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i Robinson / Letture

John Foot

L'Italia e le sue storie


1945-2019

Editori Laterza
Titolo dell'edizione originale
The Arcipelago. Italy Since 1945
(Bloomsbury Publishing, 2018)

© 2018, John Foot

John Foot has asserted his right


under the Copyright, Designs and
Patents Act, 1988, to be identified
as Author of this work

Traduzione di Enrico Basaglia

Edizione digitale: ottobre 2019


www.laterza.it

Proprietà letteraria riservata


Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma

Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy)


per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 9788858140055
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata
Indice

Prefazione
Introduzione. 1945: l’anno zero
Il ritorno
Pedalando verso la normalità
1946: Viva Toscanini!
Paisà
La repubblica dei morti
Il corpo del Duce

1. Ricostruire e rifare l’Italia


La democrazia
Repubblica o monarchia?
La campagna referendaria
Alle urne
Il conteggio dei voti
Un altro re se ne va
La Resistenza, l’antifascismo e l’Italia del dopoguerra
Il qualunquismo e l’antipolitica
Figure e simboli nell’Italia repubblicana
La costruzione di un nuovo Stato: la Costituzione italiana
La Guerra fredda
Aprile e luglio 1948: elezioni e rivoluzione. Voti da contare, voti da pesare
Luglio 1948: l’Italia sulle barricate
Rivoluzione?
Parrocchie, preti e cultura cattolica
La balena bianca: i democristiani
I corridoi del potere
I rossi: i comunisti e il partito dopo il 1948
Il culto della personalità
“Ha da venì Baffone”: Stalin, l’Unione Sovietica e il comunismo italiano
Eseguire gli ordini?
Un partito di massa
I lasciti della guerra: Trieste
1956: il ‘discorso segreto’ e l’Ungheria
Il cuore d’Europa: Altiero Spinelli, l’Italia e l’integrazione europea

2. Il decollo: l’Italia negli anni del boom


Ultimo atto? Lotte contadine e riforme nel dopoguerra
L’esodo: storie della grande migrazione
La fine dell’Italia rurale
La fine della mezzadria
La nostalgia e i mestieri di una volta
Soldi, soldi, soldi
Fabbriche e operai
Una storia d’amore: gli italiani e l’auto
L’Autostrada del sole
L’Italia della Fiat
Cavalcare la tigre? La città e l’urbanistica
1963: il Vajont
La frana: Agrigento, luglio 1966
1966: gli angeli del fango
I re del mattone
Il boom e la cultura che cambia: la colonna sonora
Il boom e la cultura che cambia: il rettangolo magico. l’Italia e la televisione
Amore e matrimonio prima e durante il boom: pubblici peccatori?
Il matrimonio, il divorzio e la legge
Il ciclista e la ‘dama bianca’
La morale comunista
Le reazioni al boom: la Chiesa
Le reazioni al boom: la politica
1960: gli scontri e la ripresa dell’antifascismo
Magliette a strisce in piazza
1960: il mondo viene a Roma
Il centrosinistra
1964: Roma, la fine di un’epoca
Il panico morale: censura e modernizzazione

3. Sangue e riforme: adeguamento delle istituzioni e violenza negli anni ’60 e


’70
Utopie concrete: Franco Basaglia e la rivoluzione psichiatrica
Scuole, esami ed esperimenti
“Lettera a una professoressa”
C’è speranza, se questo accade al Vho
Esamifici?
La battaglia per il divorzio
Dentro la famiglia: genitori e figli, mariti e mogli
Lo Statuto dei lavoratori
Carceri e rivolte
Le università e il 1968
La Chiesa e il ’68
La contestazione della cultura
La legge Merlin: la chiusura delle ‘case chiuse’
Franca Viola e il matrimonio forzato per stupro
Il femminismo: pubblico e privato
L’aborto
Processo alle streghe: il caso Braibanti, 1964-82
Altre Italie negli anni ’60, ’70 e ’80
Colera: Napoli 1973
La nube tossica: Seveso
Terremoto: Campania 1980
Sangue e piombo: bombe, trame e violenza politica in Italia, 1969-80
12 dicembre 1969: la strage
Morte accidentale? Il caso Pinelli
Il colpo di Stato: 1970
La rivolta di Reggio Calabria: 1970
Il milionario e il traliccio
La strategia della tensione
1977: un nuovo ’68?
Terrorismo all’italiana
“Colpiscine uno per educarne cento” (le Brigate rosse)
Cinquantacinque giorni a Roma
Due funerali, una salma
I terroristi ‘neri’
Bologna: 2 agosto 1980
Rivoluzione, riforma e sangue

4. Gli anni ’80 e ’90: dal boom al tracollo, e oltre


1980: la fine
Dopo la fabbrica
La politica negli anni ’80: la ‘questione morale’ e la partitocrazia
Il bambino nel pozzo: Alfredino Rampi e la televisione italiana (1981)
Il laicismo e la Chiesa
Bettino Craxi: politica moderna, soldi e corruzione
Il venditore: le molte vite di Silvio Berlusconi
Tutti quei soldi...
Sua Emittenza: Berlusconi e la televisione
Neotelevisione
Dallo scandalo al trionfo: la Coppa del mondo 1982 e la ‘calcistizzazione’ dell’Italia
Il nonno d’Italia
Dio a Napoli: Maradona, 1984-91
Il maxiprocesso: la mafia alla sbarra
Latitanti in bella vista
La fine della Guerra fredda in Italia
Nuove invasioni: i confini italiani e la fine della Guerra fredda
Lo Stadio della Vittoria
Berlusconi e il calcio

5. La Seconda repubblica
Tangentopoli e Mani pulite: lo scandalo e le inchieste che misero fine alla Prima repubblica. 1992-
93
Il Senatur: l’ascesa di Umberto Bossi e della Lega Nord
Il manager: Carlo ‘il bello’
Giustizia per televisione: il processo Cusani
Il funzionario: Severino Citaristi
Un decennio di austerità
Piovono monetine
Il potere dei presidenti
“Hanno la faccia come il culo”: la satira e “Cuore”
Cadaveri eccellenti
Mafiosi in galera
Post-neofascismo
La Seconda repubblica, il Mattarellum e la fine della Democrazia cristiana
La discesa in campo: Berlusconi entra in politica, 1993-94
Forza Italia
Un terremoto politico
Berlusconi al potere: Atto I
Napoli: “Il presidente del Consiglio è indagato”
La guerra con la magistratura
La caduta del primo governo Berlusconi: dicembre 1994
L’interregno: 1995-96
Il processo del secolo: Belzebù alla sbarra
La ‘Padania’ e la Lega Nord
Tangentopoli: una rivoluzione giudiziaria?
Il contrattacco: Tangentopoli come congiura
I processi Priebke e la memoria degli italiani
Le Fosse Ardeatine
Un nazista alla sbarra: Roma 1996
Dopo i processi: gli ultimi anni di Priebke a Roma e la sua morte
Lo scalatore puro: la storia di Marco Pantani
1996: l’Antiberlusconi
L’euro, l’integrazione europea e l’Italia
Nuovi italiani?
Sport, razzismo e migrazioni
L’assassinio di Abdellah Doumi
Il controllo dei migranti
Le moschee e l’Islam in Italia
La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci
L’Italia, l’Islam e la Chiesa cattolica
Il crocifisso
Il culto di padre Pio

6. L’Italia nel XXI secolo: crisi, post-democrazia e il trionfo del populismo


L’apogeo di Berlusconi: 2001-6
Genova 2001: i giorni dell’ira, della violenza, della morte
Ad personam: Berlusconi al potere
Contro Berlusconi
La seconda guerra con la magistratura
La censura e il potere dei media
Per capire Berlusconi
2006: ancora scandali
Da Calciopoli al trionfo
L’ultimo Berlusconi
La repubblica del bunga bunga: Berlusconi e gli scandali sessuali
Rubygate
Finale di partita: post-Berlusconi?
I professori al potere

7. L’Italia oggi
I nuovi emigranti: italiani in movimento
Il Movimento 5 Stelle
Ascesa, caduta e ri-ascesa della Lega. Il futuro dell’Italia
Mario Balotelli
Eliminati. Gli Azzurri e la Coppa del mondo 2018
Papa Francesco
La vita e la morte
Un cimitero galleggiante
Lampedusa, l’Italia e l’Europa: l’isola dei sogni e degli incubi
Lampedusa e la politica italiana
Ascesa e caduta di Matteo Renzi
I giallo-verdi al potere
Cemento fragile: Genova 2018
Riace

Conclusioni. Trasformazione e crisi


Ringraziamenti
Prefazione

La mia bisnonna, Aurelia Lanzoni, era italiana. Incontrò il suo futuro marito,
uno scozzese di nome Arthur Tod, in Mesopotamia (oggi Iraq) nel 1907.
Trascorse buona parte della giovinezza nell’impero ottomano. Tra le foto di
famiglia, ce n’è una di lei che mi tiene in braccio, da piccolissimo; è morta a
Edimburgo nel 1965. Nel 1987 decisi di prendere il dottorato a Cambridge. Il
tema doveva essere l’Italia del Novecento, anche se non ero proprio sicuro
dell’argomento preciso che avrei voluto studiare. Il mio relatore mi consigliò
di andare a Milano, presso dei suoi vecchi amici, nella zona un tempo
industriale di Sesto San Giovanni, a nord della città. Fu il mio primo incontro
con la generosità degli italiani, e con la loro voglia di parlare della propria
storia (o magari di parlare e basta). Feci anche l’errore di bere un caffè dopo
cena, con conseguente notte insonne: mi pareva di aver assorbito elettricità
pura.
Ritornai nel 1988 per iniziare a lavorare alla tesi di laurea: sulla Prima guerra
mondiale e le sue conseguenze a Milano. Cominciai a imparare l’italiano,
soprattutto ascoltando la gente che parlava, e leggendo. Il mio territorio di
caccia erano le biblioteche e gli archivi milanesi, con le loro volte affrescate e
le comode poltroncine di legno. Leggevo della Grande Guerra e del fascismo,
e mi lasciavo prendere dalla città, dalla massa di cemento, dalla sua bellezza
nascosta. Era piena di fabbriche, molte ormai chiuse; ed era anche un posto
esotico, fascinoso. Altro punto di riferimento naturale era il magnifico stadio
di San Siro, con i suoi appassionati tifosi. Sarei rimasto a Milano per più di
vent’anni, viaggiando avanti e indietro da Londra per l’insegnamento. Imparai
ad amarle, Milano e l’Italia, sedotto da quella che il giornalista Luigi Barzini
definisce “attrazione fatale”.
Erano tempi straordinari: rivolgimenti politici, vittorie (e sconfitte) in Coppa
del Mondo, migrazioni di massa e cambiamenti epocali nella società, nella
politica e nel mondo della cultura. Questo libro è il risultato di quei due
decenni, e di vent’anni di insegnamento, di studio e di elaborazione sull’Italia,
vista da dentro e da fuori, nella prospettiva di un non italiano che ha però
legami profondi con la cultura italiana per residenza, parentele, amici vecchi e
nuovi, e vent’anni passati a tentare di capire le vicissitudini del Belpaese. Mio
figlio Lorenzo è nato a Milano nel 1993. Ho conosciuto l’Italia anche
attraverso di lui, le scuole che ha frequentato, il suo modo di vedere le cose.
Gli storici che vogliono scrivere di questo paese ricorrono spesso a un tema
portante, o filo conduttore, che dia un senso al tutto. Può essere il ruolo della
famiglia, o il rapporto tra i cittadini e lo Stato, o il tentativo di creare ‘gli
italiani’. Questo libro non è percorso da temi portanti. L’Italia e le sue storie
attinge a storie, processi, eventi sportivi e biografie per dipingere il quadro di
un paese. Questa frammentarietà mi pare una virtù, l’unico modo per
costruire una storia dell’Italia moderna e comunicarla ai miei lettori.
Anche in questo libro ci sono comunque idee e questioni ricorrenti. Una è
quella del paese diviso, fratturato nel passato e nel presente (oltre che nella
visione del proprio futuro). Sono divisioni antiche e recenti, alcune risalgono
alla formazione stessa della nazione nel XIX secolo, altre al fascismo e alle
guerre mondiali del XX. E poi le profonde fratture tra il Nord e il Sud, tra la
città e la campagna; gli italiani sono divisi sul come modernizzare l’Italia, e
perfino sulla necessità o meno della modernizzazione.
L’Italia conta, e non solo per gli italiani. Tutt’altro che marginale all’Europa,
come spesso si afferma, è sempre stata al centro del cambiamento e
dell’innovazione politica. Il fascismo è nato in Italia dopo la Prima guerra
mondiale, e negli anni ’40 il paese ha prodotto uno dei più forti ed efficaci
movimenti di resistenza contro il fascismo. Dopo la guerra ha elaborato una
Costituzione che alcuni considerano la più elegante e meglio costruita del
mondo. Nel dopoguerra il suo sistema ha assistito a sviluppi sorprendenti e
innovativi nelle sfere della politica, dell’economia e della società. Nel bene e
nel male – come dicono gli italiani – questo è un paese dal quale abbiamo
molto da imparare. Scrivere questo libro è stato un viaggio nel passato
dell’Italia, ma anche, forse, nei nostri futuri; spero che le pagine che seguono
contengano qualche lezione.
La storia d’Italia viene spesso concepita come una sequenza di assenze, una
sorta di lista delle cose mancanti. Come sostiene John Agnew, “l’immagine di
un’Italia arretrata che si confronta (in qualche modo) con la modernità è una
rappresentazione prevalente del paese agli occhi dei commentatori italiani e
stranieri”1. Interi studi vorrebbero dimostrare che la nazione non sarebbe mai
dovuta nascere, che fu un ‘errore storico’. L’Italia e le sue storie rifiuta questa
visione dell’Italia: questa è una storia del paese reale, di quello che c’è davvero.
È una storia eclettica, influenzata dalle mie preferenze, esperienze e passioni
personali. Si rivolge a chi vuole saperne di più, non agli esperti. È stato detto
che la storia d’Italia è contraddistinta da rivoluzioni brevi e controrivoluzioni
prolungate. Dal 1945 ci sono stati momenti in cui pareva lanciata a tutto
vapore verso il futuro, e altri in cui appariva bloccata, o in arretramento. È
vero poi che spesso sono gli individui a cambiare il corso della storia. Ci sono
stati italiani comuni che hanno cambiato il loro paese: la donna che rifiutò il
matrimonio a dispetto delle convenzioni sociali, lo psichiatra che disse ‘no’
alle pratiche della repressione e della deumanizzazione, il magistrato che non
si piegò alle pressioni politiche, il prete deciso a dare un’istruzione decente
anche ai bambini più poveri, il cineasta che provò a costruire bellezza dal caos
della guerra. Queste storie ci aiutano a capire l’Italia, e i contrasti sulla forma
da dare alla vita del suo popolo dopo il 1945.

1
John Agnew, The Myth of Backward Italy in Modern Europe, in Beverly Allen e Mary Russo (a cura
di), Revisioning Italy: National Identity and Global Culture, Minneapolis: University of Minnesota
Press, 1997, p. 26.
Introduzione.
1945: l’anno zero

Quanto di noi stessi era stato eroso, spento?


Primo Levi1

Ha da passà ’a nuttata.
Eduardo De Filippo2

Nessuno nega... che in questo mondo dilaniato


dalla guerra c’è, oggi più che mai, una trepida attesa della vita
che nascerà da tanta morte e della concordia che sorgerà
da un odio così smisurato e implacabile.
Concetto Marchesi, aprile 19453
Aprile 1945: l’Italia era in buona parte in rovina. Gli occupanti nazisti erano
stati cacciati, ma i segni di cinque anni di guerra erano ovunque. Altre
potenze straniere, gli Alleati – che per molti rappresentavano i liberatori – non
volevano andarsene, anche se la guerra era finita. Alcune città erano state rase
al suolo, altre ridotte in condizioni primitive. La gente viveva in strada,
raccattando rifiuti. In tutto il mondo c’erano italiani che volevano tornare a
casa; alcuni erano soldati delle forze fasciste sconfitte, altri mandati in esilio
per motivi razziali o politici, o perché si erano rifiutati di continuare a
combattere. Molti non ce la fecero. Parecchi impiegarono mesi o perfino anni
a tornare, emaciati e irriconoscibili, spesso già dati per morti. Li accoglieva un
paese in ginocchio, dilaniato dalla violenza e da un’ondata di criminalità senza
precedenti. Le istituzioni fondamentali erano sull’orlo del collasso. Nelle
carceri non mancavano soltanto le serrature; non c’erano proprio le porte.
Non si capiva nemmeno bene dove stesse l’autorità. Chi comandava? Re
Vittorio Emanuele III, gli Alleati, i partigiani antifascisti?
Meno di due anni prima, il 25 luglio 1943 alle 5,20 del pomeriggio, cinque
carabinieri avevano arrestato Benito Mussolini a Roma – i carabinieri erano
fedeli al re, che aveva dato l’ordine. Era la fine di un regime, l’ultimo atto del
‘ventennio’ di dittatura, ma non del fascismo. La fatidica decisione di
Mussolini di entrare in guerra nel 1940 era stata la sua rovina. Alle rapide
vittorie nella scia delle conquiste naziste era presto seguita una serie di
umilianti sconfitte. Il bombardamento alleato di Roma e l’invasione della
Sicilia nel luglio 1943 costrinsero il re alla drastica decisione di destituire il
dittatore con il quale aveva governato l’Italia così a lungo.
Le truppe naziste presero il controllo di buona parte del paese. Il re fuggì per
fondare un Regno del Sud nell’Italia liberata. Mussolini fu installato nel Nord
a capo di un governo fantoccio. Nei venti mesi che seguirono il paese
precipitò in una feroce guerra civile, che si accompagnava al conflitto tra gli
Alleati e i tedeschi e alla resistenza antifascista. In tutta la penisola italiani
combattevano contro altri italiani, antifascisti e fascisti divisi dalla politica e
dall’ideologia. Fu lacerante, come tutte le guerre civili, e lasciò un amaro
strascico di odi e divisioni. Nel frattempo migliaia di ebrei e oppositori politici
venivano deportati nei campi in Germania e altrove, mentre i bombardamenti
aerei devastavano il paese. Invasa e umiliata, l’Italia lottava per mantenere un
minimo di autonomia, con diversi personaggi che si arrogavano le posizioni di
potere. Quando finalmente, nell’aprile 1945, venne la liberazione
dall’occupazione nazista e dal fascismo per l’intero paese, ci fu chi sostenne
che l’Italia aveva cessato di esistere – che era ‘morta’ a un certo punto della
guerra. Altri invece parlavano di rinascita, di una ‘nuova Italia’. La storia del
paese diveniva fonte di divisione nel momento stesso in cui si stava facendo.
Quando e come finì davvero la guerra? Ufficialmente, città e regioni furono
‘liberate’ dalle armate alleate a mano a mano che queste risalivano la penisola,
dal luglio 1943 in Sicilia all’aprile 1945 nel Nord. Ma fu una ‘fine’ confusa e
ambigua. La liberazione ufficiale non portò la fine della guerra in Italia, e il
gioco dei rapporti tra gli Alleati, il Regno del Sud (governato dal re e dai
partiti antifascisti), i nazisti e i fascisti italiani impedì di capire chi avesse
davvero il potere fino a ben oltre l’aprile 1945. Il paese affrontava una crisi
esistenziale. E la Chiesa cattolica, che durante la guerra era rimasta neutrale,
stava a guardare con trepidazione. Fu costituito un fragile governo dei partiti
che avevano combattuto nella Resistenza, ma ancora non si erano tenute
elezioni.
Dopo la fine ufficiale delle ostilità esplose la violenza contro gli sconfitti. Alla
fine dell’aprile 1945 Benito Mussolini e la sua amante furono presi e fucilati
dai partigiani a Giulino di Mezzegra presso il lago di Como. Il cadavere fu
portato a Milano, dove venne appeso per i piedi a una stazione di servizio in
Piazzale Loreto, per mostrare a tutti che era morto davvero. Nel periodo della
cosiddetta ‘resa dei conti’ morirono migliaia di persone, fascisti e non. Alcuni,
i più fortunati, se la cavarono sfilando per strada con la testa rasata. In certe
zone particolarmente radicalizzate la violenza continuò, in tono minore, per
tutti gli anni ’40, e persino nei primi anni ’50. Fu il momento di massima
espansione dell’aspetto di ‘guerra di classe’ della Resistenza. Si nascondevano
le armi, pronte in attesa del ‘momento giusto’ – e nel frattempo qualcuno le
usava contro preti, ex fascisti, industriali o latifondisti. L’idea che la
rivoluzione fosse stata soltanto rinviata aveva grande presa su alcuni settori
della classe operaia e contadina.

Il ritorno
Primo Levi impiegò nove mesi per tornare da Auschwitz in Polonia a casa sua
a Torino. Avrebbe poi raccontato quell’odissea in La tregua. Nel dicembre
1943 era stato catturato dai fascisti italiani poco dopo aver aderito a un
minuscolo gruppo partigiano in Val d’Aosta. Aveva ventiquattro anni, e dopo
la laurea aveva trovato impiego come chimico. Levi fu trattenuto in Italia in
un campo di transito, prima di essere deportato col treno ad Auschwitz.
Tornato a casa, dopo essersi ripreso (almeno fisicamente) dalla terribile
esperienza e aver trovato lavoro, cominciò a scrivere – la sera, nei viaggi da
pendolare, nelle pause pranzo. Se questo è un uomo, pubblicato per la prima
volta nel 1947, è una delle grandi opere della letteratura mondiale. La
prefazione si apre con queste parole straordinarie:
Per mia fortuna, sono stato deportato a Auschwitz solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco,
data la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da
eliminarsi, concedendo sensibili miglioramenti nel tenore di vita e sospendendo temporaneamente le
uccisioni ad arbitrio dei singoli4.

La cupa storia della ‘fortuna’ di Levi faticò però a trovare un pubblico


nell’Italia del dopoguerra. È noto che il manoscritto fu rifiutato dal prestigioso
editore torinese Einaudi (sul perché e il percome del rifiuto infuria ancora la
polemica), e uscì in un’edizione di sole duemila copie presso un piccolo
editore. Molte delle copie invendute di questa prima edizione finirono a
Firenze, dove sarebbero state distrutte dalla devastante alluvione del 1966.
Einaudi ci avrebbe poi ripensato, ma le polemiche sul suo rifiuto di pubblicare
Se questo è un uomo nel 1946-47 riesplosero dopo la morte di Levi nel 1987. Ci
furono accuse personali, e smentite risentite. Al di là delle responsabilità
individuali, la vicenda rappresenta un chiaro sintomo dello scarso interesse per
l’Olocausto nell’Italia del dopoguerra, del desiderio di dimenticare, o di non
parlare di quanto era avvenuto – anche a sinistra, e perfino tra gli intellettuali
di sinistra nella comunità ebraica. Il romanziere Giorgio Bassani colse alcuni
aspetti della questione nel racconto Una lapide in via Mazzini, in cui un
sopravvissuto ritorna a Ferrara per scoprire il suo nome inserito in una lapide
dedicata alle vittime; e non tardano a circolare mormorii sul fatto che è
“troppo grasso” per essere davvero un deportato. Ci vollero decenni prima
che la dimensione effettiva dell’Olocausto in Italia, e il ruolo di carnefici,
osservatori indifferenti o vittime che in esso avevano avuto diversi gruppi di
italiani venissero alla luce con la dovuta chiarezza.

Pedalando verso la normalità


Fausto Coppi vinse il Giro d’Italia il 9 giugno 1940, a soli vent’anni (fu la
prima delle sue grandi vittorie). Il giorno dopo questo imprevisto trionfo
Mussolini dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. Chiamato alle
armi, Coppi combatté brevemente nell’infelice campagna d’Africa, per finire
prigioniero dei britannici. Ritornò finalmente in Italia nel 1945, sbarcando a
Napoli. Un giornale locale lanciò un appello per procurargli una bicicletta.
Doveva affrontare un viaggio di centinaia di chilometri per tornare a casa, a
Castellania, nel Nord; lo fece come gli riusciva meglio, in bicicletta, da solo.
Quando bussò alla porta, dopo quell’avventura, sua madre rimase esterrefatta
nel rivederlo vivo.
Coppi non impiegò molto a ritornare in forma, e nel marzo 1946 partecipò
alla Milano-Sanremo, una delle corse classiche più celebrate d’Italia, l’evento
che inaugura la stagione ciclistica. Folle immense lungo il percorso. Coppi si
staccò dal gruppo appena fuori Milano, e fece quasi tutta la gara in solitaria.
Spuntò, impolverato e solo, dalla galleria che attraversa il passo sopra
Sanremo: a quel punto la vittoria era certa. Pierre Chany, il famoso cronista
ciclistico francese, avrebbe poi scritto nel suo Les rendez-vous du cyclisme, ou
Arriva Coppi:
Il tunnel era di modeste dimensioni, appena cinquanta metri, ma il 19 marzo 1946 assunse
proporzioni eccezionali agli occhi del mondo. Quel giorno era lungo sei anni e perso nella tetraggine
della guerra... Si udì un rombo dalle profondità di quei sei anni e all’improvviso comparve alla luce del
giorno un’auto verde oliva che sollevò una nube di polvere. “Arriva Coppi” annunciò il messaggero,
una rivelazione che solo gli iniziati avevano previsto5.
Coppi vinse con quattordici minuti di distacco: la radio trasmise musica
nell’intervallo mentre i commentatori aspettavano l’arrivo degli altri corridori.
Fu un’impresa sportiva quasi sovrumana. Erano passati sei anni dalla sua
vittoria precedente al Giro d’Italia. La guerra di Coppi, e della maggioranza
degli italiani, era finalmente finita.
Anche la guerra di Gino Bartali fu un periodo intenso. Tra i grandi corridori
degli anni ’30, il toscano aveva vinto il Giro d’Italia nel 1936 e nel 1937 e il
Tour de France nel 1938. Durante il conflitto, Bartali trasportò documenti
falsi attraverso l’Italia centrale nascondendoli nel telaio della bici: servirono a
salvare centinaia di ebrei dalla cattura e dalla deportazione. Di tutto questo
preferiva non parlare. Cattolico e antifascista (rifiutava di indossare la camicia
nera, nonostante le pressioni del regime), Bartali era soprannominato ‘il pio’,
oltre che ‘l’uomo di ferro’. C’era anche lui alla partenza della Milano-Sanremo
del 1946, ma arrivò al traguardo ben dopo Coppi. La loro grande rivalità non
avrebbe tardato a dividere gli italiani tra coppiani e bartaliani. Il Giro del 1946
– ribattezzato “il Giro della Rinascita” – si svolse sullo sfondo della guerra:
piccole croci a segnare i morti lungo il bordo delle strade, ponti provvisori e
buche di bombe. Vinse Bartali, per soli 46 secondi, Coppi secondo, e l’Italia
paralizzata.
Un corridore che non poté partecipare al Giro del ’46 fu Fiorenzo Magni,
toscano di Vaiano, presso Prato. Magni era in attesa di giudizio per presunti
trascorsi fascisti durante la guerra, ed era stato temporaneamente sospeso
dall’attività professionistica. Lo accusavano di aver preso parte a un
rastrellamento fascista nel corso del quale erano stati uccisi tre partigiani;
assolto dal tribunale, sarebbe ritornato a correre, con grande successo. La
vicenda poco chiara di Magni è un ulteriore richiamo alla profonda
interconnessione della politica e della storia con lo sport e la cultura popolare.
Avrebbe continuato a perseguitarlo per tutto il dopoguerra, e lui non ne
avrebbe mai più parlato in pubblico.
I grandi campioni non vincevano quasi mai da soli: avevano bisogno dei
gregari. Andrea Carrea era sopravvissuto all’inferno di Buchenwald, dove era
stato costretto anche a una spaventosa ‘marcia della morte’ nella neve.
Quando ritornò pesava meno di quaranta chili. Con quei precedenti, pedalare
su per un paio di montagne era quasi un piacere. Carrea passò al
professionismo e divenne il più fedele gregario di Coppi. Le vicende sportive
di Coppi, Bartali, Magni e Carrea sono esempi di come la guerra avesse inciso
sulla vita della gente, anche nell’ambito ristretto di uno sport professionale, e
di come il ritorno alla normalità fosse sempre determinato dalle esperienze
vissute durante il conflitto.

1946: Viva Toscanini!


Alla fine della guerra l’Italia era in buona parte distrutta – sul piano fisico
come su quello psicologico. Occorreva ricostruire su tutti i livelli: dagli edifici
spazzati via dai bombardamenti in tutta la penisola agli strascichi morali e
politici di più di vent’anni di dittatura, di cui cinque di guerra totale. Il 15
agosto 1943 una bomba alleata aveva sfondato il tetto del più famoso teatro
d’opera al mondo, la Scala, al centro di Milano. Le rovine non furono toccate
fino a dopo la guerra: un grosso buco nel soffitto del famoso auditorio.
Appena concluso il conflitto, comunque, le autorità si diedero da fare per
ricostruire quel magnifico ambiente. Si progettava di accogliervi il ritorno
dell’esule musicale più celebre d’Italia, il grande direttore Arturo Toscanini.
Toscanini accettò l’invito della Scala con grande entusiasmo. “Sono fiero di
ritornare fra voi”, scriveva, “come cittadino di una libera Italia e non già come
suddito dei re e dei principi di casa Savoia”6. Toscanini era un repubblicano
convinto, e il suo ritorno coincideva con la campagna per l’abolizione della
monarchia. Si racconta che lo stemma regio fosse stato strappato dal palco
reale del teatro, e che i posti migliori fossero stati riservati a musicisti in
pensione. Toscanini aveva settantanove anni, ma era ancora nel pieno delle
forze. Il suo ritorno aveva anche una valenza politica. Nel 1931 era stato
aggredito fisicamente dai fascisti per essersi rifiutato di dirigere l’inno
Giovinezza durante un concerto a Bologna, ed era stato costretto all’esilio
negli Stati Uniti. Da quel momento divenne un faro di riferimento per gli
antifascisti in tutto il mondo. Alla caduta del regime nell’estate 1943, la gente
aveva chiesto a gran voce il suo ritorno. Come scrisse un commentatore,
Giulio Confalonieri, dopo la fine della guerra, “all’alba del 26 aprile 1945,
qualcuno si stupì di non veder Toscanini, la testa di Toscanini, emergente
dalla torretta di un tank americano”7. Era evidente che quello non sarebbe
stato un concerto qualsiasi.
L’11 maggio 1946 si tenne a Milano il cosiddetto ‘Concerto della
Ricostruzione’. Ricostruzione in senso letterale – la Scala aveva un nuovo
tetto, e poteva ospitare un concerto – ma anche rinascita morale e politica.
Toscanini ebbe un ruolo chiave in entrambi gli aspetti: si dice che il costo dei
lavori sia stato in parte coperto dai fondi raccolti dai suoi concerti di
beneficenza, e sborsò anche un milione di lire di tasca propria. C’erano ancora
dubbi sul fatto che il teatro avesse mantenuto la sua famosa acustica, ma pare
che entrando nell’auditorio Toscanini avesse battuto le mani esclamando: “È
sempre la mia Scala”. Il clou del concerto fu un’esecuzione magistrale e
commovente del coro dal Nabucco di Verdi – un omaggio all’unificazione
dell’Italia nell’Ottocento, e alla funzione politica svolta dall’opera a
quell’epoca. Il debutto di una soprano ventiquattrenne scelta personalmente
da Toscanini per l’occasione, Renata Tebaldi, fece grande sensazione: era nata
una stella. Scriveva il giornalista Filippo Sacchi:
Quella sera egli non dirigeva soltanto per i tremila che avevano potuto pagarsi un posto in teatro:
dirigeva anche per tutta la folla che occupava in quel momento le piazze vicine, davanti alle batterie degli
altoparlanti. E chi, abbandonata a un certo punto la sala splendente e gremita, si portò in piazza del
Duomo e ascoltò il resto del concerto seduto sui marciapiedi e sul sagrato, visse un’ora buona che si
terrà per sé preziosa nel cuore. Era gente minuta, gente venuta dai corsi, dalle vie formicolanti che
menano alle tipiche porte milanesi, porta Romana, porta Genova, porta Lodovica, porta Venezia. Erano
operai, artigiani, piccoli bottegai: tutta la famiglia coi ragazzi, e le donne avevano in braccio bambini che
dormivano... Alla fine di ogni pezzo la gente applaudiva. I ragazzi correvano intorno, giocando. Pareva
una gran piazza di paese quando suona la banda8.

La notizia fece il giro del mondo. Un giornale di Broken Hill, nel deserto
australiano, riferiva che “donne piangenti tentavano di baciare le mani del
direttore, mentre la polizia militare italiana armata tentava di fargli strada”9. Il
concerto fu trasmesso dal vivo alla radio, e venne registrato (con parecchi
crepitii di fondo) per i posteri10. Toscanini aveva lasciato l’Italia in preda al
fascismo; ritornava in una nazione dove il popolo aveva la possibilità di
scegliere il proprio destino.

Paisà
Eravamo circondati da una nuova razza di gente, che nutriva la speranza dalla disperazione stessa della
propria situazione. C’erano rovine, scene di disastro e perdita e dappertutto lo spirito selvaggio della
ricostruzione11.

Gli italiani cercavano di dare un senso all’esperienza della guerra e della


liberazione attraverso la cultura e l’arte. Nel gennaio 1946 il regista Roberto
Rossellini iniziò le riprese di un film che doveva intitolarsi Paisà o Paisan12. In
sei episodi, doveva essere il seguito del suo pionieristico Roma città aperta
(1945), sulla capitale al tempo dell’occupazione nazista, che aveva fatto
scalpore in tutto il mondo, vincendo il festival di Cannes e rimanendo in
programmazione a New York per quasi due anni. Fu un’impresa difficile,
ostacolata da mille problemi di forniture: un generatore elettrico abbandonato
dai tedeschi in ritirata fu risolutivo. Le riprese risalirono l’Italia da sud a nord,
seguendo le strade che gli Alleati si erano aperti combattendo tra il 1943 e il
1945. Le esperienze reali sul set interagivano con quello che l’Italia era
diventata anche grazie alla guerra: il film era un insieme di storie ambientate
nel passato immediato. I due livelli (la realizzazione del film e il contenuto del
film stesso) erano spesso giustapposti: ex partigiani nella parte dei partigiani,
frati veri nella parte dei frati. I ricordi erano tanto vicini da poterli toccare:
Rossellini raccontava la Storia mentre questa avveniva.
Gli attori erano presi dalla strada. Per il primo episodio, ambientato in
Sicilia, fu ingaggiata la figlia di un pescatore, Carmela Sazio, che Rossellini
avrebbe poi descritto come “un animaletto... non capiva niente, si muoveva
solo per impulsi”13; Carmela non recitò mai più. Tra i caratteristi furono
impiegati anche prigionieri di guerra tedeschi. Le storie furono in parte
inventate a riprese già iniziate. Federico Fellini, che collaborava come aiuto
regista (e sarebbe diventato uno dei più celebrati registi degli anni ’50 e ’60),
scovò un convento nello stesso posto in cui era stato girato il primo episodio,
un paesino vicino ad Amalfi, un luogo che pareva fuori dal tempo, e subito
scrisse la sceneggiatura di un nuovo episodio, ambientato appunto in un
convento.
Poi passarono a Napoli, che durante la guerra aveva subìto pesanti
bombardamenti, l’occupazione e le più gravi privazioni. Rossellini girò alcune
scene nelle grotte ancora abitate dagli sfollati del conflitto. Nel ricordo di
Fellini, “Rossellini cercava, inseguiva il suo film in mezzo alle strade, con i
carri armati degli alleati che ci passavano a un metro dalla schiena, gente che
gridava e cantava alle finestre, centinaia di persone intorno che cercavano di
venderci o di rubarci qualcosa, in quella bolgia incandescente”14. Le riprese
continuarono fino a tutto giugno, poi finirono i soldi. La produzione tirò
avanti con prestiti e offerte: come il resto del paese, i cineasti si arrabattavano
per tirare a campare.
Il montaggio procedeva di pari passo con le riprese del film, che fu anche
“un itinerario geografico che diventa una vera e propria risalita morale”15.
Una notte Fellini sorprese Rossellini mentre fissava una minuscola moviola.
“Si sentiva solo il fruscio delle bobine; rimasi incantato a guardare. E quello
che vedevo mi sembrò avesse quella levità, quel mistero, la grazia, la
semplicità che rarissime volte il cinema ha saputo raggiungere”16. Ancora
Fellini:
La troupe di Paisà viaggiava in un paese praticamente sconosciuto, perché per vent’anni eravamo stati
nella stretta di un regime politico che ci aveva letteralmente bendati. E insieme a questa scoperta
emozionante, mi accorgevo che il cinema ti permette miracolosamente questo doppio, grande gioco, di
raccontare una storia e, mentre la racconti, viverne tu stesso un’altra, avventurosa, con personaggi
straordinari quanto quelli del film che stai narrando; e a volte anche più affascinanti, e di cui parlerai in
un altro film, in una spirale di invenzione e di vita, di osservazione e di creatività, spettatore e attore
nello stesso tempo, burattinaio e burattino17.

Creare Paisà fu in un certo senso una rinascita: la materia prima del film
venne raccolta tra le macerie.
Poi toccò a Firenze, uscita dalla guerra con un solo ponte intatto. L’episodio
era ambientato nel periodo della Resistenza, negli ultimi giorni del conflitto;
una parte della storia riguardava una donna inglese alla ricerca di un capo
partigiano nella città divisa. Rossellini e Fellini avevano discusso le loro idee
con gli ex partigiani fiorentini. L’episodio rappresentava eventi il cui ricordo
era fresco nella mente di molti italiani, comprese le fucilazioni sommarie dei
fascisti e la morte di tanti giovani uomini e donne da entrambe le parti.
L’ultimo episodio fu girato tra le vaste distese d’acqua del delta del Po,
impiegando come attori molti ex partigiani. Si apre con l’immagine del
cadavere di un partigiano che galleggia nel fiume con un cartello al collo:
“Bandito” – una tattica usata davvero dai nazisti durante la guerra, come
forma di avvertimento. Il critico francese André Bazin scrisse che nel film di
Rossellini il delta del Po “ricorda la letteratura orale più di quella scritta, uno
schizzo piuttosto che un dipinto. Persino la bruschezza dei movimenti di
camera contribuisce all’effetto... ci fa sentire che tutto ciò che vediamo è in
una prospettiva umana”18. Paisà finisce tra gli spruzzi dei partigiani gettati
nell’acqua con le mani legate dietro la schiena: non offre una visione eroica
della guerra, né della Resistenza. I critici ne furono tutt’altro che entusiasti,
ma a Parigi il film di Rossellini fece sensazione. Dalla tragedia, dalla morte e
dalla distruzione, Rossellini e Fellini avevano creato poesia; e nel farlo,
avevano anche reinventato il cinema. Una visione del passato tutt’altro che
eroica: il futuro dell’Italia si sarebbe costruito intorno a queste storie di
sofferenza e martirio della gente comune.

La repubblica dei morti


Gli italiani avevano conosciuto la guerra totale, in patria e all’estero. C’erano
morti ovunque, e i corpi sarebbero riemersi spesso – letteralmente e
metaforicamente – nel dopoguerra. Il conflitto aveva lasciato migliaia di
vedove e orfani: un trauma diffuso e permanente, su scala nazionale. Per
alcuni, i morti e la loro memoria costituivano le basi stesse sulle quali era stata
costruita la repubblica. Piero Calamandrei, giurista e antifascista, parlava di
“quei morti che noi conosciamo uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle
prigioni e sui patiboli, sui monti e sulle pianure, nelle steppe russe e nelle
sabbie africane, nei mari e nei deserti”19. Era impossibile ignorarli.
Le ferite rimanevano aperte, e le rovine fisiche non furono toccate per anni.
Sulle macerie dei bombardamenti a Roma compariva la scritta “Eredità della
guerra”. Nelle città le strade erano segnate da precipizi e voragini. Ma il
carattere selettivo e ideologizzato della politica della memoria fece sì che
molte vittime della guerra venissero ignorate. Certi morti erano comunque
più importanti di altri. Il milione circa di soldati italiani che rifiutarono di
combattere per Hitler dopo il settembre 1943 e che per quel ‘no’ collettivo
finirono internati nei campi in Germania o altrove rimasero per lo più
ignorati. Le vittime dei bombardamenti alleati mal si adattavano a una
narrazione coerente, e dunque scomparvero dalle storie ufficiali, che
faticavano a registrare le realtà spesso contraddittorie dell’esperienza bellica. In
tutta Italia sorgevano complicati paesaggi della memoria (lapidi, memoriali,
anniversari, pietre tombali a non finire), soggetti a discussioni e revisioni
costanti. L’Italia era in pace, ma non si era certo rappacificata con il suo
passato. Le ‘guerre della memoria’ – battaglie continue sul significato e
l’interpretazione del passato – avrebbero scandito il dopoguerra. Non tutti i
morti erano uguali, non tutti venivano ricordati alla stessa maniera.
E qualcuno di quei morti era davvero problematico.

Il corpo del Duce


Nessun cadavere ebbe tanta potenza quanto quello di Mussolini. Il fascismo
era ufficialmente finito, ma rimaneva onnipresente – inciso nel tessuto stesso
delle città italiane, e nella propaganda del piccolo ma non insignificante
Movimento sociale italiano (MSI), il partito neofascista fondato nel 1946 da
vecchi esponenti del regime. Il 22 aprile 1946, mentre nel grande carcere
milanese di San Vittore (usato a suo tempo dal regime per rinchiudere gli
oppositori, e dai nazisti per radunare gli ebrei e altri destinati alla
deportazione) infuriava una rivolta, il corpo del Duce sparì dalla tomba senza
nome che gli era stata riservata nel grande cimitero municipale. Meno di un
anno dopo la sua morte, ignoti ladri avevano trafugato il cadavere di Mussolini
dal suo luogo di riposo, presumibilmente segreto. Fu presto evidente che i
trafugatori erano fascisti, e che la loro macabra azione aveva una valenza
politica: un colpo propagandistico alla vigilia del primo anniversario della
Liberazione. Il gruppo, guidato dal giovane Domenico Leccisi, si definiva
‘Partito Fascista Democratico’, e pubblicava una rivista intitolata “Lotta
fascista”. Nella tomba vuota lasciarono un bizzarro messaggio: “Finalmente, o
Duce, ti abbiamo con noi. Ti circonderemo di rose, ma il profumo delle tue
virtù supererà quello delle rose”. La notizia ebbe un effetto profondo
sull’opinione pubblica e fece il giro del mondo. “Hanno rubato Mussolini!”,
strillavano i titoli di testa dei giornali locali e nazionali.
Fu subito chiara la dirompente natura simbolica del gesto, accompagnato da
altre manifestazioni di ‘fede’ fascista (per esempio, il 1° maggio 1946 un
gruppo di fascisti occupò una stazione radio a Roma per mandare in onda
Giovinezza). I fascisti non erano spariti. Sull’ubicazione del corpo del dittatore
correvano le voci più disparate. L’avevano portato a Roma? Era già all’estero?
Era finito nel suo luogo di nascita, a Predappio in Emilia? Per i fascisti il mito
dell’invincibilità costruito nei vent’anni di regime andava tutelato e rispettato.
Per gli antifascisti quel mito era la ragione stessa per cui i corpi dei fascisti (e di
Mussolini in particolare) andavano trattati con tutto il disprezzo possibile.
Si erano subito affermati dei martiri alternativi, esempi di eroismo e sacrificio
per la nuova nazione democratica. Nel giugno 1924 il deputato socialista
Giacomo Matteotti era stato assassinato da una squadraccia fascista nel centro
di Roma. Il cadavere fu abbandonato in un bosco. Gli antifascisti riuscirono a
tenere in vita la memoria di Matteotti per tutta la durata della dittatura:
pellegrinaggi sui luoghi dove era stato rapito e ammazzato e dove era stato
nascosto il corpo, e celebrazioni (illegali) delle date legate alle vicende del
martire. Non sorprende che piazza Matteotti e via Matteotti diventassero i
toponimi più diffusi nel paese dopo la Liberazione. Il martire socialista fu il
santo patrono del nuovo Stato antifascista.
Anche i morti tornavano in patria: gli antifascisti sepolti all’estero vennero
riportati in Italia. Filippo Turati, per esempio, personaggio emblematico della
sinistra, un socialista riformista che era stato costretto all’esilio nel 1926. Era
morto a Parigi nel 1932, e sepolto nel cimitero di Père Lachaise. Nel 1948 le
sue ceneri e quelle di un altro grande socialista dell’epoca prefascista, Claudio
Treves, furono consegnate dai socialisti francesi a una delegazione italiana; ci
fu un’ulteriore cerimonia al confine italo-svizzero. Le ceneri di Turati e
Treves arrivarono a Milano in treno, e furono portate solennemente in
municipio, a Palazzo Marino, dove vennero esposte sotto due grandi ritratti
circondati da bandiere rosse. Il giorno dopo furono portate di nuovo in
processione e furono scoperte due targhe sulle loro case di un tempo. Alla
cerimonia partecipò anche Michael Foot, in rappresentanza del Partito
laburista britannico. C’erano tutti i parenti, ed esponenti politici di alto
livello, oltre a tanti socialisti dell’epoca prefascista. Il presidente del Consiglio
Alcide De Gasperi (che non era certo socialista) tenne un discorso che suscitò
urla e fischi, ma anche applausi. Tra gli officianti c’era Sandro Pertini, futuro
presidente della Repubblica. I resti di Turati e Treves furono finalmente
sepolti nel magnifico Cimitero Monumentale, accompagnati da una grande
folla. Anche i resti dei fratelli Rosselli, Carlo e Nello, assassinati in Francia per
ordine di Mussolini nel 1937, furono rimpatriati per una nuova sepoltura nel
1951. Altri esuli forzati ritornarono per partecipare alla costruzione dell’Italia
democratica: lo storico antifascista Gaetano Salvemini, per esempio, e come
lui tanti politici comunisti e socialisti, nonché parecchi futuri democristiani.
I morti partecipavano alle battaglie politiche contemporanee come a quelle
sulla memoria – in entrambi gli schieramenti. La ricerca di martiri proponibili
era una costante, e così gli scontri su chi dovesse essere riconosciuto come
tale. Nell’agosto 1946 quel che rimaneva del cadavere di Mussolini fu
finalmente scovato in una chiesa fuori Milano. Due frati francescani (uno dei
quali fratello dell’ex prefetto fascista) furono accusati di averlo occultato. Nelle
sedici settimane precedenti era stato spostato di continuo, prima in una villa,
poi in un monastero, poi in un convento. Le difficoltà incontrate dalla fragile
democrazia italiana nella gestione del possente lascito mussoliniano, persino
nella forma del cadavere, riassumevano le sue debolezze nella costruzione del
nuovo Stato, la sua mancanza di legittimità agli occhi di molti italiani, e la
paura costante di un ritorno del fascismo20.

1
Primo Levi, La tregua, in Id., Opere, a cura di Marco Belpoliti, vol. I, Torino: Einaudi, 1997, p.
394.
2
Da Napoli milionaria (1945), in I capolavori di Eduardo, Torino: Einaudi, 1973, p. 238.
3
Concetto Marchesi, Scritti politici, Roma: Editori Riuniti, 1958, p. 145.
4
Primo Levi, Se questo è un uomo, in Id., Opere.
5
Pierre Chany, Les Rendez-vous du cyclisme, ou Arriva Coppi, Paris: La Table Ronde, 1960, pp. 11-2;
v. anche John Marks, Se faire naturaliser cycliste: The Tour and its Non-French Competitors, in Hugh
Dauncey e Geoff Hare (a cura di), The Tour de France 1903-2003: A Century of Sporting Structures,
Meanings and Values, London: Frank Cass, 2003, p. 218.
6
Harvey Sachs, Toscanini, Milano: Il Saggiatore, 2019.
7
Cit. in Gustavo Marchesi, Arturo Toscanini, Torino: UTET, 1993, p. 213.
8
http://www.ilgiornale.it/news/e-colpo-bacchetta-toscanini-fece-rinascere-scala-916006.html;
https://pesaronotizie.com/2016/07/20/settantanni-dalla-riapertura-della-scala-con-due-grandi-
pesaresi-renata-tebaldi-e-cesare-esposito (accesso 7 giugno 2019); Filippo Sacchi, The Magic Baton:
Toscanini’s Life for Music, London: Putman, 1957, p. 196. Vedi anche Harvey Sachs, che di quel
concerto scrive “Quando Toscanini salì sul palco, alle nove esatte del mattino, il pubblico balzò in
piedi, gridando, applaudendo, inneggiando a quell’uomo che, per i milanesi, non era più ‘un’
direttore d’orchestra, com’era stato mezzo secolo prima, e nemmeno ‘il’ direttore, come un quarto
di secolo dopo, ma un simbolo vivente dell’eccellenza musicale, dell’integrità personale, e di quella
commistione di saldezza, severità e umanità che aveva dato al loro paese un Dante, un
Michelangelo, un Verdi”, in Toscanini, New York: Prima Publishing, 1995, p. 290.
9
“The Barrier Miner”, 14 maggio 1946.
10
Marchesi, Arturo Toscanini; Howard Taubman, Toscanini, London: Odhams Press, 1951.
11
Cit. in Tag Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini: His Life and Times, Boston: Da Capo
Press, 1998, p. 194. Su Paisà vedi anche ivi, pp. 180-227, e Peter Bondanella, The Cinema of Federico
Fellini, Princeton: Princeton University Press, 1992; David Forgacs et al. (a cura di), Roberto
Rossellini: Magician of the Real, London: BFI, 2000, pp. 169-70; Giacomo Lichtner, Fascism in Italian
Cinema since 1945: The Politics and Aesthetics of Memory, London-New York: Palgrave, 2013; Sam
Rohdie, Fellini Lexicon, London: BFI, 2002, pp. 103-8; Christopher Wagstaff, Italian Neorealist
Cinema: An Aesthetic Approach, Toronto: Toronto University Press, 2007; Stefania Parigi (a cura di),
Paisà. Analisi del film, Venezia: Marsilio, 2005.
12
Il titolo del film di Rossellini ha diverse sfumature di significato, tra il ‘paesano’, il ‘paese’ e il
‘paesaggio’. Per il pubblico anglofono è stato spesso modificato in Paisan, vedi Angelo Restivo, The
Cinema of Economic Miracles: Visuality and Modernization in the Italian Art Film, Durham, NC: Duke
University Press, p. 24. Dibattiti e interpretazioni in Giuliana Minghelli, Landscape and Memory in
Post-Fascist Italian Film: Cinema Year Zero, London: Routledge, 2014, pp. 39-40, e Torunn Haaland,
Italian Neorealist Cinema, Edinburgh: Edinburgh University Press, 2012, p. 104. Ringrazio
Catherine O’Rawe per le sue indicazioni a questo proposito.
13
Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini, p. 188.
14
Federico Fellini, Fare un film, Torino: Einaudi, 1980, p. 45.
15
Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, vol. II, Dal 1945 ai giorni nostri, Roma-Bari:
Laterza, 1998, pp. 64-5.
16
Giovanni Grazzini (a cura di), Federico Fellini. Intervista sul cinema, Roma-Bari: Laterza, 2004, p. 56.
17
Ivi, p. 57.
18
Cit. in Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini, p. 206.
19
Piero Calamandrei, Intervento all’Assemblea Costituente, 4 marzo 1947,
http://temi.repubblica.it/micromega-online/resistenza-costituzione-e-identita-nazionale-una-
storia-di-minoranze (accesso 7 giugno 2019), cit. in Piero Calamandrei, Uomini e città della
Resistenza. Discorsi, scritti ed epigrafi, a cura di Sergio Luzzatto, Roma-Bari: Laterza, 2011.
20
Soltanto nel 1957, dodici anni dopo la morte, Mussolini fu finalmente ‘deposto’ nel suo luogo
natale, la cittadina di Predappio, dopo una campagna guidata dal neofascista Movimento sociale e dal
capo dei tombaroli del 1946, Domenico Leccisi, con il sostegno di giornalisti di primo piano e della
nascente stampa scandalistica. Nel frattempo Leccisi era diventato deputato coi fascisti, e avrebbe poi
pubblicato un’autobiografia intitolata Con Mussolini prima e dopo Piazzale Loreto. Così trafugammo la
salma del Duce, Roma: Settimo Sigillo-Europa Lib. Ed., 1991.
1.
Ricostruire e rifare l’Italia

La democrazia
La prima volta che ho votato, la prima volta che le donne hanno votato, è stato nel 1946, avevo
trent’anni, un gran febbrone, l’influenza, e tremavo per l’emozione... Quell’emozione del votare non mi
ha lasciato più da allora... Un senso di responsabilità, un senso di appartenenza alla collettività, il senso di
essere finalmente cittadino.

Elvira Badaracco1
La democrazia italiana è nata nel 1945-46. Dopo vent’anni senza elezioni di
alcun genere (a parte i ‘plebisciti’ propagandistici di Mussolini), gli italiani
venivano chiamati per la prima volta alle urne. Prima del fascismo il diritto di
voto era gravemente limitato – agli uomini e, prima del 1918, solo di
determinate categorie. Ora, finalmente, anche le donne potevano votare. Fu
una rivoluzione democratica, non un passaggio graduale: il diritto di voto
veniva riconosciuto a tutti, in modo immediato.
Il 10 marzo 1946 gli uomini e le donne d’Italia votarono per eleggere sindaci
e amministrazioni locali, liberamente e senza il clima di intimidazione fascista
che aveva accompagnato le elezioni negli anni ’20: era la prima volta nella
storia del paese. Nel clima esaltato del dopoguerra, partiti e movimenti
fiorivano e si moltiplicavano (e molti svanivano con altrettanta rapidità).
Alcuni dei vecchi partiti, spariti nella clandestinità durante l’epoca fascista – i
socialisti, i comunisti, i repubblicani –, riemersero alla luce. Altri erano del
tutto nuovi, o si erano dati nuovi nomi. Alcuni si dissolsero rapidamente. Il
Partito d’Azione, estremamente influente prima, durante e dopo il periodo
della Resistenza, non tardò a sparire, nonostante la longevità del suo lascito
intellettuale2. Le elezioni amministrative di marzo furono seguite a giugno da
quelle nazionali per l’Assemblea costituente. In quel contesto, agli italiani
veniva richiesta un’ulteriore, fondamentale, decisione.

Repubblica o monarchia?
Il fascismo era crollato e l’Italia era diventata una democrazia, ma il capo dello
Stato era ancora un monarca non eletto. Nel giugno 1946 il governo
provvisorio convocò un referendum per decidere le sorti della monarchia.
Agli italiani si chiedeva di decidere non soltanto chi li avrebbe governati, ma
anche la forma e l’architettura del paese. Dovevano scegliere tra due tipi di
nazione molto diversi: la repubblica o la monarchia. L’Italia era nata come
monarchia nell’Ottocento, e il paese era disseminato di solenni monumenti ai
diversi re. Vittorio Emanuele II (1820-1878) era stato uno degli ‘eroi’ del
Risorgimento, uno dei padri della patria nazionale. Ma i suoi successori (e in
particolare il nipote Vittorio Emanuele III, divenuto re nel 1900 dopo
l’assassinio del padre Umberto per mano di un anarchico) avevano degradato a
tal punto la legittimità dell’istituzione monarchica che molti la consideravano
ormai condannata. Vittorio Emanuele III aveva favorito l’ascesa al potere di
Mussolini nel 1922, e poi aveva governato al suo fianco per due decenni. Il re,
e con lui la monarchia, erano stati legati a doppio filo, e dunque compromessi,
con il regime fascista.
Il re era ben consapevole della precarietà della sua posizione. Nel giugno
1944 era stato di fatto esautorato dai partiti antifascisti, che l’avevano costretto
a nominare il figlio Umberto ‘luogotenente generale del Regno’. Umberto
era una sorta di ‘quasi-re’: se non nella forma, nei fatti era stata
un’abdicazione. Ci si impegnava, una volta finita la guerra, all’elezione di
un’Assemblea che avrebbe elaborato una nuova Costituzione. Secondo il
grande storico dell’Italia moderna Denis Mack Smith, il re sosteneva che “in
una repubblica ogni italiano insisterebbe per diventare presidente e il risultato
sarebbe il caos. Gli unici che ne trarrebbero vantaggio sarebbero i
comunisti”3.
Umberto, il ‘quasi-re’, era cosciente del peso dell’eredità del padre, che per il
momento rimaneva in Italia, in una villa presso Posillipo. Come dichiarò al
“New York Times” nell’ottobre 1944, “il peso del passato è il grande difetto
della monarchia”. Sandro Pertini, il leader della Resistenza che sarebbe poi
diventato lui stesso capo dello Stato negli anni ’70 e ’80, sconsigliò a Umberto
una visita a Milano: troppo pericolosa, diceva. La monarchia combatteva per
la vita; arbitro del suo futuro era il popolo italiano.
La questione della forma istituzionale definitiva della nazione era stata
dunque rinviata al dopoguerra. Umberto non divenne re a pieno titolo
(Umberto II) fino al 9 maggio 1946: fu il tentativo disperato di rinnovare un
istituto moribondo. L’ex re Vittorio Emanuele III e la moglie Elena salparono
per Alessandria d’Egitto solo quattro ore dopo l’‘incoronazione’ in forma
privata del figlio, il nuovo monarca (un altro brutto segno: non si poteva
rischiare una proclamazione pubblica). La sinistra non risparmiò le critiche al
vecchio re. “L’Italia libera”, giornale del Partito d’azione, scriveva che “il re
fascista abdica e fugge all’estero per sottrarsi al giudizio popolare del 2
giugno”4. Quello stesso re aveva abbandonato Roma nel 1943 all’arrivo dei
nazisti, fuga che gli guadagnò una meravigliosa lapide commemorativa nel
porto di Ortona (da dove i reali si erano imbarcati verso porti più sicuri nel
Sud liberato), che enuncia “eterna maledizione alla monarchia dei tradimenti /
del fascismo e della rovina d’Italia / anelando giustizia / dal popolo e dalla
storia / nel nome santo di repubblica”5.
La repubblica rimaneva un sogno per molti democratici. Garibaldi e
Mazzini, altri due ‘padri della patria’, erano stati entrambi repubblicani
convinti. Garibaldi era stato costretto ad accettare la monarchia come
compromesso necessario per arrivare all’unità d’Italia. Mazzini, più per la linea
dura, rifiutò fino alla tomba di riconoscere legittimità allo Stato che tanto
aveva contribuito a far nascere, soprattutto a causa della permanenza della
monarchia. Per molti un re come capo di Stato costituiva una ferita aperta.
Si era dibattuto a lungo sull’opportunità del referendum. Era possibile che
un’Assemblea costituente eletta dal popolo fondasse la repubblica per decreto,
oppure la decisione doveva essere rinviata al popolo stesso? Alla fine,
comunque, furono fissate le date del referendum: 2-3 giugno 1946. Tutti gli
italiani avevano diritto al voto, ma l’alta incidenza di analfabetismo significava
che sulle schede i simboli avrebbero avuto lo stesso valore delle parole. La
scelta era diretta: monarchia o repubblica? Nella stessa occasione si dovevano
eleggere i deputati all’Assemblea costituente, l’organismo che avrebbe creato
dal nulla la nuova Costituzione italiana. Non si trattava di votare chi avrebbe
governato il paese, ma che cosa sarebbe diventata l’Italia: quale tipo di paese
volevano gli italiani?

La campagna referendaria
Abbondavano le dichiarazioni apocalittiche. Palmiro Togliatti, il formidabile
capo del Partito comunista, che aveva trascorso buona parte del ventennio in
esilio a Mosca, parlava chiaro in un editoriale su “l’Unità”: “Bisogna... votare
per la Repubblica e contro la monarchia se si vuole la unità della Nazione... il
voto per la monarchia è voto per la disunione, per la discordia, per la rovina
d’Italia!”6. Secondo i comunisti la monarchia era “complice del fascismo e
corresponsabile della catastrofe”7. Nel frattempo i partiti centristi, e
soprattutto i democristiani, giocavano d’attesa.
Anche la monarchia si fece sentire nella campagna. Umberto II, una faccia
più fresca e moderna di quella arcaica e tradizionalista del padre, trasmise un
messaggio al popolo italiano alla vigilia del referendum, il 1° giugno 1946.
Dichiarava che avrebbe accettato il verdetto del popolo. Ma il nuovo re
sottolineava anche che le domande poste dal referendum si sarebbero dovute
riproporre dopo la definizione della Costituzione. Lamentava anche che
numerosi italiani (come i prigionieri di guerra ancora all’estero) non
avrebbero avuto la possibilità di votare. Appariva evidente che non se ne
sarebbe andato in silenzio, indipendentemente dal risultato.
La giovane democrazia italiana era fragile. Umberto II pareva promettere un
futuro più liberale per la monarchia, meno compromesso con il regime
fascista. Il nuovo, giovane re parlava perfino di ‘giustizia sociale’. Erano stati
proprio i monarchici a spingere per il referendum, nella speranza che
l’allargamento del processo decisionale favorisse le forze conservatrici. “Inoltre
il referendum aveva anche il vantaggio di esimere chiunque dal prendere una
posizione decisa”8. All’interno dei partiti i repubblicani avevano una
maggioranza schiacciante; non così a livello popolare, come gli esiti del
referendum avrebbero presto rivelato. Si discusse a lungo anche sui simboli da
utilizzare sulle schede elettorali. Alla fine, la repubblica venne rappresentata da
una testa di donna con corona turrita (un antico simbolo dell’Italia risalente
all’impero romano) sovrapposta a due rami di quercia e alloro, e la monarchia
dallo stemma dei Savoia sovrastato da una corona. I due simboli erano
sovrastampati al medesimo profilo dell’Italia. La scheda era semplice: i due
simboli affiancati da due quadratini in cui inserire la croce.

Alle urne
Alle sei del mattino del 2 giugno 1946 si aprirono i seggi. I negozi erano quasi
tutti chiusi. Molte delle donne che si presentarono erano vestite di nero, in
lutto per i congiunti caduti, o non ancora ritornati dalla guerra9. Alcuni
elettori erano abbastanza vecchi da ricordare l’epoca prefascista. Francesco
Saverio Nitti (settantasette anni, presidente del Consiglio nel 1919-20) e
Ivanoe Bonomi (settantadue anni, presidente del Consiglio nel 1921-22 e nel
1944-45) – due sopravvissuti dell’Italia liberale – votarono entrambi a Roma.
Loro sì che ricordavano quando una parte degli italiani aveva votato per
l’ultima volta; ma milioni di persone non l’avevano mai fatto prima. Ci furono
pochissimi incidenti o atti di violenza. La percentuale dei votanti registrati agli
atti toccò un incredibile 89,1 per cento degli aventi diritto. Per molte donne
fu un momento emozionante. Una ricordava che “quel due giugno, nella
cabina di votazione, avevo il cuore in gola e avevo paura di sbagliarmi fra il
segno della repubblica e quello della monarchia”10. Un’altra raccontava: “In
una cabina di legno povero e con in mano il lapis e due schede, mi trovai di
fronte a me, cittadino”11.

Il conteggio dei voti


Non fu certo una vittoria travolgente: quasi 25 milioni di italiani andarono
alle urne, e appena più della metà (12,7 milioni) optarono per la repubblica.
Per la monarchia votarono in 10,7 milioni, mentre le schede annullate furono
ben 1,5 milioni (un fatto che rimane tuttora abbastanza misterioso). Fu
quest’ultimo dato a provocare le maggiori controversie, seminando incertezze
su chi avesse vinto davvero. L’Italia del 1946 era un paese diviso – sul piano
politico, sociale e culturale – e queste profonde fratture risaltavano con grande
chiarezza dai risultati del referendum.
La storia e la geografia ebbero un ruolo decisivo. In generale le regioni
tradizionalmente ‘rosse’, di sinistra, votarono decisamente a favore della
repubblica: 77 per cento in Emilia-Romagna, 71,5 in Toscana, 69 in Liguria.
Alcune città erano quasi totalmente repubblicane: Ravenna e Cesena, per
esempio, oltre il 90 per cento. In Piemonte, peraltro, dati i suoi legami storici
con la famiglia reale, la vittoria della repubblica fu meno completa (56,9 per
cento). Il Sud, invece, rimaneva monarchico, in qualche caso in misura
spettacolare. Come rilevava il politologo inglese Percy Allum, “il voto per la
monarchia... fu nel Sud quasi il doppio che nel Nord”12. I motivi erano
insieme storici e politici, di lunga e di breve durata. Nel Sud la Resistenza era
stata molto meno sentita, e l’attaccamento alle forme del governo monarchico
era molto più profondo che in altre regioni. L’80 per cento degli elettori
napoletani, l’81 dei catanesi e l’84 dei palermitani sostennero la monarchia. E
non fu soltanto il profondo Sud: perfino a Roma il 54 per cento scelse di
lasciare il re al suo posto. L’Italia era dunque spaccata tra Nord e Sud, come
era sempre stata, ma in modo nuovo e più complesso. Il voto a favore della
repubblica era stato forte, ma non schiacciante. Come spiega Aldo Ricci,
l’Italia era “un paese profondamente diviso e confuso sul problema
istituzionale”13.
Lo scaltro leader della Democrazia cristiana e presidente del Consiglio in
carica, Alcide De Gasperi, l’ometto occhialuto che aveva passato buona parte
della guerra catalogando libri nella Biblioteca vaticana, aveva fatto un prudente
gioco d’attesa, a dispetto della forte maggioranza repubblicana anche
all’interno del suo partito. Il suo era un atteggiamento pragmatico: lasciando
‘libertà di coscienza’ si era coperto le spalle prendendo una ‘non-decisione’.
Nelle parole di Ricci, “i quadri del partito, come De Gasperi ben sapeva,
erano tutt’altra cosa dal suo elettorato”14. I risultati gli diedero ragione. Il
vento del cambiamento radicale veniva dal Nord, come aveva previsto il
socialista Pietro Nenni, ma soffiava sul Sud15. In questo momento storico, la
classe dirigente italiana era più progressista, antifascista e radicale di molta
parte del popolo.
E molti erano spaventati da quello che consideravano un cambiamento
eccessivo. Il celebre filosofo e storico (nonché icona dell’antifascismo)
Benedetto Croce, per esempio, votò in favore della monarchia. Nel suo diario
scriveva che “il referendum ha diviso l’Italia in due parti, che quasi si fanno
equilibrio”. L’11 giugno, appena una settimana dopo il referendum,
aggiungeva: “Festa nazionale per la Repubblica. Festa perché? Con la
votazione del 2 si è aperto per l’Italia un periodo difficilissimo, di problemi da
risolvere; e c’è poco da festeggiare”. Nondimeno, in quello stesso anno ci fu
chi tentò (senza successo) di convincere Croce a diventare presidente della
Repubblica16.

Un altro re se ne va
Considerata la posta in gioco, nessuno scopriva le carte, e al voto seguì un teso
momento di stallo. Il nuovo re contestò i risultati, definendo l’iniziativa del
referendum “arbitraria, intempestiva, incompleta e impreparata”. La sua
ultima dichiarazione da monarca fu un amareggiato atto d’accusa: “Questa
notte, in spregio alle leggi e al potere indipendente e sovrano della
Magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo,
con atto unilaterale e arbitrario, poteri che non gli spettano, e mi ha posto
nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza”17.
Regnava l’incertezza. Secondo Stuart Woolf, “la sopravvivenza della
monarchia, che appariva impossibile nel 1945, ora sembrava una questione
aperta”18. Il 2 giugno “l’elettorato monarchico mostrò di possedere ancora
una notevole forza”19.
I primi dati del referendum non furono resi pubblici prima del 5 giugno.
Seguì un dibattito feroce su cosa si dovesse intendere per ‘maggioranza’, se dei
voti in generale, o dei voti validi; il che richiamava l’attenzione sul gran
numero di schede dubbie. L’esito era diventato ormai una questione legale,
con gravi conseguenze politiche e storiche, e non venne confermato
ufficialmente fino al 10 giugno. Data l’incertezza, il re rimase al suo posto, in
attesa. La tensione aumentava. Continuavano le trattative, in un intenso
scambio di intermediari tra i due luoghi simbolici (dieci minuti a piedi) della
nuova e della vecchia Italia: il Viminale (ministero dell’Interno) rappresentava
lo Stato antifascista e democratico, e il Quirinale (palazzo reale) il vecchio
ordine. Gruppi di monarchici stavano ‘di guardia’ di fronte al palazzo,
chiedendo al re di rimanere sul trono.
Nel frattempo il paese era in fermento, percorso da manifestazioni pro o
contro la monarchia. Il re batteva sul ferro caldo, scrivendo al presidente del
Consiglio che avrebbe accettato il verdetto solo se riferito alla maggioranza dei
voti effettivi. Non c’era ancora un presidente, né una Costituzione. C’erano
timori sull’affidabilità delle forze armate, e in particolare dei carabinieri, che
avevano giurato fedeltà al re.
L’11 giugno una manifestazione monarchica a Napoli andò a finire male: si
parlò di almeno sette morti. Fu devastata una sezione del Partito comunista20.
Era un avvertimento, e molto serio; dopotutto, l’Italia era appena uscita da
una guerra civile, e le memorie di quel tempo di violenze erano fresche. De
Gasperi e il Consiglio dei ministri decisero di assumere le funzioni del capo
dello Stato. A quel punto, la sorte della monarchia era segnata. Finalmente, il
13 giugno, Umberto II se ne andò. Arrivò in auto all’aeroporto di Ciampino,
e intorno alle 4 del pomeriggio salì sull’aereo con un ultimo saluto con la
mano. Non avrebbe mai più messo piede sul suolo italiano (nemmeno dopo la
morte). Si stabilì a Cascais, una sonnolenta cittadina balneare nel Portogallo
fascista, nei pressi di Lisbona, dove assunse il titolo di conte di Sarre. Non
cessò mai di protestare con amarezza per il modo in cui era stato esautorato,
ma solo un’esigua minoranza gli dava ascolto.
Il sogno repubblicano da tanti a lungo coltivato si era realizzato – finalmente.
In molte parti d’Italia si tennero celebrazioni, inaugurando lapidi che
registravano i successi più spettacolari del voto antimonarchico. A
Radicondoli, un paesino di collina in provincia di Siena, fu scoperta una targa
dalla quale risulta che 1958 votanti avevano scelto la repubblica, mentre solo
227 avevano optato per la monarchia. A Pisa quasi 31.000 voti per la
repubblica contro circa 12.000 per la monarchia, e anche questo venne
tramandato ai posteri, inciso nel marmo. A Castelfidardo nelle Marche una
targa dichiara che su 4893 votanti 4098 erano stati repubblicani.
Il 18 giugno – il re era già partito – la Corte di Cassazione annunciò la
decisione finale. La repubblica aveva vinto su entrambi i conteggi, anche per
la maggioranza dei voti effettivi. La vittoria della repubblica aveva valore
legale. Non tutti ne furono convinti, soprattutto i monarchici, ma ormai era
troppo tardi.
L’Italia voleva essere certa che la monarchia non sarebbe stata mai più
restaurata. La Costituzione del 1948 avrebbe dichiarato che “I membri e i
discendenti di Casa Savoia non sono elettori e non possono ricoprire uffici
pubblici né cariche elettive. Agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai
loro discendenti maschi sono vietati l’ingresso e il soggiorno nel territorio
nazionale. I beni, esistenti nel territorio nazionale, degli ex re di Casa Savoia,
delle loro consorti e dei loro discendenti maschi, sono avocati allo Stato. I
trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti
dopo il 2 giugno 1946, sono nulli”. L’articolo 139 ribadiva che “la forma
repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”.
La dichiarazione di De Gasperi sul referendum del 1946 fu molto realistica:
“quest’ultima vicenda di una millenaria dinastia ci appare come una parte della
catastrofe nazionale; è un’espiazione, ma tutti dobbiamo espiare, anche coloro
che non hanno avuto o ereditato le colpe della dinastia”. Parole che evitavano
accuratamente le posizioni estremistiche presenti nei due opposti
schieramenti21. La fine della monarchia fu un momento storico, ma per le
istanze conservatrici in Italia non fu certo un tracollo. Per citare un
osservatore, “la scomparsa della monarchia fece del Vaticano il più importante
cardine istituzionale dello status quo nel paese”22. L’Italia era cambiata, ma le
forze della conservazione e della tradizione erano ancora possenti, in qualche
caso ancora più di prima.
L’Italia unita era stata retta da un monarca per meno di cent’anni. In tutto il
paese le statue dei re eroici e i nomi regali delle vie rimasero al loro posto, ma
i palazzi furono espropriati (con lunghi strascichi di battaglie legali). Il
giuramento di fedeltà andava ora reso a un’istituzione, la repubblica, e non più
a una persona, il re. I ritratti del re vennero rimossi (non proprio tutti). Il
Quirinale passò di mano (di nuovo: fino al 1870 era stato il palazzo del papa),
e a suo tempo divenne la residenza ufficiale del nuovo capo di Stato, il
presidente della Repubblica.
Nel frattempo, a Genova, succedeva un fatto molto bizzarro. Sulla scia
dell’esito referendario, fu deciso che il corpo di uno dei ‘padri della patria’
venisse esposto al pubblico. Giuseppe Mazzini, il grande propugnatore
dell’idea repubblicana morto nel 1872, era stato imbalsamato (malamente)
prima della sepoltura nel locale cimitero (diventato famoso sulla copertina
dell’album Closer dei Joy Division). Il 23 giugno 1946 il macabro evento: il
corpo di Mazzini fu riesumato e messo in mostra. Non era bello da vedere.
Nondimeno, molti cittadini democratici andarono in pellegrinaggio a Genova
per rendergli omaggio. Ci fu grande interesse per un tubetto trovato nella
bara, che conteneva un documento: era forse un ultimo messaggio di Mazzini
al popolo italiano? Alla fine risultò che era semplicemente la dichiarazione che
quello era effettivamente il corpo di Mazzini. Il grande repubblicano fu
debitamente risepolto23.
La vicenda farsesca del corpo di Mazzini riesumato con la lettera fu un
evento marginale, ma è significativa dell’importanza del momento. Il sogno
repubblicano di Mazzini si realizzava ottant’anni dopo. La monarchia, che
aveva presieduto alle sorti d’Italia fin dall’unità, non c’era più. E con la
monarchia spariva anche lo Statuto albertino del 1848, la quasi-costituzione
rimasta in vigore (nonostante tutto) per l’intero periodo fascista. Ora l’Italia
aveva bisogno di nuove regole, nuove leggi, nuovi modi di fare le cose. Stava
per nascere la Prima repubblica, ma alla rinascita e al cambiamento si
accompagnavano come sempre le continuità.

La Resistenza, l’antifascismo
e l’Italia del dopoguerra
Tra il 1943 e il 1945 migliaia di italiani presero parte a quella che venne
chiamata ‘la Resistenza’. Uomini e donne salivano in montagna per
combattere una guerra di guerriglia contro gli occupanti tedeschi e i seguaci di
Mussolini. Altri davano battaglia in città, nel movimento partigiano urbano.
Lo facevano per convinzione ideologica (in quanto comunisti, socialisti,
antifascisti cattolici o persino monarchici fedeli al re), o semplicemente per
cacciare dall’Italia gli invasori stranieri. Fu una guerra di attrito brutale, dove si
facevano pochi prigionieri. La Resistenza operava su una base di sostegno
costituita dai partiti politici, dalle reti antifasciste e da settori del mondo
contadino. Molti dei partecipanti erano giovanissimi, e dunque la maggior
parte dei morti per mano dei fascisti e dei nazisti – i cosiddetti ‘martiri della
libertà’ – avevano vent’anni, o anche meno. Non tutti presero le armi: ci
furono forme di ‘resistenza civile’ che si opponevano al fascismo con altri
mezzi. La sopravvivenza stessa era una forma di resistenza, considerate le
condizioni estreme imposte dal conflitto.
La Resistenza italiana è stata al centro di dibattiti storici e politici fin dal
1945, sia in Italia che altrove. Al suo lascito e alla sua memoria sono stati
dedicati romanzi, film, opere d’arte, poesie, musei e opere storiche. Molti ex
partigiani occuparono poi posizioni di potere politico, mentre altri faticarono
ad adattarsi alla pace del dopoguerra. La Resistenza fu una fonte potente di
legittimazione politica, ma si prestò anche alla manipolazione e al falso. Le
divisioni messe temporaneamente da parte nel periodo 1943-45 (anche
all’epoca ci furono comunque violente discussioni tra le diverse forze
coinvolte) si ripresentarono con veemenza a guerra finita.
Molti di coloro che avevano partecipato alla guerriglia contro fascisti e nazisti
si sentirono traditi dalla ricomposizione del dopoguerra. Qualcuno teneva il
fucile pronto e ben oliato in attesa della rivoluzione, o di una rinascita del
fascismo. Qualche ex partigiano infuriato ritornò in montagna, ma si trattava
di atti simbolici più che di reali tentativi di riprendere la resistenza armata. La
Resistenza aveva vinto, ma molti dei suoi obiettivi più radicali non erano
destinati a realizzarsi. E soprattutto, la presenza di ex fascisti in posizioni di
potere, o anche solo a piede libero nelle strade, era dura da accettare per chi
aveva visto i compagni dare la vita per combattere il nazifascismo. Molti
reagirono indignati alla fondazione di un partito esplicitamente neofascista nel
1946.
Quale destino attendeva tutti coloro che avevano servito con fedeltà e zelo il
regime – giudici, poliziotti, architetti, generali? Nonostante il rapido
rinnovamento democratico, non pareva ci fosse un gran desiderio di epurare
la vita pubblica dagli ex fascisti. Il momento peggiore, e più pericoloso, per i
fascisti fu l’immediato dopoguerra, quando almeno 15.000 persone furono
fucilate sommariamente nei giorni dopo la Liberazione, e qualche fascista fu
condannato a morte o a lunghi periodi di detenzione dopo un rapido
processo. Una serie di amnistie avrebbe presto portato al rilascio di migliaia di
ex fascisti, alcuni dei quali avevano occupato posizioni di prestigio e potere.
Molti si inserirono senza difficoltà nella vita dell’Italia repubblicana.
L’amnistia più importante fu quella approvata dal leader del Partito
comunista Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia nel 1946. Togliatti aveva
deciso per il perdono onde evitare una nuova guerra civile e in seguito alla
crisi del sistema carcerario, che nel 1946 era stato percorso da sanguinose
sommosse. Migliaia di fascisti ed ex fascisti furono scarcerati, o videro
drasticamente ridotte le loro sentenze. Il caso più grottesco fu forse quello del
maresciallo Rodolfo Graziani, alto ufficiale coinvolto in numerosi massacri
nel periodo coloniale e nella guerra mondiale. Nonostante la condanna a
diciannove anni nel 1950, fece solo quattro mesi di galera. Sarebbe poi
diventato presidente onorario del partito neofascista, il Movimento sociale
italiano, fino alla sua morte nel 1955.
Questo processo fu rassicurante per i tanti che si erano sentiti minacciati
dalla violenza della resa dei conti, e dalle blande epurazioni del dopoguerra.
Ma per altri fu fonte di rabbia e indignazione. L’amnistia di Togliatti fu dura
da digerire per la base comunista e per molti altri combattenti della
Resistenza. Non soltanto gli ex fascisti riuscivano a entrare nel dopoguerra
sostanzialmente impuniti, ma molti occupavano ancora posizioni di autorità.
Altri si sentivano abbastanza sicuri da tentare di diffondere le loro idee e di
darsi un’organizzazione politica. Da molte parti si arrivò persino ad arrestare
partigiani accusati di reati politici e di altra natura. A cos’era servito? Molti si
sentivano traditi. Qualcuno si fece giustizia da solo. Mussolini non c’era più,
ma il fascismo sì, eccome. Era in corso una battaglia per possedere l’anima del
paese.
L’Italia democratica era di fronte a un bivio. Si dovevano spazzare via tutte le
leggi e i codici e ricostruire da zero, o doveva essere un cambiamento
graduale? Si doveva procedere alla defascistizzazione radicale delle istituzioni
rette da norme e regolamenti fascisti, come le carceri, i manicomi e perfino le
scuole? Di fronte a questi dilemmi l’Italia assunse una posizione ambigua.
Alcuni dei provvedimenti fascisti più obbrobriosi furono immediatamente
cancellati, come le odiose leggi antisemite del 1938. La maggior parte delle
leggi però, e i codici approvati sotto il fascismo, rimasero in vigore. Di
conseguenza la Costituzione esplicitamente antifascista del 1948 (sulla quale
ritorneremo più avanti) entrò fin dall’inizio in conflitto con molte leggi
ordinarie, applicate da giudici e poliziotti in tutto il paese, molti dei quali
erano passati senza scosse dalla funzione svolta sotto il fascismo alle
dipendenze dello Stato repubblicano antifascista. Solo nel 1968, per esempio,
divenne illegale interrogare un sospetto senza la presenza di un avvocato
difensore. Nonostante l’evidenza di questi conflitti, ci volle molto tempo per
avviare una riforma giudiziaria. E che dire delle singole persone? Andavano
licenziate, se avevano sostenuto con entusiasmo il fascismo e ne avevano
saputo approfittare?
Consideriamo un settore chiave: la magistratura. I giudici che avevano
operato sotto il fascismo in posizioni di grande potere non furono epurati
(nella maggioranza dei casi) e continuarono ad occuparle nella nuova
repubblica. Durante il regime Gaetano Azzariti era stato molto di più di un
giudice qualsiasi: nel 1939 era diventato presidente del famigerato Tribunale
per la difesa della razza, che decideva in materia delle discriminazioni razziali
imposte dalle leggi antisemite del 1938. Azzariti era rimasto al suo posto fino
alla caduta del fascismo nel 1943.
Nel 1944, nella Roma liberata dal fascismo e dai nazisti, Azzariti fu posto
ufficialmente di fronte al suo passato. Fu aperta un’inchiesta sul suo ruolo
sotto il fascismo. Il procedimento consisteva in parte in una specie di
questionario (un modo piuttosto bizzarro, si direbbe, di condurre
un’epurazione). La domanda n. 16 chiedeva: “Ha fatto parte di uffici o
commissioni razziali?”. Il giudice rispose: “No. Feci parte di una
commissione tecnico-giuridica, composta in prevalenza di magistrati, che
consentiva di far dichiarare ariane le persone le quali dagli atti dello stato civile
risultavano ebree. Parecchie famiglie israelite furono così sottratte ai rigori delle leggi
razziali (il corsivo è mio)”. Come osserva il ricercatore Massimiliano Boni,
uno dei pochi che abbiano studiato nel dettaglio quanto accadde a gente come
Azzariti, “in poche righe tutto è rovesciato, il nero diventa bianco... Il suo
compito era quello di salvare gli ebrei”24. Per sua fortuna, la maggior parte dei
documenti relativi al Tribunale per la difesa della razza erano ‘spariti’. Il
giudice ne approfittò per mentire, dire mezze verità e reinventarsi un passato.
Risultava inoltre che Azzariti avesse fatto soldi a palate sotto il fascismo (si
parlava di bustarelle versate dalle famiglie per ‘salvarsi’). Era stato gravemente
compromesso con il regime a tutti i livelli, e per un lungo periodo di tempo,
eppure riuscì a presentare le sue attività di presidente del Tribunale alla luce
del più classico ‘italiani brava gente’. Il mito per cui gli italiani si erano
comportati bene ed erano stati soprattutto vittime delle altrui aggressioni
pervadeva tutto, nell’Italia del dopoguerra. Pareva che tutti fossero stati in
realtà antifascisti, e che nessuno fosse responsabile di quanto era avvenuto
sotto il regime, anche se aveva occupato posizioni di potere. Azzariti si
preoccupò anche di cambiare qualche data, per manipolare il suo passato e
ridurre al minimo la possibilità di una sanzione. Chi decise di aiutarlo? I
documenti non lo dicono; dimostrano solo che qualcuno intervenne dall’alto,
per bloccare il procedimento della purga. Boni conclude che “il reticolo di
conoscenze e appoggi che Azzariti coltiva nella sua lunga carriera gli serve a
schivare senza danni un serio pericolo”. Molti altri che avevano sostenuto il
regime fascista ricorsero a tattiche analoghe; e in migliaia di casi funzionò.
Concluso il procedimento, Azzariti collaborò con il ministro della Giustizia,
il comunista Palmiro Togliatti. Andò ufficialmente in pensione nel 1951,
dopo una carriera di alto livello continuata nei primi anni del dopoguerra, con
la reputazione intatta – e così gli emolumenti. E non era ancora finita: il
peggio (non certo per lui) doveva ancora venire. Nel 1955 il presidente della
Repubblica lo nominò a far parte della nuova Corte costituzionale: una delle
posizioni più influenti all’interno della magistratura. Azzariti ebbe un’ulteriore
promozione nel 1957 – siamo nell’incredibile – diventando presidente della
Corte, e rimanendolo fino alla morte nel 1961.
La Corte doveva controllare l’applicazione della Costituzione antifascista.
C’era voluto tanto tempo per istituirla, a tal punto che i democristiani al
governo furono accusati di sabotare la stessa Costituzione che avevano
contribuito a scrivere. E per di più le procedure per l’elezione dei suoi
membri erano, e continuano ad essere, squisitamente bizantine. Dopo il 1955
fu finalmente possibile rinviare le leggi a questa Corte e cancellarle dai codici
per ‘incostituzionalità’. Divenne rapidamente una delle istituzioni più
importanti della repubblica, garante della democrazia e della Costituzione
stessa. Il suo primo atto fu dichiarare la propria competenza sulle leggi in
vigore; ma le veniva richiesto di vagliare anche quelle nuove. Doveva
garantire – in teoria – che l’attività politica rimanesse in linea con i principi
antifascisti della Costituzione.
Non tutte le decisioni della Corte costituzionale erano di indirizzo
progressista; anzi, per molti versi era un organismo profondamente
conservatore. Il che non sorprende, considerando che molti dei suoi membri
(come Azzariti) venivano direttamente dal partito fascista. La Corte
costituzionale agiva di rado per iniziativa propria, e spesso fu solo a seguito di
cambiamenti politici e sociali già avvenuti nel mondo reale che ritenne
opportuno procedere a quelli sul piano legale. Questa posizione conservatrice
produsse decisioni sconcertanti. Per esempio, nel 1961 la Corte stabilì che la
legge sull’adulterio (che per quel ‘reato’ puniva per lo più soltanto le donne)
non era incostituzionale.
Nei suoi discorsi e pronunciamenti pubblici Azzariti evitava
scrupolosamente qualsiasi riferimento al fascismo. “Il passato”, scrive ancora
Boni, “è avvolto nell’oblio completo”. L’‘oblio’ continuò anche dopo la sua
morte, quando raccolse elogi unanimi senza alcun riferimento – di nuovo – ai
suoi trascorsi con il regime. Il suo busto è tuttora esposto (nonostante qualche
tiepida protesta) nel palazzo della Corte costituzionale a Roma25. Di tanto in
tanto vi è stato qualche accenno di cambiamento, qualcuno che non si
rassegnava a questa situazione. Nel 2015, per esempio, è stato deciso che una
via di Napoli alla quale era stato dato il suo nome (nel 1970) avrebbe preso
invece quello della più giovane vittima della Shoah in città.
Quello di Azzariti fu uno dei casi di ‘riciclaggio’ più estremi e grotteschi, ma
serve comunque a evidenziare la lentezza del processo di rimozione delle leggi
fasciste dai codici. Le caste e gli ordini professionali tutelavano i propri
interessi, nonostante i presunti effetti del ‘vento del Nord’26. Persone che
avevano scritto e applicato le leggi fasciste occupavano ancora posizioni di
potere in uno Stato democratico e repubblicano; e continuavano a scrivere e
applicare le leggi. Lo ‘strano’ caso di Azzariti non fu l’unico esempio di
continuità all’interno della magistratura. Anche Antonio Manca fu giudice
nella Corte costituzionale, dal 1956 al 1968. Come Azzariti, aveva fatto parte
del Tribunale per la difesa della razza. Almeno altri tre membri della Corte
(tra i quali un altro presidente) erano stati fascisti, e due di loro avevano
pubblicato scritti sui periodici razzisti del regime.
Non fu soltanto la magistratura a fornire esempi eclatanti di continuità con il
fascismo. Marcello Piacentini era stato uno degli architetti più prolifici del
regime, progettando i maggiori monumenti del fascismo e costruendo in tutta
Italia. Tra le sue opere, il fascistissimo monumento alla Vittoria di Bolzano,
fonte di accese controversie – è un enorme arco in marmo rivestito di simboli
del regime. I suoi edifici sono dappertutto: banche, università, tribunali, tutto
a suo nome – e molti vengono ancora usati per funzioni pubbliche.
Dopo la guerra Piacentini continuò a lavorare nel Dipartimento di
architettura dell’imponente e prestigiosa Università della Sapienza, a Roma
(che a suo tempo aveva contribuito a costruire, in perfetto stile fascista). In un
primo momento si fu costretti a condannarlo per i suoi trascorsi con il regime,
e perse il posto all’università, ma fu poi assolto con la seguente motivazione:
“La partecipazione attiva alla vita politica del fascismo può configurarsi solo
nell’attività di coloro che parteciparono alla vita politica in senso proprio del
cessato regime e non nell’attività tecnica di chiunque col regime stesso ha
avuto rapporti”. A Piacentini, i cui edifici grondavano simbologia fascista, fu
consentito di sostenere che le sue vaste operazioni non erano state che
“attività tecnica”27.
Piacentini avrebbe poi chiesto a un pittore poco noto di nome Carlo Siviero
di ‘defascistizzare’ un grande murale all’interno dell’Università di Roma –
murale che lui stesso aveva contribuito a commissionare a Mario Sironi negli
anni ’3028. Da potenziale epurato, Piacentini diventava dunque epuratore
(quantomeno per le opere d’arte); un dietrofront sconcertante, analogo a tanti
altri che si videro all’epoca. In senso quasi letterale, Piacentini voleva coprire
le proprie tracce. Le parti fasciste del murale sarebbero poi state ‘restaurate’ nel
nome della libertà dell’artista. Oggi ci sono vie intitolate a Piacentini a Roma,
Ravenna, Taranto, Bergamo e altrove in Italia. Partecipò anche alla
preparazione delle Olimpiadi di Roma nel 1960; morì in quell’anno, appena
prima dell’inaugurazione dei giochi.
Alcuni ex fascisti si limitarono a far finta di nulla – affermando che non
erano mai stati fascisti, o che si erano piegati alle pretese del regime per evitare
censure e guadagnarsi il pane. In qualche caso questa gente venne denunciata
dalla stampa, ma in molti altri non se ne seppe nulla. Era come se il solo fatto
di parlarne fosse di cattivo gusto. Certo, molti avevano aderito formalmente al
regime per mancanza di scelta. Altri avevano cambiato idea, in modo del tutto
legittimo, prima, durante o dopo la guerra. Ci furono anche casi di celebri
intellettuali ‘denunciati’ come sostenitori del fascismo – da qualche
documento, da un ex collega, o grazie al lavoro dei giornalisti investigativi.
Negli archivi c’era materiale pericoloso, che poteva ‘riemergere’ in qualsiasi
momento.
L’Italia non ebbe dunque un serio processo di epurazione, e molti fascisti ed
ex fascisti rimasero a piede libero. Non ci fu una ‘Norimberga italiana’29. I
crimini di guerra non furono mai puniti, né quelli commessi in Italia, né
altrove. L’invasione e l’occupazione fascista in Grecia, Albania, Jugoslavia e
Francia, le guerre coloniali in Etiopia, Somalia e Libia, l’intervento in Spagna
durante la guerra civile: tutto dimenticato (in Italia). Non un solo soldato o
politico italiano fu mai ritenuto responsabile di crimini connessi alle guerre
fasciste degli anni ’30 o agli eventi della guerra mondiale. Quanto ai nazisti,
furono pochi quelli di alto livello perseguiti nel dopoguerra sul suolo italiano.
Herbert Kappler era stato un personaggio chiave nell’occupazione durante la
guerra, responsabile della deportazione di molti ebrei da Roma (diretti ad
Auschwitz) e dell’orribile strage per rappresaglia alle Fosse Ardeatine, nel
1944. Nel 1947 fu condannato all’ergastolo (da un tribunale militare) per ciò
che aveva compiuto in Italia durante la guerra.
Un’ulteriore tacita amnistia fu estesa alla maggior parte dei nazisti colpevoli
dei massacri commessi in Italia durante l’occupazione. Furono quasi tutti
rimandati in Germania, e buona parte delle indagini cessarono senza
imputazioni. Finita la guerra decine di nazisti di primo piano riuscirono a
trovare asilo in Argentina o altrove passando per Genova o Bolzano, con la
collusione del Vaticano – tra questi anche Adolf Eichmann. Si decise molto
presto di interrompere le indagini giudiziarie su molti gravi delitti, e in un
archivio di Roma qualcuno voltò con gli sportelli al muro uno schedario
contenente informazioni dettagliate. Fu ‘riscoperto’ solo nel 1994, e fu subito
soprannominato ‘l’armadio della vergogna’.
Il biennio 1945-46 fu un periodo in cui i vecchi sistemi si riaffermarono
anche in altri settori. Le donne vennero espulse quasi immediatamente dalla
forza lavoro, e spesso furono gli stessi uomini che avevano partecipato alla
Resistenza a spingere in questa direzione. Paola Gaiotti De Biase dichiarò che
“sono, purtroppo, comandanti partigiani, o interi Comitati di Liberazione
nazionale (CLN) locali che chiedono nell’estate del ’45 il licenziamento
d’autorità delle donne per far posto agli uomini”30. In Italia la guerra e la
Resistenza avevano cambiato molte cose, ma molte altre erano rimaste
immutate. In molte parti del paese le strutture familiari parevano non aver
risentito della rivoluzione democratica. Secondo la storica Maria Linda
Odorisio, “la vecchia famiglia patriarcale che pure era stata un caposaldo dello
Stato fascista non era oggetto adesso di alcun ripensamento: i rapporti familiari
apparivano qualcosa di dato e immutabile”31.
L’assenza di una critica della famiglia e delle sue strutture di potere
riguardava anche la sinistra. L’organizzazione femminile del Partito
comunista, l’UDI (Unione donne italiane), fondata nel 1944 aveva una
posizione conservatrice riguardo alla famiglia. La famiglia in sé, pareva, non
costituiva un problema né aveva bisogno di riforme. Per molti era
semplicemente una soluzione e una fonte di conforto, specie dopo le fratture,
le divisioni e gli orrori della guerra, con tante famiglie distrutte o separate per
anni. Non sorprende, forse, che fossero molti anche quelli che rifiutavano in
blocco il sistema politico in quanto tale.

Il qualunquismo e l’antipolitica
VOGLIAMO CHE NESSUNO
CI ROMPA PIÙ I COGLIONI.
Guglielmo Giannini (il maiuscolo è suo)32
Guglielmo Giannini scriveva battute e canzoni, faceva il giornalista e aspirava
a diventare commediografo e regista di cinema. Uomo dal fisico imponente,
era cresciuto a Napoli (figlio di un’inglese e di un anarchico italiano) e aveva
combattuto nella Prima guerra mondiale. Da giovane era stato attratto dagli
ideali comunisti. Ci sapeva fare con le parole, e nell’immediato dopoguerra si
ritrovò, in modo del tutto imprevisto, a capo di un movimento politico in
rapida affermazione, che per un attimo minacciò il sistema partitico vigente,
per poi dissolversi con la stessa rapidità.
In definitiva il lascito più importante di Giannini fu forse la parola
‘qualunquismo’ (usata per descrivere il movimento, ma derivata dal nome che
aveva dato al suo ‘partito’), un fenomeno che Sandro Setta definisce come “il
disprezzo generalizzato per la politica e per gli uomini politici, giudicati avidi
e corrotti senza alcuna distinzione critica tra chi governa e chi è
all’opposizione; l’indifferentismo ideologico; la tendenza al disimpegno
sociale e all’occuparsi esclusivamente del proprio gretto ‘particolare’”33.
Nel dicembre 1944 Giannini fondò un giornale, “L’uomo qualunque”. Il
foglio, e il movimento che ne derivò, attaccavano la ‘classe’ dei ‘politici di
professione’. La politica in sé era considerata inutile, e per governare
l’economia bastava “un bravo ragioniere”. Usando un linguaggio sboccato
(altri populisti e movimenti antipolitici l’avrebbero poi ripreso e copiato)
Giannini inveiva contro i partiti e le istituzioni dello Stato. Il ‘vento del Nord’
(il nome assunto dai cambiamenti radicali proposti dalla generazione della
Resistenza) diventava ‘il rutto del Nord’, e Rai significava ‘Restituitela Agli
Italiani’. Giannini non era fascista, e trattava Mussolini con estrema volgarità,
ma molti dei suoi bersagli erano antifascisti.
Nelle elezioni del 1946 il nuovo movimento di Giannini conquistò uno
stupefacente 5,3 per cento del voto nazionale, che sarebbe diventato molto di
più nelle amministrative del novembre dello stesso anno. L’Uomo Qualunque
fece man bassa di voti in molte città meridionali, diventando il primo partito
in luoghi importanti come Catania e Bari (dove una coalizione di cui faceva
parte ottenne rispettivamente il 34,6 e il 46 per cento) e Palermo (24,5), ma
riuscì a prendere più del 20 per cento anche a Roma, e non sfigurò nemmeno
in una città come Firenze (13,7). Giannini gongolava: “Noi soli abbiamo
vinto”. Ma non era uno stratega, e fece una serie di errori che portarono al
rapido declino del suo movimento; tra questi, un’infelice sequenza di colloqui
con il leader comunista Palmiro Togliatti – risultò evidente che i suoi seguaci
non avevano intenzione di collaborare con quella parte della sinistra.
Ulteriori tentativi di venire a patti con altri partiti finirono tutti male.
Giannini non era in grado di controllare il suo stesso partito, i cui esponenti si
ribellavano ai suoi ordini. Il 1948 vide una netta contrazione dei numeri, e
poco tempo dopo il movimento venne di fatto disciolto. La parola
‘qualunquismo’ è entrata a far parte della lingua italiana, quasi sempre in senso
negativo, quasi un insulto. L’Uomo Qualunque sparì rapidamente, ma le
forze che lo sostenevano, e che ne avevano favorito l’ascesa, restavano in
campo. La retorica, il linguaggio e le tattiche dell’antipolitica continuarono a
pesare sulla vita pubblica e politica del paese.

