’alto aumenta il rischio di ipertensione portale secondo la
teoria esplosiva
§ Forma
o I grado: rettilinee sottili;
o II grado: tortuose, interessano i 2/3 del lume dell’esofago;
o III grado: interessano tutto il lume dell’esofago (maggior rischio di rottura);
§ Colore
o Bianco/rosee: la parete dell’esofago che riveste le varici è una parete spesse non fa trasparire
il colore della vena sottostante (basso rischio di sanguinamento, protette da erosione ed
esplosione)
o Blu: parete sottile
§ Red color sign
o Spot rosso ciliegia
o Ematocisti (segno ad alto rischio di sanguinamento, il rivestimento è solo epiteliale)
§ Presenza di esofagite
*queste ultime fanno capo alla teoria erosiva
Sulla base di questa classificazione possiamo valutare il rischio della rottura di varici prima ancora che
sanguini, potendo procedere con la profilassi primaria del sanguinamento della varice esofagea.

TERAPIA MEDICA
Si propone:
- Prevenzione del sanguinamento da varici
- Trattamento del sanguinamento in atto
- Prevenzione del ri-sanguinamento

L’ideale sarebbe evitare la formazione delle varici, ciò è possibile con l’uso di beta bloccanti (propanolo,
nadololo):
- Prevengono la formazione delle varici
- Promuovono l’arresto delle varici a valori di rischio molto bassi à riducendo la mortalità
Meccanismo d’azione: i beta bloccanti agiscono riducendo le resistenze periferiche e il flusso, riducendo
complessivamente la pressione portale.
Effetti collaterali: arresti atrio-ventricolari à non usati in pz cardiopatici
Dosaggio max tollerato: tale da ridurre la frequenza cardiaca del 25% (dosaggi superiori sono pericolosi,
inferiori sono inefficaci).
Eventualmente è possibile aggiungere i nitrati alla terapia per ridurre ulteriormente le resistenze a livello
intraepatico.
TERAPIA CHIRURGICA
Indicazioni: pz ad alto rischio.
Metodica: attraverso un endoscopio si aspira in un cilindretto la varice e si spara con un mulinello un laccio
di caucciù che strozza la varice, la fa andare in necrosi. Si forma un’escara nella zona della legatura che poi
guarendo darà origine ad una cicatrice che non permette la formazione di nuove varici.

TERAPIA DI FASE ACUTA


FARMACOLOGICA: Somatostatina, Octreotide, Terlipressina (determina vasocostrizione splancnica, in questa
maniera riduce il sanguinamento)
ENDOSCOPICA: legatura, scleroterapia
TERAPIA DI SUPPORTO:
- Correzione dello shock ipovolemico emorragico (ma con giudizioso ripristino del volume!)
- Correzione di eventuale coagulopatia con plasma fresco congelato (o rFVIIa)

TERAPIA DI SALVATAGGIO (rescue)


Quando la terapia in fase acuta (in urgenza) non si riesce ad eseguire si procede con:
- Tamponamento con sonda di Sengstaken-Blakemore: sonda costituita da due palloni, uno gastrico
ed uno esofageo, che tende a distendere le varici bloccando il sanguinamento. Non può restare lì per
tanto tempo (max 48-72h). Dopo di che si sgonfia, si rimuove e si può procedere con una legatura in
condizioni di semi emergenza.
- Chirurgia (mirata al confezionamento di shunt che detendano la vena porta es anastomosi porta-
cava) ormai di questi trattamenti se ne fanno sempre meno poiché:
o le procedure endoscopiche sono più efficaci,
o non permettevano un successivo trapianto di fegato
o richiede l’esecuzione della TIPS
- TIPS (trans-Jugular intra-Hepatic porto-systemic shunt): si scendeva con un catetere dalla giugulare
interna, atrio dx, vena cava inferiore e si cercava di incannulare la sovra epatica di dx che a catetere
libero misurava la pressione nella cava, a catetere bloccato misurava la pressione portale, la
differenza tra queste due misurazioni portava al gradiente pressorio portale.
Ora invece una volta arrivati con un catetere il più distalmente possibile a livello delle vene centro
lobulari si punge con un ago il parenchima epatico e a questo punto si passa un filo guida su di cui si
mette uno stent che mette in comunicazione all’interno del fegato il settore sovraepatico con il
settore portale, in pratica è uno shunt interno porto cavale. Questo serve:
o a fermare quelle emorragie incontrollabili (soprattutto del fondo gastrico)
o a ridurre la pressione portale (utile quando si va a fare un trapianto di fegato à questa
tecnica può essere usata come ponte verso il trapianto di fegato. Rendendo l’epatectomia
più facile perché il fegato è meno carico di circoli collaterali da ipertensione portale.
Ogni volta che ci si trova difronte ad un pz con ipertensione portale, o comunque epatopatico importante,
noi abbiamo la possibilità dal pdv chirurgico di classificare il rischio chirurgico mediante:
§ CLASSIFICAZIONE DI CHILD-PUGH in cui vengono presi in considerazione:
o Bilirubina
o Albumina
o PT
o Ascite
o Encefalopatia
§ CLASSIFICAZIONE MELD è un sistema di valutazione del livello di gravità clinica di un pz candidato al
trapianto, utilizzato per definire l’allocazione degli organi.
L’uso di questo consente di contenere i tempi di attesa e ridurre i decessi dei pz iscritti in lista. Per
l’inserimento in liste il valore, in assenza di altre patologie, deve essere maggiore di 13. Da un valore
pari o superiore a 20 si passa a livello prioritario per l’assegnazione di organi.
La scala MELD considera un valore max di 40.

• SPLENOMEGALIA
È dovuta in parte alla congestione venosa dei seni della polpa splenica (splenomegalia congestizia), ed in
parte alla iperplasia della polpa stessa e dei follicoli linfatici (iperreattività nella produzione di
immunoglobuline).

Conseguenze della splenomegalia sono l’aumentata attività emocateretica della milza (ipersplenismo) con
riduzione della vita media dei GR, GB, PLT. Si riscontra soprattutto diminuzione del numero di PLT e GB.

Nel pz iperteso portale la milza si ingrossa, diventa una specie di “spugna” in cui si accumula il sangue che
facilmente va incontro a fenomeni di emocateresi. Questo è il motivo per cui si ha PANCITOPENIA.
La piastrinopenia è quella che interessa più i chirurghi per il rischio aumentato di sanguinamento.

• ASCITE
È importante perché la filtrazione e l’assorbimento del liquido interstiziale aumenta molto di più e quindi c’è
una perdita maggiore di liquidi rispetto al rientro. Questo provoca una trasudazione di liquido ascito nella
cavità intraperitoneale accentuata dalla ipoalbuminemia.
TEORIA TRADIZIONALE
Iniziale formazione di ascite à riduzione del volume plasmatico efficace à aumento della renina,
aldosterone; vasopressina, stimolazione simpatico à ritenzione di Na+ e H2O; vasocostrizione renale à
espansione del volume plasmatico in presenza di IP à peggiora la situazione di ascite.

La diminuzione del volume arterioso efficace può dare una vasocostrizione renale à insufficienza renale (pz
urinano poco)

• ENCEFALOPATIA EPATICA
Sindrome neuropsichiatrica che si manifesta in soggetti portatori di epatopatie acute o croniche. Essa si
caratterizza per la presenza di:
- Alterazioni dello stato di coscienza (fino al coma)
- Tremori (soprattutto delle mani - asterissi)
- Alterazioni del comportamento
- Alterazioni dell’emotività e della cognizione
Questa condizione viene esacerbata da una alimentazione ricca di proteine (soprattutto animali).
Sostanze implicate nella patogenesi dell’encefalopatia epatica:
- Ammoniaca
- Metionina/mercaptani
- Falsi mediatori adrenergici
- Aminoacidi aromatici
- GABA

Possibile ruolo dell’ammoniaca nell’encefalopatia epatica:


1. L’ammoniaca si forma nell’intestino per azione delle ureasi batteriche
2. Altra ammoniaca viene prodotta dagli enterociti a partire dalla glutammina
3. L’ammoniaca non viene detossificata dal fegato per l’insufficienza epatica e/o per la presenza di
shunt porto-sistemici
4. L’ammoniaca riduce il consumo di glucosio del cervello
5. Aumenta il contenuto cerebrale di glutammina e riduce il cheto-glutarato, provocando in tal modo
una inibizione della transaminasi eccitatoria

Possibile ruolo dello squilibrio AAA/ACR nella patogenesi dell’encefalopatia epatica


1. AAA: fenilalanina e tirosina; ACR: leucina, isoleucina, valina;
2. In conseguenza dello stato catabolico il muscolo libera grandi quantità di AAA che non vengono
riutilizzate dal fegato insufficiente;
3. Gli ACR, provenienti dalla dieta o dalla degradazione delle proteine endogene, vengono
progressivamente consumati dal muscolo;
4. Si viene a creare un eccesso di AAA e una carenza di ACR;
5. A livello della BEE gli AAA e gli ACR hanno un carrier comune;
6. Gli AAA passano la barriera in grande quantità e non potendo essere trasformati nei normali
mediatori adrenergici poiché la via enzimatica che li biotrasformerebbe in dopamina e noradrenalina
è saturata, vengono trasformati in deboli mediatori adrenergici che inibiscono la trasmissione
sinaptica dopaminergica e noradrenergica

[Gli AA ciclici aromatici hanno una configurazione molto simile alla noradrenalina e Ach e si possono
comportare da falsi neurotrasmettitori.]

In passato si somministravano gli ACR per ripristinare l’equilibrio, ma con scarsi risultati. L’obiettivo oggi è
quello di ridurre l’assunzione di sostanze azotate con la dieta.
PERITONITE
Sappiamo che l’addome acuto non traumatico può essere determinato da varie cause:
- Peritonite
- Infarto intestinale
- Occlusione intestinale
- Emorragie digestive
- Emobilia
- Colestasi meccanica severa
La peritonite è una infiammazione della cavità peritoneale causata in genere da una invasione
batterica, ma non sempre l’invasione batterica è primaria, si pensi ad una irritazione chimica da
spandimento di succhi gastrici che solo secondariamente si associa alla sovrainfezione batterica.
Tali processi flogistici possono essere distinti in:
- Peritonite primitiva: non attribuibile ad un focolaio infettivo a partenza da un organo
addominale né ad una contaminazione dall’esterno da ferita penetrante.
- Peritonite secondaria: causata da un’invasione batterica o da un insulto chimico del
peritoneo
- Peritonite cronica granulomatosa: di origine tubercolare
La forma più frequente, ovvero la peritonite acuta secondaria, può essere, quindi, determinata dalla
1. propagazione da un focolaio infiammatorio addominale, per:
- Appendicite acuta
- Colecistite acuta
- Diverticolite
- Ascesso epatico
- Salpingite acuta
2. perforazione spontanea di un viscere cavo:
- Perforazione appendicite/colecistite gangrenosa
- Perforazione ileale
- Ulcera peptica perforata
- Perforazione neoplasia colica
- Diverticolite perforata
3. Ischemia con evoluzione gangrenosa di un viscere cavo:
- Infarto intestinale, la causa principale
- Strozzamento erniario, in cui viene meno prima la circolazione venosa e poi quella arteriosa
- Volvolo
- Invaginazione intestinale
4. Peritonite post-traumatica
- Contusione viscerale
- Necrosi intestinale per lesione dei mesi
- Lesione da scoppio di visceri cavi
- Lesioni viscerali da ferite penetranti
- Perforazione di visceri cavi da corpo estraneo
5. Peritonite post-operatoria
- Deiscenza anastomotica
- Pancreatite postoperatoria
- Contaminazione batterica intraoperatoria
- Ischemia di viscere cavo da legatura di vasi non opportunamente riconosciuti

Fisiopatologia peritonite
L’infiammazione circoscritta al peritoneo può avere ripercussioni a livello sistemico:
- Ipovolemia, con conseguente shock freddo ipodinamico
- Sepsi, con conseguente shock caldo iperdinamico, che secondariamente potrà evolvere
anch’esso in uno shock ipodinamico.
La sepsi conseguente ad un assorbimento a livello peritoneale di (1) esotossine, (2)
endotossine, (3) batteri. Il peritoneo ha una superficie estesamente sviluppata che può
andare in contro a facile attraversamento da parte di questo materiale. Ciò causa attivazione
dei mediatori dell’infiammazione, come l’attivazione della cascata del complemento.
Secondariamente si sviluppano, quindi, gli effetti sistemici:
1. permeabilizzazione capillare con formazione di essudato (ad esempio, polmonare),
ipovolemia e shock freddo con alte resistenze periferiche e ridotta gittata cardiaca.
2. ridotto metabolismo ossidativo periferico per danno cellulare diretto di tossine e batteri
cui consegue aumento della gittata cardiaca e ridotte resistenze vascolari periferiche,
con shock caldo. In genere, ad ogni modo, vi è una consequenzialità tra shock caldo
prima e shock freddo successivamente.