Figure e simboli nell’Italia repubblicana


Enrico De Nicola era un giurista napoletano, un liberale antifascista che aveva
occupato posizioni di rilievo prima della presa di potere mussoliniana. Era
stato perfino presidente della Camera, nei primi anni ’20. Non era un
personaggio particolarmente noto, carismatico o ambizioso, ma questi
‘attributi’ si adattavano bene ai requisiti di un presidente dopo il culto della
personalità di Mussolini e del re. De Nicola era sempre elegantissimo, e
sfoggiava dei magnifici baffi. Fu eletto dal Parlamento a larga maggioranza, e si
insediò il 1° luglio 1946 come primo presidente della Repubblica italiana.
Arrivò in ritardo alla cerimonia di investitura, guidando di persona la sua auto
e portando da sé la cartella di cuoio. De Nicola aveva anche una certa età
(sessantotto anni), un altro ‘attributo’ garantito dalla Costituzione: il
presidente deve aver compiuto almeno cinquant’anni al momento
dell’elezione. Gli italiani non volevano nessuno al potere troppo a lungo. De
Nicola fu un capo di Stato riluttante, in netto contrasto con lo stile e i
contenuti dell’immagine mussoliniana. Rifiutò qualsiasi tipo di retribuzione,
e non volle trasferirsi al Quirinale. Nel maggio 1948 venne eletto un nuovo
presidente, Luigi Einaudi, e De Nicola diventò senatore a vita.
Occorreva anche un inno nazionale. Quello vecchio, la Marcia Reale, era
ormai chiaramente inopportuno – si apriva con “Evviva il re! Evviva il re!
Evviva il re!”. La Marcia Reale era stata temporaneamente sostituita nel 1943
con una canzone della Prima guerra mondiale, e la ricerca di un nuovo inno
repubblicano fu ripresa solo dopo il 1945. Alla fine fu scelto un nuovo pezzo
che in realtà era molto vecchio – risaliva al Risorgimento. Nell’ottobre 1946 il
Consiglio dei ministri scelse l’Inno di Mameli come inno nazionale34. Per
tutto il dopoguerra faticò alquanto a ispirare forti emozioni, e fu a lungo
associato con l’estrema destra. Le parole – “l’elmo di Scipio”, “schiava di
Roma” – non aiutavano molto.
Col tempo gli italiani si abituarono all’inno, che oggi viene cantato più
spesso – per lo meno il primo verso. Cambiò anche la bandiera, senza più lo
stemma reale al centro. Qualcuno si limitò a strappare lo stemma, lasciando il
buco come indicazione concreta del cambiamento avvenuto in Italia. I ritratti
del re e di Mussolini erano già finiti nella spazzatura, e così numerose statue.
Cambiavano i nomi delle vie, e degli stadi e delle squadre di calcio, costrette
dal fascismo a ‘italianizzarsi’: il Football Club Internazionale era diventato
A.S. Ambrosiana-Inter, e ad Associazione Calcio Milan era stata aggiunta la
‘o’. Entrambe le squadre ripresero il nome originale dopo la guerra. L’Italia
cominciava ad assumere anche l’aspetto di una democrazia.

La costruzione di un nuovo Stato:


la Costituzione italiana
Il cielo era vuoto.
Giuseppe G. Floridia35
Nel giugno 1946, pur se in grande agitazione politica, sociale e culturale,
l’Italia non aveva più un dittatore né un re. Era sbocciata la democrazia, e
fiorivano i partiti guadagnando ogni giorno nuove adesioni. Era tempo di
tentare la costruzione di un nuovo Stato. I ventidue mesi successivi avrebbero
assistito a una serie di eventi cruciali per la nazione italiana: l’inizio della
Guerra fredda, la ratifica di una nuova Costituzione nel gennaio 1948, e le
decisive elezioni dell’aprile dello stesso anno. Questi tre momenti
strettamente collegati avrebbero fissato i lineamenti culturali dell’Italia per
buona parte del dopoguerra.
Il 2 giugno 1946 – la stessa data dello storico referendum sulla monarchia –
556 persone furono elette all’Assemblea costituente. Si era aperta l’epoca della
politica di massa, dominata da grandi partiti con tanti iscritti e dalle
organizzazioni ad essi collegate: sindacati, giornali, politiche culturali. La
Democrazia cristiana (35,2 per cento), il Partito socialista (20,7) e il Partito
comunista (18,9) raccoglievano insieme quasi il 75 per cento dei voti.
Nessuna delle altre forze fece numeri al di sopra di una cifra. Compito
dell’assemblea era la stesura di una nuova Costituzione. L’aula e le diverse
commissioni furono impegnate in intensi dibattiti dal 25 giugno 1946 alla fine
del 1947: su ogni virgola, parola e articolo vi furono lunghe e complesse
discussioni. I membri dell’Assemblea erano consapevoli dell’importanza di
ognuna delle loro decisioni. Si accingevano a creare una nuova nazione, una
repubblica democratica. Il fantasma del passato ventennio era ovunque:
Mussolini era morto ma, come abbiamo visto, il suo spettro si aggirava ancora.
Ogni frase venne elaborata fino a trovare il consenso. Il famoso articolo 1
subì un gran numero di emendamenti e correzioni prima che si arrivasse
finalmente a un accordo. In una delle prime versioni, per esempio, si diceva
che “lo Stato italiano ha ordinamento repubblicano, democratico,
parlamentare, antitotalitario”, ma alla fine tutti accettarono questo elegante
compromesso: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.
Un inizio promettente: antifascista, quasi socialista, con un messaggio di forte
portata. Fu un momento rivoluzionario, fondativo. Erano tempi straordinari:
quasi tutto si poteva mettere in gioco.
Chi erano i membri dell’Assemblea costituente? Molti erano stati attivisti
antifascisti, che sotto il regime avevano subìto anni di prigione, di esilio o di
confino interno in luoghi remoti. Parecchi avevano fatto la Resistenza armata,
mentre altri avevano avuto un ruolo più passivo. Alle discussioni
partecipavano pezzi grossi della dirigenza partigiana come Arrigo Boldrini
(nome di battaglia “Bulow”), Vincenzo Moscatelli (“Cino”), Teresa Mattei
(“Chicci”), Giuliano Pajetta (che era stato a Mauthausen) e Giuseppe
Dossetti. C’erano esperti in diritto, in scienze politiche e nella pubblica
istruzione. Tra i democristiani comparivano i nomi che avrebbero poi
costruito la storia politica della repubblica: Aldo Moro, Giulio Andreotti,
Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani – quattro personaggi che da soli
avrebbero occupato la poltrona di presidente del Consiglio per ventisei volte
tra il 1946 e il 1992.
Nei dibattiti comparivano anche celebri nomi dell’Italia liberale prefascista –
Ivanoe Bonomi, Francesco Saverio Nitti, Benedetto Croce, Vittorio
Emanuele Orlando – e di sindacalisti già attivi in epoca giolittiana come
Ludovico d’Aragona e Giuseppe Di Vittorio. Dell’Assemblea faceva parte lo
scrittore socialista, in precedenza comunista, Ignazio Silone, e tra i cosiddetti
‘autonomisti’ compariva il soldato e scrittore Emilio Lussu, che era fuggito dal
confino fascista per l’esilio in Francia. ‘Costituenti’ furono anche i due figli di
Giacomo Matteotti, Giancarlo e Matteo. Qualcuno era riparato a Mosca,
qualcuno in Francia, qualcuno in Svizzera. Nell’arco di tempo compreso tra
gli anni ’50 e ’90 sette di loro sarebbero diventati presidenti della Repubblica:
Luigi Einaudi, Giovanni Gronchi, Antonio Segni, Giuseppe Saragat,
Giovanni Leone, Sandro Pertini e Oscar Luigi Scalfaro.
C’erano soltanto ventuno donne. Come abbiamo già visto, le donne italiane
poterono votare per la prima volta – finalmente – nel 1946. Potevano anche
essere elette in diversi organismi, sebbene questo diritto non fosse stato
concesso senza lotte, e ancora non fosse universale36. Le istituzioni pubbliche
(e private), e lo stesso sistema politico, rimanevano profondamente prevenuti
in favore degli uomini. Delle ventuno donne costituenti (un mero 3,7 per
cento dell’Assemblea), due erano socialiste, nove democristiane e nove
comuniste.
Chi erano queste pioniere, le prime donne entrate nel Parlamento italiano?
Erano tutte antifasciste, e alcune erano state attiviste nella Resistenza. Teresa
Noce, per esempio, era stata tra i fondatori del Partito comunista, aveva
partecipato alla guerra di Spagna ed era sopravvissuta ai famigerati campi di
Ravensbrück e Flossenbürg, dove l’avevano deportata dalla Francia. La sua
autobiografia, pubblicata negli anni ’70, sarebbe stata intitolata Rivoluzionaria
professionale. Faceva parte anche (con altre quattro donne) della Commissione
di settantacinque membri che preparava i testi per la discussione in aula.
Occorreva tenere sempre la guardia alzata: i giornali commentavano nei
dettagli l’aspetto di quelle prime deputate e il loro abbigliamento. Riuscirono
comunque a portare la questione dell’eguaglianza e dei diritti delle donne al
centro dell’Assemblea.
Quasi tutti i costituenti concordavano su un punto almeno della loro
agenda. Il fascismo (e la monarchia) dovevano restare banditi per sempre. Era
questa la posizione generale minimale intorno alla quale si erano formate le
fragili alleanze della Resistenza. Il presidente dell’Assemblea – il socialista
moderato Giuseppe Saragat – fu eletto nel 1946; nel 1947 il suo posto fu
preso dal comunista Umberto Terracini. L’ultimo dei costituenti, Emilio
Colombo, è morto nel 2013.
Il desiderio condiviso di evitare un altro Duce (o re) portò all’elaborazione di
un complesso sistema di poteri, in base al quale nessuno avrebbe più potuto
assumere il controllo totale (o almeno così si sperava). Ma ogni Stato deve
avere un capo. La Costituzione venne dunque a un compromesso: il
presidente della Repubblica avrebbe avuto una scadenza settennale e poteri
importanti – lo scioglimento del Parlamento e la convocazione delle elezioni,
la nomina dei ministri e del presidente del Consiglio, la firma su tutte le leggi,
la nomina dei senatori a vita. Ma veniva eletto dal Parlamento, non
direttamente dal popolo, e in genere veniva scelto tra gli interni al sistema –
persone dotate del dovuto senso dello Stato.
Il concordato tra Chiesa e Stato stipulato da Mussolini nel 1929 (i Patti
lateranensi) aveva risolto la cosiddetta ‘questione romana’, che aveva
ufficialmente isolato il mondo cattolico dall’Italia e dai suoi governi fin dalla
nascita della nazione negli anni ’60 e ’70 dell’Ottocento. L’articolo 7 della
Costituzione fu lasciato passare per ordine del leader comunista Palmiro
Togliatti, ansioso di non alienarsi i cattolici. Si dichiarava che “Lo Stato e la
Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I
loro rapporti sono regolati dai Patti lateranensi. Le modificazioni dei Patti,
accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione
costituzionale”. Fu una vittoria importante per la Chiesa, un compromesso
che lasciava sostanzialmente immutate le relazioni con lo Stato del periodo
fascista. Nessuno avrebbe messo mano a questo rapporto, estremamente
vantaggioso per la Chiesa, fino agli anni ’80.
Il Parlamento doveva avere un ruolo fondamentale, e tutte le leggi erano
soggette a un esame puntiglioso. La maggior parte degli atti legislativi doveva
passare il vaglio di entrambe le Camere prima di accedere alla Gazzetta
Ufficiale. La cosa complicava ogni prospettiva di riforma, ma soprattutto
rendeva estremamente problematica una controriforma. E proprio questo si
voleva: alla riforma – si sperava – si doveva arrivare soltanto con un ampio
consenso. Mai più un partito o un individuo sarebbe riuscito a trasformare il
paese a suo arbitrio, sopprimendo gli altri. Al di sopra di tutto, i principi della
Costituzione avrebbero garantito che le leggi stesse non divenissero strumenti
repressivi. Ovunque c’erano pesi e contrappesi che distribuivano i poteri
mantenendoli entro limiti precisi. La Costituzione veniva costruita per
durare. Una volta concordata, era molto difficile da modificare.
Anche il presidente del Consiglio dei ministri vedeva limitate le sue
competenze: non poteva nemmeno nominare i suoi ministri, né convocare le
elezioni. Di conseguenza era spesso ostaggio del Consiglio, del proprio partito
e del Parlamento stesso. Si affermava così un sistema di negoziato permanente,
in cui il potere veniva condiviso tra diversi individui e istituzioni.
Il sistema politico italiano era stabile e instabile a un tempo. Fedele agli ideali
antifascisti, la Costituzione repubblicana imponeva una forma particolarmente
‘pura’ di rappresentanza proporzionale. Ne conseguiva che in Parlamento
risultavano rappresentati praticamente tutti, dai neofascisti e i monarchici a
destra ai partiti della sinistra estrema. Il sistema favoriva i piccoli partiti, che in
genere esercitavano un potere molto maggiore di quanto pareva meritare
l’entità del loro elettorato. Una volta resi praticamente inevitabili i governi di
coalizione, a Roma presero piede rituali politici quali le consultazioni tra il
presidente della Repubblica (cui spetta formalmente la nomina del premier e
dei ministri) e i capi dei partiti. Uno dopo l’altro marciavano dentro e fuori
dall’ufficio del presidente (c’erano tanti partiti da consultare) cercando un
accordo sul nome del prossimo presidente del Consiglio. Poteva andare avanti
per settimane, persino mesi.
I governi andavano e venivano con grande regolarità (indipendentemente
dalle elezioni), cadendo spesso su questioni apparentemente di poco conto,
ma gli uomini di potere erano sempre gli stessi. La Democrazia cristiana
avrebbe governato ininterrottamente fino al 1992 – ma di rado lo fece da sola.
Ci furono alleanze con la sinistra, col centro e a volte con la destra, ma il
perno era sempre la DC. Qualcuno diceva che non potesse perdere, dato il
delicato equilibrio politico imposto dalla Guerra fredda. Comunque fosse, i
democristiani non persero mai un’elezione. I loro esponenti principali non
furono quindi mai lontani dal potere, con tutte le ramificazioni nelle strutture
di influenza e nelle istituzioni che questo stato di quasi-permanenza poteva
favorire. La Costituzione e il clima politico del dopoguerra fecero sì che nella
Prima repubblica gli unici giocatori fossero i partiti. Nell’epoca dei partiti di
massa (più o meno dal 1945 ai primi anni ’90) l’Italia fu spesso definita una
‘partitocrazia’, uno Stato retto dai partiti. I partiti decidevano i candidati e i
leader; i partiti creavano o affossavano i governi. E agivano tanto all’interno
quanto all’esterno del Parlamento. Il sistema dei partiti si andava poi
strutturando sul rigido clima di divisione internazionale, e ne veniva
alimentato. I partiti italiani si sarebbero presto schierati sui due fronti della
Guerra fredda.

La Guerra fredda
A torto ci si figura la Guerra fredda
come una glaciazione. Successe di tutto.
Rossana Rossanda37
La Seconda guerra mondiale era ufficialmente finita, ma si era già aperto un
altro conflitto: la Guerra fredda. Nel gennaio 1947 Alcide De Gasperi andò
negli Stati Uniti: l’Italia aveva bisogno di soldi. Fu un viaggio difficile –
impiegò due giorni per arrivare a Washington. Le trattative furono molto
dure. Alla fine, il 15 gennaio, ottenne la promessa di un grosso prestito
americano. La visita fu comunque presentata come “un trionfo delle
pubbliche relazioni”, compresa una gita a New York, che accolse De Gasperi
“come un eroe vincitore”38. I soldi sarebbero poi arrivati attraverso il Piano
Marshall, ma non si trattava solo di denaro: i soldi americani si portavano
dietro la propaganda, compresi i “treni dell’amicizia (o della libertà)” che per
tutto il 1947 attraversarono l’Italia, bandiere al vento, pieni di rifornimenti per
la popolazione39.
La lotta contro il comunismo non fu condotta solo a parole. Il Primo maggio
1947 qualcuno aprì il fuoco, dall’alto, su una festosa manifestazione sindacale
a Portella della Ginestra, in Sicilia. La folla fu falciata dalle mitragliatrici:
undici morti, tra i quali una bambina di otto anni. Dieci giorni prima
un’alleanza tra socialisti e comunisti aveva vinto le elezioni regionali nell’isola.
La strage fu opera di un sedicente ‘bandito’ di nome Salvatore Giuliano e della
sua banda, ma sui motivi il dibattito è sempre rimasto aperto. Il ministro degli
Interni Mario Scelba escluse qualsiasi motivazione politica, mentre secondo
altri l’attacco era legato al timore che la sinistra mettesse le mani sulle
istituzioni politiche siciliane. Che fosse coinvolta la mafia era quasi certo.
Molti altri comunisti, socialisti e sindacalisti avrebbero pagato la loro militanza
con la vita, in Sicilia e altrove. Nell’Italia del dopoguerra la battaglia tra destra
e sinistra non fu soltanto verbale o simbolica: ci furono anche morti e
sofferenze.
Mentre l’Assemblea era ancora immersa nelle discussioni sulla nuova
Costituzione, l’Italia entrava ufficialmente nella Guerra fredda. Con una
mossa a sorpresa, il 13 maggio 1947, De Gasperi si dimise dalla presidenza del
Consiglio, e alla fine del mese formò un nuovo governo senza i socialisti e i
comunisti, di fatto cacciati dal potere per mano democristiana. Qualcuno
avrebbe poi sostenuto che questo fu il prezzo politico pagato da De Gasperi
per i dollari che gli avevano promesso nel viaggio negli Stati Uniti. Lo stesso
processo si verificò anche in Francia, più o meno nello stesso periodo. Una
scissione nel Partito socialista – numerosi deputati e iscritti ne uscirono per
costituire un piccolo partito moderato e filo-occidentale – consentì a De
Gasperi e ai democristiani di costruire una salda alleanza. La fragile unità
politica antifascista era frantumata. Da quel momento in poi, fino agli anni
’90, la politica italiana sarebbe stata divisa sulla linea dei blocchi internazionali.
Nella nuova guerra in tempo di pace l’Italia era in prima linea. La Guerra
fredda vide spesso i suoi momenti più caldi ai margini del paese, soprattutto
sul confine orientale, che coincideva con la Cortina di ferro d’Europa. Qui gli
effetti della guerra mondiale continuarono a farsi sentire per anni. Gorizia,
una cittadina sul confine con la Jugoslavia che era stata rasa al suolo durante la
Prima guerra, fu tagliata a metà dal trattato di pace del 1947, che segnava il
nuovo confine. Gli jugoslavi svilupparono la città oltreconfine, chiamandola
Nova Gorica, ma il boccone più ambito era Trieste, un tempo grande porto e
ancora ricca di valore simbolico sia per l’Italia che per la Jugoslavia. Trieste fu
liberata dai partigiani di Tito nel 1945, ma fu presto ripresa dagli italiani. In
questa città il peso della memoria divisa fu particolarmente sentito: ancora
oggi si discute perfino sul senso della parola ‘liberazione’. In quanto zona
contestata, Trieste e i suoi dintorni furono ripartiti, come Vienna e Berlino, in
zone di occupazione nazionale. Non sorprende che per tutto il dopoguerra vi
si confrontassero due versioni molto diverse del passato. A Trieste il lascito
della guerra mondiale si fondeva con quello della Guerra fredda – qui i due
conflitti finivano per sovrapporsi.
Quando, nel 1946, si tentò di far arrivare a Trieste il Giro d’Italia, i ciclisti
furono aggrediti in aperta campagna da comunisti filojugoslavi. Volarono
sassate, e qualcuno sentì anche qualche sparo. Il territorio contestato di Trieste
era allora soggetto al controllo degli Alleati. La maggioranza dei corridori
rifiutò di continuare, ma diciassette ‘volontari’ furono caricati su un camion
militare americano e portati fino al confine della città. Il triestino Giordano
Cottur ‘vinse’ la tappa interrotta, scatenando un’orgia di retorica patriottica
sulla stampa, e parecchi spargimenti di sangue. Un giornalista di grido scrisse
che “il Giro d’Italia ha fatto il suo dovere. È andato a ritrovare gli italiani... È
andato a dire agli italiani che bisogna stare uniti e bisogna volersi bene”. La
realtà era molto più brutale. Nei tumulti che seguirono la tappa ci furono dei
morti. Il controllo che l’Italia poteva esercitare sul proprio destino era
alquanto incerto. Il messaggio trasmesso dalla catastrofe ciclistica triestina era
chiaro: se una guerra era finita, ne era iniziata un’altra.

Aprile e luglio 1948: elezioni e rivoluzione. Voti da contare, voti da pesare


Nel segreto della cabina elettorale, Dio ti vede, Stalin no!
Slogan elettorale della Democrazia cristiana, 194840
L’aprile 1948 vide la battaglia decisiva nella Guerra fredda italiana. Nel
dicembre 1947 era stata sciolta l’Assemblea costituente: aveva svolto il suo
compito. Furono quindi convocate le prime elezioni vere e proprie dopo la
promulgazione della Costituzione. Fu fissata la data: 18 aprile 1948. Quel
giorno avrebbe cristallizzato il sistema politico per i quarantaquattro anni a
venire. Il popolo italiano si trovava di fronte a una scelta secca: da una parte la
Democrazia cristiana, con il Vaticano; dall’altra il Fronte democratico
popolare per la libertà, la pace, il lavoro – comunisti e socialisti, uniti in
un’alleanza politica ed elettorale.
Fu una campagna tumultuosa. Gli appelli agli elettori ponevano la scelta
come una questione di vita o di morte. I democristiani spiegavano che “il 18
aprile voi potete salvare o distruggere la vostra libertà... la libertà di pensare e
di esprimere le proprie idee... la libertà di professare la fede dei padri”41. “La
scelta”, continuavano, “è tra il totalitarismo bolscevico, che si nasconde dietro
la maschera del Fronte cosiddetto popolare, e lo schieramento dei partiti
sinceramente democratici”. La propaganda democristiana sottolineava anche i
loro legami con gli Stati Uniti. Entrambi i fronti in questo titanico scontro
elettorale erano finanziati e armati clandestinamente dalla rispettiva
superpotenza di riferimento42.
Anche gli appelli dei comunisti lanciavano oscure premonizioni. Palmiro
Togliatti intravedeva una “minaccia del ritorno a un regime di tirannide... il
rischio di un ritorno a soluzioni di tipo fascista”. E aggiungeva che in caso di
vittoria democristiana l’Italia avrebbe perduto il controllo della propria sorte,
finendo coinvolta nelle guerre future43. Allo stesso tempo, gli enormi
manifesti della DC incollati ai muri o portati come bandiere nelle
manifestazioni erano tutti giocati sulla paura. Come racconta lo storico
Rosario Forlenza: “La propaganda visiva cattolica dipingeva i comunisti come
scheletri, personificazioni della morte, o come bestie mostruose – diavoli,
orsi, serpenti e draghi – che calpestavano il cenotafio d’Italia e ne divoravano
(metafora dello stupro) le giovani donne”44.
La Guerra fredda toccava nel profondo la vita di ogni cittadino, e le sue
emanazioni non tardarono a farsi quasi apocalittiche. Si tirava in ballo perfino
l’aldilà. Già nel dicembre 1946 papa Pio XII aveva avvertito che per gli italiani
la scelta era “con Cristo o contro Cristo”. Come ha scritto lo storico Robert
Ventresca, “per gli elettori italiani quindi, diversamente che per quelli nelle
democrazie tradizionali, non si trattava di scegliere tra i partiti politici o le
filosofie, ma tra il paradiso e l’inferno”45. Sarebbero arrivati provvedimenti e
annunci ancor più drastici. La Chiesa emise una serie di ‘scomuniche’ contro i
comunisti tesserati, e persino contro chi si limitava a votare comunista. Così si
apriva uno di questi editti:
i capi comunisti, sebbene a volte sostengano a parole di non essere contrari alla Religione, di fatto sia
nella dottrina sia nelle azioni si dimostrano ostili a Dio, alla vera Religione e alla Chiesa di Cristo46.

La scomunica non aveva mero valore simbolico. Precludeva battesimi,


confessioni, matrimoni e funerali religiosi. I provvedimenti non furono
sempre applicati alla lettera dai preti locali, ma la minaccia incombeva. I
comunisti e i loro simpatizzanti erano destinati all’inferno, non al paradiso.
A livello popolare, in tutta Italia nelle settimane precedenti le elezioni si
registrarono decine di visioni della Madonna. Ovunque “madonne lacrimanti,
madonne sanguinanti, madonne sfavillanti apparvero a bambini, adulti,
vecchi. Solo dopo il vittorioso esito delle elezioni, questa febbre mariana a
poco a poco si calmò”47.
Nella corsa finale verso le decisive elezioni nazionali del 1948 la Chiesa
superò se stessa. Tre settimane prima del voto, il 28 marzo, il papa impartì la
tradizionale benedizione pasquale dalla finestra del Vaticano. Ai fedeli disse
che “la grande ora della coscienza cristiana è suonata”. Gli italiani dovevano
scegliere48. Era uno scontro tra noi e loro; le elezioni venivano presentate come
una questione di vita o di morte, per i singoli che rischiavano la scomunica
votando a sinistra, ma anche per la Chiesa, per la religione stessa, e per il
capitalismo occidentale. “Per la propaganda cattolica le elezioni erano niente
meno che una battaglia tra Dio e Satana, Cristo e l’Anticristo, la civiltà e la
barbarie, la libertà e la schiavitù”49. In tutte le parrocchie, durante la messa i
preti inveivano contro i comunisti. Le organizzazioni cattoliche locali si
mobilitavano porta a porta.
Anche lo sport divenne uno strumento nelle macchinazioni della Guerra
fredda. La grande rivalità tra i ciclisti Fausto Coppi e Gino Bartali assunse forti
connotazioni politiche e culturali. Il cattolicesimo di Bartali era parte
integrante della sua immagine pubblica. Papa Pio XII fece perfino il suo nome
dal balcone di piazza San Pietro, e il corridore toscano divenne un
(volonteroso) combattente nella battaglia contro il comunismo, facendo
campagna per i democristiani. Coppi non era certo comunista, ma fu spesso
associato con ‘l’altra parte’ nella Guerra fredda. Gli italiani erano divisi in ogni
sfera della loro vita pubblica e privata. Il Fronte popolare aveva adottato un
nuovo simbolo per la scheda: la testa di Garibaldi col berretto rosso
sovrapposta a una stella verde (che rappresentava il lavoro). Garibaldi era
sinonimo di Italia – la sinistra tentava di far proprio lo spirito patriottico – ma
era anche un richiamo alla Resistenza, alle Brigate Garibaldi dei partigiani
comunisti.
La vasta rete nazionale di comitati civici e organizzazioni giovanili della
Chiesa operava instancabile per portare alle urne i voti democristiani.
L’organizzatore di un movimento di comitati civici, Luigi Gedda, emise un
comunicato sull’importanza del voto: “Fare in modo che tutti vadano a
votare... Ricordatevi quello che vi dico: il 18 aprile rappresenta l’ultima
trincea del cattolicesimo in Italia”50. Il giorno del voto fu un momento di
mobilitazione politica straordinario. Andò a votare più del 92 per cento degli
italiani, un record per una democrazia occidentale dell’epoca. Si raccontava di
vecchi portati al seggio a spalle, e qualcuno, temendo le conseguenze dei
risultati, tirò fuori anche le armi51. A Roma “i pazienti... degli ospedali
religiosi vennero portati al seggio in ambulanza, e costretti a votare ‘con
l’assistenza di una suora’”52. Furono in pochissimi a non presentarsi: qualcuno,
si disse, aveva votato almeno due volte.
Per la sinistra fu una disfatta. In tutto 12,7 milioni di italiani optarono per la
Democrazia cristiana, che arrivò vicina alla maggioranza assoluta, con il 48,5
per cento. L’alleanza dei due partiti di sinistra ottenne meno voti della somma
di quelli raccolti separatamente nel 1946. Circa 8,1 milioni di elettori scelsero
il Fronte popolare (31 per cento), mentre 1,8 milioni (7 per cento)
preferirono la lista di Unità socialista, che offriva un’alternativa di sinistra
schierata dalla parte dell’Occidente. Il distacco tra i vincitori e i secondi
arrivati era impressionante: circa 4,6 milioni di voti. Non ci erano andati
nemmeno vicini... Vi furono luoghi in cui il Fronte popolare andò bene: zone
tradizionalmente di sinistra come Ferrara, Bologna e Perugia, e l’Italia centrale
rimase per lo più ‘rossa’. Ma in tutto il resto del paese il gioco era saldamente
in mano ai democristiani; nella provincia di Bergamo intorno al 73 per cento,
il 61 nella città di Brescia. Soltanto il 2 per cento fece una scelta
esplicitamente neofascista, e non più del 2,8 per cento votò per il Partito
monarchico. Molti nel Fronte popolare erano stati convinti che avrebbero
vinto. Come ricordava la comunista Rossana Rossanda, “fu un duro colpo,
prima ancora di valutare le conseguenze restammo scombussolati”53. Lucio
Magri avrebbe poi sostenuto che “la sconfitta era prevedibile ma fu invece
vissuta con amara sorpresa”54.
Tradotta in seggi parlamentari, quest’ondata di voti fece della Democrazia
cristiana la forza dominante nell’Italia del dopoguerra. Come ha scritto lo
storico David Ellwood, “il 18 aprile inaugurò in Italia l’epoca del governo
democristiano perpetuo”55. La schiacciante sconfitta del Fronte popolare
portò alla virtuale esclusione, a tempo indefinito, dei ‘rossi’ dalle leve del
potere centrale. Da soli, Alcide De Gasperi e i suoi avevano la maggioranza in
Parlamento. Non avevano bisogno di alleati – anche se la cosa non si sarebbe
mai più ripetuta: il 1948 segnò il picco massimo del voto democristiano.
L’aprile 1948 mise in moto anche il processo delle alleanze internazionali.
L’Italia entrò ufficialmente a far parte della NATO (North Atlantic Treaty
Organization) l’anno dopo, nell’aprile 1949. Su questo il paese era però diviso:
i comunisti si dichiararono immediatamente del tutto contrari. Nel marzo
1949 Palmiro Togliatti lo affermò con chiarezza:
Noi diciamo no al Patto Atlantico, perché patto di preparazione alla guerra; diciamo no alla vostra
politica perché politica di ostilità e aggressione contro l’Unione Sovietica, diciamo no agli intrighi
imperialistici che voi state tessendo ai danni del popolo italiano, della sua indipendenza, della sua libertà,
e faremo tutto quanto sta in noi per smascherare e far fallire questa vostra politica56.

In realtà questa posizione ebbe valore puramente simbolico. Per citare lo


storico Silvio Pons, “dopo la costituzione della NATO e la definitiva
divisione della Germania nel 1949, il ruolo dei partiti comunisti nell’Europa
occidentale risultava chiaramente confinato alla propaganda e alle questioni
interne nazionali”57. La Guerra fredda sarebbe stata combattuta nella politica
interna.
Il 1948 impose in Italia quello che è stato definito un sistema ‘bloccato’. Un
vasto settore della popolazione fu di fatto escluso dal governo, se non da ogni
forma di potere, fino alla conclusione della Guerra fredda. Ma il 1948 fu
decisivo anche per un altro motivo, del tutto estraneo alle elezioni, e ai
normali processi politici. I voti erano stati contati; ora si trattava di pesare il
potere in altri termini: quelli della gente che scendeva in piazza.

Luglio 1948: l’Italia sulle barricate58


Antonio Pallante aveva appena ventiquattro anni quando acquistò una pistola
Hopkins a cinque colpi e partì per il lungo viaggio dalla Sicilia a Roma, nel
luglio 1948. Per l’occasione indossava un vestito scuro gessato. La sua era una
missione pericolosa, micidiale. Aveva un’idea fissa: andava a Roma per
assassinare Palmiro Togliatti, ‘il migliore’, il formidabile capo del Partito
comunista che aveva passato buona parte del periodo fascista in esilio a Mosca.
Pallante avrebbe sempre dichiarato di aver agito da solo, perché convinto che i
sovietici fossero sul punto di invadere l’Italia. Molti altri, invece, erano
convinti dell’esistenza di un complotto neofascista per eliminare il leader
comunista. Nella borsa di Pallante fu poi trovata una copia del Mein Kampf di
Hitler, ma quali fossero le sue effettive opinioni politiche non fu mai del tutto
chiaro.
A Roma Pallante si confuse con la folla a uno degli ingressi laterali del
Parlamento. Togliatti, insieme con la compagna Nilde Iotti (aveva lasciato la
moglie, un segreto ‘scandaloso’ del quale tutti in Italia erano al corrente), era
diretto verso la famosa gelateria Giolitti. Pallante gli si fece vicino, e parve
esitare; poi aprì il fuoco. Togliatti fu colpito. La Iotti gridò – “assassino!” – e
Pallante fu arrestato. Togliatti fu portato in ospedale, sotto una coperta. Uno
dei proiettili lo aveva colpito alla testa, ma era stato fermato dall’osso, mentre
un altro, quello quasi mortale, gli era penetrato in un polmone. Dissero alla
Iotti di non stargli troppo vicina, per non creare scandalo, ma lei andò
comunque all’ospedale. Il processo a Pallante fu una cosa rapida (lui definiva
Togliatti “un nemico dell’Italia”); si fece solo cinque anni e cinque mesi di
carcere, grazie all’ennesima amnistia. Togliatti si sarebbe ripreso; gli avrebbero
offerto i due proiettili a mo’ di bizzarro souvenir. Passarono poi alla Iotti.

Rivoluzione?
Quasi immediatamente dopo gli spari, scioperi e manifestazioni scoppiarono
in tutta Italia. Scrive Mario Isnenghi: “L’Italia proletaria insorge furente:
prende in pugno le grandi fabbriche, occupa le piazze, disseppellisce le armi
della guerra partigiana”59. Gli operai lasciavano gli arnesi, gli autisti
abbandonavano i tram. Per strada ricomparivano i fucili. C’era aria di
rivoluzione, e in parecchi posti pareva che proprio i capi comunisti locali
incitassero la folla. Il governo definiva gli scioperi ‘politici’ e ‘ideologici’, e
invitava alla difesa della democrazia e delle istituzioni dello Stato. Qualcuno
imputava l’attentato al clima di odio fomentato nel 1948 dalla campagna
elettorale. Come dichiarò Concetto Marchesi, politico e intellettuale
comunista, “dietro quell’arma stavano molte frasi scritte e parlate, molti
auguri mormorati o inespressi, stavano tutti i veleni alimentati dal giornalismo
finanziato dalla democrazia fascista”60.
L’ANSA, l’agenzia di stampa nazionale, lanciò la drammatica notizia a
mezzogiorno del 14 luglio. Avevano sparato a Togliatti davanti al Parlamento,
in pieno giorno. La radio nazionale attese l’una del pomeriggio del giorno
dopo per riprendere la storia, che comunque si era già diffusa in tutto il paese.
Correva voce che Togliatti fosse morto. Il governo si riunì per decidere il da
farsi, ma Mario Scelba, il duro e temutissimo ministro degli Interni, aveva già
annunciato la sua decisione – tutte le manifestazioni, “di qualunque genere”,
sarebbero state represse. Nel pomeriggio la CGIL proclamò lo sciopero
generale – da molte parti erano già cominciati gli scioperi spontanei. I
sindacati chiedevano ai lavoratori di “difendere la democrazia”.
Quel giorno morirono a Roma due operai edili: le autorità eseguivano gli
ordini di Scelba. A Torino gli uffici della “Stampa” furono occupati, e il
giornale non uscì nei due giorni successivi. Nell’enorme fabbrica della Fiat a
Mirafiori, intanto, Vittorio Valletta – l’amministratore delegato – veniva preso
in ostaggio dagli operai armati. Si disse poi che lo avevano autorizzato ad
andarsene, ma lui aveva deciso di restare in ufficio. Altri due dimostranti
morirono in una carica della polizia a Napoli, e un altro a Taranto. A Genova
sorsero le barricate, e altri due dimostranti persero la vita. Genova per un po’
fu ‘liberata’, e fu proclamato lo stato d’assedio: si mosse l’esercito.
Sul terreno pareva proprio una rivoluzione. Nel porto industriale toscano di
Piombino posti di blocco di operai armati: un ‘comitato cittadino’ assunse il
controllo temporaneo della città, impossessandosi anche della centrale
telefonica. Operai infuriati devastarono le sedi della Democrazia cristiana, del
Partito repubblicano e del Partito liberale. Per reprimere la rivolta si
chiamarono rinforzi dalle zone circostanti. Nel maggiore porto toscano,
Livorno – città con radicate tradizioni sovversive –, gli eventi furono ancor
più concitati. Il 14 luglio si sparò per strada e gli operai conversero in massa
sul centro città. Un poliziotto venne ammazzato a coltellate: si saprà poi che
era iscritto al Partito comunista, ex partigiano61. Vicino a Genova, Sestri
Ponente, “nella notte si alzano le barricate... saldando un tram ai binari e
rovesciando automobili”62.
A Ferrara, un’altra città con forti tradizioni di sinistra (il 14 per cento della
popolazione iscritto al Partito comunista), che negli anni ’20 e ’30 aveva
conosciuto alcune delle forme più violente del fascismo, la reazione alla
notizia fu immediata. Secondo Giancarlo Ziotti, ex partigiano e militante
comunista che nel 1948 era poco più che ventenne, “l’attentato a Togliatti
ebbe l’effetto di una bomba”. Subito dopo mezzogiorno esplosero gli scioperi
spontanei nelle campagne, e in centro si radunò una folla. Nelle proteste
convergevano istanze di diverso genere: dalla frustrazione per i risultati delle
elezioni di aprile alla richiesta di cacciare gli elementi fascisti ancora presenti
nelle forze dell’ordine e nella magistratura. Qualcuno parlava apertamente di
rivoluzione. Ci furono posti di blocco sulle strade, poi dispersi dalla polizia,
che arrestava gli operai armati. Si videro ex partigiani con indosso le vecchie
uniformi e i fazzoletti al collo – e spesso con le armi in pugno.
Alle cinque del pomeriggio del 14 luglio, a Roma, Togliatti riprese i sensi.
L’aveva operato uno dei migliori chirurghi d’Italia. Nel frattempo, a Ferrara,
le forze dell’ordine aprivano il fuoco, in aria e sulla folla – si videro anche delle
mitragliatrici. Tra i dimostranti e i passanti i feriti furono numerosi; un
elettricista fu colpito a un occhio. Fu un miracolo che non ci scappasse il
morto. Le finestre del municipio erano segnate dai fori di proiettile.
A Siena, non appena arrivò la notizia dell’attentato tutte le fabbriche
chiusero i battenti e qualche fascista fu picchiato. Solo gli impiegati del Monte
dei Paschi rifiutarono di partecipare, ma dopo una manifestazione davanti alla
sede della banca anche loro sospesero il lavoro. Ci furono assalti agli uffici
della Democrazia cristiana. Il 15 luglio si radunò una folla numerosa: “tutti
aspettano che dal palco venga dato il ‘via’, o per lo meno che siano fornite
alcune indicazioni immediate e precise su come continuare la lotta”63. Ma gli
oratori chiesero invece ai manifestanti di disperdersi.
Nella cittadina mineraria di Abbadia San Salvatore, nella Toscana
meridionale, la situazione precipitò. Intorno all’una del pomeriggio del 14
luglio un gruppo di dimostranti costrinse l’ufficio del telegrafo a sospendere le
trasmissioni64. Gli ex partigiani si riunirono e decisero che “i compagni
vogliono andare fino in fondo”. Alle cinque vennero tagliate anche le linee
telefoniche, provocando un’interruzione delle comunicazioni tra il Nord e il
Sud dell’Italia. Ci furono sparatorie con le forze dell’ordine, e qualche
poliziotto fu disarmato. Più tardi uno di loro rimase ucciso, e un ufficiale dei
carabinieri fu pugnalato a morte. Alla fine la rivolta fu repressa. Ci furono
quattrocento arresti, e molti degli arrestati vennero picchiati. Seguirono i
processi, con sentenze per centinaia di anni di detenzione.
L’opinione pubblica conservatrice era allarmata. Il giornale democristiano
“Avvenire d’Italia” definì gli eventi di Ferrara “quindici minuti di
rivoluzione”, aggiungendo che “provocazioni, distruzioni, ferimenti hanno
un solo colore, un solo nome: Rosso Comunismo”. Come ad Abbadia San
Salvatore, una volta conclusa la rivolta ci furono arresti in massa e processi a
tamburo battente. In città e in provincia furono arrestate o fermate oltre
duecento persone. In qualche caso le rivolte assunsero una valenza sociale: a
Ferrara fu assaltato anche l’odiato ufficio di collocamento. In tutta Italia ci
furono circa quindici morti.
Mentre molti italiani alzavano barricate o occupavano fabbriche, un altro
italiano batteva tutti in Francia. Gino Bartali aveva vinto il Tour de France nel
1938, e nel luglio 1948 scalò di nuovo quelle montagne demolendo tutti gli
avversari. Le sue eroiche imprese sportive furono quasi contemporanee
all’attentato a Togliatti e alla rivolta che seguì. Nell’immaginazione popolare,
e in molti libri di storia successivi, questi due eventi del tutto indipendenti
appaiono strettamente collegati. Si disse che Bartali aveva “salvato l’Italia
pedalando”. Aveva “distratto” gli operai in sciopero. Si raccontava perfino che
il 14 luglio De Gasperi gli avesse telefonato per chiedergli aiuto. Ovviamente
questa storia è un mito, un’invenzione, un caso di finzione storica, ma la sua
capacità di impatto fu molto utile a molti dei protagonisti degli eventi del 14
luglio. I democristiani potevano inneggiare all’impresa dell’eroe cattolico –
Bartali ‘il pio’ – che aveva anche fatto campagna per loro nelle elezioni di
aprile. Quanto alla direzione comunista, decisa a ridimensionare e
dimenticare la rivolta di luglio, fu ben felice di lasciare che la storia di Bartali
prendesse piede. Non fu Bartali a salvare l’Italia: la verità era molto più
inquietante.
Una volta dissolto il polverone, cominciarono a prendere forma due versioni
distinte degli eventi del luglio 1948. Secondo i democristiani (e la Chiesa) si
era trattato di un piano rivoluzionario preordinato, il cosiddetto “piano K”,
pronto a scattare all’“ora X”. L’interruzione delle strategiche linee telefoniche
ad Abbadia veniva addotta come prova dell’esistenza del ‘piano’. I comunisti-
scioperanti-manifestanti non erano che sovversivi antidemocratici. Nel
frattempo il Partito comunista stesso cercava di minimizzare l’accaduto
(evitando anche di parlarne in futuro). Rifiutavano di ammettere qualsiasi
piano rivoluzionario, anche se molti accusavano la direzione del partito di
“doppiezza”. Si diceva che avesse una linea ufficiale da presentare al pubblico,
e un altro sistema di tattiche – o sogni ideali – da diffondere tra i militanti più
radicali. È forse più giusto dire che si lasciò credere ai comunisti radicali che la
rivoluzione non fosse del tutto da escludere. Dopo il luglio 1948, l’idea che la
rivoluzione sarebbe prima o poi arrivata divenne più difficile da far digerire
alla base del partito.
Sul terreno, il ruolo degli attivisti comunisti appariva ambiguo. C’erano armi
ovunque. Molte sedi della DC e dell’Uomo qualunque furono assaltate, e così
quelle del neofascista Movimento sociale italiano. In qualche caso la polizia si
unì ai dimostranti. A Roma il movimento comunista si mobilitò con grande
rapidità, e la folla chiese al segretario della federazione cittadina di “dare il
segnale”. Molti erano pronti a portare a termine la rivoluzione sociale che a
loro vedere era stata arrestata nell’aprile 1945. Certi dirigenti locali furono
tentati di restare a vedere fino a che punto il movimento si sarebbe esteso.
Nella fase iniziale anche “l’Unità” aveva usato un linguaggio incendiario,
chiedendo le dimissioni del “governo della discordia, e della fame, del
governo della guerra civile”, e uscì con due edizioni speciali. Pietro Secchia,
esponente della linea dura, avrebbe poi scritto:
L’ampiezza di questo sciopero generale ha dimostrato meglio di cento discorsi parlamentari, meglio di
qualsiasi inchiesta, che le elezioni del 18 aprile sono il risultato di brogli, della corruzione, del terrorismo
politico e religioso, dell’intervento straniero... lo sciopero generale ha dato la prova più schiacciante che
la maggioranza carpita dalla Democrazia cristiana il 18 aprile non rispecchia la volontà del Paese, non
rappresenta le forze vitali della nazione65.

Non sorprende che questo tipo di analisi venisse poi usato per sostenere che
i comunisti non avevano accettato la sconfitta alle urne. Non erano
democratici, si diceva. Quella di Secchia era una lettura di classe della
situazione, che dava la priorità alla forza dei lavoratori rispetto a quella,
sgradita, delle cifre emerse dalle elezioni. A Milano, al culmine degli scioperi,
il dirigente comunista Giuseppe Alberganti aveva fatto una dichiarazione
sostanzialmente analoga davanti a una grande folla in piazza del Duomo: “il 18
aprile ci siamo contati numericamente, oggi ci pesiamo. Questo sciopero non
finirà né oggi, né domani”66. Quando invece lo sciopero finì, gli operai
infuriati presero d’assedio la casa di Alberganti.
Ma la direzione comunista era divisa. Togliatti stesso, al risveglio dopo
l’operazione, fu inorridito da quanto stava accadendo. Era da sempre molto
scettico sulla possibilità di una rivoluzione in Italia, sia sul piano tattico che su
quello ideologico. Il Meridione, come aveva dimostrato il referendum del
1946, non l’avrebbe mai accettata. Di conseguenza, partì l’ordine di chiudere
tutto prima possibile. Si racconta che, prima di perdere coscienza dopo
l’attentato, Togliatti avesse mormorato “State calmi, non perdete la testa” (ma
potrebbe essere una leggenda). La sera stessa la CGIL revocò lo sciopero
generale del 15 luglio, ma l’ordine rimase in larga misura inascoltato. Secondo
Isnenghi, fu il leader sindacale Giuseppe Di Vittorio – che in un primo
momento aveva indetto lo sciopero generale – a riportare la situazione sotto
controllo67. Ma non fu facile, e molti militanti ne furono tutt’altro che felici. Il
16 luglio molte fabbriche rimasero chiuse.
La maggioranza dei lavoratori ritornò nell’ovile. Lo Stato agì con grande
rapidità per ‘ripristinare l’ordine’. A fine agosto si registravano circa 7000
arresti legati agli eventi del 14-16 luglio, e le sentenze comminate dai tribunali
furono pesanti. Le conseguenze del luglio 1948 furono amare. Il sindacato si
spezzò, con la secessione della confederazione cattolica (CISL) dalla CGIL,
più di sinistra e vicina ai comunisti. Regnava un senso di sconfitta e delusione.
Era la ‘terza’ disfatta (1945, aprile 1948 e ora luglio 1948), ed era dura da
digerire. Mai più tanta parte della penisola sarebbe stata percorsa da tanta
attività insurrezionale. Quel tipo di rivoluzione era finito – per sempre.

Parrocchie, preti e cultura cattolica


Le mura imponenti di là del Tevere, le circa seicento chiese di Roma, le migliaia di preti e suore, i
milioni di agguerriti militanti nelle organizzazioni di Azione cattolica, sono quotidiani richiami del fatto
che Roma non è una capitale, ma due. Stalin, che una volta chiese con sarcasmo quante divisioni
comandasse il papa, non aveva mai visto piazza San Pietro la domenica mattina.

Joseph La Palombara68
La Chiesa cattolica era, ed è, ovunque in Italia. Le sue svariate istituzioni
creano una galassia di reti che coprono quasi tutti i settori della vita pubblica e
privata. Nella sola Roma si contano più di novecento chiese, e negli anni ’50
c’erano un quarto di milione di ecclesiastici, di cui “65.000 tra vescovi e
parroci”69. E c’erano, in tutta Italia, migliaia di ‘oratori’, una via di mezzo tra il
campo sportivo e l’associazione giovanile, in genere annessi a una chiesa. E
poi giornali e riviste ad alta tiratura, stazioni radio, associazioni sportive, bar,
organizzazioni culturali, case editrici, banche e agenzie di assicurazione e
credito.
A livello locale l’entità chiave era la parrocchia, “base dell’egemonia
cattolica”, e (per anni) il “prete rurale” fu una sorta di “intellettuale ‘organico’
della comunità interclassista stretta intorno al campanile”70. I parroci erano
guide religiose, ma anche molto, molto di più. Facevano da sensali per i posti
di lavoro e i matrimoni, e spesso gestivano, in modo diretto o indiretto, gli
immobili della Chiesa.
La Democrazia cristiana utilizzava questa estesa rete locale per consolidare il
proprio potere. La politica, come ha sostenuto Mario Isnenghi, non operava
mai in modo autonomo, per se stessa, “ma sempre tramite la mediazione del
sacro, dell’istituzione, del codice, delle figure, dell’orizzonte della religione
tradizionale”71. Nell’Italia del dopoguerra, le parole e i concetti della religione
– ‘salvezza’, ‘trionfo’ – venivano riferiti ad eventi politici concreti. Erano
comunità che, in qualche modo, provavano a mantenersi immuni dalla storia.
Ma c’erano momenti, come la Seconda guerra mondiale, la Resistenza e la
Guerra fredda, in cui la storia si imponeva con la forza. Anche il dopoguerra
fu un periodo di intenso conflitto sociale – gli ultimi grandi scioperi
avvennero nelle campagne – evocando amari ricordi delle violenze che
avevano diviso gli italiani nell’epoca prefascista.
La cultura cattolica e le sue istituzioni si proponevano – come si erano
proposte da secoli – in contrapposizione alle forze che consideravano avverse
ai loro valori, e possibili minacce per la loro stessa esistenza. È inoltre
importante considerare quella cattolica come una cultura di massa72. La
“produzione culturale” non fu mai soltanto calata dall’alto, ma era generata e
modificata anche dal basso. I valori chiave che la sostenevano erano “la
proprietà privata, la famiglia e la posizione subordinata della donna, il mito
della terra, l’accettazione del proprio posto nella società e della virtù
dell’obbedienza, e il castigo per gli atei, i peccatori e i rivoluzionari”73.
Secondo lo storico Giovanni Levi, “in Italia il cattolicesimo è talmente
pervasivo... è il nostro carattere antropologico... è come l’aria che si respira, è
dovunque ma è invisibile”. Secondo Levi, la “compresenza” del cattolicesimo
è il motivo per cui “lo Stato viene considerato quasi universalmente un
estraneo importuno che ognuno ha il diritto e poco meno che il dovere di
defraudare”74. I politici passano, ma la Chiesa sta sempre lì: la Chiesa vede
sempre (molto) lontano.
Dopo il 1945, per la prima volta nella storia dell’Italia unita, la Chiesa stava al
centro della politica ordinaria. I suoi uomini (e qualche donna) erano al
comando. Si era ben lontani dai primi tempi dell’unità, nell’Ottocento,
quando il papa stava rintanato in Vaticano e i re d’Italia erano scomunicati. Ed
erano tempi migliori anche rispetto al fascismo, quando il regime aveva
tentato di creare una nuova religione politica capace di sfidare la Chiesa su più
livelli. Ora la Democrazia cristiana rappresentava la sua cinghia di trasmissione
diretta con i meccanismi e le risorse del potere politico. Lo Stato e la nazione
non erano più suoi nemici, ma i suoi alleati.
Il declino (e la caduta) della monarchia e la fine del fascismo avevano lasciato
agli italiani ben poche figure in cui identificarsi. Per molti il papa colmava
questo vuoto. Come scrive John Pollard, “la Chiesa cattolica romana, con la
sua rete di 24.000 parrocchie sparse su tutta la penisola, rimaneva ormai la
principale istituzione nazionale in Italia”75.

La balena bianca: i democristiani


Nell’Italia del dopoguerra, i leader e i funzionari della Democrazia cristiana
divennero elementi quasi permanenti del ‘palazzo’, le strutture dell’autorità
all’interno dello Stato. Dopo il 1948 la ‘balena bianca’ – il soprannome del
partito: ‘bianca’ in contrapposizione al rosso, ‘balena’ per le sue dimensioni
spropositate – divenne un’organizzazione gigantesca, strutturata in potenti
fazioni, basi locali e figure di primo piano. Data la sua ferrea presa sul potere,
specie dopo l’aprile 1948, le battaglie politiche di portata nazionale venivano
spesso combattute all’interno del partito stesso, che divenne così uno stato
nello Stato.
La politica democristiana conteneva un’estesa varietà di posizioni strategiche
e basi di potere. Il controllo del partito sul potere dipendeva in buona parte
dalla distribuzione di risorse in cambio – più o meno esplicito – di voti.
Questo nesso era particolarmente efficace in Meridione. Citando ancora John
Pollard, “a partire dal 1953, ma forse anche prima, in Meridione il Partito
democratico cristiano cominciò a trasformarsi in un’organizzazione in larga
misura clientelare, per di più penetrata dalla criminalità organizzata: la mafia in
Sicilia, la ’ndrangheta in Calabria, la camorra a Napoli”76.
I democristiani non tardarono ad allungare i tentacoli su tutti i settori dello
Stato – compresi i mezzi di comunicazione e il sistema giudiziario – e su vaste
porzioni del privato. La DC era sostenuta e in parte finanziata dagli Stati Uniti
(attraverso il Piano Marshall e altri canali), esercitava un richiamo interclassista
al di là di quello strettamente legato alla religione, e sfruttava lo Stato e la
Chiesa per costruire reti di consenso legate alle risorse (posti di lavoro,
assistenza, alloggi) e alla loro distribuzione, che rafforzavano quelle del partito.
L’ideologia democristiana predicava la pace sociale e l’‘ordine’77. Era un forte
partito nazionale nel vero senso della parola, ma dotato di profonde radici a
livello locale. Non era legato a un’ideologia specifica (al di là
dell’anticomunismo), e stava al passo coi tempi. Il partito voleva e poteva fare
riforme, costruire case e strade, e progettare per i suoi elettori uno stato
sociale.
Anche le grandi organizzazioni cattoliche raccoglievano consensi nella classe
operaia – dalle ACLI, le Associazioni cattoliche dei lavoratori, alla vasta
confederazione sindacale ‘bianca’ che prese il nome di CISL nel 1950. La base
democristiana andava dai proprietari terrieri (grandi e piccoli) del Sud ai
piccoli imprenditori del Nord, dagli operai ai contadini, alle classi medie
impiegate negli uffici, alle Poste o nelle scuole, fino ai capi delle grandi
imprese e ai ceti più ricchi.
C’erano i sindacati ‘bianchi’, le cooperative, i gruppi di pressione; e poi c’era
il partito. Una galassia politica, culturale e sociale, un mondo di
organizzazioni e sfere di influenza che operavano su tutti i gradini della scala
sociale. Mediatori e faccendieri provvedevano alla distribuzione di fondi, posti
di lavoro e appalti – in cambio di voti e sostegno. Senza appoggi politici era
spesso impossibile andare avanti in qualsiasi settore: il potere dei politici
controllava tutto, non soltanto in Parlamento e nei municipi.
Il partito era capace di assorbire le variazioni di politica e di prospettiva,
agendo come una sorta di camera di compensazione tra la destra e la sinistra.
La Democrazia cristiana non subì scissioni di rilievo per tutto il corso della
Guerra fredda, mantenendo entro i propri confini molte fazioni e complesse
strutture di partito, e le più diverse posizioni personali e politiche. Date le
divisioni nella sinistra, la vittoria elettorale era garantita. Non fu mai, o mai
soltanto, il ‘partito della classe dirigente italiana’: era molto di più, e proprio
quel ‘molto di più’ spiega tanta potenza e longevità. Per Alcide De Gasperi era
un partito egemonico che avrebbe riunito tutti i cattolici; crescendo insieme
con le sue tante organizzazioni subalterne diventava l’elemento di
collegamento tra la politica, la gente e il potere.
I democristiani avrebbero voluto governare per sempre, e senza bisogno di
alleati, ma la vittoria schiacciante del 1948 non si sarebbe più ripetuta. Dopo
le elezioni successive, nel 1953, i governi di coalizione sarebbero diventati la
norma. Preparandosi a quella campagna elettorale la DC tentò di consolidare
ulteriormente il proprio potere, introducendo una proposta di riforma
elettorale che fu subito ribattezzata ‘legge truffa’. L’idea era di assegnare un
numero maggiore di seggi al partito o coalizione che avesse ottenuto il 50 per
cento dei voti validi, con l’obiettivo – dichiarato – della ‘stabilità’. A molti
parve un richiamo un po’ troppo esplicito al fascismo (che aveva approvato
una legge analoga nel 1923), finalizzato soltanto a consolidare il controllo
democristiano. Dentro e fuori dal Parlamento la riforma scatenò una forte
campagna di opposizione, e la rapidità con cui essa fu approvata dal Senato
suscitò gravi perplessità. Ma nel 1953 i voti democristiani mancarono – di
poco – il numero necessario a innescare il premio di maggioranza. Nel luglio
1954 la ‘legge truffa’ fu abrogata. Il tentativo della DC di governare da sola era
stato sventato. Iniziava una nuova fase politica di coalizione.

I corridoi del potere


Nell’Italia democratica la politica era governata da una serie di norme scritte –
la Costituzione, le leggi ordinarie, le strutture politiche – ma spesso era
contraddistinta da comportamenti le cui radici antropologiche erano molto
più profonde. Accadeva perfino che le regole non scritte venissero messe nero
su bianco: così, per esempio, il famigerato ‘manuale Cencelli’. Mettere
insieme un governo di coalizione era sempre un’impresa. I partiti piccoli
volevano tutti il loro brandello di potere, che dava accesso a importanti riserve
di risorse – posti di lavoro, soldi, appalti pubblici. Spesso avevano da eccepire
sulla correttezza proporzionale della distribuzione. Un sottosegretario in più o
in meno era materia di battaglia, quindi occorreva una formula per risolvere i
conflitti aperti. Ne nacque, negli anni ’50, il cosiddetto ‘manuale Cencelli’,
una formula matematica che distribuiva i posti ministeriali tra i partiti in base
ai voti e ai seggi. Prendeva il nome dal suo inventore, Massimiliano Cencelli,
un piccolo funzionario e faccendiere democristiano.
La formula non era perfetta, ma funzionava. Una volta fissati gli accordi,
qualcuno si occupava dei calcoli, e i posti venivano assegnati di conseguenza.
Ovviamente non era una scienza esatta. Certi ministeri erano più importanti
di altri, non soltanto per le risorse, ma per il peso politico: i democristiani non
rinunciarono mai alla Difesa e all’Interno. Il numero dei sottosegretari
cresceva o calava secondo il momento politico: tendevano a moltiplicarsi nei
periodi di tensione e instabilità.
Non sempre clientelismo e nepotismo violavano la legge. Le norme spesso
davano modo di agevolare i giochi di scambio, o di favorire parenti, amici,
soci, sostenitori del partito. Era difficile dimostrare che qualcuno fosse stato
‘raccomandato’ per un incarico. La documentazione veniva scrupolosamente
raccolta e compilata, e i colloqui avvenivano rigorosamente secondo
regolamento. Ma il meccanismo era quasi sempre truccato: come per
miracolo, vinceva sempre il candidato ‘giusto’, e tutti lo sapevano in partenza.
E per di più, dato che così funzionava l’intero sistema, molte decisioni non
provocavano alcuna indignazione. Le cose andavano così, e così erano sempre
andate. Spesso, l’unica reazione era un’alzata di spalle collettiva.
Com’è ovvio, si verificavano anche casi clamorosi di corruzione, sia
all’interno che all’esterno del sistema politico. Gli imprenditori, la mafia e altri
passavano bustarelle ai partiti e ai politici. Spesso chi pagava era costretto a
farlo, ma non sempre era così. A volte quei soldi servivano solo a oliare le
ruote, ma in altri casi modificavano perfino il sistema generale. Arricchivano
gli individui, ma consolidavano anche le organizzazioni di partito e le
strutture di potere. La politica costava cara. Le campagne elettorali divoravano
risorse, e in un sistema di scambio il sostegno degli elettori andava ‘ripagato’.
Gli scandali per corruzione hanno punteggiato la vita politica della
repubblica, legati per lo più a soldi versati ai politici per procurarsi favori o
appalti. Ma gli atti di corruzione non erano tutti identici, e non tutti erano
corrotti. Qualcuno prendeva soldi per il partito, altri si limitavano ad
arricchirsi; qualcuno faceva entrambe le cose, altri – pochi – non prendevano
niente. Diversi scesero a patti con la mafia, e qualche audace si dedicò
attivamente al crimine organizzato. Qualcuno finì ammazzato dalla mafia –
spesso si trattava comunque di gente compromessa in precedenza. Certi
politici godevano della reputazione di ‘onesti’, come Benigno Zaccagnini, un
democristiano di primo piano fin dagli anni ’50, che fu soprannominato
‘l’onesto Zac’.
Mentre la Democrazia cristiana affondava radici profonde in tutta Italia,
anche la forza politica rivale, il Partito comunista, si preparava alla lunga
marcia. I due grandi partiti di massa si sarebbero affrontati per gran parte del
dopoguerra. Fu uno scontro titanico, non limitato alla sfera politica: investì la
cultura, la società, i rapporti di potere, plasmando le identità locali come
quella nazionale.

I rossi: i comunisti e il partito dopo il 1948


L’aprile e il luglio 1948 furono una terribile doppia disfatta per il Partito
comunista e i suoi militanti. D’un sol colpo era stata cancellata la rivoluzione,
e ogni speranza di presa di potere. A livello nazionale, il PCI si rassegnò al suo
ruolo di opposizione e di influenza culturale. A livello locale si impose un
modello riformista, con innovativi programmi di cambiamento istituzionale e
partecipazione popolare. Di rivoluzione ormai si parlava poco; per gradi, il
Partito comunista entrava a far parte del sistema.
Ai comunisti veniva però concesso di governare nelle amministrazioni locali.
In alcune regioni, soprattutto quelle ‘rosse’ dell’Italia centrale dove il Fronte
popolare aveva spesso ottenuto la maggioranza, riuscirono ad imporre una
propria politica di riformismo radicale. Il cosiddetto ‘modello emiliano’,
sperimentato in città come Bologna e Reggio Emilia, fu poi adottato da tutto
il partito. Queste amministrazioni municipali offrivano esempi di
cambiamento reale, pratico e creativo. I comunisti potevano vantarsi degli asili
di Reggio Emilia, famosi nel mondo, dell’innovativa edilizia popolare a
Bologna, delle reti culturali create dalle ‘Case del popolo’ e delle grandi feste
costruite dai volontari, come esempi di realtà socialiste all’interno della società
capitalista. Quelle istituzioni modello richiamarono l’attenzione del mondo.
La ‘via italiana al socialismo’ raccolse seguaci in tutta Europa, e per qualche
tempo l’‘eurocomunismo’ fu di gran moda. Si immaginava una sorta di lunga
marcia attraverso le istituzioni, una serie di cambiamenti strutturali pratici e
realizzabili ai quali si poteva arrivare senza una rivoluzione violenta.
Competenze tecniche e politiche venivano messe al servizio della comunità.
In certi posti in Italia, pareva esistere un socialismo veramente ‘reale’. Una
nuova generazione di comunisti, eletti nel dopoguerra, si accingeva al proprio
compito con entusiasmo e spirito di sacrificio.

Il culto della personalità


La prima comparsa in pubblico di Palmiro Togliatti dopo l’attentato fu al Foro
Italico a Roma (un luogo sul quale impera l’architettura fascista) nel settembre
1948. Stando al suo biografo Aldo Agosti, quel giorno vennero ad ascoltare il
suo discorso 500.000 persone78. Per l’occasione Carlo Lizzani, un regista
vicino al partito, girò un documentario agiografico intitolato Togliatti è
ritornato. Togliatti non era più soltanto un leader forte e popolare: era
diventato anche una sorta di martire vivente. Secondo Agosti, nella storia del
PCI quello fu “un momento significativo, se non addirittura l’atto di nascita,
di un ingenuo e spontaneo ‘culto’ di Togliatti”79. Altri hanno sostenuto
invece che il culto fu costruito ad arte. Giorgio Bocca racconta il modo in cui
il partito avrebbe organizzato le celebrazioni per il sessantesimo compleanno
di Togliatti (nel 1953), nominando “una commissione apposita per i
festeggiamenti, che fa editare in un anno due volumi dei suoi discorsi
parlamentari per i tipi di Einaudi, una sua biografia illustrata con 134 pagine
fotografiche, e poi raccolte di saggi, di discorsi; più di trenta opere”80. La vita
di Togliatti era normale, ordinaria, persino noiosa – banali vacanze estive in
Val d’Aosta, che preferiva di molto all’Unione Sovietica – ma aveva anche
taluni aspetti, come l’attentato del 1948, che lo elevavano al rango di eroe.
“Ha da venì Baffone”: Stalin,
l’Unione Sovietica e il comunismo italiano
Nel 1949 Togliatti incontrò Stalin per la prima volta dopo cinque anni. Non
c’erano dubbi sulla scelta di schieramento dei comunisti italiani nella Guerra
fredda, a dispetto dell’esito devastante dell’aprile 1948. In Italia lo stalinismo
era tanto popolare quanto imposto dall’alto. Il legame con l’Unione Sovietica
fu particolarmente sentito dopo il 1945, quando il ricordo della guerra era
ancora fresco; e non erano soltanto i comunisti ad apprezzare l’immenso
sacrificio compiuto dal popolo sovietico – col suo capo Stalin, il ‘Baffone’ –
nella Seconda guerra mondiale. Molti militanti del partito veneravano la
persona stessa di Stalin, e traevano ispirazione dal ‘modello sovietico’. Il
rapporto del Partito comunista italiano con l’URSS e con il blocco orientale,
il ‘socialismo reale’, era organico e costante. Per tutto il corso della Guerra
fredda, dall’Unione Sovietica ‘l’oro di Mosca’ fluì (illegalmente) nelle casse del
partito.
Alla morte di Stalin, nel marzo 1953, “l’Unità” diede voce alla potenza del
culto della personalità con un titolone in prima pagina: “Stalin è morto –
Gloria eterna all’uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il
progresso dell’umanità”. Lo stesso tono retorico venne utilizzato nei
comunicati ufficiali che collegavano Stalin con Togliatti.
I comunisti italiani si raccolgono, nel nome di Stalin, attorno al loro partito, al loro Comitato centrale
e al compagno Palmiro Togliatti, l’uomo che, alla scuola di Stalin, più ha fatto per la liberazione
nazionale e sociale del nostro Paese. Essi chiamano tutti gli italiani a stringersi sempre più numerosi
intorno alla loro bandiera, simbolo degli ideali più alti dell’umanità, ai quali Stalin ha consacrato tutta la
sua prodigiosa leggendaria esistenza.
Gloria eterna a Giuseppe Stalin!81

Ancora non bastava. Per citare l’antropologo David Kertzer, “il PCI mandò
alle cerimonie funebri a Mosca l’intera direzione; su insistenza del PCI il
Parlamento italiano sospese le attività per una giornata”82. Si stamparono
‘santini’ da distribuire agli iscritti, con una didascalia semireligiosa: “Gloria
eterna a Stalin, amico, maestro, guida dei popoli”. “Rinascita”, la rivista del
PCI, lo definì “un genio”. E non si trattava solo di un culto imposto dall’alto:
il dolore era sentito. Lo storico Paolo Spriano ricorda che “gli operai
piangevano”83. Il giornalista Giorgio Bocca – non certo un comunista – scrive
che alla notizia della morte di Stalin “il dolore del proletariato italiano è
profondo, sincero”84.
L’iperbole staliniana non emanava soltanto dai comunisti. Sandro Pertini,
socialista e futuro presidente della Repubblica, nel 1953 tenne in Parlamento
un discorso in elogio di Stalin:
Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto. Siamo costernati dinanzi a
questa morte per il vuoto che Giuseppe Stalin lascia nel suo popolo e nell’umanità intera. Signori, se
abbandonate per un istante le vostre ostilità politiche, come le abbandono io in questo momento, dovete
riconoscere con me che la vita di quest’uomo coincide per trent’anni con il corso dell’umanità stessa85.

Dirigenti e militanti del PCI visitavano spesso l’Unione Sovietica e gli altri
paesi del blocco orientale; ci andavano anche in vacanza. Togliatti, per
esempio, rimase a Mosca per due mesi nel 1951; sarebbe morto a Yalta, sul
Mar Nero – in vacanza, appunto – nel 1964. Anche Enrico Berlinguer, capo
del PCI dal 1972 al 1984, vi si recò spesso.
I canali aperti tra il PCI e il blocco comunista consentivano al partito di “far
sparire” chi rischiava una condanna per reati commessi in Italia. Parecchi esuli
comunisti finirono così in Cecoslovacchia, dove molti collaborarono con una
stazione radio di propaganda destinata all’Italia. Il personaggio più famoso di
questo gruppo era Franco Moranino, che era stato comandante partigiano,
membro della Costituente, sottosegretario e deputato del PCI. Nel 1956 fu
condannato all’ergastolo per aver ordinato l’esecuzione di cinque presunte
spie e di due delle loro mogli/compagne durante la guerra. La sentenza fu
ridotta nel 1958, ma lui ritornò in Italia solo nel 1968, dopo aver ottenuto la
grazia presidenziale. Nello stesso anno venne rieletto al Senato. Altri
esponenti di questa comunità di esuli passarono il resto della vita all’estero,
diventando quelli che un autore ha definito “Uomini-Ex”86.
Sul piano culturale e politico, il comunismo italiano si ispirò spesso al
modello sovietico e allo stile del socialismo reale. Le pubblicazioni e gli
oratori comunisti tessevano le lodi dell’Unione Sovietica nell’arte, nello sport,
nella cultura, nella politica. Nel settembre 1959, per esempio, “l’Unità” uscì
con il titolo di testa “Il razzo sovietico ha centrato la Luna”, e nell’aprile 1961
“Un uomo Sovietico ha vinto lo spazio cosmico”.
Il PCI non era estraneo all’uso dei ‘metodi’ staliniani. Spesso ricorreva alla
censura e alla denigrazione per ignorare o calunniare i presunti nemici.
Togliatti interveniva di persona quando si trattava di questioni importanti per
lui o per il partito: la raccolta di saggi anticomunisti Il Dio che è fallito, per
esempio, che recensì soprannominandolo sprezzantemente “I sei che sono
falliti” – accusava i sei autori di essere sprofondati in “un abisso di corruzione
e degenerazione, che osa presentarsi con la maschera di intellettualità
raffinata”87. La stimolante rivista “Il Politecnico” (1945-47) fu chiusa dal
partito per eccesso di creatività e apertura. Il PCI manteneva comunque una
prospettiva abbastanza democratica, anche nei confronti di chi operava nella
sua orbita. C’erano aperture verso il mondo che cambiava: la modernità e
l’americanizzazione provocavano resistenze, ma non un rifiuto radicale.
Ci fu anche qualche segnale di dissenso interno alla linea stalinista. Nel
gennaio 1951 due deputati comunisti, Aldo Cucchi e Valdo Magnani,
uscirono dal partito per tentare di fondare un nuovo movimento. Sostenevano
un’alternativa a Stalin, secondo gli indirizzi che si supponeva venissero
sperimentati nella Jugoslavia di Tito. Magnani era stato partigiano con Tito
durante la guerra, ed era una figura di primo piano in una delle roccaforti del
partito: Reggio Emilia. La loro uscita ebbe larga eco nella stampa, ma la
direzione del partito fece di tutto per minimizzare. Togliatti scrisse che
“due pidocchi si possono sempre trovare nella criniera di un nobile destriero”;
nel partito venivano definiti “spregevoli traditori”. Questa reazione parve
confermare quanto sosteneva Cucchi sull’assenza di democrazia e dibattito
interno: “La direzione del partito ha dimostrato di non ammettere né libertà,
né democrazia nell’interno del partito, di non aver fiducia nei lavoratori
italiani, di mancare di spirito nazionale e di affidarsi a trasformazioni sociali
apportate da baionette straniere”88.
Intorno a certi personaggi, o martiri – in primo luogo Togliatti (soprattutto,
come abbiamo visto, dopo il fallito attentato del 1948), ma anche il teorico
marxista e fondatore dell’“Unità” Antonio Gramsci (che pure aveva avuto un
rapporto tormentato con Stalin e lo stalinismo, accuratamente coperto o
censurato dal partito) –, si costruirono veri e propri culti della personalità. Gli
anni di carcere sotto il fascismo e la morte prematura nel 1937 fecero di
Gramsci la figura del martire perfetto. Grandi ritratti in bianco e nero dei due
personaggi comparivano spesso alle spalle degli oratori nei raduni di massa, e
ovunque piazze e vie presero il nome di Gramsci o Togliatti. Togliatti
controllava con grande cura il modo in cui Gramsci e la sua opera circolavano
in Italia. Il culto della personalità di Togliatti si diffuse nella stessa URSS.
Dopo la sua morte una città venne rinominata Tol’jatti, e la sua faccia
comparve anche su un francobollo sovietico89.

Eseguire gli ordini?


La direzione del PCI era nella condizione di prendere le proprie decisioni?
Oppure si limitava a ‘eseguire gli ordini’ dell’Unione Sovietica? Esisteva
davvero una ‘via italiana al socialismo’ – cioè, i comunisti italiani godevano
davvero di un’indipendenza considerevole da Mosca? Il celebre storico
comunista britannico Eric Hobsbawm pubblicò nel 1976 un piccolo (ma
influente) libro-intervista a Giorgio Napolitano sul PCI90. In quella
prospettiva, era stato il partito stesso ad elaborare – ispirandosi a Gramsci e ad
altri – le proprie tattiche democratiche, di stampo riformista e non
rivoluzionario, e profondamente inserite nella tradizione socialdemocratica
europea. Secondo lo storico Kogan, “in ambito italiano... [i comunisti] hanno
sempre determinato le proprie scelte tattiche e strategiche”91.
Per altri invece si trattò di un quadro molto più oppressivo, in cui qualcuno
dava ordini, e qualcuno li eseguiva: in questa versione della storia, il partito era
un burattino di Mosca. Negli anni ’40 e ’50 la politica estera del PCI fu
indubbiamente condizionata dalle esigenze sovietiche, ma quella interna era
più flessibile. In ogni caso, l’URSS non aveva interesse a una rivoluzione
comunista in Italia. La moderazione era auspicabile di per sé. Togliatti
dichiarò esplicitamente, in molte occasioni, di non considerare possibile (né
desiderabile) in Italia un cambiamento rivoluzionario di tipo bolscevico.
Come scrisse su “Rinascita” nel 1950, usando lo pseudonimo Roderigo di
Castiglia: “quale dei nostri militanti crede ancora che preso il potere, come
hanno fatto gli operai russi nel 1917, si crei il paradiso?”92.
L’identificazione dei comunisti con l’Unione Sovietica di fatto escluse il
partito da qualsiasi accesso al governo nazionale in Italia dal 1947 fino agli
anni ’90. Come sostiene Silvio Pons, “Nonostante il carattere di massa e la
base sociale del PCI, esso occupò soltanto un ruolo periferico nella politica
italiana all’inizio della Guerra fredda e oltre... le politiche decise da Stalin e
Togliatti tra il 1944 e il 1948 definirono i limiti dell’attività dei comunisti per
decenni a venire”93.
Eppure il PCI rimase teoricamente a favore di un tipo di società interamente
nuovo per buona parte del dopoguerra. Ancora nei tardi anni ’60, per
esempio, lo statuto del partito dichiarava che
Il Partito Comunista Italiano è l’organizzazione politica d’avanguardia della classe operaia e di tutti i
lavoratori, i quali, nello spirito della Resistenza e dell’internazionalismo proletario e nella realtà della
lotta di classe, lottano per l’indipendenza e la libertà del paese, per l’edificazione di un regime
democratico e progressivo, per l’eliminazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, per la libertà e la
valorizzazione della personalità umana, per la pace tra i popoli: per il socialismo94.

Di fatto, e soprattutto dopo il 1948, il PCI era un partito riformista, che


operava all’interno del sistema. La rivoluzione – l’idea stessa di una società
socialista come obiettivo finale – era stata messa da parte, forse per sempre,
sebbene molti militanti cercassero ancora a oriente un modello di mondo
alternativo.
Ci furono occasioni in cui la direzione del PCI usò ancora il linguaggio della
lotta di classe. Nel gennaio 1950 a Modena cinquecento operai manifestarono
davanti alle Fonderie Riunite contro i licenziamenti, e la polizia aprì il fuoco.
Si contarono più di duecento colpi. Quando si diradò il polverone, a terra
c’erano sei operai morti. Il discorso di Togliatti agli operai di Modena durante
i funerali che seguirono la sparatoria fu pieno di rabbia:
Chi vi ha condannati a morte? Chi vi ha ucciso? Un prefetto, un questore irresponsabili e scellerati?
Un cinico ministro degli Interni. Un presidente del Consiglio cui spetta solo il tristissimo vanto di aver
deliberatamente voluto spezzare quella unità della nazione che si era temprata nella lotta gloriosa contro
l’invasore straniero95.

Togliatti avrebbe poi ‘adottato’ la figlia di uno degli operai uccisi a Modena,
che andò a studiare a Roma, pur mantenendo stretti contatti con la famiglia
d’origine.
Togliatti viene presentato a volte come un difensore della democrazia, altre
come un sostenitore – o persino un agente – della dittatura. Fu antifascista fin
dagli anni ’20, stalinista a Mosca negli anni ’30, e poi comunista italiano in
Occidente dopo il 1944. Ma Togliatti non era l’intero partito. Dopo il 1945 il
comunismo in Italia era un movimento di massa che toccava ogni angolo della
società. Secondo lo storico Paul Ginsborg, “La storia del PCI come partito di
massa... costituì il nesso indispensabile tra vasti settori della classe operaia e la
politica moderna; insegnava una visione della politica fondata sul sacrificio,
sull’onestà, sull’equità sociale e sull’efficienza... ed esigeva rispetto per la
Costituzione e lo stato di diritto”96.

Un partito di massa
I dati sugli iscritti del PCI sono impressionanti. Dopo il 1945, e per buona
parte degli anni ’50, il partito ne contava circa due milioni; nel 1954 toccò
ufficialmente il limite massimo di 2.145.32797. Data la natura di massa del
partito, l’apparato organizzativo comunista era estesissimo. In tutta Italia
c’erano funzionari a tempo pieno, e il quotidiano “l’Unità” (“fondato da
Antonio Gramsci”) aveva redazioni in tutte le grandi città e in parecchi centri
minori, oltre a corrispondenti esteri e sportivi. Le pubblicazioni periodiche
del PCI comprendevano settimanali e mensili, oltre alla diffusione
specializzata della propaganda e le associazioni di lettura. C’erano
organizzazioni per i pensionati e per le attività sportive, l’unione delle donne e
una forte federazione giovanile, raggruppamenti di ex partigiani (l’ANPI) e
una vasta federazione sindacale (la CGIL), che era ‘nell’orbita’ del PCI.
I militanti vivevano e morivano da comunisti. Si celebravano funerali ‘rossi’,
con sventolio di bandiere e canti di Internazionale e Bandiera rossa, anche se il
rapporto con il rituale cattolico rimaneva ambiguo, e spesso coesisteva nella
vita di ogni giorno. Secondo David Kertzer, “il partito ha tentato di costruire
un proprio sistema di simboli sacri, allo scopo di dare coesione alla comunità
comunista e di attrarre proseliti nel suo mondo”98.
La cultura e la pratica dei comunisti trovavano espressione nelle Feste
dell’Unità, allestite in tutta Italia (e nelle comunità di emigranti in tutto il
mondo), di solito d’estate. Le gestivano volontari con tanto di grembiuli con
falce e martello; c’erano bar e ristoranti, balere per il ballo liscio, qualche
iniziativa politica e i più diversi tipi di mercatini. Erano eventi popolari,
divertenti, ispirati alle tradizioni locali delle feste di paese. C’era poi la rete
delle ‘Case del popolo’, bar e sale di riunione dove i simpatizzanti potevano
passare il tempo. Molte erano state chiuse dal fascismo, ma furono riaperte nel
dopoguerra. C’è chi sostiene che proprio queste feste consentivano al PCI di
“sfidare la tradizionale supremazia della Chiesa” sul piano dei “riti
comunitari”, anche se i preti “mantenevano il controllo sui tradizionali riti di
passaggio, cioè quelli che segnavano i cambiamenti di stato degli individui:
battesimi, matrimoni, funerali, comunioni”99.
Il Primo Maggio era la grande festa dei lavoratori; e anche il 25 aprile (giorno
della Liberazione), così come in altre occasioni di anniversario, i comunisti
scendevano in piazza in massa, per ricordare i loro caduti – soprattutto quelli
uccisi dai fascisti, ma anche quelli del dopoguerra. I martiri e la storia della
Resistenza furono il perno della legittimazione del partito dopo il 1945, ma ci
furono martiri comunisti anche in tempo di democrazia, come i cinque –
quattro operai e un pastore: Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi,
Marino Serri e Afro Tondelli – uccisi dal fuoco di polizia e carabinieri a
Reggio Emilia nel luglio 1960. La celebrazione dei martiri (della Resistenza e
del dopoguerra) era ritualistica ed emotiva, spesso con forti caratteristiche
locali – si portavano corone di fiori alle lapidi100. Ma ci fu anche una serie di
eventi molto più grandi e spettacolari.

I lasciti della guerra: Trieste


La Guerra fredda e le tensioni nate dalla guerra e dal fascismo continuavano a
segnare la vita ai confini d’Italia. Il territorio contestato di Trieste era stato
diviso in zone di occupazione delle potenze vincitrici, come Berlino e
Vienna. Ci furono momenti di forte tensione sul confine, specie nell’ottobre-
novembre 1953, quando Tito alzò la posta e minacciò l’‘invasione’ dalla
Jugoslavia. Nel frattempo, in città, gli italiani manifestavano in piazza. Il 5
novembre 1953 la polizia (controllata dagli inglesi) aprì il fuoco su una
dimostrazione nazionalista, uccidendo due persone e ferendone quaranta;
seguirono scontri che portarono altre quattro morti.
Tito finì per accettare un compromesso, e i confini vennero
(provvisoriamente) fissati. Trieste ritornò sotto la sovranità italiana. Si arrivò
finalmente all’accordo il 5 ottobre 1954, a Londra, e nonostante qualche
opposizione di forma, l’assetto tenne, e venne confermato da ulteriori
negoziati nel 1975. Trieste fu dichiarata ‘porto franco’. Le truppe alleate, che
per dieci anni avevano tenuto sotto controllo quell’area delicata di
rivendicazioni e ideologie contrapposte, se ne andarono. Finalmente la guerra
finiva anche a Trieste, quattordici anni dopo la dichiarazione di Mussolini del
1940. Ci fu una manifestazione di gioia incontenibile, con la bellissima e
immensa piazza Unità d’Italia gremita di folla. Per motivi politici, un governo
dopo l’altro riversarono fondi sulla città, sebbene la sua importanza strategica
ed economica non tardasse a spegnersi. Ma la Guerra fredda continuava, e si
accendevano nuovi focolai di crisi.

1956: il ‘discorso segreto’ e l’Ungheria


Ci vollero i cambiamenti in corso all’interno del blocco orientale stesso per
modificare il rapporto monolitico del PCI con l’Unione Sovietica. Il 1956 fu
un anno di svolta, con la rivelazione del ‘discorso segreto’ in cui Nikita
Chruščëv denunciava i crimini staliniani. Il “New York Times” pubblicò il
testo il 4 giugno, e ne seguì un prolungato dibattito all’interno del Partito
comunista italiano, e della società in generale. I drammatici fatti di Ungheria
di quello stesso anno suscitarono ulteriori turbolenze in tutto il mondo
comunista.
La prima reazione del PCI agli eventi ungheresi, e alla brutale repressione
della rivolta popolare ad opera delle truppe sovietiche, fu un’ortodossa difesa
dell’URSS. “L’Unità” scrisse che “bisogna scegliere: o per la difesa della
rivoluzione socialista o per la controrivoluzione bianca, per la vecchia
Ungheria fascista e reazionaria”. Non tutti condividevano però questa
opinione – tutt’altro; e nemmeno tutti gli iscritti al partito.
Un aperto dissenso non tardò a incrinare la superficie del conformismo.
Nell’ottobre 1956 un gruppo di influenti intellettuali comunisti inviò una
celebre lettera collettiva al Comitato centrale del partito: sarebbe poi divenuta
nota come ‘Manifesto dei 101’. Tra i firmatari, scrittori e artisti come
l’accademico Alberto Asor Rosa, il regista Elio Petri, gli storici Paolo Spriano
(storico ufficiale del PCI) e Luciano Cafagna. Una volta raccolte le firme, il
‘Manifesto’ fu portato in redazione a “l’Unità”, chiedendone la pubblicazione
e l’apertura di un dibattito all’interno del partito sull’Ungheria. La richiesta fu
respinta. Uno dei duri della direzione, Giancarlo Pajetta, disse che “mancate
di realismo... il mondo è diviso in due blocchi”101. A quel punto gli autori del
cosiddetto ‘Manifesto’ si rivolsero all’agenzia di stampa nazionale. La lettera
suscitò subito scalpore, e i firmatari vennero accusati di tradimento: alcuni
ritrattarono subito.
Forti dissensi si manifestarono anche nel movimento sindacale. Il 26 ottobre
la CGIL, la grande confederazione sindacale da sempre vicina ai comunisti,
pubblicò una forte e inequivocabile dichiarazione del suo leader carismatico,
Giuseppe Di Vittorio: “La Segreteria della CGIL di fronte alla tragica
situazione determinatasi in Ungheria... ravvisa in questi luttuosi avvenimenti
la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di governo e di
direzione politica ed economica, che determinano il distacco fra dirigenti e
masse popolari”102. Si scatenò un feroce dibattito interno al partito, e Di
Vittorio fu poi costretto a ritrattare pubblicamente una parte delle sue critiche
ai sovietici. Togliatti non usava mezzi termini: “Come si può solidarizzare
con chi spara contro di noi?”103. La linea ufficiale del partito si adeguava anche
nel linguaggio al conformismo staliniano: “I comunisti italiani... giudicano
doloroso il fatto che il governo ungherese non sia stato in grado di respingere
con le sue sole forze l’attacco controrivoluzionario e abbia ritenuto necessario
ricorrere all’aiuto sovietico”104.
I dati ufficiali indicano che nel 1956-57 il PCI perse circa 200.000 iscritti (le
cifre reali furono probabilmente molto più alte). In tutta Italia vi furono
riunioni incandescenti, dichiarazioni contrastanti e dibattiti accesi – quasi
sempre messi a tacere. Togliatti non mollò la presa sul partito, mantenendo la
linea filosovietica. Ma il seme della futura rottura con Mosca – che avvenne
molto più tardi – era stato gettato. Qualcuno passò ai socialisti, qualcun altro
alla sinistra indipendente; molti sarebbero poi rientrati nel partito. A qualcuno
fu concesso di esprimere opinioni dissidenti, ma in genere in cambio della
rinuncia alle posizioni di potere. Molti disertori del PCI entrarono a far parte
della ‘nuova sinistra’ che cominciava allora ad affermarsi, e sarebbero
ricomparsi nei movimenti degli anni ’60. Ci fu anche chi poi aderì alla destra.
Alcuni dei firmatari del ‘Manifesto dei 101’ divennero intellettuali
anticomunisti di primo piano, come lo storico Renzo De Felice.
Ma nel PCI c’erano anche intellettuali che rimasero fedeli all’Unione
Sovietica. Concetto Marchesi, per esempio, docente emerito dell’Università
di Padova e dirigente del partito, contestò il ‘discorso segreto’ che aveva
demolito uno dei grandi creatori dell’URSS (cioè Stalin): “Tiberio, uno dei
più grandi e infamati imperatori di Roma, trovò il suo implacabile accusatore
in Cornelio Tacito”. Stalin era stato meno fortunato: il suo accusatore era solo
Nikita Chruščëv. “All’odio capitalistico mai attenuato contro i regimi
socialisti, non era forse necessario, a guarigione dei nostri mali, aggiungere la
nostra maledizione. Si possono fare molte più cose con le opere dei vivi che
non con la condanna dei morti”105.
Per il PCI fu un momento traumatico. Anni dopo l’intellettuale comunista
Rossana Rossanda così ricordava la dura prova del 1956: “Nel partito non fu
mai più come prima... quei giorni mi vennero i capelli bianchi, è proprio vero
che succede, avevo trentadue anni”106. Dietro le quinte, Togliatti era
preoccupato. “Gli avvenimenti ungheresi”, scriveva in un cablogramma a
Mosca, “si sono sviluppati in modo tale da rendere difficile la nostra azione di
chiarimento all’interno del partito”. E osservava che la distanza tra comunisti
e socialisti si era gravemente allargata, e la sua autorità veniva messa in
discussione107.
L’adesione del Partito socialista al modello sovietico fu duramente colpita dai
drammatici eventi del 1956. L’Ungheria innescò la rottura dei socialisti con il
PCI e con lo stalinismo. Non si trattò di una rottura completa: molti socialisti
rimasero legati all’idea dell’URSS come alternativa al capitalismo, ed era
ancora fresco il ricordo delle disastrose divisioni a sinistra che avevano
facilitato l’ascesa del fascismo. Certi socialisti vennero soprannominati
‘carristi’ per il loro entusiasmo per i carri armati sovietici durante la
rivoluzione ungherese.
Pietro Nenni, comunque – il loro leader più carismatico nel dopoguerra –,
condannò l’invasione nel novembre 1956. Restituì anche il prestigioso
‘Premio internazionale Stalin per il consolidamento della pace tra i popoli’ che
aveva conseguito nel 1951, ed era andato a ritirare di persona a Mosca (dove
aveva incontrato Stalin). Fu l’inizio della fine per la soffocante coalizione del
suo partito con i comunisti, che tanto lo aveva danneggiato alle elezioni
dell’aprile 1948. Il giornale socialista “Avanti!” dichiarò che “il gruppo
dirigente comunista ungherese ha completamente perduto la fiducia degli
operai e del popolo, e si illude di potersi mantenere al potere dietro i carri
armati sovietici”108. In ambito italiano, le linee della Guerra fredda venivano
ridisegnate: ora pareva possibile una ‘terza via’. Fu un momento decisivo nel
passaggio verso la coalizione riformista dei primi anni ’60 tra i democristiani e
il PSI: il ‘centrosinistra’.

Il cuore d’Europa: Altiero Spinelli, l’Italia


e l’integrazione europea
L’Europa era stata in guerra due volte nella stessa generazione, e in entrambe
le guerre l’Italia era stata in prima linea. Usciti dal conflitto, in molti volevano
che ex alleati ed ex nemici si unissero per evitare un’altra guerra. Non
sorprende quindi che l’Italia fosse al centro dell’ideale dell’integrazione
europea. Cruciale per l’intero progetto fu il ruolo di Altiero Spinelli, coautore
di uno dei suoi documenti fondamentali. Cresciuto in Sudamerica (era figlio
di un diplomatico), Spinelli studiò legge a Roma e, negli anni ’20, fece
carriera politica nel Partito comunista mentre il fascismo si andava
affermando. Arrestato nel 1927 (aveva appena diciannove anni), passò i sedici
anni successivi tra la galera e il confino.
L’isoletta di Ventotene, al largo della costa tirrenica tra Lazio e Campania,
ospitò uno dei maggiori centri di confino fascista, divenendo una ‘scuola di
antifascismo’ per i confinati, luogo di scambio di idee ed esperienze109.
Spinelli vi fu internato, e su quell’isola, insieme con il compagno intellettuale
antifascista Ernesto Rossi, scrisse il famoso Manifesto di Ventotene – titolo
completo Per un’Europa libera e unita: progetto d’un manifesto. Scarabocchiato su
cartine da sigarette e contrabbandato fuori dall’isola, nel dopoguerra sarebbe
diventato un testo essenziale e un punto di riferimento del movimento per
l’unione europea.
Secondo Spinelli e Rossi, “un’Europa libera e unita è premessa necessaria
per il potenziamento della civiltà moderna, di cui l’èra totalitaria rappresenta
un arresto”. All’epoca, la loro era una prospettiva socialista – che non sarebbe
certo stata l’ideologia alla base della nascente Comunità economica europea.
Sostenevano “la creazione di un solido stato internazionale”, che avrebbe
avuto tra i suoi scopi principali quello di evitare una nuova guerra.
Non appena furono rilasciati, con la caduta di Mussolini nel luglio 1943,
Spinelli, Rossi e altri costituirono il Movimento federalista europeo.
L’organizzazione ebbe un ruolo minore nell’Italia del dopoguerra a confronto
con i partiti di massa, ma la sua produzione intellettuale ebbe larga influenza.
Spinelli sarebbe diventato una figura chiave nella creazione di diverse
istituzioni europee (spesso da una posizione critica), operando sia dall’interno
che dall’esterno. È stato detto che fu “il più importante sostenitore dell’ideale
europeo nell’Italia del dopoguerra”110. Altri si sono spinti anche più in là,
sostenendo che “insieme con Monnet, fu probabilmente la persona con
maggiore influenza sul processo di integrazione europeo”111.
Grazie a personaggi come Spinelli, e all’esito contraddittorio della guerra
(non essendo né vincitrice, né vinta), l’Italia divenne un paese decisivo nei
processi che portarono all’integrazione europea. Fu uno dei sei fondatori della
Comunità economica negli anni ’50: il Senato approvò l’adesione alla
Comunità del carbone e dell’acciaio nel marzo 1952, e la Camera a giugno.
L’Italia fu sede di importanti discussioni sul futuro dell’Europa, a Messina nel
1955 e a Venezia nel 1956, per finire con il famoso trattato che fondò la
Comunità economica europea, firmato a Roma nel 1957: il Trattato di
Roma112. Nei primi anni dell’integrazione europea la crescita economica
mantenne alta la popolarità dell’‘Europa’, sebbene pochi fossero
effettivamente a conoscenza dell’operato della Comunità e della
Commissione. Per decenni il progetto europeo in Italia non fu oggetto di
alcuna controversia. I legami con l’Europa informavano la visione italiana del
mondo e il ruolo internazionale del paese, alle soglie di un boom che avrebbe
trasformato ogni aspetto della sua vita sociale, economica e culturale.

1
In Lidia Campagnano, “Meglio ingenua che furba”: la passione politica di Elvira Baracco, “il manifesto”,
26 giugno 1986, cit. in Maria Linda Odorisio et al., Donna o cosa? Cronistoria dei movimenti femminili in
Italia dal Risorgimento a oggi, Torino: Edizioni Milvia, 1986, p. 167.
2
Nel giugno 1946 soltanto l’1,45 per cento degli italiani votò per il Partito d’azione.
3
Denis Mack Smith, I Savoia. Storia dei re d’Italia, Milano: Mondadori, 2002, p. 422.
4
Cit. in Aldo Ricci, La Repubblica, Bologna: Il Mulino, 2001, p. 176.
5
Ibid.; http://www.anpi.it/storia/286/porto-di-ortona-lapide (accesso 18 ottobre 2017).
6
Palmiro Togliatti, Agli elettori, “l’Unità”, 2 giugno 1946.
7
Ibid.
8
F. Catalano, La “nuova” democrazia italiana dopo il 1945, in Stuart Woolf (a cura di), Italia 1943-
1950. La ricostruzione, Roma-Bari: Laterza, 1974, p. 123.
9
Cit. in Patrizia Gabrielli, Il 1946, le donne, la repubblica, Roma: Donzelli, 2009, p. 150.
10
Ivi, p. 168.
11
Ibid.
12
Percy Allum, Il Mezzogiorno e la politica nazionale dal 1945 al 1950, in Woolf (a cura di), Italia 1943-
1950, p. 171.
13
Ricci, La Repubblica, p. 186. V. anche Allum, Il Mezzogiorno e la politica nazionale dal 1945 al 1950,
p. 108, e Stuart Woolf, La ricostruzione, in Id. (a cura di), Italia 1943-1950. Non è facile individuare i
nessi diretti tra i voti ai partiti e quelli pro e contro la monarchia, ma pare che la maggioranza degli
elettori democristiani abbia votato contro la repubblica. Lo storico Silvio Lanaro scrive che la causa
repubblicana vinse “di stretta misura” (Storia dell’Italia repubblicana. L’economia, la politica, la cultura, la
società dal dopoguerra agli anni ’90, Venezia: Marsilio, 1997, p. 203).
14
Ricci, La Repubblica, p. 174.
15
https://fondazionenenni.wordpress.com/2015/12/16/le-parole-dautore-di-pietro-nenni-quarta-
puntata (accesso 28 aprile 2017).
16
Benedetto Croce, Taccuini di lavoro, 1946-1949, Napoli: Arte Tipografica, 1987, pp. 36, 41-2, 44,
50.
17
Cit. in Catalano, La “nuova” democrazia italiana dopo il 1945.
18
Woolf, La ricostruzione, p. 410.
19
Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 1998, Bologna: Il Mulino, 1999, p.
72.
20
Ricci, La Repubblica, p. 191. Esistono diverse versioni dell’evento, ma nessuna ricostruzione
sistematica – a quanto mi è dato di sapere. Si veda anche Maria Antonietta Macciocchi, Lettere
dall’interno del PCI a Louis Althusser, Milano: Feltrinelli, 1969. Secondo la Macciocchi i fatti
avvennero il 15 giugno.
21
Mack Smith, I Savoia, p. 438.
22
Allum, Il Mezzogiorno e la politica nazionale dal 1945 al 1950.
23
Sergio Luzzatto, La mummia della repubblica. Storia di Mazzini imbalsamato 1872-1946, Milano:
Rizzoli, 2001.
24
Massimiliano Boni, Gaetano Azzariti: dal Tribunale della razza alla Corte costituzionale,
“Contemporanea”, 4, 2014, pp. 577-608, p. 595.
25
http://www.osservatorioantisemitismo.it/articoli/rimane-alla-corte-costituzionale-il- busto-del-
presidente-del-tribunale-della-razza (accesso 15 gennaio 2017).
26
Giovanni Focardi cit. in Boni, Gaetano Azzariti, p. 601.
27
V. Paolo Nicoloso, I conti con il fascismo: Marcello Piacentini, “memorie”e invenzione del passato al
processo di epurazione, “Rassegna di architettura e urbanistica”, 130-31, 2010, pp. 82-8; Cesare De
Seta, Piacentini e la città fascista, “Nuova informazione bibliografica”, 4, 2013, pp. 721-26.
28
http://binrome.com/featured/sapienza-in-restauro-laffresco-fascista-di-mario-sironi-epurato-da-
piacentini (accesso 15 gennaio 2017).
29
M. Battini, The Missing Italian Nuremberg: Cultural Amnesia and Postwar Politics, London: Palgrave,
2007.
30
Cit. in Odorisio et al., Donna o cosa?, p. 169.
31
Ivi, p. 171.
32
Cit. in Sandro Setta, Il qualunquismo, in Gianfranco Pasquino (a cura di), La politica italiana.
Dizionario critico 1945-95, Roma-Bari: Laterza, 1995, p. 368.
33
Ivi, p. 365.
34
Mameli aveva scritto il testo nel lontano 1847. La scelta del 1946 era ‘temporanea’, e fu resa
definitiva soltanto nel 2006. Stefano Pivato, La storia leggera. L’uso pubblico della storia nella canzone
italiana, Bologna: Il Mulino, 2002, pp. 7-17, 221-30.
35
Giuseppe Floridia, La costituzione, in Pasquino (a cura di), La politica italiana, p. 8.
36
V. Perry Willson, Women in Twentieth-Century Italy, Houndmills: Macmillan, 2010, pp. 133-36, e
Molly Tambor, The Lost Wave: Women and Democracy in Post-War Italy, Oxford: Oxford University
Press, 2014.
37
Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Torino: Einaudi, 2005, p. 152.
38
James Edward Miller, The United States and Italy, 1940-1950: The Politics and Diplomacy of
Stabilization, Chapel Hill-London: University of North Carolina Press, 1986, pp. 218-19.
39
Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Torino: Einaudi, 2006.
40
Pare che lo slogan sia stato inventato dallo scrittore e giornalista Giovannino Guareschi, autore
della popolare serie di Don Camillo.
41
Santi Fedele, Fronte popolare. La sinistra e le elezioni del 18 aprile 1948, Milano: Bompiani, 1978. V.
anche Massimo Caprara, L’attentato a Togliatti. 14 luglio 1948: il PCI tra insurrezione e programma
democratico, Venezia: Marsilio, 1978, p. 220.
42
David W. Ellwood, The 1948 Elections in Italy: A Cold War Propaganda Battle, “Historical Journal of
Film, Radio and Television”, 13:1, 1993, p. 20.
43
Per i risultati e una ricostruzione delle elezioni, v. Robert Ventresca, From Fascism to Democracy:
Culture and Politics in the Italian Election of 1948, Toronto: University of Toronto Press, 2004, e John
Foot, Modern Italy, London: Palgrave, 2014, pp. 204-5 e 235.
44
Cit. in Rosario Forlenza, The Enemy Within: Catholic Anti-Communism in Cold War Italy, “Past and
Present”, 235:1, 2017, p. 19.
45
Robert Ventresca, The Virgin and the Bear: Religion, Society and the Cold War in Italy, “Journal of
Social History”, 37:2, 2003, p. 440.
46
Scomunica dei comunisti: Decreto del Sant’Uffizio formulato da Pio XII, 1° luglio 1949.
47
Carlo Ginzburg, “l’Unità”, 17 aprile 1988, p. 13, cit. in Ellwood, The 1948 Elections in Italy, p. 23.
Ulteriori dettagli in Ventresca, The Virgin and the Bear.
48
Forlenza, The Enemy Within, p. 20.
49
John Pollard, Catholicism in Modern Italy: Religion, Society and Politics since 1861, London:
Routledge, 2008, p. 116.
50
Appello di Gedda per le elezioni del 18 aprile 1948.
51
V. la ricostruzione che ne fa il presidente della Repubblica Francesco Cossiga,
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1992/01/14/armati-fino-ai-denti-io-
non.html (accesso 17 giugno 2017).
52
Ventresca, From Fascism to Democracy, p. 234.
53
Rossanda, La ragazza del secolo scorso, p. 129.
54
Lucio Magri, Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci, Milano: Il Saggiatore, 2011, p. 101.
55
Ellwood, The 1948 Elections in Italy, p. 20.
56
Jussi Hanhimäki e Odd Arne Westad, The Cold War: A History in Documents and Eyewitness
Accounts, Oxford: Oxford University Press, 2003, p. 134.
57
Silvio Pons, Stalin, Togliatti, and the Origins of the Cold War in Europe, “Journal of Cold War
Studies”, 3:2, 2001, p. 23.
58
Cit. in Vindice Lecis, Ferrara, 14 luglio 1948, Ferrara: 2G editrice, 2007, p. 67. V. anche Walter
Tobagi, La rivoluzione impossibile. L’attentato a Togliatti, violenza politica e reazione popolare, Milano: Il
Saggiatore, 1978, p. 9.
59
Mario Isnenghi, L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 a oggi, Milano: Mondadori,
1994, p. 431.
60
Giorgio Bocca, Palmiro Togliatti, Roma-Bari: Laterza, 1973, p. 512.
61
Andrea Grillo, Livorno: una rivolta tra mito e memoria. 14 Luglio 1948. Lo sciopero generale per l’attentato
a Togliatti, Pisa: Biblioteca Franco Serantini, 1994.
62
Bocca, Palmiro Togliatti, p. 514.
63
Sandro Orlandini, Luglio 1948. L’insurrezione proletaria nella provincia di Siena in risposta all’attentato a
Togliatti, Firenze: Cooperativa Editrice Universitaria, 1976, p. 91.
64
Romano Canosa, Storia della criminalità in Italia dal 1946 a oggi, Milano: Feltrinelli, 1995, p. 117.
65
Pietro Secchia, Lo sciopero del 14 luglio, Roma: CDS, 1948, p. 21.
66
Claudia Magnanini, Ricostruzione e miracolo economico: dal sindacato unitario al sindacato di classe nella
capitale dell’industria, Milano: Franco Angeli, 2006, p. 115.
67
Isnenghi, L’Italia in piazza, pp. 382-86.
68
Cit. in Ventresca, From Fascism to Democracy, p. 262.
69
Percy Allum, Uniformity Undone: Aspects of Catholic Culture in Post-War Italy, in Zygmunt Baranski
e Robert Lumley (a cura di), Culture and Conflict in Post-War Italy: Essays on Mass and Popular Culture,
Basingstoke: Macmillan, 1990, p. 85.
70
Mario Isnenghi, Microstorie di parrocchia, in Saveria Chemotti (a cura di), Gli intellettuali in trincea.
Politica nell’Italia del dopoguerra, Padova: Cleup, 1977, p. 60.
71
Ivi, p. 64.
72
Allum, Uniformity Undone, p. 81.
73
Ivi, p. 82.
74
Giovanni Levi, Italy: Catholicism, Power, Democracy and the Failure of the Past, in Peter Furtado (a
cura di), Histories of Nations: How Their Identities Were Forged, London: Thames and Hudson, 2012, p.
266.
75
Pollard, Catholicism in Modern Italy, p. 109.
76
Ivi, p. 129.
77
Mario G. Rossi, Da Sturzo a De Gasperi. Profilo storico del cattolicesimo politico nel Novecento, Roma:
Editori Riuniti, 1985, p. 203.
78
Aldo Agosti, Palmiro Togliatti, Torino: UTET, 1996, p. 364.
79
Ibid.
80
Bocca, Palmiro Togliatti, p. 586.
81
Comitato centrale del Partito comunista italiano, Per la morte di Stalin, 1953.
82
David Kertzer, Political Rituals, in Luciano Cheles e Lucio Sponza (a cura di), The Art of Persuasion:
Political Communication in Italy from 1945 to the 1990s, Manchester: Manchester University Press,
2001, p. 102.
83
Cit. in Stephen Gundle, I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca. La sfida della cultura di massa,
Firenze: Giunti, 1995, p. 186; v. anche Id., Between Hollywood and Moscow: The Italian Communists
and the Challenge of Mass Culture, 1943-1991, Durham, NC: Duke University Press, 2000, p. 83.
84
Bocca, Palmiro Togliatti, p. 561.
85
http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/487877.pdf (accesso 18 ottobre 2017).
86
Giuseppe Fiori, Uomini-Ex. Lo strano destino di un gruppo di comunisti italiani, Torino: Einaudi, 1993.
87
Roderigo di Castiglia [pseudonimo di Togliatti], I sei che sono falliti, “Rinascita”, 7:5, maggio
1950, pp. 242-43.
88
Aldo Cucchi, Lettera di dimissioni dal PCI, 25 gennaio 1951,
http://badigit.comune.bologna.it/mostre/magnacucchi/1.htm (accesso 18 ottobre 2017).
89
Un esempio del culto della personalità di Togliatti è in Sergio Scuderi (a cura di), Vita di un
italiano. Palmiro Togliatti, Roma: Edizioni di cultura sociale, 1953.
90
Giorgio Napolitano, Intervista sul PCI, a cura di Eric J. Hobsbawm, Roma-Bari: Laterza, 1975.
91
Norman Kogan, A Political History of Italy: The Postwar Years, New York: Praeger, 1983, p. 88.
92
Cit. in Bocca, Palmiro Togliatti, p. 425.
93
Pons, Stalin, Togliatti, and the Origins of the Cold War in Europe, p. 27; v. anche Elena Aga Rossi e
Gaetano Quagliariello (a cura di), L’altra faccia della luna: i rapporti tra PCI, PCF e Unione Sovietica,
Bologna: Il Mulino, 1997; Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin: il PCI e la politica
estera staliniana negli archivi di Mosca, Bologna: Il Mulino, 2007; Silvio Pons, L’impossibile egemonia.
L’Urss, il Pci e le origini della Guerra Fredda. 1943-48, Roma: Carocci, 1999; Gianni Donno, La Gladio
rossa del PCI, 1945-1967, Soveria Mannelli: Rubbettino, 2001.
94
Statuto del Partito comunista italiano, XII Congresso del PCI, Bologna, 8-15 febbraio 1969, p. 3.
95
Discorso del segretario del PCI Palmiro Togliatti pronunciato a Modena in piazza Sant’Agostino
nel corso della cerimonia funebre delle vittime dell’eccidio del 9 gennaio alle Fonderie Riunite,
http://www.lavoropolitico.it/togliattidiscorsomodena.htm (accesso 17 gennaio 2016).
96
Paul Ginsborg, Italian Political Culture in Historical Perspective, “Modern Italy”, 1:1, 1995, p. 11.
Questo atteggiamento democratico fu dovuto anche alla volontà di Togliatti, il cui ruolo durante le
purghe staliniane, la Guerra civile spagnola e la Seconda guerra mondiale (quando lui era a Mosca e
l’Italia invase la Russia) è comunque sempre stato oggetto di accese controversie.
97
Roberto Segatori, I sindaci: storia e sociologia dell’amministrazione locale in Italia dall’unità a oggi, Roma:
Donzelli, 2003, p. 58.
98
David Kertzer, Comrades and Christians: Religion and Political Struggle in Communist Italy,
Cambridge: Cambridge University Press, 1980, p. 157.
99
Davide Pero, The Left and the Construction of Immigrants in 1970s Italy, in Anna Cento Bull e
Adalgisa Giorgio (a cura di), Speaking Out and Silencing: Culture, Society and Politics in Italy in the
1970s, Cambridge: Legenda, 2006, pp. 218 e 212-26.
100
John Foot, La normalità del 25 aprile, “Internazionale”, 23 aprile 2015,
http://www.internazionale.it/opinione/john-foot/2015/04/23/25-aprile-festa-liberazione (accesso 25
aprile 2015).
101
http://temi.repubblica.it/micromega-online/i-fatti-dungheria-e-il-dissenso-allinterno-del-pci-
storia-del-manifesto-dei-101 (accesso 18 ottobre 2017).
102
Adriano Guerra e Bruno Trentin, Di Vittorio e l’ombra di Stalin. L’Ungheria, il PCI e l’autonomia del
sindacato, Roma: Ediesse, 1997, p. 138.
103
Ivi, p. 143.
104
Ivi, p. 154.
105
Maria Todaro-Faranda e Concetto Marchesi (a cura di), Umanesimo e comunismo, Roma: Editori
Riuniti, 1974, p. 114.
106
Rossanda, La ragazza del secolo scorso.
107
Csaba Békés et al. (a cura di), The 1956 Hungarian Revolution: A History in Documents, Budapest-
New York: Central European University Press, 2002, p. 294.
108
Pietro Nenni (attrib.), La Spagna non c’entra, “Avanti!”, 13 novembre 1956.
109
V. Ilaria Poerio, A scuola di dissenso. Storie di resistenza al confino di polizia (1926-1943), Roma:
Carocci, 2016.
110
http://www.treccani.it/enciclopedia/altiero-spinelli_(Enciclopedia-Italiana)/ (accesso 16 gennaio
2017).
111
Roberto Castaldi, Altiero Spinelli and European Federalism, in Ann Ward e Lee Ward (a cura di),
The Ashgate Research Companion to Federalism, Aldershot: Ashgate, 2009, p. 328. Nell’agosto 2016,
quando pareva che l’intero progetto dell’UE fosse minacciato dal voto per la Brexit nel Regno
Unito di giugno, i leader europei risposero con un pellegrinaggio alla tomba di Spinelli sull’isola di
Ventotene.
112
European Parliament, Battling for the Union. Altiero Spinelli. 1979-86 (23 maggio 1987),
Luxembourg: Parlamento europeo, 1987.
2.
Il decollo: l’Italia negli anni del boom

Fuori dal Palazzo, un Paese di cinquanta milioni di abitanti sta subendo la più
profonda mutazione culturale della sua storia (coincidendo con la sua prima
vera unificazione).
Pier Paolo Pasolini1

Cambiò il Dna d’una nazione, la geografia dei cervelli, mentalità, costumi,


valori. Ma li cambiò fino in fondo?
Simonetta Fiori2
Lo definirono il ‘miracolo economico’, ma per altri era semplicemente ‘il
boom’. Nei primi anni ’50 l’Italia era ancora un paese relativamente povero,
ma alla fine del decennio era già partita la ‘grande trasformazione’. Il paese
sarebbe diventato irriconoscibile, travolto dallo sradicamento di un modo di
vita. Si continuava a emigrare all’estero in cerca di lavoro, ma i movimenti di
maggior rilievo erano interni, verso le città industriali del Nord. Negli anni
’50 la popolazione di Milano aumentò di un quarto, e quella di Torino di un
incredibile 42 per cento. Nel Sud e nelle campagne, invece, l’emorragia
demografica fu incontenibile. In quel decennio se ne andarono dal Meridione
1,7 milioni di persone. E tutto questo parve avvenire all’improvviso,
imprevedibilmente, e con straordinaria rapidità. Non fu un momento
gattopardesco, non cambiava tutto perché tutto rimanesse com’era: nulla
sarebbe più rimasto com’era. L’Italia andava avanti a tutta forza.
Il boom interessò ogni aspetto della vita economica e sociale. Vaste zone
dell’Italia rurale, che avevano fornito occupazione e sussistenza per migliaia di
anni, vennero abbandonate; intere categorie occupazionali sparirono del tutto.
Il miracolo rivoluzionò il linguaggio, e i ritmi di vita. La terra rimaneva
incolta, e la vita urbana, o semi-urbana, divenne la norma. Era una nuova
Italia, con nuovi italiani. Tra il 1953 e il 1964 nacquero 10.860.000 bambini: i
figli del baby-boom3. L’Italia degli anni ’60 era irriconoscibile rispetto a dieci
anni prima.
Il paese si trovava nella fase più adatta per approfittare della crescita globale
degli anni ’50. Un’offerta praticamente illimitata di manodopera a buon
mercato, e industrie capaci di produrre beni di consumo economici da
vendere su un promettente mercato di famiglie che ancora non avevano il
frigorifero, la televisione, l’auto o la lavatrice, e ora li volevano. Negli anni del
boom nacque in Italia una nuova cultura dei consumi, a un livello di
quotidianità che diede voce a nuovi soggetti, producendo nuovi linguaggi e
nuovi simboli4. Alla metà degli anni ’70 gli elettrodomestici ‘bianchi’ e gli altri
prodotti di consumo erano ovunque. Erano pochissimi a non poterne
disporre: soltanto il 6 per cento delle famiglie non aveva il frigo, e soltanto l’8
per cento il televisore5.
Occorrevano poi milioni di alloggi per chi si trasferiva in città: fu un boom
edilizio di vaste proporzioni, finanziato sia dal pubblico che dal privato. Si
affermò una classe di imprenditori innovativi in certi settori chiave – design,
tecnologia, moda – capaci di approfittare delle nuove opportunità. Tra la fine
degli anni ’50 e i primi anni ’60 soltanto il Giappone crebbe con la stessa
rapidità, e la lira era una delle valute più stabili al mondo. Tra il 1958 e il
1961, all’apice del boom, il prodotto nazionale lordo aumentò di più del 7,8
per cento. Non era difficile trovare lavoro, se si era disposti a trasferirsi. Il
boom avanzava, spazzando via buona parte delle tradizioni italiane, con una
rapidità che per molti fu sconcertante. I cambiamenti più tumultuosi
cominciarono a manifestarsi nell’Italia rurale all’inizio del decennio.

Ultimo atto? Lotte contadine


e riforme nel dopoguerra
Per una bizzarra ironia della storia, proprio mentre andava scomparendo, il
ceto contadino ottenne vittorie senza precedenti in tutto il paese. Queste
conquiste, peraltro, non fecero che accelerare la fine dell’Italia rurale come
grande fonte di impiego. In Meridione l’occupazione delle terre e altre forme
di protesta erano già iniziate prima della fine della guerra, e continuarono per
tutti gli anni ’40. Spesso la reazione era violenta, come era stata ai vecchi
tempi della repressione – sia liberale che fascista. Le aspre battaglie per la terra
e i contratti agrari degli anni ’40 e ’50 portarono a storiche concessioni. Molte
di queste lotte si ispiravano agli scioperi e alle occupazioni degli anni ‘rossi’,
1919-20, quando i sindacati avevano sfidato gli agrari, ed erano poi stati
schiacciati con l’aiuto delle squadre fasciste. Era arrivata l’ora della riscossa.
I contadini del Meridione insorsero più volte nel dopoguerra. Le loro
richieste erano semplici: terra e lavoro. Il movimento assunse dimensioni
importanti negli anni ’40 e nei primi ’50. Le sue armi erano le stesse usate in
altri momenti del primo Novecento: l’occupazione collettiva della terra e le
manifestazioni. Ma si adottavano anche tattiche più innovative, come gli
‘scioperi al contrario’, lavorando gli incolti o sistemando le strade in stato di
abbandono.
A seguito di queste lotte, nell’agosto 1950 la Democrazia cristiana istituì la
Cassa per il Mezzogiorno, un istituto che utilizzava fondi pubblici per creare e
favorire lo sviluppo nel Sud. Non tardò a diventare una formidabile fonte di
clientele politiche e di corruzione. In origine, alla Cassa furono riservati 120
miliardi di lire, destinati – in teoria – alla costruzione di strade, acquedotti e
strutture di servizio per il turismo e l’agricoltura. Oltre ad istituire la Cassa,
nello stesso anno il governo approvò una riforma fondiaria che assegnò vaste
estensioni di terra, soprattutto ai contadini meridionali, ma anche in altre
zone individuate come ‘sottosviluppate’, come la Maremma toscana. Ma la
legge non era più al passo con i tempi; molti, nel Sud, non volevano più fare i
contadini. Comperavano un biglietto del treno, o della nave, e lasciavano le
campagne diretti verso le città meridionali (Bari, Napoli, Palermo, Catania), e
verso il Nord industriale, o fuori d’Italia. Qualcuno ritornò, ma la
maggioranza no. Non volevano la terra: volevano liberarsi dalla terra.
Alcuni degli aspetti più drammatici dell’‘arretratezza’ meridionale furono
risolti proprio in questo periodo. A Matera, per esempio, da secoli la gente
viveva nelle grotte chiamate ‘sassi’, spesso in condizioni difficili e malsane. I
sassi vennero sgomberati, costruendo nuovi paesi modello in aperta
campagna, spesso con la collaborazione di famosi architetti. Posti bellissimi,
con servizi all’ultimo grido, ma sul piano sociale non furono un successo. I
sassi erano bui e poco igienici, ma nel corso dei secoli avevano favorito il
senso della comunità. Fuori, nulla di tutto questo.
Gli anni ’50 videro anche la definitiva dispersione dei latifondi meridionali.
La terra fu redistribuita in base a criteri democratici, ma anche con metodi
chiaramente mirati a rafforzare l’egemonia democristiana. Faccendieri del
partito controllavano le risorse nelle campagne, scambiandole con l’appoggio
politico. Ma nemmeno queste strutture e pratiche erano al passo con i tempi.
La storia d’Italia e la sua economia si stavano spostando decisamente verso la
città e la fabbrica. Le riforme arrivarono troppo tardi per salvare l’Italia rurale
nel Sud.

L’esodo: storie della grande migrazione


Eravamo considerati all’epoca gli extracomunitari di oggi.
Alfonso Tesoro, immigrato a Roma durante il boom6.
Gli italiani erano da sempre disponibili a trasferirsi per trovare lavoro. Per anni
non avevano avuto alternative. In un solo anno, il 1913, erano emigrati
all’estero in 800.000. Nel novembre 1951 il Po ruppe gli argini inondando il
Polesine. Circa 180.000 persone furono evacuate o costrette ad abbandonare
la terra; circa 100.000 ettari vennero allagati, e ci fu un centinaio di morti –
molti su un camion carico di sfollati che fu spazzato via dalla piena. Molti capi
di bestiame andarono perduti. Il disastro fu un elemento decisivo per
l’abbandono di vaste aree della campagna veneta. I contadini si trasferirono in
massa a Milano e in Lombardia, dove spesso riuscirono ad acquistare degli
appezzamenti e a costruire le proprie case, in uno stile ibrido, urbano-rurale.
Molti di loro divennero poi operai in fabbrica. Le immagini di quel disastro
segnarono la fine di un’epoca.
Fu comunque il boom economico tra la fine degli anni ’50 e i ’60 a produrre
la seconda grande migrazione, che in larga misura rimase entro i confini
nazionali. Per la prima volta nella storia, l’Italia era in grado di offrire lavoro
alla maggioranza dei suoi cittadini. Per molti potenziali migranti italiani la
meta agognata non era più New York, o Buenos Aires, o Parigi, o Sydney.
Ora le destinazioni prescelte erano le città del triangolo industriale: Genova,
Milano, Torino.
Gli immigrati avevano spesso contatti prestabiliti con familiari o amici: come
a New York o Buenos Aires, la catena della solidarietà funzionava anche a
Genova, Milano o Torino. Di conseguenza si creavano comunità chiuse, che
producevano stigmatizzazione sociale. Ad Asti, per esempio, si trasferirono
nel dopoguerra centinaia di siciliani di Milocca, che furono oggetto di uno
studio del 1991 di Giuseppe Virciglio (Milocca al Nord). Virciglio scoprì che
“diverse migliaia” di questi immigranti erano stati “ghettizzati” in un
“casermone... uno spazio immenso”. Col tempo, furono costruite nuove case
in periferia, dove però le persone venivano “ri-ghettizzate”: molti si
trasferirono nel quartiere di Praia, e “ancor oggi... l’appellativo ‘praiano’...
assume spesso una connotazione negativa e spregiativa”7.
Per la società italiana questo movimento demografico di massa fu una
rivoluzione. Ogni mattina, nelle enormi, cavernose stazioni di Milano e
Torino, nuovi immigranti si riversavano dai treni, a migliaia. Ad ogni angolo
di strada, ad ogni binario ferroviario, si poteva vedere, toccare, annusare la
trasformazione sociale in atto: fu quasi un fenomeno biblico. Nel solo 1962
arrivarono a Milano 100.000 immigranti, per lo più dal Sud8.
Non tutti si sentivano sperduti all’arrivo nella metropoli, sprovveduti come li
voleva l’immagine stereotipata. Pochissimi non avevano un primo contatto
nella grande città: un cugino, un marito, un figlio, un vicino che già ci abitava.
C’era qualcuno cui rivolgersi. Si poteva fare affidamento sulle reti di
solidarietà. E i locali non tardarono a cogliere le possibilità di far soldi con i
nuovi arrivati, sia come manodopera a buon mercato, sia come consumatori.
Erano tempi d’oro per i materassai, per esempio, per i mediatori di terreni
agricoli, per i notai e i geometri. E per i muratori o gli avventizi dell’edilizia.
Gli immigrati con qualche risparmio potevano acquistare un appezzamento e
costruirsi una casa – in periferia a Milano, per esempio.
I nuovi quartieri erano detti ‘coree’, forse perché sorsero al tempo della
Guerra di Corea. Le case costruite dagli immigrati, con le proprie mani, la sera
e nei fine settimana, non erano abusive – ma spesso si trattava di rispettare
soltanto un abbozzo di pianta stradale. I servizi pubblici, l’acqua, l’elettricità,
le scuole e i marciapiedi arrivavano dopo, e molti paesi e città periferiche
faticavano a far fronte al flusso degli immigrati. A Torino le scuole furono
costrette a ricorrere ai turni per accogliere tutti i nuovi bambini.
Una volta costruite le proprie case, gli immigrati della prima ondata
aggiungevano due o tre piani alla struttura, affittando quelli inferiori ai nuovi
immigrati, per lo più gente del Sud: i migranti stessi vivevano
dell’immigrazione. A quelli della seconda ondata poteva capitare di dover stare
in sei o sette nella stessa stanza, un’esperienza traumatica soprattutto per le
giovani donne, spesso appena sposate. La nebbia e la caligine di Milano,
l’assenza di intimità: il contrasto con i paesi di provenienza era brutale.
L’origine etnica aveva un ruolo importante nella disposizione delle nuove
semi-città. Nella vasta ‘corea’ di Bollate, a nord di Milano, nella zona ‘sud’
stavano soprattutto meridionali, mentre a Bollate ‘nord’ venivano in genere
dal Veneto. In Italia urbanizzazione e industrializzazione furono quindi
simultanee: una corsa eccitante, a tutta velocità. Il tempo pareva comprimersi,
mentre il paese volava verso la modernità.
Gli immigrati disponevano di un’unica arma efficace: il diritto di voto. I
partiti politici guardavano con grande interesse a questo nuovo elettorato
fluttuante, e non potevano ignorare del tutto le sue esigenze. In qualche modo
si doveva averne cura, trovargli gli alloggi, dargli un’istruzione. Si
delimitarono ghetti, si costruirono vere e proprie nuove città, ma si investì
molto anche nell’integrazione e nell’edilizia popolare. La vita quotidiana era
comunque faticosa, e certe forme di razzismo erano molto diffuse. Altri
immigranti che non disponevano di capitali vennero costretti a stare in affitto
in altre zone delle città. Molti finirono in appartamenti di cattiva qualità in
centro o nelle periferie interne di Milano, Torino e Genova.
In quegli anni nacquero molti miti – che si sono poi ulteriormente rafforzati
– sugli immigrati e i loro comportamenti. Imperavano gli stereotipi e la
discriminazione, soprattutto contro i meridionali. Si diceva che usassero il
bidet per coltivare i pomodori, che le loro valigie fossero sempre legate con lo
spago, e che gli uomini avevano il ‘sangue caldo’ ed erano spesso legati a
diverse forme di criminalità. La stampa locale classificava i criminali in base
alle ‘caratteristiche’ regionali. I padroni di casa esponevano cartelli di
avvertimento: “Non si affitta ai meridionali”. In larga misura, nel periodo
successivo al boom a questa immagine di ostilità si sarebbe sostituita quella
dell’integrazione nella comunità. La nostalgia ha contribuito ad addolcire i
ricordi più aspri del passato, invocato come un’età dell’oro, dell’abbondanza. I
conflitti di quel periodo sono stati per lo più dimenticati.

La fine dell’Italia rurale


Per secoli la vita familiare e lavorativa della vasta maggioranza degli italiani era
stata determinata dai tempi e dai processi produttivi dell’agricoltura.
Ovviamente l’Italia rurale non era un mondo immutabile – e i sistemi che lo
governavano non erano certo gli stessi nelle diverse zone del paese. Alcune
forme comunque – come la mezzadria, per cui le famiglie vivevano sulla terra
e la lavoravano, dando una parte del prodotto al proprietario – rimanevano
sostanzialmente immutate da centinaia di anni. Non avrebbero tardato a
passare alla storia.
Il numero delle persone impiegate nell’agricoltura, o soprattutto
nell’agricoltura, era rimasto praticamente lo stesso dal 1901 al 1951 (circa 3,5
milioni), ma quello complessivo delle famiglie italiane era passato da 7,1
milioni a 11,8. Nel 1958 gli impiegati nell’industria superarono per la prima
volta quelli nell’agricoltura. Nei vent’anni tra il 1951 e il ’71 l’Italia perse 5
milioni di lavoratori agricoli. Nel 1951 il 42 per cento degli italiani lavorava la
terra; nel 1996 si era ridotto al 7 per cento.
Come afferma lo storico Vittorio Vidotto, “figure sociali che avevano
dominato per secoli la storia di questo paese uscivano di scena. E con essi si
sgretolava un sistema produttivo e un sistema di relazioni sociali fondato sul
predominio della forza lavoro umana, sul ruolo centrale della famiglia
contadina”9. Se ne andavano i contadini e arrivavano le macchine: nell’Italia
del 1957 c’erano soltanto 57.000 trattori; nel 1980 superavano il milione.
Certe zone erano irriconoscibili, sul piano fisico e su quello sociale, rispetto a
soli vent’anni prima. Il paesaggio italiano veniva ridisegnato.
La trasformazione fu talmente profonda e completa che ancora oggi se ne
risentono gli effetti. La vita contadina e rurale era da sempre governata dalle
stagioni e dal clima: con la grande trasformazione questo legame profondo si
dissolse. Aveva segnato i momenti chiave dell’anno per la famiglia contadina,
quelli ‘naturali’ – il raccolto, la semina – e quelli ‘produttivi’ – la
rinegoziazione dei contratti e delle affittanze annuali, per esempio. Il mondo
urbano e industriale, invece, era in larga misura staccato dalla natura. Il ritmo
era quello della giornata lavorativa, scandito dalle sirene delle fabbriche. Per
l’operaio di fabbrica, l’unica scadenza stagionale erano le ferie estive, le due o
tre settimane in cui si tornava al paese, o si andava al mare. Nelle zone
mezzadrili vi furono cambiamenti profondi nella forma e nella cultura delle
famiglie.
L’idea, o il sogno, della casa di proprietà e del posto in fabbrica o in cantiere
sostituì rapidamente il mito della terra. Intorno alla proprietà fondiaria si
erano combattute dure battaglie, nell’Italia degli ultimi duecento anni, ma
durante e dopo il boom la sua rilevanza andò svanendo. Come spiega lo
storico Agopik Manoukian, “la terra a cui pensare, su cui fare progetti non è
ormai più la terra da coltivare”. E aggiunge che “la casa in paese diviene il
nuovo ideale in cui investire ogni risorsa, il simbolo di un’impresa familiare
comune”10. Non era più il casale che era stato la norma in campagna, ma “una
casa più ampia, con più stanze, differenziata negli spazi e nelle funzioni, in cui
vengono accumulandosi mobili, oggetti, servizi nuovi: non tutti usati, ma
tutti ugualmente importanti per mostrare a sé e ‘alla gente’ di essere arrivati, di
essere usciti dalla condizione secolare”11. Case e appartamenti si
trasformavano. L’antico e tradizionale rapporto con gli animali e i loro
prodotti, tipico di tante aree rurali, veniva dimenticato. Il pane non si faceva
più, si acquistava al negozio. Gli italiani si urbanizzavano.
Le strutture di genere all’interno della famiglia contadina erano state segnate
dalla separazione dei sessi e da diversi rituali. Il ‘capotavola’, per esempio,
spettava quasi sempre a un uomo. In certe case le donne non mangiavano mai
nello stesso spazio degli uomini. Oltre al genere, posizioni e riti dipendevano
anche dalle gerarchie sociali, determinate dall’anzianità e dall’autorevolezza.
Certe donne esercitavano un grande potere sulle altre, in certi spazi specifici
della casa. Ma il paese cambiava, e queste strutture crollavano con il
modificarsi delle norme e dei costumi sociali e di genere.
Nessuno dei cambiamenti avvenuti al tempo del miracolo economico pareva
ordinato o premeditato. Dopotutto, la famiglia era, ed è, un’entità malleabile,
e anche un’ideologia, un sistema di credenze – un modo di essere che si
muoveva nello spazio e nel tempo e sapeva interagire con le forme mutevoli
della tecnologia. Secondo Manoukian, “da un lato il legame familiare si
presenta come istituzione flessibile, duttile, pronto a mutare in relazione alle
diverse forme di conduzione del mondo, a modellarsi secondo le necessità e
circostanze sociali e tecniche; dall’altro il legame familiare resiste ad ogni
varianza, ad ogni trasformazione, si sposta, migra e sotto nuove forme si
riproduce. Da un lato una famiglia di cui liberarsi, una famiglia prossima al
suo dissolvimento; dall’altro una famiglia che si ritrova, che si ricostruisce, che
intesse nuove reti di solidarietà”12. Ma la ‘morte’ del contadino non eliminò
del tutto le culture e i costumi di quel mondo. Tracce delle forme culturali
rurali sopravvivevano spesso all’ambiente urbano e si adattavano ad esso. Le
case costruite dagli immigranti sui terreni un tempo agricoli intorno alle città
(lottizzati per la vendita) erano spesso ispirate a quelle contadine, con grandi
orti e giardini. I legami con la terra rivivevano anche nelle seconde case,
destinate ai fine settimana e alle vacanze. La nostalgia per il passato contadino
divenne una preziosa risorsa nelle mani dei pubblicitari e degli sceneggiatori13.

La fine della mezzadria


Nell’Italia centrale, intanto, anche il sistema mezzadrile produceva il suo
ultimo rigurgito sociale. La quota esatta del prodotto che andava consegnata
era da sempre materia di discussioni e trattative. Dopo la guerra, i mezzadri
conquistarono consistenti concessioni a seguito di uno sciopero duro e
prolungato. Nel 1947 ottennero di tenere per sé il 53 per cento del prodotto
(per tradizione era il 50), e nel 1964 la quota salì a un 58 per cento senza
precedenti. Ma furono vittorie di Pirro: la mezzadria era ormai in agonia.
Un modo di vita che aveva segnato i ritmi e i paesaggi, e si era dimostrato
relativamente stabile per centinaia di anni, fu gettato di colpo nel
dimenticatoio. Il sistema mezzadrile non conveniva più né alle famiglie, né ai
proprietari. Con il crollo, o l’obliterazione, di quei sistemi, molti lasciarono la
terra14. Le aziende e i grandi casali mezzadrili vennero abbandonati, o
trasformati in agriturismo. Intere zone subirono un esodo della popolazione.
Quando spariva la chiesa, e il tetto crollava per mancata manutenzione, un
paese cessava di fatto di esistere. In tutta l’Italia centrale grandi edifici rurali,
corti, granai, stalle e casali contadini furono lasciati alla mercé delle intemperie
e della vegetazione, simboli potenti e malinconici di un passato ormai davvero
passato. Lo scrittore Gianni Celati avrebbe poi girato un bellissimo
documentario su questi luoghi, intitolandolo semplicemente Visioni di case che
crollano15.
A livello locale il cambiamento fu spettacolare. In Umbria, una regione dove
la mezzadria aveva regnato sovrana, tra il 1951 e il ’71 137.000 persone
abbandonarono le campagne. Nel 1951 il 60 per cento degli occupati lavorava
la terra; nel 1981 si erano ridotti al 9. La terra era sempre lì, naturalmente, e in
buona parte veniva ancora lavorata: ma i contadini e i mezzadri che l’avevano
abitata non c’erano più.
I cambiamenti trovarono riscontro – e stimolo – anche sul piano legale. Nel
1964 fu approvata una legge che vietava la stipula di nuovi contratti di
mezzadria. E nel 1982 un’altra legge autorizzò l’annullamento di quelli in atto
se una soltanto delle parti ne richiedeva la modifica. Gli accordi vincolanti e
gli scambi in natura che avevano tenuto in piedi il sistema per tanti anni non
sussistevano più. La mezzadria come forma di produzione e di scambio
scomparve del tutto. Ma le tracce culturali ed economiche di quel sistema
ancora non si sono cancellate16.

La nostalgia e i mestieri di una volta


Nelle risaie del Nord, le macchine sostituirono il ricorso intensivo e
stagionale alla manodopera (per lo più femminile, le ‘mondine’) utilizzata in
quelle zone fino a tutti gli anni ’60. Immortalate nel famoso film Riso amaro
(1949), scritto e diretto dal comunista Giuseppe De Santis, le donne stavano
piegate per lunghe ore sotto il sole cocente, mondando il riso a mano, con le
gambe immerse nell’acqua. La loro era una storia di resistenza e ribellione. La
scomparsa degli stagionali negli anni del boom lasciò uno scenario magnifico
ma desolato in cui alle grandi aziende bastava ormai una forza lavoro
minuscola che riusciva a gestire il ciclo produttivo grazie alle macchine. Una
sola famiglia poteva ormai badare a parecchi campi. La combattiva cultura
alternativa delle mondine rimase soltanto nelle canzoni e nella memoria
popolare.
Intere regioni abbandonarono le forme più tradizionali della produzione
mista per dedicarsi ai più redditizi prodotti per l’esportazione – soprattutto
vino e formaggio, ma anche abbigliamento e merci di nicchia di alta qualità.
Le dolci colline delle Langhe, sopra Torino, si sarebbero poi specializzate nel
vino di lusso, e i gioghi di buoi – un tempo onnipresenti – sarebbero
scomparsi dal paesaggio. Con l’esplosione del commercio internazionale del
vino, la viticultura divenne dominante, e la regione fu presto invasa da ricchi
turisti a caccia di costose bottiglie di Barolo o Barbaresco. Alla miseria nera
delle Langhe descritte da Beppe Fenoglio in La malora (1954), si sostituirono
forme di ricchezza spesso pacchiane17.

Soldi, soldi, soldi


Qualcuno fece profitti enormi con il boom. Si affermarono nuovi inventori e
imprenditori, che in molti casi parevano spuntati dal nulla. C’era gente che si
era fatta da sé, e viveva il sogno americano, ma altri erano esponenti di aziende
con lunghe tradizioni di manifattura e produzione. Esplodeva la creatività, e
crollavano barriere e gerarchie: progettisti, architetti e scrittori collaboravano
con imprenditori e ingegneri. C’erano società e individui perfettamente
attrezzati per trarre il massimo vantaggio dalle opportunità offerte dal
miracolo.
In questo periodo l’architetto Gio Ponti lavorava con il mobilificio Cassina,
con sede a Meda, appena fuori Milano. Gli chiesero di progettare una sedia
che unisse il design di qualità con i criteri della produzione di massa, un
oggetto per tutti che però fosse anche uno status symbol. Il risultato fu la
‘superleggera’, prodotta per la prima volta nel 1957. Cassina la collaudò
gettandola dall’ultimo piano della fabbrica. La collaborazione tra Ponti e
Cassina fu un successo fragoroso. La ‘superleggera’ andava a ruba: pareva che
in ogni casa ce ne fosse almeno una, se non una serie completa. Fu allora,
proprio alla metà degli anni ’50, che il design italiano divenne famoso nel
mondo. Molto prima di Ikea, gli architetti e i progettisti italiani avevano già
inventato i mobili da montare. Il fatto che la maggioranza degli abitanti delle
grandi città vivesse in appartamenti piuttosto piccoli imponeva ai designer
un’estrema creatività nell’uso dello spazio.
Giovanni Borghi aprì la sua prima fabbrica fuori Milano nel 1951. La società
si chiamava Ignis, e lui fu soprannominato Mister Ignis. Veniva da una
famiglia di imprenditori, ma i suoi progetti erano ben più ambiziosi di quelli
dei parenti. La Ignis fabbricava frigoriferi e lavatrici, i beni di consumo
durevoli indispensabili per le case del boom. Questi oggetti non potevano più
mancare, nelle cucine e nei ‘tinelli’ degli italiani (il ‘tinello’ stava di solito
proprio accanto alla cucina)18. La Ignis divenne una delle maggiori produttrici
di frigoriferi d’Europa; ad un certo punto ne sfornava 8000 al giorno.
Borghi era un po’ l’archetipo dell’industriale milanese negli anni del boom:
“Ex artigiano, la voce roca, l’uso costante del dialetto milanese, le maniere
sbrigative e poco attente al galateo, la continua sottolineatura che ogni cosa e
ogni essere umano hanno un loro prezzo, la scarsa cultura scolastica”19. Il
‘cumenda’ era un personaggio moderno e allo stesso tempo tradizionale. Con
i ‘suoi’ operai era un paternalista, e di tutto chiedeva soltanto, in milanese,
‘quanto costa?’. Del patrocinio – spesso di squadre o campioni sportivi –
sapeva fare un uso innovativo, e di grande successo. Grazie alla Ignis la squadra
di basket di Varese divenne a sorpresa una delle migliori d’Europa. L’azienda
si faceva pubblicità anche con il pugilato, il ciclismo, il canottaggio e altri
sport. Negli anni del miracolo economico i nuovi miliardari come Borghi si
contendevano potere e influenza in tutta Italia, e i loro prodotti entravano in
ogni casa e su tutte le strade.

Fabbriche e operai
La seconda rivoluzione industriale italiana (la prima era stata alla fine
dell’Ottocento) che creò e accompagnò il boom fu molto breve: di fatto finì
che era appena incominciata. Ma fu un momento di cambiamenti e sviluppi
tumultuosi. Sebbene in alcune zone del paese già vi fossero grosse realtà
produttive – nate soprattutto nel triangolo industriale del Nord tra la fine
dell’Ottocento e il primo Novecento – nel breve periodo tra gli anni ’50 e i
’70 le grandi fabbriche divennero ovunque un aspetto caratterizzante del
paesaggio. La nuova classe operaia diventò dunque la materia prima, in quanto
insieme produttrice e consumatrice di merci del miracolo economico.
Durante il boom gli italiani gettarono gli abiti contadini e indossarono la
tuta. Divennero operai irreggimentati, vite condizionate dalle norme e dai
regolamenti di fabbrica: una classe operaia. Un tempo avevano lavorato
all’aperto, nei campi; ora si lavorava al coperto, in luoghi dove le stagioni e le
giornate finivano per confondersi. Il lavoro era logorante. In molte fabbriche
di Milano si facevano tre turni, ognuno segnato da fiumi di operai che
entravano e uscivano dai cancelli della fabbrica. Il ritmo della giornata (e della
nottata) lavorativa era marcato dalle sirene; le innumerevoli ciminiere
eruttavano fumo. Una sigaretta veloce (si comperavano sfuse) e un bicchierino
di Fernet al bar precedevano e concludevano il turno. Gli orologi piazzati
ovunque dal comune garantivano che in ogni momento gli operai sapessero
l’ora.
Ondate di operai affluivano (e defluivano) nelle città sui tram, in bicicletta o
con lo scooter; oppure, a Milano, sulla vasta rete pendolare delle Ferrovie
Nord che li portava in centro dalle cosiddette ‘città dormitorio’ costruite nei
dintorni. Si pranzava nel bar dell’angolo, col pasto portato da casa nella
‘schiscetta’ e un paio di bicchieri di vinaccio. A fine turno a casa, e subito, o
quasi, a letto. Il giorno dopo, tutto si ripeteva di nuovo.
Il lavoro in fabbrica era duro, ripetitivo e spesso pericoloso, ma era anche
sicuro, e relativamente ben pagato. La nuova classe operaia non tardò a potersi
permettere, spesso a credito, i beni di consumo durevoli: l’automobile, il
frigo, la lavatrice, e poi anche la TV. Questi operai potevano fare acquisti, e
dar da mangiare alla famiglia. In agosto le fabbriche chiudevano, e si tornava al
paese (gli immigrati) o si andava in vacanza. L’espansione delle città e delle
infrastrutture – le linee del metrò e i grandi condomini – fu creata
materialmente dagli immigrati: c’era lavoro per tutti.
Com’era inevitabile, la sindacalizzazione e le dure condizioni di lavoro
portarono proteste e richieste di miglioramento. Scioperi e manifestazioni
segnarono la fine degli anni ’50 e i primi ’60 nelle zone più industrializzate
(che avevano una lunga tradizione di militanza organizzata). Nel 1962 alcuni
giovani operai, per lo più meridionali, scatenarono un tumulto nel centro di
Torino, provocando una reazione di panico morale sulla stampa locale. I
rivoltosi furono subito processati e condannati. Qualcuno cominciò a
collocare questi giovani immigrati meridionali nella categoria del cosiddetto
“operaio-massa”, un nuovo soggetto potenzialmente rivoluzionario, escluso
dalle ricchezze della società industriale. A seguito del miracolo economico, la
città di Torino aveva generato un’esplosiva miscela di turbolenze sociali ed
economiche; il boom sradicava le strutture sociali sia nel Nord che nel Sud.
Gli alloggi, le scuole, gli ospedali: tutto subiva l’intensa pressione di una
migrazione di massa che quasi raddoppiò la popolazione urbana20.

Una storia d’amore:


gli italiani e l’auto
L’automobile è l’icona del nuovo paesaggio urbano e industriale della contemporaneità; esprime
mobilità spaziale e sociale; afferma il valore dell’individualità; inaugura nuove modalità di lavoro e di
consumo.
Emanuela Scarpellini21
Prima degli anni ’50 le automobili erano ancora una rarità. I viaggi si facevano
per lo più in treno o in nave, e la bicicletta era il mezzo di tutti. Le fabbriche
avevano parcheggi per le bici, non per le auto. Poi venne il boom, ed esplose
la motorizzazione, allargando gli orizzonti degli italiani e introducendo forme
di mobilità che rivoluzionarono la vita di ogni giorno. Il nesso tra il boom e
l’automobile era inestricabile.
Il primo veicolo a motore che conquistò le strade italiane fu lo scooter. La
Vespa, fabbricata a Pontedera dalla Piaggio, aveva linee morbide e avvolgenti;
la Lambretta invece, prodotta a Milano dalla Innocenti, aveva un piglio più
industriale e ‘urbano’. Divennero entrambe icone internazionali dello stile e
del design italiano. Gregory Peck e Audrey Hepburn giravano per Roma su
una Vespa nel classico film-cartolina Vacanze romane (1953).
Gli scooter affrancavano i giovani dalle soffocanti limitazioni del paese o del
quartiere. Costavano poco, erano rumorosi, scomodi e pericolosi, ma davano
un senso di liberazione. Chiunque poteva guidarli, anche per lunghi viaggi.
Nella fase iniziale, Vespe e Lambrette avevano i sedili lunghi, da veicolo per
famiglia, per le giornate fuori porta al mare, ai laghi o in montagna. Si poteva
viaggiare in due, o perfino in tre, ma non c’era posto per i bagagli, e se pioveva
ci si inzuppava.
Gli italiani si innamorarono subito dell’auto. Il veicolo a motore svolgeva
funzioni reali e simboliche a un tempo. La Fiat produsse una serie di
macchine a buon mercato, e i suoi profitti andarono alle stelle. Si guidava in
città, si guidava sulle nuove scintillanti autostrade. Nel 1970 si contavano
ormai 10 milioni di auto22. Alcune avevano per nome soltanto un numero: la
600 (1955), la 500 (1957), la 850 (1964), la 127 (1971), la 126 (1972); altre
(non tutte Fiat) si chiamavano Alfetta, Uno, Punto. La 500 era relativamente
economica – appena 415.000 lire, all’epoca. Fino agli anni ’70 le catene di
montaggio ne avrebbero sfornate quasi quattro milioni. Quella macchina
divenne un’icona, l’emblema di un’epoca storica.
Le ‘utilitarie’ erano solide, belle da vedere e pensate per la famiglia a tutti i
livelli sociali. Si potevano acquistare a credito, ed erano lo status symbol
indiscutibile degli italiani del boom, che finalmente avevano i soldi e il tempo
per le vacanze d’estate. In agosto, chiuse le fabbriche, c’era la ‘libertà’
dell’ingorgo autostradale – ma si poteva anche caricare le valigie sul tetto della
500, ficcare dietro i bambini e partire verso sud, o verso il mare in giornata.
Secondo il sociologo Giampaolo Fabris, “l’auto... è dimensione sociale ma è
anche una sorta di casa”. A suo dire, per esempio, negli anni ’50 e ’60 molti
italiani ebbero la loro prima esperienza sessuale in una 500 o una 600 (i sedili,
ci spiega, erano reclinabili)23. La Fiat non fu l’unica ad approfittare del boom
dei motori: l’Alfa Romeo di Milano e la Lancia di Torino, per esempio,
soddisfacevano con i loro modelli eleganti la fascia alta del mercato. Nel film Il
sorpasso (1962), epitome dolce-amara del boom ‘sulla strada’, il bel Vittorio
Gassman sfreccia su una Spider Lancia lungo la via Aurelia. Fabris sostiene che
l’auto veniva trattata come un membro della famiglia, un animale domestico,
perfino come un essere umano specialissimo. Richiedeva cure, lavaggi
regolari, lucidature; rappresentava la ribellione, la velocità, la mascolinità, ma
anche il conformismo (alla fine, ce l’avevano tutti). La storia dell’auto aveva
forti valenze emotive, fitte di richiami alle memorie del passato. L’uso
dell’auto era connotato per genere: da un lato favoriva la mobilità degli
uomini e dei nuclei familiari, ma dall’altro – per lo meno nel periodo iniziale
– aumentava la dipendenza di donne e bambini dal marito-guidatore24.

L’Autostrada del sole


Il 7 dicembre 1958 Amintore Fanfani, pezzo grosso democristiano in formato
ridotto, inaugurò i primi cento chilometri di una nuova autostrada. Era
un’impresa titanica, che avrebbe percorso la penisola, saltando dirupi e
perforando intere catene montuose. Cominciava in un posto del tutto
anonimo, San Donato Milanese (la cui popolazione si era moltiplicata con il
boom), appena sotto Milano, ed era destinata a finire a Napoli. La chiamarono
‘Autostrada del sole’.
Quella magnifica autostrada, l’arteria d’Italia, l’asse di collegamento tra il
Nord e il Sud, cambiò l’idea stessa del paese. Fu la fucina dei sogni e delle
vacanze, del ricordo e dell’incubo, della mobilità e dell’ingorgo. Ridisegnò la
geografia della penisola, dando risalto a siti che sarebbero diventati famosi
come uscite e caselli – come quello enorme di Melegnano, a sud di Milano,
dove le code al rientro dalle vacanze giungevano a volte a proporzioni
bibliche. Negli anni ’90 il giornale satirico “Cuore” uscì con delle false
cartoline: un ingorgo inestricabile con la frase “Saluti da Melegnano”.
In altri punti il percorso stesso dell’autostrada fu modificato per motivi
politici, come la famosa ‘curva Fanfani’, che la portò a toccare Arezzo, feudo
del politico democristiano, soltanto per favorire le sue clientele e la sua
influenza. Le uscite dell’autostrada portavano affari, turismo e visibilità. La
prima fase dell’impresa riuscì relativamente bene, ma il proseguimento
dell’autostrada fino a Reggio Calabria viene considerato – da tutti, o quasi –
un disastro: corruzione e criminalità organizzata generarono un mostro che
divorava il denaro pubblico, una strada estremamente pericolosa e bisognosa
di riparazioni continue.
La motorizzazione di massa aveva il suo lato oscuro, fatto di sangue e fumi
tossici. Gli incidenti automobilistici entrarono presto tra le prime cause di
morte: piccoli altarini sul bordo delle strade, con fiori e targhe
commemorative, segnavano il ricordo di chi ci aveva perduto la vita.
Ovunque gli spazi pubblici furono invasi dal presunto ‘diritto’ di andare in
auto e trovare un parcheggio. A Napoli la grande piazza Plebiscito era intasata
di auto in sosta, e il traffico correva frenetico a ridosso del Duomo a Milano e
del Colosseo a Roma. Tangenziali e viadotti da incubo circondavano o
sovrastavano il centro stesso di città come Roma, Milano e Genova. Nel suo
film Roma (1972) Federico Fellini rappresentava il Grande raccordo anulare
come una visione infernale.
Ai registi piaceva ironizzare sul consumismo, facendo dell’auto il simbolo
della pazza corsa agli acquisti. Ne I mostri (1963), un feroce film a episodi
diretto da Dino Risi, Ugo Tognazzi compra una fiammante 600 a credito, e
invece di portarla a casa, dalla famiglia, va subito in cerca di prostitute. In un
altro episodio un vigile esibisce la sua abilità nell’assegnare multe fulminee agli
automobilisti che si fermano un istante per acquistare il giornale. E il
problema non erano soltanto le macchine: in un altro episodio, un marito è
talmente assorto dalla televisione da non accorgersi che la moglie lo sta
tradendo nella stanza accanto.

L’Italia della Fiat


Grazie alla motorizzazione di massa, la Fiat, fondata a Torino nel 1899, estese
il suo potere e la sua influenza su tutti i settori della vita italiana. Il giornalista
Enrico Deaglio scrive che “la Fiat, di fatto, è lo Stato”25. Un biografo della
famiglia fondatrice sostiene che “raccontare la storia degli Agnelli e della
Fiat... significa ricostruire il percorso dell’identità nazionale”26. Non era certo
un’azienda, né una famiglia, qualunque. Le sue scelte culturali, politiche e
strategiche si intessevano con quelle del paese, e della città che era il suo
centro nevralgico: Torino.
Gli Agnelli controllavano buona parte della vita urbana e industriale della
città sede di tante delle loro fabbriche. I loro riti, le loro ville, i loro
pronunciamenti, tutto esprimeva potere. Più avanti, avrebbero utilizzato
anche i nuovi mezzi di comunicazione. Giovanni Agnelli, il fondatore, andava
a piedi in fabbrica dalla sua casa in centro, con tanto di bastone da passeggio.
Ma la storia della famiglia e dell’azienda nel dopoguerra cominciò male.
Giovanni Agnelli fu sepolto senza cerimonie nel dicembre 1945: finita la
guerra era stato accusato di collaborazionismo. Ma questa macchia fu ben
presto dimenticata.
Dopo il 1946 l’Italia non aveva più una famiglia reale, ma c’era la dinastia
degli Agnelli. Per alcuni Gianni Agnelli, nipote di Giovanni, era “un re che
regna e non governa”, e il giornalista Eugenio Scalfari lo definì “il re dell’Italia
repubblicana”27. Diversamente dal nonno, Gianni Agnelli preferiva spostarsi
in elicottero o su una veloce auto sportiva. Gli Agnelli modernizzarono
l’Italia, e le loro stesse vite cambiavano con i tempi. Come si confaceva a un
uomo d’affari della sua importanza, Gianni si occupava delle cose più
disparate, dal suo ruolo in buona parte simbolico di sindaco di Villar Perosa
(popolazione attuale 4019) alla presenza nel consiglio d’amministrazione di
un’infinità di altre aziende. Si era laureato in legge, e lo chiamavano
‘l’Avvocato’. Gli esponenti della famiglia erano guardati come modelli,
positivi o negativi: erano belli, e li consideravano gente che lavorava sodo. Ci
fu qualche pecora nera, ma in genere seguivano i percorsi tradizionali.
La Fiat pareva tanto potente da poter ignorare – in qualche occasione – gli
editti della Guerra fredda. Nel 1966 fu stipulato un accordo tra il governo
sovietico e l’azienda automobilistica italiana, che portò all’impianto di una
fabbrica a Tol’jatti, nel sud-ovest dell’URSS. Un accordo analogo fu stipulato
con la Polonia. Gli anni del boom fecero la fortuna dell’azienda, che vendeva
le sue utilitarie, eleganti ed economiche, in milioni di esemplari. L’attività si
espandeva, e l’enorme stabilimento di Mirafiori a Torino lavorava a pieno
ritmo.
La Fiat non era solo un’azienda; era anche una potenza politica, con accesso
preferenziale al centro stesso del governo. Giulio Andreotti, per sette volte
presidente del Consiglio, ricordava che Vittorio Valletta, presidente
dell’azienda, “veniva a Roma abbastanza spesso e incontrava il presidente De
Gasperi, sempre in una posizione di grande rispetto e con la consapevolezza
che, pur essendo un’entità privata, aveva un peso tale da incidere
pesantemente sull’economia generale”28. Andreotti teneva comunque a
sottolineare che il governo prendeva le sue decisioni in assoluta autonomia,
ma c’erano politici secondo i quali “quel che va bene per la Fiat, va bene per
l’Italia”. Non tutti erano d’accordo.
La Fiat non fu mai soltanto un’azienda: era un impero, un modo di vivere.
Ovviamente la sua funzione principale era di fabbricare automobili e camion
per la gente comune e veicoli di lusso per i molto ricchi. Ma la Fiat era
un’entità interclassista (come la Chiesa e la Democrazia cristiana) e
paternalistica. Si prendeva cura dei dipendenti dalla culla alla tomba – aveva le
sue scuole, colonie estive, case di riposo. A partire dagli anni ’20, potevano
leggere “La Stampa”, quotidiano torinese di qualità di proprietà Fiat, e
sostenere la squadra di calcio Fiat, la Juventus, con i suoi milioni di tifosi e le
decine di titoli vinti. L’azienda si preoccupava che ai suoi fedeli impiegati non
mancasse nulla (per molti, comunque, negli anni ’60 e ’70 questo rapporto di
affetto si interruppe). La Fiat era amata, e odiata. Quando morì Gianni
Agnelli, la coda per rendere omaggio alle sue spoglie faceva il giro della
vecchia fabbrica, il Lingotto29. Altri operai, invece, odiavano la fabbrica e i
suoi padroni; rifiutavano il sistema stesso (in qualche caso), o si sentivano
sfruttati e arrabbiati (molti di più).

Cavalcare la tigre?
La città e l’urbanistica
Noi andavamo spesso a vedere crescere la nostra città, a vederla avanzare vittoriosa, dentro la
campagna, contro la campagna, a conquistare altro territorio. Si muoveva, si muoveva sensibilmente, a
vista d’occhio, la nostra città.

Luciano Bianciardi30
L’Italia è uno dei paesi più belli del mondo. Ed è anche un paese che ha
sistematicamente evitato di difendere il suo ambiente. Le maggiori forze
motrici della ‘cementificazione’ sono state la speculazione edilizia e
l’espansione del turismo. Per questo tanta parte delle sue coste è coperta dalle
costruzioni, e vaste zone risultano molto più vulnerabili al danno dei
terremoti, delle alluvioni e delle frane.
La politica faticava a gestire i potenti impulsi scatenati dal boom economico.
Si cercò di soddisfare la domanda crescente con un vasto programma di
edilizia popolare urbana, ma molto spesso i servizi locali venivano travolti
dalla pressione dell’immigrazione. Si pianificava l’economia? Fino ad un certo
punto. I piani c’erano, ma spesso venivano superati dagli eventi, o non
venivano rispettati, o risultavano datati quando finalmente superavano il
vaglio della politica. In molte parti dell’Italia degli anni ’60 è indubbio che
l’espansione urbana sfuggì di mano: le procedure formali potevano anche
essere rispettate, ma sta di fatto che le città dilagarono nelle campagne,
divorando terreni e aziende agricole. Vista dall’alto, la forma disegnata sul
paesaggio dalle nuove costruzioni veniva paragonata all’inesorabile espansione
di una macchia d’olio.
Ovunque, la corruzione e la speculazione consentirono di infrangere le
regole, ignorando o modificando i piani regolatori. La cosa fu particolarmente
clamorosa nelle zone in cui era più forte la criminalità organizzata: il ‘sacco di
Palermo’, per esempio – in buona parte voluto dalla mafia, che aveva piazzato
i suoi nei posti chiave dell’amministrazione – cementificò vaste distese
dell’entroterra, e chilometri e chilometri della magnifica costiera. Ma anche a
Napoli il boom edilizio fu stupefacente.
Non era facile accorgersi di quanto stava accadendo, specie per chi viveva di
persona la rapida urbanizzazione. A Roma le ‘borgate’ semiperiferiche furono
inglobate nella città, ma le tracce dell’antico assetto rimasero ovunque visibili,
soprattutto nei luoghi in cui la città incontrava la campagna. I vecchi casali
contadini venivano assorbiti nel tessuto urbano, ma la loro funzione agricola
divenne presto un lontano ricordo; poi, nemmeno quello. Questi quartieri
spesso crescevano in modo spontaneo, come funghi. Centocelle, a sud-est
della città, era ed è una periferia romana abbastanza tipica: “È stata costruita
dai cosiddetti piccoli palazzinari, no? Per cui costruivano ’na palazzina qua, ’na
palazzina là, eccetera eccetera”, racconta un residente31. La rapidità del
cambiamento era spesso sconcertante per chi lo subiva – a questo si devono
frasi fatte come “una volta qui era tutta campagna”. Secondo un altro,
Centocelle “non è nata [...] con un progetto [...] non c’è nessuna traccia del
piano regolatore”32. A Milano la propensione ad addomesticare norme e
regolamenti in base alle esigenze degli imprenditori prese il nome di ‘rito
ambrosiano’. La versione finale dei piani regolatori spesso aveva ben poco a
che fare con gli abbozzi originali.
In mezzo al caos, vi furono molti esempi illuminati di urbanistica pubblica e
di resistenza alla distruzione di quartieri, panorami ed edifici tradizionali.
Notevole, per esempio, fu la campagna contro un progetto degli anni ’50 per
un nuovo Hotel Hilton a Roma. E in certi luoghi fu tutt’altra storia. Bologna
riuscì a mantenere uno dei centri storici medievali più raffinati del mondo,
tentando di tutelarne la composizione sociale attraverso affitti calmierati,
riforme innovative e attenzione all’utilizzo dei terreni e degli edifici. Altrove
ci furono architetti e urbanisti che tentarono di dare diverso indirizzo allo
sviluppo urbano, come l’architettura ‘partecipata’ di Giancarlo De Carlo nella
città industriale di Terni, o i visionari condomini residenziali di Aldo Rossi a
Milano.
Ma furono eccezioni alla regola. In Italia il movimento ambientalista era
debole, e le opportunità di fare soldi in fretta erano troppe. Le coste furono
probabilmente le zone più devastate dalla febbre di costruire: la riviera ligure
fu foderata di alberghi e seconde case. Alla fine degli anni ’60 un visitatore che
non fosse stato in Italia negli ultimi dieci anni avrebbe faticato a riconoscere
molte delle sue città.

1963: il Vajont
A volte i costi di questo genere di sviluppo apparivano evidenti a tutti, quando
un disastro causato dall’uomo provocava morti a non finire. In un paese quasi
privo di carbone nero, fin dall’Ottocento, con la rivoluzione industriale
lombarda, quella idroelettrica – il ‘carbone bianco’ – era una fonte di energia
fondamentale. Le società elettriche erano sempre a caccia di siti adatti alla
costruzione di dighe per creare e vendere allo Stato l’energia prodotta
dall’acqua. Alla fine degli anni ’50 la Sade (Società adriatica di elettricità)
individuò una valle scoscesa nel Friuli: il Vajont.
Nonostante le forti preoccupazioni per la sicurezza del progetto (secondo i
geologi il terreno circostante era troppo fragile e franoso) la costruzione della
gigantesca diga andò avanti indisturbata. Le proteste della gente del posto
furono ignorate. Il 9 ottobre 1963, alle 10,39 di notte, gli allarmi ebbero
puntuale conferma: un pezzo consistente della montagna precipitò nel lago
dietro la diga, e circa 50 milioni di metri cubi d’acqua scavalcarono la struttura
(che rimase intatta) piombando sulla valle sottostante. Un’intera cittadina,
Longarone, fu spazzata via, insieme con diversi paesi nei dintorni. Il conto
finale fu di 1917 vittime, di cui 1450 nella sola Longarone. La scena del
disastro somigliava alla luna. Il grande giornalista Dino Buzzati, che conosceva
bene quella zona, scrisse un famoso articolo sulla tragedia. “E il monte che si è
rotto e ha fatto lo sterminio è uno dei monti della mia vita, il cui profilo è
impresso nel mio animo e vi rimarrà per sempre. Ragione per cui chi scrive si
trova ad avere la gola secca e le parole di circostanza non gli vengono. Le
parole incredulità, orrore, pietà, costernazione, rabbia, pianto, lutto, gli
restano dentro col loro peso crudele”. Buzzati concludeva che “ancora una
volta la fantasia della natura è stata più grande ed astuta che la fantasia della
scienza”33.
Il Vajont fu un terribile ammonimento. Dimostrò che lo sviluppo
incontrollato e la corsa al profitto potevano avere conseguenze catastrofiche. E
anche che l’ambiente è fragile, e può subire danni irreparabili. Seguì una lunga
battaglia per fare giustizia. Nel trentaquattresimo anniversario del disastro
l’attore e autore Marco Paolini presentò un audace monologo dal vivo alla
televisione, ambientato in un teatro montato appositamente a ridosso della
diga. Di fronte a un pubblico attentissimo, Paolini ricostruì la tragedia umana
del Vajont. Il successo dello spettacolo (tre milioni e mezzo di spettatori
incollati ai televisori fino a notte fonda) rinnovò l’interesse per il caso,
producendo nuovi libri, mostre, e un film a lungometraggio34.

La frana: Agrigento, luglio 1966


Altri segnali di disastro ecologico arrivavano dal Meridione. Agrigento è
famosa per le sue stupefacenti rovine greche, che sorgono nella Valle dei
templi. Nel dopoguerra la città si ampliò con orrende costruzioni moderne
precariamente abbarbicate in cima a una collina sovrastante i templi. Vista da
lontano, appariva come una massa unica di cemento; da vicino, era un
agglomerato di alloggi in totale disordine. Bastava l’immagine del nuovo
orizzonte urbano per trasmettere tutto l’orrore di quanto era avvenuto.
Nell’estate del 1966 la corsa non pianificata all’edificazione produsse i suoi
prevedibili frutti. Nessuno aveva tenuto conto degli effetti delle costruzioni
incontrollate sul terreno stesso, che cominciò a cedere in una serie di frane
spettacolari. Alle 6,30 del mattino del 19 luglio si aprirono crepe nelle strade.
Qualche edificio crollò; altri subirono bizzarre deformazioni. Molti residenti
lo presero per un terremoto, e si diedero alla fuga. Migliaia di persone
(almeno 8000, secondo alcune stime) rimasero senza tetto, bandite dalle case
pericolanti. Si allestirono due tendopoli (sotto il sole cocente) per chi non
aveva dove andare. La lentezza nella risposta a questo genere di disastri è una
triste caratteristica della realtà italiana, e si sarebbe ripetutamente confermata
nei decenni a venire.
Come in tanti altri casi analoghi, i fatti di Agrigento richiamarono subito
l’attenzione nazionale. Sia il presidente della Repubblica che quello del
Consiglio si precipitarono sul posto per portare conforto morale. Arrivarono
soldi per finanziare i soccorsi, e giornalisti da ogni parte d’Italia. Nella sua
relazione al Parlamento il ministro dei Lavori pubblici dichiarò che ad
Agrigento “ha regnato non la legge, ma l’arbitrio più incontrastato con la
complicità e l’acquiescenza della pubblica amministrazione statale, regionale e
locale”35.
La serie di frane ad Agrigento produsse un dibattito a livello nazionale sulle
responsabilità dei politici e della mafia nella costruzione abusiva di abitazioni e
altri edifici. Nel 1967 l’amministrazione locale fu sottoposta a
commissariamento governativo, e così rimase fino al 1970. Alla fine,
comunque, le indagini giudiziarie sul disastro e le sue cause si conclusero con
un nulla di fatto. Furono prosciolti tutti. Nel 1968 fu costruito un nuovo
quartiere ai confini della città, che accolse molti dei senzatetto del 1966. Fu
necessario un orrendo viadotto per collegarlo alla città. Agrigento rimase un
simbolo dei danni causati dalle costruzioni selvagge, ma si fece ben poco per
evitare che la cosa si ripetesse. Refrattario a ogni pianificazione, il Meridione
venne coperto da centinaia di migliaia di edifici incompiuti, con i tipici pezzi
di tondino che spuntano dai blocchi di cemento, ad annunciare la possibile
costruzione di un altro piano. Le famiglie preparavano queste nuove aggiunte
con largo anticipo, sicché le case rimanevano sempre incomplete. Si attendeva
uno dei tanti condoni per gli abusi edilizi, per legalizzare lo stato di fatto con
una multa. Ovviamente, il messaggio trasmesso da politiche di questo genere
è molto semplice: il delitto paga.

1966: gli angeli del fango


Nell’autunno del 1966 diluviò ininterrottamente per giorni, e in tutta Italia il
livello dei fiumi cresceva in misura allarmante. In novembre fu il disastro, in
diversi posti quasi contemporaneamente. Fu una tragedia nazionale, ma colpì
in modo particolare due bellissime città turistiche, Firenze e Venezia. Nella
prima, le acque dell’Arno sommersero interi quartieri, rovinando opere d’arte
inestimabili e danneggiando migliaia di volumi nella Biblioteca nazionale, che
stava (e sta) proprio sulla riva del fiume. Circa 12.000 persone rimasero senza
tetto, e a Firenze e in Toscana ci furono decine di morti – trentacinque,
stando al dato ufficiale fornito parecchi anni dopo. Molte delle vittime erano
anziani che non erano riusciti a fuggire in tempo, ma a Sesto Fiorentino anche
due bambini di tre anni vennero travolti dalle acque. Metà della città rimase
isolata. L’alluvione di Firenze suscitò anche una vasta ondata di solidarietà.
Migliaia di giovani arrivarono in città per dare una mano: con la loro
generosità si guadagnarono il nome di ‘angeli del fango’.
A Venezia un’acqua alta senza precedenti – più di 1,9 metri sul medio mare
– provocò danni incalcolabili. Molti piani terreni vennero abbandonati per
sempre. Come scrive lo storico Richard Bosworth, “le acque si ritirarono con
violenta rapidità, lasciando ovunque piccioni e ratti morti, e un metro di
fango nero e vischioso... Si calcolò che occorreva ripulire 200.000 tonnellate
di immondizia (una settimana dopo stava ancora lì a marcire)”36. Il novembre
1966 viene considerato come un momento di svolta per la città. Molti
residenti se ne andarono definitivamente, e da allora un luogo reale, vitale, si
trasformò in una specie di Disneyland italiana, popolata soprattutto da
visitatori di passaggio. Venezia perse buona parte della popolazione attiva,
avviandosi a diventare un posto capace di richiamare 26 milioni di turisti
all’anno, con soli 55.000 residenti. In teoria, i disastri del 1963 e del 1966
furono una dura lezione, ma in realtà cambiò ben poco. Il danno era fatto. Lo
sviluppo urbano incontrollato aveva lasciato le città italiane alla mercé dei
terremoti e delle intemperie. Era il lato oscuro del boom.

I re del mattone
Sulla scia del boom si era affermata una nuova generazione di imprenditori
edili, da ‘don’ Salvatore Ligresti (immigrato a Milano dalla Sicilia) a un certo
Silvio Berlusconi, che cominciò ad arricchirsi con gli investimenti
immobiliari negli anni ’60. Il governo centrale e le amministrazioni locali in
tutto il paese tentarono di far fronte al movimento di massa dei cittadini con
vasti progetti di edilizia popolare. In molti casi si trattava di progetti
architettonici e urbanistici di grande qualità. Furono tempi di
sperimentazione, fortemente influenzata dalle idee di Le Corbusier.
Negli anni ’50, per esempio, alla periferia di Milano, in una zona di aperta
campagna chiamata Comasina, fu realizzato un grande progetto residenziale
costituito da diverse forme di alloggi, una chiesa futuristica, negozi, un centro
comunitario, parchi e altri servizi. La Comasina era stata pensata come
quartiere ‘autosufficiente’, cioè indipendente da Milano per quanto riguardava
i posti di lavoro, i trasporti e i servizi. L’autosufficienza non corrispose alle
aspettative, e la maggior parte degli occupati trovò lavoro in città o nelle
fabbriche vicine. Le abitazioni erano di buona qualità, ma la comunità era
lacerata da forti differenze sociali e regionali. Ci fu una ‘guerra del parco
giochi’ in cui le famiglie si scontravano in difesa del comportamento dei figli
nell’utilizzo dello spazio pubblico. Per molti la Comasina fu un passo avanti –
un segno di promozione sociale – ma veniva stigmatizzata anche come una
specie di Bronx infestato dalla criminalità. Non era una vita facile. Come
riferiva un giornalista, “la domenica mattina i sordidi casoni popolari
risuonano di urli, d’insulti, di bestemmie, sfoghi furiosi delle tensioni represse
per un’intera settimana”37.
Pareva comunque un prezzo che la gente era disposta a pagare. Come ha
testimoniato un immigrato di quegli anni (un insegnante pugliese): “Ricordo
quel primo inverno... era terribile affacciarsi alle finestre: nebbia ovunque, il
cielo non si vedeva mai... Così eravamo costretti a trascorrere le giornate
chiusi in casa... Eravamo sei figli in tre stanze. Mio padre aveva un lavoro
all’Alfa trovatogli dal fratello. Mia madre aveva paura anche a scendere a fare la
spesa. Ma fu il primo anno felice... Non c’erano più litigi in casa... Si
mangiava e si aveva una casa che per noi era da signori”38.
Altri progetti si rivelarono invece costosi disastri, e alcuni divennero simboli
dell’incompetenza del governo centrale e locale, e perfino degli architetti e
degli urbanisti. Il famoso (non in senso positivo) quartiere Zen (Zona
Espansione Nord) fuori Palermo, per esempio. Progettato dall’architetto
Vittorio Gregotti – che aveva vinto un concorso pubblico nel 1971 – e
teoricamente basato sulla pianta dei villaggi africani, la sua storia divenne una
saga ben nota e documentata dell’incompetenza e della corruzione: non fu
mai completato. Si cominciò a costruire soltanto nel 1976, e non uno dei
servizi previsti nel progetto originale (scuole, campi sportivi, centri sociali,
laboratori) fu mai realizzato. Gregotti avrebbe poi dichiarato che si sarebbe
dovuto “radere al suolo il quartiere e rifarlo così come era stato veramente
progettato”39. Molti critici hanno scaricato sull’architetto la responsabilità di
quel risultato, ma in realtà la colpa fu delle autorità locali: l’esecuzione
raffazzonata del progetto tradì tanto il suo ideatore quanto – e ancor più – i
disgraziati residenti (ce ne sono ancora 16.000). Ribatte Gregotti: “Lo Zen lo
rifarei uguale al progetto. Lì il solo errore è stato non aver capito quale
formidabile potere avesse la mafia. È rimasto un progetto incompiuto. Mentre
Bicocca è quasi finita ed è la sola periferia di Milano con una logica”40.

Il boom e la cultura che cambia:


la colonna sonora
La trasformazione dell’Italia ebbe una sua colonna sonora, del tutto
particolare. Nel dopoguerra si affermò un gruppo di ottimi cantautori di
ispirazione radicale, che prese d’assalto il mondo conservatore della musica di
quel periodo. Molti erano di Genova, città portuale che attraversava tempi
duri. Le loro canzoni parlavano di vicoli oscuri, di prostitute, e della vita di
ogni giorno nel labirinto della città vecchia. Spesso ispirati a cantautori
francesi come Georges Brassens, potevano anche assumere controverse
posizioni politiche.
Fabrizio De André, un bell’uomo (gran fumatore e bevitore) con una
indimenticabile voce profonda e l’estro del poeta, divenne subito l’ispiratore
del gruppo. Le sue canzoni furono gli inni di una generazione, cantate da lui
oppure – in un caso particolarmente famoso – da una ragazza alta ed
esuberante, dalla magnifica voce, di nome Mina. I testi di De André
raccontavano di prostitute cacciate dalla città a furor di popolo, o dei morti
dimenticati della Prima guerra mondiale; con l’avanzare degli anni ’60 e ’70
affrontarono in modo sempre più diretto anche la politica contemporanea:
l’album a tema Storia di un impiegato (1973), per esempio. Nel 1979 De André
e la sua compagna Dori Ghezzi furono rapiti dai ‘banditi’ sardi (aveva una casa
sull’isola). Diversamente da tante altre vittime dei sequestri, De André si
identificò con i rapitori: con Hotel Supramonte, la canzone che dedicò a
quell’esperienza, seppe trarre vera poesia da un evento terrificante.
La scena musicale italiana subì forti influenze dall’esterno, che però non
furono mai accettate o copiate supinamente. Il rock and roll arrivò in Italia
negli anni ’50, portato da musicisti di Roma e Milano, e qualcuno di loro
ebbe subito grande successo. Adriano Celentano, un figlio di immigrati
meridionali nato e cresciuto a Milano, fu il primo a sfondare, e la sua brillante
carriera continua nel XXI secolo. ‘Il molleggiato’, che aveva cominciato
rifacendo brani altrui, divenne poi un autore di talento, cantando la realtà che
conosceva meglio: la periferia povera di Milano. Con Il ragazzo della via Gluck
(1966), per esempio, ritornava agli anni del boom: nel video della canzone
Celentano passeggia tra i palazzoni ricordando i prati della sua infanzia, ormai
coperti dal cemento.
Celentano sperimentava diversi stili musicali, ed era sensibile al tema
dell’ambiente (ben prima che diventasse di moda). Nel 1987-88 divenne il
conduttore dello spettacolo televisivo serale più popolare, Fantastico, dove si
esibiva in lunghi monologhi (dal vivo) che ipnotizzavano il pubblico. Lunghe
pause, poi le sue opinioni sulla caccia, sull’amore, sulla musica, sulla
distruzione del paesaggio italiano. Una tattica che era anche un segnale del
potere (e dei rischi) della televisione. Celentano parlava direttamente a milioni
di italiani, dal vivo, scavalcando ogni forma di mediazione e perfino i
tradizionali meccanismi di controllo. Fu un evento messianico; altri (in
particolare Silvio Berlusconi) avrebbero poi sfruttato forme di comunicazione
molto simili.
Nel 1957 Celentano aveva partecipato a un famoso concerto al Palaghiaccio
di Milano che fu un momento fondante per il rock and roll italiano. Nel
gruppo improvvisato c’erano anche Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci. Gaber
era cresciuto abbastanza vicino al centro città, e anche lui cantava la realtà
urbana del miracolo economico. Alcune delle sue prime canzoni, tra le più
amate, raccontano la vita nei bar di Milano: Trani a gogò, per esempio, sui
locali che vendevano ‘vino di Trani’, – e “Si passa la sera scolando Barbera /
nel Trani a gogò”.
Gaber divenne famoso, e compariva spesso alla televisione, ma la sua musica
si avviò lungo nuovi e interessanti percorsi. Negli anni ’60 e ’70 creò una
forma artistica ibrida, il ‘teatro-canzone’, che riscosse enorme successo e lo
trasformò in un personaggio di culto. I suoi spettacoli teatrali, costruiti con
grande cura, alternavano monologhi e canzoni. Diventavano poi album a
tema, creati appositamente per ogni pièce. Mentre l’Italia era percorsa da
un’ondata di movimenti di protesta, anche la voce di Gaber assunse toni più
critici. Era un uomo di sinistra, ma seppe analizzare e decostruire il
movimento, denunciandone le fisime e gli stereotipi. Riuscì a trasformare
anche la politica in poesia – con la canzone La libertà, per esempio.
L’opera più celebre di Gaber è Il signor G (1970) – spettacolo teatrale e album
doppio; un’analisi critica della classe media italiana dell’epoca in cui recitava
un suo alter ego impiegatizio (suo padre era stato impiegato). Il signor G era
“un signore come tutti... una persona piena di contraddizioni e di dolori”41.
Ogni anno un mese di rappresentazioni – tutto esaurito – a Milano; poi
uscivano i dischi registrati dal vivo e in studio. I dischi e gli spettacoli di Gaber
riflettevano un’Italia che cambiava dopo le speranze suscitate in molti dai
movimenti degli anni ’60. Il tono era sempre più pessimistico, come in Far
finta di esser sani o La mia generazione ha perso.
L’ultimo di quel vecchio gruppo di rockettari era Enzo Jannacci. Di mestiere
faceva il cardiologo (continuò ad esercitare per quasi tutta la vita; aveva
studiato con il famoso cardiochirurgo Christiaan Barnard in Sudafrica). Era un
cantante eccentrico, con una voce roca fuori dal comune. Molte delle sue
canzoni erano in milanese. Anche queste erano storie della gente della Milano
del boom, con un umorismo un po’ grasso; storie spesso farsesche di criminali
e ubriachi del sottoproletariato a Milano. Jannacci raccontava di furti non
riusciti, di sesso in piedi al cinema, di stordimenti alcolici da svenimento.
Collaborò anche con Beppe Viola, un commentatore sportivo e scrittore con
un insolito estro da paroliere. Il loro capolavoro, Quelli che..., è una canzone
di tipo nuovo, fatta di musica ripetitiva e uno sbrodolìo di frasi fatte e idiozie
della quotidianità italiana, compreso il mondo dello sport. Era una canzone
flessibile, che si poteva adattare al contesto politico del momento – una forma
precoce di rap milanese.
Un altro personaggio centrale della scena milanese dell’epoca era Dario Fo:
attore, commediografo, militante politico e cantante. Fo e Jannacci scrissero
parecchie canzoni insieme, in cui elementi del teatro e della farsa popolare si
fondevano con la satira politica. Come Ho visto un re, una satira sulla natura del
potere che prende di mira anche la Chiesa. Era tutto estremamente
divertente, è ovvio, ma quella musica era anche sempre più pungente con
l’avanzare degli anni ’60. Fo sarebbe diventato un personaggio internazionale
con le sue opere satiriche e gli spettacoli di teatro popolare, con la moglie
Franca Rame e nei famosi monologhi, tra i quali il suo capolavoro Mistero
buffo. Il teatro e la musica di Fo erano un ibrido stilistico, una mistura
innovativa di tradizione, protesta politica e partecipazione del pubblico. Il suo
successo fu una manifestazione del desiderio di nuove forme di cultura che
caratterizzò gli anni ’60.
Sanremo, la cittadina ligure famosa per i fiori, ospitò il primo festival della
canzone italiana nel 1951. Concepito in origine per la radio, divenne un
super-spettacolo televisivo, richiamando un pubblico oceanico. Come il Giro,
le partite dell’Italia, la Ferrari in Formula 1 e la prima della Scala, Sanremo
entrò a far parte del calendario nazionale, dell’identità stessa degli italiani. Le
canzoni e le controversie di Sanremo hanno segnato la storia del paese, e le
vite e le carriere della popolazione.
È un evento competitivo, con un premio alla canzone ‘migliore’, e per altre
categorie cambiate nelle diverse edizioni. Ne nascono discussioni infinite, e
teorie del complotto sui mutevoli bizantinismi dei regolamenti e dei sistemi
di voto. Si teneva in gennaio, poi fu spostato tra fine febbraio e marzo. La
prima trasmissione dal vivo avvenne nel 1955, poco dopo la nascita della
televisione italiana. Vinse Claudio Villa, anche se un mal di gola lo aveva
costretto a cantare in playback. Le canzoni avrebbero dovuto essere sempre
originali, ma poi si cominciò ad invitare anche ospiti fuori concorso, tra i quali
grandi stelle internazionali.
Gli italiani si radunavano davanti ai televisori per vedere Sanremo. Presto
divenne una specie di rito annuale, in cui si incontravano cultura alta e bassa,
rispecchiando quanto avveniva in tutto il paese: forme musicali diverse
(alcune influenzate da altre culture, altre meno), baruffe, discussioni,
ribellioni, accuse di censura, scandali e persino suicidi. La composizione e le
decisioni della ‘giuria’, che stabiliva i vincitori delle varie categorie, erano
sempre soggette a discussioni, e si parlò anche di corruzione. Dopotutto, per
chi vinceva il festival le vendite e i trionfi erano garantiti.
Nei primi anni ci furono diversi presentatori, ma dopo il 1963 questo ruolo
prestigioso è stato dominato da due celebri stelle della televisione, Mike
Bongiorno e Pippo Baudo, che insieme hanno diretto ventiquattro edizioni
del festival (tredici Baudo e undici Bongiorno). A Sanremo c’è perfino una
statua di Bongiorno. I presentatori sono stati quasi sempre uomini, affiancati
da donne ‘assistenti’. Sanremo richiamava un pubblico enorme: nel 1987, per
esempio, lo guardarono in quasi 16 milioni. Ultimamente le cifre hanno
cominciato a calare.
Alcuni momenti chiave nella storia di Sanremo sono entrati nella memoria
popolare. Il successo mondiale del cantante pugliese Domenico Modugno
con Nel blu dipinto di blu (‘Volare’) nel 1958 fu uno di questi: una sorta di
alfiere del miracolo economico. La canzone portò a ‘Mister Volare’ una fama
globale, arrivando al primo posto nelle classifiche negli Stati Uniti e in Francia
e vendendo 22 milioni di copie, di cui 800.000 in Italia. Quando Modugno
allargava le braccia e attaccava il ritornello, il pubblico cadeva ai suoi piedi, a
teatro ma anche – e soprattutto – a casa, davanti al televisore. Secondo Gianni
Borgna, “fu come un’ubriacatura collettiva. Dappertutto la gente cantava in
coro ‘Volare’: persino negli stadi, tra il primo e il secondo tempo delle
partite”42. Gli storici della canzone italiana dividono il dopoguerra in una fase
pre- e una post-Modugno. Sanremo innescò anche un boom nella vendita dei
dischi: nel 1958 gli italiani ne acquistarono 16 milioni (e ormai quasi tutti i
bar avevano un juke-box): 13 milioni in più rispetto al 1951.
Nel 1961 Adriano Celentano scandalizzò molti spettatori voltando le spalle
al pubblico mentre cantava 24.000 baci. Era soltanto un’imitazione del
leggendario Eddie Cochran, ma questo non bastò a fargli perdonare quella che
per qualcuno fu una mancanza di rispetto. Più tardi, nel 1970, diede fastidio a
sinistra vincendo Sanremo con una canzone considerata antisindacale e
antisciopero: Chi non lavora non fa l’amore. Negli anni ’60 Sanremo era davvero
importante: poteva fare o disfare una carriera. Nel 1967 un bravo cantautore
genovese, Luigi Tenco, si sparò un colpo in testa nella stanza d’albergo
quando la sua canzone non passò la prima selezione. La sua morte (e la lettera
che lasciò, in cui parlava della decisione della giuria) provocò grande
sconcerto, ma lo spettacolo non si fermò.
Le canzoni finirono per perdere di importanza – era lo ‘spettacolo’ a contare.
“Sanremo”, sostiene Stephen Gundle, “divenne un evento quasi
esclusivamente televisivo, il cui successo o fallimento si misurava sulle cifre
dell’audience. Le stelle non erano i cantanti ma il simpatico presentatore
maschio... con le sue belle assistenti femmine... un rito senza contenuto, un
‘non luogo’ della cultura popolare che tutti attraversavano passivamente:
nessuna appropriazione o assorbimento creativo delle canzoni in un
patrimonio della memoria”43.
La stella più grande degli anni ’60 e ’70 fu comunque Mina, che veniva da
Cremona (pur essendo nata a Busto Arsizio). I suoi primi dischi erano
rifacimenti di rock and roll leggeri, ma presto passò a esecuzioni più
impegnative. Ebbe un successo enorme, la conoscevano tutti, e in quanto
celebrità la sua vita era sotto i riflettori. Nel 1962 la sua decisione di non
sposarsi quando rimase incinta dell’attore Corrado Pani provocò uno scandalo
– ma molti ammirarono il suo coraggio. Aveva una voce straordinaria –
potente eppure delicata – e una presenza scenica elettrizzante. Stanca della
celebrità, si ritirò del tutto dalla vita pubblica e dagli spettacoli dal vivo nel
1978, pur continuando a incidere dischi. Celentano e Mina erano anche sex
symbol. Mina cantò anche con un’altra stella popolarissima di quegli anni,
Lucio Battisti. Borgna scrive che “Lucio Battisti è stato un po’ il nostro Dylan.
Meglio di chiunque altro seppe cogliere i cambiamenti d’umore e farsi cantore
del clima”44.
Questi cantautori e musicisti fornirono la colonna sonora a un paese in via di
trasformazione, per chi acquistava e ascoltava la loro musica, ma anche per chi
studia e riflette su quei cambiamenti. Il festival di Sanremo fu un palcoscenico
importantissimo, ma la musica penetrava più a fondo nella società, riflettendo
nuove forme di cultura giovanile di massa, in parte influenzate dalle stelle
straniere, in parte autoctone e squisitamente locali. La nuova tecnologia –
giradischi, mangiacassette, juke-box – consentiva alla musica di raggiungere
nuovi ascoltatori. Il fermento culturale si faceva sentire, oltre che vedere.

Il boom e la cultura che cambia:


il rettangolo magico.
l’Italia e la televisione
La televisione entrò nella vita degli italiani nel gennaio 1954, con la prima
trasmissione dagli studi di Milano. Gli esordi furono lenti: pochissime
famiglie possedevano il televisore, che costava caro ed era enorme. Quel
primo programma non fu visto quasi da nessuno. In tutto il paese si contavano
appena 24.000 abbonati. Come la musica, la televisione fu insieme causa ed
effetto dell’inebriante trasformazione degli anni del boom. Era un simbolo del
nuovo, un luogo in cui i cambiamenti del miracolo andavano in scena per
essere guardati.
Dal novembre 1955 lo spettacolo a quiz Lascia o raddoppia? conquistò un
pubblico sempre più vasto, e le prime pagine dei giornali. Il format era
semplice: i concorrenti dovevano rispondere a domande su un tema
particolare, e dopo un numero adeguato di risposte giuste vincevano un
mucchio di soldi (il premio di consolazione era una 600, naturalmente, il
simbolo perfetto del boom); chi si accontentava di meno poteva, appunto,
‘lasciare’. Lo presentava un carismatico italo-americano di nome Mike
Bongiorno. Una serie di ‘vallette’ si alternava come sfondo decorativo alle sue
battute a mitraglia – di rado veniva loro consentito di aprire bocca. L’Italia era
ipnotizzata: “Il giovedì sera, alle 20 e 45, l’Italia si ferma, le strade si svuotano,
i cinema restano deserti, sulle città scende il silenzio”.
Perché tanta popolarità? Lascia o raddoppia? agiva su diversi livelli. Da un lato
creava discussioni e controversie sulle domande e sulle risposte, che tenevano
acceso l’interesse per il programma anche dopo la fine della trasmissione. Il
secondo aspetto chiave era il taglio consumistico, ‘americano’: il glamour, la
possibilità di diventare famosi, e di ottenere una grossa vincita. Lascia o
raddoppia? solleticava le aspirazioni, in un momento in cui per un’intera
generazione la vera mobilità sociale appariva finalmente possibile. Infine, le
stelle del programma erano persone comuni, con le quali il pubblico si poteva
identificare, e divennero subito delle celebrità. Gli spettatori commentavano il
vestito, l’accento, il portamento, la voce, la competenza sull’argomento
specialistico. Era una specie di versione casalinga, all’italiana, del sogno
americano.
Per la televisione Lascia o raddoppia? fu la svolta. Tutti volevano vederlo, o
quantomeno sapere cos’era successo la sera precedente. Si installavano
televisori nei cinema, ci si affollava nei bar o in casa di amici e parenti. E
creava una propria mitologia. I giornali pubblicavano il ‘copione’ integrale del
programma per chi non l’avesse visto. La Rai si finanziava in due modi: con
l’odiato canone di abbonamento (che valeva anche per la radio) e con la
pubblicità: Mike Bongiorno faceva vendere televisori e abbonamenti. Non
piaceva a tutti, però. La televisione in generale, e Bongiorno in particolare,
provocavano molti intellettuali a critiche irridenti. Dicevano che il suo
vocabolario ammontasse in tutto a quindici parole; nella famosa Fenomenologia
di Mike Bongiorno Umberto Eco sostiene che il presentatore parla un basic
italian45.
La televisione contribuì a unire gli italiani intorno a un linguaggio comune,
il sogno dei padri della patria nell’Ottocento e nel Novecento. Per citare il
linguista Tullio De Mauro: “Si sa che nel nostro paese la conoscenza e l’uso
della lingua nazionale sono andati progredendo non attraverso l’attività della
scuola o una qualunque politica linguistica programmata, ma grazie a eventi
tragici, come la lunga permanenza nelle trincee del primo atroce conflitto
mondiale, o imprevisti e comunque extrascolastici, come la grande
emigrazione di fine Ottocento, le migrazioni interne degli anni Cinquanta,
oppure l’avvento del cinema sonoro, l’ascolto della radio e della televisione”46.
Con gli anni ’60 la televisione faceva ormai parte della vita di ogni giorno, in
campagna come in città. Nel 1970 gli abbonati erano 10 milioni, e il
televisore imponeva nuovi allestimenti per i salotti di rappresentanza, e nuove
abitudini di vita. Come scriveva un critico nel 1963, “La TV era diventata un
passatempo veramente popolare... e fu anche una delle tante etichette sulle
quali venne costruito il facile emblema degli italiani miracolati”47. Ma la
televisione italiana non era soltanto quiz. Era anche un’impresa politica e
pedagogica di vasta portata. La Democrazia cristiana e la Chiesa controllavano
da vicino palinsesti e contenuti. L’alta cultura contava quanto quella bassa. Si
trasmettevano opere liriche dal vivo, rappresentazioni di Dante e Manzoni,
programmi didattici dedicati all’agricoltura e all’alfabetizzazione. Anche il
grande regista Roberto Rossellini avrebbe lavorato molto per la Rai. Perfino
in Lascia o raddoppia? si fondevano cultura alta e bassa: il suo primo vincitore
scatenò un dibattito nazionale su una questione connessa all’uso degli
strumenti musicali nella lirica48.
A ‘tutela’ degli spettatori, la pubblicità era limitata a una forma specifica,
concentrata in un orario preciso. La forma consentita era il cortometraggio, e
il prodotto reclamizzato poteva essere menzionato soltanto nel finale. I filmini
venivano presentati in un unico contenitore (Carosello), trasmesso ogni sera
alla stessa ora. Ci lavorarono registi di grido, e spesso i risultati erano molto
divertenti. C’era anche l’animazione, che creò personaggi popolari come il
pulcino Calimero, che si lavava col detersivo Ava. Le pentole a pressione
venivano promosse dall’innovativo cartone La linea, disegnato da Osvaldo
Cavandoli: il personaggio si rivolgeva spesso direttamente al disegnatore,
chiedendogli modifiche alla storia. Carosello lanciò una serie di personaggi che
entrarono nel linguaggio comune, ingaggiando stelle del cinema (anche
straniere) e campioni del calcio e del ciclismo.
Alla televisione è stata spesso attribuita una forte responsabilità sul
cambiamento della società italiana, per lo più individuandone gli effetti
negativi. Si è detto che ha distrutto la cultura ‘autentica’, che ha portato
all’istupidimento di massa, alla demotivazione, all’individualismo, che ha
demolito l’infanzia e la vita in famiglia. Quest’analisi l’avevano già fatta molti
intellettuali degli anni ’60. E non si mancava di osservare che anche i
poveracci si procuravano un televisore. Era l’oppio del popolo, una macchina
per la propaganda. Le polemiche antitelevisive trovavano conferma negli
scritti del poeta, romanziere e regista Pier Paolo Pasolini, che parlava dei
“dannati che vedono la televisione ogni sera”49. Secondo alcuni la televisione
aveva sostituito l’attivismo politico. “È subentrata la televisione”, ricordava un
ex militante, “il Pci non è più un partito di massa”50. Per il giornalista Indro
Montanelli, “è stata la televisione a rovinare tutto”51.
Ma la televisione (come il consumismo, e l’abbondanza stessa) è da sempre
uno strumento contraddittorio. Aveva effetti collettivi e individualizzanti
insieme. Non era né ‘bene’ né ‘male’. Era un riflesso del cambiamento, oltre
ad esserne causa. Il critico televisivo Beniamino Placido prendeva in giro
l’atteggiamento degli intellettuali: “Non si può. Non si deve. Che
intellettuale sarei se ce l’avessi [il televisore]? Cederei alla società di massa, alle
comunicazioni di massa, all’industria culturale. Adorno mi guarderebbe male,
Horkheimer mi rimprovererebbe. E non oso pensare che cosa ne penserebbe
Lukács”52. La televisione poteva liberare, oltre che opprimere; apriva la
mente, oltre a chiuderla. Ritornando a De Mauro: “Per i ceti dell’Italia più
miserabile, per il sottoproletariato contadino, la televisione ha costituito un
modello di cultura e di possibilità di verbalizzazione, un incentivo a vincere
antichi torpori, a rompere vecchi silenzi”53.
La televisione divenne subito un oggetto di discussione. Il mezzo contava
quanto ciò che si vedeva sullo schermo, o il presunto scopo di ogni singolo
programma. La trasmissione dell’allunaggio nel 1969 viene ricordata non per
la natura storica dell’evento, ma per un fantasioso e prolungato battibecco tra
due dei presentatori. Quando cominciò a crollare il monopolio di Stato, negli
anni ’70, comparvero anche in Italia nuove forme di cultura televisiva, che
avrebbero generato nuovi dibattiti sui modi in cui il mezzo influiva su tutti i
settori della vita, compresa la politica. Comunque se ne parlasse, la televisione
stava salda in posizione, e negli anni a venire avrebbe svolto un ruolo politico
e culturale sempre più decisivo.