Diagnosi
1. Sintomi
a) Dolore addominale, soprattutto diffuso in quanto è un dolore viscerale, almeno
inizialmente, e quindi si tratta di un dolore poco localizzato e molto vago in termini
geografici. Quando poi il processo avrà interessato non più solo il peritoneo viscerale e
quindi il viscere, ma anche il peritoneo parietale, il dolore diventa più localizzato.
Quindi, il dolore addominale potrà includere 3 componenti:
• dolore viscerale, di tipo colico (spasmo viscere cavo) o ischemico (infarto intestinale,
ernia strozzata)
• dolore somatico (epicritico) dovuto alla stimolazione del peritoneo parietale
coinvolto dalla flogosi, più acuto di quello viscerale, inizialmente ben localizzato
• dolore viscerale riferito (di proiezione) ad un territorio parietale muscolocutaneo
secondo lo schema di distribuzione dei nervi somatici (dermatomeri)
A proposito della localizzazione potremmo suppore l’eziologia del dolore:
• dolore in ipocondrio destro: patologia biliare, patologia epatica, ascesso subfrenico,
neoplasia della flessura colica destra, patologia renale destra, ulcera duodenale,
pleuropolmonite basale destra
• dolore in fossa iliaca destra: appendicite acuta, linfoadenite mesenterica acuta,
ileite terminale, neoplasie cecali, occlusione colon sinistro, diverticolite di Meckel,
patologia ginecologica destra o colica renoureterale destra
• dolore in epimesogastrio: ulcera gastroduodenale, pancreatite acuta, infarto
intestinale (ci pensiamo in particolare in un paziente anziano, magari con storia di
vasculopatia aterosclerotica), strozzamento di ansa intestinale, aneurisma
dell’aorta in fissurazione (in tal caso vi sono segni di anemizzazione grave e
insufficienza vascolare del paziente, che possono indirizzarci verso la diagnosi),
enterocolite acuta, infarto miocardico posteroinferiore
• dolore in ipocondrio sinistro: distensione acuta della capsula splenica (in particolare
questa condizione va considerata in un paziente che abbia avuto un trauma
all’emitorace basale destro, che inizialmente non presenta questo dolore ma dopo
1-2 giorni inizia a svilupparlo, evidentemente perché sta sviluppando un ematoma
subcapsulare, che distende la capsula in acuto e a un certo punto si può rompere
avendosi quindi la cosiddetta ROTTURA DI MILZA IN 2 TEMPI, temibile complicanza
in quanto non è acuta, ma si verifica a distanza di qualche giorno rispetto all’evento
traumatico; bisogna quindi SEGUIRE questi pazienti, magari con esame ecografico),
infarto splenico, ascesso splenico, aneurisma della arteria splenica in fase di
rottura, pancreatite acuta distale, neoplasia angolo sinistro del colon, patologia
renale sinistra o pleuropolmonite basale sinistra
• dolore in fossa iliaca sinistra: diverticolite colon sinistro, neoplasia sigma, colite
infettiva, ischemica o colite ulcerosa, volvolo del sigma, patologia urologica o
ginecologica
• dolore in ipogastrio: ritenzione viscerale acuta, cistite, patologia uterina,
pelviperitonite
b) Reazione di difesa della parete addominale, con quello che è tipicamente definito come
addome ligneo o a barca. Nella valutazione palpatoria è bene iniziare con una palpazione
prima superficiale e solo dopo procedere con quella profonda, come anche è bene
iniziare con una palpazione che inizi nella regione più lontana rispetto a quella in cui il
soggetto riferisce il dolore, per poi concluderla in questa regione.
La reazione della parete è dovuta a
• ipertono muscolare da riflesso viscero-motorio, è involontario e interessa i muscoli
innervati dai nervi spinali dei metameri dell’afferenza dolorosa viscerale; è
esacerbato dalla palpazione e NON segno patognomonico di peritonite
• contrattura (difesa muscolare) da riflesso doloroso somatico-motorio sempre
espressione di peritonite circoscritta (reazione localizzata ad un quadrante e di grado
discreto) o generalizzata (fino al quadro dell’addome ligneo). La contrattura è
spontanea e progressivamente più estesa fino ai muscoli lombari e al diaframma.
c) Vomito e/o diarrea paradossa per ileo paralitico
d) Compromissione stato generale (segni di shock e compromissione d’organo)
2. E.O addome
a) Ipomobilità degli atti del respiro: il paziente con peritonite è un paziente che respira
molto difficilmente
b) Dolorabilità alla palpazione superficiale e profonda
c) Reazione di difesa della parete spontanea e provocata
d) Borborigmi diminuiti, in virtù dell’ileo paralitico
e) Ipertimpanismo e/o ottusità declive
3. Esami di laboratorio:
a) Alterazioni secondarie alla disidratazione, tutti i pazienti con peritonite sono disidratati
in quanto perdono liquidi
• Aumento ematocrito e protidemia per emoconcentrazione
• Aumento azotemia per emoconcentrazione, riduzione filtrato glomerulare,
catabolismo proteico
b) Leucocitosi, determinata dalla sepsi con mobilizzazione delle riserve leucocitarie
spleniche e midollari, essa manca nei soggetti anergici (immunodepressi o anziani) e
nelle fasi tardive
c) Alterazioni enzimatiche (per pancreatite, anche se è possibile avere alterazioni
enzimatiche anche senza una vera peritonite)
d) Alterazioni da reazione catabolica da “trauma”
• Aumento glicemia per resistenza periferica all’azione insulinica
• Iperazotemia
• Riduzione albumina plasmatica
e) Alterazioni da insufficienza d’organo
f) Alterazioni procalcitonina o indici generali di flogosi (VES,CRP)
g) Alterazioni emogasanalitiche, con acidosi di tipo metabolico, compensata poi dalla
polipnea del paziente, peraltro ridotta dal punto di vista della espansione polmonare
4. Radiologia
a) Rx addome a vuoto, una volta era l’unico esame disponibile. Esso ci permetteva di
visualizzare: 1) falce aerea subdiaframmatica da perforazione di viscere cavo, 2) livelli
idroaerei, per ostruzione, 3) la distensione delle anse in un ileo, 4) scomparsa del profilo
dei muscoli ileopsoas, 5) livello idroaereo all’interno di un ascesso, 5) ansa sentinella,
ovvero un’ansa dilatata di digiuno o ileo in caso di pancreatite
b) Ecografia addome, che permette di visualizzare: 1) presenza di versamento libero in
addome, 2) identificazione di processi flogistici a carico di visceri addominali, o di raccolte
saccate/ascessi
c) TC addome, il gold standard

Terapia
Prevede terapia medica con
- Terapia antibiotica
- Correzione squilibri idro-elettrolitici
- Terapia shock
- Sondino naso-gastrico
A questa si associa la fondamentale terapia chirurgica che dipende dalla patologia causale, o
eventualmente il lavaggio con drenaggio della cavità peritoneale.
PROF. UGENTI

ADDOME ACUTO
Definiamo addome acuto una condizione ad esordio improvviso che si manifesta con dolore
addominale severo, risultante da varie condizioni che possono essere di tipo infiammatorio,
ostruttivo, infartuale, perforativo, o inerenti la rottura di organi intra-addominali. Si tratta di una
condizione che richiede una valutazione in condizioni di urgenza ed emergenza, che possano portare
a rapida individuazione della causa che ha determinato tale condizione clinica, e che quasi sempre
poi conduce ad un intervento chirurgico, in urgenza o emergenza.

Non è necessario essere precisi nel determinare la causa dell’addome acuto al momento della prima
valutazione, è sufficiente individuare la condizione di addome acuto, invece, al fine di essere
autorizzati al ricovero in condizioni di urgenza.

Dolore addominale
Questi pazienti, innanzitutto, presentano un danno che determina un dolore di tipo VISCERALE,
ovvero a provenienza dagli organi endoaddominali. Tale dolore viscerale è riferito dai pazienti a
causa degli archi riflessi che si creano tra le innervazioni dei visceri stessi e l’innervazione sensitiva
metamerica corrispondente. Il dolore, inoltre, non è ben localizzato, il paziente al più sa definire
l’area in cui sente maggiormente il dolore: l’indicazione geografica è vaga:
- Dolore a localizzazione epigastrico, di solito riferito al tratto digestivo superiore
- Dolore a localizzazione para-ombelicale, di solito riferito al tratto digestivo intermedio
(prevalentemente tenue quindi)
- Dolore a localizzazione soprapubica, di solito riferito al tratto digestivo inferiore
(prevalentemente colon, e in particolare il colon sx, retto)
Questi pazienti, inoltre, presentano anche una componente somatica, quindi un dolore di tipo
SOMATICO, che proviene dal peritoneo parietale (il quale è innervato da nervi somatici). Tale dolore
è meglio localizzato, più netto, e si aggrava con i MOVIMENTI e le modificazioni del decubito (il
paziente sta meglio se in decubito supino).
Oltre a queste due componenti dolorifiche, vi è poi un dolore di tipo RIFERITO, ovvero un dolore a
distanza dalla sua sede di origine. Il meccanismo non è perfettamente chiaro: in alcuni casi può
essere di tipo metamerico, come il dolore viscerale di cui sopra, che però non si localizza nell’area
corrispondente all’organo interessato ma a distanza (p.e. il dolore da perforazione gastrica o della
prima porzione duodenale, il quale è epigastrico, ma si irradia in sede dorsale paravertebrale
sinistra, all’altezza dell’angolo della scapola; o ancora il dolore della colecistite acuta, in ipocondrio
dx, si irradia al dorso in corrispondenza dell’angolo della scapola). Tale dolore riferito può essere,
però, anche di tipo NON METAMERICO, bensì per coinvolgimento a distanza della sierosa
peritoneale: sempre nel caso della perforazione gastrica si può, infatti, determinare un dolore di
tipo somatico per coinvolgimento del peritoneo parietale anche in regione iliaca destra, ma in tal
caso l’irradiazione non è causata da un’irradiazione di tipo metamerico, ma è attribuibile al
materiale gastrico che fuoriesce attraverso la perforazione e si riversa nel peritoneo, seguendo la
disposizione del mesocolon trasverso si localizza verso la doccia parietocolica destra, scolando lungo
questa, fino a raggiungere il recesso appendicolare del peritoneo. Si sviluppa, quindi, una reazione
peritoneale in tale sede, la fossa iliaca destra, manifestando una clinica simil-appendicite.
Cause comuni (sulla base della localizzazione del dolore addominale acuto), non considerate a
lezione ma ho ripreso la slide
- Quadrante superiore dx:
1. Epatite acuta
2. Pancreatite acuta
3. Colangite, colecistite o colelitiasi
4. Ulcera duodenale
5. Ascesso epatico
6. Epatomegalia dovuta a scompenso cardiaco
7. Herpes zoster
8. Infarto miocardico
9. Pericardite
10. Polmonite
11. Appendicite retrocecale
- Quadrante superiore sx
1. Pancreatite acuta
2. Ulcera duodenale
3. Ulcera gastrica
4. Infarto miocardico
5. Pericardite
6. Polmonite
7. Ascesso splenico, infarto splenico, rottura splenica
- Quadrante inferiore dx
1. Appendicite
2. Occlusione intestinale
3. Diverticolite
4. Gravidanza ectopica
5. Endometriosi
6. Ernia
7. IBD, IBS
8. Urolitiasi
9. Diverticolite a un diverticolo di Meckel
10. Adenite mesenterica
11. Cisti ovarica, torsione ovarica
12. PID (quindi anche ascessi tubo-ovarici)
13. Ascesso allo psoas
14. Aborto spontaneo/minaccia di aborto
- Quadrante inferiore sx:
1. Occlusione intestinale
2. Diverticolite
3. Gravidanza ectopica
4. Endometriosi
5. Ernia
6. IBD
7. IBS
8. Urolitiasi
9. Cisti ovarica
10. Torsione ovarica
11. PID e ascessi tubo-ovarici
12. Ascesso allo psoas
13. Aborto o minaccia d’aborto
- Dolore diffuso:
1. Pancreatite acuta
2. Occlusione intestinale (in caso di ileo paralitico il dolore è diffuso)
3. Aneurisma dissecante dell’aorta
4. Rottura di aneurisma aortico addominale
5. Fenomeni ischemici mesenteriali
6. Peritoniti diffuse
7. Gastroenteriti

Aneurisma dissecante aortico


Si tratta della patologia vascolare addominale che più frequentemente interessa soggetti anziani, in
particolari maschi. È una patologia aortica di tipo degenerativo che riguarda soprattutto la porzione
endoteliale dell’aorta, conseguentemente di solito a fenomeni di tipo aterosclerotico che
indeboliscono la parete arteriosa. In virtù della pressione elevata che vige in tal vaso, e
dell’indebolimento di parete del vaso suddetto, si possono facilmente creare delle microfissurazioni
endoteliali a parete INTEGRA dell’aorta, ovvero non vi sarà una rottura franca dell’aorta. Per l’alta
pressione all’interno dell’aorta comincia a filtrare sangue attraverso queste microfissurazioni che
trova spazio nella regione subendoteliale dell’aorta: si forma un vero e proprio ematoma della
parete aortica. Tale ematoma si estende longitudinalmente lungo la parete aortica e aumentando
in estensione aumenta anche la pressione che tale ematoma esercita; se tale pressione non è
particolarmente elevata non progredisce più e inizia, dunque, ad organizzarsi in un coagulo. Tale
ematoma quindi residuerà in una forma di tipo FIBROSO. Al contrario se le pressioni esercitate sono
elevate, soprattutto nei pazienti ipertesi, l’ematoma si allungherà molto fino a indebolire
notevolmente anche la parete muscolare e portare dunque ad una forma di tipo PERFORATIVO. La
perforazione si potrà sviluppare in punti diversi a livello retroperitoneale o a livello di uno degli
organi adiacenti all’aorta (es. ansa intestinale, colon, uretere).

La dissecazione di tale parete vascolare causa un dolore IMPROVVISO, IMPORTANTE, riferito


prevalentemente in regione MESOGASTRICA, che tende ad estendersi cranialmente o cadualmente
man mano che l’ematoma si espande. Alla visita del paziente ci si rende conto che esso presenti una
massa centro-addominale pulsante, sincrona con i battiti cardiaci. All’auscultazione si potranno
rilevare soffi vascolari, in particolare in una condizione in cui il contenuto dell’ematoma non si è
ancora organizzato e vi è ancora flusso attraverso la microfissurazione che si è generata.

Peritonite
Col termine peritonite si intende l’infiammazione del peritoneo, la quale può essere localizzata o
diffusa. Clinicamente si manifesta con un carattere definito PERITONISMO: questo altro non è che
l’ipersensibilità del peritoneo parietale alle sollecitazioni meccaniche, che si manifesta mediante
alcuni segni clinici:
- Dolore spontaneo
- Addome ligneo, in virtù della contrattura di difesa della muscolatura addominale. La
contrattura di difesa, come la stessa peritonite, può essere localizzata o generalizzata. Si
intende come addome ligneo una condizione di contrattura di difesa generalizzata.
- Dolore provocato dalle manovre cliniche di palpazione eseguite durante l’esame obiettivo,
in virtù della sollecitazione, durante l’esecuzione di queste, della sierosa parietale
infiammata
La peritonite può essere determinata da varie cause:
- Infettive: prevalentemente su causa batterica, determinata da condizioni quali una
perforazione di viscere, quale la perforazione di un’ulcera, la gangrena di un’appendice, una
diverticolite perforata; tale causa rappresenta senza dubbio la più frequente
- Non infettive: ovvero prevalentemente chimiche, determinate dalla filtrazione di liquidi, da
varia provenienza, in peritoneo. Ad esempio, durante una colecistite gangrenosa (anche non
perforata), la parete della colecisti diventa filtrante e bile può traspirare attraverso la parete
indebolita della colecisti pur senza una vera e propria perforazione e dare una reazione
peritoneale da presenza di bile (da coleperitoneo). Ancora, può essere causata dal passaggio
del contenuto acido gastrico, o degli enzimi pancreatici in corso di una pancreatite acuta, o
da un uroperitoneo, un emoperitoneo.
Si noti che tale fluido originariamente sono assolutamente sterili, ma spesso si infettano
entro le prime 24-48 ore dal leakage risultando questo in una peritonite batterica. Quindi,
riepilogando le cause possibili sono determinate dal passaggio in cavo peritoneale di:
1. Succhi gastrici (ulcera peptica)
2. Bile (biopsia epatica, post-colecistectomia)
3. Urine (trauma pelvica)
4. Succhi pancreatici (pancreatite)
5. Sangue (endometriosi, rottura di cisti ovarica, trauma addominale)

Appendicite
Si intende per appendice l’infiammazione dell’appendice vermiforme, la quale è una propaggine
cieca che si diparte dal fondo ciecale. Altro non è che un residuo di una parte dell’intestino degli
animali, che non fa parte del transito fecale; il problema è che residui fecali, in particolare se duri e
secchi, possono andare a infilarsi nel lume appendiceale ed ostruirlo. Poiché il lume è rivestito da
mucosa esso ha le stesse funzioni del restante epitelio colico: produce muco e presenta un proprio
sfaldamento cellulare in virtù del turn-over delle cellule epiteliali; per cui se l’orifizio dell’appendice
è ostruito, tutto questo materiale si accumulerà all’interno del lume appendicolare, il quale si potrà
distendere e potrà determinare la formazione del cosiddetto MUCOCELE. Anche senza la
distensione, il ristagno di tale materiale in appendice può causare in breve tempo la sua
sovrainfezione, considerato che si tratta di un ambiente non certo sterile; la sovrainfezione
determinerà innanzitutto una flogosi mucosale, che poi rapidamente si estende a tutti gli strati di
parete appendicolare, fino alla superficie sierosa.
È possibile riconoscere vari gradi dell’appendicite: dalla semplice appendicite catarrale, dove la
flogosi si manifesta solo sottoforma di iperemia ed edema della appendice, ad una flogosi
purulenta, in cui l’appendice è ancora in sede ed integra, fino ad arrivare poi alla necrosi settica
della parete appendicolare e quindi da appendicite purulenta si passerà ad appendicite gangrenosa.
La gangrena determinerà la necrosi della parete e quindi la perforazione: si avrà, quindi,
l’appendicite perforata, con riversamento in cavo peritoneale, nella loggia appendicolare, del
materiale purulento e la formazione dell’ascesso periappendicolare.
L’ascesso periappendicolare, inizialmente circoscritto (e quindi la peritonite inizialmente è
localizzata al recesso appendicolare), con il persistere della noxa patogena, si estenderà a tutto il
peritoneo adiacente, e quindi tutto il peritoneo della loggia SOTTOMESOCOLICA e
SOTTOMESENTERIALE, trasformandosi in una peritonite diffusa.