Amore e matrimonio prima e durante


il boom: pubblici peccatori?
Gli anni del boom videro gravi tensioni all’interno della società, tra le forze
della modernità e quelle della tradizione. In un’epoca di passaggio, ci fu chi
tentò disperatamente di conservare quelli che considerava i pilastri della vita
italiana. Una di queste istituzioni era il matrimonio, e la questione interessava
sia la possibilità del divorzio, sia l’unione civile in luogo di quella religiosa.
Negli ultimi anni ’50 le azioni di un prelato locale scatenarono un dibattito a
livello nazionale sul ruolo e i valori della Chiesa, e sul matrimonio stesso.
Mauro Bellandi e Loriana Nunziati erano una giovane coppia di Prato, sposata
dal 1956 con rito civile. Entrambi erano stati battezzati – come quasi tutti
nell’Italia dell’epoca. Il vescovo di Prato ne fu scandalizzato, e nel giorno delle
nozze inviò una lettera al parroco. La lettera fu esposta sulla porta di tutte le
chiese.
Oggi, 12 agosto, due suoi parrocchiani celebrano le nozze in Comune rifiutando il matrimonio
religioso. L’Autorità Ecclesiastica ha fatto ogni sforzo per impedire il gravissimo peccato. Questo gesto
di aperto, sprezzante ripudio della Religione è motivo di immenso dolore per i sacerdoti e per i fedeli. Il
matrimonio cosiddetto civile per due battezzati assolutamente non è matrimonio, ma soltanto inizio di
uno scandaloso concubinato.
Pertanto lei, signor Proposto, alla luce della morale cristiana e delle leggi della Chiesa, classificherà i
due tra i pubblici concubini e, a norma dei canoni 855 e 2357 del Codice di Diritto canonico,
considererà a tutti gli effetti il signor Bellandi Mauro come pubblico peccatore e la signorina Nunziati
Loriana come pubblica peccatrice. Saranno loro negati tutti i SS. Sacramenti, non sarà benedetta la loro
casa, non potranno essere accettati come padrini a battesimi e cresime, sarà loro negato il funerale
religioso. Solo si pregherà per loro perché riparino il gravissimo scandalo54.

Ma al vescovo ancora non bastava. Estese la definizione di peccatori anche


alle famiglie della coppia: “Infine, poiché risulta all’Autorità Ecclesiastica che i
genitori hanno gravemente mancato ai propri doveri di genitori cristiani,
permettendo questo passo immensamente peccaminoso e scandaloso, la
Signoria Vostra, in occasione della Pasqua, negherà l’Acqua Santa alla famiglia
Bellandi e ai genitori della Nunziati Loriana. La presente sia letta ai fedeli”.
La disputa, clamorosissima, non tardò a dilagare. La coppia prese l’iniziativa
senza precedenti di querelare il vescovo per diffamazione, e a quel punto uno
scandalo locale divenne una cause célèbre nazionale. Aldo Capitini, un noto
scrittore pacifista di Perugia, scrisse al suo parroco chiedendo di essere
‘sbattezzato’55. In prima istanza il vescovo di Prato fu condannato a 40.000 lire
di danni, ma la Chiesa scatenò una protesta, che in diverse zone arrivò a far
suonare le campane a morto nelle chiese parate a lutto. In appello il vescovo fu
prosciolto (con riferimento al famoso – o famigerato – articolo 7 della
Costituzione che definiva le relazioni tra Chiesa e Stato).
Il vescovo di Prato si considerava un paladino della Guerra fredda, un
difensore di valori che da ogni parte venivano erosi. Nel 1958 scriveva che
“Non chiamerò mai bene il marxismo ateo, oppressore e disumano: lo
chiamerò sempre male... Non chiamerò luce... quell’infelice orientamento
anticattolico laicista, rovina dell’Italia nostra, il cui respiro è odio, il cui
metodo è intriso di calunnie, la cui triste missione è una sola: demolire,
demolire ogni valore cristiano nelle coscienze e nella società italiana, per
aprire all’irrompere delle forze brute del materialismo”. La coppia di sposi
avrebbe poi dichiarato che le discussioni e i processi influirono pesantemente
sulla loro vita. Anni dopo, comunque, il vescovo difendeva ancora a spada
tratta la sua iniziativa56. A chi non si sentiva direttamente coinvolto pareva una
guerra tra due Italie diverse. Molti si videro costretti a schierarsi.

Il matrimonio, il divorzio e la legge


Le controversie non riguardavano soltanto la modalità del matrimonio – in
chiesa, o con cerimonia civile. Anche il comportamento di mariti e mogli
veniva sottoposto al giudizio del pubblico, e della magistratura. Secondo la
Costituzione del 1948, “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come
società naturale fondata sul matrimonio”; ma si aggiungeva che “il
matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i
limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. C’era un margine di
ambiguità nei due commi, e sarebbe toccato alla Corte costituzionale, e ad
altre corti subalterne, di interpretare norme e costumi del passato per
applicarli in un’Italia più moderna. Il divorzio era illegale, e i codici
prevedevano ancora sanzioni per chi viveva in modi considerati ‘immorali’ da
qualcuno. Una serie di ‘scandali di alto bordo’ negli anni ’50 aprì il dibattito
sul divorzio, e la via della riforma.

Il ciclista e la ‘dama bianca’


Nell’agosto 1954 due carabinieri e altri tre uomini si presentarono alla porta di
una villa a Novi Ligure. Erano le tre del mattino. I carabinieri entrarono in
casa e controllarono lenzuola e armadi. Si diceva che avessero anche tentato di
verificare se il materasso era ancora caldo. Che cosa cercavano? La villa era di
proprietà del ciclista di fama mondiale Fausto Coppi, superstella sportiva e tra
le persone più note e riconoscibili d’Italia. In casa c’era anche una donna di
nome Giulia Occhini. Coppi era sposato, ma non con lei; lei poi disse che
erano preparati all’arrivo dei carabinieri. Per evitare di farsi sorprendere nello
stesso letto (che all’epoca, come vedremo, era un reato), l’armadio aveva un
doppio fondo, per farla fuggire in caso di necessità. Tra gli uomini rimasti
fuori dalla porta c’era il marito della Occhini, Enrico Locatelli.
Qualche settimana dopo, nel settembre 1954, i carabinieri ritornarono,
all’ora di cena, per arrestare Giulia Occhini. Avrebbe passato in cella quattro
giorni e quattro notti, subendo interrogatori per l’ipotesi di reato di ‘adulterio’
e ‘abbandono del tetto coniugale’. Fu rilasciata soltanto a condizione che si
trasferisse ad Ancona, lontano da Coppi. Aveva anche l’obbligo di firma in
questura ogni domenica. La stampa pubblicò le foto di lei che usciva di
prigione con gli effetti personali raccolti in una federa.
Coppi era un ciclista di enorme talento e carisma, che appena due anni
prima aveva vinto il Giro e il Tour de France nella stessa stagione, e il
campionato del mondo nel 1953. Sia lui che la Occhini avevano dei figli. La
relazione provocò un terribile scandalo, ma altrettanto scandaloso fu il modo
in cui furono trattati. Era una storia da prima pagina, che dominava il dibattito
sulla stampa popolare e di qualità, e nelle riviste di gossip, come nei bar e nei
salotti di tutto il paese. A Coppi ritirarono il passaporto, e faticò parecchio per
riaverlo. Fu chiaro che le autorità volevano rendere quella coppia famosa un
esempio.
Nel marzo 1955 la Occhini e Coppi furono condannati per il ‘reato’ di
‘violazione degli obblighi di assistenza familiare’. Nel frattempo l’accusa di
adulterio era caduta. Nella stessa udienza fu assolta la cameriera di Coppi,
Tilde Sartini, accusata di favoreggiamento. Il tono del processo si può
desumere da questo estratto dall’arringa dell’accusa: “La bella Giulia ha atteso
al varco l’uomo che non era soltanto un asso del ciclismo mondiale, ma anche
un asso di denari”. Coppi fu condannato a due mesi, la Occhini (che era
incinta) a tre – entrambe le sentenze sospese con la condizionale.
Il processo ebbe vasta pubblicità, e la stampa demonizzò la Occhini –
esoticamente soprannominata ‘la dama bianca’ per il colore di un suo cappotto
– presentandola come una mangiatrice d’uomini a caccia di soldi. Due
bambini piccoli (la figlia di Coppi aveva otto anni) furono costretti a
testimoniare. “L’Unità” scrisse che “potevano risparmiarci questo inutile
processo”, e si chiedeva: “ma la magistratura non ha niente altro da fare?”.
La coppia fu rilasciata, ma era stata un’esperienza umiliante, e le conseguenze
non erano finite – ne avrebbe risentito anche il figlio che allora aspettavano.
Coppi e la Occhini si sposarono (in segreto) in Messico, ma l’unione non fu
mai legittimata dallo Stato italiano. Alla Occhini, incinta, fu consigliato di
trasferirsi in Argentina per evitare ulteriori misure repressive. Inoltre le fu
vietato di vedere i due figli avuti dal matrimonio con Locatelli. Nel 1957
ottenne finalmente di poterli incontrare ogni due mesi, ma solo all’interno di
un’istituzione religiosa, e alla presenza della madre superiora. Il marito, che
aveva ottenuto la custodia dei figli, aveva chiesto che gli incontri fossero ogni
sei mesi. Coppi morì di malaria nel 1960; aveva appena quarant’anni. I
giornali pubblicarono in prima pagina una foto della Occhini che piangeva
sulla salma.
Nei primi anni ’70, con la nuova legge, Locatelli iniziò le procedure per il
divorzio, ma morì prima che venissero portate a termine. La morte di Coppi
non concluse il calvario giudiziario della Occhini. Le battaglie sui nomi e la
patria potestà si trascinarono per anni, e così quelle sull’eredità del ciclista e
sull’uso commerciale del suo nome. Se la Occhini avesse partorito in Italia, il
figlio avuto da Coppi avrebbe preso automaticamente il cognome del marito,
Locatelli. La legge argentina era diversa, ma non annullava quella italiana. Solo
nel 1978 la battaglia fu vinta, e il figlio di Coppi e della Occhini poté
chiamarsi legittimamente Faustino Coppi. Per molti l’affare Coppi
denunciava tutto il grottesco anacronismo della concezione legale del
matrimonio e dell’adulterio in Italia. Secondo il giornalista sportivo e scrittore
Gianni Brera, “parteggiando per lei e Fausto si ha la curiosa impressione di
combattere l’oscurantismo secolare del nostro paese torpido e sciocco”57.

La morale comunista
Nel suo genere, il caso Coppi fu il dramma giudiziario più noto degli anni
’50, ma non fu certamente l’unico. Abbiamo già accennato all’agitazione nel
Partito comunista quando il suo capo Palmiro Togliatti lasciò la moglie per
una donna molto più giovane (Nilde Iotti). I due vissero insieme fino alla
morte di lui, e la loro unione provocò pettegolezzi e ‘indignazione’, ma non
procedimenti legali – in assenza di denunce alla polizia, come aveva fatto il
marito della Occhini.
Ulteriori scandali avrebbero riguardato un’altra coppia di sposi comunisti di
primo piano, Luigi Longo e Teresa Noce. Entrambi avevano combattuto nella
Guerra civile spagnola e nella Resistenza antifascista in Italia, e nel 1946
entrambi erano stati eletti alla Costituente per il Partito comunista. Nel 1953
Longo prese la residenza a San Marino, dove esisteva il divorzio, con
l’obiettivo di ottenere una separazione legale. La controversia divenne
pubblica, mettendo in imbarazzo il partito. La Noce scrisse al “Corriere della
Sera” di non averne saputo nulla: risultò poi che Longo aveva falsificato la sua
firma. Ricordava che nei dibattiti alla Costituente i comunisti si erano opposti
al divorzio, e aggiungeva che “i comunisti non possono avere due politiche,
una pubblica e una personale”. Faceva inoltre notare di essere a capo di un
importante sindacato in cui la maggioranza era contraria al divorzio58.
Le dichiarazioni pubbliche della Noce infastidivano il partito per due ordini
di motivi. Da una parte richiamavano l’attenzione su quella che si sperava
rimanesse una questione privata tra due dei suoi rappresentanti più
importanti, e dall’altra il confronto con la vita personale dello stesso Togliatti
era scontato. Pareva che ci fosse una legge per i dirigenti del partito e un’altra
per le masse. La Noce pagò cara la decisione di esporsi in pubblico: venne
marginalizzata dall’organizzazione e rimossa da ogni incarico di potere.
Vicende analoghe riguardarono il famoso calciatore Valentino Mazzola negli
anni ’40, l’editore miliardario Giangiacomo Feltrinelli (i ricchi potevano far
annullare i loro matrimoni prendendo accordi con la Sacra Rota), la cantante
Mina che ebbe un figlio da nubile, e Roberto Rossellini per la sua relazione
con Ingrid Bergman. E poi la storia tra il produttore Carlo Ponti, già sposato,
e Sophia Loren, o quella tra Maria Callas (sposata con un italiano nel 1949) e
Aristotele Onassis. Le riviste di gossip fingevano di moraleggiare, ma
vendevano copie con le inchieste pruriginose e le cronache giudiziarie.

Le reazioni al boom: la Chiesa


Il boom pose la Chiesa di fronte a sfide impegnative. La società cambiava
rapidamente, e la Chiesa faticava a tenere il passo. Fino al 1958 aveva rifiutato
qualsiasi modernizzazione di sostanza, a parte qualche ritocco alla pratica
liturgica. Il cambiamento era lento e doloroso. Poi, nell’ottobre di quell’anno
fu eletto un nuovo papa, che prese il nome di Giovanni XXIII. Nato nel
1881, si chiamava Angelo Giuseppe Roncalli, e veniva da una grande famiglia
mezzadrile della campagna lombarda. Era stato cappellano militare nella Prima
guerra mondiale, e si diceva avesse salvato numerosi ebrei dalle persecuzioni
della Seconda. Fin dai primi discorsi, e dalle prime azioni, fu chiaro che il
nuovo papa – che in Italia avrebbero chiamato ‘il papa buono’ – era diverso.
Visitò i bambini in un ospedale romano, e parlava di sé nel modo più
informale. Il suo (breve) regno sarebbe stato rivoluzionario, aprendo la
possibilità di un rinnovamento interno alla Chiesa in reazione alle nuove
istanze di cambiamento sociale, economico e politico.
Il nuovo papa non perse tempo. Nel gennaio 1959 dichiarò l’avvio di un
processo di riforma che avrebbe toccato tutti gli aspetti della pratica
ecclesiastica. L’‘età moderna’ presentava problemi, ‘deviazioni’, ma anche
‘opportunità’. Questa complessa serie di discussioni e assemblee prese il nome
di Concilio Vaticano II (il ventunesimo Concilio ecumenico della Chiesa),
inaugurato ufficialmente nell’ottobre 1962. Fu un evento spettacolare, che
richiamò cattolici da tutto il mondo. Alla cerimonia di apertura centinaia di
ecclesiastici sfilarono nei vasti spazi di piazza San Pietro. Furono costituite
dieci commissioni speciali, e i lavori impegnarono 2500 vescovi fino al 1965.
Il fatto che la Chiesa mettesse in discussione scelte politiche e tradizioni
secolari aveva di per sé un importante valore simbolico.
I documenti prodotti dal Concilio vanno dalle costituzioni formali con
autorità vincolante ai decreti per orientare e consigliare l’operato dei preti. Ma
in termini pratici, quali furono le proposte del Concilio Vaticano? Ci furono
cambiamenti che, nel quotidiano, portavano la Chiesa più vicino alla gente.
La messa non era più in latino, il prete non dava più la schiena ai fedeli e
cambiò la posizione dell’altare. Si dichiarò inoltre che “è necessario che i
fedeli abbiano largo accesso alla sacra Scrittura”. Più in generale, i dibattiti del
Concilio suscitarono grande fermento nella Chiesa.
Papa Giovanni interruppe la tradizione. Nel 1962 visitò Loreto e Assisi
viaggiando, come tutti, in treno. Glielo aveva prestato il presidente della
Repubblica, e partì dalla vecchia (e quasi dimenticata) stazione all’interno del
Vaticano. Pare incredibile, ma fu la prima volta dal 1857 che un papa in carica
uscì dalla città di Roma. Folle enormi sciamarono per vedere e tentare di
toccare il papa, che incontrò anche importanti esponenti della Democrazia
cristiana. In un’occasione disse: “Voi mi chiedete di baciarmi la mano; è
impossibile concederla a tutti. Io alzo questa mano e vi benedico”. Il papa era
a suo agio tra la gente: ai genitori consigliava: “tornate a casa e date una
carezza ai vostri bambini”. Il viaggio in treno di papa Giovanni divenne un
modello: tutti i suoi successori sarebbero stati grandi viaggiatori.
Giovanni XXIII morì di cancro allo stomaco nel giugno 1963. Aveva
regnato per nemmeno cinque anni, ma la sua influenza fu immensa. Divenne
subito oggetto di un culto popolare, soprattutto nel suo paese d’origine,
ribattezzato Sotto il Monte Giovanni XXIII. Fu santificato nel 2013
nonostante avesse un solo ‘miracolo’ confermato – di regola ce ne vogliono
due: la guarigione di una suora a Napoli nel 1966, che aveva avuto una visione
del papa durante le orazioni.
Il successore fu Paolo VI, l’ex arcivescovo di Milano cardinal Montini. A
Milano si era avvicinato agli operai del ‘miracolo’, visitando molte fabbriche e
predicando ai cancelli. L’immigrazione interna aveva prodotto una forte
crescita urbana, con nuovi quartieri che parevano sorti dal nulla; occorrevano
subito nuove chiese. Con Montini a Milano, negli anni ’50, furono progettate
o costruite 120 nuove chiese. I preti erano da sempre figure determinanti
nelle campagne e in provincia; ora acquisivano lo stesso ruolo pastorale e
sociale nei nuovi spazi urbani cresciuti ‘come funghi’ in tutta Italia. La Chiesa
stava lì, nel cuore del boom, a piazzare la sua merce tra i nuovi immigrati nelle
metropoli: servizi, campi da gioco, consigli.

Le reazioni al boom: la politica


Lo slogan della Democrazia cristiana per le elezioni del 1958, proprio mentre
il boom stava per decollare, era “Progresso senza rischi”. Era questa, in
essenza, la loro idea del potere. Una serie di governi democristiani tentò di
gestire gli sviluppi epocali degli anni del boom – preoccupandosi anche di
affondare radici profonde in tutto il paese. Le reti di scambio clientelari erano
favorite dal fatto che dopo il 1948 il potere politico della DC era garantito. Il
partito divenne uno stato nello Stato, con accesso illimitato alle risorse
pubbliche, da scambiare con il sostegno elettorale. Con il clientelismo si
diffondevano il baronaggio e il nepotismo. Spesso i posti pubblici non
venivano assegnati per merito, ma per relazioni politiche, di amicizia o di
parentela. Ne derivavano reti di rapporti politico-familisti di dimensioni
talvolta grottesche. Il sistema delle ‘raccomandazioni’ dilagava, talvolta quasi
formalizzato. Il ‘posto’ dipendeva da mediatori che garantivano la
‘provenienza’ del candidato, facendo capo ai centri di potere locali. Senza
questo tipo di mediazione l’accesso alle risorse era quasi impossibile. Il sistema
antimeritocratico interessava tutte le istituzioni, non solo quelle legate alla
politica pura: dalle università, agli enti lirici, alle società telefoniche.
Alla fine degli anni ’60 l’accademico britannico Percy Allum si propose di
analizzare le strutture del potere politico in Italia. Per approfondire, scelse
Napoli, la più ‘meridionale’ delle città del Sud. Il primo capitolo del libro che
ne avrebbe tratto inizia citando un proverbio italiano: “Quando un cavallo
caca, cento passeri fanno il loro desinare”59. Il libro è in buona parte dedicato a
uno studio dettagliato e concreto del sistema politico in città. Allum espone i
meccanismi che organizzavano e controllavano le elezioni, e distribuivano i
fondi pubblici. La stabilità elettorale, secondo Allum, “è parte integrante della
particolare struttura della società napoletana”60. E aggiunge: “per una carriera
parlamentare a Napoli la chiave del successo è il possedere un seguito
personale, una clientela”61. La costruzione di una clientela era un processo
complicato, che richiedeva agganci politici, risorse e legami personali. Gli
intermediari costruivano collegamenti e scovavano i voti alle elezioni. “La
posizione di forza di un uomo politico non è valutata solo in termini di voti,
ma anche dal numero di galoppini e di emissari personali di cui può
disporre”62.
Ma non era soltanto un’analisi accademica. Diversamente dal solito, Allum
faceva i nomi. La famiglia Gava, che aveva iniziato la sua ascesa nella
Democrazia cristiana locale negli anni ’50, è la protagonista dell’ultima parte
del libro. Allum elenca gli enti economici e pubblici controllati da diversi
esponenti del clan familiare. I loro interessi andavano dall’edilizia (in gran
voga, nella Napoli dell’epoca) al turismo, alle infrastrutture pubbliche, alle
banche. Silvio Gava sfruttò i suoi ripetuti incarichi in una serie di governi
nazionali per distribuire nomine o influenzarne gli esiti. Tra il 1953 e il 1972
occupò un gran numero di poltrone ministeriali e presidenze di commissione,
e fu riconfermato in tutte le elezioni dal 1948 al 197263.
A livello nazionale, la politica girava intorno a una galassia di piccoli partiti
collegati con la Democrazia cristiana. In Italia i ministri e i sottosegretari sono
sempre stati molti: figure istituzionali dotate di potere e influenza, con accesso
a risorse da distribuire agli elettori, potenziali o effettivi. Nella stessa DC si
crearono fazioni che erano quasi mini-partiti, i cui leader o aspiranti tali si
contendevano le posizioni nelle coalizioni. Alcune di queste correnti facevano
capo a singoli individui (come gli andreottiani o i fanfaniani), ma erano anche
riconducibili a categorie politiche più generali – c’erano una sinistra, un
centro, una destra – o alle basi di potere locali, o alle fazioni corrispondenti
all’interno della Chiesa. Tra queste strutture di potere la rivalità era feroce, e la
guerra politica veramente sporca.

1960: gli scontri e la ripresa dell’antifascismo


Nei primi anni ’60 il consenso democristiano era in lento ma costante
declino. Servivano nuovi alleati, e fu a questo punto che il partito decise di
chiedere i voti dei neofascisti – il Movimento sociale italiano – a sostegno del
suo governo. Non era mai successo prima in modo tanto esplicito, e provocò
una ripresa dell’antifascismo militante in tutto il paese.
L’indignazione risollevò questioni rimaste in sospeso dal dopoguerra. Pochi
ex fascisti avevano subìto una qualche punizione, mentre pareva che si
volessero penalizzare gli ex partigiani. Negli anni ’50 Pasolini aveva visto il
famoso Roma città aperta di Rossellini in un cinema della capitale; sulle
emozioni che gli aveva suscitato scrisse poi un’amara poesia:
Sono adulti, ora [i bambini del film]: hanno vissuto \ quel loro sgomentante dopoguerra \ di
corruzione assorbita dalla luce \ e sono intorno a me, poveri uomini \ a cui ogni martirio è stato inutile, \
servi del tempo, in questi giorni \ in cui si desta il doloroso stupore \ di sapere che tutta quella luce, \ per
cui vivemmo, fu soltanto un sogno \ ingiustificato, inoggettivo, fonte \ ora di solitarie, vergognose
lacrime64.

Si cercava di manipolare anche la memoria. Sebbene il 25 aprile fosse una


festa nazionale, la Democrazia cristiana tentò di vietare ogni manifestazione
pubblica per il giorno della Liberazione nel 1948, subito dopo la sua vittoria
schiacciante nelle elezioni di quell’anno. Poi, negli anni ’50, si rassegnarono a
qualche timida celebrazione. Il governo puntava a marginalizzare, o meglio
ancora ignorare, gli aspetti più radicali della Resistenza. Secondo lo storico
Philip Cooke, “il periodo che va dall’attentato a Palmiro Togliatti nel luglio
1948 fino ai primi anni ’50” fu quello del “processo alla Resistenza”. Migliaia
di ex partigiani furono arrestati; fu un vero e proprio colpo di frusta contro
l’idea stessa dell’antifascismo militante65. Molti partigiani avevano faticato a
riadattarsi alla vita civile; alcuni si erano dati al crimine, altri continuavano a
sognare la rivoluzione. A sinistra, intanto, e a livello locale, la memoria della
Resistenza veniva tenuta in vita dai monumenti, dalle celebrazioni, dalle
attività culturali.
La frustrazione per i compromessi e per le amnistie del dopoguerra esplose
nell’estate del 1960. L’antifascismo rinacque in piazza. Fernando Tambroni
era stato ministro degli Interni per buona parte della seconda metà degli anni
’50; poi era diventato presidente del Consiglio, ma nel marzo e nell’aprile
1960 la sua risicata maggioranza in entrambe le Camere dovette ricorrere al
sostegno dei neofascisti. Le prime proteste contro il governo Tambroni
avvennero all’interno della stessa Democrazia cristiana, ma presto travolsero
l’intero paese.

Magliette a strisce in piazza


Nel giugno 1960 il Movimento sociale italiano decise di tenere il suo
congresso annuale a Genova, una città con forti tradizioni antifasciste e
socialiste, che aveva avuto molti morti nella Resistenza. Per aggravare la
provocazione, i neofascisti annunciarono che il congresso sarebbe stato
presieduto da un certo Carlo Emanuele Basile. Prefetto di Genova durante
l’occupazione nazista, Basile era odiato per la sua partecipazione alla
repressione dell’antifascismo e all’organizzazione delle deportazioni. Non
sorprende quindi che la notizia dell’imminente congresso scatenasse le
dimostrazioni.
Sandro Pertini, socialista e futuro presidente della Repubblica, tenne un
discorso incendiario alla folla che si andava radunando:
Ci sono stati degli errori, primo di tutti la nostra generosità nei confronti degli avversari. Una
generosità che ha permesso troppe cose e per la quale oggi i fascisti la fanno da padroni, giungendo a
qualificare delitto l’esecuzione di Mussolini a Milano. Ebbene, neofascisti che ancora una volta state
nell’ombra a sentire, io mi vanto di avere ordinato la fucilazione di Mussolini, perché io e gli altri, altro
non abbiamo fatto che firmare una condanna a morte pronunciata dal popolo italiano venti anni
prima66.
Negli anni gli appelli per mettere al bando l’MSI erano stati frequenti: per gli
antifascisti in una democrazia costituzionale l’esistenza stessa di quel partito
era un reato. Quando, alla fine di giugno, scoppiarono i tumulti a Genova, a
scendere in strada furono molti giovani della generazione del dopoguerra. Li
chiamavano genericamente “magliette a strisce”. Altri avevano fatto la
Resistenza. E c’erano anche i lavoratori del porto. Gli scontri continuarono
per giorni, e l’MSI annullò il congresso.
La protesta dilagava, e il governo Tambroni decise di reprimere
violentemente le dimostrazioni, che in tutta Italia furono attaccate dalla
polizia, anche con le armi. Il 6 luglio a Roma i carabinieri a cavallo caricarono
una manifestazione antifascista in un luogo di grande valore simbolico: porta
San Paolo, dove era ufficialmente iniziata la Resistenza italiana nel settembre
1943. Numerose targhe e lapidi ne attestano la rilevanza di sito storico
dell’antifascismo. Si dice che i carabinieri fossero al comando di un famoso
cavallerizzo, Raimondo D’Inzeo, che nelle Olimpiadi di Roma di quell’anno
avrebbe vinto la medaglia d’oro.
Il 7 luglio il comunista Pietro Ingrao, che era stato arrestato durante gli
scontri a Roma, riferì al Parlamento che “molti di noi hanno visto, quando
ancora eravamo lontani, scatenarsi le violenze più selvagge, le cariche della
cavalleria, il pestaggio di massa, le razzie di massa, là nel quartiere Testaccio,
nei negozi, casa per casa, fino in fondo. Un giornale non comunista, un
giornale governativo, ha fatto riferimento a ‘altri tempi’. E quando siamo
dinanzi ai caduti di porta san Paolo, si sa... quali sono quei tempi”67. Presto
sarebbe andata anche peggio, confermando le più oscure previsioni di chi
sosteneva che i fascisti stavano tornando al potere.
Sempre il 7 luglio era prevista una manifestazione a Reggio Emilia, città
governata dal Partito comunista. In un attacco chiaramente premeditato la
polizia aprì il fuoco sulla folla, uccidendo cinque dimostranti disarmati.
Furono sparati 182 colpi. L’8 luglio furono uccise altre quattro persone in
Sicilia. I ‘morti di Reggio Emilia’ divennero un potente simbolo della ‘nuova
resistenza’, l’ispirazione di una nota canzone antifascista: “Compagno
cittadino, fratello partigiano \ teniamoci per mano in questi giorni tristi. \ Di
nuovo a Reggio Emilia, di nuovo là in Sicilia \ son morti dei compagni per
mano dei fascisti. \ Di nuovo come un tempo, sopra l’Italia intera, \ soffia il
vento e infuria la bufera” (Fausto Amodei, 1961)68.
I rappresentanti del governo difesero l’attività repressiva delle forze
dell’ordine, dichiarando (a dispetto di tutte le prove in contrario) che esisteva
un piano “preordinato” di “insurrezione” in Italia, in cui erano coinvolte
anche “forze internazionali” (oppure, esplicitamente, “Mosca”). Il 19 luglio, a
seguito di forti pressioni all’interno del suo stesso partito, Tambroni si dimise.
In agosto si formò un nuovo governo, senza i voti dell’MSI. Nessuno avrebbe
più tentato di utilizzare i voti neofascisti fino agli anni ’90 – quando l’MSI
avrebbe di fatto cessato di esistere. Se volevano rimanere al potere, ora i
democristiani dovevano guardare a sinistra. L’apertura di una nuova fase di
alleanze politiche era inevitabile. Intanto, l’Italia si apprestava a diventare un
palcoscenico internazionale per la prima volta dai tempi del fascismo.

1960: il mondo viene a Roma


Il 1960 fu un anno agitato per l’Italia. Era l’apogeo del boom (anche se allora
nessuno lo sapeva), e in alcune zone del paese era stata raggiunta la piena
occupazione. In agosto e settembre Roma ospitò le Olimpiadi, il primo
grande evento internazionale dalla caduta del regime di Mussolini.
Partecipavano ottantatré nazioni. Fu realizzato un magnifico nuovo stadio, e
vaste aree della città vennero requisite per costruire il villaggio olimpico e altre
strutture. Molti anni dopo (nel 2015) il sindaco di Roma Ignazio Marino
rivelò che la città stava ancora pagando i costi dei giochi del 1960.
Il pugile Cassius Clay – poi Muhammad Ali – vinse la medaglia d’oro (disse
poi di averla gettata nel fiume Ohio dopo un’aggressione razzista in America),
e il successo degli italiani fu sufficiente a lanciare la fama di parecchi atleti.
L’unicità dei siti romani fu sfruttata nei modi più crea-
tivi – la ginnastica alle Terme di Caracalla, per esempio. Non tutto era
incentrato sulla capitale: le gare di vela si tennero nel golfo di Napoli, e il
canottaggio sul lago di Albano, vicino alla residenza estiva del papa.
Una vittoria non italiana acquisì grande valore simbolico. Il corridore scalzo
Abebe Bikila vinse la maratona – che in parte si corse di notte per evitare il
caldo, con gli atleti in corsa illuminati dai fari e dalle torce. Tagliato il
traguardo, Bikila fece subito una serie di vigorosi esercizi. La sua corsa
attraverso i monumenti di Roma – alcuni dei quali rubati alla sua patria,
l’Etiopia – fu magnificamente epica. Era un soldato nell’esercito di Hailè
Selassiè, e si diceva che suo padre avesse combattuto contro le truppe di
Mussolini negli anni ’30. Selassiè, imperatore d’Etiopia, era stato costretto
all’esilio dall’invasione fascista del 1935-36.
Il centrosinistra
Nei primi anni ’60 vi furono diversi esperimenti di amministrazioni di
centrosinistra (democristiani con i socialisti) a livello locale – Milano, Firenze,
Genova – che servirono da modello per il governo centrale. I democristiani
moderati, riformisti e antifascisti furono lieti di proporre lo spostamento a
sinistra nell’ambito di una nuova strategia di recupero dal disastro di
Tambroni. Nacque così il centrosinistra. L’alleanza non poteva essere con i
comunisti – la Guerra fredda lo impedì fino a tutti gli anni ’70 e oltre – bensì
con il Partito socialista italiano, più moderato e occidentalista. Dopo il 1962 i
governi di centrosinistra (alcuni con l’‘appoggio esterno’ del PSI, altri con
ministri socialisti nel Consiglio) realizzarono finalmente le tanto attese
riforme della pubblica istruzione, e imposero scelte strategiche come la
nazionalizzazione della rete elettrica.
Aldo Moro, un democristiano moderato ma moderno, con una forte fede
religiosa e una base di potere in Meridione (più specificamente in Puglia), fu
l’architetto del centrosinistra. Moro era anche un autorevole accademico, con
una cattedra a Scienze politiche alla Sapienza di Roma – una parte di
quell’università ha preso il suo nome. I suoi interminabili discorsi ai congressi
democristiani (nel 1962 tenne il palco per sette ore filate) erano capolavori di
‘politichese’. Nel dicembre 1963 il primo governo di centrosinistra prestò
giuramento.
Ne nacquero proteste sia all’interno della DC che tra i socialisti. Nel 1964
molti socialisti di sinistra, contrari all’alleanza con i democristiani, fondarono
il nuovo Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP), cui aderirono
intellettuali, attivisti ed esponenti storici del PSI come Lelio Basso, Emilio
Lussu e Vittorio Foa. Non convinse molti elettori, comunque; nel 1972 vi fu
una nuova scissione – questa volta in tre direzioni: qualcuno ritornò nel PSI,
qualcuno passò al PCI, qualcuno fondò un nuovo partito ancora più piccolo,
il Partito di unità proletaria – e scomparve del tutto. I comunisti rimanevano
esclusi dal potere centrale.

1964: Roma, la fine di un’epoca


Migliaia di persone scesero in strada per i funerali di Togliatti a Roma nel
1964. Era morto in agosto durante una vacanza a Yalta, in Unione Sovietica.
La gente salutava col pugno chiuso, e piangeva. Sfilavano davanti alla bara, e
molti si facevano anche il segno della croce. Sequenze del funerale sarebbero
poi apparse in film di famosi registi come Pasolini e i fratelli Taviani. Il pittore
comunista Renato Guttuso creò un’enorme tela intitolata I funerali di Togliatti,
una massa di bandiere rosse intorno a un mare di figure, con diversi Lenin,
uno Stalin, la comunista americana Angela Davis e quasi tutta la direzione del
PCI dell’epoca.
La bara di Togliatti era stata riportata in Italia su un aereo dell’Aeroflot.
“L’involucro sovietico”, scrisse Rossana Rossanda, “lo portava anche nella
morte”69. “Al funerale venne una folla immensa, camminando per ore e ore
sui petali fradici delle corone sfogliate via via che il corteo procedeva fino a
San Giovanni”70. Il leader sovietico Leonid Brežnev e la Pasionaria (Dolores
Ibárruri), l’eroina della Guerra civile spagnola, presero la parola dal palco. Il
poeta Pablo Neruda inviò un messaggio in cui chiedeva: “Consideratemi fra
quelli che piangono”.
Finché fu in vita, ma anche dopo la morte, la storia privata di Togliatti fu
fonte di un certo imbarazzo per il partito. Alla moglie (dalla quale era separato
da anni) e al figlio Aldo fu chiesto di rimanere in macchina durante il funerale,
mentre la compagna Nilde Iotti compariva in pubblico in prima fila, vestita a
lutto, a fianco della loro figlia adottiva Marisa. In un certo senso, alla Iotti fu
consentito di diventare la compagna ufficiale di Togliatti solo dopo la morte
di lui. Il ruolo di vedova faceva passare in secondo piano la complessa
posizione della ‘compagna’ nubile.
Racconta il giornalista Giorgio Bocca: “Quegli incredibili funerali! Un
milione di persone al seguito del feretro, gente arrivata da ogni parte d’Italia,
comunisti e non comunisti, gente che ha preso il primo treno, il primo aereo
per vederlo l’ultima volta nella camera ardente... gente che saluta con il pugno
chiuso o chinando il capo, o segnandosi con la croce, donne e uomini in
lacrime come se piangessero un loro padre”71.
La fugace comparsa del figlio al funerale mise in luce uno dei lati oscuri della
vicenda di Togliatti. Aldo aveva problemi psichiatrici, e sarebbe rimasto
confinato in una clinica di Modena per gli ultimi trent’anni della sua vita. Il
partito decise di mantenere il segreto, tanto che nei registri della clinica
risultava semplicemente come ‘Aldo’, senza cognome. Negli anni ’90 lo
‘scoprì’ un giornalista locale. Secondo alcuni l’ultima comparsa in pubblico di
Aldo fu proprio nel 196472.
Il funerale di Togliatti assunse anche un significato storico più profondo.
Giuliano Procacci ritiene che “nella tristezza della folla che lo accompagnava
per l’ultima volta, vi era la consapevolezza di un traguardo che non era stato
raggiunto e il presentimento di un lungo e faticoso cammino”73. Ma per lo
storico del Partito comunista, Paolo Spriano, Togliatti “era anche, e
soprattutto, un uomo di parte, della parte dei lavoratori, della parte dei poveri,
della parte di quelli che non comandavano”, e in questo non era stato
‘sconfitto’74. Comunque fosse, la morte di Togliatti parve il segnale della fine
di un’epoca.

Il panico morale: censura


e modernizzazione
Il boom produsse un intenso dibattito su tutti gli aspetti della società italiana.
Fu un tempo di speranze, ma anche di paure. Molti volevano modernizzare il
paese, altri si preoccupavano per la rapidità del cambiamento e la scomparsa
dei valori tradizionali. Ci furono tentativi di fermare l’onda del progresso. In
quegli anni le figure istituzionali amavano presentarsi come ‘tutori della
pubblica morale’. Nel 1960 il celebre regista Luchino Visconti uscì con Rocco
e i suoi fratelli, tre ore di melodramma epico contemporaneo che raccontavano
la storia di cinque fratelli immigrati con la madre dal profondo Sud della
Basilicata a Milano. Il film è dominato dal potente e violento triangolo
d’amore tra due dei fratelli, Simone e Rocco (interpretato da un giovane e
bellissimo Alain Delon), e una prostituta, Nadia, interpretata da Annie
Girardot. In una scena di grande impatto Simone violenta Nadia davanti agli
occhi di Rocco, e per spregio gli lancia in faccia le mutandine. Questa scena, e
altre nel film, scatenarono la censura.
Furono richiesti tagli consistenti, che Visconti rifiutò di effettuare. Gli
argomenti addotti dai censori erano peraltro piuttosto confusi. Da un lato
accusavano Visconti di infangare l’Italia, di diffamare il paese, di distorcere la
realtà. Dall’altro, invece, sostenevano che quelle scene erano “troppo
realistiche”. Alla fine si arrivò a un compromesso: la scena più forte venne
‘oscurata’ annerendo la pellicola, ma rimase nel film. Le folle correvano al
cinema, e tutti cercavano di occupare le prime file per vedere meglio le scene
condannate. Rocco fu un grande successo, anche grazie allo scandalo della
censura. Per la versione integralmente restaurata si sarebbero dovuti attendere
gli anni ’90.
Discussioni sulla censura e sulla pubblica morale accompagnarono parecchi
altri film di quel periodo, dai capolavori di Michelangelo Antonioni
L’avventura e La notte al trionfo internazionale di Fellini La dolce vita. Anche le
opere di Pasolini furono pesantemente censurate e attaccate politicamente da
destra. Nemmeno il teatro sfuggì alle controversie. Nel 1960 Visconti diresse
una pièce basata su un racconto di Giovanni Testori, L’Arialda, ambientata in
un condominio operaio a Milano. La prima, vietata ai minori e con tagli
pesanti, fu a Roma. Quando arrivò a Milano, nel 1961, chiuse dopo la prima
serata a seguito dell’intervento dello stesso censore che aveva bloccato Rocco e i
suoi fratelli. Seguirono processi e sequestri dei libri di Testori. Per molti la
società italiana si modernizzava troppo velocemente, perdendo i valori
fondamentali. Secondo altri la modernizzazione procedeva invece troppo
lentamente. In questa, come in altre dimensioni, si fronteggiavano due diverse
Italie, con diverse concezioni del paese e delle sue istituzioni. I dieci anni
successivi sarebbero stati un tempo di riforme, e di violenza.

1
Pier Paolo Pasolini, Fuori dal palazzo, “Corriere della Sera”, 1° agosto 1975.
2
Simonetta Fiori, L’Italia del boom: spioni e bugie, “la Repubblica”, 10 gennaio 1997.
3
Fausto Colombo, Boom. Storia di quelli che non hanno fatto il ’68, Milano: Rizzoli, 2008, p. 14.
4
Emanuela Scarpellini, Material Nation: A Consumer’s History of Modern Italy, Oxford: Oxford
University Press, 2011, p. 181.
5
Ivi, p. 229.
6
Alessandro Portelli (a cura di), Il borgo e la borgata. I ragazzi di don Bosco e l’altra Roma del dopoguerra,
Roma: Donzelli, 2002, p. 38.
7
Giuseppe Virciglio, Milocca al Nord. Una comunità di immigrati siciliani ad Asti, Milano: Franco
Angeli, 1991, pp. 88-96.
8
John Foot, Migration and the “Miracle” at Milan: The Neighbourhoods of Baggio, Barona, Bovisa and
Comasina in the 1950s and 1960s, “Journal of Historical Sociology”, 10:2, giugno 1997, pp. 184-212,
e Milan dopo il miracolo, Milano: Feltrinelli, 2003.
9
Vittorio Vidotto, La nuova società, in Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto (a cura di), Storia
d’Italia, vol. VI, L’Italia contemporanea, Roma-Bari: Laterza, 1999, p. 19.
10
Agopik Manoukian, La famiglia dei contadini, in Piero Melograni (a cura di), La famiglia italiana
dall’Ottocento a oggi, Roma-Bari: Laterza, 1988, p. 47 (pp. 4-60).
11
Ibid.
12
Ivi, p. 58.
13
John Dickie, Delizia! The Epic History of Italians and Their Food, London: Sceptre, 2007, pp. 1-7.
14
Stuart Oglethorpe, The End of Sharecropping in Central Italy after 1945: The Role of Mechanisation in
the Changing Relationship between Peasant Families and Land, “Rural History”, 25:2, 2014, pp. 243-60.
15
Gianni Celati, Visioni di case che crollano, 2003.
16
Carlo Carboni, La Terza Italia, in Piero Bevilacqua et al., Lezioni sull’Italia repubblicana, Roma:
Donzelli, 1994, pp. 165-6, e Vidotto, La nuova società, pp. 24-5.
17
Beppe Fenoglio, La malora, Torino: Einaudi, 1954.
18
Enrica Asquer, Storia intima dei ceti medi. Una capitale e una periferia nell’Italia del miracolo economico,
Roma-Bari: Laterza, 2011.
19
Roberto Romano, http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-borghi_(Dizionario-Biografico)
(accesso 17 gennaio 2017).
20
Goffredo Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, Torino: Nino Aragno Editore, 2009.
21
Scarpellini, Material Nation, p. 138.
22
Ibid.
23
In Antonio Calabrò, Agnelli. Una storia italiana, Milano: Rizzoli, 2004, p. 65.
24
Lucetta Scaraffia, Essere uomo, essere donna, in Melograni (a cura di), La famiglia italiana, p. 248.
25
Enrico Deaglio, Patria. 1978-2008, Milano: Il Saggiatore, 2009, p. 11.
26
Calabrò, Agnelli. Una storia italiana, p. 6.
27
Ivi, p. 111.
28
Ivi, p. 11.
29
Gaspare Nevola, The Gianni Agnelli Funeral: A National Identification Rite, “Italian Politics”, 19,
2004, pp. 184-99.
30
Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale (1957), Milano: Feltrinelli, 1964, pp. 14-5.
31
Ercole Pizzuti in Alessandro Portelli, Città di parole. Storia orale di una periferia romana, Roma:
Donzelli, 2007, p. 42.
32
Ivi, p. 51.
33
Dino Buzzati, Natura crudele, “Corriere della Sera”, 11 ottobre 1963.
34
Maurizio Rebershack, Il Grande Vajont, Verona: Cierre Edizioni, 2016; Marco Paolini e Oliviero
Ponte di Pino, Quaderno del Vajont. Dagli Album al Teatro della Diga, Torino: Einaudi, 1999. Lo
spettacolo televisivo Vajont 9 ottobre ’63. Orazione civile, di Marco Paolini e Gabriele Vacis, con
Marco Paolini, 1997; Marco Paolini e Gabriele Vacis, Il racconto del Vajont, Milano: Garzanti, 1997
(seconda edizione); Tina Merlin, Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont,
Verona: Cierre Edizioni, 1997.
35
http://archiviopiolatorre.camera.it/img-
repo/DOCUMENTAZIONE/Assemblea_Regionale_Siciliana/V_Legislatura/Mozioni/1966_09_02.pdf
(accesso 17 gennaio 2017).
36
Richard Bosworth, Italian Venice: A History, New Haven-London: Yale University Press, 2014, p.
203.
37
Paolo Pavolini, I coreani di Milano, “Il Mondo”, 29 gennaio 1963.
38
Cit. in Carolina Di Biase, Due quartieri milanesi, in Franco Della Peruta et al. (a cura di), Milano e il
suo territorio, Milano: Provincia di Milano, Silvana editoriale, 1985, p. 140.
39
Vittorio Gregotti, Racconti di architettura, Milano: Skira, 1998, p. 41.
40

http://www.repubblica.it/cultura/2013/06/09/news/vittorio_gregotti_lo_zen_e_gropius_bicocca_ed_eco_un_grande_
60718080/ (accesso 7 giugno 2019).
41
Enrico Vaime, Giorgio Gaber: cento storie che coinvolgono, “Sipario”, 1972, ora in Micaela Bonavia (a
cura di), Giorgio Gaber. Frammenti di un discorso, Milano: Selene Edizioni, 2004; Giorgio Gaber,
Gaber-fluxus, in Michele L. Straniero, Il signor Gaber, Milano: Gammalibri, 1979.
42
Gianni Borgna, Storia della canzone italiana, Roma-Bari: Laterza, 1985, p. 143.
43
V. Stephen Gundle, Memory and Identity: Popular Culture, in Patrick McCarthy (a cura di), Italy
since 1945, Oxford: Oxford University Press, 2000, pp. 186-90.
44
Gianni Borgna e Luca Serianni (a cura di), La lingua cantata, Roma: Garamond, 1994, p. 1.
45
Umberto Eco, Fenomenologia di Mike Bongiorno, in Diario minimo, Milano: Mondadori, 1963, p. 33.
46
Prefazione, in Borgna, Storia della canzone italiana.
47
Adriano Bellotto, Gli italiani al video: uno, nessuno, tre milioni, “Avanti!”, 9 febbraio 1963.
48
Si veda Emma Barron, Mona Lisa Covergirl: Popularised High Culture in Italian Mass Culture 1950-
1970, tesi di dottorato inedita, Università di Bologna e Sydney, 2015, e Ead., Television Audience
Enjoyment and the “Lascia o raddoppia?” Phenomenon, “Modern Italy”, 21:3, 2016, pp. 227-43.
49
Canzonissima (con rossore), “Tempo”, 1º novembre 1969.
50
Sergio Boccuccia in Portelli, Città di parole, p. 132.
51
Cit. in John Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, Milano: Feltrinelli, 2003, p. 39.
52
Cit. in Piero Melograni, Dieci perché sulla Repubblica, Milano: Ente per il diritto allo studio
universitario dell’Università Cattolica, 2013, p. 104.
53
Tullio De Mauro, Lingua parlata e TV, in Televisione e vita italiana, Torino: ERI, 1968, pp. 245-94
(pp. 288-89).
54
All’epoca il ‘concubinato’ – la convivenza fuori dal matrimonio – era sanzionato dalla legge
italiana. Questa voce del codice penale fu dichiarata incostituzionale nel 1969.
55
Aldo Capitini, Battezzati non credenti, Firenze: Parenti, 1961, pp. 13-21.
56
http://ricerca.gelocal.it/iltirreno/archivio/iltirreno/1998/03/05/ZR101.html (accesso 20 gennaio
2017).
57
Gianni Brera, Coppi e il diavolo, Milano: Rizzoli, 1981, p. 146.
58
“Corriere della Sera”, 18 novembre 1953.
59
Percy Allum, Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Torino: Einaudi, 1975, p. 27.
60
Ivi, p. 158.
61
Ivi, p. 194.
62
Ivi, p. 272.
63
Si veda anche, sulla famiglia Gava, Maria Antonietta Macciocchi, Lettere dall’interno del P.C.I. a
Louis Althusser, Milano: Feltrinelli, 1969.
64
Cit. in Lichtner, Fascism in Italian Cinema since 1945, p. 57.
65
Philip Cooke, The Italian State and the Resistance Legacy in the 1950s and 1960s, in Culture,
Censorship and the State in Twentieth-Century Italy, a cura di Guido Bonsaver e Robert Gordon,
Cambridge: Legenda, 2005, pp. 121-22 e passim.
66
http://www.centropertini.org/300660.htm (accesso 20 gennaio 2017).
67
http://legislature.camera.it/_dati/leg03/lavori/stenografici/sed0313/sed0313.pdf (accesso 20
gennaio 2017).
68
Cit. in Piero Brunello, Storia e canzoni in Italia: il Novecento, Venezia: Comune di Venezia-
Assessorato Pubblica Istruzione-Itinerari Educativi, 2000, pp. 270-71.
69
Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso.
70
Ibid.
71
Giorgio Bocca, Palmiro Togliatti, Roma-Bari: Laterza, 1973, pp. 1-2.
72
Massimo Cirri, Un’altra parte del mondo, Milano: Feltrinelli, 2016.
73
Giuliano Procacci, Storia degli italiani, Roma-Bari: Laterza, 1974, p. 554, cit. in Paolo Spriano,
Sulla rivoluzione italiana. Socialisti e comunisti nella storia d’Italia, Torino: Einaudi, 1978, p. 214.
74
Spriano, Sulla rivoluzione italiana, p. 215.
3.
Sangue e riforme:
adeguamento delle istituzioni
e violenza negli anni ’60 e ’70

Gli ultimi anni ’60 e i ’70 furono un tempo di scontri, violenze e spargimento
di sangue. Ma rappresentarono anche un periodo di riforme epocali, che
sospinsero le istituzioni italiane nel XX secolo. L’Italia ebbe un ‘maggio
lungo’ di proteste, centrato sull’anno chiave, il 1968. Lo Stato e i partiti
politici risposero, finalmente, approvando una serie di riforme. Importanti
modifiche nel diritto di famiglia (1975), cambiamenti radicali nel sistema
carcerario (1975), abolizione definitiva degli ospedali psichiatrici (1978),
legalizzazone del divorzio (1970) e dell’aborto (1978). I lavoratori ottennero
rilevanti miglioramenti, non soltanto sul posto di lavoro (1970). Fu costituito
il servizio sanitario nazionale, e altri servizi dello stato sociale.
Mentre nelle strade, e nei tribunali, infuriavano le battaglie, con bombe,
omicidi, congiure e complotti, l’Italia e le sue istituzioni si modernizzavano.
Incalzati da ogni lato, ma in particolare dai movimenti nati dal 1968, i
legislatori produssero delle riforme moderne e organiche, spesso in anticipo su
altri paesi. Gli anni ’70 furono dunque un eccezionale periodo di riforma, a
smentita dell’idea che l’Italia non sarebbe mai cambiata, che fosse
‘irrecuperabile’. In tutto il paese vi fu una ‘lunga marcia’ attraverso le
istituzioni. E una delle scintille di questa rivoluzione si accese nel più
improbabile dei luoghi: un ospedale psichiatrico in una cittadina sul confine
con la Jugoslavia comunista.

Utopie concrete: Franco Basaglia


e la rivoluzione psichiatrica
Nel 1961 uno psichiatra di nome Franco Basaglia assunse la direzione
dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, sul limite ultimo dell’Italia nord-
orientale. I terreni dell’ospedale erano delimitati dallo stesso confine che
segnava la fine dell’Occidente: la Cortina di ferro. Dall’altra parte c’era la
Jugoslavia di Tito. Antifascista – era stato in carcere a Venezia sotto
l’occupazione nazista –, Basaglia decise subito che l’istituzione di cui era
responsabile era insieme inutile e moralmente ingiusta. Il suo primo atto fu il
rifiuto di autorizzare la contenzione dei pazienti per la notte. La contenzione
fisica era talmente abituale nella gestione del manicomio da essere
normalmente ratificata a cose fatte, al mattino. Basaglia disse di no. Avrebbe
poi scritto che quell’ospedale puzzava “di merda, di morte”, odori che lo
riportavano alla galera, in tempo di guerra. I manicomi erano luoghi
spaventosi.
Nel 1949 Ugo Cerletti, lo psichiatra italiano che inventò l’elettroshock
(sperimentandolo sui maiali), visitò un ospedale psichiatrico in Meridione. Fu
una visione infernale: “Un grappolo umano di un centinaio di creature,
scarmigliate, a piedi nudi, vestite con informi camiciotti... stipate una addosso
all’altra... Ne uscivano grida, urli, sghignazzi, lazzi di ogni sorta”1. Il ministro
della Sanità si richiamò all’Inferno dantesco per descrivere le condizioni in
molti manicomi. Abbiamo molte fotografie dei corpi martoriati e delle
architetture carcerarie che caratterizzavano quei cosiddetti ‘ospedali’. In
qualche caso, i militanti del movimento per la riforma della psichiatria
‘calarono’ sul manicomio locale, esigendo di entrare per controllare come
venivano curati parenti e amici.
Dal 1961 Basaglia avviò la riforma dall’interno del manicomio di Gorizia,
liberando i pazienti dalla contenzione e organizzando le assemblee generali. I
pazienti stessi abbatterono i muri e le inferriate, e vennero filmati mentre lo
facevano. Gli psichiatri rinunciavano al camice bianco. I pazienti venivano
ascoltati, forse per la prima volta, e trattati come esseri umani. La porta dello
studio di Basaglia era “sempre aperta”. Nel 1968-69 questa esperienza di
riforma radicale divenne improvvisamente famosa, grazie a un libro collettivo
di grande successo, L’istituzione negata, e a un documentario televisivo di
prima serata, intitolato I giardini di Abele. L’ospedale psichiatrico ‘ribaltato’ di
Gorizia pareva prefigurare un cambiamento istituzionale reale. Era una ‘utopia
pratica’ che poteva essere visitata, ascoltata, fotografata e filmata. Molti
visitatori rimanevano stupefatti. Non riuscivano a distinguere, dicevano, quali
fossero ‘i matti’. Il movimento per la riforma delle istituzioni psichiatriche
generò presto esperimenti radicali analoghi in tutta Italia. Testi critici sulla
follia e sull’assistenza psichiatrica diventavano best-seller. Asylums, per
esempio, del sociologo canadese Erving Goffman, ebbe larga diffusione, e la
sua definizione delle “istituzioni totali” venne applicata anche ad altre realtà,
dalle scuole alle carceri.
Nei primi anni ’60 gli internati negli ospedali psichiatrici italiani erano più di
centomila. I manicomi erano quasi sempre strutture di grandi dimensioni,
situate a prudente distanza dal centro città. L’organizzazione e la gestione
degli ospedali erano ancora regolate da una legge del 1904 e da successive
normative fasciste. I pazienti venivano schedati e perdevano il diritto di voto,
pur non avendo commesso alcun reato (esisteva comunque anche un sistema
di manicomi criminali). Una volta internati, uscire era difficile. Le terapie
erano più che altro punizioni, e spesso i metodi repressivi rasentavano la
tortura istituzionalizzata.
L’utopia pratica di Basaglia proseguì negli anni ’70, quando divenne direttore
del manicomio di Trieste, una città più grande e cosmopolita, ma comunque
un luogo fortemente condizionato dalla Guerra fredda. Quando Basaglia
arrivò a Trieste nel 1971, dieci anni dopo l’incarico a Gorizia, esisteva ormai –
a livello nazionale e globale – un movimento per la riforma delle condizioni
dell’assistenza psichiatrica. Basaglia stesso partecipò alla fondazione
dell’organizzazione nazionale Psichiatria democratica. I riformatori ebbero il
sostegno di molti politici locali, indignati per quanto avevano visto negli
ospedali psichiatrici da loro amministrati. Psichiatri, pazienti e amministratori
si impegnavano per riformare e trasformare l’assistenza psichiatrica. Si
realizzarono esperienze straordinarie a Perugia, ad Arezzo, a Ferrara, a Napoli
e altrove in tutta Italia.
In molti manicomi le condizioni divennero più umane e democratiche, e i
pazienti venivano restituiti alla comunità. Si tentavano nuove forme di terapia,
i farmaci antipsicotici, ma anche tecniche più creative come l’animazione
teatrale e i laboratori d’arte. Non mancavano i rischi: qualche ex paziente
uccise il coniuge, o i genitori, e altri si suicidarono. Basaglia stesso fu accusato
due volte (e due volte prosciolto) per omicidio colposo.
A Trieste Basaglia riuscì a svuotare l’ospedale in pochi anni di cambiamento
rapido ed eccitante. Costituì cooperative per reinserire i pazienti nel mondo
del lavoro, e innovativi centri di assistenza diffusi nella città. Il manicomio
divenne perfino un centro di attività culturali, con concerti, dibattiti, progetti
artistici e mostre. La leggenda del jazz Ornette Coleman tenne un famoso
concerto nel parco. Crollarono le barriere tra la città e la ‘città dei matti’. Un
grande cavallo azzurro di cartapesta (chiamato Marco Cavallo come quello che
un tempo tirava il carretto della biancheria in ospedale) fu realizzato da un
gruppo di artisti (tra i quali il cugino di Basaglia, Vittorio) all’interno del
manicomio, e poi portato a sfilare per le vie di Trieste. L’uscita simbolica del
cavallo prefigurava la liberazione di migliaia di pazienti in tutto il paese.
Le persone dimenticate nei manicomi ritrovavano la voce. Nell’ospedale
psichiatrico di Arezzo, negli anni ’70, fu ‘scoperta’ una paziente, Adalgisa
Conti, che stava rinchiusa da quasi sessant’anni (dal 1913); la storia della sua
vita divenne un libro2. Un’altra paziente, a Gorizia, non era stata in centro
(nemmeno dieci minuti a piedi) da decenni. Nei manicomi si tenevano
assemblee in cui i pazienti potevano discutere la terapia, e la gestione stessa
dell’ospedale. Ad Arezzo, in undici anni di attività riformatrice, si tennero più
di cinquecento assemblee di pazienti. Delle assemblee cui aveva assistito, il
giornalista Franco Pierini scriveva:
Sarebbe far torto a questi uomini e a queste donne, un torto grave, scrivere qui che parlano come noi.
Sono migliori di noi nella tecnica della discussione, nella dialettica degli opposti pareri, nelle conclusioni
raggiunte senza capri espiatori, senza vinti3.

Persone che prima non parlavano ora si facevano sentire: fu un’‘esplosione di


oralità’. La competenza verbale e la propensione a prendere la parola furono
caratteristiche degli studenti e degli operai, e persino degli artisti e degli
architetti, che mettevano in discussione le istituzioni. La sfida arrivava a
toccare anche la famiglia, dove i figli contestavano l’autorità dei genitori. E le
donne pretendevano maggiore potere, e vera parità, all’interno della famiglia e
nella società in generale. Molti subivano il fascino di una vita ‘sulla strada’, per
sfuggire al soffocante conservatorismo di tanta parte della provincia italiana. Al
desiderio di libertà si accompagnavano esperimenti nella liberazione sessuale,
nei gusti musicali, letterari e artistici, e nella fondazione di spazi alternativi per
la famiglia e la scuola.
La pressione per una riforma radicale dell’intero sistema spingeva dunque dal
basso. Tutti i grandi partiti finirono per riconoscere che occorreva fare
qualcosa. Nel 1968 la riforma dell’antiquata legge del 1904 autorizzò il
ricovero volontario nei manicomi e la costituzione dei centri di salute
mentale. Dieci anni dopo, in piena ‘età delle riforme’, e con il sostegno sia
della DC che del PCI, sarebbe stata approvata la cosiddetta ‘legge Basaglia’. La
legge 180 (1978) fu un passaggio storico.
Le circostanze dell’approvazione furono del tutto uniche – anche in quel
clima di apertura al cambiamento. Un referendum promosso dal Partito
radicale per l’abolizione della legge del 1904 raccolse centinaia di migliaia di
firme. C’era il pericolo reale di un vuoto legislativo, e fu questa la minaccia
che finalmente costrinse la classe politica all’azione. Fu trovato un accordo a
tempo di record per evitare il referendum, e in via eccezionale la legge fu
approvata in commissione senza passare al vaglio del Parlamento. Era un
compromesso, ma era comunque rivoluzionario. Tutti i manicomi (eccettuati
quelli giudiziari, oggi in via di smantellamento) dovevano essere chiusi. La
costruzione di nuovi manicomi era vietata. Si sarebbero aperti servizi
psichiatrici di diagnosi e cura negli ospedali generali, di dimensioni ridotte in
modo da evitare la comparsa di nuovi ‘mini-manicomi’. La malattia mentale
non era più distinta dalle altre malattie, e i pazienti venivano integrati
nell’ambito più generale della sanità. La loro posizione legale veniva
finalmente adeguata alla Costituzione: erano cittadini, dotati di diritti. Il
trattamento obbligatorio – consentito soltanto in circostanze eccezionali –
veniva regolamentato con grande cautela.
La legge entrò presto a far parte della riforma generale della sanità di fine anni
’70, che istituì il sistema sanitario nazionale. Il successivo decentramento del
sistema, affidato ai governi regionali, produsse vaste differenze da regione a
regione nella qualità dell’assistenza psichiatrica. Nonostante la legge del 1978,
i manicomi rimasero aperti ancora per parecchio tempo. Ci vollero decenni
per smaltire i pazienti cosiddetti ‘residuali’. Molti erano semplicemente
incapaci di vivere fuori dall’istituzione che conoscevano così bene; altri non
avevano alcuna intenzione di andarsene.
I manicomi riformati erano comunque diventati luoghi più umani, di gran
lunga preferibili a quelli dell’epoca pre-Basaglia. Seguì una lunga battaglia per
l’applicazione delle riforme, con continue proposte di abrogazione della legge
180, ripristinando gli ospedali psichiatrici. La moglie di Basaglia, Franca
Ongaro, eletta per due volte al Senato negli anni ’80 e ’90, fu tra i protagonisti
di questa lotta contro i manicomi – anche se ormai il movimento che aveva
sostenuto Basaglia era molto meno vivace che negli anni ’70.
Gli oppositori della riforma e della chiusura – come lo psichiatra scrittore
Mario Tobino – sostenevano che i pazienti vennero ‘abbandonati’, riversando
sulle famiglie tutto il peso dei problemi causati dalla malattia mentale. Si
parlava di “centinaia di suicidi”, e le tragedie della follia venivano attribuite
alla legge e al movimento basagliano. Con la fine degli anni ’90, comunque,
quasi tutti i vecchi manicomi erano stati chiusi. Oggi sono in rovina, o sono
diventati università, appartamenti o scuole. Si aprivano al pubblico magnifici
parchi dove prima c’erano solo sofferenza ed esclusione istituzionalizzate.
Altri ex manicomi conservano ancora funzioni legate all’assistenza
psichiatrica. È stato trasformato un intero sistema. In questo settore l’Italia è
stata all’avanguardia nel mondo, e ancora oggi molti visitano Trieste (indicata
come modello dall’Organizzazione mondiale della sanità) per provare a capire
come chiudere o riformare i loro sistemi. La storia della psichiatria radicale
negli anni ’60 e ’70, e della ‘legge Basaglia’ del ’78, esprime bene il grande
fermento, e la capacità di riforma concreta, di quel periodo, che rivoluzionò le
istituzioni italiane. E si era solo all’inizio.

Scuole, esami ed esperimenti


Il sistema scolastico italiano aveva conosciuto l’ultima riforma sistematica nel
1923, agli esordi dell’era fascista. Nel dopoguerra l’istruzione richiedeva
interventi urgenti, ma come per tante altre istituzioni pubbliche questi
tardavano a materializzarsi. Non sorprende che la scuola fosse il terreno di
un’aspra battaglia politica, in cui la Chiesa aveva un ruolo decisivo. Fino al
1962-63 molti bambini frequentavano soltanto le elementari, poi
cominciavano a lavorare. Le condizioni materiali di molte scuole erano
precarie, e molti degli insegnanti si erano formati sotto il regime fascista.
Nelle foto delle scuole del Meridione nel dopoguerra compaiono bambini
scalzi e aule luride.
Chi continuava gli studi passava al liceo – classico o scientifico – o agli
istituti tecnici che insegnavano un mestiere. Nei primi anni ’60 le coalizioni
di centrosinistra tentarono la riforma del sistema scolastico. Dopo lunghi
dibattiti, fu istituita la nuova ‘scuola media unica’ per bambini tra gli undici e i
quattordici anni, e l’obbligo scolastico fu portato a quattordici anni. In alcuni
settori del sistema fu incoraggiata la sperimentazione, e i ranghi degli
insegnanti si aprirono a una nuova generazione.
Le élites italiane si formavano sempre nei prestigiosi licei urbani, soprattutto
in quelli classici – il d’Azeglio a Torino, il Mameli a Roma, il Machiavelli a
Firenze. In generale, come in Francia, era il sistema scolastico statale ad
attrarre e riprodurre il privilegio nelle sfere economica e sociale. Le scuole
private, meno impegnative e prestigiose, erano considerate un ripiego per chi
non ce la faceva nelle statali. Moltissime istituzioni erano gestite dalla Chiesa
cattolica, che raccoglieva i bambini anche negli oratori e nelle colonie estive,
con servizi per il doposcuola e le vacanze in genere non forniti dallo Stato.
L’istruzione scolastica si basava sulla memorizzazione e su esami orali
rigorosi. Le gerarchie erano rigide e i programmi tradizionalisti. Il passaggio da
un anno al successivo era difficile e selettivo: i bocciati erano molti. Il sistema
attribuiva un potere notevole ai singoli insegnanti, tanto da rendere
l’insegnamento una professione di un certo prestigio (in qualche misura, lo è
anche oggi).
I licei e le altre scuole superiori tendevano a respingere i meno abbienti, ed
erano governati da norme e regolamenti autoritari, che prevedevano anche il
voto in ‘condotta’. Il sistema favoriva pesanti discriminazioni. In certe scuole
del Milanese frequentate da immigrati meridionali tra gli anni ’50 e ’60, circa
la metà degli allievi veniva bocciata ogni anno – e spesso la decisione veniva
presa da insegnanti settentrionali incapaci di rapportarsi con bambini di una
cultura diversa. Una legge del 1962 istituì le classi ‘differenziali’ per i bambini
‘disadattati’. Nel 1967 un ulteriore decreto stabilì che “soggetti che
presentano anomalie o anormalità somato-psichiche che non consentono la
regolare frequenza nelle scuole comuni e che abbisognano di particolare
trattamento e assistenza medico-didattica sono indirizzati alle scuole speciali”.
I casi non gravi di ‘ritardo intellettuale’ e ‘disadattamento’, o di problemi
comportamentali che ostacolavano l’integrazione nelle scuole normali,
venivano destinati alle ‘classi differenziali’. I bambini ‘lenti’ o ‘difficili’ – che
spesso erano i figli degli immigrati, soprattutto dal Sud – venivano trasferiti,
con una forma di segregazione istituzionale che portò molti di loro
all’abbandono scolastico. In parallelo, esistevano istituti speciali per i bambini
con gravi problemi fisici o mentali, in parecchi casi fondati nell’Ottocento. Le
classi differenziali vennero abolite nel 1977, sostituite dagli insegnanti di
sostegno – una riforma che consente l’integrazione di tutti gli allievi nella
stessa classe4.

“Lettera a una professoressa”


Il rifiuto degli aspetti più antiquati del sistema scolastico si affermò nel corso
degli anni ’60. Un momento decisivo di questa critica radicale venne da una
fonte alquanto improbabile, la campagna toscana. Lorenzo Milani era nato a
Firenze nel 1923, da madre ebrea e padre cattolico. Prese i voti nel 1947, e si
mise subito nei guai per il suo atteggiamento critico verso le gerarchie della
Chiesa e i tentativi di istituire una scuola ‘popolare’ locale aperta a tutti, e non
soltanto ai cattolici.
Per punire la sua condotta poco ortodossa, nel 1954 le autorità ecclesiastiche
lo relegarono in un paesino minuscolo chiamato Barbiana. Indifferente al
tentativo di marginalizzarlo, don Milani aprì un’altra scuola nei locali della
parrocchia per i bambini del paese, e in particolare per quelli che erano entrati
in conflitto con le istituzioni tradizionali. La scuola alternativa e utopistica di
don Milani era aperta tutto il giorno e nei fine settimana, e anche durante le
vacanze. La Costituzione italiana veniva usata come testo. Sulle pareti
campeggiavano slogan che sovvertivano quelli fascisti – “I care”, per esempio,
in risposta al “me ne frego” del regime. Gli allievi venivano incoraggiati a
parlare delle loro vite, non a studiare argomenti astratti privi di nessi con la
realtà di ogni giorno. Tutti i ragazzi potevano frequentare, e tutti erano, in un
certo senso, ‘autodidatti’. Un altro elemento fisso era la lettura ad alta voce di
un quotidiano, ogni giorno. Spesso le lezioni si tenevano all’aperto.
Nel 1967 uscì un libro, dalla semplice copertina bianca. Gli ‘autori’ erano
otto ragazzi della scuola di Barbiana, ma l’apporto di don Milani risultava
evidente. Il libretto avrebbe colto l’Italia di sorpresa. Si intitolava Lettera a una
professoressa, e usava un linguaggio chiaro, diretto, rabbioso. “Questo libro”,
esordiva, “non è scritto per gli insegnanti, ma per i genitori. È un invito a
organizzarsi”. Il testo, in forma appunto di lettera, cominciava così:
Cara signora
lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai
suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che ‘respingete’. Ci respingete nei campi
e nelle fabbriche e ci dimenticate5.

Nella Lettera a una professoressa confluivano diversi aspetti che presto


avrebbero caratterizzato il ’68. Un’indagine sociologica sulla gestione
tradizionale delle scuole (una forma di controinformazione), l’attacco contro
le strutture di potere nel sistema scolastico, l’indicazione o la proposta di
soluzioni alternative. Secondo i ragazzi e gli insegnanti di Barbiana, le scuole
statali italiane si fondavano sulla discriminazione di classe. Favorivano i ricchi,
umiliando ed escludendo i poveri. Il libro paragonava la scuola a “un ospedale
che cura i sani e respinge i malati”. Quanto agli esami, la posizione di don
Milani era molto chiara: “vanno aboliti”.
Anche Barbiana era un’utopia nella pratica, e come la Gorizia di Basaglia
ebbe un’influenza enorme. Era una scuola nuova, dove i ragazzi erano
partecipanti attivi, e nessuno veniva bocciato. “A quelli che sembrano cretini
basta dargli la scuola a pieno tempo... Agli svogliati basta dargli uno scopo”6. Il
libro divenne una sorta di Bibbia per una nuova generazione di studenti,
insegnanti ed educatori. Ma nemmeno Barbiana poteva fare miracoli: qualche
ragazzo abbandonò, nonostante l’impegno del prete e dei compagni; altri
furono costretti a lavorare, servivano braccia nei campi; e don Milani sapeva
anche essere molto severo...
Dopo il successo del libro, una processione di ammiratori si riversò su
Barbiana, e nonostante la morte per cancro di don Milani nel 1967, a soli
quarantaquattro anni (una morte prematura che ne confermò il prestigio di
martire-mito), il suo esempio conservò tutto il suo valore. Un’onda di
innovazione si riversò sul sistema scolastico, coinvolgendo nella richiesta di
cambiamento sia gli studenti che gli insegnanti, oltre che i genitori. Come il
lavoro di Basaglia e dei suoi psichiatri radicali, la Lettera a una professoressa
preparò il terreno sia per i movimenti del ’68, sia per le riforme legislative
degli anni ’70. Aveva però anche un lato oscuro: nelle mani di qualcuno,
venne usato per trasformare tutti gli insegnanti in nemici di classe. Il suo era
un linguaggio radicale, totalizzante: era un testo incendiario7.
Don Milani ebbe un ruolo decisivo anche in un altro ambito di riforma
istituzionale. Il servizio militare obbligatorio era tra i pilastri fondanti dello
Stato fin dall’Unità nell’Ottocento. Tutti gli uomini (con qualche eccezione)
dovevano servire nelle forze armate per un certo periodo, e non esisteva
un’opzione ‘civile’. Chi rifiutava l’arruolamento senza una ragione legittima
veniva condannato al carcere come disertore.
Nel 1972 fu finalmente concesso agli obiettori di coscienza di evitare il
servizio militare vero e proprio. Dopo le riforme di quell’anno venne offerta ai
giovani l’alternativa del cosiddetto ‘servizio civile’, lavorando nelle scuole o in
altre istituzioni pubbliche. La riforma legislativa giunse a seguito di una lunga
battaglia condotta dai pacifisti, dalla sinistra, e da molti preti e fedeli cattolici.
Contro il servizio di leva, don Milani pubblicò un opuscolo intitolato
L’obbedienza non è più una virtù, in forma di lettera ai ‘cappellani militari’ che
avevano definito l’obiezione di coscienza un “insulto alla Patria”. Se così
fosse, scriveva Milani, “io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il
mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro.
Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri”8. Il prete fiorentino fu
processato, e condannato (in appello) per incitamento alla diserzione e
‘vilipendio delle forze armate’; ma nel frattempo se n’era andato.

C’è speranza, se questo accade al Vho


Nel minuscolo borgo del Vho, presso Cremona, un maestro di nome Mario
Lodi avviò la sperimentazione di metodi alternativi nella scuola elementare,
dove insegnava dal 1956. Lodi visitò Barbiana nel 1963. Avrebbe poi
pubblicato il resoconto delle sue esperienze scolastiche in una serie di libri,
scritti con lo stesso taglio diretto ed esplicito della Lettera a una professoressa.
Uno di questi si intitola C’è speranza se questo accade al Vho. Secondo Lodi, non
c’è nulla “come le istituzioni che riveli come è tenuto in considerazione
l’uomo”9. Con lui la rivoluzione di don Milani entrò nel sistema scolastico
statale. Fu uno dei tanti insegnanti idealisti che avrebbero trasformato la loro
professione nel dopoguerra.
Tra le prime cose, Lodi riorganizzò la disposizione fisica dell’aula. La
cattedra – simbolo del potere dell’insegnante – fu eliminata. Si cercava di
creare uno spazio adatto all’interazione e al gioco. Anche Lodi sedeva nei
banchi, alla stessa altezza degli allievi. Parlava di una “scuola così fatta per
formare uomini-servi invece che uomini liberi”. “La nostra libertà di
educatori praticamente non esiste”10. Come don Milani, voleva abolire gli
esami e liberare gli studenti dalle gerarchie del sistema. Lodi paragonava gli
scolari agli operai di fabbrica:
In una scuola autoritaria fondata sui voti... se strappi il voto dalle mani dell’insegnante, tutto il castello
crolla. È come strappare le armi alla polizia di uno stato oppressivo. Nell’aula, unità di un edificio che
anche esteriormente, come dicevo, richiama il penitenziario e la fabbrica, lo schema entro cui si forma
lo scolaro è semplice, funzionale, rigido e terribile: spiegazione, ripetizione, voto; dettato, tema,
problema e voto11.

Come altri educatori radicali, Lodi era convinto che la scuola dovesse essere
ribaltata dall’interno e riformata dall’esterno. Occorreva un sistema scolastico
interamente nuovo. La scuola era una struttura di classe, “che tende a formare
uomini docili e passivi, possibilmente ignoranti sulle cose che scottano”. Si
doveva “mettere al centro della scuola il bambino, liberarlo di ogni paura”12.
Come quelli riferiti all’esperimento di Barbiana, anche i libri di Lodi furono
molto letti e seguiti. Da questo tipo di critica e di pratica sperimentale nelle
istituzioni scolastiche sarebbe nata una serie di esperienze innovative ad ogni
livello, dagli asili nido all’università, all’istruzione per adulti.
Lo psicoanalista Elvio Fachinelli definisce questa attività “pratica non
autoritaria nella scuola”. “Mangiare quando si ha voglia, sedersi su un tavolo,
parlare in dialetto, avere le ginocchia sporche o indossare una camicetta
trasparente, giocare a carte, sono cose ritenute dal senso comune
incompatibili con la scuola e la sua funzione educativa”13. Ma il problema non
stava soltanto nella scuola: riguardava anche la famiglia. Per questi educatori
alternativi, “l’autoritarismo comincia nell’infanzia attraverso la famiglia”14. La
strategia del cambiamento passava per lo “smascheramento” del vero volto
delle istituzioni e dei loro meccanismi.

Esamifici?
Il sistema degli esami scolastici era ancora governato dalle riforme di Giovanni
Gentile, risalenti al 1923, che avevano introdotto gli esami di Stato. Superati
questi, i liceali potevano accedere all’università. Ma solo quelli del classico
potevano scegliere qualsiasi facoltà; lo scientifico dava un accesso più limitato.
Gli altri diplomi non bastavano. Per molti giovani l’esame di Stato, la
‘maturità’, era un vero rito di passaggio.
Nel dicembre 1969, sull’onda del movimento studentesco nelle università e
nelle scuole del 1967-68, una riforma legislativa ‘urgente’ allentò le maglie del
sistema. L’accesso all’università fu allargato, nella scelta della facoltà e nei
requisiti di ammissione, a comprendere studenti provenienti da diversi tipi di
istituti. Fu una vittoria importante: l’università non era più una riserva
dell’élite, a evidente vantaggio della mobilità sociale. Il sistema scolastico
italiano si modernizzava, e diventava più democratico. Per i critici, però, gli
esami riformati erano troppo facili. I promossi, che erano stati intorno al 70
per cento negli anni ’50 e ’60, aumentarono notevolmente al 90 per cento nel
1971, e al 94 nel 1981; da allora, sono diventati ancora di più.
L’esame di Stato suscitò intensi dibattiti anche sulle questioni più tecniche.
Di solito i risultati finali venivano decisi da una commissione costituita da
insegnanti interni ed esterni alla scuola di provenienza. Dai componenti delle
commissioni dipendeva l’‘obiettività’ o meno dell’esito: i commissari esterni
ne garantivano una certa misura15. L’esame di maturità era un’enorme
operazione logistica a livello nazionale, con implicazioni culturali e sociali
profonde, in occasione della quale migliaia di studenti passavano le notti in
bianco ripassando per prepararsi a domande su una vasta gamma di argomenti.
Gli esami erano lunghi e logoranti. Qualcuno provava a imbrogliare;
qualcuno credeva a voci sulla scelta degli argomenti che poi si rivelavano
sbagliate. Poi finiva tutto, e c’era solo da aspettare i risultati. I lunghi anni della
scuola erano finiti. Data però la struttura della famiglia italiana, e il fatto che
molti studenti frequentavano l’università nella propria città, e dunque
rimanevano in casa, gli amici di scuola, i ‘compagni di banco’, rimanevano
spesso amici per la vita, talvolta in modo molto più profondo di quelli
incontrati all’università.
Gli studenti della scuola e dell’università italiana ricevevano una ricca
formazione ‘generale’, e il sistema degli esami orali insegnava loro a pensare
velocemente e a sintetizzare grandi quantità di materiale. Non venivano
invece incoraggiati (in linea di massima) a una lettura critica dei testi che
studiavano. Il sistema degli esami universitari non si distingueva molto da
quello scolastico. Era una prova di resistenza fisica oltre che un esercizio della
mente16. Molti abbandonavano, o vivevano come alienanti le gerarchie
accademiche o i corsi che parevano avere scarso rapporto con la vita di ogni
giorno. Quando arrivò il 1967-68, quegli studenti si ribellarono contro
l’intero sistema universitario.

La battaglia per il divorzio


Il cambiamento toccò anche le istituzioni legate alla vita e alla moralità
private. Per gradi, grazie anche agli effetti del caso Coppi e al mutare degli
atteggiamenti sociali, le cose cominciarono a cambiare anche all’interno della
famiglia. Le prime discussioni su una legge per il divorzio avvennero nel 1965.
Nel 1967 fu stabilito che la riforma in materia non avrebbe richiesto una
modifica della Costituzione: sarebbe bastata una legge ordinaria17. Alla fine del
novembre 1969 la legge per il divorzio fu approvata dalla Camera con
un’esigua maggioranza (quasi tutti i democristiani votarono contro). Il voto
finale della Camera vide la legalizzazione del divorzio nel dicembre 1970.
Divorziare era ora possibile, ma non certo facile. In primo luogo la coppia
doveva ottenere dal giudice la separazione legale. Dopo tre anni di limbo (e di
matrimonio vigente) poteva ripresentarsi al giudice e ottenere il divorzio.
Non sorprende che la Chiesa si opponesse alla riforma, combattendola con
tutti i mezzi a sua disposizione. In questo ambito la gerarchia ecclesiastica non
era disposta a cedere di un millimetro. Non tutti i cattolici erano però
contrari, e ci fu anche qualche prete che si pronunciò in favore della legge. Il
Vaticano decise però di non poter restare a guardare mentre il divorzio faceva
il suo corso. L’eccesso di zelo lo portò a un errore politico di grande rilevanza.
La Costituzione prevedeva il ricorso al referendum abrogativo: raccogliendo
500.000 firme certificate in opposizione a una legge, si poteva arrivare al voto
per abrogarla. Nei primi venticinque anni della repubblica quest’arma politica
non era mai stata brandita. Furono la Chiesa e la Democrazia cristiana a
decidere di innescare il meccanismo del referendum per la prima volta nel
1974 – contro la legge sul divorzio approvata nel 1970. La campagna
antidivorzista iniziò con la raccolta delle firme: circa 1,3 milioni di persone in
favore dell’abrogazione. Nella lunga attesa del referendum vi furono diversi
tentativi di arrivare a un compromesso su una legge diversa (per esempio,
limitando il divorzio ai soli matrimoni civili), ma tutte le proposte intermedie
caddero nel vuoto.
Dopo una lunga e spesso aspra campagna, il referendum si tenne per due
giorni nel maggio 1974. In tutta Italia la gente guardava i risultati alla
televisione. A Milano l’attore e scrittore Dario Fo tenne un’assemblea-
manifestazione-happening nella piazza di fronte al suo teatro, in cui si
susseguivano commenti e dibattiti senza interruzione. Fu un momento di
mobilitazione e di speranza. I voti validi furono 32 milioni, pari a circa l’88
per cento degli aventi diritto: una percentuale estremamente alta per un
referendum su una singola legge. Il ‘Sì’ era un voto contro il divorzio, mentre
il ‘No’ era a favore del mantenimento della legge. I risultati furono
sorprendenti: circa il 59 per cento (19 milioni di elettori) disobbedì alla
Chiesa sostenendo il divorzio. Sul fronte opposto si superarono di poco i 13
milioni. Come sempre, però, ci furono differenze regionali. In diverse regioni
del Meridione e del Nord-Est, dove le sub-culture cattoliche erano ancora
forti, vinsero gli antidivorzisti, di stretta misura. Ma la Sicilia e la Sardegna
votarono entrambe ‘No’: anche il Mezzogiorno stava cambiando.
Appresi i risultati, la giornalista Oriana Fallaci scrisse: “io ero certa che
avremmo perso... Oggi sono orgogliosa d’essere una donna in Italia... Piazza
Navona era uno sventolar di bandiere che sbocciavano come fiori rossi sopra
un mare di gente contenta, giovanotti barbuti, fanciulle spettinate”18. Secondo
Pier Paolo Pasolini, il risultato segnalava che “i ‘ceti medi’ sono radicalmente
– direi antropologicamente – cambiati: i loro valori positivi non sono più i
valori sanfedisti e clericali ma sono i valori (ancora vissuti solo
esistenzialmente e non ‘nominati’) dell’ideologia edonistica del consumo e
della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano”19. Il referendum
da essa stessa imposto si concluse con la schiacciante disfatta della Chiesa.
L’Italia era cambiata, e la famiglia, per quanto ancora fondamentale, non era
più sacra. Come spiega John Pollard, “con il referendum sulla legge per il
divorzio del 1974 si diedero sul piede la zappa della secolarizzazione”20. Fu
“l’inizio della fine del controllo della Chiesa sul modo di pensare del popolo
italiano riguardo al comportamento sessuale, al matrimonio e ai rapporti
familiari”21. Fu un momento di crisi, e non soltanto per la Chiesa. La strategia
politica della Democrazia cristiana si era rivelata disastrosa, e i suoi esponenti
parevano aver perduto il contatto con i desideri della maggioranza degli
italiani. Fu una sconfitta anche sul piano procedurale, che avrebbe avuto
conseguenze a lungo termine. Il ricorso tattico al referendum si era risolto con
un autogol, e la Chiesa e la DC avevano involontariamente offerto ai loro
avversari un’arma potente. I referendum sarebbero stati usati da altri partiti
riformatori per imporre una serie di cambiamenti per tutto il corso degli anni
’70,’80 e ’90.

Dentro la famiglia:
genitori e figli, mariti e mogli
Il sistema legale italiano codificava la discriminazione all’interno della famiglia.
Il codice penale fascista del 1930, lasciato sostanzialmente intatto nel 1948,
rappresentava il nocciolo del problema. La nuova Costituzione era insieme
radicale e conservatrice – spesso in quanto esito di un compromesso con la
Chiesa e la Democrazia cristiana. Provava a garantire l’eguaglianza, per quanto
piuttosto limitata, entrando in conflitto con norme più antiche, tutelate con
passione dalla Chiesa. L’articolo 29 afferma che “La Repubblica riconosce i
diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”, ma anche
che “Il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi,
con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. L’eguaglianza
veniva tutelata, in teoria, ma soltanto nell’unità familiare legalmente costituita.
L’articolo 30, invece, pare puntare in una direzione piuttosto diversa. Si
tratta di genitori e figli. “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed
educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Nei casi di incapacità dei
genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. La legge assicura
ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile
con i diritti dei membri della famiglia legittima”. Infine anche l’articolo 37 fa
riferimento, per quanto indiretto, alla famiglia. “La donna lavoratrice ha gli
stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al
lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della
sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una
speciale adeguata protezione”22.
A dispetto di alcuni dei diritti garantiti dalla nuova Costituzione, nel
dopoguerra molti magistrati applicavano la legge in modi che sottolineavano,
e in certi casi persino aggravavano, la sanzione legale delle diseguaglianze di
genere. Ci vollero anni per allineare tutte le clausole delle altre leggi e
codificazioni al dettato della Costituzione. Soltanto nel 1955, per esempio,
l’“indicazione della paternità e maternità” fu rimossa dalla lista dei documenti
necessari per il matrimonio. Spariva così “l’umiliante indicazione di N.N. per
i figli naturali non riconosciuti”23.
Le cose cominciarono a cambiare davvero, in modo positivo e radicale, negli
anni ’60 e ’70. Il ricambio generazionale, lento ma inevitabile, all’interno della
magistratura, accompagnato dagli effetti dei movimenti riformisti sul mondo
esterno, quello reale, influenzò in modo decisivo la modernizzazione. Ma il
processo fu lento e contraddittorio. Spesso i tribunali applicavano la
Costituzione in modo da reimporre o codificare diseguaglianze o ingiustizie,
come il ‘diritto’ del marito di chiedere alla moglie di rinunciare all’impiego
per il “buon andamento della famiglia”24. Nel 1968 l’idea che l’adulterio fosse
più grave se commesso dalla donna fu finalmente cassata. La data non fu una
coincidenza. La Corte costituzionale prendeva “atto di un nuovo clima sociale
e etico che è il portato del boom economico degli anni precedenti”25. Ci
vollero altri sei anni per eliminare del tutto le relazioni extraconiugali dalla
competenza giudiziaria – se non per quanto riguarda le procedure di divorzio.
Contò molto anche il fatto che una serie di professioni si fossero aperte alle
donne. La professione legale era tra le più refrattarie all’eguaglianza di genere.
Nel 1961 la Corte costituzionale abrogò una legge del 1919 che escludeva le
donne dalla magistratura. Seguì, nel febbraio 1963, la definitiva apertura della
carriera alle donne26. Fino ad allora i concorsi pubblici erano stati riservati agli
uomini – il che, per certi versi, era chiaramente incostituzionale. Il primo
concorso in magistratura aperto alle donne si tenne nel maggio 1963: su un
totale di 200 posti disponibili, soltanto otto donne furono giudicate
ammissibili. Entrarono in servizio insieme con 5647 colleghi maschi nel
1965. Sul tema si era dibattuto nell’Assemblea costituente, nel 1947,
arrivando alla decisione di rinviare al futuro le modifiche legislative in materia,
ed evitando di sanzionare la discriminazione nella Costituzione stessa (il che
sarebbe comunque entrato in contraddizione con altri articoli). Ci vollero
anni per sanare questa anomalia.
Quando finalmente passò la legge che ammetteva le donne in magistratura, si
erano già tenute diverse tornate di concorsi che le avevano escluse sulla base
del genere27. A livello inferiore le donne magistrato sono oggi numerose, ma i
vertici presentano ancora un robusto soffitto di cristallo. Su 107 giudici della
Corte costituzionale tra il 1955 (quando fu istituita) e il 2015, ci sono state
soltanto cinque donne. Anche altre conquiste richiesero tempo. Nel 1957 le
donne furono ammesse come giurate in alcuni tribunali. Il soffitto di cristallo
venne incrinato anche dalla presenza di donne di potere come Nilde Iotti, che
nel 1979 venne eletta presidente della Camera28.

Lo Statuto dei lavoratori


Col procedere degli anni ’60, il livello di organizzazione e partecipazione dei
lavoratori, specie nelle grandi catene di montaggio del Nord, toccò vertici che
trovavano precedenti soltanto nel ‘biennio rosso’ del 1919-20, o negli
spettacolari scioperi del 1943 che avevano accelerato la fine del regime
mussoliniano. In molte fabbriche la disciplina scomparve del tutto, con
scioperi selvaggi e interruzioni spontanee che bloccavano di continuo e
all’improvviso la produzione. Il ‘rifiuto del lavoro’ dei tardi anni ’60 e ’70 fu
interpretato da alcuni come un rifiuto del capitalismo in sé29. Per altri, invece,
la lotta dei lavoratori era indirizzata soprattutto alla richiesta di dignità e
progresso – economico, sociale, nelle condizioni di lavoro. Una volta
consolidate queste conquiste, l’onda della protesta si andò spegnendo. Gli
operai oscillavano tra richieste (e retoriche) rivoluzionarie e risultati riformisti.
Uno degli slogan del movimento era “più salario, meno orario”; un altro era
“vogliamo tutto”.
Nel 1969 la protesta operaia si diffuse come un incendio. A novembre di
quell’anno risultavano perdute a causa degli scioperi in tutto il paese ben 250
milioni di ore lavorative. Il cosiddetto ‘autunno caldo’ vide ovunque lotte
operaie per il salario, l’orario, le condizioni e i diritti. Considerando soltanto i
metalmeccanici nel settembre 1969, 72 ore di sciopero in diverse parti del
paese, due blocchi nazionali di 24 ore e uno sciopero di 48 ore a Torino e
provincia. L’esito di questo drammatico periodo di scioperi a livelli senza
precedenti fu un nuovo sistema di norme e diritti, approvato nel 1970, noto
con il titolo generale di “Statuto dei lavoratori”. Oltre a questo pacchetto di
provvedimenti, i lavoratori ottennero anche aumenti salariali e riduzioni di
orario, e miglioramenti nelle condizioni di lavoro30.
Lo Statuto consacrava una serie di diritti della classe operaia organizzata.
Alcuni erano mere applicazioni delle norme costituzionali – diritto di
sciopero, diritto di aderire al sindacato, diritto a un trattamento dignitoso.
Altre misure andavano oltre i principi della Costituzione del 1948, come il
diritto a periodi di formazione gratuita per i quali i datori di lavoro erano
tenuti a versare la retribuzione. Le cosiddette ‘150 ore’ produssero iniziative
di formazione per adulti in tutto il paese. Lo Statuto tutelava anche i
cosiddetti studenti-lavoratori, impegnati in studi faticosi per ottenere i titoli
che non avevano avuto dalla scuola, in genere fuori dall’orario di lavoro. Gli
studenti-lavoratori avevano il diritto di chiedere turni compatibili con i loro
studi, e permessi retribuiti per sostenere gli esami.
Approvato nel maggio 1970, lo Statuto conteneva anche un famoso articolo,
il 18, a tutela del diritto all’impiego dei dipendenti delle grandi aziende, che
non potevano essere licenziati se non in dimostrata presenza di una “giusta
causa”. L’articolo 18 avrebbe prodotto discussioni e manifestazioni infinite
nei quarant’anni a seguire, fino ad essere sostanzialmente modificato con una
serie di riforme (debitamente contestate in tribunale) nel secondo decennio
del secolo XXI.
Numerosi articoli e provvedimenti contenuti nello Statuto dei lavoratori si
ispiravano alla lotta contro le discriminazioni subite dagli operai militanti nelle
fabbriche e nelle officine del dopoguerra. Molti dipendenti comunisti della
Fiat a Torino erano stati costretti a lavorare in impianti isolati per ridurre
l’impatto sugli altri delle loro convinzioni politiche: erano i cosiddetti ‘reparti
confino’. Con lo Statuto la marginalizzazione dei dipendenti militanti veniva
di fatto vietata, e si limitava con severità la sorveglianza sui lavoratori (un’altra
pratica diffusa nelle fabbriche del boom).
La vita di fabbrica aveva anche i suoi aspetti liberatori, ma era repressa e
ripetitiva. La catena di montaggio era dura; tutto veniva severamente
regolamentato. Nel cortometraggio di Mario Monicelli Renzo e Luciana,
uscito nel 1962, due operai della Pirelli di Milano si sposano nella pausa
pranzo, in segreto, per evitare discriminazioni. Le nozze avvengono in una
specie di baracca, con la musica fornita da un juke-box. Poi i due ritornano al
lavoro, fingendo di non conoscersi per non farsi scoprire. Dopo
l’approvazione dello Statuto, non si poteva più aumentare la retribuzione ai
dipendenti non sindacalizzati, né si poteva licenziare chi aderiva agli scioperi,
o le donne quando si sposavano (come avveniva quasi sempre).
Durante la breve età industriale italiana, la vita di fabbrica richiamò
l’attenzione di registi e scrittori. Nel potente film di Elio Petri La classe operaia
va in paradiso31, Gian Maria Volonté è un operaio di fabbrica (Lulù) che vive in
una casa zeppa di beni di consumo. All’inizio è uno stakanovista, un operaio
modello, che produce a ritmi forsennati componenti metalliche con
movimenti ripetitivi (certe scene ricordano Tempi moderni di Charlie Chaplin)
per accumulare straordinari per i ‘bisogni’ della sua famiglia. Gli affidano i
nuovi assunti per l’“addestramento”. Finito il lavoro, Lulù torna a casa e si
addormenta quasi subito, spesso davanti alla televisione. Non guarda
nemmeno gli studenti che fanno volantinaggio ai cancelli della fabbrica, sotto
la neve. Poi si trancia un dito con la pressa, si lascia radicalizzare dagli studenti
e aderisce al ‘movimento’. Ma per lui non c’è scampo: il suo destino è la
catena di montaggio.