Le manifestazioni cliniche dell’appendicite sono:


- Dolore, che inizia in sede periombelicale, in quanto l’innervazione segue il mesentere:
l’innervazione segue questi attraverso l’emergenza dell’ultimo ramo dell’arteria mesenterica
superiore, ovvero l’arteria ileo-colica, il cui ramo terminale a sua volta è l’arteriola
appendicolare. L’innervazione viscerale di questa regione, quindi, proveniente dal
mesentere, per cui il dolore sarà un dolore viscerale riferito in regione periombelicale,
almeno inizialmente; man mano che la flogosi si estende anche alla sierosa parietale, il
dolore diventerà anche SOMATICO e quindi più localizzato della regione appendicolare, nel
quadrante inferiore destro o meglio in regione iliaca destra
- Febbre, a causa della condizione settica
- Nausea, vomito, anorresia: la condizione di peritonite determina sempre un ileo paralitico
e quindi questi si manifesterà sottoforma di nausea e vomito.
- Paziente mostra un decubito obbligato, laterale dx: in modo tale da detendere la regione
di parete addominale corrispondente all’appendice. Egli presenta anca piegata e ginocchio
flesso, in modo da detendere l’ileopsoas, muscolo retroperitoneale.
- Non bisogna dimenticare che esistono le anomalie anatomiche: l’appendice pur avendo
l’inserzione sul fondo ciecale, potrebbe non essere localizzata in corrispondenza della
regione iliaca destra: ad esempio esiste una condizione anatomica che prevede la
retroversione dell’appendice, essa anziché essere libera in addome, si ripiega sulla parete
posteriore del cieco e risale dietro questo. In caso di appendice retrocecale infatti il dolore
non è quello tipico, ma si manifesta come un dolore LOMBARE, al punto che simuli una colica
renale. Un’altra possibilità è che il colon ascendente sia ripiegato su se stesso, al punto che
il cieco sia posizionato in sede sottoepatica: in tal caso il dolore simula una colecistite acuta
anziché di un’appendicite acuta.
Ancora, il colon ascendente potrebbe essere particolarmente lungo ed il cieco
particolarmente mobile, localizzandosi addirittura nello scavo del Douglas: in tal caso
simulerà una gravidanza ectopica o un’annessite.
- A volte il dolore improvvisamente potrebbe dare sollievo: la scomparsa improvvisa del
dolore potrebbe essere segno di una perforazione dell’appendice in quanto il materiale
endoappendicolare è libero di riversarsi nel cavo peritoneale e quindi non ci sarà più la
distensione dell’appendice che generava dolore

Il trattamento di solito è chirurgico, con appendicectomia, qualora con gli esami strumentali siano
rilevate complicanze (es. versamento periappendicolare, se questo è pus, appendicite perforata).
Qualora l’appendicite non presenti tali complicanze, e quindi sia ad uno stadio precoce, e sia
comunque manifesta clinicamente, possiamo provare a fare una terapia antibiotica, insieme a
digiuno completo del paziente per mettere a riposo l’intestino, provando a far risolvere la patologia
con semplice terapia medica.

Lezione conclusa, argomento no, ma mai terminato in altre lezioni. Le slides idem non sono state
caricate su team, le ho chieste via mail al prof ma nada silenzio totale dal prof, e non ho potuto
quindi vedere cosa mancava.
Shock
Con il termine di shock si intende una sindrome clinica da ridotta perfusione tissutale, soprattutto
degli organi vitali, condizione che comporta uno sbilanciamento tra la domanda e l’offerta di
ossigeno, tale da indurre uno shift metabolico nelle cellule di suddetti tessuti dal metabolismo
aerobio al metabolismo anaerobio. Proprio l’elevata produzione di acido lattico, come risultato
dell’elevato metabolismo anaerobio può comportare una acidosi tale da determinare la
progressione del soggetto in shock verso l’exitus.
Qualsiasi alterazione che induca un grave deficit di (1) funzione della pompa cardiaca, (2)
capacitanza arterovenosa, (3) volume circolante efficace, comporta l’insorgenza della sindrome da
shock.
Quindi, in termini di eziopatogenesi, si possono distinguere:
1. Shock cardiogeno: corrisponde ad una sindrome da ipoperfusione tissutale che dipende da
un’insufficiente attività di pompa cardiaca.
2. Shock ipovolemico: corrisponde ad una sindrome da deficit perfusivo dovuta alla riduzione
del volume circolare efficace.
3. Shock distributivo: corrisponde ad una sindrome da deficit di perfusione che dipende
dall’alterazione della normale fisiologia dei vasi sanguigni, dipendente da situazioni di
vasodilatazione massiva del circolo che vanno ad inficiare negativamente sulla pressione
arteriosa e correlano con un’alterazione della distribuzione della volemia e della capacitanza
arterovenosa. In quest’ultimo caso, si possono ulteriormente distinguere altri tre tipi di
shock distributivo:
i) Shock settico: determinato da una sepsi generalizzata da batteri gram-negativi (E.
coli, Proteus, Klebsiella, meningococco) e da alcuni batteri gram-positivi
(stafilococco) che va ad indurre una massiva vasodilatazione sistemica.
ii) Shock neurogeno: determinato da un danno a carico dei centri nervosi che regolano
la funzione del sistema cardiovascolare che inducono una massiva vasodilatazione
sistemica.
iii) Shock anafilattico: determinato dal massivo rilascio di istamina in circolo, dovuta ad
una massiva reazione allergica che ha carattere sistemico, con conseguente
vasodilatazione massiva sistemica.
La manifestazione clinica dello shock è una sindrome che si basa su varie cause eziopatogenetiche
ed ovviamente da differenti cause eziopatogenetiche dipenderanno trattamenti differenti. Se non
si riesce a rimuovere la causa eziologica alla base, attraverso la terapia, lo shock può evolvere
divenendo shock scompensato e portando allo scompenso multi-organo, che non è più
recuperabile.

Questa diapositiva rappresenta il momento in cui dall’analisi che abbiamo fatto dei vari tipi di shock
riconoscendone le cause andiamo verso l’evoluzione clinica. Lo shock è una condizione verso cui il
primo a reagire è l’organismo stesso: il nostro sistema multi-organo in una condizione di
sollecitazione come quella dello shock reagisce con un compenso. Questo compenso è di vario tipo
ed è cronologicamente anche disseguito nel tempo. Quello immediato è di tipo neurologico perché
il nostro sistema cardiovascolare è sotto una serie di controlli sia biochimici, tissutali che periferici
sulla regolazione degli sfinteri pre-capillari pre-arteriolari cosi come sulla captazione dell’ossigeno
ma anche sotto il controllo del sistema nervoso vegetativo ortosimpatico e parasimpatico i quali
modulano l’attività cardiaca in modo diretto e allora naturalmente essendo lo shock una sindrome
da ipoperfusione tissutale che è direttamente proporzionale alla gittata cardiaca (dove per gittata
cardiaca s’intende la quantità di sangue pompata dal cuore nell’unità di tempo; quindi questo vuole
dire che la gittata cardiaca è a sua volta determinata dal prodotto della gittata sistolica [quantità di
sangue erogata dal cuore in ogni singola sistole] e la frequenza cardiaca [numero di cicli cardiaci
nell’unità di tempo]) moltiplicato per le resistenze vascolari periferiche ovverosia (le resistenze
periferiche sono l’espressione inversa del letto vascolare disponibile in un singolo istante) per il
volume ematico. Questi sono i capisaldi del funzionamento di un’adeguata perfusione tissutale.
La gittata cardiaca può essere modificata immeditatamente nel giro di poche frazioni di secondo
dal bilancio fra stimolo ortosimpatico e stimolo parasimpatico che hanno un effetto opposto sulla
funzione cardiaca: l’ortosimpatico ha un effetto cronotropo positivo e inotropo positivo, cioè
aumenta sia la frequenza cardiaca che la forza di contrazione del muscolo cardiaco, al contrario il
parasimpatico riduce questi due valori. Dal bilancio fra i due stimoli viene fuori l’attività costante e
normale del cuore. È evidente che in un certo momento in cui il sistema nervoso autonomo
recepisce una riduzione della pressione di perfusione tissutale, immediatamente la prima reazione
è la disregolazione dell’ortosimpatico a vantaggio di quest’ultimo il quale aumenterà il suo stimolo
sul cuore determinando un aumento della frequenza cardiaca e un aumento della contrazione del
muscolo cardiaco per compensare la gittata cardiaca e quindi la perfusione tissutale, compensando
infine la condizione di shock e di ipoperfusione tissutale periferica presente nel paziente.
Contemporaneamente lo stimolo del sistema ortosimpatico agisce anche a livello adrenocorticale
e midollare del surrene stimolando la produzione di alcun ormoni: gli ormoni propri dello shock
che sono adrenalina, noradrenalina e cortisolo i quali con una latenza di qualche secondo, intorno
al minuto (la loro azione è biochimica, non neurogena quindi ha una latenza maggiore), sono in
grado di determinare una modificazione del letto vascolare andando a regolare gli sfinteri
precapillari arteriolari in maniera tale da ridurre quelle che sono le resistenze periferiche e
permettere un ripristino della perfusione tissutali, perlomeno di quelli che sono gli organi nobili
ovvero cuore, cervello (SNC) in primis e in second’ordine polmone, rene e fegato. Questi ormoni
agiscono con un meccanismo biochimico sul controllo degli sfinteri precapillari arteriolari: l’effetto
di adrenalina e noradrenalina è la vasocostrizione, ovvero la chiusura degli sfinteri precapillari nei
distretti che non necessitano di una perfusione tissutale continua perché tali tessuti sono in grado
di resistere più a lungo ad una condizione di ipoperfusione tissutale, questi distretti sono la cute,
l’apparato muscolo scheletrico, l’apparato digerente, che non hanno necessità impellente di una
perfusione continua e possono sopravvivere più a lungo in condizione di anaerobiosi. Al contrario,
quest’effetto a livello degli organi nobili non si può mai avere, per cui non si avrà mai una
vasocostrizione a livello dei vasi cerebrali e dei vasi coronarici, con risparmio di un’adeguata
perfusione tissutale a livello di questi che sono organi maggiormente suscettibili all’insulto ipossico
e all’ipoperfusione tissutale.
Allo stesso tempo, però, si attiva anche il sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS).
La riduzione della pressione sanguigna e la riduzione della pressione di perfusione periferica
stimolano i barocettori di cui il più importante è situato a livello della biforcazione delle carotidi a
livello prettamente del glomo carotideo. La riduzione del flusso sanguigno stimola anche i
chemiocettori che recepiscono, invece, la modificazione in senso acidosico del metabolismo
tissutale. Entrambe queste stimolazioni, che si verificano in una condizione in cui ci sia una riduzione
di questi elementi, vanno a stimolare il centro vasomotorio a livello del tronco encefalo e questo,
a sua volta, attiva la regolazione del sistema ortosimpatico inducendo un aumento dell’attività
ortosimpatica che causa un aumento della frequenza cardiaca (cronotropismo positivo) e della
contrattilità miocardica (inotropismo positivo) con lo scopo di mantenere un’adeguata gittata
cardiaca nel paziente con shock e ipoperfusione tissutale. Allo stesso tempo, la riduzione della
pressione arteriosa e l’eventuale acidosi metabolica che hanno stimolato questa via neurogena
stimola anche la midollare del surrene e la corticale del surrene, le quali iniziano a secernere
un’aumenta quota di ormoni quali adrenalina e noradrenalina i quali inducono vasocostrizione,
cioè redistribuzione del microcircolo con privilegio sugli organi nobili e determinano anche una
contrazione della parete muscolare delle grandi vene, seppur esile, che agiscono come vasi di
capacitanza e quindi inducendone la contrazione ne vanno a ridurre la capacitanza delle grandi
vene stesse con l’intento di mantenere il ritorno venoso affinché si mantenga un’adeguata gittata
cardiaca. Allo stesso tempo, lo stimolo sulla midollare del surrene induce l’attivazione del sistema
RAAS (Renina-Angiotensina-Aldosterone) il quale agisce soprattutto a livello renale e a livello
periferico. A livello periferico collabora con adrenalina e noradrenalina aumentando le resistenze
periferica, mentre a livello renale agisce sul funzionamento del filtraggio renale, sia a livello
glomerulare, inducendo una vasocostrizione delle arteriole glomerulari (riducendo l’ultrafiltrato
renale), ma allo stesso tempo l’aldosterone agisce a livello tubulare inducendo un aumento del
riassorbimento dei liquidi e degli elettroliti a livello del tubulo distale. Lo scopo di questo sistema è
quello di ridurre la produzione di volume urinario, quindi indurre una oliguria/anuria, aumentando
il volume circolante ematico, essendo l’urina un prodotto dell’ultrafiltrato del sangue. Tutto questo
meccanismo ha lo scopo di mantenere un adeguato ritorno venoso e un’adeguata gittata cardiaca
nonché, per ultima, un’adeguata pressione di perfusione a livello tissutale.
Questo è un meccanismo di compenso spontaneo.

Naturalmente, questi meccanismi determinano uno stress sull’organismo: essi agiscono solamente
in condizione d’urgenza ed emergenza e non possono essere sostenuti a lungo dall’organismo.
Se lo stato di shock si prolunga nel tempo, anch’essi falliscono e vanno incontro a scompenso.
A questo punto intervengono dei meccanismi a medio termine che sono legati allo stimolo a livello
dell’ipofisi e della ghiandola surrenale con produzione di cortisolo: difatti, l’ipofisi rilascia ormoni
ipofisari importanti come l’ACTH (ormone adrenocorticotropo), il quale va ad agire sulla corticale
del surrene per stimolare il rilascio di cortisolo, e l’ADH (ormone antidiuretico o vasopressina), il
quale va ad agire a livello delle cellule del tubulo renale distale e del dotto collettore aumentando
il riassorbimento di acqua ed elettroliti in maniera tale da ridurre la diuresi del soggetto sottoposto
a shock affinché si possano aumentare i liquidi corporei e il volume effettivo circolante. Il rilascio di
cortisolo, invece, andrà a determinare la riduzione del filtrato glomerulare a livello renale (per
ridurre la diuresi renale e la perdita di ulteriori liquidi) e allo stesso tempo andrà ad antagonizzare
l’insulina stimolando la produzione di glucagone affinché possa avvenire un’aumentata produzione
di glucosio circolante per far fronte alle enormi richieste energetiche messe in banco dalla
situazione di shock e di emergenza.
La ridotta perfusione tissutale si traduce in una diminuzione dell’apporto di ossigeno con il
passaggio del metabolismo da quello aerobico a quello anaerobico. Tale passaggio causa un
aumento della produzione di lattati con acidosi tissutale che porterà al blocco del metabolismo
cellulare con blocco dell’attività della pompa sodio potassio a livello della membrana cellulare e dei
mitocondri con riduzione della produzione di ATP.
Si crea quindi un circolo vizioso perché l’ipoperfusione determina danno cellulare, il danno cellulare
provoca, attraverso quella che è la necrosi cellulare, la liberazione dei mediatori dell’infiammazione
(citochine e istamina) che sono endotossine che hanno un’azione di vasodilatazione con paralisi
degli sfinteri precapillari e quindi si rende manifesta una redistribuzione errata del circolo periferico.
Questa mal distribuzione del circolo periferico, ovviamente, peggiorerà la situazione di
ipoperfusione tissutale periferica e quindi il circolo vizioso si chiude.
È necessario interrompere rapidamente tale circolo vizioso e bisogna farlo a livello della causa
eziologica scatenante iniziale che determina l’ipoperfusione, prima che la situazione evolva verso il
danno cellulare.
• Shock cardiogeno

Si parla di shock cardiogeno quando la causa dello shock risiede in uno scompenso della funzione
di pompa del cuore. Si viene a creare una disfunzione diastolica o sistolica del muscolo cardiaco che
va a compromettere la gittata cardiaca, riducendola. Le cause che possono intervenire sulla
funzione sistolica o diastolica del cuore sono:
- Infarto miocardico
- Cardiomiopatie: metaboliche, congenite, tossiche
- Trauma cardiaco
- Severa ipertensione sistemica o polmonare: la contrattilità del cuore e la sistole cardiaca
diventano insufficienti a pompare il sangue con la normale pressione di perfusione in aorta
o in arteria polmonare. Un’ipertensione può essere acuta o cronica. L’ipertensione acuta si
determina improvvisamente, per esempio a causa di una polmonite acuta grave bilaterale
che interessi gran parte del parenchima polmonare con edema a livello dell’interstizio
polmonare, oppure un’ipertensione acuta sistemica si ha quando vi sia una grave ritenzione
idrica che va ad aumentare improvvisamente il volume circolatorio ematico.
Paradossalmente, sono cause opposte a quelle che potrebbero causare uno shock, ma nel
momento in cui queste condizioni vanno ad impedire e ledere la funzione sistolica del cuore
allora si potrebbe venire a creare una situazione di ipoperfusione tissutale e shock.
Alternativamente, alcune di queste situazioni possono evolvere in maniera lenta e graduale,
instaurando uno scompenso cronico sia a livello polmonare, dovuto per esempio alla fibrosi
polmonare idiopatica, sia a livello sistemico come nel caso dell’ipertensione arteriosa
essenziale. Queste condizioni possono indurre uno scompenso dell’azione sistolica cardiaca.
- Tamponamento cardiaco (versamento pericardico imponente): sieroso, purulento, ematico.
Accumulandosi volume di liquido nella cavità pericardica, che è una cavità chiusa, questo
andrà ad aumentare la pressione nel pericardio che potrà superare la pressione di
riempimento diastolico dell’atrio, soprattutto l’atrio di destra, e ovviamente l’atrio non
riuscendo a distendersi per il riempimento col ritorno venoso al cuore causa il blocco
dell’attività cardiaca.
- Depressione miocardica per problemi tossico-metabolici: diabete scompensato.
- Aritmie e turbe del ritmo cardiaco.

Le tre cause principali di shock cardiogeno, ovvero IMA ventricolare, aritmie e problemi strutturali
del muscolo cardiaco, inducono una riduzione e una disfunzione della gittata sistolica del cuore che
causa una riduzione del volume sistolico con conseguente riduzione della frazione di eiezione
cardiaca. Ovviamente, tutto questo va a ridurre l’apporto di ossigeno a livello delle arterie
coronarie e questo va ad aggravare la situazione iniziale di ischemia che ci potrebbe essere a livello
coronarico ma non solo, in quanto, ovviamente una riduzione della gittata cardiaca andrebbe anche
a ridurre la perfusione tissutale periferica e il conseguente apporto di ossigeno ai tessuti con
conseguente riduzione della perfusione tissutale, shock cardiogeno e danno e sofferenza cellulare
e tissutale.
Bisogna anche ricordare che in condizioni di tamponamento cardiaco oppure ostruzione dei grandi
vasi si realizza anche una riduzione e disfunzione diastolica e quindi questo va a ridurre a sua volta
la gittata sistolica permettendo il susseguirsi di eventi prima succitati, ma non solo, in quanto
ovviamente aumenteranno le resistenze a livello polmonare che si traduce in edema polmonare
per passaggio di liquidi nell’interstizio polmonare. Se c’è accumulo di liquido nell’interstizio
polmonare questo ostacola anche i normali scambi gassosi, andando a ridurre l’ossigenazione del
sangue a livello del piccolo circolo determinando ancora una volta una riduzione dell’apporto di
ossigeno tissutale periferico con conseguente ipoperfusione, shock e danno cellulare e tissutale.
Il tempo in cui si determina la condizione di shock è relativo alla causa: un infarto massivo della
superficie diaframmatica del ventricolo sinistro ovviamente determina un arresto cardiaco con
conseguente morte improvvisa del soggetto e questo fa capire come tanto più è esteso il danno
miocardico tanto maggiore è la riduzione della funzione sistolica e tanto maggiore è il danno sulla
perfusione periferica con conseguente minore tempo di intervento per poter ristabilire la
situazione. Ad esempio, per lo shock emorragico, ovviamente, il tempo in cui si determina la
condizione di shock dipende dalla quantità e dall’entità dell’emorragia e dal tempo in cui tale
emorragia si sta presentando nel soggetto.
Per quanto riguarda, invece, i meccanismi di compenso e il loro tempo di azione, i meccanismi di
compenso neurogeni sono immediati, nel giro di secondi al massimo. Per quanto riguarda gli altri
meccanismi con latenza maggiore abbiamo quelli indotti dal sistema nervoso vegetativo
(ortosimpatico e parasimpatico) che sono a breve termine, nel giro di pochi minuti, e poi ci sono
quelli ormonali da stimolo dell’ipofisi che intervengono invece nel giro di diversi minuti e sono
meccanismi di compenso a medio-lungo termine.
Poiché gli organi che maggiormente e per primi risentono di una situazione di shock sono gli organi
nobili, primo fra tutti il cervello, è ovvio che il primo meccanismo e il primo sintomo che una
situazione di shock può portare è la lipotimia, una sincope, passando dalla ortostasi alla clinostasi
(il paziente cade a terra). Ebbene, anche il passaggio dalla ortostasi alla clinostasi è un meccanismo
di compenso automatico e immediato che si viene a determinare: in posizione di ortostasi tutto ciò
che si trova al di sopra del piano cardiaco è in pressione idrostatica negativa e quindi soprattutto il
cervello risentirà di questa pressione negativa e riceverà un flusso sanguigno a più bassa pressione;
passando alla clinostasi tutto il corpo passa in condizione idrostatica neutra, anche il cervello, tutto
il corpo è sullo stesso piano del cuore e relativamente può aumentare il flusso, per vantaggio
idrostatico a livello cerebrale. Ecco spiegato anche il motivo per il quale ad un paziente con sincope
o lipotimia che si trova in posizione di clinostasi è consigliato sollevare le gambe dal piano del
terreno in maniera tale da favorire quello che è il ritorno venoso al cuore permettendo una maggior
riempimento ventricolare e favorendo una ripresa della gittata cardiaca sufficiente alla perfusione
periferica e, soprattutto, cerebrale. Anche la stessa lipotimia è una forma di compenso automatico
e pressoché immediata che il nostro organismo attua al fine di far fronte ad una situazione di
svantaggio emodinamico periferico e cerebrale.
Tutti questi meccanismi (lipotimia, neurogeni e ormonali) servono per mantenere e sostenere il
circolo soprattutto a livello cardiaco e cerebrale. Nonostante ciò, tutti questi meccanismi non sono
eterni, hanno un certo tempo-limite, non possono essere sostenuti troppo a lungo e, ad un certo
punto, bisognerà quindi intervenire sulla causa effettiva che ha portato alla condizione di riduzione
della perfusione sanguigna, ovvero la causa che ha scatenato quel circolo vizioso di eventi che porta
inevitabilmente alla condizione di shock scompensato e insufficienza multi-organo se non viene
trattata la causa eziologica che ne è alla base.
Dal punto di vista chirurgico le situazioni a livello cardiaco che sono rilevanti per l’instaurazione
dello shock cardiogeno sono (1) tamponamento cardiaco, (2) traumi cardiaci (arma bianca, arma
da fuoco, perforativi) ma anche le (3) forme ostruttive che sono a carico del riempimento atriale
come, ad esempio, in corso di un’emorragia mediastinica, condizione che può essere anche
iatrogena per esempio per perforazione dell’esofago durante una manovra endoscopica o durante
un intervento chirurgico maggiore. Il mediastino è una cavità virtuale formata da tessuti molli che
contengono organi rilevanti (cuore, polmone, vie aeree superiori, vie digestive superiori, linfonodi)
ed è una cavità chiusa racchiusa tra pareti ossee non estendibili. Se si viene a formare un’emorragia
nel mediastino questa occupa spazio, formando un vero e proprio ematoma che occupa un volume
chiuso non espansibile, determinando un aumento della pressione all’interno della cavità
mediastinica. Tale aumento pressorio può andare a danneggiare il cuore, l’aorta e i grandi vasi
venosi come la vena cava superiore e la vena cava inferiore che hanno una pressione molto minore
(12-13 cmH2O) e quindi un ematoma che occupa spazio all’interno della cavità mediastinica
determina una compressione sui grandi vasi venosi, bloccando il ritorno venoso al cuore e andando
a bloccare il riempimento atriale con conseguente scompenso cardiaco per riduzione del
riempimento e del ritorno venoso al cuore.
Ovviamente, in questo caso, la causa prima è un’emorragia mediastinica e se c’è tale emorragia
mediastinica bisogna intervenire chirurgicamente per drenare quell’ematoma e, in seguito, andare
ad intervenire chirurgicamente anche sulla causa eziologica vera e propria che ha comportato la
perdita di sangue all’interno dello spazio mediastinico. La particolarità di tale situazione è che
un’emorragia mediastinica non causa effettivamente uno shock emorragico perché la quantità di
sangue persa all’interno del mediastino e raccolta tramite drenaggio non supera i 200-300 cc, i quali
però sono sufficienti a determinare uno shock cardiogeno per compressione sulle grandi vene
mediastiniche con conseguente riduzione del ritorno venoso al cuore e difettoso riempimento
ventricolare del cuore. Quindi, questo appena citato è un classico esempio di shock cardiogeno da
causa emorragica per compressione.
Le manifestazioni cliniche dello shock cardiogeno possono essere: ipotensione, tachicardia
(compenso vegetativo), aumento del consumo di ossigeno da parte del miocardio (le cellule cercano
di compensare la riduzione della perfusione mediante un aumento dell’estrazione di ossigeno a
livello mitocondriale), polso piccolo (pressione al polso è minore e il polso diviene quasi
impercettibile). Le caratteristiche principali del polso periferico sono frequenza, ampiezza e ritmo.
Queste sono le prime cose che cambiano in una condizione di shock cardiogeno rispetto al soggetto
sano perché se c’è un’anomalia del funzionamento della fisiologia del cuore cambierà, ovviamente,
il ritmo e l’ampiezza del polso: il polso si dice “piccolo” in questi soggetti perché la pressione sistolica
è ridotta.
Semeiologicamente il paziente si presenterà tachipnoico (aumento della frequenza respiratoria) che
è ben differente dalla polipnea che, differentemente, è un aumento del numero di escursioni
respiratorie (per cui vi sarà una maggiore espansione toracica con un maggior volume respiratorio
totale) ma questi soggetti in shock cardiogeno non hanno la forza per aumentare l’espansione
toracica e realizzare una polipnea.
Sono soggetti pallidi, freddi e sudati perché vi è una vasocostrizione cutanea con una esclusione
del territorio circolatorio cutaneo per effetto dei meccanismi di compenso prima citati che cercano
di redistribuire il flusso ematico agli organi nobili, risparmiando il più possibile dalla circolazione i
distretti che non sono fondamentali quali cute, muscoli e apparato digerente. Tali pazienti si
mostrano sudati perché lo stimolo compensatorio adrenergico (adrenalina) induce la secrezione di
sudore da parte delle ghiandole eccrine sudoripare che presentano proprio le terminazioni nervose
ortosimpatiche.
Ancora, vi è una riduzione del tempo di riempimento capillare e questo fenomeno si può
apprezzare semplicemente prendendo la mano del paziente e schiacciando fra le dite il letto
ungueale delle dita del paziente in stato di shock, il quale diventa improvvisamente pallido: in un
paziente in shock, il tempo di acquisizione del normale colorito ungueale dopo decompressione
del letto ungueale è molto più lungo rispetto ad un paziente sano e questo dimostra che vi è una
riduzione del tempo di riempimento capillare in un paziente con shock cardiogeno rispetto ad un
paziente i buono stato di salute e perfusione.
Sempre a causa della produzione di adrenalina e noradrenalina il soggetto in shock cardiogeno si
presenta confuso, ansioso e agitato.
Ci sarà anche un aumento della pressione bloccata a livello dell’arteria polmonare anche se questo
è un segno che non si può valutare semeiologicamente, bensì si potrà valutare il decremento della
perfusione renale a causa dell’entrata in funzione del compenso del sistema RAAS: il risultato è
l’oliguria con conseguente riduzione di produzione di volume urinario. Se c’è oliguria bisogna
cateterizzare il paziente per monitorare l’output urinario nel tempo. Alternativamente, esiste un
apparecchio denominato urinometro che misura l’output esatto di urina che viene prodotta
nell’unità di tempo. Questo è importante da considerare in una situazione di shock cardiogeno con
oliguria in quanto il persistere dell’oliguria indica che l’organismo sta continuando a compensare
attraverso i meccanismi biochimici e attraverso l’attivazione del sistema RAAS: se questo si
mantiene costante, nonostante i nostri interventi, vuol dire che tali interventi non sono stati
sufficienti a rimuovere la causa eziologica alla base della condizione di shock cardiogeno nel paziente
e quindi si rende indispensabile intervenire ulteriormente per modificare la situazione eziologica di
base per poter tornare a rivedere l’aumento della produzione urinaria, ritornando ad una diuresi
normale che è indice di compenso totale alla situazione di shock cardiogeno.
L’oliguria e, più in generale, la funzione urinaria nel paziente in stato di shock cardiogeno è l’indice
più importante per tutte le condizioni di shock.

• Shock ipovolemico

Lo shock ipovolemico è determinato da una riduzione del volume del fluido intravascolare
(ipovolemia vera). Vi può essere un’ipovolemia da perdita di sangue in toto come l’emorragia, ma
vi può essere anche una perdita di solo plasma (plasmorragia) come nel caso del drenaggio di una
fistola (comunicazione preternaturale e non anatomica fra ambiente esterno e ambiente interno),
oppure, ancora, tramite perdite gastrointestinali (diarrea e vomito), diabete insipido (poliuria),
iperglicemia (diabete mellito, poliuria), diuresi alterata.
Quindi, un’ipovolemia può essere (1) emorragica, (2) plasmorragica o (3) per disidratazione.
L’ipovolemia può anche essere definita come ipovolemia relativa quando il liquido non vi è una vera
e propria perdita esterna di liquido, bensì tale liquido si muove dallo spazio intravascolare allo
spazio extravascolare: tutte quelle condizioni che provocano edema come, ad esempio, durante le
condizioni infiammatorie acute diffuse oppure tutte le condizioni che mostrano un riscontro di
ipoproteinemia come, ad esempio, durante epatopatie con conseguente riduzione della funzione
epatica di produzione di albumina e conseguente riduzione della pressione oncotica del sangue
circolante che porta ad un riversamento del fluido nel terzo spazio al fine di compensare la pressione
oncotica ridotta nel lume intravasale. Altra situazione che comporta l’instaurarsi di un’ipovolemia
relativa è l’insufficienza renale, dove si assiste alla comparsa di edemi per aumento della quota di
fluido circolante all’interno dei vasi sanguigni derivante da una non corretta funzione emuntoria
dei reni; quel volume di fluido che passa nel terzo spazio non è un volume disponibile alla
circolazione sanguigna e, quindi, all’adeguata perfusione di tutti i tessuti: in questo modo si realizza
un’ipovolemia relativa.
Per cui, ricapitolando, un’ipovolemia relativa o assoluta va a ridurre il volume di sangue circolante
con conseguente riduzione del ritorno venoso al cuore e conseguente riduzione del volume
sistolico e riduzione anche della frazione d’eiezione ventricolare del cuore con conseguente
riduzione maggiore dell’apporto di ossigeno ai tessuti periferici e ipoperfusione tissutale che
provocherà, infine, un danno cellulare più o meno esteso per riduzione del metabolismo cellulare.