Carceri e rivolte
Il sistema carcerario era un’altra istituzione che richiedeva riforme urgenti,
distante com’era dal mondo moderno, e ancora governato da un insieme di
norme fasciste e liberali. Ogni aspetto della vita dei detenuti era regolato e
controllato da una vasta serie di norme repressive. La vita nelle carceri italiane
degli anni ’60 non era cambiata molto nonostante la transizione alla
democrazia. Di riabilitazione, o di alternative alla punizione e all’isolamento,
non si parlava nemmeno. La corrispondenza era sottoposta a censura. Le
punizioni erano brutali e istituzionalizzate. C’erano celle buie con letti speciali
ai quali i detenuti venivano legati per lunghi periodi. Vivevano isolati, tra loro
e dal mondo esterno. E per di più gli edifici delle carceri erano vecchi e
degradati, e sempre più affollati. I detenuti venivano costretti a lavorare con
retribuzioni minime.
Le rivolte dilagarono in tutto il sistema alla fine degli anni ’60, portando alla
distruzione di alcune prigioni e a confronti drammatici con l’esercito e la
polizia – ci furono dei morti. Le Nuove di Torino subirono danni così gravi
in una rivolta dell’aprile 1969 che molti detenuti furono trasferiti in Sardegna.
Questa rivolta segnò un punto di svolta per l’istituzione carceraria italiana.
Come spiega la storica Eleanor Chiari, “la rivolta del 1969 [a Torino] durò
quattro giorni. Furono distrutti tre bracci, le cucine, l’ufficio del prete,
l’ufficio matricola e le officine industriali, con danni per centinaia di milioni
di lire”. La polizia fece irruzione nel giorno di Pasquetta: “i detenuti furono
trascinati via in catene, lasciati per ore a faccia in giù nel cortile, e poi caricati
su tre aerei da trasporto, diretti verso isole lontane”32.
In alcuni casi i detenuti riuscirono ad assumere temporaneamente il
controllo delle prigioni, con la partecipazione di militanti politici (dall’interno
e dall’esterno). Gli slogan chiedevano “liberi tutti”, e la chiusura dell’intero
sistema. Per certi movimenti politici i detenuti erano l’avanguardia di una
rivoluzione possibile; come l’autore anticolonialista Frantz Fanon, li
consideravano “i dannati della terra”. I detenuti sciamavano sui tetti delle
prigioni in cui erano stati rinchiusi, salutando a pugno chiuso i sostenitori e i
parenti che stavano per strada, oltre il muro.
In tutta Italia lo Stato reagì con la repressione, facendo sopprimere le rivolte
dalla polizia, e perfino dall’esercito. Finita l’agitazione, i detenuti furono
spesso picchiati e umiliati. Proteste analoghe avvennero anche nelle carceri
femminili. Le rivolte continuarono, sporadicamente, negli anni ’70. Nel
carcere di Alessandria, nel 1974, furono presi degli ostaggi; dopo lunghe e
inutili trattative, fu tentato un colpo di mano per liberarli: un bagno di
sangue, con sette morti.
In quegli anni le carceri furono prese d’assalto sia dall’interno che
dall’esterno delle mura. In un libro famoso, Aldo Ricci e Giulio Salierno (un
ex fascista con anni di esperienza diretta nelle prigioni di diversi paesi) le
definivano “istituzioni totali” (seguendo il sociologo canadese Erving
Goffman). Il libro conteneva descrizioni dettagliate delle rivolte e delle loro
conseguenze. Gli autori ne concludevano che “finché esiste un recluso non
esiste la libertà”33.
I tumulti degli anni ’60 e ’70 portarono nel 1975 a una radicale riforma del
sistema carcerario. Ai detenuti, come ai pazienti nei manicomi, furono
restituiti i diritti costituzionali, quasi trent’anni dopo l’entrata in vigore della
Costituzione. Venivano stanziati fondi per la riabilitazione e l’istruzione, ed
erano previste alternative al carcere. Quello che era stato tra i sistemi più
oppressivi del mondo divenne uno dei più liberali.
Ma nemmeno dopo le nuove riforme i detenuti venivano trattati tutti allo
stesso modo. Nel clima di emergenza vennero istituite carceri speciali per far
fronte – si sosteneva – all’aggravarsi della violenza politica34. E per certi
detenuti – certi mafiosi, per esempio – le cose erano sempre state, e
continuavano ad essere, diverse. Le carceri di Palermo venivano spesso
definite Grand Hotel Ucciardone: come scrive John Dickie, “i boss della
mafia andavano e venivano dalle loro celle in vestaglia di seta, mangiavano
aragosta e bevevano champagne”35. A Napoli, a Poggioreale, Raffaele Cutolo
trasformò l’istituto nella base su cui fondare una nuova organizzazione
camorristica. Dichiarò esplicitamente che “il carcere è la base perfetta per un
impero criminale”36. Il carcere duro per i boss mafiosi e camorristi sarebbe
diventato realtà soltanto negli anni ’90.
Le università e il 1968
Vietato vietare.
Slogan del ’68
Alla fine degli anni ’60 si verificò un’inebriante concomitanza di fattori storici
e politici: sullo sfondo globale, la guerra in Vietnam, la Cina di Mao, le lotte
anti-imperialiste nel mondo, e il movimento pacifista. Le correnti di pensiero
radicali negli ambiti della psichiatria, del sistema scolastico, oltre che nella
letteratura, nella musica e nell’arte, ponevano le basi di nuove forme di
antiautoritarismo, una rivoluzione culturale. Il sovraffollamento
dell’istruzione di massa, la penuria di risorse e l’apparente immutabilità della
gestione delle università generavano gravi insoddisfazioni per il
funzionamento delle istituzioni e della società. Molti cercavano la rottura.
Un’intera generazione si politicizzava, pronta a combattere. Autori come
Herbert Marcuse, R.D. Laing e Frantz Fanon offrivano una prospettiva più
generale alla critica della società37. Il sistema politico, distante e fossilizzato,
pareva refrattario al desiderio di cambiamento. La Primavera di Praga del 1968
indebolì la presa del Partito comunista sulla sinistra: il movimento studentesco
italiano simpatizzava con i ribelli cecoslovacchi, non con il regime. Come
dichiarava un volantino, “Di fronte, non dietro ai carri armati”.
Non fu quindi sorprendente che con il procedere degli anni ’60 gli studenti
cominciassero a tenere testa ai professori, e all’intero sistema dell’università.
L’arma di lotta principale era l’occupazione degli spazi universitari, iniziata in
modo sporadico alla metà del decennio a Roma e Milano (le facoltà di
architettura in prima fila) e nella nuova Università di Trento, ed esplosa in
tutto il paese nel 1967. Il movimento studentesco italiano precede quello
francese del maggio 1968, e dura molto più a lungo. Qualcuno ha definito il
’68 italiano “il maggio lungo”, a confronto con gli eventi parigini. Il
movimento si diffuse rapidamente: nel febbraio 1967 fu occupata una parte
dell’Università di Pisa, seguita subito dopo da quella di Torino, e così via per
tutto il corso dell’anno. Le occupazioni si conclusero con violenze e arresti da
parte della polizia.
Negli spazi occupati, gli studenti producevano documenti, si organizzavano
in gruppi, eleggevano i leader e discutevano su una grande varietà di temi al di
là di quelli strettamente collegati alla riforma universitaria. Nel novembre
1967 una massiccia occupazione bloccò l’attività nella prestigiosa Università
Cattolica di Milano. Gli scontri con la polizia del marzo 1968 portarono
all’espulsione di molti studenti, tra i quali uno dei primi leader del
movimento, l’immigrato umbro Mario Capanna. Molti degli espulsi si
iscrissero all’Università Statale, dove ripresero le loro iniziative radicali. Gli
studenti protestavano contro il contenuto dei corsi, i metodi di insegnamento
e valutazione, e le strutture del potere accademico. Interrompevano le lezioni
e tenevano testa ai professori sbalorditi. A Torino lo studente Guido Viale
montò in piedi sulla ‘sacra’ cattedra e diede dell’imbecille a un professore. Più
avanti fu arrestato e incarcerato per la sua attività politica. Viale divenne subito
un leader – era orfano, condizione che ben corrispondeva a uno degli slogan
più popolari dell’epoca, “Vorrei essere orfano”, simbolo del rifiuto della
‘famiglia borghese’. Viale criticava i criteri metodologici stessi della ricerca
universitaria:
Ogni rivista pubblicata dagli istituti contiene articoli in cui si discutono gli articoli pubblicati dalla
prima rivista. Le pubblicazioni valevoli per il conseguimento di titoli accademici il più delle volte non
sono che raccolte di detti articoli. Il circuito si chiude. La ricerca ricerca se stessa, e le facoltà
umanistiche diventano una torre di avorio completamente isolata dalla problematica culturale e politica
del resto del mondo38.

Nel 1968 Viale pubblicò un importante articolo, dal titolo inequivocabile,


Contro l’università: in forma di libro, circolò in migliaia di copie.
Nel frattempo a Trento, tra le montagne – un’università nata solo nel 1962,
in un posto tanto sonnolento da essere considerato ‘sicuro’ –,
i contestatori erano già passati a iniziative più radicali, organizzando contro-
corsi e i cosiddetti ‘scioperi attivi’. Le università toccate dalle occupazioni e da
altre forme di protesta furono molte: Padova, Firenze, Siena, Lecce, Roma,
Napoli, Pavia, Messina, Ferrara, Parma, Venezia, Genova, Bari, Ancona,
Cagliari, Perugia, Bologna, Modena, Trieste, Milano, Palermo e Catania. Il
movimento aveva dimensioni nazionali.
Il 1° marzo 1968, a Roma, l’evento che segnò una svolta: gli studenti e altri
manifestanti si scontrarono con la polizia per parecchie ore in un parco vicino
alla facoltà di architettura. L’avrebbero chiamata ‘la battaglia di Valle Giulia’.
Ci furono più di seicento feriti quel giorno, tre quarti dei quali studenti. In
termini storici la ‘battaglia’ può essere considerata uno spartiacque, il
momento in cui “non siamo scappati più”39. La violenza, quantomeno per
difendersi dalla polizia, diventava accettabile. Il movimento elettrizzò anche
molti studenti delle scuole superiori, e anche qui cominciarono le
occupazioni. La radicalizzazione dei giovanissimi fu un altro aspetto
particolare del movimento italiano: in altri paesi il ’68 riguardò quasi
esclusivamente l’università. In Italia le stesse rivendicazioni – sugli esami, il
potere degli insegnanti, l’antiautoritarismo – venivano dall’università e dalla
scuola.
Il Partito comunista era combattuto sull’atteggiamento da assumere verso la
rapida espansione del movimento studentesco. Luigi Longo, capo del partito
dopo la morte di Togliatti nel 1964, ne aveva una visione positiva. Nel
maggio 1968 scriveva che “nessuno può negare l’ampiezza e la profondità del
movimento studentesco in Italia”. “È evidente”, aggiungeva, “che sarà dagli
studenti che verranno le nuove generazioni di intellettuali di avanguardia”40.
Ma in giugno Giorgio Amendola, dalla destra del partito, accusava gli studenti
di “infantilismo estremista... e di vecchie posizioni anarchiche”. A suo vedere
“la lotta contro l’opportunismo socialdemocratico è efficace se essa viene
accompagnata da un’azione coerente contro il settarismo, lo schematismo e
l’estremismo... Già Lenin aveva ammonito a non giocare con
l’insurrezione!”41.
È indubbio comunque che per molti nel movimento studentesco il Partito
comunista faceva parte del problema, non della soluzione. Si ribellavano (nella
prima fase) anche contro i genitori comunisti, un fatto particolarmente
traumatico per chi aveva partecipato alla Resistenza antifascista. Non era raro
che gli studenti contestassero anche i professori con impeccabili credenziali
antifasciste. Per parte sua, la vecchia generazione faticava a capire quello che
succedeva. Come avrebbe dichiarato più avanti Nuto Revelli, ex partigiano e
studioso di storia orale, “la generazione del 1968 voleva la libertà dopo la
Liberazione! Non sapevano nulla di quanto aveva sofferto la nostra
generazione per la guerra – è bello che questi bambini non abbiano dovuto
subire la guerra... ma gli studenti hanno sbagliato, perché quando sono scesi in
piazza hanno turbato la pace democratica!”42.
La Resistenza, secondo il movimento studentesco, era stata tradita, e le sue
commemorazioni ritualistiche non dicevano nulla ai giovani degli anni ’60.
Questa posizione veniva dichiarata senza esitazioni dall’influente periodico
radicale “Quaderni Piacentini”:
NO NO NO. Non vogliamo che i morti della Resistenza siano “onorati” con monumenti “ai caduti
di tutte le guerre” inaugurati da vescovo, prefetto, presidente del tribunale, comandante del distretto,
commissari, intendenti e sopraintendenti. Meglio il silenzio43.

Servivano dei ‘nuovi partigiani’. Nonostante le teorie (e la retorica) che


parlavano di una cosa chiamata ‘potere studentesco’, gli studenti uscirono
presto nel mondo esterno: ai cancelli delle fabbriche, ma anche in altre
istituzioni come musei e sedi di giornali. Uno degli slogan di una parte del
movimento diceva “Occupiamo la città”. Il ’68 italiano sfidava le istituzioni
antiquate e le gerarchie ufficiali; ma attaccava anche la vecchia sinistra, e in
particolare il Partito comunista, considerato “conservatore” e “funzionale al
sistema”. Era nata una nuova sinistra.

La Chiesa e il ’68
Movimenti di protesta sociale si svilupparono anche nell’ambito della
gerarchia ecclesiastica. Come abbiamo visto, la prima università occupata a
Milano nel 1967 fu la Cattolica. A Trento, centro nevralgico del movimento
studentesco, nel marzo 1968 un contestatore gridò “Non è vero!” durante
una messa nel duomo. Si chiamava Paolo Sorbi, venticinque anni, studente di
sociologia. Il prete aveva deciso di usare la messa per condannare l’Unione
Sovietica. Fu allora che Sorbi, col basco nero e la giacca di pelle, cominciò a
gridare “Non è vero, sono bugie”. Finì che “i suoi compagni lo strappano
dalle mani dei fedeli inferociti”44.
Il momento ricorda il gesto del leader degli studenti tedeschi Rudi Dutschke
a Berlino nel 1967, quando con altri militanti aveva ‘preso d’assalto’ una
chiesa, per essere respinto dai fedeli45. Nel settembre 1968 il magnifico
duomo di Parma fu brevemente occupato dagli studenti, che chiedevano alla
Chiesa “il coraggio di scelte a favore dei poveri e contro il sistema
capitalistico”46. La polizia non tardò a sgomberare gli occupanti, e l’assemblea
continuò all’esterno, ma l’evento ebbe ripercussioni a livello nazionale. In
tutta Italia preti e fedeli si dichiaravano solidali con il movimento di Parma.
Altri, all’interno della gerarchia cattolica, ne erano inorriditi.
Don Mazzi era il parroco di un nuovo grande quartiere operaio costruito ai
margini di Firenze tra gli anni ’50 e i ’60: l’Isolotto. Fece una dichiarazione
pubblica a sostegno degli occupanti del duomo di Parma e inviò loro una
lettera di solidarietà. La sequenza di eventi che seguì portò alla sua
sospensione: il vescovo di Firenze non gradiva, e gli chiese di ritirare la
dichiarazione o dimettersi. Sostenuto dalla sua comunità, don Mazzi non fece
nessuna delle due cose.
Arrivò il parroco sostituto, ma la sua messa fu disertata da tutti. La reazione
della comunità locale fu sorprendente: decisero di andare avanti come sempre,
senza la sanzione della Chiesa ufficiale. La messa e le altre funzioni venivano
celebrate nella piazza di fronte alla chiesa. Don Mazzi continuò a farlo per
anni, in una sfida diretta alle gerarchie cattoliche. L’Isolotto produsse una
versione democratica del catechismo, che in Italia fu bandita dalla Chiesa, ma
fu tradotta in altre lingue. La ‘comunità’ di don Mazzi divenne uno dei
simboli del ’68 italiano, e dimostrò che le istanze della protesta democratica
provocavano divisioni anche all’interno della stessa Chiesa. In molti casi
furono i cattolici e i preti radicali a promuovere il cambiamento e la riforma.
La ribellione di gruppi o individui contro l’autorità della Chiesa, e spesso
contro le sue stesse strutture, divenne sempre più frequente. Come avrebbe
detto don Mazzi, “ubbidire alla gerarchia cattolica significa quasi sempre
disubbidire alle esigenze più profonde, vere ed evangeliche del popolo... Da
una parte, la Chiesa legata al potere politico, economico, culturale; dall’altra,
la Chiesa dei disoccupati, degli analfabeti, dei rifiutati, dei lavoratori”47.

La contestazione della cultura


La ‘contestazione’, uno spirito diffuso di protesta, colpì gli eventi culturali
tradizionali di ogni genere, dalla prima della Scala a Milano (nel dicembre
1968; ci furono tumulti) alla Biennale d’arte di Venezia (dove gli scontri tra
polizia e manifestanti in piazza San Marco misero in fuga i turisti). La
prestigiosa Triennale di architettura di Milano non aprì nemmeno, nel 1968,
a seguito di un’occupazione studentesca. Ci furono proteste perfino alla
Bussola, il nightclub toscano alla moda, dove nel dicembre 1968 uno studente
rimase paralizzato da un colpo sparato dalla polizia.
Si mettevano in discussione anche i premi letterari. Nel 1968 Italo Calvino
rifiutò il premio Viareggio, inviando questo telegramma agli organizzatori:
Ritenendo definitivamente conclusa epoca premi letterari rinuncio al premio perché non mi sento di
continuare ad avallare con mio consenso istituzioni ormai svuotate di significato. Desiderando evitare
ogni clamore giornalistico prego non annunciare mio nome tra vincitori48.

Le proteste attaccavano anche giornali moderati come il “Corriere”. Nel


giugno 1969 il popolare programma televisivo del Cantagiro fu contestato a
Cuneo, con lo slogan “Ritmi infernali in fabbrica, ritmi musicali al Cantagiro:
due facce della stessa medaglia”. Ci furono dimostrazioni contro la Rai a
Milano a novembre. La contestazione colpì anche i rituali legati alle istituzioni
dello Stato, come le manifestazioni di dissenso dei magistrati riformisti
all’inaugurazione dell’anno giudiziario nel 1969. Ci furono esperimenti di
cosiddette ‘contro-inaugurazioni’49. Nel 1970 gli insegnanti rifiutarono di
preparare e valutare gli esami, ritardando quelli di Stato per tutti gli scolari. Il
ribellismo era contagioso. Si costituivano associazioni riformiste per
organizzare la protesta interna tra i detentori delle competenze e del potere
istituzionale. Queste organizzazioni prendevano lo stesso nome: Magistratura
democratica, Psichiatria democratica, Medicina democratica.

La legge Merlin:
la chiusura delle ‘case chiuse’
Tra il 1883 e il 1958 la prostituzione in Italia fu legalizzata e regolamentata
all’interno delle cosiddette ‘case chiuse’ – bordelli sanzionati dallo Stato. Le
prostitute erano schedate dalla polizia, e il costo delle lenzuola pulite, delle
tasse, del vitto e dell’alloggio veniva dedotto dalla paga. Le donne delle ‘case
chiuse’ erano sottoposte a continue e umilianti visite mediche (occorreva il
certificato per poter lavorare), e spesso venivano trattate come schiave di fatto.
Dopo una lunga battaglia, nel 1958 l’istituto fu abolito da un provvedimento
che prese il nome dalla senatrice socialista Lina Merlin. La Merlin condusse
una lunga campagna contro le ‘case chiuse’, e raccolse e pubblicò una serie di
lettere che aveva ricevuto da prostitute di tutta Italia50. La sua non fu una
campagna moralista: era contro le condizioni di asservimento delle donne in
quelle istituzioni. La sua prima proposta di riforma risaliva al 1948, ma ci
vollero dieci anni per condurla in porto. L’ipotesi stessa della riforma
indignava molti grandi giornalisti, e l’iter parlamentare fu lento e faticoso.
Molti uomini frequentavano assiduamente le ‘case chiuse’, e inorridivano al
solo pensiero della loro abolizione. E per di più quel sistema teneva nascosta la
prostituzione, togliendola dalle strade.
Nel 1958 le ‘case chiuse’ in Italia erano 560, e vi lavoravano 2700 prostitute.
Molte avevano già chiuso in previsione della riforma, diventando ‘case vuote’.
Fu allora che lo sfruttamento della prostituzione divenne reato. La legge
Merlin fu seguita da un panico morale di fronte alla prostituzione che
occupava le strade: la legge non prevedeva un’alternativa regolata o sicura alle
‘case chiuse’. Come per altre riforme, le proposte di ritorno al passato sono
state numerose negli anni successivi, mirate al ripristino dei bordelli di Stato e
a un’ulteriore regolamentazione della prostituzione. Non sono però mai
riuscite a raccogliere il consenso necessario in Parlamento. Il sistema
parlamentare italiano rende molto difficile l’approvazione di una riforma, ma
una volta approvate, le riforme sono ancora più difficili da modificare o
abrogare. Molte hanno mantenuto la forma originale per anni.
Franca Viola e il matrimonio forzato
per stupro
Negli anni ’60 e ’70 anche le antiche tradizioni patriarcali vennero messe per
la prima volta in discussione. In molti casi ad innescare il cambiamento fu il
coraggio individuale. Uno di questi individui fu Franca Viola, nata ad Alcamo
nel 1948. Nel giorno di Santo Stefano del 1965 la Viola fu rapita da un
gruppo di dodici uomini (si disse che erano armati), guidati da un certo
Filippo Melodia. Fu più volte violentata; aveva diciassette anni. Date le
circostanze, soprattutto in Sicilia, l’esito abituale di questo genere di cosa era
un ‘matrimonio riparatore’, in quanto la ‘castità’ della donna era stata violata.
Inaspettatamente, la Viola rifiutò questa soluzione. Melodia finì in prigione
per sequestro di persona – condanna ridotta per vie legali a due anni di
confino interno in un’altra regione. Melodia aveva legami di parentela con un
boss mafioso locale. Nel 1966, al processo, Franca Viola dichiarò che “Io non
sono proprietà di nessuno, nessuno può costringermi ad amare una persona
che non rispetto, l’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce”51. La
sua storia divenne poi un film interpretato dalla quattordicenne Ornella Muti
(il suo primo ruolo)52. Come sostiene lo storico Niamh Cullen, “il caso di
Franca Viola costrinse il pubblico italiano ad affrontare il problema della
violenza di genere e del suo ruolo culturale e sociale nella vita della
nazione”53.
Il sistema giudiziario italiano dell’epoca non consentiva soltanto il sequestro
di persona e lo stupro: considerava più o meno accettabile anche l’omicidio,
purché commesso in difesa dell’‘onore’ dell’uomo. Questo senso dell’onore
compariva nel famigerato articolo 587 del codice penale:
Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la
illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onore suo o della
famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette
circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la
figlia o con la sorella.

I delitti d’onore furono bersaglio delle parodie e dei lazzi di intellettuali e


registi a partire dagli anni ’60, ma per riformare la legge ci vollero anni.
Nonostante le proteste e la coraggiosa presa di posizione di Franca Viola,
soltanto nel 1981 furono approvati i provvedimenti che abolivano insieme la
possibilità di ‘cancellare’ un reato di violenza sessuale attraverso il matrimonio
e il ‘delitto d’onore’. Quindici anni dopo, nel 1996, la legge italiana ridefinì lo
stupro: non più reato “contro la morale”, bensì “contro la persona”. Fu una
battaglia politica e legale lunga e difficile per la conquista dell’eguaglianza
costituzionale; a livello sociale e culturale, però, quella battaglia era tutt’altro
che conclusa.

Il femminismo: pubblico e privato


Il femminismo italiano irruppe sulla scena politica, sociale e culturale tra la
fine degli anni ’60 e i ’70. Come tutti i movimenti del ’68, fu in parte una
reazione alla vecchia sinistra, in parte un attacco alle strutture stesse della
società, della politica ordinaria, della discriminazione istituzionale e giuridica.
Le femministe – organizzate in una miriade di gruppi e formazioni – si
aggregarono nelle grandi campagne nazionali per il divorzio e l’aborto, ma
ebbero un ruolo decisivo anche in una serie di cambiamenti relativi
all’impostazione dello stato sociale, alla diffusione dei contraccettivi e alla
riforma del diritto di famiglia. Nel femminismo la dimensione pubblica e
quella privata venivano spesso – intenzionalmente – confuse, come in tutto il
resto del mondo. Il personale diventava politico.
Anche l’‘autocoscienza’ divenne un elemento chiave del movimento. La
scoperta e la discussione della soggettività (l’io) divennero un concetto
fondamentale. Attraverso l’autocoscienza, spiega la storica Perry Willson, “le
donne... condividendo i loro pensieri più intimi in piccoli gruppi non guidati,
potevano scoprire la propria identità e costruirsi una nuova visione del mondo
(per poterlo cambiare)”54. L’autocoscienza rifiutava le forme classiche
dell’attività politica, come le manifestazioni. Andava molto lo slogan “lasciate
le piazze”, e così l’idea di “partire da sé”55. Si ispirava anche alla pratica
maoista in Cina, o perlomeno alla sua versione secondo i movimenti
occidentali (che spesso aveva poco a che fare con la realtà cinese). Le
femministe sarebbero poi scese di nuovo in piazza per le trionfali campagne di
massa per il divorzio, l’aborto e la riforma del diritto di famiglia.
Le donne parteciparono in prima fila alla ‘lunga marcia’ attraverso e contro le
istituzioni. Franca Ongaro – moglie di Franco Basaglia – contribuì al
cambiamento del sistema manicomiale nonostante non fosse psichiatra. Più
avanti, senatrice della Sinistra indipendente, avrebbe combattuto per
l’applicazione della ‘legge Basaglia’ e contro i tentativi di revocarla o
modificarla. Il Partito radicale fu forse l’unico a raccogliere le istanze del
femminismo (e, in una certa misura, le sue pratiche), portandole fino in
Parlamento. I grandi partiti guardavano con un certo sospetto le idee delle
femministe, e per molte di loro il sentimento era reciproco. Le femministe
costruivano anche istituzioni alternative, come le cliniche autogestite per le
donne. Soltanto a Roma, nel 1975-76, cliniche di questo genere erano attive
in dieci quartieri, dando impiego a più di quattrocento volontarie56. A molte
di esse venne riconosciuto il ruolo istituzionale di servizio pubblico – creato
per iniziativa di un movimento sociale e culturale.
I testi femministi aggredivano le certezze dominanti. In parte si trattava di
traduzioni di libri fondamentali in altre lingue, come La mistica della femminilità
di Betty Friedan (uscito in Italia nel 1964) e Psicoanalisi e femminismo di Juliet
Mitchell (edito da Einaudi nel 1976). Ma anche le femministe italiane
produssero testi importanti. Carla Lonzi, critico d’arte, pubblicò il suo
influente Sputiamo su Hegel nel 1970. Proponeva una prospettiva politica
separatista: “Non esiste la meta, esiste il presente. Noi siamo il passato oscuro
del mondo, noi realizziamo il presente”57.
Nel movimento infuriava il dibattito sulle forme organizzative (erano
ammessi gli uomini?) e sulle strutture patriarcali della stessa sinistra. Per
esempio, il Manifesto di “Rivolta femminile” (1970) sosteneva che “La donna
non va definita in rapporto all’uomo... L’uomo non è il modello a cui
adeguare il processo della scoperta di sé da parte della donna... L’uguaglianza è
un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli”. Altre
femministe evidenziavano gli aspetti di classe, chiedendo il “salario alle
casalinghe”. Risultavano evidenti contraddizioni nel fatto che la contestazione
all’interno della famiglia (dunque contro i genitori in quanto tali) poteva
spesso contraddire la critica del sistema patriarcale (mogli più forti nei
confronti di mariti e compagni, ma anche madri con un ruolo nella famiglia).
La sociologa Laura Balbo avrebbe poi scritto della “doppia presenza” delle
donne, la cui vita è “segnata dalla tensione costante tra le due sfere del lavoro e
della famiglia, che reclamano la loro presenza in eguale misura”58. A volte
queste tensioni erompevano anche nella sfera pubblica.
Il 6 dicembre 1975 si tenne una grande manifestazione femminista a Roma,
alla quale parteciparono gli studenti medi. La dimostrazione fu
deprecabilmente aggredita da gruppi di uomini, per lo più appartenenti al
gruppo di estrema sinistra Lotta continua. Ne derivò subito un dibattito
traumatico ma affascinante all’interno di quell’organizzazione, che si sciolse
nel 1976 dopo un infuocato congresso a Rimini. È stato detto che “modi,
tempi, e contenuti della pratica femminista si erano dimostrati inconciliabili
con una forma politica che continuava ad essere esclusivamente a misura
d’uomo”59.
Il femminismo puntava direttamente a una serie di riforme fondamentali, e
intaccò in modo profondo e durevole la base stessa del controllo della Chiesa
sulla vita privata della gente. In questo senso il femminismo fu il più efficace e
concreto tra tutti i movimenti sociali che furono insieme figli e protagonisti
del ‘maggio lungo’ italiano.

L’aborto
Le riforme più importanti comportarono lunghe battaglie non soltanto contro
la Chiesa e i suoi rappresentanti politici, i democristiani, ma anche contro la
Corte costituzionale. Così avvenne, per esempio, nella lunga storia dei
tentativi di legalizzare l’aborto in Italia. Nel febbraio 1975 la Corte dichiarò la
costituzionalità dell’articolo 546 del codice del 1930, per cui l’aborto era reato
penale per chi lo subiva e per chi lo praticava. Si prevedevano comunque
circostanze sanitarie in cui l’aborto veniva consentito. Il codice penale del
1930 distingueva in base al consenso della donna interessata: se c’era stato, sia
l’abortista che la gestante erano punibili per legge – e potevano finire in
prigione.
Il Partito radicale (che allora non aveva rappresentanti in Parlamento – i
primi quattro deputati sarebbero stati eletti nel 1976) decise di impiegare
l’arma del referendum, utilizzata in precedenza dalla Chiesa contro le riforme
liberali, per portare avanti la riforma abortista. Si rivelò una tattica astuta ed
efficace. Potenzialmente, il referendum serviva ad innescare l’abolizione delle
leggi impopolari secondo modalità che acceleravano il cambiamento e
aggiravano una classe politica notoriamente conservatrice. I radicali raccolsero
oltre 500.000 firme nel tentativo di revocare le norme restrittive sull’aborto
risalenti all’epoca fascista. Nel frattempo si formava un’alleanza tra neofascisti
e democristiani – con la Chiesa – per limitare l’aborto alle circostanze
veramente gravissime.
Le proposte di referendum imposero alla classe politica di darsi da fare. Una
riforma venne approvata nel gennaio 1977, ma l’opposizione era ancora forte.
Nel maggio 1978, subito dopo la ‘legge Basaglia’ che avrebbe chiuso gli
ospedali psichiatrici (anch’essa spinta avanti dalla minaccia di un referendum),
fu finalmente approvato un provvedimento integrato. Nonostante la
precedente disfatta sul divorzio, la Democrazia cristiana e la Chiesa pretesero
un altro referendum. Questa volta – nel 1981 – la loro sconfitta fu ancora più
secca: la contesa sull’aborto poteva dirsi in larga misura chiusa.
Oltre 21 milioni di italiani si schierarono dalla parte della legge sull’aborto –
intorno al 68 per cento dei votanti. E votò quasi l’80 per cento degli aventi
diritto, un dato che dimostra l’importanza acquisita nei primi anni ’80 da
quello strumento di democrazia. Seguì la ‘stagione dei referendum’, che si
sarebbe protratta fino gli anni ’90, portando il Partito radicale al centro della
politica italiana.
La nuova legge sull’aborto (nota come legge 194) non era certo perfetta:
conteneva clausole restrittive che spesso ostacolavano le procedure, rendendo
l’intervento più traumatico del necessario.
La legge 194, per esempio, consentiva ai medici e agli altri operatori di
esimersi dall’effettuare gli interventi per ‘obiezione di coscienza’. In alcune
regioni la proporzione degli ‘obiettori’ divenne preponderante (in qualche
caso oltre il 90 per cento), impedendo alle donne di abortire nei servizi locali
(o obbligandole a rivolgersi ai privati). Dopo il 1978, comunque, il numero
degli aborti è diminuito in modo costante, anche a seguito di provvedimenti
sul controllo delle nascite e l’educazione sessuale60. Vi sono stati diversi
tentativi di revocare la legge, ma nessuno capace di raccogliere sufficiente
consenso nella società. La Chiesa è stata costretta ad adeguarsi al mondo che
cambia.

Processo alle streghe:


il caso Braibanti, 1964-82
Alla fine del 1967 Aldo Braibanti, artista, poeta e scrittore, nonché esperto
mirmecologo, venne arrestato a Roma. L’accusa era in parte riferita alla fine
degli anni ’50, quando Braibanti gestiva una specie di ‘libera comune artistica’
in una cittadina del Nord. In quel periodo l’avevano frequentato due studenti,
entrambi intorno ai diciott’anni, e uno di loro, Giovanni Sanfratello, aveva
continuato a incontrarlo a Roma e altrove. Nell’ottobre 1964 la famiglia di
Sanfratello si rivolse all’autorità giudiziaria, che aprì un’indagine: il
comportamento di Braibanti avrebbe danneggiato il figlio.
Poi, il 1° novembre 1964, Sanfratello fu di fatto rapito da diversi suoi parenti
e portato direttamente in un ospedale psichiatrico, dove si disse che venisse
sottoposto a diverse sedute di shock elettrico e insulinico. I magistrati lo
avrebbero rilasciato soltanto nel febbraio 1966, imponendogli rigide
limitazioni, tra le quali il divieto di leggere libri che avessero meno di
cent’anni. Nel frattempo, l’inchiesta giudiziaria su Braibanti si protrasse per
tre anni e mezzo. Il 5 dicembre 1967 fu fermato dalla polizia e portato a
Regina Coeli. Avrebbe passato dietro le sbarre i due anni successivi. “È
veramente doloroso”, avrebbe scritto alla madre, “trovarsi in prigione senza
aver commesso alcun reato”61.
L’imputazione di Braibanti era sconcertante: ‘plagio’, un ‘reato’ che risaliva
ai codici penali di epoca liberale, ed era stato assorbito in forma modificata da
quello fascista del 1930. Per ‘plagio’ si intendeva la presunta situazione in cui
qualcuno sottomette “una persona al proprio potere in modo da ridurla in
totale stato di soggezione”. Rivolto in origine contro i casi di ‘schiavitù’, negli
anni ’30 il ‘reato’ aveva assunto connotazioni più ambigue. Come tanti articoli
del codice fascista, anche il 603 si prestava a interpretazioni diverse, e nelle
mani sbagliate poteva diventare uno strumento di repressione. Secondo
l’accusa i due studenti sarebbero stati in potere di Braibanti, tanto da essere
indotti a ‘odiare’ le loro famiglie, e da ridursi alla condizione di ‘schiavi’. La
stampa li definiva ‘i discepoli’.
I giornali parlavano apertamente dell’omosessualità di Braibanti, e il processo
non tardò a trasformarsi in un confronto sulla liceità nella sfera sessuale.
Braibanti era stato anche un militante comunista, incarcerato e torturato sotto
il regime per la sua attività antifascista. Il procedimento assunse subito il
carattere di una caccia alle streghe, e la stampa vi dedicò ampio spazio. Si
spulciavano i libri di Braibanti in cerca di contenuti ‘immorali’. Il processo
durò trentuno giorni.
Nella sua violenta arringa finale il pubblico ministero – Antonino Loiacono
– chiese una condanna a quattordici anni (si disse che equivaleva a una
sentenza per omicidio)62. Loiacono definiva Braibanti un esempio di
“degenerazione, di ossessione, di miseria morale... un fallito dal punto di vista
intellettuale. Non ha realizzato nulla. I suoi libri non si vendono... Meschino
genietto del male... Se voi, giudici, assolverete Braibanti gli darete la patente
per continuare a fare ciò che ha fatto finora: corrompere i giovani”63. Alle due
del mattino del 14 luglio 1968 Braibanti fu riconosciuto colpevole del ‘reato’
di ‘plagio’ e condannato a nove anni di reclusione. Fu un atto di ‘panico’ di
fronte a quello che molti consideravano il ‘declino morale’ degli anni ’60.
I giudici (in una sentenza di 177 pagine, che fu poi pubblicata come libro)
sostenevano che per avere in suo potere i due studenti Braibanti aveva fatto
uso di pressioni “culturali e sessuali”. Ci furono proteste in aula alla lettura
della sentenza. In appello, nel novembre 1969, ci fu un’altra arringa
violentemente omofobica, questa volta del celebre avvocato neofascista
ottantaduenne che rappresentava la famiglia Sanfratello64. La sentenza fu
ridotta a quattro anni, con un ‘compromesso all’italiana’ che consentì la
scarcerazione di Braibanti una settimana dopo la conclusione del processo
d’appello65. Fu comunque tenuto a sostenere le spese processuali e legali.
Braibanti tentò di farsi assolvere in Cassazione, ma nel 1971 la sentenza fu
confermata.
È vero che qualcuno a sinistra (in particolare il Partito comunista) esitò a
correre in difesa di Braibanti, ma il caso provocò comunque indignazione,
suscitando una campagna guidata dal Partito radicale. Il processo divenne una
causa celebre (così come le terapie psichiatriche imposte a Sanfratello), e
importanti intellettuali si schierarono con Braibanti – tra questi Elsa Morante,
Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. Nel 1969 uscì un libro a più mani, in
cui intervenivano tra gli altri Umberto Eco e lo psicologo Cesare Musatti. Nel
libro si sosteneva che quello di Braibanti era “non un caso giudiziario, ma
politico e civile”66. Nel 1981 la Corte costituzionale cancellò finalmente il
plagio dal codice penale. È ironico che a decidere per l’abrogazione avesse
contribuito il caso di un prete carismatico accusato dello stesso reato. Nel
1982 la sentenza penale di Braibanti fu annullata: fu l’unica persona
condannata per questo ‘reato’ specifico nella storia della repubblica italiana.
Il bizzarro caso Braibanti mise in luce il conservatorismo di vasti settori della
società italiana, e dell’intero sistema giudiziario. Si usavano ancora leggi
fasciste, fino a tutti gli anni ’70, per dare l’esempio. Il panico morale (e dopo il
1968 ce n’era tanto) si trasmetteva per mezzo dei tribunali e dei mezzi di
comunicazione. Braibanti fu un capro espiatorio – sia per le sue scelte sessuali
che per quelle politiche. In questo processo la combinazione dei due fattori fu
particolarmente micidiale.
Si parlò molto della lunga (per quei tempi) barba nera di Braibanti, durante il
primo processo. Come il processo a Coppi e Occhini e le indagini del 1966
sulla “Zanzara” (liceali indagati dalla polizia per aver pubblicato materiale
relativo alla vita sessuale dei giovani), il ‘caso’ Braibanti parve segnare la linea
di demarcazione tra un paese moderno e tollerante e una nazione
anacronistica, antiquata e rivolta al passato. Quei casi divisero gli italiani, e
smascherarono la natura reazionaria della macchina dello Stato e dei suoi
codici. Come scrisse Braibanti nel 1968, “il processo ha rivelato un’Italietta
vecchia di secoli, dietro a cui si nascondono velenosamente gli ultimi fascisti e
i più biechi reazionari”67.

Altre Italie negli anni ’60, ’70 e ’80


Di rado le riforme, per quanto estese, toccavano le strutture della politica dei
partiti – e delle reti clientelari ad esse connesse. Se i movimenti del ’68
miravano a influenzare, infiltrare, ribaltare e anche abolire molte delle
istituzioni pubbliche italiane, non dedicavano molta attenzione ai grandi
partiti politici e ai meccanismi che riproducevano il potere dello Stato. Nella
società stava avvenendo una rivoluzione, ma la presa dei partiti sulla macchina
statale, e l’influenza che ne derivava, continuavano a crescere. L’ombra del
partito democristiano, la ‘balena bianca’, copriva tutte le strutture politiche,
del Meridione come del Nord.
A Napoli, negli anni ’60, spadroneggiava la famiglia Gava, che controllava le
risorse, gestiva clientele e serbatoi elettorali, e poi le banche e le strutture di
pianificazione. Le opere pubbliche venivano costruite strategicamente intorno
alle scadenze elettorali. Il clan familiare dei Gava, capitanato dal potente
notabile democristiano Silvio, conquistò il controllo quasi assoluto di una
grande città attraverso il ricorso sistematico alle risorse pubbliche.
Nell’appendice al suo libro su Napoli, pubblicato nel 1973 in inglese e nel
1975 in italiano68, il sociologo britannico Percy Allum presenta liste
dettagliate delle posizioni di controllo occupate in diverse società, e mappe
che evidenziano il funzionamento del sistema elettorale a livello locale.
Un’immagine devastante – e veritiera.
Per tutto il periodo del loro predominio locale, che durò decenni, le opere
pubbliche furono legate alle esigenze politiche. Antonio Gava (figlio di Silvio)
si adoperò per la costruzione di un’autostrada lungo la costiera di Sorrento
(uno dei posti più belli d’Italia), un progetto a dir poco costoso, con una
sequenza di viadotti e gallerie. I napoletani non potevano far altro che
accettare le cose come stavano, sostenendo chi aveva più risorse da distribuire.
Ogni tanto scoppiava un tumulto, con un po’ di violenza urbana, ma in
genere non serviva a nulla. Come dichiarò un anonimo corrispondente,
“finché la principale espressione politica del malcontento popolare e
studentesco consisterà nelle sassate alla polizia non c’è molta speranza di
riforme serie”69.
Il potere della Democrazia cristiana in certe parti del Nord era pari a quello
esercitato su quasi tutto il Meridione. Antonio (‘Toni’) Bisaglia era
l’equivalente di Silvio Gava, ma la sua base era il Veneto. Nato a Rovigo nel
1929, Bisaglia era stato in seminario e poi, negli anni ’40 e ’50, aveva fatto
carriera nel movimento della gioventù cattolica. Costruì legami strettissimi
con le organizzazioni degli agricoltori, compresa la potente Coldiretti – che
nel 1948 contava oltre seimila sezioni locali cui facevano capo 711.000
famiglie, 2,3 milioni di iscritti70.
Con una base di potere come questa, Bisaglia era destinato a fare strada.
Dopo incarichi amministrativi locali, fu deputato o senatore dal 1963 alla sua
morte nel 1984. I grandi notabili democristiani come Bisaglia e i Gava erano
elementi di fatto permanenti nelle strutture di potere del dopoguerra. Solo la
morte, la pensione o uno scandalo imprevisto potevano minacciare il loro
controllo delle risorse e delle poltrone. L’Italia era una democrazia, ma
vincevano quasi sempre gli stessi. L’elezione era garantita.
Bisaglia fece la sua gavetta di portaborse del potentissimo politico veneto
Mariano Rumor (che avrebbe rinnegato a metà degli anni ’70). Poi occupò
una serie di poltrone ministeriali, le più redditizie in termini clientelari, nei
settori delle Partecipazioni statali (un veicolo perfetto per la distribuzione di
risorse e clientele, istituito nel 1956), dell’Agricoltura e dell’Industria. Bisaglia
non mostrò mai particolare interesse per le idee o le dichiarazioni pubbliche,
limitandosi a lavorare indefessamente dietro le quinte. In questo non si
distingueva da altri notabili democristiani: come diceva spesso, “Io sono un
moderato”71.
Secondo il giornalista Giampaolo Pansa, Bisaglia era “fino in fondo ‘uomo di
corrente’, gran manovratore di fazioni e capo lui stesso di un feudo
organizzato e potente”72. I pezzi grossi democristiani erano certi della
rielezione, ma avevano comunque bisogno di coltivare l’elettorato e i
sostenitori. Era facile retrocedere, nelle gerarchie delle risorse e del potere, e
c’era sempre qualche giovane pronto a prendere il tuo posto. Occorreva
tenere il passo del cambiamento. Di Bisaglia si elogiava la capacità di
comprendere le condizioni sociali locali del Veneto73. Sempre in giacca e
cravatta, con gli occhiali dalla grossa montatura tipici del periodo, Bisaglia
aveva anche tutto l’aspetto del democristiano.
Nelle elezioni del 1972 l’autorità di Bisaglia venne allo scoperto: circa
172.000 voti di preferenza. Le preferenze personali, assegnate accanto al voto
al partito, si traducevano in potere interno. Come altri potenti democristiani,
Bisaglia fu collegato a numerosi scandali, ma se la cavò senza danni. Come per
i Gava a Napoli, il potere locale e l’esigenza di spendere denaro pubblico (a
qualsiasi costo) portò spesso a opere pubbliche incomprensibili e rovinose. La
più nota, a proposito di Bisaglia, fu un altro progetto autostradale, la
cosiddetta Pi-Ru-Bi, che attraversa la provincia di Vicenza, e deve il suo
soprannome a tre politici, Flaminio Piccoli, Mariano Rumor e Bisaglia.
Sarebbe poi stata definita “l’autostrada più inutile d’Italia”. Patrick McCarthy
scrive che “la carriera di Bisaglia illustra in quale modo la DC manteneva il
potere... dirottando risorse pubbliche verso i suoi sostenitori”74. Nel
frattempo, non si teneva conto, o quasi, di esigenze fondamentali come la
salute, i servizi sociali, il lavoro.
Erano le esigenze dei politici, non quelle della gente, a determinare come
venivano spesi i soldi. I democristiani cercavano, e a volte perfino gestivano,
lo sviluppo, ma non modernizzarono il paese. Bisaglia si sposò relativamente
tardi, per essere un politico, solo un anno prima della sua morte in un bizzarro
incidente di barca. Non aveva figli, ma considerava suoi ‘figli’ due giovani e
promettenti esponenti del partito, Pier Ferdinando Casini e Marco Follini. Al
funerale di Bisaglia parteciparono tutti i notabili democristiani dell’epoca.

Colera: Napoli 1973


Nel 1973 Napoli fu paralizzata da un’epidemia di colera. Il fotografo e
giornalista Ferdinando Scianna, visitando la città, si pose una domanda molto
semplice: come poteva essere accaduto, in un paese apparentemente ricco
come l’Italia? L’inizio della risposta gli venne da una frase scritta su un muro:
“Il colera viene da Palazzo San Giacomo [il municipio]”. L’epidemia veniva
imputata ai politici, e la città era in fermento, percorsa da proteste e
manifestazioni. Scianna riuscì a intervistare un amministratore locale, il
democristiano Bruno Milanesi. Milanesi attribuiva il colera alle “cozze
importate dalla Tunisia” (si scoprì poi che era vero). Alcune delle zone più
povere della città vennero cosparse di disinfettante75.
I primi casi furono scoperti il 24 agosto 1973 a Torre del Greco. I media
piombarono sul posto, come avrebbero fatto anni dopo per la ‘crisi dei
rifiuti’76. Si diffondevano le leggende urbane: i limoni (che si riteneva
proteggessero dal contagio) non si trovavano più, o avevano prezzi
stratosferici. Molti non bevevano più l’acqua del rubinetto. Fu organizzato un
vasto programma di vaccinazione strada per strada (quasi 230.000 dosi)77.
C’era una certa reticenza (forse comprensibile) a usare la parola ‘colera’ – si
voleva evitare il panico – ma alla fine alle autorità non rimase altra scelta.
Ancora una volta Napoli veniva identificata con gli stereotipi del Sud: era
arretrata, caotica e pericolosa. Alla fine, quando l’epidemia fu contenuta, pare
che nessuno conoscesse con precisione il numero delle vittime: tra i dodici e i
ventiquattro morti, con circa un migliaio di ricoverati in ospedale. La malattia
fu diagnosticata con certezza in 127 casi. L’Italia era un paese moderno, ma i
suoi politici avevano intascato il malloppo invece di affrontare i problemi
strutturali e sociali di fondo del popolo. Nuovi disastri avrebbero posto in
ulteriore evidenza questa radicale frattura.

La nube tossica: Seveso


Era un sabato: 10 luglio 1976. Era scoppiato un incendio, e dalla fabbrica
dell’Icmesa si vide levarsi una nube bianca. La domenica la nube era ancora lì.
La fabbrica era a Seveso, un posto anonimo appena fuori Milano78. Si era
dispersa nell’aria un’enorme quantità di diossina – fortemente tossica. La
gente cominciava a star male: bruciore agli occhi e arrossamenti della pelle,
soprattutto i bambini. Il lunedì furono vietati i lavori agricoli. Il bestiame che
aveva mangiato erba inquinata cominciò a morire. Esplose il panico, ma ci
volle una settimana per prendere i dovuti provvedimenti (gli operai avevano
continuato ad andare in fabbrica, per dire). Il 24 luglio (due settimane dopo
l’incidente) fu finalmente imposta l’evacuazione. Per molti era troppo tardi. Si
parlò di ricorrere al napalm per distruggere la vegetazione della zona. I
bambini arrivavano in ospedale con la faccia coperta di bende79.
Si dovettero trasferire migliaia di persone. Le immagini del disastro erano
drammatiche – gente in tuta bianca e maschere antigas che ripuliva i campi,
bestie nate malformate. La zona fu circondata col filo spinato, con segnali che
vietavano l’accesso. Arrivò l’esercito. Si diffondevano spaventose affezioni
della pelle. Le donne incinte erano terrorizzate dai possibili effetti sui feti.
Oltre tremila bestie morirono nell’immediato, e decine di migliaia di capi
furono poi abbattuti per la strategia di contenimento. Seveso fu anche causa
diretta di un caso di violenza politica. Nel febbraio 1980 il gruppo terroristico
Prima linea assassinò Paolo Paoletti, un dipendente dell’Icmesa di Seveso.
Qualcosa di buono venne comunque da quell’orribile disastro. Seveso diventò
sinonimo di cattiva regolamentazione, un monito per le generazioni a venire.
Furono approvate leggi per la tutela dell’ambiente, e il caso contribuì anche a
modificare la normativa europea (le cosiddette direttive Seveso per il
contenimento delle sostanze pericolose nell’industria). Come in altri settori
della vita italiana, finalmente una riforma che tutelava l’ambiente, i dipendenti
e i residenti, oltre che la natura e gli animali, dall’inquinamento e dai danni
della crescita incontrollata.

Terremoto: Campania 1980


Nel 1980 un grave terremoto colpì l’area intorno a Napoli, e la stessa città.
Morirono quasi tremila persone, e 280.000 rimasero senza tetto. Fu un
disastro nazionale. Il terremoto dell’Irpinia arrivò alle 7,34 della sera del 23
novembre. Il presidente Sandro Pertini si recò a verificare l’andamento dei
soccorsi, e tenne poi un furibondo discorso alla televisione in cui criticava
l’inefficienza dello Stato e faceva esplicito riferimento agli abusi delle risorse
pubbliche avvenuti dopo il terremoto ‘del Belice’, in Sicilia, nel 1968. Pertini
chiedeva l’aiuto di tutti gli italiani, e concludeva affermando che “il modo
migliore di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi”. “Fate presto”,
strillavano le prime pagine dei giornali. I volontari correvano a Sud per
partecipare al lavoro di scavo, e per seppellire i corpi che giacevano sotto le
macerie e i calcinacci.
A dispetto dei tanti volontari, e delle forti parole di Pertini, non tardò a
configurarsi un altro disastro. Le organizzazioni criminali, e molti esponenti
delle clientele politiche che controllavano la zona, misero le mani sulle risorse
che venivano distribuite. Si costruirono orribili condomini, disintegrando e
disperdendo le comunità. Costose impalcature – noleggiate a caro prezzo –
spuntavano in tutta la regione, spesso senza alcuna giustificazione concreta.
Una catastrofe ecologica e umana che si aggiungeva agli effetti del terremoto –
una ricostruzione che fu invece un orrendo esempio di non-costruzione, o di
decostruzione. I terremoti del 1980 a Napoli e dintorni avevano rivelato la
pessima qualità di molti edifici. I controlli sulla sicurezza degli alloggi dopo le
scosse concludevano spesso che non erano adatti all’abitazione
indipendentemente dagli effetti del terremoto. L’illegalità e la mancanza di
pianificazione avevano esposto Napoli al disastro naturale.

Sangue e piombo: bombe, trame


e violenza politica in Italia, 1969-80
Gli anni ’60 e ’70 furono un tempo di riforma radicale e organica per tutte le
grandi istituzioni tecniche e sociali del paese: dalle scuole alle università, alle
‘case chiuse’, dai manicomi alle carceri, dalla famiglia al matrimonio, alla stessa
maternità. Alcune di queste riforme andarono più a fondo di altre, e certe
istituzioni sopravvissero al duplice attacco della modernità e degli ‘anni della
contestazione’ dei movimenti nati dal ‘maggio lungo’. In molti casi le riforme
furono sostenute da referendum che confermavano gli importanti
cambiamenti culturali avvenuti nel paese. Eppure, per molti storici questi
furono gli ‘anni di piombo’, indelebilmente macchiati dalla violenza politica.
Nelle prossime pagine cercheremo di capire perché sia il sangue e non la
riforma a dominare la memoria e la storiografia di quegli anni.
La storia d’Italia si riduce forse a un’unica vasta cospirazione? Dovremmo
forse riassumerla in un’enorme trama tessuta dietro le quinte? L’Italia è un
fantoccio, manovrato da un burattinaio? Le voci sui preparativi per un colpo
di Stato rimasero perlopiù a livello speculativo fino al 1967, quando il
settimanale “L’Espresso” uscì con un titolo di testa, sormontato
dall’immagine di un cappello da carabiniere: “14 luglio 1964. Complotto al
Quirinale. Segni e De Lorenzo preparavano il colpo di Stato”80. Erano accuse
gravi, riferite a fatti di tre anni prima. Si sosteneva che il generale Giovanni De
Lorenzo, ex comandante dei carabinieri, e l’ex presidente della Repubblica, il
democristiano Antonio Segni, avevano preparato un piano per sovvertire la
democrazia in Italia. Fu un colpo giornalistico sensazionale.
Il grande complotto politico, denominato comunemente Piano Solo,
sarebbe stato elaborato dal generale De Lorenzo con altri nel 1964. Ma di cosa
si trattava? De Lorenzo era stato anche capo del SIFAR, il servizio segreto
militare, dal 1962 fino alla sua dissoluzione in un’altra organizzazione nel
1965. Il ‘piano’ De Lorenzo somigliava molto alla prova generale di un colpo
di Stato – soprattutto se riferito all’eventualità di un’ascesa dei comunisti al
potere. Elencava i nomi dei militanti da rastrellare e internare in campi in
Sardegna, mentre le grandi città sarebbero state ‘occupate’ dai carabinieri. Si
seppe poi che il piano prevedeva anche l’occupazione della sede del Partito
socialista. De Lorenzo negò di averlo mai predisposto, e querelò i giornalisti e
il direttore dell’“Espresso”. In un primo momento furono condannati, a pene
detentive e pecuniarie, ma poi le accuse furono ritirate.
Per anni i giornalisti e le persone di sinistra presero familiarità con i tanti
acronimi riferiti alle diverse branche dei servizi segreti italiani: SIFAR,
SISME, SID – organizzazioni tanto potenti da essere considerate come una
sorta di ‘Stato segreto’, ‘clandestino’ o ‘doppio’. C’era poi l’interferenza
straniera negli affari italiani – NATO, KGB e altri servizi analoghi. In caso di
conflitto tra Oriente e Occidente, erano pronti ad intervenire corpi armati
paralleli. Gli atti di violenza, i complotti e le cospirazioni erano spesso
accompagnati da tentativi di depistare la polizia e la magistratura. I depistaggi
– coperture e falsi indizi – influenzavano l’opinione pubblica e provocavano
un dibattito costante intorno alle diverse teorie del complotto. Le verità e i
‘fatti’ addotti erano molti e diversi. Fu quasi impossibile arrivare a un
consenso su quanto era avvenuto, e perché.
Le voci sull’imminenza del colpo di Stato imperversarono in Italia per tutti
gli anni ’60 e ’70. Il golpe dei colonnelli in Grecia nel 1967, aggiungendosi
alla questione del Piano Solo, alimentò i timori di una ‘svolta autoritaria’. Era
diffusa la convinzione (soprattutto a sinistra) che le tattiche usate in Grecia
sarebbero state replicate in Italia, con esito analogo. In quel momento – con il
prevalere dei regimi autoritari in Grecia, Portogallo e Spagna – l’Italia era
l’unica democrazia rimasta nell’Europa meridionale. Nel 1969 l’editore di
sinistra Giangiacomo Feltrinelli pubblicò un opuscolo intitolato Estate 1969.
Era convinto che l’Italia stesse andando verso il colpo di Stato. “Già da alcuni
mesi”, scriveva, esisteva “un piano politico e militare preciso, volto ad
imporre al paese una radicale e autoritaria svolta a destra, un colpo di stato
all’italiana”81. Feltrinelli fu spesso deriso – all’epoca e dopo – e considerato un
visionario. Eppure, nel dicembre 1969 si verificò una serie di eventi non del
tutto estranei allo scenario da lui proposto. Il più grave avvenne a Milano, non
lontano dalla casa dell’editore.

12 dicembre 1969: la strage


Piazza Fontana e quel che ne seguì fu un evento che fece da cesura alla vita di tutta una generazione.
Ci fu un prima e un dopo.

Corrado Stajano82
Nel salone centrale della Banca... sul pavimento... che recava al centro un ampio squarcio, giacevano,
fra i calcinacci e resti di suppellettili, vari corpi senza vita e orrendamente mutilati, mentre persone
sanguinanti urlavano il loro terrore.

Testo della sentenza per piazza Fontana, 197983


Quel venerdì pomeriggio, il 12 dicembre 1969, la folla in centro a Milano era
tutta presa dalle spese di Natale. Nell’imponente salone della Banca Nazionale
dell’Agricoltura, a due passi dai grandi magazzini di piazza Fontana, si stava in
coda per depositare. Era così tutti i venerdì, per l’antico legame di Milano con
la campagna e la sua economia. Gli agricoltori erano perlopiù uomini di
mezza età, ma qualcuno era venuto con la famiglia. Era un momento di
tensione: in città i movimenti studenteschi e operai si andavano affermando, e
le recenti manifestazioni avevano portato a scontri con la polizia. In
novembre, non lontano da piazza Fontana, era morto un giovane poliziotto,
immigrato meridionale, Antonio Annarumma. I leader studenteschi che si
erano presentati al suo funerale furono costretti alla fuga per non subire
violenze. Le cose stavano prendendo una brutta piega.
Alle 4,37 del pomeriggio una terribile esplosione scosse l’interno della Banca
Nazionale dell’Agricoltura. L’immagine di quel che seguì somiglia alla guerra:
arti strappati sparsi tra i calcinacci nella sala buia e piena di fumo, cadaveri
ovunque. Al primo conteggio risultarono quattordici morti e quasi novanta
feriti. Altri due sarebbero morti nel gennaio 1970, e un certo Vittorio Mocchi
morì quattordici anni dopo a seguito delle complicazioni. Qualcuno subì
lesioni orrende, capaci di cambiare una vita. Un ragazzino di dieci anni perse
una gamba. Un prete, don Fioravanti, si trovava all’ingresso della banca
quando avvenne l’esplosione. Cercò di portare aiuto. “Mi è venuta incontro
una ragazza senza un braccio”, dichiarò alla stampa. “Con l’altro mi ha tirato
la tonaca: ‘Padre, ci aiuti’”84.
In quello stesso giorno, in Italia, furono piazzate altre quattro bombe (con
timer, borse ed esplosivi identici), tre a Roma e una in un’altra banca di
Milano, ma non ci furono altri morti. La bomba alla Banca Nazionale
dell’Agricoltura avrebbe preso il nome dal luogo, ‘piazza Fontana’. La prima
versione degli eventi ipotizzava l’esplosione di una caldaia, ma non si tardò a
parlare di ‘strage’: la strage di piazza Fontana. Altri si limitavano a citare la
data, il 12 dicembre.
Chi aveva compiuto quella carneficina, in tempo di pace, ai danni di persone
colpevoli solo di essere entrate in banca? Chi aveva piazzato quella bomba? La
polizia non aveva dubbi. Guardarono subito a sinistra e al movimento
anarchico. Pare che nei giorni successivi venissero fermati circa quattromila
attivisti di sinistra, e gli interrogatori procedevano giorno e notte in tutte le
questure d’Italia. Fu determinante, a quel punto, la fermezza della classe
operaia milanese, che scese in piazza compatta in una formidabile
manifestazione silenziosa per il funerale delle vittime. Il messaggio era chiaro:
non avrebbero rinunciato alla democrazia senza combattere.

Morte accidentale? Il caso Pinelli


Tra i fermati a Milano il 12 dicembre – nel giorno stesso dell’esplosione –
c’era Giuseppe ‘Pino’ Pinelli, un ferroviere quarantunenne, padre di due
figlie. Era un anarchico, ben noto alla polizia, ma non aveva precedenti penali.
Fu trovato che giocava a carte in un bar nella zona dei Navigli, e seguì la
macchina fino in questura sul suo motorino.
Pinelli fu trattenuto senza imputazione per tre giorni e tre notti (violando le
norme in vigore). Dormì pochissimo e fu interrogato in diverse riprese – non
adeguatamente documentate. Il 15 dicembre, intorno a mezzanotte, un
giornalista nel cortile della questura sentì il rumore di un tonfo: era Pinelli,
arrivato dalla finestra di un ufficio al quarto piano. Era caduto? Era stato
spinto? Si era buttato lui? Fu portato nell’ospedale più vicino, dove poco dopo
morì. A una conferenza stampa nella stessa notte la polizia dichiarò che Pinelli
si era suicidato, che esistevano pesanti indizi contro di lui, e che si era gettato
dalla finestra gridando “l’anarchia è morta!”.
Molti rifiutarono di crederci, e la versione della polizia fu presto smontata.
Pinelli fu esonerato da qualsiasi collegamento con la bomba. Un innocente era
morto dopo (o durante?) un interrogatorio illegale. Ma chi era responsabile di
quella morte? La colpa ricadde sul commissario che guidava le indagini, Luigi
Calabresi. Nel frattempo, il 15 dicembre un altro anarchico, Pietro Valpreda
(che faceva il ballerino) veniva arrestato a Milano con l’accusa di aver piazzato
la bomba nella banca. Protestò la sua innocenza, e fu tenuto in carcere per tre
anni senza processo (la legge sulla carcerazione preventiva fu modificata
appositamente per poterlo rilasciare). All’epoca i telegiornali dichiararono che
‘il colpevole’ era stato preso. Come Pinelli, anche Valpreda alla fine sarebbe
stato prosciolto, ma soltanto nel 1981.
Calabresi, intanto, era diventato l’oggetto di una campagna d’odio nella
stampa di sinistra. Giravano vignette in cui buttava persone dagli aeroplani,
senza paracadute. Le scritte sui muri lo chiamavano assassino. Calabresi finì
per querelare per diffamazione il giornale di sinistra “Lotta Continua”,
dandosi la zappa sui piedi in quanto il processo che seguì fu usato per
denunciare e interrogare chiunque fosse implicato nel caso Pinelli.
Il 17 maggio 1972 Luigi Calabresi fu ucciso con un colpo alla nuca davanti a
casa, a Milano, mentre si avviava a prendere l’auto. Nell’immediato le indagini
finirono in nulla. Ma nel 1988 un ex militante di Lotta continua confessò di
essere stato l’autista nel fatto del 1972, e accusò altri tre esponenti del gruppo
di aver compiuto, o approvato, l’omicidio. I tre si dichiararono innocenti, ma
alla fine furono condannati, dopo un procedimento interminabile (e circa
quindici sentenze diverse), nel 200085.
Piazza Fontana e il caso Pinelli favorirono la radicalizzazione di un’intera
generazione di militanti, molti dei quali già schierati nel movimento del 1968.
Un libro a più mani (che si dichiarava opera di ‘contro-informazione’)
pubblicato un anno dopo la bomba, puntava il dito contro una torbida
alleanza di cospiratori, neofascisti e agenti provocatori. Il titolo era forte,
esplosivo: Strage di Stato. Si sosteneva l’esistenza di una ‘strategia della
tensione’ che ricorreva alle bombe e ad altri atti di violenza per demolire la
democrazia e la sinistra. Si riproponevano i timori di un colpo di Stato in Italia
dopo quello greco, e i brutti ricordi del ‘Piano Solo’.
Le indagini ufficiali, e i processi che ne conseguirono, continuavano a
guardare a sinistra, nonostante la crescente evidenza del coinvolgimento dei
servizi segreti e dei neofascisti. Finalmente alcuni magistrati coraggiosi
cominciarono a indagare anche sull’estrema destra, decidendo di interrogare
uomini politici di primo piano. Dopo una serie di processi inconcludenti,
alcuni dei quali trasmessi per televisione, un’indagine davvero approfondita fu
possibile soltanto negli anni ’9086. Molti dei protagonisti erano ormai morti, e
l’opinione pubblica era molto meno interessata. Nonostante gli eroici sforzi di
diversi magistrati, alla fine nessuno venne condannato come esecutore o
mandante della strage. Sono stati digitalizzati a beneficio dei posteri circa
100.000 faldoni di documenti legali.
Dal 1972 si sono tenuti nove processi per piazza Fontana, con una
sconcertante varietà di imputati, testimoni e pubblici ministeri, e ogni genere
di elemento di prova. In uno di essi anarchici e neofascisti furono processati
insieme per lo stesso reato. Molti procedimenti furono spostati nel profondo
Sud, a Catanzaro, a mille chilometri da Milano: le autorità non volevano
tenere i processi nella città dov’era esplosa la bomba.
Nel frattempo si trascinava anche il caso Pinelli, l’anarchico caduto da una
finestra della questura di Milano – una questione distinta, ma collegata alla
strage. Qualcuno lo ha definito ‘la diciassettesima vittima’ della bomba.
Giornalisti e cineasti indagarono, in modo quasi ossessivo, sulla sua vicenda,
mentre la moglie Licia conduceva una lunga e dura battaglia per avere
giustizia. Dario Fo scrisse una pièce emozionante intitolata Morte accidentale di
un anarchico, che attingeva agli atti dei tribunali e alle notizie del giorno per far
satira sulle versioni più assurde fornite dalla polizia. La pièce era anche un
evento politico, e veniva aggiornata col procedere delle indagini. Finalmente,
nel 1975, dopo una lunga inchiesta giudiziaria (che vide anche il lancio di
manichini a grandezza naturale dalla finestra della questura, per verificare le
diverse teorie), lo Stato emise il suo giudizio. Pinelli era caduto
‘accidentalmente’ dalla finestra per un ‘malore attivo’. La decisione fu
ampiamente ridicolizzata, ma chiuse il caso – ufficialmente, quantomeno.
Oggi a Giuseppe ‘Pino’ Pinelli sono dedicate lapidi e targhe, a Milano e
altrove. È emblematico della controversia intorno a quella vicenda e della
memoria sempre viva di quegli eventi il fatto che in piazza Fontana, nel cuore
di Milano, coesistano due diverse commemorazioni: una targa, voluta dai
militanti nel 1977, dichiara sfrontatamente che Pinelli è stato “ucciso... nei
locali della questura di Milano” nel 1969; un’altra, poco distante, del 2006,
sostiene che Pinelli è morto accidentalmente. Una rappresenta la memoria
ufficiosa, l’altra una versione ufficiale, ma ambigua, del passato. Ognuna ha la
propria storia. Le due versioni parallele del medesimo evento – incise nel
marmo, di fronte al sito della bomba – sono un’efficace evidenza di come in
Italia la memoria rimanga divisa: per lunghi periodi, le guerre della memoria
hanno caratterizzato il conflitto sul passato nel presente.
Piazza Fontana e le sue conseguenze giudiziarie e politiche avrebbero
tormentato l’Italia per molti anni a venire. Ad ogni anniversario della strage,
soprattutto negli anni ’70, il centro di Milano veniva paralizzato da violente
manifestazioni. Ci furono altre tragedie. Il 12 dicembre 1970, primo
anniversario della bomba, lo studente Saverio Saltarelli fu ucciso durante gli
scontri da un lacrimogeno sparato a bruciapelo. Piazza Fontana aveva fatto
un’altra vittima. La bomba a Milano nel 1969 viene considerata un momento
di svolta, di ‘perdita dell’innocenza’, una macchia sul cuore della storia d’Italia.
La tensione creata da quella bomba, e dal caso Pinelli, sarebbe stata esacerbata
da quanto avveniva a Roma.

Il colpo di Stato: 1970


Meno di un anno dopo piazza Fontana, fu tentato un colpo di Stato. Era il 7
dicembre 1970. Gli eventi di quella notte sono sempre stati circondati dal
mistero87. Pare che gruppi di neofascisti si fossero assembrati nei punti
strategici di Roma, mentre al limite della città si schieravano reparti armati di
guardie forestali. Secondo alcune versioni, cinquanta neofascisti si
impossessarono di duecento fucili al ministero dell’Interno. Si disse che i carri
armati erano entrati in centro; e che erano coinvolti pezzi grossi della polizia e
dell’esercito, ed esponenti dei servizi segreti. Alcuni resoconti hanno elementi
farseschi, come l’ascensore che si blocca nel pieno dell’operazione.
C’era un piano, ovviamente. Innanzitutto i neofascisti avrebbero occupato la
sede centrale della Rai, da dove il capo – Junio Valerio Borghese – avrebbe
letto un proclama alla nazione. Avrebbe detto al popolo italiano che “gli
avversari più pericolosi, quelli che, per intendersi, volevano asservire la patria
allo straniero, sono stati resi inoffensivi. Italiani, lo stato che creeremo sarà
un’Italia senza aggettivi né colori politici. Essa avrà una sola bandiera: il nostro
glorioso tricolore!”88.
Borghese era stato un importante comandante militare del governo fantoccio
di Mussolini alla fine della guerra89. Riconosciuto colpevole di collaborazione
con i nazisti nel 1949, aveva però ricevuto una sentenza mite – dodici anni – e
fu deciso il suo rilascio immediato. Sfuggito alla giustizia, il ‘Principe nero’
non si ritirò dalla vita pubblica: si gettò a corpo morto nella politica
neofascista. Nel 1951 divenne presidente onorario del Movimento sociale
italiano, e nel 1968 partecipò alla fondazione di un’organizzazione estremista
chiamata Fronte nazionale. Gli eventi del dicembre 1970 a Roma vengono
spesso definiti il ‘golpe Borghese’90.
Non si sa come mai il golpe non sia andato in porto. Alcune versioni parlano
di una telefonata arrivata all’ultimo istante a Borghese, che annullava tutto.
Ma nessuno è mai riuscito ad accertare il motivo del passo indietro, né il
nome di chi fece la chiamata (se pure chiamata vi fu). Qualcuno disse gli
americani, qualcuno fece il nome di pezzi grossi democristiani, qualcuno
sostenne che si era trattato di una complicata trappola cui i neofascisti erano
sfuggiti per poco, rinunciando al golpe in extremis.
È però bizzarro che questo tentato colpo, o mezzo colpo, di Stato al centro
della capitale venisse di fatto ignorato. Soltanto quattro mesi dopo la notizia
divenne di dominio pubblico sulle pagine del quotidiano comunista “Paese
Sera”91. Il giornale lo mise in prima pagina: “Piano eversivo contro la
repubblica. Scoperto piano di estrema destra”92. Alle rivelazioni di “Paese
Sera” seguì subito una dichiarazione al Parlamento del ministro dell’Interno
Franco Restivo, che negò il tentativo di colpo di Stato, annunciando però
l’avvio di indagini su una serie di organizzazioni neofasciste. Per Borghese e
altri scattò l’ordine di arresto.
Da quel momento in poi, per lo Stato italiano Borghese divenne un latitante.
Riuscì comunque a passare la frontiera spagnola; morì a Cadice nel 1974. Un
complicato procedimento giudiziario si trascinò fino agli anni ’80 (e fu
riesumato nei ’90), ma si concluse senza condanne degne di nota. Sarebbero
poi emerse altre versioni che attribuivano un ruolo di favoreggiamento a
diverse organizzazioni criminali italiane. Ci furono verdetti che prendevano
gli eventi del dicembre 1970 molto sul serio, e altri secondo i quali non si
poteva parlare di un vero tentativo di presa di potere. Una sentenza del 1984,
per esempio, riduceva tutto a un “conciliabolo di quattro o cinque
sessantenni”93.
Nel 1973 Mario Monicelli fece un film liberamente ispirato al golpe
Borghese, con personaggi che mascheravano appena i protagonisti della vita
reale. Nel film la vicenda veniva presentata come un intrigo da comica, ma
c’era anche un lato oscuro: nel finale il timore di un possibile colpo di Stato
produce una vera recrudescenza repressiva. Il titolo era Vogliamo i colonnelli94.
Sull’onda di queste storie di complotti e congiure, la sinistra fu percorsa da
una sorta di ‘nevrosi del golpe’, aggravata negli anni ’70 dalle vicende cilene.
Dario Fo e sua moglie Franca Rame – attori, scrittori, artisti – soffiarono sul
fuoco di queste paure durante uno spettacolo a Torino nell’ottobre 1973,
appena sei settimane dopo il golpe di Augusto Pinochet in Cile. Il titolo
ufficiale dello spettacolo era Guerra di popolo in Cile. Gran pienone di pubblico,
circa 10.000 persone. In un momento preordinato gli attori cominciarono a
fingere che il golpe in Italia fosse avvenuto davvero. Pareva avessero tagliato le
linee telefoniche; dall’esterno si sentivano rumori di spari. Qualcuno dei
presenti ci cascò, e fu preso dal panico. La parte di Fo nella rappresentazione
consisteva nel fingere che erano tutte sciocchezze, il che non faceva che
aumentare la tensione nel pubblico. Pare che uno spettatore fosse arrivato a
mangiarsi dieci pagine dell’agenda95. Lo spettacolo nello spettacolo fu un
grande successo, ma Fo e Rame assumevano anche una posizione politica
molto seria in merito alla possibilità reale di un colpo di Stato, e ai modi per
opporre resistenza.

La rivolta di Reggio Calabria: 1970


Reggio capoluogo!
Slogan, Reggio Calabria, 197096
Quando finalmente, nel 1970, i governi regionali elettivi – previsti dalla
Costituzione del 1948 – vennero costituiti in tutta Italia, occorreva designare
un capoluogo per ogni regione. Non si trattava soltanto di una decisione
simbolica: in gioco c’era un flusso costante di risorse, poltrone, fondi pubblici
e influenza politica – tutte cose che da sempre contavano in modo particolare
per il povero Meridione. In Calabria il governo decise di conferire l’onore a
Catanzaro, più piccola ed economicamente meno importante della città
portuale di Reggio Calabria. Quanto alla nuova università – che alla Calabria
mancava ancora – la sede prevista era Cosenza, non Reggio.
La città maggiore insorse. La decisione sul capoluogo era in sospeso dagli
anni ’40, e in diversi momenti del dopoguerra c’erano state proteste, con
scioperi e blocchi stradali. Nel luglio 1970 si scatenò una ‘rivolta’ che non
tardò a riguardare molte altre cose oltre alla questione del capoluogo: povertà,
politica e antipolitica, orgoglio di campanile. In un primo momento le
proteste furono sostenute anche dal sindaco democristiano, ma poi la
direzione politica fu assunta dalla destra estrema. All’insurrezione
parteciparono interi quartieri, e per reprimerla furono impiegati migliaia di
poliziotti e carabinieri; l’esercito intervenne per tenere aperti i collegamenti
con la Sicilia. Spuntavano le barricate. Arrivati a Reggio, i treni si fermavano
indefinitamente. In tutta la regione, almeno otto persone morirono negli
scontri, che andarono avanti per mesi. Un uomo – Angelo Campanella,
quarantatreenne padre di sette figli, e unica fonte di sostentamento per la
famiglia (era un autista di bus) – fu ucciso dal proiettile di un carabiniere
mentre era affacciato al balcone. Dopo la sua morte la maggioranza dei figli
andò in affidamento. Poi, nel 1971 a Catanzaro, morì un manifestante
antifascista di nome Giuseppe Malacaria – probabilmente per una bomba o
granata artigianale lanciata nelle vicinanze della locale sede neofascista.
Su pochissime di queste morti (qualcuno per arma da fuoco, altri in
circostanze più misteriose, altri – poliziotti – presi a sassate) furono condotte
indagini adeguate. La violenza raggiunse presto livelli mai visti in Italia. In
alcuni quartieri fu imposta una specie di autogoverno, con tanto di posti di
blocco. Si intensificarono le rivalità municipali, e chi aveva la targa sbagliata
veniva insultato, e perfino aggredito. Ci furono attentati alle sedi dei partiti di
sinistra, e bombe piazzate o lanciate in tutta la regione. Si verificarono anche
sparatorie tra le forze dell’ordine e i dimostranti. Secondo lo storico Guido
Crainz, la rivolta fu “assolutamente unica per durata, ampiezza e radicalità”97.
Il regista Giovanni Bonfanti la documentò, raccogliendo le immagini
drammatiche di una città sotto assedio, la costruzione delle barricate, le
battaglie campali nelle strade, i soldati di guardia ai binari della ferrovia98.
Il movimento trovò presto un capo, alquanto improbabile: un neofascista di
nome Ciccio Franco, ex dirigente della confederazione sindacale di destra
CISNAL. Franco era un ometto calvo dal temperamento focoso. Ad un certo
punto entrò in clandestinità per evitare l’arresto. Poi rilasciò un’intervista
(barba lunga e scamiciato) alla celebre giornalista Oriana Fallaci, in cui
dichiarava che il suo “campione ideologico” era il filosofo francese Georges
Sorel, e il “campione politico” Mussolini99. Franco utilizzò (ma non fu lui a
coniarla) l’espressione “Boia chi molla”, lo slogan che diede il nome alla
rivolta.
Nelle elezioni politiche del 1972 il Movimento sociale italiano ottenne il
38,5 per cento dei voti nel collegio di Reggio Calabria (diventando il primo
partito), e Franco fu eletto al Senato: un risultato senza precedenti in città, e a
livello nazionale. Ma non fu semplicemente e soltanto una ‘rivolta fascista’. Il
movimento aveva radici e cause molteplici, e si prestava a molte
interpretazioni. I neofascisti erano stati abili nel prendere le redini di una
ribellione che era rivolta contro il sistema stesso dei partiti. Pupazzi con le
fattezze dei politici venivano impiccati ai cavi dell’elettricità. Come scriveva
un giornalista, “qui si sta verificando il distacco totale della popolazione dalla
classe politica”100. La posizione dell’MSI rispetto alla violenza era ambigua. In
Parlamento il partito difendeva l’‘ordine costituito’ e le istituzioni, in
particolare la polizia, ma a Reggio i suoi militanti erano in prima fila negli
scontri con la polizia medesima. Fu definita “doppio binario”, e ad essa il
partito si attenne per tutti gli anni ’70, e in una certa misura negli ’80.
Mentre la sinistra faticava a capire gli avvenimenti, molti dei partecipanti
cominciarono a vedere in comunisti e socialisti il nemico da combattere.
Nell’ottobre 1972 i sindacati organizzarono treni dal Nord a Reggio Calabria
per una grande manifestazione. Arrivò anche una nave da Genova. Fu una
giornata di tensione, con la minaccia costante di atti di violenza. Una serie di
esplosioni sulle linee ferroviarie non bastò a impedire l’arrivo dei manifestanti.
Un treno fu assalito durante il viaggio. Quel treno fu poi celebrato da una
canzone, da un romanzo, e da un documentario101. Alla fine si arrivò a un
compromesso: Catanzaro capoluogo e Reggio sede del Consiglio regionale.
Le proteste si andarono esaurendo e le barricate furono demolite dai blindati
(che la gente ricorda come ‘carri armati’). Ma nella memoria popolare, e nelle
strutture politiche e amministrative delle città interessate, rimase un profondo
senso di amarezza102.

Il milionario e il traliccio
Nel 1972 pareva che molti dei timori espressi da Giangiacomo Feltrinelli nel
suo opuscolo del 1969 avessero trovato conferma. La bomba di piazza Fontana
e il golpe Borghese sembravano dimostrare che ai livelli superiori dello Stato
italiano si tramavano piani sovversivi della democrazia. Feltrinelli stesso ebbe
un mandato d’arresto, ed entrò in clandestinità. Era ricchissimo (la famiglia
aveva ammassato una fortuna con il legname), ed era un editore di successo, e
d’avanguardia. Nel 1957 era riuscito a pubblicare la prima edizione del Dottor
Živago di Boris Pasternak, che divenne un best seller internazionale. Le
librerie di Feltrinelli erano spazi di innovazione – in una aveva messo perfino
un juke-box.
Ma Feltrinelli era convinto che la rivoluzione lo chiamasse. Prese contatto
con gruppi di sinistra a Genova e altrove, spostandosi tra la Svizzera, la
Cecoslovacchia, l’Austria e l’Italia. Cominciò a pensare alla resistenza – armata
– e insieme con ex partigiani costruì una rete di case sicure, simpatizzanti e
linee di comunicazione. In precedenza era diventato amico intimo di Fidel
Castro. Nel 1972 il cadavere di Feltrinelli fu ritrovato nei pressi di un traliccio
dell’alta tensione fuori Milano: un’esplosione gli aveva staccato una gamba.
Aveva appena quarantacinque anni. Molti ritenevano che fosse stato
assassinato ‘dallo Stato’. Il giornale di sinistra “Potere Operaio” emise un
comunicato: “Il compagno Feltrinelli è caduto da rivoluzionario in una
imboscata del nemico di classe”. La spiegazione più probabile è comunque
che Feltrinelli sia morto tentando di mettere una bomba per sabotare la
fornitura elettrica della città. La storia della sua vita è diventata materia di
leggenda; l’ha raccontata il figlio Carlo, in un bel libro intitolato Senior
Service103.

La strategia della tensione


Piazza Fontana fu soltanto la prima di una serie di ‘stragi’, nell’ambito di una
strategia della tensione che coinvolse i servizi segreti e le organizzazioni della
destra estrema. Il secondo grave attentato dopo la bomba di Milano avvenne a
Gioia Tauro in Calabria, dove un congegno esplosivo provocò il
deragliamento di un treno, e sei morti, nel luglio 1970. Nel 1972 a Peteano,
vicino a Gorizia, una bomba piazzata dai neofascisti in un’auto uccise tre
carabinieri. Un sedicente anarchico (ma su questo ci sono gravi dubbi) lanciò
una bomba nella folla in via Fatebenefratelli a Milano, davanti alla questura,
nel maggio 1973: quattro morti. A Brescia nel maggio 1974 una bomba
lasciata dai neofascisti in un cestino dell’immondizia in piazza della Loggia, in
pieno centro, fece otto morti e oltre cento feriti; in piazza, in quel momento,
si teneva una manifestazione antifascista104. Nello stesso anno, nella notte tra il
3 e il 4 agosto, scoppiò una bomba su un treno in una galleria fuori Bologna,
che uccise dodici persone, alcune bruciate vive dal calore estremo provocato
dall’esplosione. Nel 1984 un congegno molto simile avrebbe ucciso altre
sedici persone su un treno – la chiamarono ‘strage del rapido 904’, o ‘strage di
Natale’. Questi atti orrendi crearono rabbia, confusione e traumi; e ognuno di
essi fu seguito da lunghe, e spesso inconcludenti, indagini giudiziarie. Ma non
conseguirono il loro obiettivo primario: distruggere la democrazia italiana
imponendo un sistema politico repressivo, o comunque autoritario.

1977: un nuovo ’68?


I movimenti studenteschi e sociali riesplosero in tutto il paese nel 1977. In
molti casi furono battaglie politiche creative, impostate sul ‘personale’. Gruppi
con nomi come ‘indiani metropolitani’ organizzavano ‘happening’ e
assemblee, mobilitando gli studenti medi e universitari – la generazione
post-’68. In parte nascevano spontaneamente dalle stesse riforme prodotte dal
’68, in particolare l’apertura dell’università. Le stazioni radio pirata e
alternative divennero snodi fondamentali del dibattito e della produzione
culturale – alcune esistono ancora. Un altro spazio della politica alternativa
erano gli eventi musicali. Sorgevano comunità e comuni in sostituzione della
famiglia. Fioriva la stampa alternativa, in qualche caso estremamente
innovativa e originale (la rivista “Re Nudo”, per esempio). Ma c’era anche la
droga, ormai endemica – negli anni ’80 l’eroina provocò nelle città italiane i
morti di un’epidemia. Molti sperimentavano la psicoterapia individuale, altri
si rivolgevano alle religioni alternative. Altri reduci della sinistra di
movimento furono eletti in Parlamento o nelle amministrazioni locali, o
entrarono nei media. Qualcuno passò alla destra. I ‘veterani’ del ’68, e poi del
’77, avevano davanti a sé una miriade di possibilità.
Non tutti gli eventi del 1977 furono legati agli aspetti creativi e ‘personali’
della politica. Nella zona grigia tra la lotta armata e le forme più accese della
militanza si muovevano nuovi gruppi. Tra i tanti, Autonomia operaia, ispirato
dagli scritti e dall’attivismo di un docente di filosofia del diritto all’Università
di Padova, Antonio (Toni) Negri. L’Autonomia trovò modi nuovi di
organizzare la protesta. Costruiva consenso radicale intorno a temi come la
casa per tutti (con occupazioni e scioperi dei canoni), o organizzava scioperi
collettivi dei biglietti del tram, o invitava a pagare solo in parte le bollette
dell’elettricità o del telefono: una strategia che venne riassunta nel popolare
spettacolo di Dario Fo Non si paga! Non si paga!105. Gli attivisti occupavano gli
spazi abbandonati a causa della rapida deindustrializzazione o della
speculazione edilizia. Ne derivò il movimento dei ‘centri sociali’, che creò
all’interno delle città degli spazi culturali stimolanti, dedicati a ogni genere di
attività.
Il Partito comunista era riuscito quantomeno a comunicare con i movimenti
del ’68, portando in Parlamento le loro proposte di riforma, ma nel 1977 la
cosa si rivelò molto più difficile. A Bologna, città governata dai comunisti dal
1945, ci furono scontri violenti tra polizia e studenti. Nel marzo 1977 uno
studente di medicina, Francesco Lorusso, fu ucciso in strada da un colpo
sparato dai carabinieri. La magistratura decise poi che a sparare era stato un
carabiniere di leva ventunenne, Massimo Tramontani. Ma Tramontani non fu
condannato: il giudice stabilì che si era trattato di legittima difesa. Nel 1975
una legge d’emergenza (la cosiddetta Legge Reale) aveva esteso le facoltà di
ricorso alle armi da fuoco per polizia e carabinieri.
Poco dopo, nel luogo della morte di Lorusso fu collocata una targa: “I
compagni di Francesco Lorusso qui assassinato dalla ferocia armata di regime
l’11 marzo 1977 sanno che la sua idea di uguaglianza, di libertà e di amore
sopravvivrà ad ogni crimine. Francesco è vivo e lotta insieme a noi”106.
I fori dei proiettili della polizia sono stati conservati sotto plexiglas. La morte
di Lorusso lasciò un’eredità amara. Sui muri comparvero scritte come
“PCI=carri armati”. Alcuni militanti di Autonomia avevano il mito della
violenza, ed esaltavano l’uso delle pistole nelle manifestazioni. È significativo
che uno dei più celebrati (o vituperati, secondo i punti di vista) eventi del
1977 fu quando gli ‘autonomi’ impedirono al leader sindacale moderato
Luciano Lama di parlare all’Università di Roma. Per molti nel movimento
Lama, i sindacati e il Partito comunista in generale erano ‘i nuovi poliziotti’ –
parti integranti della macchina repressiva dello Stato.

Terrorismo all’italiana
Dopo piazza Fontana, e per tutti gli anni ’70, sia a destra che a sinistra ci fu chi
prese le armi. Erano convinti che certi obiettivi politici potessero essere
conseguiti con quella che chiamavano ‘lotta armata’. Negli ‘anni di piombo’
che seguirono, centinaia di persone rimasero uccise da diverse forme di
violenza politica. A sinistra, il più noto dei nuovi gruppi armati si definiva
‘Brigate rosse’; come simbolo aveva una stella a cinque punte inscritta in un
cerchio. Non va dimenticato, nel contesto, che il boom economico era finito,
e dopo il 1973 era cominciata l’austerity107.
Chi erano le Brigate rosse, e da dove venivano? I primi gruppi di sinistra
favorevoli alla violenza comparvero tra la fine degli anni ’60 e i primi ’70.
Quasi tutti venivano dai movimenti studenteschi o operai. Alcuni erano
comunisti (un gruppo a Reggio Emilia, per esempio), altri cattolici militanti
(una fazione uscita dal movimento studentesco a Trento). Piccoli gruppi
cominciarono a organizzare azioni violente a Milano, a Torino, a Genova.
Erano gruppi marginali, ma avevano una storia. Rossana Rossanda,
giornalista comunista, avrebbe poi ammesso che facevano parte dell’“album di
famiglia” della sinistra108. Il linguaggio e le tattiche della violenza
caratterizzavano il movimento già da anni: i cosiddetti ‘servizi d’ordine’ degli
studenti e delle organizzazioni di sinistra estrema non esitavano a usare la forza
per ‘controllare’ a modo loro le manifestazioni. Erano gruppi addestrati anche
a respingere gli attacchi dei neofascisti e a far fronte alla polizia nelle strade.
Il culto della violenza di classe si fondeva spesso con l’esaltazione di miti
come Che Guevara, la resistenza basca in Spagna, i Tupamaros
latinoamericani, e delle esperienze simili in Germania, Irlanda del Nord, e
Palestina. Furono in molti a giocare con l’idea della lotta armata, pochi quelli
che impugnarono le armi. Un fattore decisivo in questa scelta era dato proprio
dalla violenza di Stato: eventi come piazza Fontana interpretati come voluti –
e quantomeno coperti – dallo Stato o da parti della macchina statale. Molti si
ispiravano alla Resistenza antifascista, definendosi ‘nuovi partigiani’; qualche
vecchio partigiano ebbe effettivamente contatti con i nuovi movimenti, ma il
nesso vantato dai sedicenti ‘brigatisti’ era spesso pura fantasia.

“Colpiscine uno per educarne cento”


(le Brigate rosse)
Il giorno deciso partimmo in quattro. Io guidavo il furgone: aspettammo fino alle sei, ma Macchiarini
non si vedeva. Ce ne andammo, potevano notarci. L’indomani, era il 3 marzo del 1972, tornammo alla
stessa ora, verso le cinque, e posteggiamo il furgone a una decina di metri dalla sua macchina.

Alberto Franceschini, Brigate rosse109


Alla fine la loro preda arrivò; lo malmenarono e lo gettarono nel furgone, e si
dileguarono. Idalgo Macchiarini, la vittima, “aveva paura, non parlava”. Gli
fecero una fotografia, con tanto di pistole puntate e un cartello al collo che
diceva: “Brigate Rosse / Mordi e fuggi! / Niente resterà impunito! /
Colpiscine 1 per educarne 100! / Tutto il potere al popolo armato!”. Lo
slogan era in parte derivato da Mao. Uno dei brigatisti avrebbe poi raccontato
la sua versione della vicenda: “Dovevamo far capire che Macchiarini sarebbe
stato solo il primo di una lunga lista. Tutti, capi e capetti, dovevano sentirsi
nel nostro mirino, aver paura di girare da soli per le strade, vedere in ogni
operaio un nemico da temere e rispettare”110.
La foto divenne famosa. Macchiarini aveva davvero l’aria terrorizzata. Dopo
tutto, gli puntavano addosso due pistole, una ficcata nella guancia. E il cartello
appeso al collo... Fu comunque rilasciato. Ma chi era, e perché lui? Idalgo
Macchiarini era un ‘capetto’ alla Siemens di Milano. Fu il primo rapimento (e
il primo dei cosiddetti ‘sequestri lampo’) messo in atto da un’organizzazione
che si definiva Brigate rosse, un gruppo minuscolo che aveva optato per la
clandestinità e la violenza. Alcuni dei brigatisti erano stati o erano ancora
dipendenti Siemens, quindi conoscevano Macchiarini. Nella sinistra
extraparlamentare molti approvarono il sequestro. Un gruppo dichiarò: “Noi
riteniamo che questa azione si inserisca coerentemente nella volontà
generalizzata delle masse di condurre una lotta di classe anche sul terreno della
violenza e dell’illegalità”. Secondo un altro, “si tratta di azioni che portano un
segno di classe, proletario e comunista”111.
Il 12 febbraio 1973, a Torino, i brigatisti sequestrarono uno dei capi del
sindacato neofascista, un certo Bruno Labate, e lo raparono a zero, per poi
rilasciarlo dopo qualche ora. Come per Macchiarini, lo avevano aspettato
sotto casa e spinto in un furgone. Fu interrogato, poi lo lasciarono incatenato
a un palo di fronte ai cancelli dell’enorme fabbrica a Mirafiori. Era l’1,30 del
pomeriggio, ora del cambio turno. Molti operai furono dovutamente
impressionati; si disse che alle richieste di aiuto di Labate qualcuno replicò che
avrebbero dovuto ammazzarlo. Le Brigate rosse distribuirono un volantino in
cui accusavano la CISNAL di dividere la classe operaia, organizzando il
crumiraggio e spiando per i padroni. Il volantino si chiudeva con un volo
retorico: “fino alla completa liberazione delle nostre città... LOTTA
ARMATA PER IL COMUNISMO!”.
Nel dicembre 1973 un alto dirigente della Fiat, Ettore Amerio, fu rapito e
tenuto in prigionia per otto giorni: non era più un ‘sequestro lampo’. I
brigatisti si sentivano più sicuri, sia della propria capacità di effettuare queste
‘azioni’, sia – dicevano – del sostegno di cui godevano presso una parte degli
operai. Col tempo avrebbero intensificato le operazioni, con nuovi sequestri e
omicidi. Ci sarebbero stati altri morti.
I media si lasciavano incantare, e le Brigate rosse erano abili
nell’approfittarne a proprio vantaggio. Inventavano slogan e simboli solenni
per trasmettere il loro messaggio, sebbene comunicati e documenti
diventassero sempre più prolissi e astrusi. Distribuivano fotografie di pronto
impiego per la stampa – le tecniche usate dai professionisti della pubblicità112.
Nell’aprile 1974 le BR rivolsero le loro attenzioni allo Stato, sequestrando a
Genova un magistrato di nome Mario Sossi. A suo tempo Sossi aveva istruito
il processo contro un gruppo di sinistra. Era un obiettivo esposto, ma il suo
sequestro aumentò la posta in gioco. Ora si facevano richieste specifiche: la
liberazione dei detenuti a seguito di quel processo. Dopo la ‘sentenza di
morte’ emessa dalle BR, otto detenuti furono rilasciati, con tanto di
passaporto. Pareva che le Brigate rosse avessero la meglio, che lo Stato si fosse
arreso. Il 23 maggio Sossi fu liberato, illeso. Per le Brigate rosse fu una vittoria
di propaganda. In giugno ci furono i primi omicidi – due neofascisti a Padova.
I successivi processi confermarono la partecipazione di cinque brigatisti a
questa aggressione, che a loro dire era mirata a raccogliere materiali nella sede
del Movimento sociale. Per la prima volta le Brigate rosse si assumevano la
responsabilità di un omicidio.
Lo Stato non tardò a reagire. Si costituirono speciali reparti antiterrorismo, e
la gestione strategica fu affidata a un generale dal pugno di ferro. Si chiamava
Carlo Alberto Dalla Chiesa, e si era fatto le ossa nella Resistenza e nella guerra
alla mafia in Sicilia. Si tentò di infiltrare i gruppi militanti, favorendo le
testimonianze dei ‘pentiti’. La nuova strategia si rivelò vincente: nel settembre
1974 due dei capi delle Brigate rosse, Renato Curcio e Alberto Franceschini,
furono arrestati presso Torino a seguito di una soffiata. Curcio sarebbe presto
fuggito con una spettacolare evasione orchestrata dalla sua compagna (nella
vita e nelle BR) Margherita Cagol. Sia la Cagol che Curcio avevano
partecipato al movimento studentesco a Trento negli anni ’60. Nel 1975 la
Cagol rimase uccisa in una sparatoria in una cascina isolata nel Nord (ci fu chi
disse che le spararono dopo averla catturata).
Nel gennaio 1976 Curcio fu nuovamente arrestato a Milano. Il processo di
Torino ai capi delle Brigate rosse si aprì in un clima di violenza e
intimidazione. Non si riuscì a costituire una giuria per timore delle ritorsioni,
mentre gli imputati rifiutavano di riconoscere la corte e gli avvocati d’ufficio,
minacciando i pochi che accettavano l’incarico. Il primo fu Fulvio Croce,
presidente dell’ordine degli avvocati di Torino e veterano della Resistenza
antifascista. Nell’aprile 1977 Croce fu assassinato sulla porta del suo studio. Le
Brigate rosse rivendicarono l’omicidio. Nonostante tutto, comunque, i
processi si tennero, e le sentenze furono pesanti. Curcio sarebbe rimasto in
carcere per ventidue anni.
L’arresto e il processo di Curcio non furono la fine delle Brigate rosse; i
militanti rimasti a piede libero assassinarono ancora diverse persone, mirando
a colpire quello che definivano ‘il cuore dello Stato’. Il momento più
drammatico della loro storia, e uno dei più intensi del dopoguerra in Italia,
venne con un altro sequestro, più di sei anni dopo quello ‘lampo’ di Idalgo
Macchiarini. Le Brigate rosse ne avevano fatta di strada dalla loro prima
‘azione’ nel 1972. Questa volta l’obiettivo era noto a tutti, in Italia: era stato
presidente del Consiglio.

Cinquantacinque giorni a Roma


Il 16 marzo 1978 uno dei politici più potenti d’Italia, il pezzo grosso
democristiano Aldo Moro, fu rapito in pieno giorno nel centro di Roma.
Cinque uomini della scorta rimasero uccisi; lui fu preso vivo. Fu l’azione più
audace, e celebre, delle Brigate rosse. Moro fu tenuto in una celletta
all’interno di un appartamento (quasi certamente a Roma), e fu poi
interrogato da un sedicente ‘tribunale del popolo’. Il verdetto del ‘tribunale’ fu
traumatico: Moro fu condannato a morte.
Per cinquantacinque giorni la polizia e i servizi segreti non riuscirono a
trovarlo. Ci sono diverse spiegazioni per questo fallimento, tra le quali il forte
sospetto che qualcuno all’interno della macchina dello Stato sapesse bene
dov’era Moro. Le Brigate rosse, fedeli alla loro strategia mediatica, emisero
una serie di comunicati. Ci fu anche un messaggio falsificato, che portò alla
farsesca ricerca di Moro in un lago ghiacciato. Roma era paralizzata, posti di
blocco ovunque. L’Italia richiamava l’attenzione del mondo: Moro era un
personaggio internazionale. I politici erano divisi sulla strategia. Da un parte
democristiani e comunisti erano per la linea dura (che di fatto condannava a
morte Moro). Altri, in particolare il Partito socialista, volevano la trattativa, e
ci furono contatti con i sequestratori tramite intermediari.
Durante la prigionia Moro poteva disporre di carta e penna. Scrisse
numerose lettere, alla famiglia, ai colleghi e agli amici, oltre a un lungo
‘testamento’. Le Brigate rosse censurarono le lettere, e le utilizzarono per i
propri fini; qualcuna arrivò al destinatario, altre no. Col passare del tempo
assumevano un tono sempre più disperato e rabbioso. I suoi appelli al partito
indussero molti a sostenere che certe cose era stato costretto a scriverle,
oppure che era impazzito. Moro, si diceva, era “non più se stesso”113. Queste
lettere esplosive (e la sorte che attendeva il loro autore) avrebbero ispirato una
pletora di teorie del complotto e contro-storie negli anni a venire.
Dopo cinquantacinque giorni, nonostante i tanti appelli alla clemenza
(compreso quello del papa), le Brigate rosse eseguirono la sentenza di morte
come promesso. In un atto di sfida all’autorità e alla competenza dello Stato,
Moro fu ammazzato in un garage sotterraneo, e il suo corpo fu abbandonato
nel baule di una Renault 4 nel cuore di Roma, a metà strada tra le sedi
centrali del Partito comunista e della Democrazia cristiana. Gli italiani
esterrefatti videro alla televisione lo sportello aperto sul cadavere di Moro
accartocciato in fondo al baule.
Il ‘caso Moro’ divenne subito uno dei grandi misteri d’Italia. Ogni dettaglio
fu elaborato e discusso. Una serie di processi non bastò a fare chiarezza. Moro
era stato ammazzato (o lasciato morire) per ragioni politiche più vaste degli
obiettivi delle Brigate rosse? E soprattutto, la sua morte ‘conveniva’ perché era
stato sul punto di stringere un accordo con il Partito comunista? Ci furono
polemiche anche sulla presunta sparizione delle borse di Moro. Gli
appassionati di complotti ebbero abbondante materiale su cui lavorare,
compresa una serie di bizzarre coincidenze. Durante il sequestro un gruppo di
persone – tra le quali il futuro presidente del Consiglio, e della Commissione
Europea, Romano Prodi – partecipò a una seduta spiritica. Dichiararono poi
di aver udito la parola ‘Gradoli’. Uno dei covi romani delle Brigate rosse era in
via Gradoli – e fu ‘scoperto’ grazie a una perdita d’acqua provocata, pare,
intenzionalmente.