• Tipi di emorragia
L’emorragia è una delle condizioni cliniche d’urgenza che riveste maggior importanza dal punto di
vista chirurgico. Le emorragie possono essere classificate in differenti tipi e in differenti modi:
1. Emorragia interna
2. Emorragia esterna
Le emorragie esterne sono causate da una ferita, una soluzione di continuo, che va ad interrompere
la continuità dei vasi sanguigni. Quindi, se c’è un’interruzione dei vasi sanguigni l’emorragia si può
presentare, a seconda del tipo di vaso che è stato reciso, come:
1. Emorragia arteriosa
2. Emorragia venosa
È importante sapere e saper distinguere se un’emorragia sia venosa o arteriosa perché cambiano i
modi e i tempi d’intervento da parte del chirurgo. Ad esempio, se si presenta al pronto soccorso un
paziente con una frattura esposta e con i segni e i sintomi di un’emorragia in corso, è importante
capire se si tratta di un’emorragia arteriosa o venosa. Possiamo discernere questa differenza
sostanziale andando ad osservare il modo in cui il sangue fuoriesce dalla lesione: se il sangue
“zampilla” in maniera copiosa siamo davanti ad un’emorragia arteriosa perché le arterie
posseggono ancora la trasmissione sisto-diastolica che si realizza a livello ventricolare e che ne
conferisce un flusso sinusoidale; mentre per quanto riguarda le vene, non possedendo tale flusso
sinusoidale, in quanto il sangue è già passato dal circolo capillare che ne ha ridotto notevolmente la
pressione, se recise si vedrà fuoriuscire da esse un flusso di sangue regolare e continuo e quindi
nelle emorragie venose ci sarà un flusso continuo e laminare senza alcun tipo di zampillio.
È bene che vengano distinte questi due tipi di emorragia perché cambia il livello sul quale vado a
compiere l’intervento di emostasi: nelle emorragie arteriose si esegue un’emostasi a monte e
prossimalmente rispetto al vaso reciso, differentemente nelle emorragie venose si esegue
un’emostasi a monte e distalmente rispetto al vaso reciso, e questo lo si deduce dalla direzione
differente che il sangue possiede all’interno dei due circoli (flusso centrifugo, rispetto al cuore, per
le arterie e flusso centripeto, rispetto al cuore, per le vene).

Le emorragie interne, differentemente, sono quelle emorragie che intervengono in due tipi di
cavità, a seconda della natura di queste:
1. Cavità naturali preesistenti e provviste di parete propria ma non provviste di comunicazione
con l’esterno: cavità addominale, cavità pelvica.
2. Ematomi ovvero cavità neoformate chiuse.
Un’altra eventualità di emorragia interna sono quelle che intervengono in cavità che sono
comunque in comunicazione con l’esterno a mezzo di sfinteri e orifizi come, ad esempio, l’apparato
digerente o l’apparato genito-urinario e l’apparato respiratorio e, quindi, in questo caso sarà
un’emorragia interna e aperta.
Dunque, un’altra differenza sostanziale all’interno delle emorragie interne riguarda quella che è la
comunicazione con l’esterno, affinché si possano riconoscere:
1. Emorragie interne chiuse: sono le emorragie interne propriamente dette.
2. Emorragie interne aperte
La differenza sostanziale è che nell’emorragia interna chiusa non vedremo mai il sangue all’esterno,
mentre nell’emorragia interna aperta il sangue riuscirà ad arrivare all’esterno del corpo del paziente
mediante quelli che sono gli orifizi e gli sfinteri con una latenza più o meno rapida a seconda della
distanza fra la sorgente dell’emorragia e l’apertura verso l’esterno. Ad esempio, un’emorragia
dell’albero respiratorio ha una latenza minima perché tale emorragia va a localizzarsi a livello dei
bronchi e delle alte vie respiratorie con conseguente stimolo immediato della tosse (riflesso nervoso
di difesa) che si manifesta mediante emottisi o emoftoe, per permettere la liberazione degli spazi
respiratori dell’albero bronchiale. A tal proposito, pensiamo ad un trauma penetrante nel torace o
ad un’infiltrazione del vaso polmonare da parte di un processo flogistico o neoplastico con
conseguente perdita di sangue all’interno nel parenchima polmonare o delle prime vie respiratorie
bronchiali. La differenza tra emottisi ed emoftoe è etimologica, lo dice la parola stessa: la differenza
risiede nella quantità di sangue emesso con l’espettorazione in quanto nell’emottisi si ha emissione
di grandi quantità di sangue, mentre nell’emoftoe si ha una leggera striatura rossa dell’escreato.
L’emottisi si presenta clinicamente attraverso fuoriuscita di sangue dalla bocca mediante la tosse,
sangue che proviene dall’apparato respiratorio per cui è composto da sangue aerato, molto ricco di
ossigeno ed è sangue mescolato con le secrezioni mucose dell’albero bronchiale, ma non solo, in
quanto è presente anche il surfactante (detergente glicoproteico tensioattivo) che rende
l’espettorazione schiumosa, filante, e di colore rosso chiaro-rosato. Questo è importante da
sottolineare perché non sempre, all’osservazione del medico-chirurgo, arriva un paziente che ha
perso sangue con queste caratteristiche e si rende, dunque, necessaria la diagnosi differenziale tra
espettorato e perdita di sangue digestivo dalla bocca. Per facilitare tale diagnosi differenziale si può
chiedere al paziente di mostrare un fazzoletto intriso di materiale espulso dalla bocca contenente
sangue da poter analizzare. Un altro aspetto che può risultare utile da indagare per distinguere una
perdita ematica orale respiratoria o digestiva è chiedere al paziente se tale perdita ematica sia
avvenuta successivamente ad un colpo di tosse o ad un conato di vomito. Il materiale che viene
emesso dall’apparato digerente viene denominato ematemesi e viene emesso successivamente ad
un conato di vomito, non è sangue aerato per cui non è chiaro bensì è di colore molto scuro, definito
color caffeano, ed è frammisto con del materiale alimentare; non sarà mai schiumoso o filante.
Le altre cavità che possono essere in comunicazione con l’esterno come l’apparto digerente e
l’apparato genito-urinario hanno la possibilità di presentare un serbatoio che, nel caso dell’apparato
urinario, è la vescica mentre, nel caso dell’apparato digerente, sono i vari spazi del tubo digerente
stesso. Quindi, la latenza con cui le emorragie interne in una di queste cavità si rende evidente
all’esterno è molto maggiore rispetto a quella dell’apparato respiratorio ma si rende evidente,
comunque, più rapidamente rispetto al normale fluido contenuto all’interno dell’apparato
digerente o genito-urinario perché il sangue possiede un’azione irritante sulle pareti degli organi in
cui viene riversato, per cui ha un effetto di stimolo allo svuotamento più o meno rapido rispetto ad
altri fluidi biologici normalmente presente nella cavità luminali di tali organi ed apparati.
Per cui, per quanto concerne un’emorragia urinaria si renderà manifesto il segno della macro-
ematuria, mentre un’emorragia digestiva potrà dare ematemesi se il materiale sanguigno viene
emesso attraverso la bocca, oppure altre differenti manifestazioni, a seconda del livello al quale
avviene l’emorragia digestiva: difatti, in seguito ad un’emorragia digestiva l’ematemesi non è l’unico
segno clinico che si può rendere noto, bensì il sangue potrebbe essere emesso anche attraverso il
distretto aborale (ano) ed in tal caso le manifestazioni e i segni clinici dell’emorragia digestiva
saranno i più svariati, andando dalla melena (emissione di feci contenenti sangue digerito, che
conferisce alle feci un colore nerastro e un aspetto appiccicoso, per la presenza di sangue con
origine nella parte superiore dell'apparato gastrointestinale come esofago, stomaco o duodeno),
all’enterorragia (espressione generale che definisce l’emissione di sangue frammisto a feci e
proveniente dal tratto gastroenterico inferiore, definito come la porzione di intestino compreso tra
il legamento del Treitz ed il retto), alla ematochezia (feci verniciate di sangue fresco e non digerito
o commiste ad esso, per la presenza di sangue con origine nella parte inferiore dell’apparato
gastrointestinale come tenue e colon), alla proctorragia, (emissione di sangue direttamente dal
canale anale) e alla rettorragia (emissione di sangue direttamente dal sigma o dal retto) a seconda
del distretto intestinale nel quale l’emorragia avviene precisamente e al tipo di sangue che fuoriesce
(digerito o non digerito).
Se per distinguere la sede di emorragia nelle perdite di sangue gastrointestinali basta osservare la
colorazione e la tipologia di sangue che fuoriesce dal paziente, per quanto riguarda, invece,
dell’ematuria una cosa fondamentale da fare dal punto di vista clinico per distinguere la sede del
danno emorragico è la cosiddetta prova dei tre bicchieri: si raccoglie il mitto iniziale, il mitto
intermedio e il mitto finale in tre contenitori sterili differenti e si va a valutare dove c’è una maggiore
quantità di sangue per valutare se questo deriva dalle alte vie renali o dalla vescica. Se il sangue è
presente nel primo contenitore (primo mitto) vorrà dire che quel sangue proviene dall’uretra
(ematuria iniziale); se invece il sangue proviene dalle alte vie urinarie o dal parenchima renale tutta
l’urina sarà sempre verniciata di sangue perché arriva in vescica sempre contenente sangue
derivante dalle alte vie urinarie, per cui tutta l’urina emessa durante la minzione è ematica e tutti
e tre i mitti contenuti nei tre contenitori conterranno urina e sangue (ematuria totale); se invece il
sangue proviene dalla vescica occorre tenere ben a mente un meccanismo fisiologico della funzione
vescicale: la minzione è formata da due tempi. Di questi due tempi, il primo tempo è quello in cui la
vescica si svuota per retrazione elastica della parete vescicale in quanto essa è sovradistesa dal suo
contenuto di urina. Però, una parte dell’urina rimane depositata nella parte più declive della vescica,
denominata “trigono vescicale” che è situato al di sotto dell’orifizio uretrale interno; tale porzione
della vescica si svuota con un meccanismo differente, ovvero per contrazione attiva del muscolo
detrusore della vescica che serve praticamente a spremere la vescica per eliminare tutto il suo
contenuto di urina residuo. Quindi, grazie a questo funzionamento, il sangue -che possiede un peso
specifico maggiore rispetto all’urina- si va a depositare, nel caso di emorragia vescicale, nel trigono
vescicale (parte più declive) e, di conseguenza, nella prima parte della minzione (quella dovuta al
meccanismo di retrazione elastica della parete vescicale) non si vedrà alcuna traccia di sangue con
le urine poiché si va ad emettere urina presente nella porzione superiore della vescica e che
proviene dal rene e dalle alte vie urinarie che non sono interessate da alcun danno emorragico,
mentre solo al termine della minzione, durante il mitto finale depositato nel terzo contenitore
sterile, si svuota anche il trigono vescicale per meccanismo di contrazione attiva del muscolo
detrusore e si noterà la presenza di sangue frammisto alle urine tal per cui questo tipo di ematuria
è definita terminale.
Quindi, l’ematuria in corso di un’emorragia del tratto genito-urinario può essere di tre tipi:
1. Ematuria inziale: derivante da un’emorragia uretrale.
2. Ematuria totale: derivante da un’emorragie renale o delle vie urinarie superiori.
3. Ematuria terminale: derivante da un’emorragia vescicale depositatasi a livello del trigono
vescicale.
14/10/2021

Shock ipovolemico (continua)

L’ipovolemia può essere assoluta o relativa, quest’ultima si verifica in condizioni patologiche in cui, a causa
di patologie dei vasi o gravi condizioni di ipertensione arteriosa o ristagno venoso o grave aumento del
volume circolante (es. ritenzione idrica per Insufficienza Renale o diabete), grandi quantità di liquido
passano dallo spazio intravascolare all’interstizio (spazio extravascolare o terzo spazio), dunque quel liquido
diventa esente dalla circolazione, dunque, pur essendo edematosi, questi pazienti sono disidratati, questo
liquido non è più disponibile per la perfusione di tutti i letti capillari nella misura adeguata.

Partendo da una condizione di ipovolemia assoluta o relativa,


il volume circolante risulta ridotto, di conseguenza si riduce il
ritorno venoso e la gittata sistolica, quindi la gittata cardiaca
e questo porta al rinnovo della cascata di cui abbiamo già
parlato, ovvero riduzione di ossigenazione a livello tissutale e
cellulare e danno sul metabolismo cellulare.

Come reagisce l’organismo a una condizione di ipovolemia?

Dipende dalla gravità della perdita di volume, la quale


dipende anche da fattori coesistenti: dal tipo di danno

che ha determinato l’ipovolemia, dalla severità dello stesso, perché naturalmente maggiore è la gravità e
l’estensione del danno, maggiore è il coinvolgimento sistemico del paziente, ovvero egli avrà conseguenze
sistemiche legate anche, ad esempio, all’immissione in circolo di grandi quantità di mediatori della flogosi
che vengono attivati dal trauma, oppure all’immissione in circolo di endotossine o esotossine se ci sono
traumi esposti, e così via;

anche l’età è un fattore che modifica la risposta dell’organismo perché le capacità di recupero e compenso
di un giovane rispetto a quelle di un anziano sono notevolmente diverse, soprattutto le riserve sono minori
nell’anziano;

le condizioni generali del paziente sono di solito compromesse nel paziente anziano, egli di solito è
portatore di comorbidità, di patologie croniche correlate all’età o metaboliche, che rendono ancor più
precarie le capacità di recupero e di compenso.

Come classifichiamo le emorragie in base alla fonte: esterna o interna.

Interna: si distingue emorragia Interna in cavità chiuse o in cavità comunicanti con l’esterno.

Possiamo classificare le emorragie anche in emorragia arteriosa e venosa, e i metodi di riconoscimento


nell’emorragia esterna (ne abbiamo già parlato).

L’emorragia può essere primaria, ovvero immediatamente visibile nell’occasione stessa del danno che l’ha
determinata, ma anche tardiva e quindi manifestarsi nelle 24 h successive al trauma o alla lesione perché il
vaso può essersi danneggiato in modo non completo, ma gli effetti del trauma sulla parete del vaso
(contusioni, lacerazioni, ecc) possono indebolirlo e rendere visibile l’emorragia nelle 24 h successive.

L’emorragia è secondaria se si manifesterà da 7-14 giorni dopo il trauma che ha determinato il danno
perché nella fase iniziale il danno è riparato dalla formazione di un coagulo, che poi va incontro a fibrinolisi
e alla caduta dell’escara, se la parete non ha avuto il tempo di formare tessuto cicatriziale, si rende
evidente la soluzione di continuo sul vaso che prima non si era resa evidente.
Nei bambini il volume circolante non è pari a 5L come nell’adulto giovane, come nelle persone anziane, per
questo preferiamo utilizzare una scala percentuale piuttosto che termini assoluti per classificare la severità
delle emorragie. Se valutiamo l’emorragia sulla base della quantità di sangue perduto possiamo classificare
emorragia LIEVE se la quantità è inferiore a 500 ml, MODERATA se è fra 500 ml e 1 l, SEVERA se la perdita è
maggiore di 1 l. Piuttosto che parlare in termini assoluti, però, è preferibile classificare la perdita in classi
percentuali:

1) 1a classe <15% del volume circolante


2) 2° classe: 15%-30%
3) 3° classe: 30%-40%
4) 4° classe: >40%.

L’emorragia è classificabile anche in acuta (il sangue viene perso in un breve periodo di tempo) e cronica
(costante e continua nel tempo, ma in piccola quantità, tale da non compromettere l’emodinamica). La
conseguenza di un’emorragia cronica in realtà è piuttosto l’anemia che non lo shock, quando parliamo di
shock ci riferiamo soprattutto alle emorragie acute.

CAUSE EMORRAGIE:

1) Trauma
2) Infezioni
3) Malformazioni congenite
4) Iatrogene (in seguito ad intervento chirurgico in cui non sia stata fatta adeguata emostasi)
5) Malattie sistemiche come infezioni virali o allergie
6) Anomalie dei fattori della coagulazione (emofilia, mieloma multiplo)
7) Anomalie piastriniche da danno congenito o settico o neoplastico

Cosa fa l’organismo per compensare l’emorragia?

È simile a quanto abbiamo visto nello shock cardiogeno perché si attivano le stesse vie. L’attivazione
neurogena immediata attraverso chemocettori e barocettori che attivano l’ortosimpatico in prevalenza
rispetto al parasimpatico e inoltre attivano la secrezione adrenocorticale che provoca la produzione di
adrenalina e noradrenalina. Successivamente si ha anche attivazione della midollare del surrene e
attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone.

La conseguenza è vasocostrizione per effetto dell’ortosimpatico e un effetto inotropo e cronotropo


positivo, per cui tachicardia. Inoltre, adrenalina e soprattutto noradrenalina provoca una costrizione dei
grossi vasi venosi di capacitanza e ne riduce il ristagno venoso per aumentare il ritorno venoso al cuore.

Un altro meccanismo di compenso è la tachipnea, ovvero aumento della frequenza degli atti respiratori.

In più, nel tentativo di migliorare il ritorno venoso al cuore, si ha anche un fenomeno caratteristico ovvero
tremore o contrazioni cloniche di grossi gruppi muscolari, soprattutto agli arti inferiori, ma anche agli arti
superiori e all’addome, che rappresentano un tentativo di far aumentare il ritorno venoso al cuore perché
sapete che i muscoli sono attraversati da vasi venosi provvisti di valvole e quindi la contrazione dei muscoli
ha un effetto di pompa sulle grandi vene e questa contrazione consente al muscolo di indurre un aumento
del ritorno venoso pompando, con la sua contrazione, il sangue contenuto in queste grandi vene, il cui
reflusso è garantito dal fatto che queste vene sono provviste di valvole e quindi il flusso è solo centripeto,
ovvero verso il cuore (se le valvole sono continenti).

Inoltre, aumenta il riassorbimento di liquidi dall’interstizio con l’intento di favorire l’aumento del ritorno
venoso.

Aumenta la secrezione di adrenalina, noradrenalina, vasopressina, renina-angiotensina-aldosterone.


Il terzo tempo del compenso avviene a livello midollare dove viene indotta la produzione di eritropoietina,
che stimola la produzione di globuli rossi e la sintesi di emoglobina (in risposta alla perdita di globuli rossi
dovuta all’emorragia).

Inoltre, avviene l’induzione a livello epatico della sintesi proteica per sostituire le proteine del plasma che
sono state perdute nell’emorragia.

Infatti, quando si effettuano trasfusioni, è necessario riperfondere sia con globuli rossi sia con plasma, in
quanto viene persa sia la parte liquida che la parte corpuscolata.

Adrenalina e noradrenalina hanno effetto anche sulle cellule muscolari lisce contenute nelle capsule dei
parenchimi del fegato e della milza, i quali, come nei vasi di capacitanza, si contraggono. Di solito, nel
compenso immediato, tra 500 e 1000 ml di sangue possono essere restituiti al circolo attraverso la
contrazione della capsula Glissoniana del fegato e di quella della milza.

Nel momento in cui immediatamente si determina una


condizione di perdita di liquidi o un danno cardiaco come
un infarto, la pressione arteriosa media crolla
istantaneamente, portando a conseguenze che a loro
volta portano all’ipoperfusione. Immediatamente
entrano in funzione i meccanismi di compenso
neurogeno, quelli di stimolazione della corticale del
surrene e quella tardivi attraverso la stimolazione
dell’ipofisi e quelli ancora più tardivi con produzione di
epo e sintesi proteica epatica. I meccanismi più rapidi di
compenso migliorano la condizione del paziente, ma a
un certo punto si esauriscono e se non si fa niente per
portare a compenso definitivo il paziente intervenendo
dall’esterno supportando i meccanismi di compenso
propri dell’organismo (ad esempio infondendo liquidi, plasma, emazie per aumentare il volume o lavorando
con farmaci per migliorare l’effetto di pompa del cuore), allora questi meccanismi andranno verso lo
scompenso definitivo.

VARI TIPI DI SHOCK VASOGENICO: legato alla maldistribuzione del circolo per perdita della possibilità di
controllo della distribuzione dei circoli capillari, ovvero incapacità di avere sotto controllo la distribuzione
preferenziale del circolo verso gli organi nobili piuttosto che verso gli organi con maggiore resistenza. Lo
shock vasogenico si può avere in varie condizioni, di cui la più frequente è lo SHOCK NEUROGENO.

Lo shock neurogeno è uno shock che si genera quando c’è un danno traumatico o infettivo o metabolico a
livello del midollo spinale, al di sopra della quinta vertebra toracica, interferendo sul controllo del centro di
controllo cardiovascolare. Ad esempio, si può avere una condizione del genere in conseguenza di
un’anestesia spinale, se non condotta correttamente, sbagliando ad individuare lo spazio in cui infiltrare il
farmaco anestetico. Perché succede? Il controllo neurogeno degli sfinteri pre capillari è legato al bilancio
tra l’azione dell’orto e del parasimpatico. Dove sono allocate queste parti del SN vegetativo? I centri
dell’ortosimpatico rispondono alla catena laterale dell’ortosimpatico in posizione paravertebrale, ma non
solo, rispondono all’azione dei centri che si trovano anche nel midollo allungato. Invece, i gangli del
parasimpatico si trovano sia tra S2-S4, sia nel tronco encefalo (nuclei dei nervi cranici-> sono esterni al
midollo spinale). Dunque un’interruzione della conduzione a livello spinale blocca il controllo
dell’ortosimpatico ma non quello del parasimpatico, quindi si ha una prevalenza del parasimpatico, dunque
un’azione in senso vasodilatatore -> rilascia gli sfinteri pre capillari. Questo avviene normalmente a livello
periferico e risponde a delle esigenze locali, ma quando c’è un
danno neurogeno che interrompe il controllo dell’ortosimpatico
e fa prevalere il parasimpatico, ha come risultante una perdita
del controllo di tutto l’organismo, quindi una vasodilatazione
diffusa (anche dei vasi venosi di capacitanza). Quindi avviene una
riduzione della pressione sanguigna per un minor ritorno venoso
al cuore. Perché gran parte del sangue viene disperso per via di
questa vasodilatazione arteriosa e venosa e ristagna nei letti
capillari e nei vasi di capacitanza. Se si riduce il ritorno venoso, la
risultante è una riduzione della gittata sistolica e dunque della
gittata cardiaca. Tra l’altro, siccome sappiamo che normalmente
ad una riduzione della gittata cardiaca corrisponde una risposta
di compenso operata dall’ortosimpatico, in questo caso
l’ortosimpatico è bloccato e quindi anziché avere aumento della
frequenza, avremo una riduzione della frequenza che peggiorerà
ovviamente la gittata cardiaca. Di nuovo, avverrà un’ipoperfusione dei tessuti e danno metabolico.

Manifestazioni cliniche:

1)ipotensione

2)bradicardia

3) perdita del controllo del centro di termoregolazione -> perdita di controllo della temperatura -> pz
arrossati, con cute secca e arida e molto caldi (poichilotermia: la temperatura corporea non è più
controllata attivamente ma si adatta all’ambiente, come nei rettili, animali a sangue freddo, solo che loro
hanno un metabolismo endotermico e quindi hanno necessità di acquisire calore dall’ambiente, noi invece
lo dobbiamo disperdere il calore dell’ambiente, ma in modo controllato)

SHOCK ANAFILATTICO

Altro tipo di shock vasogenico, legato all’immissione in circolo di grandi quantità di mediatori della flogosi
(citochine e istamina) legate alle degranulazione di grandi quantità di mastociti. Questi mediatori agiscono
soprattutto dal punto di vista vasoattivo perché danno vasodilatazione, con apertura degli sfinteri pre
capillari. Questo normalmente ha uno scopo protettivo, perché normalmente i mediatori della flogosi
vengono innescati quando c’è un danno di qualunque genere e la loro presenza in quella sede serve per far
fluire maggior quantità di sangue perché c’è una vasodilatazione localizzata e permette un maggior afflusso
di cellule della flogosi. Se, però, è diffuso a tutto l’organismo, questo diventa un problema perché non è più
sotto controllo la regolazione dell’apertura degli sfinteri pre capillari. Inoltre, i mediatori della flogosi
aumentano la permeabilità capillare e dunque aumentano la quantità di liquido nel terzo spazio.

Come si manifesta lo shock anafilattico? Il paziente ha le manifestazioni classiche del paziente scioccato,
ovvero ipotensione, tachicardia, è fortemente ansioso, confuso, ha prurito diffuso, è arrossato, ha un senso
di morte imminente, dolore toracico perché ha la riduzione del ritorno venoso e dunque ipoperfusione
coronarica e addirittura può avere la perdita del controllo degli sfinteri.

La liberazione in grande quantità dei mediatori della flogosi determinerà un edema diffuso, in particolare a
livello di labbra, lingua e palato molle, determinando una condizione nota come angioedema. Il palato
molle può essere talmente edematoso da impedire il flusso dell’aria attraverso il rino e orofaringe. Si può
avere spasmo della glottide e il risultato sarà la produzione di rumori come fischi e sibili inspiratori (perché
in fase inspiratoria l’aria nel tubo respiratorio va in pressione negativa al di fuori del torace e dunque le
pareti tendono a restringersi e, avendo già un lume ridotto, possono ostruirsi e impedire il passaggio del
flusso di aria).

SHOCK SETTICO

Altro tipo di shock vasogenico, lo shock settico è una condizione legata ad una severa batteriemia. I batteri
in circolo producono esotossine e attivano i mediatori della flogosi: coesistenza di due fattori di danno,
ovvero esotossine ed endotossine (prodotte dalla cascata della flogosi). La risposta sistemica all’infezione è
l’infiammazione diffusa. Se è una condizione in cui c’è la prevalenza dei fattori aggressivi rispetto ai fattori
difensivi, questo innesca un circolo vizioso e la batteriemia aumenta invece di diminuire, producendo
sempre la stessa quantità di esotossine, sia metaboliti batterici sia frazioni batteriche distrutte dai
granulociti, cosa che attiverà sempre di più i fattori della flogosi -> circolo vizioso che si autosostiene. In
questi pazienti è essere presente una ipotensione refrattaria all’infusione di liquidi, anzi essa aumenta la
diffusione di liquido nel terzo spazio dal momento che è perso anche il controllo capillare, dunque la
necessità di rimuovere la causa per ottenere il controllo di questa condizione di shock.

A differenza delle altre condizioni di shock in cui le condizioni sono istantanee e dunque trattabili con
altrettanta rapidità, nel caso dello shock settico la rimozione della causa consiste in una terapia antibiotica,
che dovrebbe essere mirata, dunque richiede un tempo di latenza necessario per eseguire la coltura dei
liquidi (soprattutto l’emocoltura) e la formulazione dell’antibiogramma (48-72 h per tutto questo).

Il compenso può venir meno in un tempo più breve di quello a noi necessario per rimuovere la causa.
Infatti, la mortalità per shock settico è molto alta, può arrivare fino al 50% ed è legata al tipo di batterio che
ha causato la sepsi (se Gram – o Gram +) e dal tipo di tossine che producono.

La batteriemia agisce a diversi livelli: promuovendo la


produzione di fattori della flogosi, citochine come TNF o
IL-1, istamina etc che hanno varie azioni di danno,
determinando in modo diretto una riduzione della
funzionalità di contrazione del miocardio,
vasodilatazione periferica, aumento della permeabilità
capillare. Inoltre, il danno endoteliale può indurre la
formazione di microemboli, i quali potranno andare ad
escludere dei territori capillari, anche perché essi sono
determinati anche in modo diretto dal danno endoteliale
causato dai germi, a loro volta causa della batteriemia in
questione. Inoltre, la batteriemia attiva il SNC e il sistema
endocrino con una conseguente vasocostrizione
selettiva, l’opposto di quello che normalmente serve:
anziché determinare vasocostrizione a livello periferico e vasodilatazione a livello cerebrale e cardiaco, si ha
l’effetto contrario (PARADOSSO) -> maldistribuzione del volume di sangue circolante. Questa
maldistribuzione del volume circolante attiverà l’abituale cascata dell’ipossiemia, con riduzione della
perfusione tissutale e danno metabolico, peggiorato ulteriormente dal fatto che il sistema endocrino
determina uno stato ipermetabolico che aumenta la richiesta di ossigeno a livello cellulare.

Lo shock settico (insieme allo shock emorragico) sono di estrema importanza in ambito chirurgico.

Gli antibiotici in chirurgia si usano per fare profilassi antibiotica prima degli interventi chirurgici, e anche nel
post-operatorio, per prevenire l’insorgenza di eventuali infezioni. Se il paziente presenta i segni di
infezione, allora il trattamento equivale ad una terapia. L’aggressione batterica c’è sempre in un intervento
chirurgico, e da quando si sono introdotti i meccanismi di asepsi e antisepsi e l’avvento degli antibiotici,
allora è stato possibile combattere ed abbattere le complicanze infettive nel post-operatorio.
Manifestazioni cliniche shock settico:

ipercoagulabilità, motivo per cui si formano i microemboli che portano a esclusione dal circolo di alcuni letti
capillari; riduzione della fibrinolisi; uno stato iperdinamico (essendo diffusamente inibito il controllo sugli
sfinteri precapillari con diffusa vasodilatazione, si riduce la pressione diastolica molto più di quanto si riduca
la sistolica). Il paziente è tachicardico, tachipnoico e polipnoico, perde del controllo della temperatura (il
paziente è fortemente ipertermico), riduzione della gittata urinaria, stato vegetativo ridotto nel senso
dell’obnubilamento, ovvero riduzione della vigilanza. A volte possono esserci problemi gastrointestinali
come diarrea e vomito e spesso ci può essere, come conseguenza della diffusione delle citochine
(soprattutto TNF E IL1), la compromissione a livello bronchiale e insufficienza respiratoria.

DOMANDA: il fatto che nello shock neurogeno non sussista un compenso da parte del sistema
ortosimpatico e dunque si presenti bradicardia piuttosto che tachicardia, cambia i tempi di gestione
dell’emergenza da parte del medico?

RISPOSTA: non cambia i tempi, bensì i modi. Nel senso che l’azione farmacologica in questi pazienti è
fondamentale. Gli anestesisti sono costretti ad utilizzare grandi quantità di adrenalina, noradrenalina,
farmaci vasoattivi per recuperare la situazione di vasodilatazione, oltre che stimolare l’azione cardiaca con
farmaci inotropi e cronotropi positivi che si oppongono al parasimpatico. Si avvalgono anche di farmaci che
bloccano il parasimpatico, ovvero i parasimpaticolitici (muscarinici).

I tempi nello shock devono sempre essere immediati. Nello shock neurogeno da causa traumatica (se c’è
stata lesione del midollo), in tal caso c’è poco da intervenire sulla causa, il paziente sarà sempre dipendente
dalla terapia farmacologica. Invece, se il danno che ha causato lo shock neurogeno è la somministrazione in
modo incongruo di un’anestesia spinale, allora ci sono delle manovre che si possono mettere in atto, sia dal
punto di vista di postura del paziente che dal punto di vista farmacologico, che antagonizzino l’azione di
questi anestetici somministrati e il danno viene meno. La sifilide è una delle possibili cause della
siringomielia, danno sul midollo spinale che può essere talmente alto da dare uno shock neurogeno, ma per
una malattia infettiva, quindi si cura con antibiotici.

Quadro sinottico complessivo dei vari tipi di shock.

CVP/PWP= PRESSIONE VENOSA


CENTRALE

CO= GITTATA CARDIACA

PVR= RESISTENZE PERIFERICHE

ATTRAVERSO QUALI FASI PASSA LO SHOCK?

Passa da uno stadio iniziale che può essere non evidente, soprattutto se la causa che lo ha determinato non
ha infierito sull’organismo in modo rapido, in cui l’organismo passa da un metabolismo di tipo aerobio ad
uno anaerobico, in cui vi è incremento della produzione di acido lattico e quindi una mutazione del pH del
sangue circolante in senso acidosico, che deve essere corretto. A questa fase iniziale, in cui l’organismo
semplicemente recepisce la situazione mutata alla quale deve reagire, segue immediatamente la fase di
compenso (meccanismi neurogeni, ormonali, biochimico a livello periferico) nel tentativo di opporsi
all’eccessiva durata dello shift del metabolismo che indurrebbe un’acidosi non tollerabile.