Due funerali, una salma


Il 13 maggio 1978 si tennero i funerali di Stato di Aldo Moro, ma la famiglia
rifiutò di partecipare: lo Stato era colpevole di non averlo liberato. La
decisione della famiglia corrispondeva ai desideri dello stesso Moro, che in
una lettera dalla prigionia al suo grande amico Benigno Zaccagnini aveva
scritto: “Per una evidente incompatibilità, chiedo che ai miei funerali non
partecipino né Autorità dello Stato né uomini di partito. Chiedo di essere
seguito dai pochi che mi hanno veramente voluto bene e sono degni perciò di
accompagnarmi con la loro preghiera e con il loro amore”. La famiglia
concludeva il proprio comunicato con una secca dichiarazione: “La famiglia si
chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro
giudicherà la storia”114. Moro era stato sepolto tre giorni prima, in un
minuscolo cimitero fuori dalla capitale.
Nonostante tutto, il funerale di Stato si tenne, a Roma, nell’immensa
basilica di San Giovanni in Laterano, con il papa e l’intera direzione della
Democrazia cristiana, e persino una bara, ma non la salma. Il papa fu
trasportato in chiesa in portantina. Le immagini di quel funerale senza morto
verranno poi utilizzate da Marco Bellocchio nel suo emozionante film sul
sequestro Moro, Buongiorno, notte. Nel film Bellocchio immagina che Moro
riesca a fuggire e si salvi: un finale alternativo che rinfocolava il trauma
nazionale delle vicende reali115.
L’assassinio di Moro segnò la svolta per le Brigate rosse, anche se sul
momento apparve come il loro maggiore trionfo. I brigatisti erano sembrati
onnipotenti e quasi intoccabili. Dopotutto, avevano rapito, detenuto e
ammazzato un potente uomo politico nel centro della capitale d’Italia, e
l’avevano fatta franca. Il senno di poi avrebbe però dimostrato che la decisione
di uccidere Moro fu un grave errore politico. Le Brigate rosse avrebbero ferito
e ucciso ancora, dopo il 1978, ma quel che restava del movimento si andò
progressivamente distaccando dal suo sedicente ‘braccio armato’. Il senso di
onnipotenza aveva isolato gli uomini e le donne delle BR dal mondo reale.
Erano evidentemente accecati dall’ideologia.
La disfatta di quella che – a sinistra – veniva chiamata la ‘lotta armata’ fu
dovuta a una serie di fattori. La crisi generale del movimento prosciugò il
‘mare’ in cui nuotava il ‘pesce’ terrorista, per citare la metafora di Mao. Lo
Stato aveva frattanto adottato una duplice strategia di repressione e forti
incentivi per i ‘pentiti’ che collaboravano con la giustizia. Una volta rotto il
muro del silenzio, i militanti furono presi uno a uno; li aspettavano molti anni
di carcere. Dietro le sbarre si distaccarono gradualmente dal movimento, e
solo pochissimi rimasero irriducibili. Le riforme carcerarie degli anni ’80
favorivano la reintegrazione nella società dopo il rilascio. Altri militanti
fuggirono all’estero. Per facilitare il processo, furono definiti legalmente i
diversi livelli possibili di ‘dissociazione’116. Ma la guerra dello Stato alla ‘lotta
armata’ fu anche violenza e repressione. Nel marzo 1980 quattro brigatisti
furono uccisi in un’irruzione dei carabinieri nel loro appartamento-covo a
Genova. Anni dopo le foto dell’irruzione furono rese pubbliche: mostrano le
pareti schizzate di sangue e una fila di corpi stesi nell’angusto corridoio: pochi
avevano fatto in tempo a vestirsi.
La stessa lotta armata contribuì alla propria sconfitta. La scelta dei bersagli
diventava sempre più difficile da spiegare al movimento. Negli anni ’70
furono assassinati magistrati che avevano indagato con coraggio sull’attività
neofascista (come Emilio Alessandrini, ucciso a Milano nel 1979), accademici
di economia e perfino un operaio di fabbrica. Guido Rossa era un emigrante
veneto arrivato a Genova (via Torino) negli anni ’60 per lavorare in una
grande industria siderurgica. Sposato, con una figlia adolescente, Rossa era
comunista e attivista sindacale. Nell’ottobre 1978 sorprese un uomo che
nascondeva volantini delle Brigate rosse in un distributore di bibite in
fabbrica, e andò dai carabinieri. Nel gennaio 1979, mentre saliva sulla sua 850
per andare al lavoro, gli spararono alle gambe; poi uno degli attentatori ritornò
sui suoi passi e gli sparò al cuore. Aveva appena compiuto quarantaquattro
anni, e morì con indosso la tuta da lavoro. Una fotografia lo mostra riverso sul
volante dell’auto. Al funerale andarono in tantissimi, molti con la bandiera
rossa spiegata117.
Anche parecchi giornalisti, molti di sinistra, furono assassinati o ‘gambizzati’.
Perché sparare proprio a questo tipo di persone? A suo tempo queste azioni
avevano goduto di una certa popolarità: i sequestri di giudici e capireparto, o
l’umiliazione dei fascisti. Ma lo spargimento di sangue aumentava, e si faceva
sempre più vicino a personalità vicine alla sinistra: il senso di far parte di una
lotta più generale si andava dissipando.
Coi primi anni ’80 la lotta armata era di fatto finita, anche se ci fu qualche
sporadico omicidio nei vent’anni successivi, soprattutto di persone impegnate
nella riforma del diritto del lavoro. La maggioranza degli ex terroristi scontò la
pena e uscì di prigione. Molti scrissero libri, e alcuni si reintegrarono
perfettamente nella società. Le vittime degli ‘anni di piombo’ vennero
perlopiù dimenticate, e per molto tempo l’attenzione si concentrò sui
colpevoli e le loro motivazioni. Le cose cambiarono con gli anni 2000, con
una serie di pubblicazioni e dibattiti sul ruolo, le vicende e le esperienze delle
vittime e dei loro familiari.
Due libri in particolare si segnalano su questo periodo, entrambi opera di
figli di persone uccise. Spingendo la notte più in là di Mario Calabresi (2007)
parla di suo padre Luigi, il funzionario di polizia che aveva arrestato Pinelli, e
che fu ucciso sulla porta di casa a Milano nel 1972: uno dei primi omicidi
politici degli anni ’70 in Italia118. Il libro di Calabresi è una ricostruzione lirica,
intima e dolorosa della morte del padre, della campagna denigratoria che
l’aveva preparata e delle sue conseguenze. È una chiamata (pacifica) alle armi:
perché le vittime della violenza sono state dimenticate?
Anche l’altro testo fondamentale è opera della figlia di una vittima. Walter
Tobagi, un brillante giornalista e scrittore, fu ammazzato – ancora a Milano –
da giovani sedicenti terroristi di sinistra nel 1980. La morte di Tobagi rimase
un mistero, e i suoi assassini, ‘pentiti’, scontarono pene leggere. Come mi batte
forte il tuo cuore di Benedetta Tobagi, uscito nel 2009, è uno straordinario
resoconto dell’omicidio del padre e dei processi che seguirono119. Letti
insieme, questi libri contribuirono a distogliere l’attenzione dei media da chi
aveva commesso gli atti di violenza. Si affermavano nuovi paradigmi della
memoria120.

I terroristi ‘neri’
Non fu soltanto la sinistra a prendere le armi; in quegli anni proliferava in
tutta Italia anche il ‘terrorismo’ neofascista. Dei 4384 atti di violenza politica
ufficialmente registrati tra il 1969 e il 1975, la stragrande maggioranza (circa
l’83 per cento) viene attribuita alla destra estrema121. Diversamente dalle
azioni delle Brigate rosse, le bombe dei neofascisti rientravano in una
‘strategia della tensione’. Anche a destra ci furono omicidi politici – di giudici
e altri – nonché pestaggi più casuali e occasionali di militanti di sinistra, a volte
con esiti mortali. Certe zone delle città erano di fatto controllate dai militanti
di destra, che si vestivano in modo particolare per distinguersi dagli avversari.
E non mancavano di punire gli ‘infami’ che tradivano, spesso all’interno delle
carceri.
Per tutto il dopoguerra una miriade di gruppi e associazioni si erano
regolarmente alternati sulla scena – Avanguardia nazionale, Fronte nazionale,
Ordine nuovo e così via. I neofascisti riuscivano ad attrarre i giovani alla causa
creando una controcultura che spaziava da J.R.R. Tolkien a certe forme di
musica, con stretti legami con il tifo sportivo. Una nuova generazione sentiva
il richiamo del neofascismo, e le sue idee si evolvevano per stare al passo coi
tempi. La scelta era spesso determinata da casi personali apparentemente
minori: Gianfranco Fini, futuro leader del Movimento sociale italiano,
raccontò che la sua militanza nella destra neofascista era iniziata quando i
contestatori di sinistra gli avevano impedito di vedere Berretti verdi con John
Wayne in un cinema di Roma. Altri aderivano per tradizione familiare, o
perché erano cresciuti in un quartiere particolare – tutte le grandi città erano
divise in zone a prevalenza nera o rossa – o per le passioni scatenate dalla
spirale di violenza che travolse Roma, Milano e altri luoghi.
Qualcuno prese le armi. Valerio Fioravanti era stato un bambino prodigio
della televisione, nella popolare serie La famiglia Benvenuti alla fine degli anni
’60. Si radicalizzò a Roma seguendo le orme del fratello Cristiano, motivato
anche dagli eventi cui aveva assistito. Alla fine degli anni ’70 i fratelli
Fioravanti costituirono con altri un piccolo gruppo, che esordì con
aggressioni contro obiettivi di sinistra. Il gruppo, che per qualche tempo si
chiamò NAR (Nuclei armati rivoluzionari), passò poi alle rapine a mano
armata per procurarsi armi e denaro. Una delle loro ‘azioni’ più controverse fu
un’irruzione armata nella sede di una stazione radio di sinistra, colpevole a
loro dire di aver insultato certi ‘martiri’ neofascisti. I NAR si trovarono di
fronte a un gruppetto di donne che preparavano una trasmissione femminista.
Finì tragicamente, col lancio di bottiglie Molotov nello studio (che,
prevedibilmente, prese fuoco) e la ‘gambizzazione’ di alcune delle donne.
I NAR non tardarono ad alzare la mira, puntando alle strutture dello Stato.
Nel giugno 1980 un magistrato, Mario Amato, che aveva indagato sul
terrorismo neofascista, fu ucciso con un colpo in testa in pieno giorno alla
fermata dell’autobus. Le foto del cadavere erano rese ancor più commoventi
dai buchi visibili nelle suole delle scarpe. L’assassino fuggì in moto. Amato
non disponeva di un’auto blindata perché, si disse, non entravano in servizio
prima delle 9 di mattina. Era stato pedinato diverse volte durante il mese
precedente per controllare le sue abitudini. Pare che Fioravanti, dopo aver
saputo che l’attentato era riuscito, abbia comprato “spumante, cozze e
ostriche” per una cena di celebrazione. I NAR emisero un volantino: “Oggi
23-6-1980, alle ore 8,05 abbiamo eseguito la sentenza di morte emanata
contro il sostituto procuratore Mario Amato. Oggi egli ha chiuso la sua
squallida esistenza imbottito di piombo. Altri, ancora, pagheranno”122.
I NAR uccisero parecchi poliziotti, e altri che avevano provato a contrastarli
– i proprietari delle armerie, per esempio. Pubblicavano rivendicazioni di
responsabilità retoriche ed eccessive, copiando molte delle tecniche usate dalle
Brigate rosse. E cominciarono anche ad assassinare i loro rivali all’interno della
destra neofascista. Il gruppo venne finalmente fermato per puro caso nel
febbraio 1981, quando una sparatoria nelle vicinanze di un deposito d’armi
presso un canale a Padova lasciò sul terreno due carabinieri, e Valerio
Fioravanti gravemente ferito. La sua compagna (nella vita e nei NAR)
Francesca Mambro chiamò un medico, che gli salvò la vita ma lo fece anche
arrestare.
Cristiano Fioravanti, sfuggito alla sparatoria sul canale, fu fermato nell’aprile
1981. Testimoniò contro i camerati terroristi, approfittando di un accordo
che lo tirò fuori dal carcere in meno di un anno. Il ‘tradimento’ colpiva anche
suo fratello Valerio, che ebbe otto ergastoli e rimase in galera per ventisei
anni. Un giornalista scrisse che “sono diventati Caino e Abele”123. Valerio
voleva uccidere suo fratello, ma non ne ebbe mai la possibilità. Si
incontrarono in occasione di parecchi processi, ma “non si guardano
nemmeno in faccia”124. Altri membri del gruppo rimasero uccisi in scontri
con la polizia. Molti esperti ritengono che i NAR e altri gruppi neofascisti
fossero protetti da settori dello Stato e dei servizi segreti, che li usavano anche
per commettere delitti considerati politicamente importanti nell’ambito della
‘strategia della tensione’.
Gli ‘anni di piombo’ volgevano alla fine, ma la ‘strategia della tensione’
provocava ancora lutti e sofferenza. La strage peggiore di tutte avvenne
nell’agosto 1980 a Bologna, una città ‘rossa’ governata dal Partito comunista.
L’obiettivo era la stazione ferroviaria.

Bologna: 2 agosto 1980


Una visione da apocalisse.
Un testimone dopo l’esplosione della bomba
a Bologna, 1980125
Alle 10,25 della mattina del 2 agosto 1980 la sala d’attesa della stazione era
piena di persone in partenza per le vacanze. Fu allora che esplose la bomba,
che spazzò via la sala e demolì una parte della stazione. Morirono in ottanta
(avevano dai tre agli ottant’anni), e vi furono duecento feriti, compresi
parecchi passeggeri dei treni fermi in stazione. Per molti Bologna era stata
scelta per i suoi antichi legami con la sinistra e il Partito comunista. ‘Bologna
rossa’ era un simbolo, e non soltanto per il popolo italiano. La città reagì
all’oltraggio con vigore. Per tutta la giornata un autista, Agide Melloni, fece la
spola col suo autobus tra la stazione e l’obitorio per trasportare i morti.
L’autobus rimase in servizio per anni dopo la tragedia. Subito dopo
l’esplosione, i taxi per spostarsi in città correvano gratis.
Nel caso di Bologna – diversamente dalle altre ‘stragi’ degli anni ’70 e ’80 –
si giunse a una sentenza definitiva. Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e
un altro esponente dei NAR, Luigi Ciavardini, furono condannati nel 1995
per la bomba alla stazione di Bologna del 1980. Hanno sempre negato di aver
partecipato a questa azione specifica, e le opinioni sulla loro colpevolezza sono
discordanti. Se pure ci fu qualcuno che ordinò la strage dall’alto, non è mai
stato scoperto, né tantomeno processato. Altri sono stati condannati per aver
depistato le indagini o organizzato coperture. La bomba di Bologna è rimasto
l’attentato terroristico con il numero maggiore di morti in Europa fino alle
bombe sui treni di Madrid del 2004. La targa commemorativa principale sulla
stazione la proclama esplicitamente come ‘strage fascista’.
Oggi il ricordo della ‘bomba di Bologna’ è affidato a una profonda fessura nel
muro, un orologio fermo e una buca nel pavimento, oltre alle numerose
targhe. L’autobus di Melloni (il 37) è diventato uno dei simboli della risposta
collettiva alla bomba, ed è attualmente conservato in un museo126. Dal 1980 si
tiene una grande manifestazione ad ogni anniversario della strage, organizzata
dall’Associazione dei familiari delle vittime, instancabile nella ricerca della
verità e della giustizia, e nello sforzo per mantenere vivo il ricordo.
L’associazione ha sede a Bologna: una parete è coperta da orologi ricevuti in
dono nel corso degli anni: sono tutti fermi alle 10,25. Anche alla stazione c’è
un orologio sempre fermo a quell’ora, in memoria delle vittime del 2 agosto
1980.

Rivoluzione, riforma e sangue


Gli anni ’60 e ’70 furono un tempo di crisi sanguinosa, ma anche di proteste
radicali e innovative, e di riforme strutturali. Fu un periodo di fermento in
tutte le dimensioni della vita. Le scuole, i manicomi, le carceri e perfino le
famiglie erano cambiate. Ma le forze contrarie al cambiamento democratico
erano potenti, e si lasciarono dietro una scia di morte e distruzione.
L’incapacità di rendere giustizia alle vittime della ‘strategia della tensione’ e di
altre forme di violenza segnò nel profondo la repubblica, minacciando di
inficiare la legittimità stessa del sistema politico. La partecipazione diretta
dello Stato ad alcuni di quei delitti rimane una delle grandi questioni aperte
del dopoguerra. La democrazia sopravvisse, ma la rappresentatività della classe
politica ne fu fatalmente compromessa. L’Italia aveva modernizzato le sue
istituzioni e il sistema giudiziario, ma quei cambiamenti ebbero un costo
altissimo.
1
Ugo Cerletti, La fossa dei serpenti, “Il Ponte”, V, 11, 1949, p. 1373.
2
Luciano Della Mea (a cura di), Manicomio 1914. Gentilissimo Signor Dottore, questa è la mia vita,
Milano: Mazzotta, 1978; v. anche Cristina Crippa, Storia di Adalgisa Conti, in Luigi Attenasio, Fuori
norma. La diversità come valore e sapere, Roma: Armando, 2000, pp. 326-37.
3
Franco Pierini, Se il matto è un uomo, “L’Europeo”, 24 agosto 1967.
4
Nicola d’Amico, Storia e storie della scuola italiana: dalle origini ai giorni nostri, Bologna: Zanichelli,
2010.
5
Don Milani (Scuola di Barbiana), Lettera a una professoressa, Firenze: Libreria Editrice Fiorentina,
1967.
6
Ibid.
7
Ibid.
8
La lettera, I preti e la guerra, fu pubblicata sul periodico del Partito comunista “Rinascita” il 6 marzo
1965, e in forma di opuscolo con l’aggiunta di alcuni documenti, L’obbedienza non è più una virtù.
Documenti del processo di Don Milani, Firenze: Libreria Editrice Fiorentina, 1965.
http://www.liberliber.it/mediateca/libri/m/milani/l_obbedienza_non_e_piu_una_virtu/html/milani_d.htm
(accesso 24 gennaio 2017).
9
Mario Lodi, Il paese sbagliato. Diario di un’esperienza didattica, Torino: Einaudi, 1970, p. 16, e C’è
speranza se questo accade al Vho, Torino: Einaudi, 1972.
10
Lodi, Il paese sbagliato, p. 19.
11
Ivi, p. 21.
12
Ivi, p. 23.
13
Elvio Fachinelli et al. (a cura di), L’erba voglio. Pratica non autoritaria nella scuola, Torino: Einaudi,
1971, p. 13.
14
Ivi, p. 33.
15
Si veda anche la serie di film di grande successo iniziata con Notte prima degli esami di Fausto Brizzi
(2006).
16
Sul liceo classico v. Antonio La Penna, Il liceo classico, in Mario Isnenghi (a cura di), I luoghi della
memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Roma-Bari: Laterza, 1996, pp. 197-213; Adolfo Scotto di
Luzio, Il liceo classico, Bologna: Il Mulino, 2011. Come per tante altre riforme degli anni ’60 e ’70, i
provvedimenti ‘urgenti’ del 1969 dovevano essere ‘temporanei’ – rimasero comunque in vigore fino
agli anni ’90.
17
La cosa fu resa possibile anche dalla battaglia combattuta a suo tempo nell’Assemblea costituente;
v. Molly Tambor, The Lost Wave: Women and Democracy in Post-War Italy, Oxford: Oxford
University Press, 2014, pp. 141-68.
18
Una lettera della giornalista al direttore Tommaso Giglio: la sua gioia per il “No” delle donne, “L’Europeo”,
21, 1974, ora in L’Italia degli anni Settanta, “L’Europeo”, 2, 2004, pp. 244 e 246.
19
Cit. in Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica: l’Italia dal 1943 al 2003, Bologna: Il Mulino,
2006, p. 267. Pier Paolo Pasolini, Gli italiani non sono più quelli, “Corriere della Sera”, 10 giugno
1974.
20
John Pollard, Catholicism in Modern Italy: Religion, Society and Politics since 1861, London:
Routledge, 2008, p. 149.
21
Ivi, p. 150. Il numero annuo dei matrimoni calò da oltre 385.000 nel 1970 a 194.000 nel 2015,
con un incremento costante delle separazioni e dei divorzi (rispettivamente più di 86.000 e 54.000
nel 2008). Nel 2010 il 25 per cento dei matrimoni si era concluso con un divorzio, nonostante le
difficoltà e i costi della procedura. Nel 2015 furono introdotte modifiche per renderla più semplice
e meno costosa. Seguì ovviamente una corsa al divorzio.
22
Sono evidenti le contraddizioni tra diverse clausole, e persino all’interno delle stesse; Diana
Vincenzi Amato, La famiglia e il diritto, in P. Melograni (a cura di), La famiglia italiana dall’Ottocento a
oggi, Roma-Bari: Laterza, 1988, pp. 667-69.
23
Ivi, p. 667.
24
Ivi, p. 671.
25
Ivi, p. 675.
26
Legge n. 66, 9 febbraio 1963; Giovanni Bianconi, Toghe con le gonne. La rivincita, “la Repubblica”,
27 gennaio 2013.
27
http://timeforequality.org/dossier-la-giudice/donne-e-magistratura-in-italia (accesso 24 ottobre
2017).
28
La Iotti aveva fatto parte anche dell’Assemblea costituente nel 1946.
29
Sull’idea dell’‘operaio massa’, v. John Foot, Mass Cultures, Popular Cultures and the Working Class in
Milan, 1950-1970, “Social History”, 24:2, maggio 1999, pp. 43-4; Nanni Balestrini e Primo
Moroni, L’orda d’oro, 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale,
Milano: Feltrinelli, 2015; Antonio Negri, Dall’operaio massa all’operaismo sociale. Intervista
sull’operaismo, Milano: Multhipla edizioni, 1979; Raniero Panzieri, Lotte operaie nello sviluppo
capitalistico, Torino: Einaudi, 1976; Mario Tronti, Operai e capitale, Torino: Einaudi, 1966.
30
Statistiche da http://archivio.fiom.cgil.it/autunno69/autunno_caldo.htm (accesso 1° febbraio
2017). Lo Statuto dei lavoratori è la Legge n. 300, 20 maggio 1970. Sull’‘autunno caldo’ v. Roberto
Franzosi, The Puzzle of Strikes: Class and State Strategies in Postwar Italy, Cambridge: Cambridge
University Press, 1995.
31
Elio Petri, La classe operaia va in paradiso, 1971.
32
Eleanor Chiari, Undoing Time: The Cultural Memory of an Italian Prison, London: Peter Lang, 2012,
p. 89.
33
Giulio Salierno e Aldo Ricci, Il carcere in Italia. Inchiesta sui carcerati, i carcerieri e l’ideologia carceraria,
Torino: Einaudi: 1971, p. 440. V. anche, sul tema generale, Christian G. De Vito, Camosci e
girachiavi. Storia del carcere in Italia, Roma-Bari: Laterza, 2009. V. anche Giulio Salierno, Autobiografia
di un picchiatore fascista, Torino: Einaudi, 1976.
34
De Vito, Camosci e girachiavi; Monica Galfré, Se vuoi conoscere un paese visitane le prigioni, “Passato e
Presente”, 80, 2010, pp. 153-64.
35
John Dickie, Mafia Republic. Cosa Nostra, camorra e ’ndrangheta dal 1946 a oggi, Roma-Bari: Laterza,
2014, p. 309.
36
Ivi, p. 217.
37
Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, Torino: Einaudi, 1967; Ronald D. Laing, L’io diviso,
Torino: Einaudi, 1969; Frantz Fanon, I dannati della terra, Torino: Einaudi, 1961.
38
Contro l’università, “Quaderni Piacentini”, 33, 1968, ora in Marco Boato et al. (a cura di), Contro
l’università, Milano: Mimesis, 2008, pp. 77-113. Su Guido Viale v. anche Luisa Passerini, Autoritratto
di gruppo, Firenze: Giunti, 1968, pp. 115-21.
39
V. il mio Looking Back on Italy’s “Long 1968”: Public, Private and Divided Memories, in Ingo Cornils e
Sarah Waters (a cura di), Memories of 1968: International Perspectives, Oxford: Peter Lang, 2011, pp.
126-27, e Alessandro Portelli, The Battle of Valle Giulia: Oral History and the Art of Dialogue, Madison,
WI: University of Wisconsin Press, 1997.
40
Luigi Longo, Il movimento studentesco nella lotta anticapitalistica, “Rinascita”, 3 maggio 1968.
41
“Rinascita”, 7 giugno 1968, pp. 3-4. Secondo Amendola, i comunisti dovevano combattere
contro il capitalismo e contro il movimento studentesco.
42
Cit. in Stuart Hilwig, Are You Calling Me a Fascist? A Contribution to the Oral History of the 1968
Italian Student Rebellion, “Journal of Contemporary History”, 36:4, 2001, p. 590.
43
25 aprile 1945-25 aprile 1962, “Quaderni Piacentini”, aprile 1962; cit. anche in Passerini,
Autoritratto di gruppo, p. 48.
44
Sorbi era con un gruppo di studenti. Più avanti sarebbe diventato un antiabortista militante.
45
Alexander Vasudevan, Metropolitan Preoccupations: The Spatial Politics of Squatting in Berlin,
Chichester: Wiley-Blackwell, 2015, p. 70.
46
http://www.gazzettadiparma.it/news/parma/96049/Occupazione-del-Duomo-45-
anni-dopo.html (accesso 24 ottobre 2017).
47
Don Mazzi, cit. in Storia d’Italia: cronologia 1815-1990, Novara: Istituto Geografico De Agostini,
1991, p. 657.
48
Gabriella Sobrino e Francesca Romana de’ Angelis, Storie del Premio Viareggio, Firenze: Mauro
Pagliai, 2008, pp. 84-5.
49
Edmondo Bruti Liberati, L’Associazione dei magistrati italiani, in Edmondo Bruti Liberati e Luca
Palamara (a cura di), Cento anni di Associazione Magistrati, Assago: Editore Ipsoa, 2009, p. 18;
http://www.associazionemagistrati.it/allegati/cento-anni-di-associazione-magistrati.pdf (accesso 24
ottobre 2017).
50
Lettere dalle case chiuse, Milano-Roma: Avanti!, 1955.
51
http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/franca-viola (accesso 24 gennaio 2017).
52
Damiano Damiani, La moglie più bella, 1970.
53
Niamh Cullen, The Case of Franca Viola: Debating Gender, Nation and Modernity in 1960s Italy,
“Contemporary European History”, 25:1, 2016, pp. 97-115 (p. 114); Maria Pia di Bella, Dire o
tacere in Sicilia. Viaggio alle radici dell’omertà, Roma: Armando, 2011, pp. 167-85.
54
Perry Willson, Women in Twentieth-Century Italy, London: Palgrave, 2010, p. 153.
55
Maud Bracke, Women and the Reinvention of the Political: Feminism in Italy, 1968-1983, London:
Routledge, 2014, p. 67.
56
Ivi, p. 110.
57
Ivi, p. 5.
58
Ivi, p. 198.
59
Maria Linda Odorisio et al. (a cura di), Donna o cosa? I movimenti femminili in Italia dal Risorgimento a
oggi, vol. I, Torino: Edizioni Milvia, 1991, p. 189.
60

http://www.repubblica.it/cronaca/2016/10/20/news/medici_obiettori_ecco_i_dati_regione_per_regione-
150182589 (accesso 24 ottobre 2017).
61
Gabriele Ferluga, Il processo Braibanti, Torino: Silvio Zamorani Editore, 2003, p. 49.
62
Ivi, p. 84.
63
Ivi, pp. 84-5.
64
L’avvocato, Alfredo De Marsico, era stato deputato fascista negli anni ’20 e ’30, e membro del
Gran consiglio del fascismo. Derideva Braibanti definendolo “un povero di mente che si dà l’aria di
un pensatore rivoluzionario ma non ha la forza di rivoluzionare nemmeno una piccola colonia delle
sue formiche”; cit. in Ferluga, Il processo Braibanti, p. 253.
65
Paolo Gambescia, “l’Unità”, 29 novembre 1969, cit. in Ferluga, Il processo Braibanti, p. 255.
66
Alberto Moravia, Umberto Eco, Adolfo Gatti, Mario Gozzano, Cesare Luigi Musatti e Ginevra
Bompiani, Sotto il nome di plagio, Milano: Bompiani, 1969, p. 13.
67
Ferluga, Il processo Braibanti, p. 247.
68
Percy Allum, Politics and Society in Post-War Naples, Cambridge: Cambridge University Press,
1973; Ead., Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Torino: Einaudi, 1975.
69
Allum, Politics and Society in Post-War Naples, p. 333.
70
Mario G. Rossi, Da Sturzo a De Gasperi. Profilo storico del cattolicesimo politico nel Novecento, Roma:
Editori Riuniti, 1985, p. 199.
71
Giampaolo Pansa, Bisaglia, una carriera democristiana, Milano: SugarCo, 1975, p. 89;
http://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-bisaglia_(Dizionario-Biografico) (accesso 24 gennaio
2017).
72
Pansa, Bisaglia, una carriera democristiana, p. 117.
73
Patrick McCarthy, The Crisis of the Italian State: From the Origins of the Cold War to the Fall of
Berlusconi and Beyond, London: Macmillan, 1997, pp. 68-71.
74
Ivi, p. 70.
75
Ferdinando Scianna, Parla Napoli: il nostro colera, “L’Europeo”, 1973, n. 39, ora in L’Italia degli anni
settanta, “L’Europeo”, 2, 2004, pp. 138-44.
76
Sul modo in cui Napoli viene rappresentata nei media, e su molto altro, v. Nick Dines, Tuff City:
Urban Change and Contested Space in Central Naples, New York: Berghahn, 2012; e Id., Writing
Rubbish about Naples: Urban Trash and the Post-Political Condition, in Christoph Lindner e Miriam
Meissner (a cura di), Global Garbage: Urban Imaginaries of Waste, Excess, and Abandonment, London:
Routledge, 2015, pp. 117-31; Bad News from an Aberrant City: A Critical Analysis of the British Press’s
Portrayal of Organised Crime and the Refuse Crisis in Naples, “Modern Italy”, 18:4, 2013, pp. 409-22.
77
Stella Cervasio, Il colera 40 anni dopo. I giorni della paura. Repubblica racconta attraverso le voci dei
protagonisti la tragedia moderna di quell’agosto del 1973: il vibrione, l’epidemia, le vittime, la reazione della
città, “la Repubblica”, 25 agosto 2013,
http://napoli.repubblica.it/cronaca/2013/08/25/news/il_colera_40_anni_dopo_i_giorni_della_paura-
65240129 (accesso 24 ottobre 2017).
78
Laura Conti, Visto da Seveso. L’evento straordinario e l’ordinaria amministrazione, Milano: Feltrinelli,
1977; Una lepre con la faccia di bambina, Roma: Editori Riuniti, 1978; Bruno Ziglioli, La mina vagante.
Il disastro di Seveso e la solidarietà nazionale, Milano: Franco Angeli, 2010. V. anche il film di Gianni
Serra, Una lepre con la faccia di bambina (1988).
79
Nullo Cantaroni, L’Italia è un paese cavia, “L’Europeo”, 32, 1976.
80
“L’Espresso”, XIII, 20, 14 maggio 1967.
81
Giangiacomo Feltrinelli, Estate 1969. La minaccia incombente di una svolta radicale e autoritaria a destra,
di un colpo di Stato all’italiana (1969), Milano: Feltrinelli, 2012, p. 5.
82
Introduzione a Marco Nozza, Il pistarolo. Da Piazza Fontana, trent’anni di storia raccontati da un grande
cronista, Milano: Il Saggiatore, 2011, p. 10.
83
Cit. in Giorgio Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969, il giorno dell’innocenza perduta, Torino:
Einaudi, 1999, pp. 7-8.
84
Ivi, p. 14.
85
Una ricostruzione alternativa del caso è in Carlo Ginzburg, Il giudice e lo storico, Torino: Einaudi,
1991.
86
Ne risultò una serie ulteriore di processi, che si avvicinò alla verità ma faticò ad arrivare a verdetti
di colpa definitivi. Ancora una volta la sentenza (un documento lunghissimo) fu storicamente più
importante dei verdetti. V. soprattutto Benedetta Tobagi, Piazza Fontana. Il processo impossibile,
Torino: Einaudi, 2019, e anche Mirco Dondi, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-
1974, Roma-Bari: Laterza, 2015. Per l’ultimo processo v. anche
http://www.strano.net/stragi/tstragi/salvini/index.html (accesso 9 giugno 2019).
87
Camillo Arcuri, Colpo di stato. Storia vera di una inchiesta censurata. Il racconto del golpe Borghese, il caso
Mattei e la morte di De Mauro, Milano: BUR, 2007; Jack Greene e Alessandro Massignani, Il principe
nero. Junio Valerio Borghese e la X Mas, Milano: Mondadori, 2008.
88
Cit. in Luca Telese, Cuori neri. Dal rogo di Primavalle alla morte di Ramelli. 21 delitti dimenticati degli
anni di piombo, Milano: Sperling & Kupfer, 2010, pp. 151-52.
89
Il suo nome completo era Junio Valerio Scipione Ghezzo Marcantonio Maria dei principi
Borghese.
90
Fu chiamato anche ‘Tora-Tora’, dalla parola d’ordine scelta perché il ‘colpo’ era previsto
nell’anniversario di Pearl Harbor.
91
Piano eversivo contro la repubblica, scoperto piano di estrema destra, “Paese Sera”, 17 marzo 1971. Il
giorno dopo il ministro dell’Interno Franco Restivo parlò in Parlamento tentando di minimizzare il
fatto.
92
Il titolo del giorno dopo era “Complotto neofascista”.
93
Sentenza, Corte d’Assise, 29 novembre 1984.
94
Vogliamo i colonnelli, 1973.
95
V. Tom Behan, Dario Fo: Revolutionary Theatre, London: Pluto Press, 2000, pp. 51-8 e 143-45, e
Id., Allende, Berlinguer, Pinochet… and Dario Fo, in Anna Cento Bull e Adalgisa Giorgio (a cura di),
Speaking Out and Silencing: Culture, Society and Politics in Italy in the 1970s, Leeds: Italian Perspectives,
2006, pp. 161-71.
96
Giovanna Marini, da I treni per Reggio Calabria (1973). Il testo completo è in:
http://www.ossin.org/i-giorni-cantati/1656-i-treni-per-reggio-calabria (accesso 24 ottobre 2017).
97
Guido Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Roma: Donzelli, 2003, pp.
270-79.
98
Si vedano le scene nel documentario 12 dicembre (1972) di Giovanni Bonfanti e Pier Paolo
Pasolini.
99
“L’Europeo”, 11 febbraio 1971, cit. in Fabio Cuzzola, Reggio 1970. Storie e memorie della rivolta,
Roma: Donzelli, 2008, pp. 79-80.
100
Franco Pierini, cit. ivi, p. 41; “Il Giorno”, 29 luglio 1970.
101
La canzone è di Giovanna Marini, I treni per Reggio Calabria; il romanzo è di Vincenzo Guerrazzi,
Nord e Sud uniti nella lotta (1974), Genova: Frilli, 2003; il film, diretto da Paolo Pietrangeli e Paolo
Gambescia, è Bianco e nero, 1975, in parte dedicato alla rivolta di Reggio.
102
A questo proposito, e per un’analisi complessiva della rivolta, v. Luigi Ambrosi, La rivolta di
Reggio. Storia di territori, violenza e populismo nel 1970, Soveria Mannelli: Rubbettino, 2009, p. 186, e
Cuzzola, Reggio 1970.
103
Carlo Feltrinelli, Senior Service, Milano: Feltrinelli, 2014.
104
Le condanne definitive per un neofascista e un altro personaggio collegato ai servizi segreti furono
confermate dalla Corte di Cassazione nel 2017.
105
London: Pluto Press, 1982.
106
Sulla storia e le vicende politiche di questa targa e degli eventi intorno alla morte di Lorusso, v.
Andrea Hajek, Negotiating Memories of Protest in Western Europe: The Case of Italy, New York:
Palgrave, 2013.
107
Nel 1973, a seguito della flessione globale legata alla crisi dei prezzi petroliferi, si arrivò presto
all’austerity: niente auto la domenica, cinema chiusi e programmi televisivi anticipati.
108
R. Rossanda, Il discorso sulla Dc, “il manifesto”, 28 marzo 1978.
109
Alberto Franceschini, Mara, Renato e io. Storia dei fondatori delle BR, Milano: Mondadori, 1991, p.
63.
110
Ivi, p. 63.
111
Entrambe le citazioni da Phil Edwards, ‘More Work, Less Pay’: Rebellion and Repression in Italy,
1972-7, Manchester: Manchester University Press, 2009, p. 64.
112
Marco Belpoliti, La foto di Moro, Roma: Nottetempo, 2008.
113
Miguel Gotor, Aldo Moro. Lettere dalla prigionia, Torino: Einaudi, 2008.
114
Comunicato dei familiari, 9 maggio 1978, cit. in Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, Milano:
Adelphi, 2007, p. 158.
115
Ruth Glynn e Giancarlo Lombardi (a cura di), Remembering Aldo Moro: The Cultural Legacy of the
1978 Kidnapping and Murder, Leeds: Legenda, 2012; John Foot, Fratture d’Italia, Milano: Rizzoli,
2009.
116
Anna Cento Bull e Phil Cooke, Ending Terrorism in Italy, London: Routledge, 2013.
117
Giovanni Fasanella e Sabina Rossa, Guido Rossa. Mio padre, Milano: Rizzoli, 2006; Giancarlo
Feliziano, Colpirne uno per educarne cento. La storia di Guido Rossa, Arezzo: Limina, 2004.
118
Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo,
Milano: Mondadori, 2007.
119
Benedetta Tobagi, Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre, Torino: Einaudi, 2010.
120
Ruth Glynn, The “turn to the victim” in Italian Culture: Victim-centred Narratives of the ‘anni di
piombo’, “Modern Italy”, 18:4, 2013, pp. 373-90.
121
Jeffrey McKenzie Bale, cit. in Greene e Massignani, Il principe nero, p. 207.
122
Giovanni Bianconi, A mano armata. Vita violenta di Giusva Fioravanti terrorista neo-fascista quasi per
caso, Milano: Baldini & Castoldi, 1994, pp. 150 e 152;
http://archiviostorico.avvisopubblico.it/news/allegati/magistrati-vittime-di-terrorismo-
schede_2011-05-05.pdf.
123
Bianconi, A mano armata, p. 233.
124
Ivi, p. 234.
125
Cit. in Anna Lisa Tota, A Persistent Past: The Bologna Massacre 1980-2000, in John Dickie, John
Foot e Frank Snowden (a cura di), Disastro! Disasters in Italy since 1860: Culture, Politics and Society,
New York: Palgrave, 2002, p. 282.
126
Sul Bus 37 v. Tota, A Persistent Past, pp. 283-86, e Anna Lisa Tota, La città ferita. Memoria e
comunicazione pubblica della strage di Bologna, 2 agosto 1980, Bologna: Il Mulino, 2003, pp. 87-91.
4.
Gli anni ’80 e ’90:
dal boom al tracollo, e oltre

1980: la fine
Gli anni ’80 si aprirono con un evento che fu il segnale di una fine.
Nell’ottobre 1980 una folla marciò per le vie di Torino agitando cartelli e
scandendo slogan (sebbene buona parte della manifestazione procedesse quasi
in silenzio). Non erano scioperanti, non chiedevano concessioni ai padroni.
Chiedevano la fine degli scioperi, per ritornare a lavorare. Una vertenza aperta
alla Fiat (dopo l’annuncio di licenziamenti in massa da parte dell’azienda)
aveva provocato una contromanifestazione senza precedenti, di gente che
voleva lavorare – soprattutto colletti bianchi della Fiat. Gli slogan chiedevano
di “riaprire i cancelli” sciogliendo i “picchetti violenti”. La chiamarono
“marcia dei 40.000” (pare però che il numero effettivo fosse alquanto
inferiore), e all’epoca fu oggetto di critiche feroci; ma ebbe conseguenze
importanti.
L’anno 1980 viene spesso considerato come l’ultimo dell’ondata di lotte
operaie iniziata nei ’60 (ben prima dell’apice nel 1969), che però già da tempo
dava segnali di stanchezza: il 1980 fu il momento in cui la ‘fine’ divenne
evidente. La rivoluzione non c’era stata – la Fiat era ancora padrona delle
fabbriche – ma gli operai avevano la casa, la scuola per i figli, la pensione,
l’automobile. Il capitalismo rimaneva al suo posto, e prendeva piede la
globalizzazione. Alla Fiat non serviva più un impianto enorme in Italia come
Mirafiori a Torino: diversificava, e apriva nuovi stabilimenti in tutto il
mondo. L’Italia si avviava alla deindustrializzazione. Breve e tumultuosa, la
sua seconda rivoluzione industriale era finita. Il fordismo all’italiana era morto.
Nel 1979 la Fiat commissionò al regista Hugh Hudson una pubblicità in cui
un’intera vettura veniva costruita quasi senza intervento umano – sulle note
del Barbiere di Siviglia di Rossini (con qualche modifica al libretto, come il
verso “fortunatissimo family car”). Le auto allestite correvano in formazione
sulla famosa pista sul tetto del Lingotto, per finire direttamente sulla bisarca
destinata ai rivenditori. Era la celebrazione della fine della classe operaia. Lo
slogan finale era profetico: “Fiat Strada: fatta a mano dai robot”. Hudson
ricorda che durante le riprese a Torino “ci fu uno sciopero, e rimanemmo
bloccati dentro la fabbrica”. La Fiat aveva avuto l’occhio lungo; alla società
italiana (specie in città industriali come Torino e Milano) l’onere di gestire la
graduale scomparsa di un’intera classe: gli operai di fabbrica. Stabilimento
dopo stabilimento, le sirene tacevano e i cancelli rimanevano chiusi per
sempre.
Era iniziata la fase postindustriale. In qualche situazione ciò produsse anche
una profonda crisi di identità. Come scrisse Giuseppe Turani, Milano
diventava “una città in cui nessuno produce veramente niente... producono
pareri, opinioni, show, cause legali, campagne pubblicitarie, finanza... una
città di talenti... diversa da una città di decine di migliaia di tute blu... Milano
era qualcosa di preciso, di molto ben definito, era un grande centro
industriale, con una forte classe operaia e una forte classe imprenditoriale.
Entrambe orgogliose del proprio lavoro e della propria missione”1. Nel 1981
il grande fotografo Gabriele Basilico pubblicò una serie di immagini di
fabbriche milanesi, in larga parte già chiuse, e presto demolite o trasformate in
alloggi, supermarket o sedi universitarie2. Non spariva soltanto la classe
operaia industriale, ma anche i luoghi, le ‘cattedrali del lavoro’ in cui quella
classe aveva operato.

Dopo la fabbrica
In linea generale, fu un ripiegamento controllato e perlopiù ordinato, ma la
fine del sistema di fabbrica lasciò vasti vuoti nelle città. Grandi spazi
rimanevano abbandonati. Come riempirli? Per qualche tempo gli immigrati
stranieri trovarono una qualche forma di riparo nei vecchi ‘luoghi del lavoro’,
edifici un tempo vibranti di attività che si trasformavano in luoghi bui, sporchi
e pericolosi. Alcuni furono demoliti, facendo spazio ai grandi condomini o
agli ipermercati di periferia, o a centri polivalenti come la grande area Bicocca
di Milano che un tempo era stata una fabbrica della Pirelli. La Bicocca
divenne un centro commerciale (Bicocca Village) con cinema multisala, con
annesse una sede universitaria e abitazioni eleganti per la classe media.
La vicenda dello stabilimento Fiat del Lingotto è emblematica del passaggio
dall’industriale al postindustriale. Gioiello della corona dell’impero Fiat-
Agnelli, con la sua pista da corsa sul tetto e la rampa a spirale, la grande
fabbrica cessò di produrre automobili alla fine degli anni ’70, dopo circa
sessant’anni di attività. Divenne poi uno scintillante centro commerciale, con
una galleria d’arte all’interno di una bolla di vetro progettata da Renzo Piano.
Quando morì Gianni Agnelli, ultimo collegamento con l’era industriale ed
esponente chiave della famiglia ‘reale’ dell’industria italiana, nel 2003, la salma
fu esposta nella galleria sul tetto del Lingotto3.
Con il declino dell’industria cambiarono i ritmi stessi del paese. In una
società prima impostata sull’orario 9-17, governata da turni e orologi, i confini
tra lavoro e non-lavoro diventavano sempre più difficili da definire. Aumentò
enormemente il numero dei lavoratori autonomi; molti erano ‘precari’, con
contratti a breve termine e condizioni di impiego flessibili. Le tute blu degli
operai scomparvero dalle strade; le ciminiere non fumavano più. Non
sorprende che il movimento sindacale entrasse in crisi, faticando ad adattarsi al
nuovo paesaggio ‘flessibile’ del mondo del lavoro.
Di pari passo con il rapido declino della classe operaia (e la definitiva
scomparsa dei contadini) anche i partiti di massa del dopoguerra entrarono
loro malgrado in una crisi profonda, organica. Erano come gusci vuoti, tenuti
insieme da strutture antiquate, e privi di idee o aspirazioni di rinnovamento.
Molti dei loro leader erano al potere da decenni. Parevano invincibili ed
eterni, e non vedevano nulla di male nel modo in cui andavano (o non
andavano) le cose.

La politica negli anni ’80:


la ‘questione morale’ e la partitocrazia
Nel 1981 l’allora segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer concesse
un’intervista esplosiva a “la Repubblica”. “I partiti di oggi sono soprattutto
macchine di potere e di clientela”, dichiarò. “Gestiscono interessi... talvolta
anche loschi”. Se un tempo erano stati organizzazioni di massa, “non sono più
organizzatori del popolo... sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille,
ciascuna con un ‘boss’ e dei ‘sotto-boss’”. La conclusione era secca: “I partiti
hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni... Hanno occupato gli enti
locali, gli enti di previdenza, le banche... gli istituti culturali, gli ospedali, le
università, la Rai TV, alcuni grandi giornali”. Berlinguer non mancava però
di sottolineare che per lui i comunisti e la loro storia non erano toccati da
questa analisi: i comunisti erano diversi, e la diversità stava nella loro storia: “In
galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati
noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il
proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi
comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi”. “La
questione morale”, dichiarava Berlinguer, “è il centro del problema italiano”4.
I partiti dovevano cambiare, e fare presto. Rischiavano l’obsolescenza. Ma il
monito di Berlinguer non venne raccolto. La Guerra fredda era ancora in
corso, e nessuno aveva percepito l’imminenza del crollo dell’impero sovietico.
Per gran parte dei politici e dei funzionari del sistema, non c’era nulla di
nuovo. Berlinguer fu il primo a denunciare la partitocrazia dall’interno,
ponendo in evidenza la ‘questione morale’.
Negli anni ’80 l’Italia era un paese governato dai partiti, una ‘partitocrazia’.
Le organizzazioni politiche erano penetrate a fondo nelle strutture dello Stato,
ad ogni livello. Molte di esse erano ormai partiti di massa soltanto di nome.
Continuavano a disporre di sedi e giornali, e a tenere le loro feste, ma la
partecipazione attivistica degli anni ’50, ’60 e ’70 si andava rapidamente
esaurendo. I partiti funzionavano ormai essenzialmente come cinghie di
trasmissione: risorse dello Stato e delle amministrazioni locali dall’alto in
basso, voti ‘popolari’ dal basso in alto. C’era ben poco di virtuoso o di
democratico in questo circolo del potere. Le fazioni si azzuffavano sulla
distribuzione dei fondi, non certo sull’ideologia, e nemmeno sulle scelte
politiche.
In molti snodi il sistema era diventato un meccanismo di precisione della
corruzione, i cui ingranaggi giravano oliati da mazzette e favori. I privilegi si
accumulavano. Qualcuno arrivò a definire l’Italia una ‘cleptocrazia’, il luogo
del furto istituzionalizzato. Il furto era l’unico modo per far funzionare le
cose, la ragion d’essere stessa della politica5. Quell’élite politica sarebbe poi
stata bollata come ‘la Casta’. Gli intermediari avevano una funzione cruciale: i
politici stessi, e poi avvocati, speculatori, faccendieri, gente informata,
sindacalisti, amministratori, architetti, giornalisti. Molte di queste categorie
erano protette da norme antiquate e strutture corporative, che perpetuavano il
privilegio. Le grandi opere e i ‘grandi eventi’ erano particolarmente
vulnerabili alla corruzione e alle ‘tangenti’. Anche i fondi di emergenza per i
disastri offrivano ricchi bottini.
Il sistema cominciava a mostrare qualche crepa. Negli anni ’80 gli scandali
affossarono un’amministrazione di centrosinistra a Torino e misero nei guai il
Partito socialista in Liguria. Furono rivelati collegamenti tra uomini politici ed
esponenti della criminalità organizzata. Il clientelismo e la corruzione, e tutte
le forme di ‘raccomandazione’ che condizionavano il mercato del lavoro,
erano problemi di portata nazionale. Una telefonata, o una conversazione
privata, e il ‘raccomandato’ saltava la coda. Era difficile trovare un posto (sia
nel pubblico che nel privato) se la porta non veniva in qualche modo aperta da
chi ne aveva il potere. Gli investigatori che cominciarono a indagare
sull’intero sistema negli anni ’90 trovarono negli uffici dei politici migliaia di
suppliche di cittadini comuni, rigorosamente archiviate. Questo andazzo
incideva in modo profondo e permanente sulla vita delle persone – poteva
perfino costringere all’emigrazione. Come dice Rita, una giovane emigrata
italiana:
Se resti in Italia, il lavoro lo trovi solo con la raccomandazione. Vai a chiedere, e tutti ti dicono che ci
vuole la raccomandazione. Se provi a trovare lavoro senza raccomandazione sei uno scemo, perché o la
guerra al sistema diventa il tuo obiettivo di vita, oppure finisce che stai a casa dei genitori fino a
cinquant’anni6.

C’è chi sostiene che la maggioranza degli italiani non aveva nulla in contrario
al sistema. Secondo il magistrato Vito Marino Caferra, “il consenso a quel
sistema è venuto non solo dalla vasta schiera dei clienti della partitocrazia e dai
diretti beneficiari della corruzione, ma anche dalla più larga fascia di soggetti
che praticano altre forme di scambio illegittime (anche se non perseguibili
penalmente) molto diffuse nella società civile”7.
Nello stesso anno della ‘marcia dei 40.000’ lo scrittore Italo Calvino
pubblicò un articolo amarissimo. “C’era un paese che si reggeva sull’illecito”,
esordiva8. “Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse
basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo
sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di
mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a
disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e
questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li
aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di
favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in
precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo
circolare e non privo d’una sua armonia”. Calvino spiegava come, in questo
paese immaginario che somigliava tanto all’Italia degli anni ’80, quasi tutti
considerassero normale, e perfino giustificabile, il sistema. Per molti le leggi (e
la loro applicazione) non erano che strumenti per regolamentare le lotte
interne all’élite. Soltanto gli ‘onesti’ disturbavano di tanto in tanto la serenità
dei suoi abitanti “unanimemente felici”. Ma chi erano ‘gli onesti’? Abitavano
“una controsocietà”, che sopravviveva “nelle pieghe della società dominante”.
Questa, secondo Calvino, era l’Italia: una società dove gli onesti facevano la
vita dei malandrini, e viceversa. In retrospettiva, l’immagine di Calvino si
sarebbe rivelata profetica, e realistica.
Su un punto Berlinguer aveva certamente ragione. I partiti avevano perduto
il contatto con la realtà sociale. Erano funzionali a se stessi e al mantenimento
del potere acquisito. Il distacco divenne macroscopico negli anni ’80 e ’90,
quando pareva che i partiti si occupassero soltanto delle proprie correnti e
dell’organizzazione. Si legga per esempio questa descrizione della politica
democristiana nei primi anni ’90 (i nomi sono quelli di grandi notabili della
DC; i ‘dorotei’ erano stati una corrente di maggioranza all’interno del partito):
Il compromesso sulla candidatura di Forlani era stato naturalmente raggiunto con il consenso di De
Mita, che aveva deciso di evitare lo scontro... ma provocò malcontento e dissenso nei ranghi della
corrente di sinistra. La corrente più favorevole era quella degli ex dorotei, ormai certi di poter occupare
molte posizioni di potere all’interno e all’esterno del partito. Se l’ex doroteo Vincenzo Scotti sperò fino
all’ultimo di poter diventare segretario presentandosi nell’improbabile ruolo di mediatore, un altro ex
doroteo, Antonio Gava, sapeva di non poterci riuscire, se non altro perché il fatto di controllare un
numero straordinariamente elevato di tessere gli avrebbe dato – lo temevano in molti – eccessivo
potere9.

Soltanto un iniziato poteva seguire questi dibattiti. Non ci serve entrare nei
contorcimenti della politica democristiana per comprendere che il partito era
ormai completamente assorbito nell’autoreferenzialità delle lotte intestine,
con scarsa attenzione a quanto avveniva nel mondo esterno. Le manovre
tattiche intorno al potere e alle risorse non avevano più rapporto con la vita di
ogni giorno. Quando arrivò l’uragano, spazzò via in un attimo buona parte
della macchina del partito. Come concludeva il politologo Mario Caciagli nel
1991, “la DC non è disposta a prendere le decisioni fondamentali sulle
questioni più urgenti e drammatiche per il paese”10 – un’incapacità che si
sarebbe presto rivelata fatale non soltanto per la Democrazia cristiana ma per
l’intero sistema dei partiti.
Berlinguer era un comunista dotato di un forte senso dell’etica pubblica.
Come ha spiegato Patrick McCarthy, “convinto che la decisione di diventare
comunista fosse una scelta morale cui dedicare l’intera esistenza, Berlinguer
vedeva nel PCI una comunità fondata sull’etica del sacrificio. La soluzione
della crisi economica... stava in questi valori, che ispiravano la politica di
austerità”11. Berlinguer si opponeva a “lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di
particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più
dissennato” – lo sosteneva in un libro dal titolo Austerità, occasione per
trasformare l’Italia12.
Ma andava contro la corrente – in tutti i sensi – anche con i suoi sostenitori.
Negli anni ’80 era ormai chiaro che il suo partito faceva parte del problema,
non della soluzione. I comunisti con incarichi elettivi erano diventati parte
integrante delle strutture di potere a livello locale e nazionale. Con importanti
eccezioni, erano elementi costitutivi della ‘partitocrazia’. Berlinguer indicava
una via alternativa, ma non gli avrebbero dato ascolto. E se la sua intervista del
1981 fu una chiamata alle armi, lui stesso, nella sua attività politica, aveva
contribuito alla contrattazione continua tra i maggiori partiti antifascisti, e ai
meccanismi partitici e clientelistici della spartizione del potere istituzionale13.
Berlinguer era poco realista anche per un altro aspetto decisivo: la
maggioranza degli italiani non vedeva nell’austerità l’occasione per trasformare
il proprio paese, o se stessi. Consumismo e cultura di massa erano ormai al
centro della loro visione del mondo: non avevano alcun rapporto con i valori
da lui propugnati.
Nel giugno 1984 Berlinguer morì, in modo drammaticamente pubblico, da
militante. Fu colpito da un ictus mentre teneva un discorso dal palco, a
Padova, e si sforzò di tenere duro davanti agli occhi della folla; arrivato
all’albergo entrò in coma. La sua scomparsa provocò un’ondata di cordoglio:
era stato uno dei politici italiani più amati. La tragedia contribuì
all’impressionante successo del Partito comunista alle elezioni europee di
quell’anno: con più di 11,5 milioni di voti, circa il 33 per cento, superò per la
prima volta la Democrazia cristiana.
Il funerale di Berlinguer a Roma richiamò una folla ancor più grande di
quello di Togliatti nel 1964 (secondo alcuni calcoli, mezzo milione di
persone). Togliatti riposava nell’immenso cimitero del Verano, in una specie
di tomba collettiva (costruita nel 1972) che somigliava a un comitato centrale
di morti, tumuli semplici disposti a semicerchio. La lapide di Togliatti è
appena più alta delle altre, come se presiedesse anche a quella riunione. Tutti i
membri della direzione, l’esecutivo del partito e dei suoi successori, hanno
ancora diritto di esservi sepolti. Ma la tomba di Berlinguer è in un altro
cimitero romano, e sulla lapide c’è soltanto il suo cognome.
La fine della Guerra fredda, e la quasi contemporanea autodistruzione del
Partito comunista italiano, stavano dietro l’angolo. Berlinguer sarebbe rimasto
come potente ricordo di un passato ormai finito, che non sarebbe tornato, “il
simbolo”, sostengono Phil Cooke e Gianluca Fantoni, “di praticamente tutto
ciò che un tempo andava bene in Italia, e che oggi va male”14. Nel contempo,
però, il suo messaggio etico veniva spogliato di ogni contenuto reale, ripetuto
all’infinito come un espediente retorico per criticare tutti i politici, e la
politica stessa: un repertorio di slogan antipolitici buono per tutti.
Berlinguer aveva riconosciuto e denunciato la disintegrazione del sistema dei
partiti (senza peraltro applicare la stessa critica al suo). Ma il suo sistema di
valori non corrispondeva al consenso culturale ed economico nel paese. La
società italiana aveva subìto un cambiamento spettacolare. La classe operaia
stava scomparendo e i meccanismi dell’informazione e dello scambio culturale
erano stati rivoluzionati. Per comprendere questa trasformazione dobbiamo
recarci in un paesino fuori Roma, nel giugno del 1981, lo stesso anno
dell’intervista a Berlinguer.

Il bambino nel pozzo: Alfredino Rampi


e la televisione italiana (1981)
Nel giugno 1981 un bambino giocava sotto casa a Vermicino, appena fuori
Roma; calava la sera. D’un tratto sparì. I genitori lo cercarono ovunque, e
chiamarono i servizi d’emergenza. Sulla scena arrivarono pompieri, polizia e
altri soccorritori. Qualcuno udì delle grida.
Il bambino era caduto in un pozzo profondo, scavato da poco vicino al
cantiere di costruzione di una nuova casa. Vermicino non era nemmeno un
paese, solo un grumo di edifici. Il bambino si chiamava Alfredo (Alfredino)
Rampi, e aveva poco più di sei anni. Il pozzo era profondo 80 metri, e in
fondo c’era l’acqua: un buco nero, di roccia e fango, e molto stretto. I primi
tentativi di soccorso furono quasi farseschi. Gettarono una tavola di legno nel
pozzo, che si incastrò, creando problemi alle operazioni successive. Poi
calarono un microfono fino al bambino. Misurando il cavo, verificarono che
era bloccato a 36 metri, le braccia bloccate sui fianchi dalle pareti del pozzo.
Era stata una giornata di caldo rovente, e Alfredino aveva problemi di cuore.
Il suo cardiologo sarebbe stato una presenza costante nei giorni a venire. Non
c’era accordo su come intervenire. Furono mandati giù a valutare la situazione
degli ‘uomini ragno’ e gli speleologi. Era pericoloso scendere nel pozzo: si
rischiavano altri morti.
Una televisione locale lanciò un appello per trovare una gru, che richiamò
l’attenzione di un giornalista della Rai, e arrivarono le telecamere.
L’operazione di soccorso divenne uno spettacolo dal vivo, un notiziario
permanente (cosa molto inconsueta all’epoca) sui programmi nazionali. In
mezzo a quel caos, i genitori di Alfredino stavano a guardare disperati. Mentre
la nazione si appassionava al dramma emotivo della vicenda, Sandro Pertini, il
presidente della Repubblica, arrivò sul posto da Roma: sarebbe rimasto lì per
una quindicina di ore.
La soluzione, fu deciso, consisteva nello scavo di un altro buco parallelo al
pozzo; scavato il collegamento, si sarebbe recuperato il bambino dal basso. Ma
il nuovo buco era troppo vicino all’altro, ed è probabile che le vibrazioni della
trivella abbiano fatto scivolare Alfredino ancora più giù: quando finalmente
sfondarono, si accorsero che il bambino stava sotto, non sopra di loro. A quel
punto qualcuno doveva scendere imbracato nel buco nero per tentare di
afferrarlo e tirarlo su. Ma Alfredino era coperto di fango, e l’attrezzatura fece
cilecca.
Il tempo passava, Alfredino diventava sempre più debole, la sua voce si
esauriva. L’operazione ‘di soccorso’ fu un disastro: discussioni frenetiche sul
da farsi, e nessuno che prendesse davvero il comando. Calarono un altro
microfono per raccogliere la voce sempre più flebile del bambino (e così
milioni di italiani poterono condividere i suoi gemiti laceranti). Pareva stesse
perdendo conoscenza. I commentatori televisivi discutevano le operazioni di
soccorso nei più infimi dettagli; le telecamere continuavano a girare.
La nazione era paralizzata – 20 milioni di spettatori fino a tarda notte. E
migliaia di persone piombarono su Vermicino: si calcola che alla fine fossero
più di diecimila. C’era gente che faceva soldi; arrivarono gli ambulanti per
servire i curiosi che riuscivano a farsi strada fino a lì – tutte le strade di accesso
erano intasate.
Quando divenne chiaro che Alfredino non ce l’avrebbe fatta, la trasmissione
televisiva fu interrotta. La più lunga diretta televisiva della storia d’Italia si era
finalmente conclusa. La camera fissa aveva trasmesso ininterrottamente per
circa sessanta ore. A Roma il conduttore Giancarlo Santalmassi cercò di farsi
una ragione di quanto era successo: “Volevamo vedere un fatto di vita e
abbiamo visto un fatto di morte”15. Lo scrittore Giovanni Arpino parlò del
“formidabile ceffone che il video ci ha rifilato per ore e ore”16. La morte di
Alfredino Rampi si incise a fuoco nella coscienza nazionale; era diventata uno
spettacolo. I numeri sono interessanti. Il 12 giugno (un venerdì) 28,6 milioni
di spettatori alle 20,45, e 30 milioni alle 23; tra l’una e le due erano ancora 16
milioni: quasi un record. Soltanto la finale della Coppa del mondo (con
l’Italia, e di nuovo Sandro Pertini) giocata in Spagna l’anno dopo, nel luglio
1982, avrebbe fatto di meglio. E come osserva Massimo Gamba, questo
pubblico era per molti aspetti diverso, con un diverso tipo di attenzione,
“spalmata su una quantità di tempo molto maggiore di novanta minuti”17.
Gamba racconta che avevano portato i televisori in strada, e ne era saltato più
di uno per essere rimasto acceso troppo a lungo. Secondo il giornalista Andrea
Pomella, “Alfredino cambiò tutto. Non cambiò solo il modo di fare
televisione, cambiò la testa della gente, i media scoprirono che l’orrore, quello
vero, fa spettacolo. Il grido microfonato di Alfredino che chiamava la mamma
arrivò in tutte le case. La Tv del dolore emetteva il suo primo vagito”18.
Qualcuno provò vergogna per quella spettacolarizzazione, e per la
corresponsabilità implicita nel ruolo dello spettatore televisivo. Sul quotidiano
comunista “l’Unità” Alfredo Reichlin si chiedeva: “Dovevamo restare anche
noi, per ore e ore, incollati davanti al televisore?” – ma non si dava risposta.
Un giornalista cattolico avrebbe poi commentato che “è stata una pagina
ignobile, una terribile pagina nera nella storia della nostra televisione”19. Ci
vollero altri trentuno giorni per recuperare il corpo di Alfredino; l’11 luglio
dei minatori specializzati riuscirono finalmente ad estrarre il bambino dalla sua
tomba. Al funerale a Roma, il 15 luglio, nella grande folla c’era anche il
presidente Pertini.
Come per tante altre tragedie italiane, seguirono discussioni a non finire,
dibattiti, versioni contraffatte, processi, leggende e sospetti di depistaggio.
Oggi, sul posto dove è morto Alfredo c’è una semplice croce di pietra con la
fotografia; c’è anche una sua statua, vicino alla chiesa parrocchiale. Walter
Veltroni avrebbe poi detto che “quel bimbo rimarrà scolpito nella memoria di
almeno due generazioni di italiani”20.
La casa in costruzione era abusiva, così come il pozzo fatale. Nessuno capì
bene come avesse fatto Alfredino a caderci, e nei giorni e mesi a venire
fiorirono le teorie del complotto – qualcuno disse perfino che era stato spinto.
Nel 1984 si tenne un processo per omicidio colposo, relativo al cantiere e alla
messa in sicurezza del pozzo. Alla fine furono prosciolti tutti, o se la cavarono
per motivi di salute. Ci fu anche un’inchiesta sull’ipotesi che Alfredino fosse
stato assassinato, ma non portò a nulla.
Il disastro di Vermicino ebbe comunque un qualche esito positivo:
l’istituzione di un servizio di protezione civile nazionale che assumesse la
responsabilità nelle situazioni di emergenza. Magra consolazione per i genitori
di Alfredino, o per i milioni di italiani che avevano assistito alla tragedia dal
salotto di casa. La vicenda di Vermicino sarebbe stata poi rievocata in un
romanzo dello scrittore visionario Giuseppe Genna, Dies Irae21.
Quanto alla televisione, non imparò nulla da quella lezione – o forse invece
sì, in un senso perverso. Quattro anni dopo, nel maggio 1985, le telecamere
erano puntate su una partita di calcio allo stadio Heysel di Bruxelles. Era una
partita importante, finale della Coppa dei Campioni, tra due squadre forti e
famose: Juventus e Liverpool. La pessima organizzazione e la turbolenza dei
tifosi concorsero a provocare una tragedia, quando trentanove spettatori (di
cui trentacinque italiani) morirono schiacciati dalla folla prima della partita.
Incredibile a dirsi, la partita si tenne comunque, e fu trasmessa dal vivo, con
tanto di commento, in molti paesi del mondo, Italia compresa. Seguirono
discussioni a non finire. Il giro di campo dei giocatori della Juventus dopo la
partita fu considerato di cattivo gusto: lo spettacolo doveva andare avanti,
indipendentemente dalle conseguenze. Tutto, pareva, doveva andare in
onda22.
Retrospettivamente, Vermicino viene spesso considerato un momento di
svolta, quando gli aspetti voyeuristici della televisione ebbero la meglio,
prendendo possesso dell’immaginazione degli italiani. È stato detto che dopo
Vermicino il rapporto degli italiani con la televisione si avviò su una brutta
china. La trasmissione portò alla ribalta anche altri elementi orrendi di quel
tipo di ‘programma’. Molti spettatori criticarono la mamma di Alfredino
perché si era cambiata il vestito, e aveva mangiato un gelato: non
corrispondeva all’immagine tradizionale della madre disperata, quantomeno
così come veniva inquadrata dalla telecamera. I “fatti” non erano più filtrati
dall’interpretazione giornalistica, ma arrivavano direttamente nelle case della
gente.
Il potere della televisione rappresentava una sfida anche per l’istituzione
culturale, sociale e politica più importante d’Italia, la Chiesa cattolica. Come si
adeguava, la Chiesa, alla modernizzazione e alla società dei consumi?

Il laicismo e la Chiesa
Credono in Dio e non vanno a trovarlo in Chiesa.
Francesco Alberoni23
Il cattolicesimo italiano ha reagito in modo molto intelligente ed efficace alla sfida delle forze del
cambiamento... con gli adattamenti necessari... la Chiesa italiana ha visto passare il liberalismo, il
fascismo e il comunismo. Rimane da vedere come se la caverà nel lungo periodo sotto il ‘regime’ globale
del capitalismo dei consumi, il cui individualismo sfrenato è stato identificato... come il più insidioso tra
i nemici del cattolicesimo.

John Pollard24
Gli storici (e altri) ci dicono che nel XX e XXI secolo l’Italia è diventata più
laica, e la Chiesa ha perduto molto potere tra i fedeli, e più in generale nella
società. Lo confermano le statistiche sul calo delle presenze a messa, e delle
persone che si dichiarano cattoliche. Ma nella realtà le cose non sono mai state
tanto semplici. Le feste dei santi sono rimaste popolarissime, sono nate nuove
organizzazioni, e il mondo cattolico ha conservato i suoi tentacoli in ogni
anfratto della vita di ogni giorno, dalla finanza all’istruzione, alla cultura, alla
stampa.
La sua reazione al ’68 fu innovativa. In quell’anno fu fondata a Milano
un’organizzazione chiamata Comunione e Liberazione, che intendeva
affrontare gli studenti radicali sul loro stesso terreno – le università e le scuole
– ma si proponeva anche come nuovo veicolo per la trasmissione delle idee
cattoliche. Questa aggregazione culturale e politica avrebbe acquisito grande
potere, aprendosi spazi considerevoli all’interno delle istituzioni scolastiche e
nel mondo della politica e degli affari. L’influenza di CL arrivò ai livelli più alti
del potere politico, soprattutto a Milano e in Lombardia – la zona più ricca
d’Italia, dove il suo massimo esponente fu il presidente della Regione Roberto
Formigoni, rimasto al potere per diciott’anni. Come scrive John Pollard,
“l’influenza di Comunione e Liberazione non va sottovalutata: ha due giornali
ben diffusi... attività manifatturiere e terziarie, e organizzazioni di servizio
sociale in tutto il mondo, per un valore di 2 miliardi di sterline; e il suo
braccio politico... è molto robusto”25.
A partire dagli anni ’80 il Vaticano è stato molto meno interessato all’Italia e
alla sua politica. Dal 1978 sono stati eletti papi non italiani – un polacco
(1978-2005), un tedesco (2005-13) e un argentino (2013). Nel 1984 la
revisione dei Patti lateranensi tra la Chiesa e lo Stato abolì la clausola che
definiva il cattolicesimo ‘religione di Stato’. Con la fine della Guerra fredda la
politica italiana divenne meno centrale che in passato nella prospettiva
mondiale della Chiesa (quella battaglia era ormai vinta). Non esisteva più, in
Italia, alcuna minaccia diretta alla sua posizione. Organizzazione davvero
globale – forse la più globale di tutte –, la Chiesa cominciò a cercare altrove le
risorse e le occasioni per esercitare la sua influenza politica. Tra il 1870 e il
1929 nessun papa in carica si era avventurato fuori dal Vaticano. Nel 1962
Giovanni XXIII fu il primo a uscire dal Lazio dal 1870, e Paolo VI il primo a
salire in aereo – nel 1964. Dal 1978, invece, i papi sono sempre in
movimento. Durante il suo pontificato Giovanni Paolo II ha percorso 1,2
milioni di chilometri.
Nel frattempo lo Stato italiano continuava a contribuire al finanziamento del
Vaticano. Una legge approvata nel 1985 (dopo la revisione dei Patti di cui si
diceva) consentiva ai contribuenti di destinare una piccola parte delle tasse alle
‘buone cause’. Erano otto lire per mille, sono rimasti otto euro per mille. In
quella fase, tra le ‘buone cause’ erano comprese la Chiesa cattolica e altre
istituzioni religiose. Nel 1989 il 41 per cento delle dichiarazioni dei redditi
degli italiani scelse di destinare questo denaro alla Chiesa (erano l’80 per cento
delle intenzioni espresse). Si trattava di somme enormi: nel XXI secolo la cifra
complessiva superò il miliardo di euro. Appare evidente che la Chiesa
continuava ad approfittare della sua proficua relazione con lo Stato italiano.
Nemmeno in altri settori si manifestavano segnali particolarmente evidenti
di laicismo, o di una maggiore separazione tra Chiesa e Stato. Negli anni ’20
una serie di accordi e decreti aveva imposto l’insegnamento obbligatorio della
religione in tutte le scuole, ma ora era possibile l’esonero. Erano comunque
pochi i genitori – e gli scolari – che lo sceglievano. Nel 1986 il 93 per cento
circa degli scolari partecipava ancora all’ora di religione (nelle superiori si
arrivava vicino al 90 per cento). Ancora oggi, nelle scuole italiane lavorano
25.000 insegnanti di religione, pagati dallo Stato.

Bettino Craxi:
politica moderna, soldi e corruzione
La modernizzazione del Paese è un processo in cammino, un processo che io
giudico irreversibile.
Bettino Craxi, discorso alla Borsa di Milano, 198526
L’uomo determinante per buona parte degli anni ’80, quello che prefigurò e
diede forma alla nuova politica post-politica, si chiamava Bettino Craxi, e quel
periodo viene spesso definito ‘l’era di Craxi’. Il 4 luglio 1983 divenne
presidente del Consiglio, il primo socialista ad occupare quel posto nella storia
d’Italia. La strategia di Craxi era chiara da anni: voleva ‘modernizzare’ e de-
radicalizzare il suo partito. La sostituzione del garofano rosso alla falce e
martello nel simbolo fu un evidente segnale del cambiamento di direzione, via
dal passato marxista e avanti verso il centro.
Il suo modello riconosciuto era François Mitterrand, dal 1981 presidente
della Francia. Craxi andava oltre l’ideologia, oltre l’idea di sinistra, e
conosceva bene la forza della televisione come mezzo di comunicazione del
suo messaggio: la politica personalizzata nella figura di un uomo forte.
Secondo Stephen Gundle, storico della cultura, “Craxi fu il primo politico [in
Italia] a costruire un profilo fondato sulla personalità... tra i suoi sostenitori era
oggetto di una sorta di culto della personalità che si estendeva perfino alla
moglie e ai figli”27. A Craxi interessava poco dei partiti di massa della sua
giovinezza, e ancor meno dei sindacati. Strinse forti alleanze politiche e
personali con uomini d’affari come il suo grande amico Silvio Berlusconi – un
magnate dell’edilizia e delle comunicazioni in rapida ascesa. I due si sarebbero
sostenuti a vicenda per tutto il corso degli anni ’80 e ’90.
Craxi aveva fatto la gavetta, salendo la scala delle strutture di partito. Il PSI
affondava le sue radici nei movimenti operai e riformisti del tardo Ottocento,
ed era stato perseguitato dal fascismo, per poi ritornare sulla scena politica. Da
giovane Craxi aveva lavorato per il partito nella roccaforte operaia (e
comunista) di Sesto San Giovanni, fuori Milano – nota all’epoca come la
‘Stalingrado italiana’. Dalla fine degli anni ’50 era entrato nel Comitato
centrale. Ma per lui quegli organismi erano sempre più anacronistici e
scollegati dall’Italia che cambiava. La sua base di potere era a Milano, città con
una forte tradizione socialista, ma anche investita dal rapido passaggio
dall’industria al postindustriale. Nel 1968 Craxi fu eletto in Parlamento per la
prima volta. Alto, imponente, quasi calvo, occhialuto e di piglio deciso, Craxi
si presentava come persona capace di agire in modo indipendente dal partito
se la situazione lo avesse richiesto, e perfino di tener testa alla potenza degli
Stati Uniti. Non era un grande oratore nel senso tradizionale – le pause
sembravano spesso più lunghe delle frasi – ma riuscì comunque a costruire
una sorta di ‘partito personale’28.
Era il leader ideale per la nuova fase della politica e della società italiane. Nel
1976 aveva fatto la prima mossa a livello nazionale, prendendo in mano il
partito in un congresso all’hotel Midas di Roma (il nome era soltanto una
coincidenza). Non avrebbe mollato la presa fino agli scandali di corruzione
negli anni ’90. Per Craxi il partito era un mezzo, non il fine: a lui interessava il
potere. Il suo pensiero politico era un ibrido, difficile da definire. Si
proclamava ammiratore del filosofo socialista Pierre-Joseph Proudhon, e
collezionava statuette, libri, dipinti e altre reliquie di Garibaldi. La sua forza
stava comunque nel pragmatismo, nella perfetta conoscenza delle
macchinazioni politiche romane e nell’influenza che gli veniva dai suoi
contatti nell’economia e nei media a Milano.
Se pure poteva apparire un uomo ‘nuovo’, quasi un ‘antipolitico’, i governi
di Craxi non presentarono certo un taglio netto rispetto al passato. Nel
secondo mandato, dall’agosto 1986, ne facevano parte i democristiani Giulio
Andreotti (quasi eterno) al ministero degli Esteri, Antonio Gava da Napoli
(sospettato di legami con la camorra) alle Poste e Telecomunicazioni, e il
veterano Carlo Donat Cattin alla Sanità. Nonostante la squadra
‘conservatrice’, comunque, Craxi si compiaceva anche di proiettare
un’immagine postindustriale, raccogliendo intorno a sé designer e stilisti
come Valentino. Nel 1989 tenne il congresso del partito nello spazio
cavernoso di una fabbrica ristrutturata a Milano, dove il suo discorso venne
proiettato su un enorme schermo triangolare per una folla di sostenitori
entusiasti – per lo più gente del bel mondo.
La sua popolarità era legata al boom degli anni ’80, fondato sul successo del
‘made in Italy’: prodotti da esportazione di qualità, ascesa del capitale
finanziario, espansione del turismo e affermazione a livello globale di aziende
nel settore della moda e del design. La capitale di questo boom era Milano – e
uno degli slogan di Craxi era proprio ‘Milano al centro del progresso italiano’.
In pochi anni la città si era reinventata come capitale della moda. Erano tempi,
scriveva un giornalista, in cui “anche le masse e le massaie compravano il ‘Sole
24 Ore’ per scrutare le quotazioni dei titoli in salita... da quando Craxi veniva
da Palazzo Chigi a Palazzo degli Affari a ricevere ovazioni”29.
Craxi impose cambiamenti in settori chiave. Se nell’Italia repubblicana (ma
anche prima) il potere politico era tradizionalmente concentrato su Roma,
Craxi conservò a Milano la sua residenza principale – una scelta che
privilegiava il nesso di alleanze politico-economiche che aveva forgiato negli
anni ’70 e ’80; a Roma stava in albergo. Ogni lunedì Craxi pranzava a Milano
in un ristorante tradizionale, Al matarel, e qui, davanti a un ossobuco e un
bicchiere di vino, si diceva disponesse gli affari importanti della settimana.
Il dopoguerra era stato segnato dalla crisi, e da un sistema ‘a porte girevoli’
con una successione di governi espressi dalla medesima coalizione; Craxi
rimase al potere per più di mille giorni (all’epoca, un record). Quantomeno in
superficie, una garanzia di stabilità e continuità: la parola d’ordine era
‘governabilità’. In politica, gli anni ’80 furono dominati da quello che veniva
chiamato il ‘pentapartito’: tre organizzazioni minori, per non dire minime –
liberali, socialdemocratici e repubblicani –, e due grandi partiti, i socialisti e i
democristiani. Era una coalizione stabile, nonostante i dieci governi in nove
anni: per tutto il periodo i personaggi rimasero sostanzialmente gli stessi, con
un ruolo determinante di Craxi per i socialisti e di Ciriaco De Mita per i
democristiani. Craxi era pronto anche ad affrontare il movimento sindacale,
allora ancora forte – e in questo (si trattava dell’indicizzazione dei salari, la
‘scala mobile’) fu sostenuto dalla maggioranza del popolo italiano in un
referendum del giugno 1985: un altro segnale dei cambiamenti iniziati nel
1980 con la ‘marcia dei 40.000’ a Torino.
Craxi trovò saldi sostenitori tra la gente stanca della militanza e
dell’agitazione degli anni ’60 e ’70; molte famiglie conoscevano allora per la
prima volta la vera prosperità. Piaceva agli elettori di tutte le parti, compresi
quelli di destra. Lo storico Giulio Sapelli osserva che “un’inchiesta tra gli
iscritti all’MSI nel 1989 rivela che il 35,7 per cento degli intervistati aveva
rispetto per Bettino Craxi ‘più di tutti gli altri’”30. Il richiamo al post-politico
preparò il terreno per la generazione a venire. Ma la funzione pionieristica di
Craxi aveva il suo lato oscuro. Secondo Sapelli, la segreteria di Craxi
rappresentò “un passaggio al clientelismo monoteista e autocratico, con
ampiezza di risorse acquisite attraverso il violento ampliamento dell’area di
controllo”31.
Craxi gestì un consistente incremento del debito pubblico italiano. Il suo
lascito fu un debito maggiore per tutti, e decenni di austerità. Ma finché fu al
potere costruì anche una fitta rete di corruzione e finanziamenti illeciti alla
politica. Si aprivano conti bancari segreti, in cui confluivano miliardi di lire.
Ulteriori controversie furono provocate dai suoi stretti legami con Silvio
Berlusconi, e dai discutibili accordi politici sulla regolamentazione dei media
che ne derivarono. Se dunque Craxi parlava il linguaggio del cambiamento e
della riforma istituzionale, e si presentava come estraneo al sistema politico, in
realtà ne faceva parte fino in fondo. Usava il potere allo stesso modo dei
democristiani che l’avevano preceduto, ma senza i ‘pesi e contrappesi’ del
partito di massa e delle fazioni interne. Insieme, potere e clientelismo
produssero episodi grotteschi in cui pubblico e privato non erano soltanto
confusi, ma del tutto identici. Come racconta lo storico Paul Ginsborg,
“quando Craxi... andò in Cina in visita di stato ufficiale nel novembre 1986
portò con sé un seguito di 52 persone, compresi i suoi figli e i loro rispettivi
compagni”32. Il principale alleato di Craxi al di fuori della politica era un
uomo che aveva fatto fortuna come ‘re del mattone’ a Milano. I loro destini
sarebbero rimasti intimamente legati per tutti gli anni ’80 e ’90.
Il venditore:
le molte vite di Silvio Berlusconi
“La città dei numeri uno”, strillavano i manifesti. La campagna pubblicitaria
promuoveva la vendita di nuovi appartamenti in un vasto complesso alla
periferia di Milano. Un progetto ambizioso, che copriva più di 700.000 metri
quadrati. Gli stessi architetti avrebbero poi ridisegnato lo stadio di San Siro.
Nei primi anni ’70, a Milano, nessuno badò molto a quanto avveniva in quella
zona un tempo rurale, vicina a quello che era allora il principale aeroporto
della città. Ma quel progetto avrebbe cambiato Milano, e l’Italia, per sempre. I
profitti delle vendite resero una fortuna alla società costruttrice, la Edilnord.
Il promotore principale dell’impresa non aveva ancora quarant’anni, e aveva
già fatto soldi con l’edilizia. Si chiamava Silvio Berlusconi, ed era nato a
Milano, nel quartiere operaio di Isola, nel 1936. Suo padre lavorava in una
piccola banca, e lui studiò giurisprudenza all’Università di Milano.
L’argomento della sua tesi è significativo, alla luce degli eventi successivi: uno
studio sui contratti pubblicitari33. Il resto della vita di Berlusconi sfuma nel
mito, tanto che è spesso difficile distinguere la realtà dalla finzione. Lavorò
davvero come cantante su una nave da crociera? Per quale squadra di calcio
tifava davvero? Da dove provenne di preciso la sua fortuna iniziale? Queste e
altre domande concorrono alla controversia che avvolge ogni aspetto della sua
vita personale e dei suoi affari.
Milano 2 (iniziata nel 1970 e completata nel 1979) era tutt’altra cosa rispetto
alle zone residenziali esistenti in città – e in Italia. Il traffico veniva separato
dalle residenze da un complesso sistema di passaggi pedonali, e c’era anche un
lago artificiale. Milano 2 aveva tutto: sei scuole, un circolo sportivo, una
stazione televisiva propria. In una città in cui gli spazi verdi sono minuscoli,
Milano 2 era tutta un parco. Ma non si faceva certo la guerra alle automobili:
ogni appartamento aveva il suo garage (qui almeno una macchina non si
poteva non averla). Il quartiere era esclusivo, ma non autosufficiente. Era in
perfetta sintonia con il nuovo stile di vita di una popolazione rampante e
consumista. Alte barriere lo isolavano dal resto di Milano34. Era città, ma
progettato per eliminare i problemi della città vera e propria – ‘pulito,
ordinato, sicuro’, come un pezzo di Stati Uniti in Italia, una ‘enclave’. Gli
appartamenti, aperti su tre lati, erano tutti rivolti verso il parco, via dal
circostante ambiente urbano. Milano 2 era autoreferenziale: la sua comunità
non era la stessa di quella della città da cui prendeva il nome. Si diceva che a
Milano 2 non esistessero differenze di classe. Un altro slogan promozionale
proclamava: “Il silenzio non ha prezzo, ecco il paradiso del silenzio”.
I tempi cambiavano, in tutta Milano. Si apriva una nuova epoca
postindustriale, che non a caso prese il nome da uno slogan pubblicitario,
‘Milano da bere’. La città più ricca d’Italia offriva soldi, lavoro e mondanità.
Berlusconi avrebbe presto costruito Milano 3 in un’altra periferia. Qui gli
appartamenti presentavano un’ulteriore novità, le pareti mobili, che in teoria
offrivano la possibilità di modificare la disposizione degli spazi interni con il
mutare delle esigenze familiari.
La ricchezza e il potere di Berlusconi crescevano. Nel 1974 acquistò una
residenza mirabolante, Villa San Martino, con 145 stanze e una vasta tenuta
(una sessantina di ettari), nella cittadina di Arcore, fuori Milano. Come quasi
ogni altro aspetto della vita e della carriera di Berlusconi, nemmeno questo
passaggio di proprietà fu privo di controversie. Nell’agosto 1970 il
proprietario della villa, Camillo Casati Stampa di Soncino, si era ucciso dopo
aver assassinato la moglie e il suo amante. L’unica erede aveva all’epoca solo
diciannove anni, e per la legge italiana non poteva ancora disporre della
proprietà. La villa fu venduta a Berlusconi attraverso la mediazione di un
avvocato, Cesare Previti, a un prezzo considerato ben al di sotto di quello di
mercato, e Previti divenne uno dei collaboratori più fidati del magnate.
Berlusconi avrebbe poi commissionato a un famoso architetto la costruzione
nel parco di un imponente mausoleo, da esibire ai dignitari in visita ufficiale –
ci portò anche Michail Gorbačëv. Il mausoleo era destinato innanzitutto ad
accogliere le spoglie di Berlusconi, ma c’erano anche loculi riservati ai suoi
amici e collaboratori più fedeli. Negli anni 2000, Arcore avrebbe ospitato
anche i festini ‘bunga bunga’ – quelli che Berlusconi definiva “cene eleganti”.
La vendita degli appartamenti era ancora in corso, e Berlusconi era già
impegnato a fabbricare il mito di Milano 2. Aveva costruito tutto “dal nulla”,
diceva. E negli anni successivi avrebbe spesso citato il successo di quel
‘modello’. Dopo i terremoti come quello dell’Aquila nel 2009, il presidente
del Consiglio Berlusconi propose a più riprese che la ricostruzione seguisse i
criteri del suo ‘quartiere modello’ degli anni ’70. Con l’andare del tempo
avrebbe messo le mani su altre zone nella stessa area del nord di Milano –
Milano 2 stessa, e la prestigiosa casa editrice Mondadori poco più in là, in uno
splendido edificio progettato dall’architetto brasiliano Oscar Niemeyer.
Nel 1990 Berlusconi divenne presidente della Mondadori dopo una lunga
battaglia legale e finanziaria. L’altro pretendente alla proprietà dell’azienda,
l’industriale e magnate delle comunicazioni Carlo De Benedetti, contestò
l’operazione, che fu sottoposta ad arbitrato. Berlusconi perse in prima istanza,
ma andò in appello. I giornali e le riviste del gruppo furono spartiti: il
quotidiano romano di centrosinistra “la Repubblica” e il settimanale
“L’Espresso” andarono a De Benedetti, mentre a Berlusconi andavano l’altro
settimanale, “Panorama”, il settore libri, e un’emittente televisiva...

Tutti quei soldi...


Gli esordi di Berlusconi come imprenditore di successo – come quasi tutti gli
aspetti della sua vita pubblica e privata – sono controversi. Milano 2 era ancora
in costruzione quando cominciarono le prime accuse pubbliche. Nel 1976 il
giornalista Giorgio Bocca scriveva che “un certo Berlusconi costruisce Milano
2, cioè mette su un cantiere che costa 500 milioni al giorno. Chi glieli ha dati?
Non si sa. Chi gli dà i permessi e dirotta gli aerei dal suo quartiere?... Noi
saremmo molto curiosi, molto interessati a sapere dal signor Berlusconi la
storia della sua vita”35. In una sequenza semionirica del film di Nanni Moretti
Il caimano (2006), un personaggio simile a Berlusconi viene coperto di denaro
che cade dall’alto in una enorme valigia. “Tutti quei soldi, caduti dal cielo. Da
dove vengono?”, si chiede il protagonista36.
L’intera vita di Berlusconi (elemento centrale della sua immagine di grande
imprenditore, e poi uomo politico – uno che ‘si è fatto da sé’) è oggetto di
dibattito: i successi imprenditoriali, la carriera politica, i rapporti con le
donne. Della ‘verità’ sul suo conto esistono diverse versioni parallele, e lui
stesso ha più volte fornito narrazioni alternative del proprio passato. Il
carattere mitologico della vita di Berlusconi è un fattore chiave del suo
successo.
Esistono prove di un legame tra Berlusconi e la mafia? Alla fine degli anni
’70 ci fu in Italia un’ondata di rapimenti (molti dei quali a Milano). Le vittime
erano spesso industriali, o loro familiari, per i quali veniva pagato un riscatto.
Pare che in questo periodo Berlusconi o i suoi figli avessero subìto minacce di
rapimento. Fu allora (dal 1974 al 1976) che ‘assunse’ come ‘stalliere’ nella
tenuta di Arcore un certo Vittorio Mangano: doveva fornirgli protezione
oppure tenerlo d’occhio, o entrambe le cose? Secondo alcuni fu il segnale di
una qualche forma di accordo con Cosa nostra37. Sappiamo anche che in
quegli anni Berlusconi portava una pistola, come si vede in una celebre
fotografia. Sarebbe stato bizzarro, in effetti, che un imprenditore con le sue
risorse non avesse attirato l’attenzione della mafia. Quanto alla reale
provenienza del denaro, non possiamo esserne certi. Per citare l’esperto di
mafie Federico Varese, “nonostante gli sforzi dei magistrati, è stato
impossibile tracciare le origini di 94 miliardi di lire entrati nei forzieri di
Berlusconi tra il 1978 e il 1985”38. Berlusconi ha sempre negato ogni
addebito.

Sua Emittenza:
Berlusconi e la televisione
Una cosa mancava, a Milano 2: le antenne TV. Nel resto della città, fin dalla
nascita della televisione in Italia a metà degli anni ’50, i tetti si erano coperti di
migliaia di antenne. Berlusconi aveva forse dimenticato il bene di consumo
durevole più importante di tutti, il televisore? No, anche in questo Milano 2
anticipava i tempi: tutti gli appartamenti disponevano di un collegamento via
cavo. Da questo sistema sarebbe partita la seconda, e più importante,
avventura imprenditoriale di Berlusconi. Cominciò a trasmettere –
inizialmente solo ai residenti di Milano 2 – da un’emittente chiamata
Telemilano.
Nel 1975 il servizio televisivo pubblico, la Rai, era stato riformato. Al
controllo diretto del governo sulla televisione di Stato fu sostituita una
commissione parlamentare, con criteri di composizione e nomina che
variarono nel tempo. In teoria, i canali – e soprattutto i notiziari – dovevano
essere più indipendenti: il controllo politico generale rimaneva, ma ora i
diversi partiti disponevano di un ‘proprio’ canale. In soldoni, i democristiani
dominavano Rai 1, ai socialisti andava Rai 2 (non male, per un partito
relativamente piccolo) e ai comunisti Rai 3, inaugurata nel 1979. Sempre in
teoria, le riforme del 1975 miravano a decentrare il potere nei mezzi di
comunicazione e a ridurre l’intervento della politica nella gestione della
televisione di Stato39. Così non fu; le riforme non generarono autonomia. E
non si può certo dire che migliorarono la qualità della programmazione,
pagata sempre con i soldi degli abbonati.
Il controllo dello Stato sulla televisione in Italia rimase assoluto fino agli anni
’70. Fu allora che il monopolio subì la sfida delle emittenti locali, che
cominciarono a trasmettere dalle città di provincia: programmi a basso costo,
in genere imperniati sulle notizie locali, lo sport e una blanda sollecitazione
sessuale. Era evidente la domanda dal basso – dal pubblico stesso – di qualcosa
di diverso dal pastone insipido offerto dalla televisione di Stato, di contenuti
più in sintonia con ciò che era diventata la società italiana.
Sul piano legale, il monopolio della Rai fu abolito da una sentenza della
Corte costituzionale nel luglio 1976. Le televisioni private diventavano legali
(purché rimanessero ‘in ambito locale’, un termine aspramente dibattuto).
L’Italia non sarebbe mai più stata la stessa. Le battaglie legali sulla portata del
segnale e la gestione delle TV locali infuriarono per tutti gli anni ’70 e ’80: per
legge, soltanto la televisione di Stato poteva trasmettere a livello nazionale. Ma
Berlusconi decise di prendere d’assalto il mondo dei media. Lanciò la sua sfida
creando delle reti ‘nazionali’ utilizzando videocassette che venivano trasmesse
contemporaneamente in tutto il paese. Fu il primo passo verso il gigantesco
impero mediatico degli anni ’80 e ’90. I suoi canali si chiamavano Canale 5
(evoluzione diretta della Telemilano di Milano 2), Italia 1 (acquistata
dall’editore Rusconi nel 1982) e Rete 4 (di cui assunse il controllo dopo il
1984). Nel 1984 la battaglia sull’ambito nazionale o locale delle trasmissioni fu
chiusa dalle sentenze autonome di tre magistrati, che imponevano la chiusura
delle reti ‘nazionali’ di Berlusconi, considerate illegali. Quei canali, ormai
popolarissimi, rischiavano l’oscuramento.
A questo punto il sistema politico venne in aiuto di Berlusconi. Il presidente
del Consiglio Craxi – come abbiamo già visto, intimo amico e alleato di
Berlusconi – impose (con il voto di fiducia) un decreto ‘urgente e necessario’
che consentiva la prosecuzione delle trasmissioni nazionali. Il decreto (che poi
divenne legge) fu estremamente controverso: era una legge destinata a tutelare
gli interessi specifici di un imprenditore, Silvio Berlusconi. Cinque ministri
democristiani si dimisero per protesta – tutti della sinistra del partito. E
c’erano anche problemi di costituzionalità.
Grazie al decreto Craxi, Berlusconi poté costruire un impero mediatico che
lo lasciò senza concorrenti in Italia. Avrebbe poi conquistato settori
importanti dell’industria editoriale (libri, periodici, giornali) nonché –
elemento fondamentale – una quota decisiva della produzione e delle vendite
pubblicitarie. Il tranquillo panorama delle comunicazioni in Italia fu
rivoluzionato. C’era da far soldi a palate – in buona parte a beneficio di
Berlusconi e delle sue aziende. Nel 1990 la sua società (che ormai si chiamava
Fininvest) controllava la metà delle reti televisive italiane. E i favori politici
non erano finiti. Una nuova legge che regolava l’intero sistema televisivo – la
‘legge Mammì’, dal nome del ministro delle Telecomunicazioni Oscar
Mammì – fu approvata nel luglio 1990. Ma si limitava a riprodurre, o
‘fotografare’, la situazione esistente, e dunque non può essere considerata una
riforma40.
Berlusconi era circondato da un gruppo di collaboratori fedelissimi (alcuni
amici dai tempi della scuola). Ci sono due famose fotografie che riassumono la
natura dei rapporti del capo con il suo circolo ristretto.
In una, la più celebre, lui e il suo seguito (un gruppo di uomini di mezza età)
si preparano a fare jogging. Sono in vacanza, alle Bermuda; è il 1995. Nulla di
strano, verrebbe da dire. Ma sono tutti vestiti esattamente allo stesso modo –
maglietta bianca, calzettoni bianchi – e sono pronti a correre in fila indiana
dietro al capo. L’altra immagine, del medesimo tenore (è del 1991), mostra un
altro gruppo (questa volta misto) seduto a tavola su un panfilo di lusso. Anche
qui sono tutti vestiti uguali: camicie a righe rosse e nere (i colori del Milan).
Berlusconi sta nel mezzo, sparando il suo famoso sorriso41.