Nelle condizioni di ipovolemia o causa cardiogena, si ha


riduzione della gittata cardiaca che significa riduzione
della pressione arteriosa e dunque della pressione
idrostatica a livello capillare -> riattira liquidi dal terzo
spazio verso il lume vascolare nel tentativo di
recuperare liquidi e migliorare il ritorno venoso. Questa
attiva l’ortosimpatico (vasodilatazione a livello
coronarico, vasocostrizione a livello periferico e stimolo
dei beta recettori e quindi aumento della frequenza
cardiaca e della forza di contrazione del cuore). Questa
vasocostrizione periferica riduce l’afflusso renale e
dunque un risparmio di liquidi attraverso l’attivazione
del sistema renina-angiotensina con riduzione della
produzione di urina per evitare la perdita di liquidi in
eccesso. Avviene l’attivazione del sistema renina-
angiotensina, il rilascio di aldosterone, l’attivazione
dell’asse ipotalamo-ipofisario e dunque produzione di
ADH. Questi meccanismi hanno come scopo finale
quello di mantenere il volume circolante e aumentare il
ritorno venoso. Il sistema renina-angiotensina collabora
con l’azione vasocostrittiva di adrenalina e
noradrenalina che fa ridurre l’afflusso di sangue a livello
gastrointestinale, della cute etc per aumentare il ritorno
venoso al cuore e agire da stimolo sul cuore.

È lo stimolo dei barocettori, soprattutto a livello del glomo carotideo e dell’arco dell’aorta che attivano il
sistema vegetativo per risposta alla riduzione della pressione arteriosa.

Un effetto collaterale dello stimolo dell’ortosimpatico è l’inibizione della motilità del tratto
gastrointestinale che può portare fino all’ileo paralitico. La cute è fredda e sudata, tranne che nello shock
settico e nella prima fase dello shock neurogeno in cui il paziente è caldo e arrossato. In questa fase di
compenso a livello polmonare si aprono shunt artero-venosi che servono a migliorare il ritorno venoso nel
lato di sinistra, ma così aumenta lo spazio morto (spazio alveolare non disponibile agli scambi gassosi) e di
conseguenza si ha una riduzione dei livelli di ossigeno nel sangue arterioso-> ciò porta a tachipnea e
polipnea per opporsi alla perdita di saturazione di ossigeno nel sangue arterioso che esce dal circuito
polmonare.

Se il deficit di perfusione viene corretto, il paziente va incontro a remissione e non ci sono sequele in questa
fase. Se il deficit non viene corretto, lo shock entra nella fase progressiva in cui i meccanismi di compenso
iniziano ad esaurirsi e inizierà un percorso che porterà alla cosiddetta disfunzione multiorgano.

Persistendo la causa, persiste l’ipotensione, il simpatico è attivato in condizioni massimali (sia i recettori
alfa che beta), persiste la vasocostrizione negli organi periferici tra cui rene, polmoni e visceri. Queste azioni
hanno in prima battuta uno scopo di compenso, ma persistendo questa condizione il risultato è ipossia a
livello di questi tessuti che vanno incontro ad acidosi progressiva e perdita delle loro funzioni (metabolismo
solo anaerobico -> acidosi metabolica). La stimolazione beta adrenergica ha effetto vasodilatatorio sulle
coronarie, ma ha effetto inibitorio a lungo termine sulla funzione cardiaca, riducendone la contrattilità,
aumentando la frequenza fino ad una tachicardia insostenibile e il risultato è una riduzione anziché un
aumento della gittata che peggiorerà l’ipossiemia.

La permeabilità capillare è danneggiata, con passaggio di macromolecole nel terzo spazio ed edema
interstiziale diffuso, fino all’anasarca (tutti gli organi periferici, la cute, i muscoli e gli organi parenchimatosi
sono fortemente edematosi, anche i polmoni e questo riduce la possibilità di scambi gassosi per
sopravvenenza di edema polmonare). La stimolazione beta adrenergica determina anche broncocostrizione
e riduzione della capacità residua con aumento dello spazio morto respiratorio. L’edema passa
progressivamente a livello degli alveoli, si parla di edema polmonare vero, si riduce la concentrazione di
surfactante e viene impedita la completa perfusione gassosa degli alveoli, peggiora la differenza di
saturazione di ossigeno a livello del sangue refluo polmonare, peggiora la tachipnea e aumenta il lavoro
necessario per gli atti respiratori (questi pazienti hanno enorme difficoltà nell’espansione polmonare, non
basta più la normale attività muscolare del diaframma, ma intervengono i muscoli accessori della
respirazione). Dunque il paziente ha tachipnea e polipnea.

La gittata cardiaca inizia ad esaurirsi, si riduce la perfusione periferica, l’ipotensione si aggrava, il polso
periferico diventa piccolo e debole, si nota pallore o cianosi delle estremità. Il paziente diventa disritmico,
ha i segni elettrocardiografici dell’ischemia fino all’infarto e il punto finale di questa condizione è il collasso.
Il danno vascolare a livello dei tessuti periferici a cui è stato sottratto il circolo per lungo tempo, inizia a
determinare danni anche a livello gastrointestinale -> fenomeni di necrosi delle mucose, fino a formazione
di ulcere che danno sanguinamenti, che eventualmente peggiorano la condizione di ipovolemia.
L’interruzione della continuità delle barriere mette in comunicazione ambiente esterno ed interno
dell’organismo con possibilità di traslocazione batterica, la quale può aggravare la condizione di sepsi
generalizzata.

Ci sarà lo scompenso anche a livello del fegato, conseguenza di questa prolungata condizione di ipossia, con
danno agli epatociti. Questo si manifesterà con ittero, aumento delle transaminasi e altri enzimi epatici,
perdita delle funzioni, di cui la più importante è la sintesi proteica, quindi riduzione delle proteine che
dovrebbero mantenere la normale pressione oncotica, e riduzione anche della produzione delle proteine
della coagulazione, con aumento del rischio di CID (ulteriore peggioramento dell’emorragia).

A livello renale, la prolungata ischemia darà danno parenchimale: necrosi tubulare. L’entrata in funzione del
sistema renina-angiotensina-aldosterone e di ADH ha lo scopo di ridurre la produzione di urina e un
significato di compenso per il mantenimento del volume circolante, ma progressivamente le capacità di
riassorbimento a livello tubulare vengono meno e dunque si passerà da oliguria e anuria (condizioni di
compenso) ad una poliuria da sblocco dovuta al fatto che il rene non è più in grado di controllare il
riassorbimento dei liquidi.

Si passa da uno stadio progressivo ad uno stadio irreversibile in cui si ha esacerbazione del metabolismo
anaerobico, accumulo di acido lattico, aumento della permeabilità capillare e il risultato finale sarà l’arresto
respiratorio e l’arresto cardiaco (sindrome multiorgano).

Sindrome multiorgano: profonda ipotensione e ipossia, la tachicardia peggiora, il flusso coronarico


diminuisce, il cuore non è in grado di sostenere più alcuna attività, portando infine all’ischemia cerebrale. Il
recupero di questi pazienti è inverosimile.

COSA FARE CON UN PAZIENTE IN SHOCK: dobbiamo occuparci del controllo delle funzioni di base (ECG, BP
o pressione sanguigna, CVP o pressione venosa centrale e PAWP), controllo della temperatura, controllo
delle condizioni della cute, misurazione della portata urinaria (deve essere non <0,5 ml/kg/h, 40 ml/h in un
soggetto di 80 kg, motivo per cui dobbiamo svuotare la vescica con un catetere e partire da zero per
verificare la portata urinaria oraria), controllo della saturazione e delle condizioni neurologiche e
psicologiche del paziente.

Attraverso le informazioni anamnestiche, dobbiamo capire la causa dello shock per cercare di opporci ad
essa e rimuovere ciò che l’ha determinato -> è l’unica maniera per interrompere quel circolo vizioso che
porterà all’esaurimento dei meccanismi di compenso.

Esami da eseguire: esami di sangue, ECG, RX torace, monitoraggio emodinamico.

Il margine di intervento è fino allo stadio progressivo, nello stadio refrattario c’è già il danno multiorgano e
non si può più recuperare. È possibile che la funzione degli organi che non si riesca più a recuperare, ma
che possa essere sostenuta dall’azione di farmaci -> se il danno renale è irreversibile, ad esempio, il
paziente può essere sottoposto a trapianto renale. Il primo organo che viene meno è, infatti, il rene.
Ugenti 21/10/2021
Le emorragie digestive le possiamo dividere in alte e basse e per la distinzione usiamo un punto di
repere che è l’angolo di Traiz, ovvero la flessura duodeno-digiunale, sostenuta dal ligamento di
Traiz.
Il duodeno è retroperitoneale e a livello del passaggio nel digiuno forma un angolo acuto
sostenuto da tale ligamento ed entra in addome per continuarsi nel tenue mesenteriale (digiuno e
ileo).
Questo è un limite convenzionale ma è anche funzionale, in quanto è il punto più distale dove
arriva la secrezione cloridropeptica gastrica.
I sanguinamenti superiori a tale punto subiranno l’azione dell’acido cloridrico che si rende
responsabile della riduzione dell’emoglobina in cloridrato di ematina, che ha un colore diverso
dall’emoglobina, infatti è nera.
L’altra valutazione funzionale per tale divisione è che l’angolo acuto tra duodeno e digiuno rende
impossibile, a meno di variazioni anatomiche, la risalita di contenuto digiunale in senso
prossimale, quindi emorragie inferiori difficilmente risalgono nello stomaco e vengono vomitate.
Le emorragie superiori si manifestano con vomito e variazione del colorito del sangue, le inferiori,
invece, si presentano di un colorito prossimo al normale e si manifestano con diarrea muco-
ematica, in quanto hanno un’azione catartica sulla muscolatura intestinale e inducono
un’accelerazione della peristalsi.
Le emorragie digestive superiori sono più frequenti ma il modo di approcciare il pz è uguale
soprattutto per il controllo emodinamico.
Il pz con shock emorragico va prima di tutto stabilizzato dal punto di vista emodinamico, per poi in
secondo luogo, dopo aver trovato fonte e causa del sanguinamento, trattarlo per arrestare tale
perdita ematica.
Il meccanismo di compenso dello shock può essere più o meno efficiente, ma comunque va
incontro a consumo ed esaurimento fino allo scompenso.
Dal punto di vista terapeutico un altro obiettivo è quello di prevenire il risanguinamento,
mettendo in atto procedure e trattando le patologie che sono alla base.
Esempio: trattamento ulcera gastrica fermo l’emorragia ma tratto anche la patologia che ha
determinato questa progressiva erosione e permetto la guarigione dell’ulcera.
Strumento a disposizione per il trattamento e la diagnosi dell’emorragia digestiva è l’endoscopia,
cioè una procedura che ci permette di esplorare le cavità interne, aperte all’esterno, come
l’apparato digerente, ma anche quelle non aperte all’esterno con la creazione un foro di
comunicazione.
Per lo studio dell’apparato digerente si usano la colonscopia per esplorare il colon e la
esofagogastroduodenoscopia per lo studio degli omonimi distretti.
La cavità addominale non è aperta all’esterno ma si può osservare tramite la laparoscopia, così
come si può usare la retroperitoneoscopia per lo studio del cavo retroperitoneale.
Esistono due tipi di endoscopi, rigido e flessibile, il secondo viene utilizzato in quanto la luce
dell’endoscopia viaggia in linea retta quindi quando si devono compiere delle curve per
l’osservazione del cavo addominale, ad esempio, è utile.
L’endoscopia sfrutta il principio della coerenza ottica dei corpi cristallini per illuminare le superfici:
tale principio permette alla luce con cui si illumina un corpo cristallino di essere mantenuta
all’interno della parete del corpo stesso fino alla sua uscita, quindi usando tubi di vetro di 1 cm con
la sorgente luminosa all’inizio del tubo questa viaggia lungo tutto il tubo e raggiunta la punta
illumina il viscere esplorato. Il vetro non si piega in quanto ha un indice di elasticità basso e non è
flessibile, sfruttando però il principio fisico secondo cui l’indice di elasticità è funzione inversa del
raggio, se usiamo un tubo di vetro più sottile di un capello, pur avendo un k (coefficiente

1
flessibilità ) basso con un raggio piccolo siamo in grado di curvare il tubo di vetro senza spezzarlo.
La quantità di luce di un singolo tubo è insufficiente e per questo nell’endoscopia se ne utilizzano
migliaia o centinaia di migliaia in modo da avere abbastanza luce per illuminare il viscere.
Queste descritte sono le fibre ottiche. Alla punta dei tubi vi è una micro videocamera che riprende
ciò che viene illuminato e ci permette di vederlo al monitor.
Un tempo, per osservare il viscere si usava un sistema ottico con un mono-oculo a monte del
manipolo dell’endoscopio come una sorta di microscopio ottico.
In più questi dispositivi hanno un tubicino cavo che percorre tutta la lunghezza dal manipolo fino
in punta che consente di introdurre dispositivi monouso, che permettono di operare all’interno
lavorando dall’esterno sempre tramite manipoli, come pinze da biopsie per campioni, aghi per
iniezione di sostanze e anse diatermiche per la dissezione di tessuti.
I sanguinamenti dell’apparato digerente superiore sono più frequenti degli inferiori e sono più
frequenti nei maschi piuttosto che nelle femmine e negli anziani più che nei giovani.
Il primo approccio al paziente emorragico è eseguire le procedure di rianimazione per il controllo
emodinamico, partendo dall’ABC, cioè dal controllo della pervietà vie aeree, della respirazione e
del polso, pressione, livello di coscienza, per poi rifornire ossigeno al pz tramite maschera o naselli
ad alta portata, incanularlo per infondere liquidi in breve tempo e integrare le perdite ematiche e
in ultimo cateterizzarlo, per valutare la diuresi.
Una delle prime procedure di compenso è il risparmio della perdita di volume attraverso la
riduzione dell’output urinario e per valutare questo si mette un catetere, si svuota la vescica e si
mette una busta nuova o urinometro con il fine di misura la produzione urina per minuto come si
fa per qualsiasi altra condizione di shock . normalmente la diuresi è 0,5 ml/kg/h, si parla di
oliguria quando invece è al di sotto di questo valore.
I liquidi che si possono infondere sono:
• la soluzione fisiologica che è poco utilizzata perché riducendo la pressione oncotica,
diluendo le macromolecole verrebbe viene filtrata nel terzo spazio e aumenterebbe
l’edema non aumentando il volume centrale.
• I cristalloidi, che si usano inizialmente e poi vengono sostituiti con sangue o plasma
In secondo luogo bisogna arrestare l’uso di anticoagulanti se il paziente ne sta facendo uso e usare
farmaci che ne antagonizzino l’effetto; posizionare un sondino naso gastrico, plurifenestrato negli
ultimi 10-15 cm, che introdotto attraverso il naso fino allo stomaco ci permette di aspirare il
contenuto gastrico e verificare se c’è sangue oppure no, facendo una prima diagnosi differenziale
tra emorragie alte o basse con il fine di scegliere quale endoscopia fare.
Perché è importante prima stabilizzare le condizioni emodinamiche?
Questo ce lo spiega uno studio riportato nel 2004 in cui due gruppi di 36 pz ciascuno con shock
emorragico sono stati sottoposti rispettivamente solo ad osservazione l’uno e a rianimazione
l’altro, dimostrando come la mortalità dei secondi sia di gran lunga inferiore rispetto a quella
primi.
L’80% della moralità è legata allo shock emorragico non trattato, che è passato da una fase di
compenso ad una di refrattarietà e scompenso. In questo arco di tempo è necessario intervenire
bloccando il sanguinamento e trattando lo scompenso.
La causa più comune di morte per emorragia è quindi il trattamento scorretto emodinamico che
porta a danno multiorgano, scompenso cardiaco e respiratorio, mentre 1/3 dei casi è legata al
fatto che l’emorragia è causata da un tumore maligno.
La trasfusione di emazie è necessaria solo quando la concentrazione hb e emazie sia scesa oltre un
valore soglia in un periodo breve di tempo. In realtà non c’è un valore di riferimento per richiedere
la trasfusione, il pz va valutato in maniera multifattoriale.

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Uno studio, che ha valutato 921 pz con sanguinamento superiore, ha dimostrato che mettendo a
confronto il trattamento trasfusionale restrittivo con cut-off di hb pari a 7 mg/dl e il trattamento
con cut-off pari 9, la mortalità nei gg successivi è maggiore nel secondo gruppo con anche una
percentuale maggiore di complicanze, questo perché la trasfusione troppo precoce, corrisponde
ad un aumento della recidiva emorragica.
Le emorragie vengono suddivise in classi secondo la percentuale di perdita di volume ematico
circolante:
I classe 0-750 ml, pressione arteriosa non cambia, frequenza cardiaca inalterata
II classe 750-1500 ml pressione non cambia, la frequenza inizia ad aumentare
III classe 1500-2000 ml pressione arteriosa si riduce, la frequenza aumenta ancora di più, oliguria
IV classe >2000 ml pressione ridotta, frequenza >140, anuria, confusione e letargia fino al coma
Quando la perdita ha superato il 25% il paziente si presenta in shock, quando è < 20%, la perdita è
moderata e il pz ha un’ipotensione ortostatica, se è <10% le condizioni vitali sono normali e siamo
nella fase di compenso o ipovolemia iniziale.
Epidemiologia
25-150 casi/ 100000 abitanti/anno con una mortalità dell’8-10%.
Aumenta molto nei pazienti epatopatici o affetti da gravi patologie come le neoplasie.
Il 15% ha indicazione all’intervento chirurgico urgente.
Nell’80% dei casi sono emorragie alte, il colon è coinvolto nel 13% e nella restante parte è
coinvolto il tenue.
Le emorragie del tratto digestivo superiore nella maggior parte dei casi sono legate a lesione
peptiche, nel 12% dei casi sono legate a varici e nel 6% a neoplasie.
Le possiamo distinguere in varicose e non varicose.

Le lesioni peptiche sono l’ulcera gastrica, l’ulcera duodenale e le semplici erosioni, invece
lesioni più rare sono la lesione di Dieulafoy o la lesione di Mallory Weiss.
La prima non è tipica solo dell’apparato dig superiore ed è legata ad un anomalia vascolare.
Il pz ha un vaso arterioso di calibro cospicuo (>0.5 mm), che raggiunge la regione subepiteliale
sotto la membrana basale con una pressione continua elevata, tale da provocare
un’ultrafiltrazione in sede basale che altera i rapporti tra la produzione e distruzione del
connettivo a favore di quest’ultima. Tale squilibrio si rende responsabile dell’interruzione della
continuità della membrana basale, delle tight junctions e dell’epitelio è monostratificato.
In questa sede ci sarà la retro diffusione idrogenionica dall’ambiente gastrico all’interstizio, che si
rende responsabile dell’attivazione della flogosi locale che progressivamente erode la parete del
vaso. È una soluzione di continuo con emorragia la cui causa però è di origine vascolare.
La sindrome di mallory weiss, è una rottura da iperpressione a livello della giunzione esofago-
gastrica che si realizza in associazione a vomito e/o reflusso importanti e voluminosi.
La distensione della parete dell’esofago da parte di questo volume può provocarne la rottura nel
punto in cui il movimento antiperistaltico del vomito si oppone al movimento peristaltico delle
sezioni più prossimali. Nella sindrome Mallory Weiss si ha rottura degli strati più superficiali,
mucosa e sottomucosa, e quindi possono lacerarsi i vasi e produrre emorragia.
Nei casi più gravi si ha rottura a tutto spessore, sindrome di Boerhaave, che porta ad una
perforazione del viscere con passaggio del contenuto gastrico nel mediastino, mediastinite acuta
sia chimica che settica e spesso porta a morte il paziente.
Cause rare di emorragia sono:
• iatrogene endoscopiche o chirurgiche, per resezione di polipi
• caduta escara tardiva che espone il vaso.
• una rara neoplasia stomaco: angiosarcoma stomaco, correlato ad emorragia.

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• Carcinomi, leiomioimi e GIST che sono cause più ordinarie
• Angiodisplasie
• Nell’esofago cause rare sono l’esofagite associata ad ernia iatale e le neoplasie
• Nel duodeno, invece una neoplasia posizionata nella papilla di Vater, diverticoli, il morbo di
crohn, oppure il pz con aneurisma dell’aorta addominale in cui si crea una fistola aorto-
duodenale( mortale)
• lesioni del tratto epatobiliopancreatico come tumori epatici, traumi pancreatici che
raggiungono il duodeno per il tramite della papilla di vater o procedure diagnostiche
invasive come la biopsia epatica che determina emorragia nell’albero biliare ma che si
rende evidente come emorragia digestiva oppure aneurismi dell’arteria epatica o fistole
bilio-digestive.
Il paziente, ricordiamo, va gestito in primo luogo con la stabilizzazione emodinamica se necessaria
dopo valutazione clinica.
Successivamente si impone la valutazione endoscopica che permette diagnosi e trattamento.
Nelle lesioni peptiche si usa la classificazione di Forrest
1 stadio sanguinamento attivo
Divisibile in 1a arteriosa e 1b se venosa a flusso continuo
2° stadio sanguinamento non attivo ma con le stigmate di un sanguinamento recente come un
vaso visibile al fondo della lesione (2° a) oppure con il fondo ricoperto da un coagulo recente che
non permette di vedere il vaso(2b) oppure con il fondo ricoperto da ematina, sanguinamento…..
coagulo…. Fibrinolisi…….escara di cloridrato di ematina che ci dice che lì c’è stato un
sanguinamento pregresso(2 c)
3° stadio ulcera senza segni emorragia ricoperta da fibrina.
Nelle emorragie superiori l’elemento importante è che il sangue viene emesso con il vomito quindi
si ha ematemesi, o melenemesi se il vomito ha un aspetto nero caffeano, per l’azione della
secrezione cloridropeptica sul sanguinamento avvenuto in precedenza e di minor entità.
Nel caso dell’ematemesi propriamente detta l’emissione con il vomito di sangue rosso è
espressione di un emorragia recentissima, questo avviene quando il sangue che ha inondato il
viscere è elevato al punto tale da distendere e irritare le pareti e indurre il vomito accompagnato
da emissione di cibo se il pz ha mangiato recentemente.
L’ematemesi si può avere per un sanguinamento più alto in esofageo per rottura di varici
esofagee, la perdita di sangue è cospicua e non arriva neanche nello stomaco, induce
immediatamente il vomito.
La dd tra ematemesi ed emottisi prima di tutto l’emottisi è l’emissione di sangue con la tosse e
non con il vomito e poi il contenuto è differente: il sangue che proviene dall’apparato respiratorio
è estremamente ossigenato quindi è più rosato che rosso e vi è una grande quantità di muco
filante e surfattante che rende sangue schiumoso.
Per quanto riguarda l’emorragia alta una parte viene vomitata l’altra continua il transito a livello
intestinale e viene eliminato con le feci. Si parla di melena cioè emissione di feci di colore nero e
maleodoranti per l’azione dei batteri putrefattivi della flora batterica intestinale.
Se l’emorragia è bassa il sangue non subisce l’azione cloridropeptica e a seconda del livello
dell’emorragia cambia l’aspetto, se il contenuto intestinale è ancora liquido comporta che il
sangue emesso si mescola al contenuto intestinale e viene eliminato sotto forma di diarrea
ematica, si parla di enterorragia.
Se invece la fonte del sanguinamento è a livello della metà sx del trasverso, colon discendente o
sigma, le feci a questo livello sono già formate, il cilindro fecale ha un colore normale e il sangue
vernicerà le feci, si parla di ematochezia.

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Se il sanguinamento è a livello del retto o del canale anale, l’emorragia sarà evidente a prescindere
dall’emissione delle feci, si parla di proctorragia.
Al paziente al PS, bisogna confermare la presenza dell’emorragia, facendo un’esplorazione digito
rettale e mettendo un sondino naso gastrico, così da vedere anche quale è la sede, se alta o
bassa.
Trattamento iniziale si corregge e stabilizza la situazione emodinamica e l’eventuale presenza
di shock o ipotensione con infusione di mantenimento mantenendo la PAS > 100 e la FC < 100, se
l’Hb è <7 si fa emotrasfusione e si correggono eventuali squilibri dei fattori della coagulazione.
Paziente avviato subito alla terapia medica con somministrazione PPI in infusione endovenosa
continua 8 mg/h, 5-6 fiale al giorno e anche con somatostatina o con i suoi analoghi per
mantenere bassa la pressione portale.
Possiamo fare una terapia endoscopica usando varie metodiche:
• terapia iniettiva che consente di avere arresto dell’emorragia, usando ago endoscopico con
camicia di plastica che ospita l’ago retratto all’interno.
Si usa ago per iniettare sostanze come soluzione salina o adrenalina che ha un’azione
vasocostrittrice, oppure sostanze irritanti che creano edema e obliterazione del vaso, o
colle di fibrina o cianoacrilato che obliterano il vaso in maniera diretta e definitiva.
La soluzione salina forma un ponfo e un edema che crea una compressione esterna sul
vaso e obliterazione.
• Emostasi termica.
Un'altra procedura endoscopica è la terapia termica, si usano sonde con punta riscaldata
con effetto diatermico o propriamente termico. Queste richiedono contatto del vaso
sanguinante con la punta sonda.
L’emostasi di tipo termico può usare anche principi fisici che danno emostasi a distanza dal
vaso, laser o argon plasma coagulation.
Per ottenere l’emostasi termica si possono usare metodi da contatto come l’elettrodo
bipolare che è formato da una punta sulla quale c’è un elettrodo positivo di oro che ha un
andamento elicoidale intorno alla punta alternata ad un elettrodo negativo che fa da terra
che è la punta siliconica. Alla punta può esserci anche l’ago che permette di stabilizzare la
sonda su vaso ma anche di fare contemporaneamente un emostasi iniettiva, la corrente
elettrica ci permette la coagulazione.
Un metodo di emostasi non a contatto termica è l’APC, che sta per argon plasma
coagulation, in cui si usa una sonda attraverso cui si pompa gas argon ionizzato da una
sorgente elettrica tipo bisturi. Il gas argon ionizzato diviene un conduttore che spruzzato ad
alta pressione attraverso la punta chiude il contatto della mucosa senza toccarla, si crea un
arco voltaico attraverso cui passa corrente e si ha la coagulazione diatermica.
Questo è necessario quando non c’è un vaso importante che sanguina , ma è una lesione
più superficiale come l’angiodisplasia o l’antrite erosive o la lesione di Dieulafoy.
Non usando la coagulazione da contatto si fa un emostasi meno profonda e si riduce il
rischio di perforazione. APC ha una profondità di coagulazione standard che non dipende
dalla nostra pressione ed è massimo di 1,5 mm GAVE (gastric antral vascular ectasia), un
altra patologia in cui si può usare APC.
• Emostasi meccanica in cui si usano delle clip metalliche come quelle che si usano per
chiudere la cute dopo l’incisione chirurgica. Una volta raggiunta la punta le clip si aprono,
sono provviste di dentini e sono angolate, chiudendole strozzano il vaso e creano
l’emostasi. Si può usare in Forrest 2 a con vaso visibile oppure in 2b dopo la rimozione del
coagulo.

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A seconda della lesione di partenza secondo classificazione Forrest possiamo valutare la
percentuale di recidiva, il 60% per IA , poco meno del 10% in forrest III .
Facendo riferimento ad una flow chart per il sanguinamento digestivo superiore nel pz che si è
presentato con melena o ematemesi, abbiamo che dopo stabilizzazione…..
se il sanguinamento è minore faremo l’endoscopia successivamente se è maggiore si deve fare
subito in sala operatoria (l’importanza della reperibilità degli endoscopisti)operando se si trova
subito la sede, se non la si trova si aspetta e si ripete l’endoscopia.
Se ha successo e il pz rimane stabile si fa eradicazione h.p o somministrazione di FANS.
Se invece vi è un risanguinamento si ripete l’endoscopia e al successo si riporta al discorso che
abbiamo fatto con fans ed eradicazione.
Se fallisce ancora, il trattamento è chirurgico, o prima ancor con terapia radiologica.
Il pz deve fare l’angiografia con urgenza e fare un’emostasi angiografica, iniettando colle che
obliterano il vaso oppure iniettando microsfere metalliche o spirali metalliche che embolizzano il
vaso sanguinante.
Le emorragie alte possono essere anche varicose, da ipertensione portale e possono essere
esofagee oppure gastriche, duodenali ileali e coliche.
Nell’ipertensione portale si può avere anche un sanguinamento non legato alla presenza di varici
ma a gastropatia congestizia o colonpatia congestizia.
Le varici gastriche (12%) sanguinano meno frequentemente delle esofagee (65,6%), ma il
sanguinamento è più abbondante.
Le varici si classificano in base alla dimensione in:
F1 se sono sottili a decorso rettilineo e occupano meno di 1/3 del lume esofageo
F2 se sono più voluminose e hanno un decorso tortuoso, occupando sempre meno di 1/3 del lume
F3 se sono >1/3 del lume e hanno un decorso tortuoso ad aspetto pseudotumorale
Possono essere bianche o blu e possono presentare segni rossi sulla superficie che sono segni di
rischio emorragico:
1. RWM (red wale markings) strie a colpo di frusta con decorso longitudinale sulla varice
2. CRS (cherry red spots) piccoli punti rossi di 2mm
3. HCS (hematocystc spots) formazione circolare rilevata di 4 mm che corrisponde a una
dilatazione cistica del vaso, queste hanno maggior rischio emorragico
4. DR (diffuse redness) colorazione diffusamente rossa della varice e mucosa circostante
Ciascuna di queste stigmate viene classificata in gradi ( +,++,+++) per fare una valutazione
semiquantitativa della gravità.
Possono essere classificate in base alla localizzazione in LS (locus superior) cioè varici che si
estendono fino all’esofago cervicale, LM se si estendono fino al tratto medio esofago, LI limitate al
terzo inferiore dell’esofago.
Endoscopicamente si può fare il trattamento iniettivo con agenti irritanti come polidocanolo che in
sede perivaricosa determina un effetto compressivo e irritativo, oppure trattamento meccanico di
legatura usando elastici che vengono fatti scattare sul colletto dei gavoccioli varicosi dando
ostruzione.
La procedura prevede l’applicazione di un’aspirazione sulla parete dell’esofago, in corrispondenza
della dilatazione varicosa, si tirano i tiranti e si fa scattare elastico, strozzando il gavocciolo
varicoso ottenendo l’arresto emorragia.
Nei giorni successivi ci sarà necrosi e interruzione del vaso.
Anche qui il trattamento radiologico si può fare, accedendo dalla giugulare interna raggiungendo
vena cava superiore e poi l’inferiore fino a raggiungere le vene sovraepatiche attraverso un
catetere. Si introduce un ago che permette di iniettare sostanze che mettono in evidenza il
distretto portale, si dilata il tramite con un palloncino e si posiziona una protesi camiciata che è

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uno shunt tra il distretto cavale e quello portale che permette di scaricare l’ipertensione portale di
tipo intraepatico tale che la riduzione del gradiente arresta l’emorragia.
Si può realizzare anche un’emostasi per compressione diretta attraverso l’uso di sonde come la
Sengstaken e Blakemore (più utilizzata) o la Linton Nachlas, che sono provviste di palloncini uno
lungo in esofago e uno tondo al di sotto del cardias che gonfiati comprimono la parete esofagea e
le vene che la percorrono, determinando arresto dell’emorragia.
Le varici gastriche vengono sempre classificate in F1,F2,F3 e poi si indica solo se vi è o meno la
presenza di stigmate di sanguinamento.
In questo caso si usa una terapia iniettiva intravascolare di colle, che polimerizzano a contatto con
il sangue formando un calco solido nel vaso, obliterandolo.
Si usa il glubran come colla che controlla il sanguinamento fino al 95% dei casi, il problema è che
quando viene espulso questo corpo estraneo si formano delle vere e proprie caverne dove c’era
stata la polimerizzazione del cianoacrilato (una resina dura), con esito cicatriziale.
Ci possono essere anche varici duodenali, le cui emorragie sono più rare e si trattano
maggiormente con ciano acrilato.

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