Neotelevisione
Il menu della TV berlusconiana prevedeva tre portate principali. La prima era
costituita dalle telenovelas (Dallas fu tra i primi grandi successi) e dai film
acquistati a pacchetto. La seconda era il calcio, e le chiacchiere sul calcio. In
terzo luogo i quiz, con fitti inserimenti pubblicitari. Niente notiziari (più
avanti sarebbero diventati fondamentali), e nemmeno un cenno di
programmazione culturale o didattica. La TV di Berlusconi era pacchiana,
incalzante, sguaiata, eccitante. Te lo diceva in faccia: stava lì per venderti
qualcosa.
Senza dubbio a molti italiani – quasi certamente alla maggioranza di quelli
che guardavano molta TV tra gli anni ’70 e i ’90 – i materiali emessi dai canali
di Berlusconi piacevano: erano diventati un elemento importante della loro
vita. Quando nel 1995 fu offerta loro la possibilità di smantellare il suo impero
mediatico attraverso un referendum, rifiutarono di raccoglierla con una vasta
maggioranza – 15,3 milioni contro 11,6. Non fu Berlusconi a inventare il
consumismo, o l’individualismo; ma ebbe comunque un ruolo chiave nel
modo in cui quelle tendenze si affermarono nella società e nella cultura. Nel
1999 gli italiani stavano davanti alla TV mediamente per quattro ore al
giorno42.
Prima di Berlusconi, la televisione italiana era finanziata da due fonti. In
primo luogo il canone di abbonamento obbligatorio, una delle ‘imposte’ più
evase della Repubblica italiana, che comunque produceva notevoli risorse. In
secondo luogo, la televisione di Stato aveva anche la pubblicità – che però nel
periodo iniziale veniva rigidamente limitata. Le emittenti di Berlusconi,
invece, non potevano contare sul canone, ma soltanto sulla pubblicità.
Umberto Eco inventò il termine “neotelevisione” nel 198343. Autorevole
come sempre, ricordava la “paleotelevisione”, quella “fatta a Roma o a
Milano, per tutti gli spettatori, [che] parlava delle inaugurazioni dei ministri e
controllava che il pubblico apprendesse solo cose innocenti, anche a costo di
dire le bugie”44. Negli anni ’70 e ’80 era cambiato tutto. Come spiegava Eco,
“con la moltiplicazione dei canali, con la privatizzazione, con l’avvento di
nuove diavolerie elettroniche, viviamo nell’epoca della neotelevisione”45. Ma
che cos’era la “neotelevisione”? “La caratteristica principale della Neo TV è
che essa sempre meno parla (come la Paleo TV faceva o fingeva di fare) del
mondo esterno. Essa parla di se stessa e del contatto che sta stabilendo col
proprio pubblico”46.
Come abbiamo visto, fino alla comparsa della televisione privata la Rai aveva
detenuto il monopolio. Lo spostamento degli indici d’ascolto negli anni ’70 fu
sbalorditivo: nel 1982 la Rai era riuscita a dimezzare il suo pubblico. È ovvio
che questa spettacolare trasformazione investisse anche il mercato della
pubblicità. Nel 1983 alla Rai andò soltanto un terzo delle entrate del settore.
Era evidente che la maggioranza degli italiani non voleva più guardare i canali
di Stato (ora che finalmente si poteva scegliere), e gli inserzionisti ritenevano
che la pubblicità sulla Rai non servisse a vendere di più. Si rivolgevano
altrove. E non stupisce che gli spettatori si arrabbiassero quando i giudici
minacciarono di chiudere quelle emittenti. Berlusconi e gli altri canali privati
si erano presi metà del pubblico e due terzi dei soldi in pochi anni. Per la Rai
fu un disastro; occorreva adattarsi, e fare presto. La strategia più facile
consisteva nel copiare i format e i programmi trasmessi dalle private. La
neotelevisione non era più la concorrenza: era diventata la norma.

Dallo scandalo al trionfo:


la Coppa del mondo 1982
e la ‘calcistizzazione’ dell’Italia
Ciò che non era riuscito né a Camillo Benso conte di Cavour né a Vittorio Emanuele II, né a Garibaldi,
è riuscito a Bearzot47.

Nessuno credeva che potessero farcela. Per il calcio italiano gli anni ’80 si
erano aperti con un periodo di crisi – a voler essere buoni. Nel 1980 uno
scandalo di scommesse e partite truccate (fu chiamato ‘Totonero’) aveva
traumatizzato i tifosi, e l’opinione pubblica. Si arrestavano i calciatori negli
spogliatoi, si istruivano processi penali, si infliggevano pesanti squalifiche. La
violenza imperava negli stadi. La nazionale non aveva brillato ai campionati
europei di quell’anno (che si svolsero in Italia). Gli azzurri partirono quindi
per la Coppa del mondo in Spagna sotto l’ombra del sospetto. Uno dei
giocatori più promettenti, l’attaccante Paolo Rossi, era appena rientrato da
una lunga squalifica collegata allo scandalo; Rossi ha sempre negato ogni
coinvolgimento nelle partite truccate.
Le aspettative furono pienamente confermate nella prima fase del torneo.
L’Italia non giocava male, era un disastro. La squadra superò a fatica la fase a
gironi con soli tre punti per tre partite, grazie a un pareggio – 1-1 – con il
Camerun di cui poi si sarebbe detto che era stato comprato48. Si prevedeva
una rapida eliminazione nella fase successiva, e i giornalisti affilavano le penne
in preparazione degli annunci mortuari.
Poi, all’improvviso, cambiò tutto. L’Italia batté l’Argentina di Maradona e
poi – incredibilmente – eliminò il favorito Brasile in una partita di enorme
effetto: tripletta di Rossi, che divenne subito un eroe nazionale. In semifinale
la Polonia fu liquidata senza fatica; ormai gli azzurri erano inarrestabili.
Nonostante un rigore mancato nel primo tempo, in finale l’Italia batté i
vecchi rivali della Germania occidentale per 3-1, gol di Rossi (ancora: vinse il
Pallone d’oro), Marco Tardelli e Alessandro Altobelli. La coppa era loro: la
levò in alto il portiere quarantenne Dino Zoff. In quattro partite le sorti della
squadra si erano ribaltate.
Il calcio, com’è noto, ha la capacità di concentrare su di sé l’attenzione delle
comunità più disparate – nel medesimo momento e luogo, sul medesimo
evento. Utilizza una forma di linguaggio universale, facile da apprendere, che
consente di chiacchierare di calcio prima, durante e dopo la partita. Nel 1982,
tra l’altro, si era ormai abbastanza lontani dalla Seconda guerra mondiale e dal
fascismo da poter guardare al vecchio regime con distacco. Gli spettatori, così
come i giocatori, facevano quasi tutti parte della generazione del dopoguerra.
Ma per quale motivo il 1982 fu tanto importante per la mobilitazione e
l’identità della nazione? L’‘evento’ calcistico conteneva una serie di storie che
potevano essere raccontate più e più volte, mentre altri aspetti della
‘spedizione’ potevano essere opportunamente dimenticati, o distorti a
conferma degli elementi mitici. I personaggi e le storie stavano lì, davanti agli
occhi di tutti. Un fattore chiave dell’effetto complessivo venne dalle modalità
in cui la partita fu seguita dal pubblico, in un’epoca pre-Internet. Gli italiani
consumarono il Campionato del mondo soprattutto sui televisori privati, nella
sfera domestica; pochi grandi schermi, nel 1982, ma milioni di italiani si
chiusero in casa, o a casa di amici. La finale arrivò al 95 per cento negli indici
d’ascolto: un record, che non verrà mai più battuto, considerati i cambiamenti
avvenuti nel sistema dei media. Si dice che gli altri canali venissero guardati
soltanto da un 5 per cento di cocciuti. Nella storia d’Italia non c’era mai stato,
né si sarebbe ripetuto, un evento come questo.
In quella calda giornata di luglio, dunque, circa 36 milioni di italiani in tutto
il paese, dalla Sicilia al Piemonte, guardarono la stessa partita, con lo stesso
commento, senza cellulari o Twitter. In tutto il mondo si univano a loro gli
emigranti – da Toronto a Sydney, a New York, a Buenos Aires. La capacità
del calcio di unificare una nazione – e una diaspora – era accentuata dal
contesto sociale e tecnologico del momento, dal fatto che il campionato era
comunque materia da prima serata, e dal successo della nazionale.
Cronista unico era Nando Martellini, una presenza rassicurante che sapeva
esattamente cosa fare. Quando l’arbitro levò in alto il pallone per segnalare la
fine, Martellini pronunciò la famosa frase “Campioni del mondo, campioni
del mondo, campioni del mondo” – non soltanto la classica tecnica
pubblicitaria della ripetizione, ma un richiamo al fatto che per l’Italia questa
era la terza Coppa. Le emozioni si scatenarono in un’esperienza visiva e
uditiva unica, singolare e irripetibile. Per la finale, un produttore televisivo di
Genova ebbe la brillante idea di piazzare una telecamera nel salotto di una
famiglia qualunque. La stanza era affollata, gente di ogni età, uomini e donne
insieme. Agitavano trombette e si stringevano al petto le bandiere. Alla prima
rete, diedero di matto. Poi ci fu l’immenso empito emotivo per il potente
cross di Tardelli, che paralizzò il portiere tedesco e portò l’Italia sul 2-0.
Tardelli partì di corsa, le braccia tese e la bocca spalancata: divenne “l’urlo di
Tardelli”, una scena ripetuta tante volte da imprimersi per sempre nella mente
di milioni di persone – molte delle quali impegnate a urlare in salotto. Altre
celebrazioni seguirono il terzo gol, e il segnale della fine. Poi la gente scese in
strada.
Seguì una festa spontanea che, nella memoria popolare (e in qualche caso
nella realtà), continuò per giorni. Non tutti andarono al lavoro, il giorno
dopo. Si improvvisarono tavolate e banchetti in piazza. I simboli nazionali
venivano esposti senza vergogna, e le strade venivano riscattate (sia pure per
poco) dal buio degli ‘anni di piombo’, della violenza politica, quando tanti
avevano paura di uscire. La festa presentava qualche elemento ritualistico – i
caroselli di auto a clacson spiegato con la gente fuori dal finestrino, i tuffi nelle
fontane (faceva molto caldo), i finti annunci mortuari per la Germania – ma
c’era qualcosa di nuovo in quelle celebrazioni. Molti emigranti ricordano il
1982 come la prima volta in cui avevano avuto la sensazione di contare
qualcosa nel paese di adozione. A Toronto, per esempio, ci fu una festa
particolarmente lunga e fragorosa49.
In Italia, i giornalisti notarono il gran sventolio di bandiere nazionali – un
gesto raro, sul quale gli italiani si erano divisi nelle battaglie politiche degli
anni ’60 e ’70. Come scriveva Luciano Curino sulla “Stampa”, “di bandiere
non se ne sono mai viste tante. Molte con lo stemma sabaudo, uscite da un
cassetto dopo una quarantina d’anni” – pareva quasi che la vittoria del 1982
avesse reso di nuovo accettabili quei vessilli polverosi. Il tricolore vestiva i
bambini e rivestiva le case. Si era creato un senso di comunità – ancora
Curino: “In questa notte tutti si danno del tu e continuano ad abbracciarsi, a
ripetersi: siamo i campioni del mondo” –, una comunità che andava oltre il
tifo, accogliendo anche “chi sa nulla di calcio”50.

Il nonno d’Italia
Paolo Rossi fu l’eroe in campo, ma la vittoria venne identificata soprattutto
con un personaggio che non era un giocatore, né un allenatore, né un cronista
sportivo. Era il presidente della Repubblica Sandro Pertini, che in Spagna vide
dal vivo una sola partita (la finale) – e anche quella fu una decisione
dell’ultimo minuto. Fino a quel momento era rimasto a Roma, anche se si
faceva fotografare per la stampa mentre guardava le partite in TV. Pertini
aveva imparato la lezione della vicenda di Alfredino Rampi, un anno prima,
quando ore di riprese dal vivo si erano concluse con una tragedia. Questa
volta voleva ridurre al minimo il rischio.
L’immagine di Pertini come uomo del popolo, e persona speciale, era già
ben consolidata prima della Coppa del Mondo. Silvio Lanaro scrive che il
presidente “non è mai sopra le righe, ma sempre consapevole della parte che
recita... si colloca al di sopra delle parti con una naturalezza che tutti
intuiscono sincera; uomo dai costumi spartani e dalle emozioni studiatamente
semplici... non muoverebbe un dito senza essere ripreso dalle telecamere...
scende continuamente in mezzo alla gente, si bea dei bagni di folla, gioisce
come un ragazzino per la vittoria dell’Italia nei campionati mondiali di calcio
nel 1982”51.
Pertini volò in Spagna la mattina della finale, su un DC9 dell’aviazione
militare. Aveva messo in chiaro che lui, e soltanto lui, avrebbe rappresentato
l’Italia in quell’occasione. All’aeroporto di Madrid fu accolto dal re Juan
Carlos in persona. Ma perché le azioni di Pertini nel 1982 rimasero tanto
impresse nella coscienza nazionale degli italiani? Prima di tutto, l’aspetto
dell’uomo: piccolo, occhialuto, anziano. Teneva la pipa in bocca, ed era
sempre in giacca e cravatta, come tanti della sua generazione. Aveva l’aria del
‘nonno’, ma era il presidente della Repubblica, il capo dello Stato, il
presidente di tutti gli italiani, come aveva detto lui stesso al momento
dell’elezione.
Pertini rifiutò di trasferirsi al Quirinale, preferendo un ‘modesto’
appartamento al centro di Roma: gli orpelli del potere non facevano per lui.
Era diventato una specie di papa laico. Per spostarsi, insisteva per usare la 500
della moglie (lui non aveva la patente). Si raccontava che spesso tentasse di
seminare la scorta. E non aveva peli sulla lingua, si trattasse di corruzione,
mafia, politica o cose di tutti i giorni.
Era diventato presidente in un momento estremamente difficile per il paese,
nel pieno degli ‘anni di piombo’ della violenza politica, e di una profonda crisi
economica (e politica). Lo chiamavano ‘presidente dei funerali’, perché non
mancava mai alle esequie delle vittime. Si compiaceva anche, in determinate
occasioni, di prendere le parti del ‘popolo’ contro lo Stato: la sua rabbiosa
denuncia delle inefficienze dopo il grave terremoto in Irpinia, per esempio, o i
discorsi contro la corruzione politica.
Durante la partita Pertini si comportò da tifoso – proprio come i milioni di
italiani che celebravano allo stesso modo, nello stesso momento, insieme con
lui. Ma Pertini stava dall’altra parte delle telecamere, e insieme con la partita i
tifosi guardavano lui che la guardava: Pertini stava lì, accanto al re di Spagna.
In quel momento gli italiani e Pertini (e i giocatori in campo) erano una cosa
sola: l’identificazione era totale. Quando Altobelli alzò le braccia dopo il gol
che portò l’Italia sul 3-0, Pertini fece esattamente lo stesso gesto.
Il tocco finale fu la partita a scopone con un paio di giocatori e l’allenatore
sull’aereo di ritorno, con la coppa del mondo in mezzo al tavolo. Il lunedì
mattina, giorno dopo la partita, il DC9 ritornò a Roma, portando Pertini,
tutta la squadra e la coppa. Pertini fu il primo a sbarcare dall’aereo; per
modestia, si disse, non volle essere lui a portare il trofeo, ma fu lui, la prima
persona a presentarsi alla folla a Roma, a essere identificato con la vittoria. La
messa in scena del rientro fu perfetta: migliaia di tifosi all’aeroporto di
Ciampino, e centinaia di migliaia lungo la strada verso il centro. Si disse che
Pertini fosse riuscito a imporre che la squadra (e lui stesso) arrivasse a Roma in
auto invece che in elicottero. Tutt’altra cosa rispetto al rientro dai mondiali
del 1970, quando giocatori e allenatore erano stati costretti a rifugiarsi in un
hangar per sfuggire alla folla inferocita, o al catastrofico torneo del 1966,
quando i giocatori erano stati presi a pomodori marci all’aeroporto di Genova.
La storia personale di Pertini influì su tutto questo – come molti vorrebbero?
Fu davvero una Coppa del mondo antifascista? La vita di Pertini pare
riassumere il ‘XX secolo breve’ d’Italia. Era un veterano della Prima guerra
mondiale, ed era stato uno dei capi della Resistenza antifascista: aveva
partecipato alla decisione di fucilare Benito Mussolini, eseguita dai partigiani
sul Lago di Como nell’aprile 1945, e aveva dato il segnale dell’insurrezione
finale di Milano che liberò la città prima dell’arrivo degli alleati. Suo fratello
Eugenio era stato ucciso dai nazisti nel campo di Flossenbürg il 25 aprile 1945
– per l’Italia, giorno ufficiale della Liberazione.
La stretta associazione di Pertini con la vittoria in Coppa del Mondo mise in
ombra il suo passato di radicale. Divenne una figura universale,
tranquillizzante e quasi affettuosa. Il mito di Pertini non tramonta, e riaffiora a
scadenze regolari nei discorsi e nei proclami dei politici52. Il Pertini del 1982
piace a tutti, senza distinzioni. Più in generale, il 1982 rimane uno dei
momenti più forti di identificazione nazionale del dopoguerra italiano. E la
sua forza aumenta col tempo, anche per chi non ha alcuna memoria diretta
dell’evento.

Dio a Napoli: Maradona, 1984-91


Nel giugno 1984 70.000 persone pagarono mille lire a testa per radunarsi in
una grande conca di cemento. Era uno stadio di calcio, ma quel giorno non si
giocavano partite: dagli spogliatoi emerse un ometto dai capelli ricci, con la
tuta e la sciarpa del Napoli. Ovazioni da tirar giù lo stadio, mentre lui si
esibiva in qualche giochetto col pallone di fronte alla folla estasiata. Siamo a
Napoli, stadio San Paolo. Il Napoli, fondato nel 1926, non aveva mai vinto un
campionato in serie A. A Maradona ci volle un po’ per ingranare con la
squadra, ma nel 1987 la portò al primo scudetto. La città esplose, giorni e
giorni di celebrazioni, e Maradona assunse prerogative divine. L’orgoglio
meridionale aveva la meglio – per una volta – sulle squadre più ricche e
immancabilmente vittoriose delle città del Nord. Finché ci fu Maradona il
Napoli vinse un secondo scudetto, nel 1990, e parecchi altri trofei.
Nel 1990 l’Italia ospitò la Coppa del mondo, e gli azzurri si trovarono in
semifinale con l’Argentina, a Napoli. Fu una partita drammatica, che finì ai
rigori. Nell’attesa, Maradona stesso aveva giocato sulla possibilità che la folla
napoletana preferisse lui – il suo eroe – alla ‘patria’. Disse a un giornalista:
“trovo di cattivo gusto chiedere ai napoletani di essere italiani per una sera,
dopo che per 364 giorni all’anno vengono trattati da terroni”. Gli italiani
sbagliarono i rigori, e quello decisivo fu tirato da Maradona – che non sbagliò.
Alla finale, a Roma, tra Argentina e Germania Ovest, i tifosi fischiarono
l’inno nazionale argentino, e la Germania vinse. Maradona era già odiato da
molti tifosi, e non tifosi, nel Settentrione, ma dopo il 1990 divenne un uomo
segnato.
Dopo la Coppa del mondo, la vita dell’argentino in città divenne difficile. Fu
indagato per evasione fiscale, risultò positivo al test per la cocaina, e nel marzo
1991 fuggì dall’Italia. Nel frattempo spuntarono delle foto di lui che se la
spassava con pezzi grossi della camorra – in una stava dentro una lussuosa
vasca da bagno rossa a forma di conchiglia insieme con due noti boss
acconciati ‘alla Maradona’53. Dei pentiti dichiararono che il Napoli aveva
venduto il campionato del 1988, perdendo quattro delle ultime cinque partite
e lasciando lo scudetto al Milan. Nulla di tutto questo fu mai dimostrato in
tribunale.
Il fisco cercò di costringere Maradona a saldare il suo presunto debito (34
milioni di euro), ma con scarso successo. Ogni volta che tornava in Italia gli
prendevano qualcosa – gli orecchini, il Rolex, o il compenso per la
partecipazione a Ballando con le stelle. Le foto e le voci sui rapporti con la
camorra, le accuse di evasione fiscale, le vicende delle partite truccate, non
bastarono a far diminuire l’amore per Maradona dei tifosi napoletani, né il
valore storico dei suoi sette anni in squadra. Ma rivelarono ancora, per
l’ennesima volta, l’intima connessione tra sport, società e politica.

Il maxiprocesso: la mafia alla sbarra


Nonostante la natura apparentemente immobile della sua classe politica, lo
Stato italiano non era un monolite. Mentre Craxi concentrava a Roma il
potere politico, altri settori dello Stato ottenevano sorprendenti successi nella
guerra alla criminalità organizzata, soprattutto nel Meridione. Negli anni ’80
questa battaglia produsse l’evento eccezionale di un processo collettivo a capi e
gregari della mafia nel cuore stesso del suo potere: Palermo.
Si aprì nel febbraio 1986 all’interno di una prigione, in un’aula speciale
circondata da celle separate, che divenne nota come ‘aula bunker’. Continuò
fino alla fine del 1987, e bastano le cifre per raccontare la storia di un
momento che avrebbe cambiato la storia d’Italia. Nell’aula speciale furono
processate 460 persone – ecco perché venne chiamato ‘il maxiprocesso’.
Quel numero ci dice anche qualcos’altro. Non fu un processo a singoli
individui (sebbene fosse anche questo), bensì a un’organizzazione criminale –
forse la più antica e potente di tutte: la mafia. Un evento giudiziario senza
precedenti che era stato reso possibile grazie all’impegno coraggioso di un
gruppo di magistrati, e dalla testimonianza dei pentiti. Con il maxiprocesso
divenne evidente che la strategia del pentitismo funzionava. Riuscendo a far
testimoniare dei capi mafiosi, i magistrati erano stati in grado di comprendere
e documentare il funzionamento di un’organizzazione complessa e segreta – e
di utilizzare quelle testimonianze per sconfiggerla.
Il personaggio chiave era Tommaso Buscetta, un mafioso elegantone, di
origini umilissime (aveva sedici fratelli). Le sue lunghe confessioni rivelarono i
meccanismi di quella che veniva chiamata ‘Cosa nostra’. Buscetta fu arrestato
in Brasile nel 1983, e la sua decisione di parlare con i magistrati avrebbe
cambiato l’Italia, e la Sicilia, per sempre. È stato detto che “ha rivoluzionato in
modo tanto profondo lo stato delle conoscenze che è ormai possibile
suddividere gli studi sulla mafia in pre e post-Buscetta”54. La sua
testimonianza “rivelò la natura dell’organismo di controllo, la commissione o
Cupola, la struttura interna delle singole cosche e il rito usato per l’iniziazione
dei mafiosi”55. Cinque familiari di Buscetta finirono ammazzati dalla mafia per
vendicare il suo ‘tradimento’, sia prima che dopo l’inizio della sua
collaborazione coi magistrati – due figli furono rapiti e assassinati nel
settembre 1982, per esempio, e poi anche un genero. Il massacro continuò
fino a tutto il 1984: la mafia non dimentica e non perdona.
Sul drammatico palcoscenico dell’aula bunker, davanti alle telecamere, uno
dopo l’altro una processione di mafiosi rese testimonianza davanti ai giudici.
Buscetta veniva protetto, anche in tribunale, da uno schermo di pannelli a
prova di proiettile: non lo consideravano al sicuro nemmeno nell’aula bunker.
Imputati e accusatori si conoscevano, e spesso erano legati dalla parentela, o
dall’associazione per delinquere (che è una ‘famiglia’ di altro genere). Le
minacce non erano a vuoto, soprattutto se venivano da assassini di massa. Ci
furono momenti surreali. Il grande boss Michele Greco – soprannominato ‘il
Papa’ – diede al cinema la colpa del cattivo nome della mafia. Disse che se la
gente avesse visto “Mosé invece che Il Padrino” sarebbe stato molto meglio.
Il maxiprocesso ebbe una dimensione ulteriore, oltre a quella delle novità
legali e giudiziarie, e dell’affermazione del pentitismo. Tra la fine degli anni
’70 e i primi ’80 centinaia di persone avevano perso la vita nella cosiddetta
‘mattanza’, la guerra interna alla mafia siciliana che tracimò anche in altre parti
d’Italia. Il massacro, eseguito da squadroni della morte, cessò soltanto con la
vittoria di una famiglia-clan, i cosiddetti Corleonesi. Il capo della fazione era
Totò Riina, che così divenne il cosiddetto boss dei boss.
Riina usava metodi brutali, e si era fatto molti nemici. Ogni giorno si
ritrovavano cadaveri. Tra il 1981 e il 1993 almeno 500 persone furono
ammazzate nella sola Palermo, 1200 a Catania, 500 ad Agrigento. Nello stesso
periodo, si calcola che a Reggio Calabria furono uccise circa 2000 persone.
Secondo il giornalista ed esperto di mafia Enrico Deaglio, “quello che è
avvenuto non si deve considerare una ‘guerra di mafia’, ma una sorta di
‘guerra civile’ di tipo nuovo, a cui il resto d’Italia ha assistito con indifferenza,
senza comprendere quanto l’accumulo di violenza portasse inevitabilmente
alla mutazione dei caratteri nazionali”56. Riina avrebbe evitato la cattura fino
al gennaio 1993; non c’era, al maxiprocesso, ma la sua ombra gravava su tutto.
In aula, i mafiosi si proclamavano innocenti, e spesso parlavano di sé in terza
persona. Si difendevano provando a proiettare di sé un’immagine mitica di
bravi padri di famiglia, o di semplici contadini. Si rivolgevano direttamente al
presidente dalle loro gabbie, tutto intorno all’aula bunker. Era gente che
parlava di rado in pubblico, e anzi tendeva a non ‘apparire’, e invece ora
testimoniavano davanti alle telecamere, e a tutto il paese. Parlavano usando
una specie di ‘codice’, rimpallandosi messaggi e minacce.
Ci furono insulti, e proteste continue. Molti dei capi mafiosi insistevano a
dichiarare che la mafia non esiste. Non era soltanto il processo a una serie di
reati: aveva anche un livello metafisico. I mafiosi non si limitavano a
proclamare la propria innocenza, bensì l’inesistenza dell’intera organizzazione
criminale – un’innocenza collettiva. Il mito della ‘mafia buona’, che aiuta il
popolo (e ne è l’espressione), venne ripreso spesso durante il processo, e non
soltanto dagli imputati, ma anche da ex mafiosi e pentiti secondo i quali la
mafia non era più “quella di una volta”.
Alla preparazione del maxiprocesso contribuì anche una novità legale: c’era
voluto fin troppo, ma finalmente nel 1982 fu approvata una legge che dava
una definizione della mafia, e prevedeva il reato di ‘associazione’. La legge fu
approvata in soli dieci giorni (e non passò mai per l’aula parlamentare, ma
soltanto in commissione, come previsto dalla Costituzione per le procedure
d’emergenza) a seguito dell’omicidio mafioso di un politico comunista, Pio La
Torre, avvenuto a Palermo nell’aprile 198257. Dell’organizzazione, Buscetta
aveva raccontato ai magistrati i riti iniziatici, le norme e i regolamenti, la
complicata gestione dei rapporti di genere e di classe, il ricorso ordinario a
orrendi atti di violenza. A seguito di quelle rivelazioni, nel settembre 1984
furono emessi a Palermo 366 mandati d’arresto.
Il processo vero e proprio durò due anni. La decisione dei giudici, dopo il
dibattito in aula, richiese trentuno giorni di camera di consiglio; Alfonso
Giordano, presidente della corte, impiegò novanta minuti per leggere i
verdetti. Condanne pesanti – un totale di 2265 anni di reclusione – e 144
prosciolti. Secondo Enrico Deaglio, il maxiprocesso fu “la Norimberga della
mafia”58. Scrive John Dickie: “Dopo 130 anni, lo Stato italiano aveva
finalmente dichiarato che la mafia siciliana costituiva una sfida organizzata –
una sfida mortale – al suo diritto a governare. Era la più grave sconfitta in tutta
la storia della più famosa associazione criminale del mondo”59.
Alla base del maxiprocesso, e delle indagini che lo prepararono, ci fu il
lavoro di due magistrati, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nati entrambi a
Palermo – il primo nel 1939, il secondo nel ’40 – ed entrambi nel quartiere
della Kalsa. I due si conoscevano fin da bambini. Avevano studiato
giurisprudenza all’Università di Palermo, per poi entrare in magistratura.
Borsellino era stato uno studente brillante; si diceva che fosse il magistrato più
giovane d’Italia, quando vinse il concorso poco dopo la laurea.
Negli anni ’80 i due cominciarono a collaborare nelle indagini antimafia a
Palermo. Dopo l’omicidio del magistrato Rocco Chinnici con un’autobomba
che uccise altre tre persone, divennero gli elementi portanti del cosiddetto
‘pool’ antimafia, gli inquirenti che prepararono il maxiprocesso. Falcone era
vagamente di sinistra (votò comunista almeno una volta), mentre Borsellino
aveva fatto attività politica studentesca nell’estrema destra. Nessuno dei due
apparteneva a un partito politico. Nel 1986 Falcone sposò la collega Francesca
Morvillo (fu una cerimonia quasi segreta, a mezzanotte, con soltanto quattro
testimoni), dopo aver divorziato dalla moglie precedente. Borsellino era
sposato con tre figli. Entrambi avevano visto colleghi cadere assassinati dalla
mafia, vivevano sotto scorta armata, ventiquattro ore al giorno; erano
consapevoli di avere i giorni contati60.
In Italia vigono tre gradi di giudizio, e considerando che in casi precedenti i
verdetti erano stati cassati dalle istanze superiori, era fondamentale che le
condanne del maxiprocesso venissero ratificate in appello e in Cassazione.
Così fu, nel gennaio 1992. La battaglia condotta dai magistrati palermitani era
vinta: si era dimostrato che lo Stato poteva affrontare e (in parte) sconfiggere la
mafia. Ma per la mafia, dopo la conferma delle sentenze, era tempo di rivalsa: i
suoi capi non dovevano restare in galera, da dove faticavano a controllare
l’organizzazione. Non bastava più infiltrare le istituzioni per plasmarle a
proprio beneficio: ora era guerra aperta allo Stato.

Latitanti in bella vista


Non tutti i capi mafiosi, lo abbiamo visto, erano presenti al maxiprocesso.
C’erano i ‘latitanti’, e i più potenti tra questi potevano restarlo per anni, pur
non spostandosi – di regola – dalla Sicilia. I maggiori latitanti mafiosi
conducevano vite relativamente normali – i figli andavano a scuola, si
facevano operare negli ospedali. Per evitare le microspie, il boss Bernardo
Provenzano usava minuscoli fogli di appunti in codice – i cosiddetti ‘pizzini’ –
facili da nascondere e far sparire, per comunicare col mondo esterno e con
l’organizzazione. Informatori all’interno della polizia e dei carabinieri
consentivano in genere ai mafiosi latitanti di trasferirsi in tempo da un
nascondiglio all’altro. E così, pezzi grossi della mafia come Riina e
Provenzano evitarono la cattura per decenni, noti soltanto per le vecchie e
consunte fotografie della loro giovinezza. Riina fu finalmente arrestato nel
1993 (a Palermo, dopo ventitré anni di latitanza) e Provenzano nel 2006
(dopo un record di quarantatré anni). Provenzano fu preso poco lontano dalla
sua Corleone. Entrambi erano rimasti quasi sempre in Sicilia: solo lì si
sentivano sicuri, e a ragione. La loro lunga latitanza sotto gli occhi di tutti era
il segno di quanto la mafia si sentisse forte sul proprio terreno.

La fine della Guerra fredda in Italia


Di’ una cosa di sinistra! Di’ una cosa anche non di sinistra... di’ una cosa, di’ qualcosa.

Nanni Moretti61
Il debito pubblico cresceva, ma il boom postindustriale procedeva, e la
stabilità politica pareva garantita dal ‘pentapartito’. Mentre si profilava
all’orizzonte la fine degli anni ’80, la classe politica italiana appariva solida.
L’assetto imposto dalla Guerra fredda era ben saldo, e mancavano segni
evidenti di crepe nell’edificio costruito dai grandi partiti e dai gruppi di
opposizione. Poi, di colpo, quasi senza preavviso, l’impero sovietico cominciò
a cadere a pezzi. Si frantumavano le certezze del passato, in modi del tutto
imprevisti. Nessuno si aspettava ciò che avvenne. La prima grande novità in
politica interna fu il rapido declino del comunismo italiano.
Il 12 novembre 1989, pochi giorni dopo la caduta del Muro di Berlino,
Achille Occhetto, il cinquantatreenne baffuto che guidava il PCI, tenne un
discorso alla Bolognina, un quartiere di Bologna. Si racconta che Occhetto
piangesse. La data del discorso non era scelta a caso: si celebrava una vicenda
locale, la ‘battaglia di Porta Lame’ combattuta dai partigiani nella Seconda
guerra mondiale. Nel pubblico c’era gente che aveva partecipato allo scontro.
Occhetto aveva deciso di avviare il processo che sarebbe poi stato chiamato ‘la
svolta’, un’espressione risalente al famoso, e controverso, compromesso
politico del 1944, la ‘svolta di Salerno’, quando Togliatti aveva accettato
un’ampia coalizione al fine di sconfiggere il fascismo. Si dice che Occhetto
avesse preso la decisione da solo, dopo una conversazione con il suo autista,
un ex partigiano. Il discorso di quel giorno durò in tutto meno di sei minuti.
La scelta del luogo era importante. Alla Bolognina il Partito non era soltanto
una presenza: era quasi una religione. Il discorso di Occhetto fu breve, ma
avrebbe trasformato la sinistra in Italia, e portò al rapido smantellamento delle
strutture e delle tradizioni che avevano fatto di quello italiano il Partito
comunista più forte nel mondo occidentale, un modello per molti a livello
internazionale. Vent’anni dopo, nel 2009, ripensando alla sua vita di
comunista – dentro e fuori dal partito – Lucio Magri si chiederà: “quando
iniziò la fine del PCI?”62. Nel 1979 (Afghanistan)? O nel 1984 (morte di
Berlinguer)? Oppure nel 1989, con la ‘svolta’?
Nel periodo che seguì, cambiò il linguaggio del partito. Come ha osservato
Patrick McCarthy, “tra l’autunno 1989 e la primavera 1991 il PCI subì
un’involuzione, diventando in larga misura autoreferenziale”63. Il discorso di
Occhetto turbò molti militanti, e finì per produrre la prima scissione nella
storia del partito64. Fece un collegamento esplicito tra la lotta partigiana e
quanto avveniva allora in Unione Sovietica sotto la guida di Michail
Gorbačëv. “Voi avete vinto la guerra, e se ora volete che non venga persa, è
necessario non conservare ma avviare grandi trasformazioni”. E aggiunse, “nei
fatti è necessario andare avanti con lo stesso coraggio di allora, della
Resistenza”. Prometteva il socialismo, ma con un volto umano.
Fu un momento teatrale, sbalorditivo. Molti iscritti erano fieramente
contrari a un cambiamento di questo genere. Erano orgogliosi del loro
passato, della loro storia, dei loro simboli. Per questo erano comunisti – per
molti versi, anzi, soprattutto di questo andavano fieri. Parafrasando un
intervistato nel libro di Svetlana Aleksievič sulla Russia sovietica e post-
sovietica, l’unica cosa di cui i militanti “non potevano fare a meno era il
passato”65. Il Partito comunista aveva aspettato a lungo per ‘rompere’ con
Mosca – e forse il passo definitivo avvenne solo nel 1981, con la presa di
potere dei militari in Polonia. Anche dopo il 1981, comunque, i legami con il
modello sovietico – per quel che poteva essere, a quel punto – continuavano a
sussistere. Non è forse sorprendente che l’appello di Occhetto apparisse a
molti militanti come un tradimento della loro identità, l’accettazione delle
accuse che da tanto tempo venivano loro rivolte. Giancarlo Pajetta, uno della
vecchia guardia, dichiarò: “io non mi vergogno di questo nome né della
nostra storia, e non lo cambio per quello che hanno fatto quelli là [i comunisti
dell’Est]. Se cambiamo nome, cosa facciamo, il terzo partito socialista?”66. Alla
svolta si opponevano anche personalità importanti e prestigiose del partito.
Pajetta morì poco dopo, e fu sepolto sulle note dell’Internazionale; non poté
vedere gli effetti che derivarono quasi inevitabilmente dal discorso di
Occhetto.
Nel partito divampò la discussione, in buona parte legata ai simboli – la falce
e martello, il nome, il comunismo stesso, qualunque cosa significasse.
Dovevano cambiare, e in caso affermativo, come? Nanni Moretti girò un
potente documentario su questi dibattiti profondamente sentiti e spesso
commoventi. Il titolo, ironico ma anche azzeccato, era La Cosa67. Si
scatenarono passioni travolgenti. Che cos’era il Partito comunista, che cos’era
stato, e che cosa doveva diventare? Il PCI significava molto, per molti. Era
stato al centro della loro vita, della loro identità. E ora rischiava l’estinzione (o
meglio, l’auto-estinzione).
Si discuteva di storia, di identità, di tradizione. Che cosa significava essere
‘comunista’ quando il mondo sovietico si era disintegrato? Come poteva
modernizzarsi e arrivare al potere un partito con quella storia e quella cultura?
I militanti fischiavano e insultavano i capi del partito per la strada. Erano in
gioco emozioni forti, la gente piangeva. Come scrive il sociologo David
Kertzer, “la battaglia sulla ‘svolta’ fu in larga misura una battaglia sui simboli,
combattuta per lo più per mezzo della ritualità. La ritualità era lo strumento
principale dei dirigenti del partito per far leva sulle passioni degli iscritti e dei
simpatizzanti”68.
Gli eventi incalzavano. Occhetto chiedeva una nuova “fase costituente” e la
creazione di una nuova “forza politica”, con un altro nome. C’era
opposizione, ma era evidente anche che la maggioranza del partito stava con
lui. Fu convocato un congresso straordinario nel marzo 1990. Furono messe
al voto tre mozioni: quella di Occhetto, una di compromesso, e una
esplicitamente contraria alla svolta. Alla fine il 67 per cento circa si dichiarò a
favore della direzione (una vittoria significativa, ma non trionfale, in un
partito come quello). Il Partito comunista italiano non esisteva più.
Schierata dietro a Occhetto, la direzione scelse un nuovo nome e un nuovo
simbolo. Il 10 ottobre il segretario si fece fotografare con in mano un grande
disegno di un albero. Il nuovo nome, piuttosto ingombrante, era Partito
democratico della sinistra (PDS), e il simbolo era una quercia – che poi
avrebbe dato il soprannome al partito. Anche qui un tocco di compromesso,
perché sul tronco della quercia c’era un simbolo più piccolo – la falce e il
martello con le lettere PCI. Seguì una disdicevole causa in tribunale sulla
proprietà legale del vecchio simbolo del partito. Rottura con il passato sì, ma
fino ad un certo punto. Occhetto e i suoi erano evidentemente preoccupati, e
a ragione, che i loro elettori li abbandonassero. Fu convocato l’ennesimo
congresso – il ventesimo e ultimo del Partito comunista italiano69. Questa
volta il discorso di Occhetto durò due ore (non tutto era cambiato); chiedeva
nientemeno che la creazione di una “nuova Italia”.
Il 3 febbraio 1991 il Partito comunista italiano fu ufficialmente disciolto. Ci
fu una scissione di un gruppo minoritario di militanti e intellettuali che
fondarono un nuovo partito (a loro dire continuava ad essere il vero PCI):
Rifondazione comunista. Alla nuova organizzazione, che conservava il nome
e alcuni dei vecchi simboli, aderirono anche persone esterne al partito. Per
qualche tempo il gruppo allargato di Rifondazione comunista ebbe notevole
successo, poi sparì gradualmente dall’orizzonte elettorale. Il comunismo ebbe
una seconda vita, ma non particolarmente lunga. Nei venticinque anni a
venire entrambi i partiti avrebbero subìto numerose trasformazioni,
cambiamenti di nome, scissioni e riunificazioni, in un susseguirsi di simboli e
alleanze.
Una delle accuse mosse a Occhetto – oggi come allora – è di essersi limitato
a smantellare le strutture costruite in quasi settant’anni di organizzazione e
militanza. Per molti si rinunciava a un patrimonio di esperienza e lavoro
politico e culturale senza nulla con cui sostituirlo. Perfino Norberto Bobbio,
un autorevole socialista riformista, era perplesso: “La precipitazione con cui si
sta buttando a mare il vecchio carico mi pare sospetta. Si resta a galla sì, ma è
vuota la stiva. Attenzione, c’è molta roba avariata in giro”70. L’era dei partiti
politici di massa era senza dubbio finita, e questo valeva anche per il partito-
massa per antonomasia, quello comunista.
Dopo la svolta, molti si volevano considerare ancora comunisti, e
Rifondazione andò bene alle elezioni degli anni ’90 e 2000, ma il consenso
non tardò a scemare. Dopo il 2008 non ci fu più un solo deputato eletto sotto
un simbolo con la falce e il martello. Cominciò a calare il silenzio – per
quanto relativo – anche sulla storia del partito e sul suo ruolo nel dopoguerra.
Persino gli storici evitavano l’argomento, o si limitavano a denunciarne la
dipendenza da Stalin. Per anni il PCI era stato per molti un modello di
innovazione e di buona politica culturale; ora pareva che tanto il suo passato
quanto il presente non fossero nemmeno degni di studio. L’anticomunismo
sopravvisse allo stesso comunismo – anch’esso ebbe una ‘seconda vita’ – ma
era comunque destinato a sparire. Con un certo scarto di tempo, la fine della
Guerra fredda annunciò davvero la scomparsa delle linee di demarcazione –
tra comunista e anticomunista, tra fascista e antifascista – che avevano segnato
la Prima repubblica.
Durante la Guerra fredda si erano versati fiumi di inchiostro nell’esame
minuzioso del mutevole rapporto tra il PCI e l’Unione Sovietica. Ogni
minimo spostamento di posizione appariva straordinariamente significativo.
Ma il rapido tracollo dell’URSS dopo il 1989, e la spaccatura del partito in
fazioni e organizzazioni diverse, hanno ridimensionato notevolmente – col
senno di poi – la portata di quel fattore. Con la fine degli anni ’90 la questione
– o lo spettro – dell’URSS era quasi completamente sparita dall’orizzonte
politico italiano.
Le identità cambiavano. Secondo alcuni, l’ideologia stessa veniva rimpiazzata
da altre forme di mobilitazione politica – legate al territorio, all’appartenenza
etnica, all’antipolitica. Molti politici erano ‘ex’ qualcosa: ex comunisti, ex
democristiani. Si susseguì una serie di governi tecnici e ‘grandi coalizioni’.
Pareva l’annuncio di una sorta di post-democrazia. Come spiega Colin
Crouch, “le elezioni continuano a svolgersi e condizionare i governi [ma] la
massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico”71.
Scomparsi i partiti di massa, e in piena era di Internet, la mobilitazione
collettiva del passato diventava una cosa diversa, e frammentata.
La fine della Guerra fredda non influì soltanto sull’assetto politico. Cancellò
anche i confini, aprendo le porte di paesi che erano rimasti sigillati per quasi
cinquant’anni. Nel caso dell’Italia, il primo, drammatico, esito di questo
processo si verificò in Albania.

Nuove invasioni: i confini italiani


e la fine della Guerra fredda
Cessata la Guerra fredda, fu la costa orientale del paese a diventare oggetto di
discussioni e conflitti. Dopo la fine della dittatura di Enver Hoxha in Albania,
entrò in scena una nuova popolazione (apparentemente numerosa) di
potenziali immigranti. Migliaia di albanesi si arrampicavano sulle navi per
varcare l’Adriatico. Nell’aprile 1991, dopo le prime elezioni democratiche nel
paese, furono in tanti a tentare la traversata. Alla maggioranza di questa prima
ondata fu riconosciuto lo status di rifugiati, e furono distribuiti in diversi
luoghi nella penisola. Qualche mese dopo, in agosto, ne arrivarono altri, ma
molti della cosiddetta ‘seconda ondata’ furono respinti: in poco tempo gli
albanesi vennero definiti ‘migranti economici’. Mentre i primi erano stati visti
come vittime disperate, i successivi erano diventati pericolosi invasori.
Nell’agosto 1991 le prime pagine furono occupate per giorni dall’arrivo di
una nave in particolare, la Vlora, con un incredibile carico di 21.000 persone.
Il giornalista Enrico Deaglio l’avrebbe descritta come “un gigantesco grappolo
d’uva che si muove sul mare”72. La grande nave sovraffollata divenne il
simbolo di quel momento di crisi. L’immagine venne utilizzata dalla
propaganda anti-immigrati con la semplice sovrapposizione della parola
“Basta!”, e dal provocatorio guru della pubblicità Oliviero Toscani per una
campagna della Benetton. Fu “ristampata e rilanciata in innumerevoli articoli
e documentari televisivi sulla migrazione... l’‘emergenza Albania’ era una voce
permanente nelle prime pagine di tutti i giornali italiani”73.
Il regista Gianni Amelio si ispirò a queste vicende per il suo film Lamerica
(1994). Due uomini d’affari italiani in cerca di soldi facili vengono travolti dal
caos dell’Albania postcomunista. Incontrano un soldato italiano rimasto lì
dalla Seconda guerra mondiale. Il film è intervallato da immagini tratte dalla
televisione italiana, che ebbe un indubbio ruolo nella diffusione in Albania
dell’idea dell’Italia come terra dell’abbondanza. Nell’epica scena finale Amelio
ricostruisce il viaggio della Vlora. Uno degli affaristi italiani è finito a bordo, e
con lui l’ex soldato, che però è convinto di andare in Lamerica, non in Italia. Il
film si chiude sui primi piani dei volti pieni di speranza dei migranti; noi però,
da spettatori, sappiamo quale sorte li attende. Amelio portava sullo schermo
gli albanesi, ma è ovvio che si riferiva anche agli italiani e alla loro storia di
emigrazione – a quelli che in Lamerica c’erano andati davvero. Gli albanesi
risvegliavano brutti ricordi. Quei migranti facevano pensare alla povertà di un
passato ancora troppo vicino per non creare disagio74.
Il capitano della nave, quello vero, era un quarantenne di nome Halim
Milaqi. Raccontò che la gente aveva invaso la nave nel porto di Durazzo non
appena aveva terminato di scaricare una partita di zucchero. Un uomo gli
aveva puntato un cacciavite nel fianco, intimandogli di salpare. Quando
mollarono gli ormeggi, ci fu un’ovazione: fu un momento liberatorio.
Qualcuno era armato; qualcuno si mangiò lo zucchero rimasto a bordo;
l’acqua potabile era poca; la maggioranza degli imbarcati possedeva soltanto
quello che aveva indosso, e qualcuno era in infradito e costume da bagno.
C’erano anche disertori dell’esercito in divisa. La nave entrò nel porto di Bari
(la prima destinazione era stata Brindisi) alle 10 del mattino dell’8 agosto
1991. Molti dei responsabili che avrebbero dovuto gestire una situazione di
questo tipo (compresi il prefetto e il questore) erano in ferie. Il radar della
nave non funzionava.
La Vlora fu portata nella zona del porto più lontana dalla città. Altri migranti
arrivavano con altri battelli lungo tutta la costa, ma non sorprende che
l’attenzione dei media andasse soprattutto ad essa. Gli albanesi intonavano un
inno da stadio di calcio, “Italia, Italia”. Era il caos. Nessuno sapeva che fare.
La nave fu circondata da vascelli militari, ma tutti i tentativi di impedirle di
entrare in porto furono vani – ad un certo punto il capitano dichiarò di non
avere la marcia indietro. Le condizioni a bordo erano spaventose; qualcuno
non riceveva acqua da oltre ventiquattro ore. Milaqi ricorda anche che alcuni
passeggeri avevano chiesto di essere riportati subito in Albania, ma la nave era
stata sequestrata dalle autorità. L’ordine di Roma era di tenere tutti a bordo,
ma non era possibile.
Qualcuno si tuffò in mare appena arrivato, altri si calarono a riva con le funi.
Molti puntarono direttamente sulla città. Il caldo era soffocante, e c’era ben
poca ombra. La polizia cominciò a usare i manganelli per spingere indietro la
folla. Non esistevano piani, per arrivi di questa portata, e per ‘sistemare’ gli
albanesi le autorità non trovarono di meglio del vecchio stadio di calcio, la
Stadio della Vittoria. Per sei giorni gli autobus urbani fecero la spola dal porto
allo stadio. Qui però le cose presero presto una brutta piega. Qualcuno tentò
la fuga, e i cancelli vennero chiusi. Nello stadio nacque un bambino
prematuro, minuscolo (appena 980 grammi): il marito della madre
diciannovenne era già stato deportato.

Lo Stadio della Vittoria


Era stato costruito sotto il fascismo, ed era ancora coperto di slogan fascisti. Lo
avevano annunciato nel 1928 con queste parole: “Per ricordare alle future
generazioni non solamente il sacrifizio dei Caduti, ma altresì la grandezza della
Vittoria conseguita dalle nostre Armi e valorizzata dal Fascismo”. La storia
ritornava a perseguitare l’Italia: “La Stampa” giocò sull’ovvia analogia
ripubblicando articoli degli anni ’30 sulla ‘trionfale’ invasione dell’Albania
prima dell’entrata ufficiale nella Seconda guerra mondiale.
Lo stadio fu inaugurato soltanto nel 1934, pur non essendo stato ancora
completato, alla presenza di Benito Mussolini. Sorgeva in aperta campagna,
ma era collegato al mare (non lontano) da un viale ‘monumentale’. Nel 1943
fu colpito da due bombe aeree, poi fu requisito dagli alleati. Soltanto nel 1945
ospitò di nuovo le partite del Bari. Nel 1978 furono investiti circa 300 milioni
di lire per riammodernarlo. Il Bari vi giocò 945 partite tra il 1934 e il ’90,
quando fu sostituito per la Coppa del mondo dalla magnifica ma assurda
nuova struttura di Renzo Piano.
Come ricordava nel 2011 il giornalista Guido Quaranta, riguardo agli eventi
del 1991, “iniziarono così gli otto orribili giorni dell’assedio dello stadio,
all’interno del quale i gruppi più violenti e più determinati di fatto tennero in
ostaggio tutti gli altri, comprese non poche famiglie, compresi non pochi
bambini. Poiché non c’era più libero accesso all’edificio e alle sue pertinenze,
sorse il problema di come assicurare comunque i rifornimenti di acqua e cibo
alle cinque-seimila persone che si trovavano all’interno”75. Si lanciavano
bottiglie d’acqua dall’esterno, o dagli elicotteri, il che non soltanto era
pericoloso, ma fruttava magre figure televisive alle autorità. L’‘evento’ si era
ormai trasformato in una sagra dei media. Giovani albanesi a torso nudo e
volto coperto tenevano testa a polizia e carabinieri; volavano i lacrimogeni. Il
presidente del Consiglio Giulio Andreotti era stato colto di sorpresa – era in
vacanza nella ridente Cortina, e anche il presidente della Repubblica
Francesco Cossiga riposava a Courmayeur: lo Stato italiano era in ferie, o
almeno così pareva.
Qualcuno, a livello locale, cercò di fare del suo meglio, come l’allora sindaco
democristiano Enrico Dalfino che organizzò la distribuzione di cibo e
bevande per i bambini rinchiusi nello stadio, ma l’impressione generale era di
confusione. Gruppi di albanesi furono deportati in aereo, altri via mare, e
parecchi si dileguarono in Italia. A molti fu mentito, promettendo loro il
trasferimento in altre città italiane mentre invece si voleva deportarli. I numeri
calavano, e le autorità tentarono la carta della mancia: 50.000 lire a tutti quelli
che decidevano di tornare a casa. Il presidente Cossiga, di pessimo umore,
definì “cretini” gli amministratori, e attaccò il sindaco Dalfino.
La stampa non tardò a cambiare linguaggio; da ‘profughi’ che erano, gli
albanesi divennero ‘estremisti’. Era ormai un’‘emergenza’: gli albanesi
‘disperati’ volevano ‘invadere’ l’Italia. I ‘sogni’ dei migranti si erano trasformati
in un ‘inferno’, un ‘esodo’ dal ‘caos’ di casa loro. Erano ingenui, ignoranti,
senza un’idea della realtà: “Della storia italiana e albanese conoscono solo la
versione marx-leninista che hanno appreso nella scuola del regime di Hoxha e
di Alia”, scriveva Sergio Romano sulla “Stampa”76. Fatto incredibile, non ci
furono vittime, né durante la traversata, né allo stadio. L’allarmismo
contagiava tutti, a destra come a sinistra. “L’Unità”, il quotidiano del Partito
comunista, parlò di “un’altra valanga di profughi”. L’agitazione su quel tratto
di costa andò presto calmandosi – a dimostrazione del fatto che il problema
non era tanto la ‘permeabilità’ dei confini italiani. Erano le vicende
geopolitiche e il movimento delle frontiere, insieme con la globalizzazione, a
generare i flussi mutevoli di potenziale manodopera e di profughi che
andavano e venivano attraverso continenti e mari.

Berlusconi e il calcio
Silvio Berlusconi disse una volta di essere “condannato a vincere”. Nella sua
ascesa alla fama e alla fortuna costruì un’immagine di se stesso come
consumato vincitore; un’immagine che esercitava tutta la sua potenza nel
mondo del calcio. Negli anni ’80 il calcio era lo sport più popolare in Italia. Il
ciclismo rimaneva indietro: a milioni si sintonizzavano sulle partite, sulle
sintesi, sui talk-show di calcio. La vittoria del 1982 contribuì a fare della serie
A il campionato più ricco e potente del mondo. In preparazione della Coppa
del mondo 1990 che si sarebbe tenuta in Italia – un evento che comportò
anche massicci investimenti nelle infrastrutture, soprattutto gli stadi – arrivò
in Italia tutta una serie di brillanti stelle del pallone straniere.
Fu allora che Berlusconi scese per la prima volta ‘in campo’, diventando
presidente di una delle squadre più antiche e amate, il Milan. Contribuì così
alla calcistizzazione che arrivò a toccare ogni aspetto della società italiana, e ne
colse i benefici. Il calcio non era soltanto uno sport, era qualcosa che dava
forma alla vita, alle conversazioni, alla politica. Il Milan era una grande squadra
in crisi profonda. Aveva subìto due retrocessioni in tre stagioni, una delle
quali a seguito dello scandalo del ‘Totonero’, e una volta soltanto perché
avevano giocato troppo male.
Nel 1986 Berlusconi acquistò il Milan. È stato detto che in realtà lui era
tifoso della grande rivale, l’Inter, ma se anche fosse stato vero, non esitò a
passare rapidamente dalla parte rossonera della città. Annunciò il suo arrivo
col consueto fragore, atterrando in elicottero sul campo di allenamento
durante il ritiro della squadra. Indro Montanelli, il giornalista conservatore
che divenne uno dei suoi maggiori nemici, era alquanto scettico: “I tifosi
rossoneri sono in festa per la notizia che Berlusconi sta per acquistare il loro
Milan. Sono convinti che in un battibaleno ne farà una squadra da scudetto,
da coppa delle coppe, da tutto, e forse hanno ragione. C’è solo un pericolo:
che il neo-presidente voglia fare anche il direttore tecnico, l’allenatore, il
massaggiatore, il capitano e il centrattacco. Il che potrebbe anche andare bene.
Ma a una condizione: che possa fare anche l’arbitro”77.
La strategia calcistica di Berlusconi era rivoluzionaria. Avrebbe trasformato la
squadra sul campo e fuori, introducendo i suoi metodi imprenditoriali nella
gestione della società e sfruttando tutto il suo acume televisivo e pubblicitario
per cambiare il gioco stesso. Come diceva all’epoca, voleva “milanesizzare il
Milan, cioè portare in quella società criteri di iniziativa, serietà
imprenditoriale e anche d’immaginazione che la rendessero rappresentativa al
massimo della nostra città”78. In campo, voleva un nuovo tipo di calcio.
Ingaggiò un allenatore poco noto, senza esperienza in serie A, Arrigo Sacchi.
Cercò all’estero nuovi talenti, chiamando a Milano il terzetto olandese di
Ruud Gullit, Frank Rijkaard e Marco van Basten. Sacchi rivoluzionò le
tradizioni classiche, imponendo il pressing a tutto campo e la mentalità
dell’attacco ad ogni costo. Il ‘catenaccio’, stile difensivo e visione del calcio da
sempre associata all’Italia, veniva consegnato alla storia. Il Milan fece piazza
pulita, vincendo lo scudetto nel 1988, 1992, 1993, 1994, 1996, 1999, 2004 e
2011, e soprattutto la Coppa dei Campioni nel 1989, 1990, 1994, 2003 e
2007. I tifosi accorrevano a San Siro (ristrutturato per la Coppa del mondo di
Italia ’90), dove gli abbonati arrivarono al picco di 70.000 all’anno.
Queste vittorie, e il modo in cui erano state conquistate, si identificavano
con Berlusconi. Investiva nella società, spendendo milioni per i giocatori
migliori, e assisteva alle partite dalla tribuna VIP. Come aveva previsto
Montanelli, aveva la sua da dire sulle tattiche, sul calciomercato, sulle
prestazioni dei singoli. Si prendeva il merito quando la squadra vinceva, e dava
la colpa a qualcun altro quando perdeva. In un paese in cui 26 milioni di
persone si dichiaravano tifosi, sapeva approfittare della potenza del calcio.
Conosceva il valore universale del linguaggio sportivo – che avrebbe poi
utilizzato nelle sue campagne politiche, e come forma di comunicazione. Il
calcio gli dava visibilità e autorevolezza. E inoltre si fondeva a pennello col suo
controllo sempre più ampio dei media. Il ‘neocalcio’ – una nuova forma di
gioco pensata soprattutto per il consumo sullo schermo, in casa, e in una serie
di programmi che a rigore nulla avevano a che fare col calcio – si affiancava
perfettamente alla neotelevisione. Nei primi anni ’90 Berlusconi possedeva
ormai un’influenza enorme, sostenuta dai suoi interessi nei media, nello sport,
nella pubblicità e nell’edilizia. Disponeva di una rete di potenti alleati politici,
e per molti rappresentava un modello da seguire. Era sempre stato in anticipo
sui tempi, capace di cogliere i cambiamenti in corso intorno a lui, e di trarne
profitto. Come tutti, però, non aveva alcun presentimento degli straordinari
eventi che avrebbero presto travolto l’Italia. Di colpo, e in modo
imprevedibile, sarebbe cambiato tutto.
1
Giuseppe Turani, I milanesi senza Milano, “la Repubblica”, 30 dicembre 1988.
2
Gabriele Basilico, Milano. Ritratti di fabbriche, Milano: Sugarco, 1981.
3
Enrico Deaglio, Patria. 1978-2008, Milano: Il Saggiatore, 2009, pp. 639-42.
4
Intervista a Eugenio Scalfari, “la Repubblica”, 28 luglio 1981.
5
Giulio Sapelli, Cleptocrazia. Il meccanismo unico della corruzione tra economia e politica, Milano:
Feltrinelli, 1994.
6
Cit. in Russell King et al., The Lure of London: A Comparative Study of Recent Graduate Migration from
Germany, Italy and Latvia, University of Sussex, Sussex Centre for Migration Research, Working
Paper n. 75, 2014, p. 21.
7
Vito Marino Caferra, La corruzione, in Gianfranco Pasquino (a cura di), La politica italiana. Dizionario
critico 1945-95, Roma-Bari: Laterza, 1995, p. 413.
8
Italo Calvino, “la Repubblica”, 15 marzo 1980; Deaglio, Patria, pp. 87-8.
9
Mario Caciagli, The 18th DC Congress: From De Mita to Forlani and the Victory of “neodoroteism”, in
Filippo Sabetti e Raimondo Catanzaro (a cura di), Italian Politics: A Review, vol. 5, London-New
York: Pinter Publishers, 1991, p. 10.
10
Ivi, p. 21.
11
Patrick McCarthy, Italy: A New Language for a New Politics?, “Journal of Modern Italian Studies”,
2:3, 1997, p. 341.
12
Enrico Berlinguer, Austerità, occasione per trasformare l’Italia, Roma: Editori Riuniti, 1977, cit. in
McCarthy, Italy, p. 341.
13
Phil Cooke e Gianluca Fantoni, “We all miss you”: Enrico Berlinguer in Post-Berlin Wall Italy, “20th
Century Communism”, 11, 2016, p. 135.
14
Ivi, p. 131.
15
Cit. in Massimo Gamba, Vermicino. L’Italia nel pozzo, Milano: Sperling & Kupfer, 2007, p. 159.
16
Ivi, p. 222.
17
Ivi, p. 124.
18
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/06/11/alfredino-e-tutto-cambio/259947 (accesso 24 ottobre
2017).
19
Alfredo Reichlin e padre Claudio Sorgi, cit. in Gamba, Vermicino, pp. 164-65 e 212.
20
Walter Veltroni, L’inizio del buio. Alfredino Rampi e Roberto Peci sotto l’occhio della tv, Milano: Rizzoli,
2012, p. 169.
21
Giuseppe Genna, Dies Irae, Milano: Mondadori, 2006.
22
V. Anna Bisogno, La tv invadente. Il reality del dolore da Vermicino ad Avetrana, Roma: Carocci, 2015.
Per Heysel v. John Foot, Calcio: 1898-2010. Storia dello sport che ha fatto l’Italia, Milano: Rizzoli,
2010, pp. 397-410, e Francesco Caremani, Le verità sull’Heysel. Cronaca di una strage annunciata, Ivrea:
Bradipolibri, 2010.
23
Cit. in John Pollard, Catholicism in Modern Italy: Religion, Society and Politics since 1861, London:
Routledge, 2008, p. 169.
24
Ivi, p. 190.
25
Ivi, p. 171.
26
Bettino Craxi, Discorso alla Borsa di Milano, 1985.
27
Stephen Gundle, The Death (and Re-Birth) of the Hero: Charisma and Manufactured Charisma in
Modern Italy, “Modern Italy”, 3:2, 1998, p. 184.
28
Guido Crainz, Storia della Repubblica. L’Italia dalla Liberazione ad oggi, Roma: Donzelli, 2016, p.
254.
29
Claudio Petruccioli, Hanno spinto Milano lontano dall’Europa, “l’Unità”, 30 marzo 1992.
30
Giulio Sapelli, The Italian Crises and Capitalism, “Modern Italy”, 1:1, 1995, p. 91.
31
Giulio Sapelli, Cleptocrazia, p. 121, cit. in Donatella Della Porta, Political Parties and Corruption:
Reflections on the Italian Case, “Modern Italy”, 1:1, 1995, p. 99.
32
Paul Ginsborg, Italian Political Culture in Historical Perspective, “Modern Italy”, 1:1, 1995, pp. 11-2.
33
Silvio Berlusconi, Il contratto di pubblicità per inserzione.
34
Natalia Aspesi, Paolo Berlusconi, Gianni Brera, Graziano Cavallini, Marco Mascardi, Giorgio
Medail, Enzo Siciliano e Isa Vercelloni, Milano 2, una città per vivere, Milano: Edilnord centri
residenziali, 1976.
35
Giorgio Bocca, “la Repubblica”, 11 marzo 1976.
36
Nel 2010 Massimo Ciancimino, figlio di Vito, politico democristiano ed ex sindaco di Palermo,
dichiarò ai magistrati che negli anni ’70 la mafia aveva investito un sacco di soldi in Milano 2.
Ciancimino ha ribadito l’accusa in un processo del 2016.
http://espresso.repubblica.it/palazzo/2010/11/17/news/milano-2-per-noi-fu-un-affare-1.26004.
37
John Dickie, Mafia Republic. Cosa Nostra, camorra e ’ndrangheta dal 1946 a oggi, Roma-Bari: Laterza,
2014, pp. 171-72, 376-77; Federico Varese, Messages from the Mafia, “London Review of Books”,
27:1, 6, gennaio 2005; David Lane, Berlusconi’s Shadow: Crime, Justice and the Pursuit of Power,
London: Allen Lane, 2004.
38
Varese, Messages from the Mafia.
39
Giuseppe Richeri, Hard Times for Public Service Broadcasting: The RAI in the Age of Commercial
Competition, in Robert Lumley e Zygmunt Baranski (a cura di), Culture and Conflict in Postwar Italy:
Essays on Mass and Popular Culture, London: Palgrave, 1990, p. 256.
40
Nel 2010 Marco Damilano scrisse che “il luglio 1990 rappresenta l’atto di nascita del
berlusconismo”: http://espresso.repubblica.it/palazzo/2010/07/05/news/vent-anni-di-leggi-ad-
personam-1.22254 (accesso 31 gennaio 2017).
41
Stephen Gundle, Il sorriso di Berlusconi, “Altrochemestre”, 3, 1995, pp. 14-7; Id., How Berlusconi
Will Be Remembered: Notoriety, Collective Memory and the Mediatisation of Posterity, “Modern Italy”,
20:1, 2015, pp. 91-109.
42
Emanuela Scarpellini, Material Nation: A Consumer’s History of Modern Italy, Oxford: Oxford
University Press, 2011, p. 231.
43
Umberto Eco, A Guide to the Neo-Television of the 1980s, in Lumley e Baranski (a cura di), Culture
and Conflict in Postwar Italy, pp. 245-55.
44
Ivi, p. 245.
45
Ibid.
46
Ivi, p. 246.
47
Franco Ferrarotti e Oliviero Beha, All’ultimo stadio. Una repubblica fondata sul calcio, Milano:
Rusconi, 1983, p. 105.
48
Su questo scandalo, v. Oliviero Beha e Roberto Chiodi, Mundialgate. Dietro la vittoria italiana in
Spagna una clamorosa storia di corruzione, Napoli: Tullio Pironti, 1984, e Oliviero Beha e Andrea Di
Caro, Il calcio alla sbarra, Milano: BUR, 2011. L’editore Feltrinelli decise di non pubblicare il libro di
Beha e Chiodi, che poi uscì presso un altro editore a Napoli. V. anche Oliviero Beha, Trilogia della
censura. Ieri come oggi: Mundialgate-Antenne rotte-L’Italia non canta più, Roma: Avagliano, 2005.
49
V. John Foot, How Italian Football Creates Italians: The 1982 World Cup, the “Pertini Myth” and
Italian National Identity, “The International Journal of the History of Sport”, 33:3, pp. 341-45; e
Calcio, pp. 468-73.
50
Luciano Curino, La lunga notte in tricolore, “La Stampa”, 13 luglio 1982.
51
Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni novanta, Venezia: Marsilio,
1992, p. 419.
52
Pertini e la Coppa del mondo furono evocati, per esempio, dal trentanovenne Matteo Renzi nel
primo discorso al Parlamento dopo il suo insediamento alla presidenza del Consiglio.
53
Dickie, Mafia Republic, pp. 234-35.
54
Joseph Farrell, Understanding the Mafia, Manchester: Manchester University Press, 1997, p. 17.
55
Ibid.
56
Enrico Deaglio, Raccolto rosso. La mafia, l’Italia e poi venne giù tutto, Milano: Feltrinelli, 1993, p. 54.
57
L’articolo 416 bis stabilisce che “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno
parte si avvalgono della forza di intimidazione, del vincolo associativo e della condizione di
assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o
indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche di concessioni, di
autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”.
58
Deaglio, Patria, p. 224.
59
John Dickie, Cosa Nostra. Storia della mafia siciliana, Roma-Bari: Laterza, 2006, p. 426. V. anche
pp. 413-26, e Dickie, Mafia Republic, pp. 328-39.
60
Alexander Stille, Nella terra degli infedeli. Mafia e politica, Milano: Garzanti, 2007.
61
Nel suo film Aprile (1998), Moretti rivolge queste parole a Massimo D’Alema.
62
Lucio Magri, Il sarto di Ulm. Una possibile storia del PCI, Milano: Il Saggiatore, 2009.
63
McCarthy, Italy, p. 351.
64
Che pure era nato, nel lontano 1921, da una drammatica scissione del Partito socialista, avvenuta a
Livorno.
65
Svetlana Aleksievič, Second-Hand Time, London: Fitzcarraldo, 2016, p. 162.
66
Nel PCI esplode il problema del nome, “Avanti!”, 14 novembre 1989.
67
Nanni Moretti, La Cosa, 1990.
68
David Kertzer, Political Rituals, in The Art of Persuasion: Political Communication in Italy from 1945 to
the 1990s, Manchester: Manchester University Press, 2001, p. 100.
69
Questo si tenne a Rimini, nel gennaio-febbraio 1991 (quasi esattamente settant’anni dopo la
nascita del Partito comunista a Livorno).
70
Cit. in Magri, Il sarto di Ulm.
71
Colin Crouch, Postdemocrazia, Roma-Bari: Laterza, 2003, p. 6.
72
Enrico Deaglio, Assomiglia a un gigantesco grappolo d’uva che si muove sul mare, in Patria, p. 336.
73
Russell King e Nicola Mai, Out of Albania: From Crisis Migration to Social Inclusion in Italy, New
York: Berghahn, 2008, pp. 1 e 101.
74
Più avanti, Amelio avrebbe usato lo stesso ‘trucco’ con i migranti stranieri, presentando confronti
espliciti tra le nuove migrazioni internazionali e le recenti migrazioni interne, nel suo film Così
ridevano (1998), vincitore del Leone d’oro, ambientato a Torino negli anni ’50 e ’60.
75
Luigi Quaranta, E 20 mila disperati finirono prigionieri. Lo sbarco della Vlora venti anni fa, “Corriere del
Mezzogiorno”, 5 agosto 2011.
76
Sergio Romano, Politica Adriatica Zero, “La Stampa”, 9 agosto 1991.
77
Indro Montanelli, Controcorrente, “Il Giornale”, 21 dicembre 1985.
78
John Foot, Milano dopo il miracolo, Milano: Feltrinelli, 2003.
5.
La Seconda repubblica

Tangentopoli e Mani pulite:


lo scandalo e le inchieste che misero fine alla Prima repubblica. 1992-93

Non pare sussistere alcun motivo per cui l’inchiesta su Mani pulite non debba
proseguire indefinitamente.
Patrick McCarthy1

Una democrazia che viene comprata o venduta.


Antonio Di Pietro2
Gli scandali per corruzione vanno e vengono per tutta la storia della Prima
repubblica. Negli anni ’60, per esempio, ci fu quello ‘delle banane’, per le
mazzette pagate dagli importatori. Le società petrolifere dominarono gli
scandali degli anni ’70 e ’80, insieme con i costruttori aeronautici (come il
gigante americano Lockheed). Casi come questi produssero la legge sul
finanziamento pubblico dei partiti (1974) – una delle più impopolari nella
storia della repubblica. Altri scandali erano legati alle forniture per le aziende
pubbliche, come quelli per le ‘carceri d’oro’ (sovrapprezzi sull’edilizia
carceraria) e le ‘coperte d’oro’ (per i vagoni letto delle ferrovie). Le indagini
erano spesso approssimative, e lasciavano intatto il sistema.
Questa volta, però, fu diverso. Un’indagine per corruzione e lo scandalo che
seguì avrebbero ribaltato un intero sistema politico. Il primo atto avvenne in
una grande casa di ricovero per anziani a Milano, nota comunemente come ‘la
Baggina’, e ufficialmente come Pio Albergo Trivulzio. L’istituzione, di
proprietà comunale, era una reliquia del glorioso passato riformista della città
(costruita nel 1910, aveva radici risalenti al XVIII secolo). Presiedere la
Baggina significava tenere le redini di un formidabile insieme di risorse e
contatti clientelari. Mario Chiesa, presidente nel 1992, aveva fatto carriera
nelle file del potente Partito socialista milanese. Era uno della nuova guardia,
quella che amava le scorciatoie, e se la spassava alla grande. Filmati d’archivio
lo mostrano mentre accompagna Bettino Craxi – il suo capo politico – in una
visita all’istituto, facendo battute sui servizi prestati. Chiesa si riempiva le
tasche e finanziava il suo partito anche con mezzi illegali. Ai fornitori della
casa di riposo, per esempio, chiedeva immancabilmente tangenti in contanti
sui contratti. Era una pratica comune.
Il 17 febbraio 1992 un uomo d’affari che si era sentito ‘chiedere’ una
bustarella (sette milioni di lire) scelse di non accettare, e andò alla polizia. Gli
misero addosso dei microfoni e lo mandarono a concludere l’affare. Chiesa si
accorse che qualcosa non andava, e cercò di gettare i contanti nel water. Fu
arrestato e rinchiuso nelle cadenti carceri di San Vittore. Non avrebbe tardato
a fare nomi: l’intero sistema crollò come una casa di carte. Era iniziata
‘Tangentopoli’ – fu il giornalista Piero Colaprico a coniare il nome3.
Il 5 aprile 1992, mentre il caso Chiesa cominciava a fare notizia, si dovevano
tenere le elezioni politiche. Bettino Craxi tentò di far passare la teoria della
“mela marcia”, definendo Chiesa un “mariuolo” in una dichiarazione
televisiva. Ma il danno era fatto, e la situazione sarebbe presto precipitata. In
quelle elezioni tutti i grandi partiti ‘vecchio stile’ persero milioni di voti. Per
la prima volta la Democrazia cristiana andò sotto il 30 per cento. Il rifondato
Partito democratico della sinistra (PDS, l’ex PCI) arrivò solo al 16,1,
perdendo il 10 per cento rispetto a quasi cinque anni prima: una perdita secca,
quasi quattro milioni di elettori. Rifondazione comunista, scissionista dopo la
‘svolta’, raccolse un importante 5,6 per cento. Il rigido sistema partitico
italiano si stava sgretolando. Nuove forze si facevano avanti. Circa 3,3 milioni
di elettori scelsero la Lega Nord, che si presentava soltanto nel Nord e nel
Centro. Nel 1987, alle ultime politiche, la Lega elesse appena un
rappresentante. Le confessioni di Mario Chiesa aprirono una crepa in un
sistema che era comunque destinato al collasso.
I magistrati milanesi, con i nuovi poteri conferiti dalle recenti riforme,
costituirono un ‘pool’ come avevano fatto i colleghi palermitani
dell’antimafia, e cominciarono a districare il groviglio della corruzione.
L’indagine prese il nome di ‘Mani pulite’. Si risalì alle tangenti politiche per la
costruzione della nuova linea ‘gialla’ del metrò milanese, e per gli stadi
realizzati per la Coppa del mondo 1990. Politici e imprenditori sfilarono nelle
aule e negli uffici dell’imponente edificio fascista del Palazzo di giustizia, al
centro della città. Era chiaro che chi confessava se la sarebbe cavata con poco:
quasi tutti decisero di farlo. Gli investigatori non tardarono ad arrivare ai piani
alti. La Lega Nord dava sostegno politico alle indagini, e i sondaggi rilevavano
un consenso di massa per i magistrati. Un deputato della Lega manifestò la sua
sete di giustizia agitando un cappio nell’aula della Camera. Per citare Perry
Anderson, la Lega fu “l’ariete che fiaccò i pilastri del sistema tradizionale dei
partiti in Italia”4.
Seguirono arresti e processi a non finire. Buona parte dei politici italiani
passarono per i tribunali, in procedimenti che spesso venivano trasmessi dal
vivo alla televisione. Una processione, e la stella dello spettacolo era un
pubblico ministero, un meridionale dai modi aggressivi e un uso non sempre
perfetto dell’italiano, Antonio Di Pietro. Per un po’ fu l’uomo più popolare
d’Italia. Qualcuno si difese da solo, dichiarando che sì, aveva preso i soldi, ma
‘per il partito’, per pagare ‘i costi della politica’. Non era quasi mai vero (molti
avevano accumulato anche una fortuna privata). E comunque all’opinione
pubblica le distinzioni tra le diverse ‘forme’ della corruzione importavano
poco.
Il fatto stesso di ricorrere a questo argomento di ‘difesa’ dimostra quanto
fosse ormai distante la classe politica dalla gente. Bettino Craxi – uno dei
personaggi chiave della vicenda Tangentopoli – disse poi che tutti avevano
pagato, e ogni partito aveva incassato, senza eccezioni. L’arresto di Chiesa fu
l’inizio di una serie praticamente infinita di procedimenti legali, indagini e
processi. Nel 1993 il presidente del Consiglio Giuliano Amato (un altro
socialista) cercò di chiudere Mani pulite con un decreto che depenalizzava
una serie di reati, ma l’opinione pubblica non era disposta ad accettare la scelta
‘politica’ della ‘rappacificazione’. C’era fame di giustizia; delle udienze in
televisione qualcuno disse che parevano processi alle streghe.
Nel settembre 1993 un certo Duilio Poggiolini fu arrestato in Svizzera, dove
aveva tentato di fuggire. Pochi ne avevano sentito parlare, ma era un
personaggio potente al ministero della Sanità italiano e in diverse istituzioni
sanitarie europee e mondiali. Aveva un ruolo chiave nella scelta dei farmaci
adottati dal sistema sanitario nazionale, e nella definizione dei prezzi. Gli
inquirenti scoprirono una straordinaria raccolta di oggetti preziosi nella sua
casa di Napoli, tanto che la stampa lo soprannominò il re Mida della Sanità.
Come scrisse un giornalista, trovarono “gioielli, monete antiche, lingotti
d’oro e diamanti... Quando i carabinieri hanno aperto la cassaforte, sotto gli
occhi di un sostituito procuratore della Repubblica e di un avvocato, sono
rimasti di sasso: dentro c’era un tesoro da mille e una notte, di quelli descritti
nelle fiabe o nelle storie sui pirati”5. Toccò allora alla moglie di Poggiolini,
Pierr di Maria, che ottenne dai media l’ironico titolo di Lady Poggiolini:
pareva che quella fortuna appartenesse quasi tutta a lei – in parte, si disse,
nascosta in un pouf. Sia Lady Poggiolini che Duilio passarono qualche mese
in prigione, dove confessarono di aver intascato tangenti per molto tempo.
Nel 2015 (la moglie era morta nel 2007) si scoprì che Poggiolini era finito in
una malandata casa di riposo a Roma.
Mani pulite e Tangentopoli coincisero con l’ascesa di una nuova forza in
Italia, un movimento che attaccava il sistema politico stesso, e sosteneva a gran
voce i magistrati anticorruzione. Questo movimento era pronto ad
approfittare del tracollo politico provocato dallo scandalo.

Il Senatur: l’ascesa di Umberto Bossi


e della Lega Nord
La Lombardia è una nazione, l’Italia è solo uno Stato.
Umberto Bossi, 19856
La Lega Nord fu fondata ufficialmente in uno studio notarile nel dicembre
1989 da nove uomini. Uno di loro era Umberto Bossi, nato nella cittadina di
Cassano Magnago nel 1941. L’atto amministrativo accorpava numerose
piccole ‘leghe’ locali, per lo più delle regioni ricche e produttive del
Lombardo-Veneto. Bossi era di famiglia operaia, e il suo passato era avvolto
nel mistero. Pareva avesse fatto il ‘dottore’, ma non c’è traccia di una sua
laurea in medicina. Negli anni ’70 era stato iscritto al Partito comunista.
Gianfranco Miglio (il teorico del movimento nelle sue fasi iniziali) disse di lui
che “non legge niente. Non ha mai letto una riga”7.
Sergio Romano ha definito Bossi “carisma in cerca d’impiego”8. Altri
sottolineano la sua “personalità fortemente demagogica”9. Alto, occhiali fuori
moda e capelli scarmigliati, la voce come un ruggito rauco, sempre gridata,
usava “il linguaggio parlato di ogni giorno”10. La sua oratoria era rozza e
maschilista, e tutti ricordano la sua intervista in spiaggia, in canottiera bianca11.
Bossi era sempre trasandato; niente giacche su misura, anzi, sembravano scelte
apposta per cadere male. I capelli pareva se li tagliasse da solo. Non era uno da
villa in Sardegna e vacanze ad Antigua: Bossi andava in ferie in un paesino
relativamente anonimo delle Alpi. Non pareva preoccuparsi delle apparenze, e
coltivava con cura l’immagine di uomo del popolo. Era “parte del contesto
sociale cui appartenevano i suoi sostenitori”12. Bossi fu eletto per la prima
volta al Senato nel 1987 (da cui il soprannome Senatur, alla lombarda),
dimostrando che il movimento disponeva di forti concentrazioni di voti nelle
sue roccaforti, le province di Varese e Bergamo, dominate dalla piccola
impresa.
Bossi era tutt’altra cosa rispetto ai politici della Prima repubblica, tranne forse
gli esponenti del partito neofascista. Proclamava che la Lega “ce l’ha duro” – a
qualcuno venne perfino in mente il termine “celodurismo” per definire il loro
modo di muoversi. Una volta parlò anche di “300.000 martiri” pronti a
sacrificare la vita per la causa del federalismo13. E in un periodo di contrasto
con Berlusconi, chiamò – memorabilmente – il magnate televisivo
“BerlusKaiser”. Era razzista, xenofobo, sessista e omofobo; e la sua volgarità
non risparmiava nemmeno i sacri simboli della nazione. In un comizio a
Como nel luglio 1997 dichiarò che “quando vedo il tricolore mi incazzo. Il
tricolore lo uso per pulirmi il culo”. E in settembre, reagendo alla bandiera
esposta a una finestra durante una manifestazione della Lega a Venezia: “Il
tricolore lo metta nel cesso, signora!”. Fu quindi indagato più volte per
vilipendio alla bandiera; parecchi anni dopo uno dei procedimenti si concluse
con una condanna a sedici mesi con la condizionale. Una modifica della legge
nel 2006 comportò comunque la riduzione della sentenza a una piccola
ammenda.
La Lega aveva fatto grandi progressi nel Nord anche prima di Tangentopoli.
Nel 1991, per esempio, divenne il primo partito nella città industriale di
Brescia, battendo i democristiani e gli ex comunisti. Ma furono gli scandali
per corruzione del 1992-94 a fare davvero la fortuna del movimento. Ad
aggravare la rabbia degli elettori operai del Nord si aggiungeva la politica di
austerità imposta da una successione di governi negli anni ’90. Tutto ciò che
la Lega diceva della classe politica – che era corrotta e antiquata, che viveva
alle spalle del Nord – pareva trovare conferma. Nel 1993 Milano elesse un
sindaco della Lega, e le liste leghiste andarono bene anche nelle regionali. Ci
fu perfino qualche segnale di sfondamento fuori dal Settentrione. Il suo
messaggio antisistema piaceva a molti elettori.
Di colpo, con la Lega, l’Italia si trovò di fronte a una ‘questione
settentrionale’, dopo tanti anni di analisi e discussioni su quella meridionale.
La Lega riconosceva il problema del Sud, ma chiedeva l’affrancamento del
Nord dall’obbligo di sovvenzionarlo. Non era semplicemente una questione
nazionale: in gioco c’era l’idea stessa della nazione. La propaganda leghista
tentava di collegare la sedicente nazione della Padania ad altre lotte
indipendentiste – in Scozia, in Palestina, in Catalogna.
Nel periodo iniziale, gli altri grandi nemici della Lega erano i meridionali (i
‘terroni’) e il Meridione in genere, considerato come un’entità piuttosto
nebulosa che spesso finiva per essere identificata con lo Stato e la politica tout
court. Si inveiva contro ‘Roma ladrona’ (la Lega prometteva di “non
perdonare”), che imponeva tasse esose senza dare nulla in cambio all’operoso
Nord. Bossi e gli altri leghisti usavano un linguaggio diretto, brutale – a volte
anche violento. Queste voci, e questa rabbia, avrebbero dominato il finale
della Prima repubblica.
Tangentopoli e gli altri scandali offrivano materiale abbondante per le
campagne leghiste. La Lega cercava lo scontro – e rimase a lungo un
movimento di protesta permanente (o perlomeno si pretese tale) anche
quando stava al governo. Mentre i grandi partiti gettavano alle ortiche i loro
simboli – falce e martello e scudo crociato – ecco la Lega con una panoplia
buona per la nuova generazione: il Carroccio, la leggenda di Alberto da
Giussano, la sconfitta del Barbarossa a Legnano. Era un mito fondativo
potente: Alberto da Giussano in armi, con la spada levata in aria. I giornalisti
accorrevano al richiamo del nuovo movimento e del suo modo spiazzante di
fare politica. La Lega fu favorita dalla pubblicità gratuita offerta dalle
corrispondenze giornalistiche sullo stile oltraggioso di Bossi14.
Gli slogan – spesso sparati sui manifesti – mandavano un messaggio molto
chiaro. Immagini di potenziali migranti con la scritta “Basta!”, o di
musulmani in preghiera con la frase “Fuori dalle balle!”. Altri slogan
aggredivano le comunità rom. “La diffusione del discorso razziale fu favorita
dalla presenza mediatica della Lega Nord”15, ha scritto Carl Levy. La Lega
strillava il suo senso di ingiustizia – “Il Nord paga per tutti” – e annunciava
senza mezzi termini “Basta tasse a Roma!”.
Alla metà degli anni ’90 era ormai evidente che la Lega era una forza politica
di tutto rispetto. Dopo l’8,7 per cento alle politiche del 1992 (17,9 per cento
nel Nord), alle elezioni del 1996 conquistò uno sbalorditivo 29 per cento in
Veneto, e 26 in Lombardia. Era un movimento sociale, le cui prese di
posizione contro l’UE e l’euro piacevano agli oppositori della globalizzazione
e dell’europeismo. La propaganda leghista prometteva anche ordine pubblico
e repressione della corruzione. Chiedeva tagli alle tasse, e in diverse occasioni
propose ai suoi lo sciopero fiscale. Tangentopoli le forniva lo sfondo perfetto:
politici, funzionari del fisco, imprenditori e dipendenti pubblici presi con le
mani nel sacco, che si giustificavano adducendo i costi troppo alti del sistema
politico. Gridando “Basta!”, la Lega trovava un’eco ideale nei processi ai
politici della Prima repubblica.

Il manager: Carlo ‘il bello’


Non aveva nulla del criminale, eppure Carlo Sama fu un personaggio chiave
nelle indagini e nei processi di Tangentopoli. Ebbe un ruolo centrale nel
sensazionale processo Enimont, iniziato nell’ottobre 1993 e proseguito per sei
mesi con 51 udienze e 117 testimoni – tra i quali due ex presidenti del
Consiglio e sette ex ministri chiamati a deporre. Fu durante questo processo
che vennero alla luce i meccanismi dell’illecita distribuzione di fondi pubblici
e privati ai partiti politici.
Imprenditore e ‘manager’ di alto livello, Sama riferì tranquillamente ai
giudici le somme esatte che aveva pagato ai politici, facendo i nomi di chi le
aveva incassate. Sempre elegantissimo – lo chiamavano ‘Carlo il bello’ –,
pareva considerare la distribuzione dei soldi ai politici come uno dei tanti
aspetti del suo lavoro; e, per molti versi, era proprio così. Nel 1988 l’Eni, il
gigante statale dell’energia, si era fusa con l’altrettanto gigantesca Montedison
a formare un’enorme conglomerata della chimica. Tutti i partiti erano stati
pagati per facilitare la transazione, e l’imponente sistema di bustarelle fu
soprannominato dalla stampa ‘la maxitangente’.
Il tono disinvolto di Sama diceva molto sulla normalità della corruzione nella
Prima repubblica. I responsabili non si rendevano nemmeno conto di aver
commesso un reato, o comunque qualcosa di sbagliato. Così andavano le cose.
Qualche politico, come l’allora leader del Partito liberale Renato Altissimo,
tentò di difendersi dichiarando di non aver mai ‘richiesto’ i soldi, ma di aver
comunque ‘ringraziato’ Sama per i suoi contributi politici. Molti degli
arrestati per Tangentopoli avevano violato la legge sul finanziamento dei
partiti politici (un reato relativamente minore). Esisteva il finanziamento
pubblico, ma aveva fatto poco per frenare il flusso della corruzione. Perfino un
nuovo movimento contro la corruzione come la Lega si era preso una fetta
della torta. Umberto Bossi difese la tangente, pur dichiarando di non averne
saputo nulla: era stata indispensabile alla sopravvivenza di un’organizzazione
giovane e povera di fondi16.

Giustizia per televisione:


il processo Cusani
Tangentopoli divenne presto parte della ‘società dello spettacolo’. Molti dei
momenti decisivi si svolsero in televisione, soprattutto nelle riprese di alcuni
processi. Come racconta il giornalista Pino Corrias nel suo magnifico
documentario televisivo in quattro puntate, “Per mesi, ogni giorno, il tracollo
della Prima repubblica passò alla televisione, quel tracollo che veniva
raccontato ogni giorno in tribunale nel processo Cusani, e che gli italiani
ascoltavano dal vivo”17. Il momento televisivo chiave dello scandalo (che fu in
realtà un insieme complesso di indagini correlate) fu il processo a Sergio
Cusani – noto anche come processo Enimont –, un ex militante di sinistra
diventato una specie di mediatore tra il sistema dei partiti e diversi organismi
pubblici, oltre che consulente finanziario di alto bordo.
Erano state pagate salate bustarelle per favorire lo smembramento di due
grandi aziende dopo il fallimento di una fusione. Cusani (come Carlo ‘il
bello’) aveva avuto il compito di pagare i partiti, uno per uno. Era un
intermediario, figura fondamentale nell’Italia del dopoguerra. Fu chiamata a
deporre una processione di politici, alcuni dei quali personaggi centrali della
Prima repubblica. Molti sentivano già il potere sfuggirgli dalle mani. Cusani si
fece quattro anni di galera: diversamente dalla maggioranza dei politici poi
condannati, scontò per intero la sua pena.
Tangentopoli faceva ascolti. Presentatori e giornalisti stavano in pianta fissa
fuori dai tribunali e dalle carceri milanesi, e qualcuno si costruì una carriera
sulla presenza costante in video per la vicenda Tangentopoli. È forse ironico
che fossero proprio i giornalisti Fininvest (dipendenti di Berlusconi) a trarre il
meglio dagli aspetti spettacolari degli scandali. I battibecchi tra il direttore – e
arcifedelissimo di Berlusconi – Emilio Fede in studio e il timido inviato Paolo
Brosio in strada davanti al tribunale erano divertenti ed efficaci. Tangentopoli
portava incassi pubblicitari. Fu un esempio della ‘TV del dolore’ tanto
popolare in quel periodo: un altro prodotto a effetto ritardato della morte del
piccolo Alfredino Rampi nel pozzo, nel 1981.

Il funzionario:
Severino Citaristi
Tangentopoli fu un brutto momento per certe persone che svolgevano
incarichi in genere lontani dall’attenzione del pubblico: i tesorieri dei grandi
partiti politici. Era difficile non provare un po’ di dispiacere per l’anziano e
fragile tesoriere della Democrazia cristiana, Severino Citaristi, di cui nessuno,
o quasi, aveva sentito parlare prima che scoppiasse lo scandalo. Era il classico
caso dell’uomo nel posto sbagliato al momento sbagliato. Citaristi fu implicato
in più di settanta inchieste diverse. Il suo compito era stato di raccogliere e
incassare le tangenti, ma ora era lì che testimoniava dal vivo alla televisione.
Finì con una pesante sentenza di detenzione e un’ammenda stratosferica; ma
considerata la sua età, riuscì a evitare il carcere. In ogni caso, Citaristi non era
l’oggetto principale delle indagini: lui era la marionetta, non il burattinaio.
Assai più incresciosa sul piano generale fu la deposizione del pezzo grosso
democristiano Arnaldo Forlani il 17 dicembre 1993. Diversamente da Craxi,
Forlani dichiarò di non essere stato al corrente dei reati commessi, sostenendo
che Citaristi “ricordava male” (grasse risate in aula). Negò tutto – per molti
una scelta ridicola e insostenibile: “Non mi sono mai occupato dei
finanziamenti al partito. Non ho mai saputo che alcuni contributi fossero stati
ricevuti in violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti. L’ho
appreso leggendo i giornali”. La classe politica che tanto a lungo aveva
governato l’Italia non aveva ancora capito; si erano convinti che il sistema
fosse in qualche modo logico e giustificabile, tagliandosi fuori dal mondo reale
e creando quella che sarebbe poi stata definita una ‘casta’ privilegiata. Mentre
Antonio Di Pietro lo incalzava con la forza brutale e diretta del suo italiano
elementare, il nervosismo di Forlani fu evidenziato dal filo di saliva che gli
colava dall’angolo della bocca: uno psicodramma, recitato dal vivo in
televisione di fronte al pubblico nazionale.
Tangentopoli fu insieme la causa e il segnale della fine della Prima
repubblica. Diversi uomini e partiti politici avevano regolarmente intascato (e
pagato) tangenti, e l’avevano fatto senza recriminazioni: si erano messi in fila
per la loro parte, che consideravano dovuta per diritto. Ma non erano soldi
loro. Veniva alla luce, davanti agli occhi di tutti, un sistema corrotto. Da
Milano, Tangentopoli si diffuse ad altre città; tra il 1992 e il 1994 in tutta
Italia furono indagate circa 12.000 persone, e gli arrestati furono almeno
5000.
Il trauma dello scandalo fu accompagnato da suicidi (almeno dieci) e morti
misteriose. Il 23 luglio 1993 Raul Gardini si sparò un colpo in testa. Il corpo
fu trovato nella stanza da letto nel magnifico palazzo Belgioioso, in centro a
Milano. Lo trovò il maggiordomo; era ancora in vestaglia. Si era svegliato,
aveva fatto colazione, aveva letto i giornali. Lasciò un biglietto per i tre figli e
la moglie, con una sola parola: “Grazie”. Considerava imminente l’arresto.
Figura chiave nell’inchiesta Enimont, Gardini era un potente imprenditore
nel settore chimico, un personaggio pubblico, un uomo di grande carisma. E
come tanti altri industriali e affaristi, aveva pagato i partiti per ottenere favori –
o più semplicemente, perché così andavano le cose.
Il 20 luglio 1993 Gabriele Cagliari si suicidò a San Vittore soffocandosi sotto
la doccia con un sacchetto di plastica. Aveva sessantasette anni. Secondo
alcuni commentatori, sarebbe stato assassinato. Un altro personaggio molto
potente: al momento dell’arresto era presidente della gigantesca
multinazionale elettro-chimico-petrolifera, l’Eni. Era a San Vittore da quattro
mesi. Cagliari aveva scritto alla famiglia, lamentandosi per come veniva
trattato: “Secondo questi magistrati, a ognuno di noi deve dunque essere
precluso ogni futuro, quindi la vita... La convinzione che mi sono fatto è che i
magistrati considerano il carcere nient’altro che uno strumento di lavoro, di
tortura psicologica... stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta
al loro Stato autoritario... Io non ci voglio essere”. Morì prima di spedire la
lettera18.

Un decennio di austerità
La crisi di Tangentopoli coincise con un pesante periodo di austerity. Nel
mondo del dopo-Guerra fredda certi livelli di spesa pubblica non erano più
possibili. Il comunismo non era più una minaccia. La prodigalità dello stato
sociale italiano, con le sue generose ‘baby pensioni’ (che qualche dipendente
pubblico percepiva dopo soli vent’anni di lavoro), non era più sostenibile.
L’Italia non era più uno Stato di frontiera in guerra (contro il comunismo):
ora era sola. A peggiorare le cose, il boom postindustriale degli anni ’80 si era
rivelato effimero. Il debito pubblico era alle stelle e i servizi statali
scricchiolavano. I politici si dimettevano in massa, i partiti traballavano, e
l’Italia si affidò a una successione di governi post-politici, tecnici, di
emergenza. Furono annunciati tagli drastici. Occorreva riprendere il controllo
delle finanze per rientrare – così dicevano – nei criteri del Trattato di
Maastricht.
Giuliano Amato, un economista socialista, guidò la prima di queste
amministrazioni in austerità, tra il giugno 1992 e l’aprile 1993. Aumentarono
le tasse, e in via straordinaria fu effettuato un prelievo diretto su milioni di
conti bancari e postali privati. Amato fece un accordo con i sindacati, ma
molti lavoratori rimanevano insoddisfatti, e ritornò la violenza di piazza.
Nell’ottobre 1992 un dirigente sindacale cattolico fu colpito in faccia da un
bullone mentre arringava una folla inferocita di operai a Milano.
Al governo Amato seguì nell’aprile 1993 un esecutivo guidato da una
persona non eletta in Parlamento, Carlo Azeglio Ciampi, governatore della
Banca d’Italia. La scelta di un non parlamentare alla presidenza del Consiglio
(ammessa dalla Costituzione, ma inconsueta) si sarebbe ripetuta più volte
negli anni a venire. Ciampi voleva anche dei ministri ex comunisti (per la
prima volta dal 1947), ma i drammatici sviluppi in Parlamento provocarono
una crisi prima ancora che il governo cominciasse ad operare.
Il 29 aprile il Parlamento fu chiamato a votare sei mozioni che autorizzavano
le indagini su Bettino Craxi a seguito di Tangentopoli. In quattro casi la
maggioranza rifiutò l’autorizzazione. Fu l’occasione dell’ultimo discorso di
Craxi in aula. Si era già dimesso dalla segreteria del Partito socialista nel
febbraio 1993 (dopo aver ricevuto il primo avviso di garanzia). Citò se stesso,
da un precedente intervento del luglio 1992. Confessò, di fatto, di aver violato
la legge, dichiarando che
tutti sanno del resto, che buona parte del finanziamento politico è irregolare od illegale. I partiti, specie
quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e
associative, e con essi molte e varie strutture politiche e operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di
risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata
materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale19.

Craxi negava però qualsiasi addebito di corruzione personale. Difese con


vigore i propri trascorsi politici (“Ho retto le maggiori responsabilità del
Partito socialista per sedici anni guidandolo in dieci campagne elettorali”), e
attaccò le indagini e i metodi dei magistrati. E rinfacciò a molti la loro
ipocrisia. Il discorso si concluse con una lunga citazione dalla lettera lasciata
dal deputato socialista Sergio Moroni, che si era sparato in bocca un mese
dopo l’avviso di garanzia per corruzione – vicende di ferrovie e raccolta dei
rifiuti. Moroni aveva un cancro al rene. Nella lettera deplorava l’enfasi
mediatica su Tangentopoli. “Non credo”, scriveva, “che questo nostro paese
costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da pogrom nei confronti
della classe politica”20. Per protesta contro la decisione del Parlamento sulla
posizione giudiziaria di Craxi, i ministri ex comunisti si dimisero dal governo
Ciampi. Avevano appena prestato giuramento. Si cominciava male.

Piovono monetine
Dopo l’‘assoluzione’ di Craxi da parte dei colleghi parlamentari, si parlò di
una festa all’Hotel Raphael, in centro a Roma – sua residenza nella capitale fin
dagli anni ’70 – alla quale partecipò anche Silvio Berlusconi. Il 30 aprile 1993
Craxi uscì dall’albergo, come aveva fatto tante altre volte. Quel giorno però
non lo aspettavano sostenitori adoranti, bensì una folla inferocita. Gli
lanciavano contro monete e accendini, gli offrivano banconote dicendo
“Prenditi anche queste”. Altri chiedevano ‘la galera’ per l’ex presidente del
Consiglio. Altri moraleggiavano: “Vergognati!”. “La Stampa” parlò di “clima
da anni di piombo”21.
Sei mesi dopo, alla fine dell’ottobre 1993, incalzato dall’opinione pubblica e
dalla magistratura, il Parlamento approvò l’abolizione dell’immunità
parlamentare a deputati e senatori, prevista dalla Costituzione del 1948 per
tutelarli dalle interferenze eccessive della magistratura. L’autorizzazione a
procedere delle Camere era ora necessaria soltanto in caso di arresto, e per le
intercettazioni telefoniche. Bettino Craxi continuò a ricevere avvisi di
garanzia – ventisei, alla fine. Alle elezioni anticipate (di nuovo) del 1994 non
si presentò, e quindi poteva essere arrestato in qualsiasi momento; decise
quindi di espatriare, diventando ufficialmente latitante. Fu una caduta in
disgrazia abissale per l’uomo che aveva occupato la carica di presidente del
Consiglio per più di mille giorni negli anni ’80, la faccia che ancora nel 1992
occupava i manifesti elettorali.
Le autorità tentarono di ritirargli il passaporto (ne aveva comunque due), ma
lui era già partito. Il 21 marzo 1994 arrivò con il figlio Bobo all’aeroporto di
Ciampino, e volò su un jet privato in Tunisia, dove aveva una casa di vacanza
(a Hammamet) e amicizie politiche. Si disse che aveva noleggiato l’aereo
dall’amico Giuseppe Ciarrapico, imprenditore delle acque minerali e
simpatizzante fascista. La moglie Anna era già in Tunisia. Bettino Craxi non
sarebbe mai più ritornato in Italia. Nel gennaio 2000 morì in Tunisia, e lì fu
sepolto. La sua tomba, in marmo bianco, reca l’epigrafe: “La mia libertà
equivale alla mia vita”.

Il potere dei presidenti


Nella Prima repubblica, quando i grandi partiti erano ancora forti, il
presidente aveva una funzione essenzialmente rappresentativa. In piena crisi
però, con il declino e poi il tracollo del sistema dei partiti negli anni ’80 e ’90,
il capo dello Stato assunse d’un tratto un ruolo centrale, di grande potere. Le
prerogative che un tempo erano apparse per lo più simboliche diventavano ora
decisive. Si ripetevano le elezioni anticipate – al di fuori del regolare ciclo
quinquennale – e i governi di emergenza divennero quasi la norma. Erano
costituiti in buona misura da ‘esperti’, non politici, con specifici obiettivi a
breve termine, come l’approvazione di un bilancio di emergenza. L’intero
processo fu gestito da una serie di presidenti, a cominciare da Francesco
Cossiga (1985-92), e poi Oscar Luigi Scalfaro (1992-99), Carlo Azeglio
Ciampi (1999-2006) e Giorgio Napolitano (2006-13).
Oltre a questo, ogni nuova legge richiedeva l’approvazione presidenziale. In
passato si era trattato di poco più che una formalità. Luigi Einaudi, presidente
dal 1948 al 1955, rifiutò la firma a quattro soltanto delle 3000 leggi che gli
furono sottoposte durante il settennato. Ma con il fragoroso incagliamento
della Prima repubblica il protrarsi delle trattative intorno alle leggi (e alle
nomine dei ministri) divenne la norma. Scoppiavano conflitti istituzionali tra i
diversi settori dello Stato. Il presidente era da sempre il rappresentante della
nazione – della patria. Ma la crisi dello Stato nazionale italiano negli anni ’80 e
’90, e l’affermazione della Lega, produssero un incremento del ‘patriottismo
costituzionale’. Per molti italiani, il perno centrale di questo sentimento si
identificava con il presidente della Repubblica.
I presidenti cominciarono a proporsi come figure al di sopra (e contro) il
sistema politico che si andava disintegrando. Francesco Cossiga era stato
quanto di più organico al potere democristiano si potesse immaginare. Ma di
colpo, nei primi anni ’90, prese ad attaccare i partiti, guadagnandosi il
soprannome di ‘Picconatore’. Nel 1991 dichiarò che “adesso gli scherzi sono
finiti, è arrivato il tempo delle picconate... ho dato al sistema delle picconate
tali che non possa essere restaurato ma debba essere cambiato”. A volte
parevano poco più che deliri di una persona staccata dalla realtà; ma il senno di
poi ci consente di capire che la popolarità populista di Cossiga fu una
prefigurazione della prevalenza della personalità sul partito.

“Hanno la faccia come il culo”:


la satira e “Cuore”
Tangentopoli fu una manna per la satira. Il nuovo giornale “Cuore” ebbe il
suo massimo momento di popolarità nel pieno dell’ondata degli scandali22. Di
“Cuore” erano famosi i titoli: “Loro rifanno lo stesso governo, noi rifacciamo
lo stesso titolo: ‘Hanno la faccia come il culo’”. Oppure: “Scatta l’ora legale.
Panico tra i socialisti”. “Cuore” nasceva da una solida tradizione satirica
iniziata ben prima del fascismo, e poi ripresa dalle raffinate parodie delle prime
pagine dei giornali sul “Male” e altre pubblicazioni. In origine supplemento
del quotidiano comunista “l’Unità”, e poi diventato indipendente, “Cuore”
rappresentava il desiderio di mostrare finalmente la verità al potere, coprendo
di ridicolo quelli che per tanto tempo avevano governato il paese.
E non c’erano soltanto i titoli. Andavano per la maggiore anche certe
rubriche: il voto dei lettori su “Le cose per cui vale la pena di vivere”, per
esempio (vinceva quasi sempre qualcosa di connesso all’attività sessuale),
oppure la “Guida alle chiese più brutte d’Italia”, sugli effetti devastanti
dell’architettura post-modernista in Italia. “Mai più senza” era invece dedicata
agli oggetti di consumo più inutili, mentre un’altra rubrica prendeva in giro i
nomi assurdi di tanti negozi, spesso parole inglesi deformate, come l’ottico
Occhial House (esisteva davvero, a Milano), o la bottega Sexy Wig a Roma.
“Cuore” conteneva anche pezzi più seri di satira giornalistica, ma il suo senso
dell’umorismo demenziale lo distingueva dal resto della stampa sinistrorsa in
Italia, con la sua deprimente tendenza a prendersi troppo sul serio. Le feste di
“Cuore” scimmiottavano quelle dell’“Unità”, ma erano molto più creative.
Fu però un successo effimero. La realtà cominciò a superare la satira: le battute
di “Cuore” non divertivano più.
Altre nuove forme satiriche – in televisione, oltre che nelle edicole –
accompagnarono lo spettacolare tracollo della Prima repubblica. Blob, un
programma serale quotidiano che monta in modo brillante e fantasioso
spezzoni ripresi da tutti i canali – ebbe allora un grande successo. I politici
erano più vulnerabili, la satira più audace e tagliente. Un tempo la satira
televisiva era per lo più prudente e conservatrice, e non era raro che i politici
si presentassero insieme con i loro imitatori. Comici travestiti da politici
scambiavano tristi battute “audaci” con presentatori e soubrette. Quelli che
attaccavano la classe politica al governo, come il comico Beppe Grillo, che in
diretta diede dei “ladri” ai socialisti, venivano banditi dalla televisione di
Stato.
Ora cominciavano a spuntare programmi più aggressivi e pericolosi. Avanzi,
in onda tra il 1991 e il 1993, era un insieme di satira e umorismo surreale,
dove le imitazioni erano molto più cattive (in particolare quelle inventate dai
fratelli Corrado e Sabina Guzzanti, alcune basate su persone reali, altre su ‘tipi’
presi dalla società). I politici si vedevano esposti al ridicolo, e all’odio. I
programmi che prendevano spunto dai casi di corruzione erano tanti, con
presentatori d’assalto come l’eccentrico Gianfranco Funari, che divennero
famosi quasi da un giorno all’altro. Le agenzie di stampa battevano di
continuo aggiornamenti sugli scandali, sugli arresti, sui presumibili sviluppi
ulteriori, spesso fatti trapelare ai giornalisti da qualche magistrato.

Cadaveri eccellenti
Mentre la classe politica si disintegrava, la mafia saldava i conti con chi aveva
tradito la sua fiducia, o aveva rinchiuso i suoi dietro le sbarre. Nel marzo 1992
Salvo Lima, potente politico democristiano e intermediario tra il partito e la
mafia siciliana, stava rientrando in auto a Palermo. Qualcuno sparò alle
gomme. Lima sapeva cosa aspettarsi; tentò di fuggire, ma quelli erano
professionisti. Lo finirono con due colpi, poi si dileguarono in moto. Agli
occhi della mafia, Lima aveva la colpa di non aver ribaltato l’esito del
maxiprocesso. Il suo corpo insanguinato, coperto a malapena da un lenzuolo e
circondato da poliziotti dall’aria annoiata, era anche un avvertimento per
Roma. Giulio Andreotti era in prima fila, al funerale. Sapeva che i segnali
inviati da Palermo non promettevano bene per il suo futuro politico.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sapevano di essere segnati. La mafia era
a caccia degli ispiratori del maxiprocesso. Il primo fu Falcone – e la data, 23
maggio 1992, è di quelle incise nella storia d’Italia. Aveva cinquantatré anni. I
preparativi dell’attentato furono complessi. Usarono uno skateboard per
piazzare 500 chili di esplosivo sotto l’autostrada che porta dall’aeroporto a
Palermo. Falcone e la moglie, il magistrato Francesca Morvillo, erano appena
arrivati. Stavano andando in vacanza.
Fatto insolito per un uomo soggetto ai massimi livelli di protezione, Falcone
aveva deciso di guidare lui. Quattrocento metri più in alto, sulle colline,
stavano i sette che dovevano innescare l’esplosione. Fumavano, aspettando il
convoglio di Falcone: sul posto furono trovati cinquantuno mozziconi, che
avrebbero poi fornito le tracce di DNA per identificare gli attentatori. La
bomba aprì una voragine nell’autostrada, uccidendo sul colpo tre uomini della
scorta. Falcone e la moglie, precipitati nel cratere, morirono poco dopo, in
ospedale. Se fosse stato sul sedile posteriore, forse si sarebbe salvato. Il regista
Paolo Sorrentino avrebbe poi ricostruito l’attentato nella sua biografia semi-
immaginaria di Giulio Andreotti, Il Divo. I resti accartocciati di una delle auto
furono conservati a ricordo della tragedia. Molti siciliani non vollero
rassegnarsi a questo assassinio. Nacque un movimento sociale, che scese nelle
strade. Si diffondevano le lenzuolate di protesta alle finestre23.
Una delle vedove della cosiddetta strage di Capaci si chiamava Rosaria
Schifani (moglie di Vito). Rosaria tenne un discorso appassionato al funerale
del marito, trattenendo a stento le lacrime. Cominciò leggendo un testo, poi
andò a braccio, parlando “a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo
Stato” – e aggiungendo, con un sospiro, “lo Stato!”. Poi si rivolse
direttamente “agli uomini della mafia... perché ci sono qua dentro, ma
certamente non sono cristiani”. “Anche per voi c’è possibilità di perdono: io
vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio”; ma “loro non cambiano”24.
A Roma il Parlamento fu indotto a eleggere alla presidenza della Repubblica
un candidato fuori dai grandi giochi, appena due giorni dopo la morte di
Falcone. Il nuovo capo dello Stato era un democristiano conservatore di nome
Oscar Luigi Scalfaro: si sarebbe rivelato un difensore inflessibile dello Stato e
della legalità per tutta la durata del suo mandato25.
L’attentato a Falcone non fu l’ultimo degli orrori: fu solo l’inizio di una vera
e propria guerra di mafia contro lo Stato. Il prossimo sulla lista era Paolo
Borsellino, amico e collaboratore di Falcone. Anche per lui usarono una
bomba, ma questa volta l’attentato avvenne in piena città di Palermo.
Borsellino andava spesso a trovare la madre, e fu qui che la mafia colpì.
Un’autobomba potentissima fu piazzata in strada, all’interno di un’auto
parcheggiata; il 19 luglio 1992, all’arrivo di Borsellino in via D’Amelio,
l’esplosione fu spaventosa. Con lui morirono cinque persone della scorta (tra
le quali una donna). La morte di Borsellino, aggiungendosi a quella di
Falcone, fu un duro colpo per tutto il paese. Tra i due omicidi erano trascorsi
solo settantacinque giorni. Quando i politici romani si presentarono ai
funerali della scorta a Palermo, la gente tentò di aggredirli, sfondando i
cordoni della polizia. Il nuovo capo dello Stato (Scalfaro) e il capo della
polizia, terrorizzati, furono salvati dalla folla, che scandiva “Fuori la mafia
dallo Stato”. L’Italia era arrivata al punto di rottura.
Negli anni a venire, decine di vie e piazze in tutta Italia sono state dedicate a
Falcone e Borsellino. Una famosa foto dei due, scattata da Tony Gentile pochi
mesi prima degli omicidi, il 27 marzo 1992, è diventata “uno dei veicoli più
diffusi della memoria pubblica dei due magistrati”, comparendo nelle
dimostrazioni, sulle magliette, sulle ‘lenzuolate’ di protesta26. La forza
dell’immagine viene dal contesto. Come spiega lo stesso Gentile, “l’emozione
della foto deriva dall’empatia tra i due, il legame di fiducia che li unisce, la
risata che svela la loro grande amicizia. Sono come due vecchi amici che si
incontrano al bar. Il volto di Borsellino irradia serenità. Non sembrano affatto
oberati dal loro ruolo. E soprattutto, c’è il fatto che entrambi sono stati
ammazzati dalla mafia a distanza di due mesi uno dall’altro”27. Quella foto è
diventata “una delle immagini più iconiche della storia d’Italia”, un simbolico
“atto di resurrezione dei magistrati scomparsi”28.
L’Italia non aveva saputo proteggere i servitori dello Stato. Ma la mafia non
aveva ancora finito. La guerra allo Stato non dava segno di stanchezza. Nel
maggio 1993 passarono a un nuovo livello: l’attacco ora veniva rivolto contro
l’Italia stessa. Il 27 maggio esplose una bomba in centro a Firenze, vicino alla
Galleria degli Uffizi, uno dei musei più visitati al mondo. Morirono cinque
persone, tra le quali una bambina di cinquanta giorni. Due mesi dopo, altre
bombe a Milano e Roma, che distrussero un museo e danneggiarono due
chiese, uccidendo a Milano altre cinque persone (tre pompieri, un vigile e un
immigrato che dormiva su una panchina). La mafia usava la sua potenza
militare per destabilizzare il paese e diffondere il terrore. Una delle richieste
principali riguardava i suoi tanti affiliati ormai in carcere.
Si dice che in questo periodo lo Stato (o certi settori dello Stato) trattò con la
mafia: ‘la Trattativa’, appunto. Quale fosse il presunto accordo raggiunto tra le
due parti è tema di accese controversie. Ma se questi colloqui scandalosi
ebbero davvero luogo, è certo che la questione chiave sul tavolo riguardava i
boss finiti dietro le sbarre.

Mafiosi in galera
A seguito della strage di Capaci del maggio 1992, nel tentativo di
interrompere il collegamento tra i vertici mafiosi e le loro organizzazioni
all’esterno, le regole carcerarie furono ulteriormente inasprite. Ne derivò un
insieme di provvedimenti temporanei che divenne noto come ‘articolo 41
bis’. Le regole del 41 bis si applicavano ai mafiosi e ad altri criminali: riduzione
delle visite (imponendo uno schermo di plastica tra i visitatori e il detenuto),
isolamento con scarsi contatti con gli altri detenuti, gli avvocati e il mondo
esterno. Il nuovo regime viene efficacemente rappresentato nella prima serie
della versione televisiva di Gomorra, di Roberto Saviano. Il boss camorrista
don Pietro Savastano viene trasferito dal carcere vecchio stile di Poggioreale, a
Napoli, dove può telefonare all’esterno e inviare messaggi tramite i parenti alla
sua organizzazione, a un istituto più moderno in regime di 41 bis, dove rischia
di perdere contatto con i suoi soldati.
Alcuni ritengono che la cosiddetta “Trattativa” tra Stato e mafia, che sarebbe
avvenuta tra il 1992 e il ’93, riguardasse soprattutto l’applicazione del 41 bis.
La mafia lo detestava, e fece quanto poteva per limitarne i rigori. Nel 1993 il
numero dei detenuti sottoposti al regime diminuì da mille a meno di
cinquecento: una prova delle concessioni dirette fatte dallo Stato alla mafia per
fermare le bombe? Il ministro della Giustizia che ordinò l’attenuazione del 41
bis si chiamava Giovanni Conso. Come scrive John Dickie, “ha dichiarato
che quell’atto di clemenza fu assunto su iniziativa personale, con l’intento di
inviare un segnale di buona volontà”29. Nel corso degli anni il pacchetto di
provvedimenti venne rinnovato in diverse occasioni, e nel 2002 fu sottoposto
a ulteriori riforme. L’idea che fossero state davvero decise queste concessioni
alla mafia, quella che Dickie definisce “la trattativa delle bombe”, è una delle
ombre più pesanti che gravano sulla storia di questo periodo.
Ci furono ricorsi contro il 41 bis al Parlamento europeo – in collegamento
con le organizzazioni per i diritti umani. Anche la mafia si fece sentire con
una serie di proteste. Durante un processo, il boss Leoluca Bagarella, detenuto
in regime di 41 bis, lesse una dichiarazione: “Parlo a nome di tutti i detenuti
ristretti a L’Aquila sottoposti al regime del 41 bis, stanchi di essere
strumentalizzati, umiliati, vessati e usati come merce di scambio dalle varie
forze politiche”30. Bagarella parlava di rado, in pubblico, e pesava bene le
parole. Dopo dieci minuti il giudice lo interruppe e ordinò il sequestro del
testo del discorso.
La mafia utilizzò anche altri canali per pubblicizzare le sue istanze. Durante
una partita tra il Palermo e l’Ascoli alla Favorita di Palermo, il 22 dicembre
2002, sulla curva comparve uno strano striscione lungo sette metri: “Uniti
contro il 41 bis: Berlusconi dimentica la Sicilia”. Era un chiaro messaggio
all’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, e veniva direttamente
dalla mafia. Si seppe poi che lo striscione era stato portato allo stadio dai boss
mafiosi del quartiere Brancaccio. Nel febbraio 2003 il presidente Carlo
Azeglio Ciampi si recò in visita alla Fondazione Sciascia di Racalmuto, dove
Leonardo Sciascia era nato nel 1921. Si trovò di fronte, sul muro della
fondazione, la scritta di protesta “Uniti contro il 41 bis”.
Furono efficaci, queste proteste? Se ne è dibattuto a lungo. Secondo alcuni,
il relativo ammorbidimento del regime carcerario e il trasferimento di certi
boss in ambienti meno rigorosi dimostrano una collusione tra Stato e mafia, o
persino un “accordo” tra la criminalità organizzata e le élites politiche.
Secondo molti esperti il 41 bis funziona, e andrebbe confermato. Non
dobbiamo comunque dimenticare che fu Falcone il personaggio chiave nella
costruzione di strutture antimafia coordinate a livello nazionale, sul modello
di quelle che avevano funzionato così bene a Palermo. Queste nuove strutture
sarebbero riuscite a “trasformare radicalmente la lotta contro le mafie a livello
nazionale”31. Il sacrificio di Falcone non fu vano.

Post-neofascismo
Con la fine della Guerra fredda, finì anche la relegazione nel limbo dei
neofascisti, che in gran parte facevano riferimento al Movimento sociale
italiano. L’MSI era stato tenuto fuori dai corridoi del potere nazionale dal
1945. La breve stagione di un’alleanza di centrodestra nel 1960 si era chiusa
nella violenza, e non fu più ritentata; ancora negli anni ’80 i neofascisti erano
considerati impresentabili. Nel 1987 Bettino Craxi suscitò grande
indignazione soltanto per il fatto di aver incontrato Gianfranco Fini. Gli anni
’90 videro invece una partecipazione importante dei neofascisti sia al governo
centrale che nelle amministrazioni locali. Da paria politici che erano,
avrebbero finito per reggere le redini del potere. Lo chiamarono ‘lo
sdoganamento’.
Fini capì che la fine del comunismo aveva ripercussioni anche sulla destra,
della cui identità l’anticomunismo aveva costituito un fattore chiave. Cercò di
rinnovare il suo stesso partito, adottando un nuovo nome, Alleanza nazionale,
meno legato al fascismo storico, e rinunciando ai richiami diretti all’eredità
mussoliniana – in particolare alle vergognose leggi antisemite del 193832. Nel
1995 avrebbe portato anche il suo partito a una ‘svolta’, al congresso di Fiuggi.
In quell’occasione il Movimento sociale confluì ufficialmente in Alleanza
nazionale, “riconoscendo” l’antifascismo come un “valore”. Una minoranza
di scissionisti se ne andò, ma rimase ai margini della politica nazionale. Il post-
fascismo era diventato realtà. Tangentopoli offrì un’occasione all’MSI, in
buona parte estraneo al sistema, e con le mani relativamente ‘pulite’ rispetto
ad altri grandi partiti. Con la Lega, l’MSI, poi AN, fu il più acceso sostenitore
dei magistrati anticorruzione.
Appariva chiaramente, però, che la rinuncia al fascismo esplicito non era
lineare, né sincera. Molti militanti e rappresentanti eletti dell’MSI/AN
conservarono le loro convinzioni neofasciste (o più semplicemente, fasciste),
rifiutando di modificare il giudizio su Mussolini e il Ventennio. Anzi, arrivati
al potere si diedero da fare per promuovere commemorazioni legate al
periodo mussoliniano, intervenendo sull’intitolazione fascista di strade e
monumenti. La riabilitazione del passato regime fu favorita con le parole e le
azioni da certi politici post-comunisti, che invitavano gli italiani a
comprendere i ‘ragazzi’ che avevano combattuto per il Duce. Pareva che molti
volessero lasciarsi alle spalle il consenso antifascista che era stato l’anima della
Costituzione del 1948. Perfino il sedicente moderato Fini aveva definito
Mussolini “il più grande statista del XX secolo” – anche se poi disse di averci
ripensato. Gli atteggiamenti antipolitici che avevano contraddistinto l’MSI al
tempo della sua esclusione dal sistema andavano sfumando. Arrivati al potere,
quei politici ‘puri’ si comportarono sostanzialmente come tutti: le loro mani
non rimasero ‘pulite’ a lungo.

La Seconda repubblica, il Mattarellum


e la fine della Democrazia cristiana
Mentre Tangentopoli infuriava, con processi interminabili, dimissioni e
arresti, nel 1994 furono convocate le elezioni anticipate. Sarebbero state le
prime della cosiddetta Seconda repubblica. Per certi versi questa era soltanto
un’etichetta per definire il senso del cambiamento, con la scomparsa dei
vecchi partiti e l’emergere di nuovi leader e movimenti. Ma il termine
rinviava anche alle trasformazioni apportate alla Costituzione e alle strutture
politiche italiane, come la drastica riforma del sistema elettorale.
Si fecero avanti improbabili figure di riformatori. Mario Segni, un
democristiano moderato dalla faccia pulita (figlio di un ex presidente della
Repubblica), promosse un referendum per modificare il sistema elettorale a
rappresentanza proporzionale. Nel giugno 1991 – prima dell’inizio di
Tangentopoli – quasi 27 milioni di italiani andarono alle urne per votare un
provvedimento che riduceva il numero di preferenze a una. Con il sistema
elettorale vigente, gli elettori potevano indicare la preferenza per un gran
numero di candidati, oltre a votare il partito. I voti di preferenza rientravano
da tempo tra le convenzioni del broglio elettorale – si concordavano
combinazioni di preferenze per accertare che l’elettore votasse come doveva. I
grandi partiti erano per lo status quo, e Bettino Craxi consigliò agli elettori di
“andare al mare” il giorno del referendum. La misura con cui questo invito fu
respinto (votò un massiccio 62,5 per cento degli aventi diritto, e più del 95
per cento scelse l’abolizione delle preferenze plurime) fu un segnale di quanto
si stava preparando. Nella primavera del 1993 – in piena Tangentopoli – un
altro referendum abolì il sistema proporzionale per il Senato. Per un po’,
sull’onda delle campagne referendarie, Segni fu l’uomo del giorno, possibile
candidato alla presidenza del Consiglio, ma sparì presto dall’orizzonte politico.
Ora il Parlamento doveva escogitare una nuova legge elettorale. Il risultato fu
alquanto pasticciato – sarebbe rimasto in vigore soltanto per tre elezioni
politiche successive. Il politologo Giovanni Sartori lo battezzò “Mattarellum”
– dal nome del politico e poi presidente della Repubblica Sergio Mattarella,
che partecipò alla stesura del provvedimento – ma c’è anche qualcosa del
‘matto’.
In effetti era una legge un po’ folle. Tre quarti dei seggi venivano ora
assegnati in base a un sistema uninominale secco simile a quello del Regno
Unito. Il 25 per cento rimanente veniva distribuito in base a un insieme
diabolicamente complicato di sistemi proporzionali. Soltanto uno psefologo
iniziato poteva capire, per esempio, il funzionamento del ‘metodo d’Hondt’
per l’assegnazione di alcuni seggi in Senato. Comunque fosse, la ‘sezione’
proporzionale del voto serviva come rete di sicurezza per i politici più potenti
nel caso avessero perduto il seggio: non si voleva certo rischiare che qualcuno
di importante non venisse eletto. Ora le schede elettorali erano tre, due per la
Camera e una per il Senato. E alcune erano grandi come lenzuola. Ci volle
tempo perché la legge prendesse piede: gli italiani non erano abituati ai collegi
uninominali. L’idea (teorica) era di creare un sistema che consentisse a
coalizioni e partiti diversi di vincere le elezioni e governare, con un rapporto
diretto tra gli eletti e un elettorato specifico. Il nuovo sistema, si sosteneva,
avrebbe ‘sbloccato’ le strutture della Prima repubblica. Ma non fu un
successo.
Un effetto fu di costringere partiti e gruppi ai patti di alleanza pre-elettorali.
In precedenza, le alleanze venivano concordate dopo le elezioni (erano spesso
coalizioni che comunque duravano anni). Ora invece occorreva costruirle
prima che gli elettori andassero alle urne. La sinistra si adattò rapidamente al
cambiamento, e all’inizio della campagna elettorale del 1994 pareva proprio
che la cosiddetta Alleanza dei progressisti – voluta da Achille Occhetto (ora
alla guida dell’ex Partito comunista), comprendeva una serie di partiti e
raggruppamenti di sinistra e centrosinistra – avrebbe ottenuto una vittoria
schiacciante.
I democristiani, intanto, erano allo sbando. Il partito si era già spaccato, con
l’uscita a sinistra del gruppo modernizzatore di Mario Segni. Sottoposto a
pressioni insostenibili, Mino Martinazzoli, leader della DC nel 1993-94, seguì
l’esempio del PCI cambiando il nome del partito. Lo prese dal passato, Partito
popolare italiano (PPI), come il primo movimento politico cattolico moderato
fondato nel 1919. Il PPI aveva un programma di centrosinistra. Il partito che
aveva governato l’Italia per tutto il dopoguerra si era disintegrato in mille
pezzi, travolto da Tangentopoli.
Un gruppo significativo di democristiani passò al centrodestra, fondando
l’ennesimo nuovo partito. Altri imboccarono sentieri diversi, dalla sinistra alla
destra estrema. L’unità imposta dalla Guerra fredda, che aveva tenuto insieme
così a lungo un gruppo di persone tanto disparate, non esisteva più. L’idea di
un unico grande partito dei cattolici pareva anacronistica. Fu un momento
storico, eppure nessuno se ne accorse davvero. Incredibilmente, la
Democrazia cristiana sparì quasi nel silenzio. Con quel tracollo e il rinnovo
del nome, e l’incombente scomparsa dei socialisti, ormai privi del traino di
Craxi, non parevano esserci dubbi sulla facile vittoria di Occhetto e della sua
Alleanza dei progressisti. Ma proprio allora, emergendo quasi dal nulla, un
altro personaggio si fece avanti per occupare il vuoto. Lui si definiva ‘l’uomo
del destino’.

La discesa in campo:
Berlusconi entra in politica, 1993-94
L’Italia è il paese che amo.
Silvio Berlusconi, 1994
Il debutto di Berlusconi nell’arena politica avvenne nel novembre 1993, in
una conferenza stampa a Roma. In quell’occasione sorprese tutti appoggiando
Gianfranco Fini, neofascista ma apparentemente moderato, al ballottaggio
come sindaco di Roma. Berlusconi dichiarò che “Se fossi cittadino romano
voterei per Fini”. Per molti il partito neofascista era ancora politicamente
intoccabile, e i giornalisti del settimanale berlusconiano “Panorama” scesero
in sciopero per protesta. A un giornalista straniero che alla conferenza stampa
richiamava i crimini del fascismo, Berlusconi replicò che “Quel movimento è
morto 50 anni fa e Fini è nato nel 1952!”; quanto a lui, vent’anni di lavoro nei
media dimostravano la sua estraneità a quel tipo di ideologie. Il giornalista si
doveva vergognare.
Era evidente la sua disponibilità ad alleanze che superassero quelle del
passato: non aveva tempo da perdere con l’ortodossia politica tradizionale.
Anche la sua esibizione alla conferenza stampa fu un segnale del futuro che
incombeva: denunciò il comunismo, ideologia “superata dalla storia”, che
aveva prodotto “povertà, terrore e morte”. Il comunismo faticava a
sopravvivere alla fine della Guerra fredda, ma l’anticomunismo godeva ancora
di ottima salute. Bastarono un paio di mesi per capire che Berlusconi stava già
preparando il suo ingresso ufficiale nella vita politica italiana.
Il 26 gennaio 1994 giunse il grande momento. La registrazione VHS di un
suo discorso fu distribuita a tutte le maggiori emittenti televisive, che si
premurarono di trasmetterla nella fascia di massimo ascolto. Fin dall’inizio,
Berlusconi si rivelò un abile manipolatore dei notiziari. L’evento divenne
noto come la ‘discesa in campo’. Berlusconi in giacca e cravatta, dietro a una
scrivania in quello che pareva un ufficio ma era in realtà uno studio televisivo
trasformato in ufficio. A quanto si sa, non aveva letto il situazionista francese
Guy Debord, ma di certo conosceva bene la forza di quella che Debord
definisce “la società dello spettacolo”. Nel quadro comparivano, posizionate
con cura, le sue foto di famiglia, e perfino qualche libro.
Era un discorso breve, letto dal gobbo nonostante i pezzi di carta che teneva
in mano – erano fogli bianchi. Frasi asciutte, espressioni chiare e ‘non-
politiche’. Il linguaggio era in parte quello del calcio. E parlava soprattutto di
sé: dopo Craxi e Bossi, anche Silvio Berlusconi spingeva l’Italia verso una
nuova fase di politica personalistica, senza partiti di massa, fatta con la
televisione e – nel caso specifico – strettamente collegata ai suoi interessi
privati. Aveva deciso di “scendere in campo” per occuparsi “della cosa
pubblica” perché “non voglio vivere in un paese illiberale”:
L’Italia è il Paese che amo... Qui ho imparato... il mio mestiere di imprenditore. Qui ho appreso la
passione per la libertà... Ho rassegnato oggi stesso le mie dimissioni da ogni carica sociale nel gruppo che
ho fondato. Rinuncio dunque al mio ruolo di editore e di imprenditore per mettere la mia esperienza e
tutto il mio impegno a disposizione di una battaglia in cui credo con assoluta convinzione...33

Berlusconi metteva in guardia gli italiani dai rischi che correvano. “Affinché
il nuovo sistema funzioni, è indispensabile che al cartello delle sinistre si
opponga un ‘polo delle libertà’, che sia capace di attrarre a sé il meglio di un
paese pulito, ragionevole, moderno... Noi crediamo nell’individuo, nella
famiglia, nell’impresa, nella competizione, nello sviluppo, nell’efficienza, nel
mercato libero e nella solidarietà, figlia della giustizia e della libertà”34.
La ‘discesa in campo’ fu accolta da un’esplosione di ilarità; ma fu presto
chiaro che si trattava di un progetto politico estremamente serio, in gestazione
da tempo. Si disse che Berlusconi era stato consigliato da Craxi in persona.
Nacque presto un nuovo partito politico, del tutto diverso dagli altri. Avrebbe
partecipato, in alleanza con altre forze, alle elezioni del 1994.

Forza Italia
In pochissimi mesi Berlusconi e i suoi (in particolare Marcello Dell’Utri e altri
dirigenti del gruppo pubblicitario Publitalia) crearono le condizioni per la
nascita di una serie di “microcomitati elettorali locali”, denominati
ufficialmente ‘club’. La procedura era semplice: “Chiunque desideri
rispondere all’appello di Berlusconi deve semplicemente compilare un
modulo (da inviare via fax alla sede nazionale di Milano) per la ‘pre-
costituzione’ di un club”35. Al momento delle elezioni, qualche mese dopo, in
tutta Italia i club ‘pre-costituiti’ risultavano – incredibilmente – 13.000; il
numero dei club realmente operativi si aggirava comunque intorno ai 200036.
Perché Berlusconi ‘scese in campo’? Fu un sacrificio per il bene del paese? Il
comunismo rappresentava davvero una minaccia per la libertà degli italiani? O
invece c’era sotto qualcos’altro? Berlusconi si sentiva perduto senza la
copertura politica che Craxi gli aveva fornito per buona parte degli anni ’80?
Da super-ricco qual era, entrò in politica per salvare le sue aziende e dotarsi
anche di un potere istituzionale? O fu la sua personalità narcisistica a
impedirgli di resistere all’opportunità di diventare presidente del Consiglio,
quando i partiti tradizionali uscirono di scena?
Forza Italia non è mai stata una struttura democratica. Era, ed è sempre stata,
un’organizzazione personale e imprenditoriale ad un tempo (lo chiamavano il
partito-azienda), in cui il nesso tra il Berlusconi uomo e il Berlusconi
imprenditore è inestricabile. Di tanto in tanto si parlava di primarie o elezioni
interne, ma non si sono mai materializzate. Berlusconi non accettava dissensi,
e molti esponenti della sua alleanza sono fuoriusciti, o sono stati buttati fuori,
a seguito di disaccordi più o meno gravi. Il ricambio di portavoce e candidati
era continuo, ma una figura rimaneva inamovibile: Berlusconi. Alle elezioni
del 27-28 marzo 1994 questa nuova organizzazione ‘leggera’ conquistò 8
milioni di voti. Il 90 per cento degli eletti con Forza Italia non aveva mai
messo piede in Parlamento. Berlusconi era un populista – il primo ad arrivare
al potere in Europa dopo il 1945 – che prometteva il taglio delle tasse e un
milione di nuovi posti di lavoro. Ma usava anche le armi della storia: in
particolare, l’anticomunismo.
Per tener fuori la sinistra – apparentemente destinata a vittoria certa – stipulò
un patto elettorale bifronte con la Lega Nord (nel Settentrione) e con
Alleanza nazionale (i neofascisti) nel resto del paese. Berlusconi aveva puntato
sul potenziale dell’alleanza a destra. La strategia moderata di Fini e il
riposizionamento dei neofascisti fu, per qualche tempo, un grande successo
per entrambi i leader. Fu costituito un governo di coalizione Lega-AN-FI, e
Berlusconi divenne presidente del Consiglio. Molti italiani rimasero
esterrefatti, o sconvolti. Altrettanto stupefatti i commentatori stranieri. Il 76
per cento circa degli eletti in tutte le liste non era stato nel Parlamento
precedente.
Durante le campagne elettorali (allora come oggi) Berlusconi usava tutti i
mezzi a sua disposizione. I programmi televisivi più popolari si
interrompevano ‘spontaneamente’ per i suoi interventi, i presentatori più
amati dichiaravano le proprie intenzioni di voto – sempre in orario di grande
ascolto. Il leggendario comico e presentatore Raimondo Vianello, per
esempio, proclamò esplicitamente che avrebbe votato Berlusconi e Forza
Italia: “Finalmente so per chi votare”, fingeva di confidare a un collega
davanti alle telecamere. E il veterano Mike Bongiorno fece lo stesso in
trasmissione dal vivo, annunciando ai suoi adoranti spettatori che la Fininvest
“non ha mai licenziato nessuno”, e che “Berlusconi quello che promette fa”.
La stessa Democrazia cristiana (o quel che ne rimaneva) sarebbe stata spazzata
via se non per il 25 per cento di deputati eletti con il proporzionale. Soltanto
4,2 milioni di elettori scelsero il nuovo Partito popolare, rimpiazzo ufficiale
della DC. Nei due anni trascorsi dalle elezioni del 1992 erano evaporati 7,4
milioni di voti democristiani. Fu un declino di proporzioni epiche.

Un terremoto politico
Il 1994 segnò la fine della politica dei partiti di massa. Fu la prima elezione
senza i simboli della DC e del PCI sulla scheda, e il PSI era stato cancellato da
Mani pulite. Pareva un sistema del tutto nuovo: la Seconda repubblica. Le
politiche del 1994 portarono alle urne una miriade di nuove sigle, e grazie al
nuovo sistema misto, il Mattarellum, il 75 per cento dei candidati fu eletto in
collegi uninominali. Votò l’86,1 per cento degli aventi diritto. Come abbiamo
già visto, il vecchio sistema elettorale – una forma molto generosa e aperta di
proporzionale – era stato abolito con il referendum del 1993. L’insieme di
questi fattori produsse esiti dirompenti. Nel collegio di Mirafiori sud a Torino
– storicamente la quintessenza del quartiere operaio – gli elettori preferirono
(per soli 397 voti) lo sconosciuto psichiatra Alessandro Meluzzi nella lista di
Forza Italia al sindacalista ed ex comunista Sergio Chiamparino (che
comunque avrebbe poi risalito la china diventando sindaco di Torino). Fu un
momento simbolico: gli operai – gli operai Fiat, e proprio a Torino – avevano
scelto Berlusconi invece dei resti del PCI. Lo stesso Meluzzi era un ex
comunista, e così parecchi altri candidati del nuovo gruppo berlusconiano. I
risultati a Milano confermarono la tendenza dell’intero Settentrione – il
centrodestra vinse tutti i seggi –, compresa la cosiddetta ‘cintura rossa’ intorno
alla città: anche a Sesto San Giovanni, la ‘Stalingrado d’Italia’, la sinistra fu
sconfitta da un candidato di FI.
Si chiudeva una fase storica, quella dei partiti di massa e della partitocrazia
imperante nell’‘assetto’ della Guerra fredda. Nessuno lo sapeva, né l’aveva
previsto, ma si stava aprendo un nuovo ventennio, l’era di Berlusconi. Gli
andò molto bene anche in Sicilia: in centro a Palermo l’esperto candidato
neofascista Guido Lo Porto sbaragliò senza fatica l’eroico magistrato antimafia
Antonino Caponnetto.
Il sistema elettorale ibrido produsse però qualche anomalia. Soltanto
l’astensione di alcuni senatori cattolici e il voto di vari senatori a vita
consentirono a Berlusconi di ottenere la fiducia iniziale. E se voleva
governare, doveva farlo per decreto. La sua coalizione (o meglio, le sue due
coalizioni, una al Nord con la Lega, e una nel resto del paese con i postfascisti)
era fragile. In assenza di un programma comune, il governo nasceva con la tara
dell’instabilità.

Berlusconi al potere: Atto I


Onorevole presidente, mi consenta di ricordarle che lo Stato non è lei!

Umberto Bossi a Silvio Berlusconi in Parlamento, 199437


Per Berlusconi i primi mesi furono inebrianti, nonostante le proteste e lo
sconcerto della sinistra, e le perplessità a livello internazionale, oltre che
all’interno delle istituzioni italiane. Nominò il primo ministro dell’Interno
non democristiano, il leghista Roberto Maroni. Ma non mancava la
continuità col passato. Il primo Consiglio berlusconiano aveva poco di nuovo:
due ex liberali, entrambi veterani dei governi craxiani, sette provenienti
direttamente dalla DC, e quattro dal neofascista Movimento sociale. Il 18
maggio 1994 il Milan di Berlusconi sbaragliò il Barcellona nella finale della
Coppa dei Campioni, 4-0. Più o meno contemporaneamente, lui ottenne un
decisivo voto di fiducia al Senato. Fu un momento simbolico
dell’onnicomprensività del suo impero mediatico e sportivo – e l’evidenza di
come i diversi settori che lo componevano confluissero tutti in un colossale
‘conflitto di interessi’ personale che minava le basi stesse dello Stato
democratico.
Ma i nodi cominciavano a venire al pettine. Le inchieste di Mani pulite
continuavano, e ormai cominciavano ad avvicinarsi all’impero berlusconiano.
La reazione fu immediata: erano indagini politiche – dicevano – destinate a
sabotare un governo democraticamente eletto. Due dirigenti Fininvest
finirono in prigione. Pareva mettersi male, per il nuovo governo Berlusconi;
tirava aria di arresti e incriminazioni. E i suoi successi riaccendevano
l’interesse per la strana associazione massonica semisegreta nota con il nome di
P2. Lo scandalo P2 risaliva agli anni ’80, quando furono pubblicate le liste dei
suoi potenti iscritti. C’era Berlusconi – il n. 1816, per essere precisi; e c’era
Duilio Poggiolini, il re Mida del servizio sanitario arrestato in Svizzera
nell’ambito di Tangentopoli. Secondo alcuni, i piani segreti della P2 per la
‘rinascita democratica’ dell’Italia vennero realizzati proprio da Berlusconi.
Berlusconi voleva come ministro della Giustizia uno dei suoi avvocati –
Cesare Previti, il mediatore che gli aveva procurato la sua villa principesca –
ma il presidente della Repubblica si oppose. Previti andò alla Difesa.
Vent’anni dopo lo scandalo, nel 2006, sarebbe stato condannato per aver
corrotto un magistrato; seguì una seconda condanna, nel 2007, per motivi
analoghi. Fu la fine della carriera politica dell’avvocato, che comunque passò
pochi giorni in galera, nonostante una sentenza a sei anni.
Il governo Berlusconi si trovò presto impegnato in uno scontro titanico con
una parte della magistratura. Il 13 luglio 1994, alla vigilia della partecipazione
dell’Italia alla semifinale di Coppa del mondo negli Stati Uniti – quale
momento migliore per seppellire una cattiva notizia? – il governo emise un
decreto. I decreti governativi non richiedono l’approvazione del Parlamento,
ma decadono se non convertiti in legge entro sessanta giorni. Il testo era un
attacco frontale ai metodi utilizzati dai magistrati di Mani pulite. Il cosiddetto
‘decreto Biondi’, firmato dal presidente della Repubblica il 14 luglio,
condizionava direttamente l’operato dei giudici, limitando il ricorso alla
custodia cautelare per una serie di reati, con riguardo particolare alla pubblica
amministrazione e alla corruzione.
I magistrati avevano già effettuato centinaia di arresti, e in cella molti
avevano confessato e fatto nomi, portando a nuovi arresti e nuove confessioni.
Si stava rivelando una strategia giudiziaria molto efficace. Ma il governo
Berlusconi voleva mettere fine agli arresti, proprio nel momento in cui pareva
che i magistrati si stessero avvicinando al suo impero imprenditoriale. Il
decreto scatenò una bufera, nonostante la vittoria che portò l’Italia in finale –
col Brasile (una partita orrenda, finita 0-0, e poi perduta ai rigori; viene
ricordata soprattutto per il rigore sbagliato da Roberto Baggio). Alfredo
Biondi era il guardasigilli che diede il nome al decreto. Un ex liberale, alleato
con Berlusconi dal 1993.
Con uno spettacolare atto di protesta, l’intero ‘pool’ milanese di Mani pulite
si presentò dal vivo in televisione. Stavano tutti in piedi, in gruppo. Di Pietro
aveva l’aria irsuta e trasandata. Fu lui a leggere il comunicato comune: i
magistrati criticavano il decreto e chiedevano il trasferimento. Era una sfida
aperta al governo. Nel frattempo, si cominciavano a scarcerare i detenuti
beneficiati dal provvedimento. Il primo era uno dei più famosi – o famigerati
– detenuti di Tangentopoli, l’ex ministro della Sanità Francesco De Lorenzo,
il cui arresto era andato in prima pagina su tutti i giornali nazionali. Una folla
inferocita lo attendeva all’uscita dal carcere. Furono immediatamente rilasciati
2764 detenuti. Secondo alcuni, il decreto era incostituzionale, in quanto
prevedeva un trattamento molto diverso per reati di fatto simili.
Nel frattempo i giornalisti gli avevano affibbiato l’etichetta spregiativa di
‘decreto salvaladri’. In retrospettiva, il ‘salvaladri’ non è che la prima della serie
di leggi ad personam che Berlusconi approvò o tentò di far approvare finché fu
al governo – una strategia che sarebbe continuata, con qualche interruzione,
fino al XXI secolo inoltrato. L’uomo salito al potere occupando il vuoto
lasciato da Tangentopoli, ora che le indagini si avvicinavano ai suoi affari le
voleva chiudere.
Entrambi i suoi principali alleati politici, Alleanza nazionale e Lega Nord, si
accorsero presto dell’estrema impopolarità del decreto (che avevano peraltro
inizialmente approvato), e dichiararono che sarebbero usciti dalla coalizione
per protesta – facendo così cadere il governo. Roberto Maroni della Lega,
ministro dell’Interno, minacciò di dimettersi in caso di conferma del
provvedimento. Davanti al Palazzo di giustizia di Milano una folla cantava
“Maroni, Maroni, arresta Berlusconi”. Maroni disse di non aver nemmeno
letto il testo: si era “fidato” di Biondi.
Altri, intanto, davano la colpa all’avvocato di Berlusconi, Cesare Previti.
Berlusconi fece quasi subito marcia indietro: non aveva scelta. Cominciò a
dire che il decreto poteva essere modificato. A quel punto si pronunciò il
Parlamento, bocciando la conversione in legge con 418 voti contrari e solo 33
a favore. Il decreto fu revocato il 19 luglio. Fu una vittoria importante per i
magistrati di Mani pulite. Ne uscivano rafforzati; a questo punto nulla poteva
fermarli. Alla fine del mese Paolo Berlusconi, fratello e socio in affari di Silvio,
fu arrestato per corruzione di funzionari di banca. Era già stato fermato l’11
febbraio 1994, e aveva negato ogni addebito – ma poi aveva ammesso di aver
pagato tangenti38. La rete intorno al presidente del Consiglio si stava
stringendo. Se Silvio Berlusconi era sceso in politica per salvare le sue aziende
dalle indagini giudiziarie, il piano non stava funzionando.
Il Partito socialista italiano si sciolse nel novembre 1994, a più di 112 anni
dalla sua fondazione a Genova (dalle macerie sorsero due ‘nuove’
organizzazioni)39. Una fine ingloriosa per quella che era stata, per buona parte
del XX secolo, la storia dignitosa di un’organizzazione riformista e – ogni
tanto – rivoluzionaria. I socialisti erano stati determinanti nella lotta contro il
fascismo, ma la condivisione del potere con la Democrazia cristiana fu loro
fatale. In quanto partito relativamente piccolo con accesso alle risorse dello
Stato, il PSI risultava particolarmente esposto alla corruzione e alle tentazioni
clientelari. Molti ex socialisti finirono per aderire alla coalizione di
Berlusconi, o entrarono direttamente in Forza Italia.

Napoli: “Il presidente del Consiglio


è indagato”
Il 22 novembre 1994 Berlusconi doveva presiedere un incontro
internazionale a Napoli per discutere di “lotta alla criminalità organizzata”.
Non si poteva scegliere momento peggiore – o migliore, dipende dal punto di
vista. Qualcuno fece trapelare la storia al “Corriere della Sera”, che uscì col
titolo di testa “Milano: Silvio Berlusconi è indagato”. L’articolo proseguiva: “I
giudici portano il colpo finale... Il presidente del Consiglio è stato iscritto...
nel registro delle persone sotto indagine, per corruzione. In concorso con suo
fratello Paolo e con Salvatore Sciascia, il responsabile dei servizi fiscali della
Fininvest, entrambi arrestati la scorsa estate. In concorso, inoltre, con un
gruppo di ufficiali e sottufficiali della Guardia di finanza”40. Due giornalisti
erano riusciti a mettere le mani su una fotocopia della notifica ufficiale.
L’articolo fu pubblicato in modo da creare il massimo danno politico a
Berlusconi – e per di più su scala globale. Fu un colpaccio: nessun altro
giornale pubblicò la notizia.
Berlusconi si affrettò a dichiarare che le sue aziende erano state vittime di
estorsione da parte dei funzionari della Finanza. E comunque, aggiungeva, si
parlava di quattro soldi, somme che nel suo impero giravano “in trenta
secondi” – e schioccava le dita. Per difendersi si rivolse direttamente al suo
pubblico preferito, quello che guardava la TV in casa. In piedi di fronte alla
bandiera, e a un dipinto antico, dichiarò: “Non ho mai corrotto nessuno”. Si
diceva convinto che tutto sarebbe finito in nulla. In una riunione politica si
spinse molto oltre, proclamando l’Italia “repubblica dei giudici”, e definendo
“carnefici” i magistrati. Pochi mesi prima Berlusconi aveva aperto colloqui
con il capo di quella ‘repubblica’, Antonio Di Pietro, per proporgli il
ministero della Giustizia. Era davvero cambiato tutto.

La guerra con la magistratura


Ormai era guerra aperta, a pochi mesi appena dalla trionfale vittoria di
Berlusconi alle elezioni del 1994 (vittoria peraltro preparata proprio da
Tangentopoli). Il procedimento legale relativo alla frode fiscale del novembre
1994 fu chiuso soltanto nel 2000, quando la Cassazione prosciolse tutti. In
prima istanza Berlusconi era stato condannato; in appello fu assolto da una
imputazione, mentre le altre tre caddero in prescrizione. Lo schema si sarebbe
ripetuto in diverse occasioni negli anni a venire. Il dibattito politico sui casi
giudiziari si riferiva spesso alla fase pre-processuale, e pochi si curavano di
seguire in dettaglio gli interminabili procedimenti dei tribunali. C’era poi una
breve ripresa di interesse con l’arrivo delle sentenze. Soltanto un giurista
poteva seguire davvero l’intera vicenda legale. ‘Colpevole’ e ‘innocente’
diventavano categorie autonome rispetto alla realtà delle cause e delle
decisioni giudiziarie. Dato il sistema a tre livelli della giustizia italiana, con la
possibilità automatica dell’appello, la sentenza definitiva arriva solo dopo
l’esame della Cassazione. I procedimenti duravano anni, e le loro
ramificazioni politiche erano spesso indipendenti dagli atti giudiziari effettivi.
Fin dall’inizio della presa di potere, gli affari dell’impero mediatico di
Berlusconi e quelli del governo si confusero in un intreccio fatale. Se i
magistrati si avvicinavano all’imprenditore, non potevano non toccare anche
l’uomo politico. Un insormontabile ‘conflitto di interessi’ nel cuore del
sistema politico italiano, a dispetto dei ‘blind trust’ e delle cessioni promessi da
Berlusconi. Molte delle aziende furono intestate (simbolicamente) ai suoi
parenti più prossimi. I due ‘lati’ della sua vita pubblica non furono mai
chiaramente distinti. Di fatto, fece del successo imprenditoriale un elemento
chiave del suo richiamo politico.
Nel dicembre 1994 Berlusconi fu sottoposto a sette ore di interrogatorio a
Milano. Andò poi in televisione per ‘spiegare’ quanto era successo, questa
volta seduto a una scrivania di fronte a un Canaletto. La sua idea della
democrazia era plebiscitaria, non parlamentare. Voleva parlare direttamente ‘al
popolo’, preferibilmente attraverso lo schermo TV. Per lui il Parlamento era
soprattutto una “perdita di tempo”, come ebbe a dire, anche se lo utilizzò per
far passare numerose leggi ad personam. Gli mancava il senso dello Stato, del
bene pubblico o collettivo.
Nel frattempo gli opinionisti si scatenavano sui canali televisivi
berlusconiani, criticando i magistrati spesso anche con toni violenti. Il
contrattacco venne anche dall’interno delle istituzioni, con l’invio a Milano di
ispettori del ministero della Giustizia per indagare sui metodi impiegati da
Mani pulite. Ci furono attacchi personali, specie contro Di Pietro.
Circolavano ‘dossier’ a bizzeffe. Di Pietro stesso fu indagato a Brescia per una
serie di reati relativamente minori, e così ebbe inizio anche la sua personale, e
interminabile, odissea giudiziaria.

La caduta del primo governo Berlusconi: dicembre 1994


Le conseguenze politiche dell’apertura delle indagini su Berlusconi nel 1994
furono enormi. La Lega Nord (che si era inizialmente posta tra i maggiori
sostenitori di Mani pulite) uscì dalla coalizione. Berlusconi e i suoi alleati lo
definirono un ‘tradimento’, un ‘furto’, un ‘ribaltone’ dell’esito delle urne.
Qualcuno arrivò a parlare di colpo di Stato. In Parlamento Bossi prendeva in
giro il presidente del Consiglio: “Mi consenta di ricordarle che lo Stato non è
lei” (“mi consenta” è uno degli intercalari preferiti di Berlusconi). Il 22
dicembre 1994 fu costretto alle dimissioni. La maggioranza non esisteva più.
Quel giorno imparò la lezione: aveva bisogno della Lega quanto la Lega aveva
bisogno di lui, sia per vincere che per governare. La solida alleanza che poi si
costituì avrebbe prodotto una serie di vittorie elettorali dopo il 2001.
Il rapido declino di Berlusconi non fu però dovuto soltanto alle indagini di
Mani pulite. Nel paese l’opposizione era forte, e così il disgusto di molti per la
presenza di ex o postfascisti al centro del governo. In tutta Italia si eleggevano
sindaci e assessori di Alleanza nazionale, ma ci fu un’impennata dei valori
antifascisti. Il giorno della Liberazione, il 25 aprile 1994, una massiccia
manifestazione percorse il centro di Milano sotto la pioggia battente: una
foresta di ombrelli fu efficace conferma della sopravvivenza dell’antifascismo.
Quando Umberto Bossi tentò di partecipare, fu respinto a forza di fischi e
insulti. Anche i tentativi di riforma del diritto del lavoro provocarono grandi
manifestazioni: secondo le stime, nel novembre 1994 scesero in piazza a
Roma un milione e mezzo di persone.

L’interregno: 1995-96
Il primo governo Berlusconi durò soltanto nove mesi. Sarebbe rimasto
all’opposizione fino al 2001. Nel 1995 si formò una nuova maggioranza
(appoggiata dalla Lega) senza passare per le elezioni, guidata da Lamberto
Dini, ministro del Tesoro di Berlusconi. Un governo centrista, in parte
‘tecnico’, composto di esperti oltre che di politici; e anche un governo ‘post-
democratico’, con elementi esterni ai maggiori partiti politici. Forza Italia e
Alleanza nazionale andarono all’opposizione, protestando per l’usurpazione
subita dai vincitori delle elezioni. Furono convocate nuove elezioni anticipate
nel 1996 – le terze politiche in quattro anni. Il primo governo Berlusconi era
stato un disastro su tutti i fronti. Ma lui si leccò le ferite, mobilitò le sue
televisioni, e non tardò a ritornare in pista.
Antonio Di Pietro si dimise dalla magistratura nel dicembre 1994,
affermando di volersi occupare delle proprie battaglie giudiziarie personali, in
corso a Brescia. Berlusconi espresse “rammarico” per questa decisione: Di
Pietro era ancora popolarissimo, e vi furono manifestazioni in suo favore. Alla
fine fu prosciolto da tutte le accuse. Più avanti sarebbe “sceso in campo” in
politica come Berlusconi, ma con effetti meno dirompenti sul sistema. La sua
rinuncia alle indagini di Mani pulite segnò l’inizio della fine di Tangentopoli.
Ma non mancavano i magistrati ancora impegnati in indagini su reati che
andavano a toccare i massimi livelli dello Stato italiano.

Il processo del secolo:


Belzebù alla sbarra
A comparire di fronte ai giudici, negli anni ’80 e ’90, non furono soltanto i
mafiosi propriamente detti. Finirono sotto processo anche i loro
favoreggiatori e alleati. In qualche caso si arrivò fino ai vertici della piramide
politica. Sull’onda di Tangentopoli, a metà degli anni ’90 (1995-99) si tenne a
Palermo il cosiddetto ‘processo del secolo’. L’imputato era Giulio Andreotti,
sette volte presidente del Consiglio, un uomo che per l’intero dopoguerra (e
soprattutto a partire dagli anni ’70) era stato l’incarnazione del potere
democristiano. Diversamente da Craxi, Andreotti aveva votato in Parlamento
in favore della propria autorizzazione a procedere. Per tutto il corso del
processo (circa un centinaio di udienze) recitò la parte dello statista,
partecipando spesso ai procedimenti: in totale, circa dodici ore di interventi
diretti. Alla fine, strinse la mano ai magistrati. Furono ascoltati sessanta
pentiti, e circa cinquecento testimoni.
Andreotti era imputato di aver stretto “un patto criminoso” con la mafia
siciliana, prolungato nel tempo (a partire almeno dal 1968, secondo l’accusa),
finalizzato a estendere e consolidare il suo potere politico41. Salvo Lima,
definito “uno dei politici più fortemente appoggiati da Cosa Nostra”, sarebbe
stato l’anello di collegamento. Secondo i magistrati Andreotti aveva avuto
incontri con i boss: con Totò Riina in persona, il 20 settembre 1987, quando
i due si sarebbero anche baciati. Il ‘bacio’ fece grande effetto sull’opinione
pubblica. E se Andreotti era andato vicino alla mafia – abbastanza vicino da
baciarne i capi – lo stesso aveva fatto lo Stato italiano. Le accuse erano
straordinariamente dettagliate, ma – inevitabilmente – fondate sulle
deposizioni dei pentiti. La mafia non tiene archivi.
Il 23 ottobre 1999, dopo un processo solenne e spettacolare, Andreotti fu
prosciolto. Le testimonianze dei pentiti non ottennero credito. In appello le
cose si complicarono: fu assolto per qualsiasi reato commesso dopo il 1980,
ma prima di allora i giudici ritennero fosse stato coinvolto in una “concreta
collaborazione” con importanti mafiosi. Ma quei precedenti erano caduti in
prescrizione; non poteva essere punito per reati commessi prima del 1980. Fu
una decisione ambigua, e molto comoda. Andreotti non era colpevole, né
innocente – anche se, allora come oggi, per molti fu ‘assolto’. Un politico di
primissimo piano, forse l’uomo più potente d’Italia per buona parte del
dopoguerra, era stato collegato da vicino a un’organizzazione criminale
omicida42. Ma uscì libero dal tribunale, e continuò ad apparire in televisione e
fare interventi in Parlamento fin quasi alla sua morte, nel 2013, a
novantaquattro anni. L’enigma di Andreotti, magnificamente ritratto da Toni
Servillo nel capolavoro di Paolo Sorrentino Il Divo, non fu mai sciolto.
Esisteva un ‘doppio Stato’? In pubblico la democrazia, in privato una
macchina che ordinava omicidi e distribuiva favori in cambio di voti?
Andreotti riassumeva in sé tutta la tenebra del cuore del sistema democratico
italiano.

La ‘Padania’ e la Lega Nord


Negli anni ’90 molti militanti della Lega Nord erano convinti di essere
impegnati nientemeno che nella costruzione di una nuova nazione, che
chiamavano ‘Padania’. Per qualche tempo il partito-movimento istituì un
Parlamento alternativo nel Nord (a Mantova), dotandosi di un corpo di
sicurezza semiufficiale (in camicia verde), un inno, una bandiera e una storia
(oltre a una squadra di calcio, una corsa ciclistica e un concorso di bellezza).
Gli elettori della Lega venivano per lo più dalla classe operaia, e dalla provincia
più che dalle grandi città. Al congresso tenuto a Milano nel 1993 fu approvato
un programma in dieci punti. Tra questi, la negazione della nazione italiana in
quanto tale: “L’Unione italiana è la libera associazione della Repubblica
federale del Nord, della Repubblica federale dell’Etruria e della Repubblica
federale del Sud”. Assurdità, per lo più, ma la Padania come entità economica
era già stata identificata dagli esperti prima dell’ascesa al potere della Lega. Il
Nord, con le sue aziende familiari piccole e medie, la sua specializzazione
flessibile, la sua tradizione industriale, presentava un modello post-fordista
studiato con attenzione da economisti e sociologi. La nuova nazione della
Padania suscitava forti emozioni: una realtà economica, sociale e culturale
solida, legata all’idea di ‘lavorare sodo’, e al desiderio di sbarazzarsi della
‘politica’ e dello ‘Stato’.
Tra gli eventi ritualistici della Lega, l’annuale (dal 1990) riunione a Pontida
nel Bergamasco, una delle culle del movimento. Qui i comuni lombardi
erano convenuti nel 1167 per combattere il Barbarossa e il Sacro Romano
Impero; anche la Padania, proclamava la Lega, aveva la sua storia. L’apoteosi
padana venne nel settembre 1996, quando fu organizzata un’iniziativa semi-
mistica a partire dalle sorgenti del Po – il “Dio Po”, a sentire Umberto Bossi.
Raccolse un po’ d’acqua in un’ampolla di vetro, per poi riversarla nella laguna
di Venezia, dove una grande manifestazione proclamò l’‘indipendenza’. “Noi,
popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una
Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a
scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore...
Affermiamo il nostro diritto e la nostra volontà di assumere i pieni poteri di
uno Stato, prelevare tutte le imposte, votare tutte le leggi, firmare tutti i
trattati”. Ammainarono una bandiera italiana e ne issarono una padana. Parte
del viaggio fino a Venezia era stato fatto in barca. Nello stesso periodo i
sindaci della Lega rifiutarono di giurare fedeltà allo Stato italiano.
Per qualcuno era solo folklore, un gioco politico per indurre lo Stato a
concedere maggiori poteri al Nord. Altri lo consideravano un affare molto più
serio, un tentativo di sovvertire lo Stato, la nazione e la Costituzione, che
vuole l’Italia “una e indivisibile”. Se tutto questo fu soltanto un’elaborata
sceneggiata, o una farsa, comunque tra i seguaci di Bossi ci fu chi lo fraintese.
Il 9 maggio 1997, sette mesi dopo la ‘dichiarazione di indipendenza’, un
gruppo di uomini portò un camion da Padova a Venezia, dove lo caricò su un
ferry-boat. Poi costrinsero l’equipaggio (in punta di fucile) a scaricarli in
piazza San Marco. Sul camion c’era una specie di carro armato fatto in casa
(ma pareva vero: lo avrebbero battezzato ‘tanko’), con il gonfalone della
Serenissima. Erano ben riforniti. Due di loro rimasero in piazza nel ‘tanko’,
mentre gli altri si impossessavano del campanile, abbattendo le porte per salire
le scale. Era l’una del mattino43.
Arrivati in cima, issarono il gonfalone e diramarono un comunicato:
“Attenzione. Il Veneto serenissimo governo ha occupato il campanile di San
Marco. Viva San Marco, viva la Serenissima”44. Erano passati pochi giorni dal
duecentesimo anniversario della fine della Repubblica nel 1797. Si aprirono
trattative. Dal campanile spuntò un’antenna televisiva. Ma la rivoluzione durò
meno di un giorno. Alle 8,40 del mattino il campanile fu sgomberato con i
lacrimogeni da un gruppo speciale di carabinieri, e i ‘serenissimi’ furono tutti
arrestati – uno di loro finì all’ospedale. Circolarono immagini drammatiche
dei carabinieri che scalavano il campanile e bloccavano il ‘tanko’.
La Lega Nord negò qualsiasi collegamento con l’operazione. Ma poi si mosse
in favore degli imputati (un muratore, due elettricisti, un operaio, un
insegnante, un ‘esperto’ di Ufo che era riuscito a inserirsi nelle trasmissioni
della TV di Stato, e un sarto) durante il lungo procedimento giudiziario che
seguì, e si concluse finalmente soltanto nel 2011. Il finto carro armato –
riscattato col denaro raccolto in un’asta tra i sostenitori – fu poi
orgogliosamente esposto in pubblico45.

Tangentopoli:
una rivoluzione giudiziaria?
Noi eravamo stati come i predatori
che migliorano la specie predata: avevamo preso le zebre lente, ma le altre
zebre erano diventate più veloci.
Piercamillo Davigo46
Ai suoi tempi, Tangentopoli apparve davvero come una rivoluzione. Ogni
giorno veniva arrestato un pezzo grosso della politica; molti rinunciavano
definitivamente alla carriera. Erano tempi eccitanti. I potenti sotto processo,
umiliati, mandati in galera con gli effetti personali nel sacchetto di plastica.
Tutti i maggiori partiti politici erano implosi. Nel 1987 le elezioni avevano
visto il consueto scontro tra democristiani, comunisti e socialisti. Nel 1992 il
Partito comunista era uscito di scena, e nel 1994 la stessa Democrazia cristiana
si era divisa in una serie di gruppi, e aveva cambiato nome. Nel 1996 nessuno
dei tre compariva sulla scheda elettorale. I magistrati milanesi parevano dotati
del potere di spazzar via un’intera classe politica. La disintegrazione, o la
trasformazione, dei grandi partiti di massa fu tanto rapida che la gente faticava
a farsene una ragione. Si chiudevano le sedi dei partiti, i giornali e le
associazioni culturali. Per i partiti minori, che spesso avevano esercitato un
potere ben superiore al consenso effettivo di cui godevano, il processo fu
velocissimo. Le schede elettorali si espandevano a comprendere una
sconcertante varietà di nuovi partiti e formazioni.
Con l’andare del tempo, però, Tangentopoli cominciò a somigliare più a un
fuoco di paglia che a una rivoluzione. Nel giugno 1993, la schiacciante
sconfitta del candidato anticorruzione Nando Dalla Chiesa – figlio del
generale dei carabinieri assassinato dalla mafia in Sicilia – al ballottaggio con
un candidato della Lega per l’elezione a sindaco di Milano, segnò la fine della
fase ‘rivoluzionaria’ di Tangentopoli. Molti applaudivano gli arresti dei
politici, ma erano meno interessati alla riforma fiscale, o ai tentativi di
demolire i sistemi corruttivi che penetravano a fondo nella vita personale e
lavorativa di ogni giorno. Tangentopoli – lo dimostrò con una successione di
scandali – trattava i sintomi di una struttura marcia, ma non le cause, né
tantomeno le pecche insite nel sistema. E fu una ‘rivoluzione’ incompleta
anche nei suoi obiettivi dichiarati: molti vecchi oligarchi democristiani
sopravvissero (e spesso erano quanto di peggio avesse prodotto quel partito),
riciclandosi in Forza Italia o in Alleanza nazionale.
I poteri conferiti alla magistratura inquirente italiana dalla Costituzione del
1948 e dalle riforme giudiziarie del 1989 vennero impiegati per scopi
(perlopiù) positivi negli anni 1992-94. Ma molti innocenti caddero nelle
maglie di una caccia alle streghe scatenata dai vampiri dei media. In Italia i
diritti giudiziari prima del processo sono limitati – le indiscrezioni in merito
alle intercettazioni telefoniche sono la norma, e vengono pubblicate da
giornali e periodici; nei programmi televisivi si discute nei dettagli della
colpevolezza o meno dei sospetti, e chiunque si permette di intervenire nel
merito delle inchieste giudiziarie. I giudici milanesi di Tangentopoli fecero un
uso ‘generoso’ della custodia preventiva, di regola per estorcere confessioni
che portavano a nuove incriminazioni. In Italia i giudici inquirenti vengono
nominati per concorso pubblico, il che ha consentito alla società civile di
produrre una magistratura non irrigidita dalle strutture di classe. I giudici
inquirenti non possono essere sospesi o trasferiti se non in circostanze molto
rare e particolari. Le promozioni sono più o meno automatiche, e i giudici
rispondono esclusivamente al Consiglio superiore della magistratura, un
organismo semiautonomo. Tanta autonomia porta talvolta all’errore
giudiziario, o peggio. L’idea che alla fine i giudici sarebbero riusciti a far
cadere Silvio Berlusconi impedì alla sinistra di affrontare seriamente i
mastodontici conflitti di interesse che accompagnavano il suo essere al tempo
stesso leader politico e magnate dei media.

Il contrattacco:
Tangentopoli come congiura
I politici non si rassegnarono alle indagini, e passarono al contrattacco. I
magistrati furono accusati di complotto politico. Nacque la leggenda delle
‘toghe rosse’, i giudici ispirati dai comunisti, accompagnata dall’accusa che le
indagini fossero a senso unico. Bettino Craxi tirò fuori un ‘dossier’ dal quale
risultava che per decenni il Partito comunista aveva illecitamente ricevuto
fondi dall’Unione Sovietica. Ai magistrati si rimproveravano anche il ricorso
troppo frequente alla custodia cautelare, e la ‘caccia alle streghe’ sui media che
accompagnava i procedimenti e produceva confessioni. I giudici avevano le
manette troppo facili, si diceva.
La copertura sui media era sempre sopra le righe. Con Tangentopoli, pareva
che fosse l’innocenza a dover essere dimostrata: la colpa si dava per scontata.
Non si dimentichi che arrestati o indagati non furono soltanto i democristiani
e i socialisti, ma anche parecchi comunisti o ex comunisti. Il Partito
comunista (o i suoi eredi dai nuovi nomi) era ancora diverso, come sosteneva
Enrico Berlinguer? Non certo a Milano, dove diversi funzionari del partito
vennero arrestati con Tangentopoli. I moniti di Berlinguer sulla “questione
morale” non erano stati ascoltati, nemmeno nel suo stesso partito. A titolo di
esempio, nel 1996 i giudici milanesi scrivevano quanto segue in una sentenza
relativa a tangenti per la costruzione di una nuova linea del metrò: “A livello
di federazione milanese, l’intero partito... venne direttamente coinvolto nel
sistema degli appalti MM [Metropolitana Milanese], quantomeno da circa il
1987... Risulta dunque pacifico che il PCI-PDS dal 1987 sino al febbraio
1992 ricevette, quale percentuale del 18,75% sul totale delle tangenti MM,
una somma non inferiore ai 3 miliardi [di lire]”47.
I magistrati, peraltro, cominciavano a entrare loro stessi in politica, in
entrambi gli schieramenti, cavalcando l’onda della popolarità conquistata.
Tiziana Parenti, che aveva indagato su presunti casi di corruzione nelle
cooperative di sinistra (e dunque non era certo una ‘toga rossa’), si candidò per
Forza Italia, presentandosi al fianco di Berlusconi ai primi comizi del partito.
Era stata comunista, da giovane, e aveva fatto parte del ‘pool’ di Mani pulite.
Fu eletta in Parlamento nel 1994, ma nel 1998 passò al centro, e poi al
(minuscolo) Partito socialista – un vicolo cieco, in tutti i sensi. La sua fama
politica non durò a lungo48.
Nel pieno degli scandali un nuovo genere di talk-show politico, trasmesso
ogni sera dal vivo, si conquistò un pubblico sempre più vasto. I programmi
più seguiti in questo periodo erano Milano Italia di Gad Lerner e Samarcanda di
Michele Santoro, nei quali si fondevano diversi generi televisivi. C’erano
brani di inchiesta e giornalismo impegnato, ma anche riprese dal vivo dalla
‘piazza’: di regola gente ‘comune’ arrabbiata. In studio un assortimento di
politici e giornalisti (spesso impegnati a urlarsi addosso, o a interloquire con la
‘piazza’) con un commento condotto dal presentatore. Andavano avanti per
ore, e trasformarono i presentatori in stelle dello spettacolo. All’inizio
sembrava un modello nuovo ed eccitante, ma sarebbe stato ripetuto troppo
spesso, fino alla nausea, negli anni a venire.
Mani pulite non si limitò a indagare o arrestare i politici. Furono interrogati
funzionari del fisco che rivelarono un traffico di favori e mazzette legato
all’esazione delle imposte. Quando si arrivò ai processi, molti beneficiari delle
bustarelle faticavano a comprendere dove avessero sbagliato: il sistema della
corruzione era tanto ‘normale’, tanto ben oliato, che non capivano il motivo
di tanta confusione. Ne nacquero scenette quasi comiche in tribunale, con
funzionari pieni di sé che si difendevano contro tutto e tutti. Appariva
evidente il senso di impunità che regnava da decenni (o forse da sempre) in
talune istituzioni. Ma con l’andare del tempo, su Tangentopoli gli italiani
cominciarono a dividersi. Per molti Craxi era un furfante – un oggetto di odio
– ma per altri divenne un capro espiatorio e un martire – un eroe tragico. Altri
scandali si susseguirono a scadenze regolari. Era stata rimossa una classe
politica (anche se pareva ne rimanessero ancora in giro parecchi esemplari),
ma la corruzione era endemica. Anzi, per certi versi sembrava anche peggio.
Con Tangentopoli le cose sembravano chiare: tutti i politici erano ladri; tutti i
giudici eroi. Ma il tempo passava, e queste distinzioni risultavano sempre
meno nette.
Ritorneremo su questo tema più avanti, con le elezioni del 1996, ma la fine
della Guerra fredda non trasformò soltanto la sfera della politica. Si riapriva
anche il problematico rapporto dell’Italia con il suo passato, creando la
possibilità di nuove prospettive della memoria e della storia. Non c’era più
nulla di certo, e si mettevano in discussione anche valori come l’antifascismo.
Il processo a un ex nazista a Roma avrebbe evidenziato in modo drammatico
la profondità delle divisioni nella memoria d’Italia.

I processi Priebke
e la memoria degli italiani
Tra la fine degli anni ’80 e i primi ’90 il giovane studioso Esteban Buch
cominciò a fare ricerche sulla presenza di numerosi ex nazisti in una ‘colonia’
tedesca sui monti argentini, San Carlos de Bariloche. Si imbatté in un tizio
alto e distinto di nome Erich Priebke. Andando più a fondo, scoprì che
Priebke era un ex ufficiale nazista che aveva passato parte della guerra in Italia,
e riuscì a collegarlo alla famigerata strage delle Fosse Ardeatine, a Roma nel
1944. Nel 1991 Buch pubblicò (in spagnolo) un libro su Bariloche, ma
nessuno raccolse la storia fino a quando, nel maggio 1994, arrivò sul posto una
troupe americana di ABC TV. Ripescarono il volume in una libreria di
seconda mano, e si misero alla caccia dei documenti in diversi archivi. Si dice
che trovarono il nome di Priebke sull’elenco del telefono: nascosto in piena
luce, evidentemente. Certe bizzarre teorie cospirazioniste vorrebbero perfino
che Hitler in persona si fosse insediato a Bariloche dopo la guerra.
Poi venne il momento più spettacolare, ripreso dalle telecamere. Il
giornalista Sam Donaldson si avvicinò a Priebke (elegantissimo in giacca e
cappello) per strada e gli chiese, in inglese, se avesse fatto parte della Gestapo a
Roma. A sorpresa, Priebke rispose di sì. Disse anche che i morti nella strage
nazista di Roma erano “quasi tutti terroristi”, e aggiunse di non aver “sparato
a nessuno”. A suo dire, aveva “eseguito gli ordini”. Poi se ne andò in auto – la
sua battuta finale al giornalista fu “Lei non è un gentiluomo” – ma era solo
l’inizio di una nuova fase della sua vita. L’intervista passò alla televisione
italiana il giorno dopo, e le autorità entrarono rapidamente in azione (dopo
anni di immobilità). Priebke fu messo agli arresti domiciliari in Argentina, e lo
Stato italiano prese in mano il caso. Seguirono diciassette mesi di battaglia
legale per l’estradizione. Il 21 novembre 1995 Priebke arrivò a Roma: la
Seconda guerra mondiale si accingeva a dare un’altra scossa alla memoria
collettiva degli italiani – al centro stesso della capitale. Gli eventi che
seguirono avrebbero riaperto vecchie ferite e ispirato nuove ricerche storiche.

Le Fosse Ardeatine
Il 23 marzo 1944 un contingente di 156 uomini del reggimento di polizia di
Bolzano (annesso all’esercito tedesco) marciava nel centro di Roma occupata.
Intorno alle 3,50 del pomeriggio, nella strettoia di via Rasella, esplose una
bomba che ne uccise trenta (altri tre sarebbero morti in seguito), oltre a due
civili italiani. La bomba era stata piazzata da un reparto partigiano regolare. I
soldati reagirono sparando indiscriminatamente sulle case e rastrellando i
residenti di via Rasella.
Il giorno dopo, come atto pianificato di rappresaglia, 335 persone vennero
portate dagli occupanti tedeschi nelle cave delle Fosse Ardeatine, fuori città,
dove furono ammazzate a colpi di arma da fuoco – durò quattro ore e mezza.
Solo tre di loro erano già stati condannati a morte (per attività partigiana), 154
erano sotto indagine della polizia militare tedesca, e 75 erano in arresto
soltanto perché ebrei. Altre vittime venivano da Regina Coeli, o furono scelte
tra i fermati intorno a via Rasella. Il giorno dopo ancora, 25 marzo, sui muri
di Roma e sui giornali comparve un avviso dell’esercito tedesco che accusava
“elementi criminali” di aver piazzato la bomba, aggiungendo che “il
Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci
criminali comunisti-badogliani saranno fucilati. Quest’ordine è già stato
eseguito”49.
La disputa sui fatti si scatenò nel momento stesso dell’esplosione di via
Rasella. In tutte le arene della pubblica opinione – la stampa, i tribunali, la
strada, i partiti politici, le riviste storiche – quei fatti sono stati scandagliati,
discussi, riformulati. Sono diatribe dominate da continue accuse di
complotto, menzogna e depistaggio. Non entreremo qui nei dettagli: altri
storici si sono impegnati nell’accurata ricostruzione di quanto avvenne a
Roma nel marzo 1944. Rimangono invece molto interessanti i dibattiti storici
e politici intorno a quegli eventi controversi, che non si limitano a Roma, o a
via Rasella e le Ardeatine, ma affrontano le grandi questioni della
partecipazione, della Resistenza, del consenso, della memoria, della
responsabilità. Oggi il luogo della strage è segnato da un monumento
nazionale, e ogni anno vi si tiene una celebrazione in cui vengono letti i nomi
delle 335 vittime.
Il dibattito storiografico su via Rasella, la strage e la bomba, va considerato
nel contesto generale delle discussioni che si aprirono nel momento stesso
della Liberazione. Dal 1945 due miti contrapposti dominavano il dibattito
sulla Resistenza, e fino agli anni ’80 inoltrati le connotazioni politiche ebbero
la meglio sulle esigenze della vera ricerca storica. In poche parole, la ‘necessità’
di sostenere il mito resistenziale nato dalla tradizione antifascista superava (a
sinistra) il desiderio di studiare più da vicino il consenso effettivamente
raccolto dalla Resistenza e il suo impatto reale. In questa versione dei fatti,
essa fu un movimento di massa che interessò tutto il paese dall’Abruzzo in su,
e chi si era opposto alla lotta armata (o non vi aveva preso parte) veniva per lo
più etichettato come fascista o collaborazionista. Il mito alternativo, cui diede
spessore storico Renzo De Felice negli anni ’70, vedeva una Resistenza
sostenuta soltanto da una minuscola minoranza ideologicamente impegnata.
La maggioranza non ebbe alcuna parte nel movimento, e questa ‘zona grigia’
(in parte costituita da chi aveva dato il suo ‘consenso’ a Mussolini) si tenne in
disparte, aspettando la fine della guerra. Se sovrapponiamo i due miti alla
vicenda di via Rasella, ci troviamo di fronte alle due classiche (e diversissime)
versioni della storia. Nella prima, fu un atto di guerra eroico, condotto per
forza di cose da un piccolo gruppo, ma con il sostegno (attivo e passivo) di
vasti settori della popolazione urbana.
Nel mito opposto, via Rasella fu un attacco terroristico inutile e
avventuristico, che non servì a nulla e portò alla morte di 335 persone. La
maggioranza dei romani, secondo chi sostiene questa versione, era contraria a
questo tipo di azione; erano convinti che Roma fosse davvero ‘città aperta’, e
che i tedeschi se ne sarebbero andati presto. Molti sostengono ancora che i
partigiani avrebbero potuto consegnarsi per scongiurare la strage.
Nessuna delle due versioni coglie tutta la traumatica complessità della
Resistenza, e delle circostanze specifiche di via Rasella. Molti romani erano
terrorizzati (e infuriati) per gli attacchi contro le truppe tedesche, ma molti
altri sostenevano la Resistenza (in mille modi) e aiutavano le organizzazioni di
opposizione. Come per tutte le stragi tedesche durante la guerra, colpe e
responsabilità vengono ovviamente attribuite agli occupanti. Ma la storia di
via Rasella mostra anche che secondo molti (compresi i fascisti, ma anche
vasti settori della popolazione) i partigiani ‘cercavano guai’, provocando le
rappresaglie. L’attenzione ai dettagli specifici di via Rasella non dovrebbe
impedire la collocazione di questi dibattiti nell’ambito degli studi sulla
memoria divisa che cominciarono ad uscire in Italia negli anni ’9050.
La controversia su via Rasella sarebbe certo sfumata nelle nebbie della
memoria che avvolgono altri spargimenti di sangue analoghi, se non fosse per
gli eventi sorprendenti che accompagnarono la scoperta, l’arresto e i processi
di Priebke, cinquant’anni dopo. Priebke aveva avuto un ruolo di rilievo nella
strage. Ebbe l’incarico di redigere la lista delle vittime, e prese parte
personalmente al massacro, come altri ufficiali e soldati. Nel contesto degli
anni ’90, le azioni di Priebke nel 1944 e (soprattutto) il suo processo assunsero
una posizione centrale nei dibattiti sulla memoria e sulla storia. La persona di
Priebke divenne il bersaglio della sete di giustizia di tanti parenti delle vittime
e della comunità ebraica dopo la ‘fuga’ in Germania Ovest di Herbert
Kappler, l’ufficiale superiore che aveva organizzato la strage, da un letto di
ospedale italiano. Kappler aveva passato in un carcere militare italiano buona
parte del dopoguerra51. È probabile che la mancanza di qualsiasi segno di reale
pentimento da parte di Priebke inducesse ad esagerare l’importanza della sua
partecipazione ai fatti.

Un nazista alla sbarra: Roma 1996


Le Fosse Ardeatine restano una ferita aperta nella memoria e nei sentimenti
della città. Basta guardarsi intorno, grattare la superficie della memoria, e i
racconti ne sgorgano.
Alessandro Portelli52

Il ‘processo Priebke’ ha riportato alla memoria tante cose... tutto così vivo...
Adriana Montezemolo53
Il primo processo a Priebke si tenne di fronte al tribunale militare di Roma
nel 1996, e fin dall’inizio i giudici incaricati si rivelarono inadeguati a
presiedere un rito di tale importanza. Rimasero sorpresi dall’affluenza di
pubblico alle udienze e dalla risonanza del caso sulla stampa italiana (e
all’estero). Il procedimento si impuntava su questioni tecniche giuridico-
militari che confondevano, e esasperavano, chi voleva ‘giustizia’. Fu
lungamente discussa, per esempio, la responsabilità di Priebke per la morte
delle cinque vittime ‘in più’ delle Fosse Ardeatine. Si voleva legittimare l’idea
stessa delle stragi per vendetta in tempo di guerra, riducendo il caso a una
questione tecnica sugli ‘errori’ personali (non morali) commessi da Priebke in
quanto gestore della lista. Ci furono momenti surreali. Priebke ammise di
essere stato due volte in vacanza in Italia, dopo la guerra. Era stato a Roma
anche nel 1980, e chiaramente non si era sentito in pericolo per i suoi
trascorsi. Era come una brutta parodia del film Il maratoneta (“È sicuro?”).
Raccontavano che fosse perfino passato per via Rasella – e qualcuno disse di
averlo riconosciuto. Non era sicuro; ma a Priebke era sembrato di esserlo.
I processi a Priebke, di per sé, non aggiunsero che pochi dettagli alla storia
delle Fosse Ardeatine. Ma entrarono essi stessi a far parte della vicenda,
soprattutto per il dibattito suscitato sulla stampa. Le testimonianze di
testimoni e parenti furono forti e commoventi. Riaffioravano la rabbia e il
dolore a lungo soppressi. I giornali di destra, e l’autorevole Indro Montanelli,
lanciarono campagne contro l’azione dei partigiani oppure, nel caso di
Montanelli, a diretto sostegno di Priebke in quanto ‘vecchio soldato’. I
neofascisti imbrattavano i muri con appelli per il rilascio di Priebke, e l’arresto
al suo posto dell’uomo che aveva innescato la bomba, Rosario Bentivegna,
che ancora viveva a Roma.
La partecipazione dei parenti e della comunità ebraica alle udienze fu
costante, rivelando la profondità dell’impatto della strage sulla gente di certe
zone di Roma. Il momento più dirompente venne col primo verdetto della
corte nel luglio 1996. Sentendosi dire che Priebke era colpevole, ma non
perseguibile data la sua “condotta irreprensibile... dalla fine della guerra”, e in
quanto aveva “eseguito degli ordini”, una folla numerosa bloccò l’uscita del
tribunale per parecchie ore. Molti dei dimostranti appartenevano alla
comunità ebraica romana. La prima sentenza Priebke fu traumatica,
soprattutto per le famiglie delle vittime. Ma non protestavano soltanto quelli
della vecchia generazione: c’erano anche giovani, nati anni dopo la guerra,
pure loro arrabbiati (e bene informati).
Il ministro della Giustizia fu costretto a riarrestare Priebke – per un cavillo –
e un nuovo processo annullò la sentenza precedente. Il procedimento si
trascinò fino al 1998, quando Priebke fu condannato all’ergastolo – ai
domiciliari, a Roma. Lo storico Alessandro Portelli fu indotto da questo caso,
e dalle divisioni che aveva rievocato, a scrivere un capolavoro, L’ordine è già
stato eseguito. Scrive Portelli: “L’idea è che il tempo si sia fermato il 24 marzo
1944 e sia rimasto sospeso finché lo rimette in moto il processo Priebke”54. Il
passato si riapriva, e la presenza dei neofascisti per la prima volta nel governo
nazionale, oltre che in tante amministrazioni locali, produsse una serie di
‘guerre della memoria’ per tutti gli anni ’90 e 2000.
Il processo Priebke portò anche alla scoperta di quello che divenne noto
come ‘l’armadio della vergogna’. Un magistrato alla ricerca di documenti
relativi al caso scovò un grande armadio chiuso con gli sportelli rivolti verso la
parete. Da ulteriori indagini risultò che l’armadio conteneva numerosi
documenti su stragi e altre atrocità commesse durante il periodo
dell’occupazione nazista55. Erano stati ‘archiviati’ – di fatto nascosti – da un
giudice militare nel lontano 1960. I tempi non erano ancora ‘maturi’ per
sottoporre a giudizio gli ex nazisti (e i fascisti italiani). C’era la Guerra fredda,
e la Germania Ovest era un alleato. Ora, invece, si potevano riaprire le
indagini. L’‘armadio della vergogna’ fornì il materiale per parecchi processi
(meno clamorosi) in tutta Italia contro vecchi nazisti del tempo
dell’occupazione. Giustizia fu fatta – in qualche caso – ma i protagonisti, da
entrambe le parti, erano ormai quasi tutti morti56.

Dopo i processi: gli ultimi anni di Priebke


a Roma e la sua morte
Agli arresti domiciliari Priebke, che non mostrò mai alcun rimorso per le sue
azioni, scrisse un’autobiografia. Nel 2007 fu autorizzato a lavorare in uno
studio legale (aveva ottantatré anni), ma certe foto che lo mostravano in
motorino in giro per Roma fecero clamore, e l’autorizzazione fu presto
revocata. Rimase a Roma fino alla morte, nell’ottobre 2013, all’età di
cent’anni. Ma le controversie che avevano segnato l’ultima parte della sua vita
lo seguirono anche nella tomba. L’Argentina, dove aveva chiesto di essere
sepolto, rifiutò di accoglierlo, e non lo volle nemmeno la Germania. Dove
seppellirlo, dunque? Come quello di Mussolini tra il 1945 e il 1957, il corpo
di Priebke giace oggi in una località segreta. La prima cerimonia funebre, ad
Albano Laziale, aveva provocato scontri, e fu annullata. Otto persone finirono
sotto processo per reati contro l’ordine pubblico. L’avvocato di Priebke ha poi
confermato che è stato sepolto in una tomba senza nome in “un piccolo
cimitero custodito dal ministero degli Interni”57.

Lo scalatore puro:
la storia di Marco Pantani
Fin dagli anni ’60 in Italia il ciclismo aveva perso terreno rispetto al calcio e
alle corse automobilistiche. Poi d’un tratto, a metà anni ’90, spuntò dal nulla
un corridore che pareva capace di riaccendere le passioni latenti per questo
sport. Si chiamava Marco Pantani, e veniva dalla sonnolenta Cesenatico.
Pantani era uno scalatore puro, secco e fragile, ma bello da guardare mentre
si arrampicava sulle montagne, lasciandosi tutti alle spalle. Nel 1998 vinse il
Giro d’Italia e il Tour de France nello stesso anno, un’impresa già riuscita – tra
gli italiani – soltanto al grande Fausto Coppi. L’Italia si fermò per vederlo alla
televisione, in attesa del momento in cui ‘il pirata’ avrebbe gettato la bandana
per partire all’attacco. Indici di ascolto alle stelle: si parlava di ‘pantanimania’.
Nel 1999 pareva imbattibile, e si avviava a vincere il secondo Giro di fila. Poi
il disastro; Pantani fu costretto a rinunciare ‘per motivi di salute’, dopo aver
sostenuto un test. Non esisteva ancora il test per l’EPO, la sostanza sintetica
che aumenta i globuli rossi e migliora le prestazioni. Le autorità, decise a dare
l’esempio, ricorsero a vie indirette per accertare il livello dei globuli rossi nel
suo sangue. Il vincitore se ne andava, quando aveva la corsa praticamente nel
sacco. Era notizia da prima pagina.
Pantani proclamò la sua innocenza, ma molti davano per scontato che avesse
assunto l’EPO – che allora era molto diffuso tra gli sportivi. La vicenda ebbe
effetti deleteri sulla sua psiche: Pantani non fu più il corridore, né l’uomo, di
prima, nonostante qualche effimero ritorno. Nel febbraio 2004 la polizia fu
chiamata in un residence a Rimini. In una delle stanze trovarono un cadavere
seminudo: Pantani. I magistrati conclusero che era morto per overdose di
cocaina, e alcuni spacciatori vennero indagati (e poi prosciolti). Ma non era
ancora finita. Correva voce che la squalifica del 1999 fosse stata una
montatura, forse ad opera di un’organizzazione criminale. Nel 2014 i media
riportarono che il caso era stato riaperto per considerare l’ipotesi di un
omicidio. Non trovarono nulla che giustificasse un procedimento penale. La
storia di Pantani ha ispirato libri, documentari e film, e in tutta Italia gli hanno
dedicato lapidi e monumenti. Ogni anno, il Giro prevede una ‘salita Pantani’
in suo onore.
1996: l’Antiberlusconi
Dalle ceneri di Tangentopoli il centrosinistra tentò di costruirsi una nuova
identità, per proiettarsi al di là di una base operaia ormai in declino. Questa
strategia diede i suoi frutti elettorali nel 1996. Romano Prodi era l’antitesi
assoluta di Silvio Berlusconi. Non-carismatico in modo quasi deliberato,
politico fino alla punta dei capelli, uomo delle istituzioni. Ma i due uomini
erano diversi anche per molti altri aspetti. Prodi, per esempio, preferiva
l’antiquato ciclismo al calcio. Si curava poco del suo aspetto, e la sua vita
amorosa non aveva nulla di interessante. In poche parole, una noia: quasi un
antipopulista. Ma agli italiani piaceva, era rassicurante, e non faceva promesse
che non poteva mantenere. Fu l’unico leader che batté regolarmente
Berlusconi alle elezioni politiche.
Nel 1996, dopo il disastro del primo governo Berlusconi, Prodi conquistò la
maggioranza – Rifondazione comunista aveva accettato di non presentarsi in
taluni collegi particolari. Prodi guidava un’ampia coalizione di centrosinistra,
che si era anche data un nuovo nome, l’Ulivo.
Il primo governo Prodi (1996-98) fu radicale rispetto a quello che lo aveva
preceduto (e a quello che sarebbe venuto dopo). Il ministero per l’Ambiente,
per esempio, fu affidato a un esponente dei Verdi. In economia, però, Prodi
era un conservatore: accelerò la privatizzazione dei beni statali e impose tasse
straordinarie (compresa l’‘eurotassa’ una tantum – che, a pensarci bene,
suscitò ben poche proteste) per consentire al paese di rimanere entro i limiti
imposti dalla moneta unica europea. Prodi aveva legami strettissimi con l’UE,
e dal 1999 al 2004 fu presidente della Commissione. Era un sostenitore
convinto del progetto europeo, e per un po’ la maggioranza degli italiani lo
seguì.
Nell’ottobre 1998, però, Rifondazione annunciò l’uscita dall’alleanza. Finì
così il primo governo Prodi. La questione che provocò l’uscita di RC (limiti
da imporre agli orari di lavoro) parve alquanto marginale, all’epoca, ed è
probabile che nascondesse un gioco di potere interno al centrosinistra. Questa
divisione autoinflitta consentì a Berlusconi di imboccare la via del ritorno al
potere. Il comico Giacomo Poretti, del popolare trio Aldo, Giovanni e
Giacomo, avrebbe poi lanciato un personaggio tragicomico basato sulle
tendenze masochistiche della sinistra italiana: si chiamava Tafazzi, e passava il
tempo a battersi i genitali (sostenuti da un sospensorio) con una bottiglia di
plastica. Il termine ‘tafazzismo’ è stato più volte usato con riferimento alla
sinistra in generale. L’unità della sinistra (con le divisioni della destra) aveva
portato alla vittoria del 1996. La divisione offrì a Berlusconi (che nel
frattempo si era rappacificato con la Lega Nord) una facile vittoria nel 2001.
È sorprendente che, a dispetto dei cinque anni al potere tra il 1996 e il 2001,
il centrosinistra non avesse prodotto alcuna legislazione contro il conflitto di
interesse che aveva paralizzato il primo governo Berlusconi. Si pensava forse
che Berlusconi potesse essere controllato, e perfino (più cinicamente) che
l’antiberlusconismo fosse una leva utile per mobilitare gli elettori. Se così fu, si
rivelò un tragico errore politico. Le ricadute della divisione nella sinistra si
sarebbero trascinate fino alla fondazione del Partito democratico nel 2007. A
quel punto, però, la capacità di attrazione di qualsiasi partito o movimento
esplicitamente collegato al comunismo era considerevolmente diminuita.
Passato Prodi, i governi di centrosinistra arrancarono con fatica fino alle
elezioni successive, nel 2001. Nel frattempo il Partito democratico della
sinistra era diventato Democratici della sinistra – ma poco altro era cambiato.
Prodi non era più il leader dell’Ulivo, e i suoi successori non furono all’altezza
di Berlusconi, Bossi e Fini.

L’euro, l’integrazione europea e l’Italia


L’Italia ha seguito da sempre la via della moneta unica e dell’integrazione
politica dell’Europa, ma è stato comunque un partner difficile e instabile nel
percorso verso l’euro. Altiero Spinelli – che abbiamo già incontrato come
autore, dal confino fascista, del Manifesto di Ventotene – fu un protagonista della
scelta italiana in favore dell’integrazione europea, e partecipò alla stesura di
diversi storici trattati negli anni ’8058. “Sono stato l’ostetrica che ha aiutato il
Parlamento a dare alla luce questo bambino [la bozza del trattato
dell’Unione]”, diceva nel 1984. “Adesso bisogna farlo vivere”.
Eppure, nonostante la rilevanza dell’Europa e dell’ideale europeista in
termini puramente politici, sul piano del potere, dell’influenza e del prestigio
in Italia Bruxelles conta in genere meno di Roma. Sono stati soltanto due gli
italiani presidenti della Commissione europea: Franco Maria Malfatti (1970-
72) e Romano Prodi (1999-2004). Le dimissioni di Malfatti, interessato
soprattutto alla politica interna, furono un sintomo della marginalità
dell’Europa nel contesto romano, e forse fu soltanto con Prodi (e con Mario
Monti, che era stato commissario europeo e poi nel 2011 diventò presidente
del Consiglio in Italia) che l’UE cominciò ad essere considerata un’entità
degna di seria considerazione dalle élites politiche italiane.
Nell’insieme, il rapporto del paese con l’Europa è stato sempre
contraddittorio. L’integrazione europea era un progetto popolare, ma i politici
italiani che si facevano eleggere a Strasburgo partecipavano di rado alle sedute,
e consideravano l’incarico solo come una sagra dei rimborsi spese. Tutto stava
a indicare, nel dopoguerra, una forte propensione degli italiani all’integrazione
europea. Ma era un ‘europeismo’ alquanto nebuloso, sostanzialmente
scollegato dalle scelte politiche, istituzionali o ideali specifiche. All’indubbio
europeismo degli italiani non era estraneo lo storico e profondo senso di
distacco – e perfino di odio – che molti provavano verso lo Stato e il sistema
politico: l’Europa non era l’Italia, e questo contribuiva a renderla popolare.
Il 1° gennaio 2002, passata la mezzanotte, molti italiani festeggiarono l’anno
nuovo andando al bancomat più vicino per ritirare gli euro nuovi di zecca. Il
momento fu segnato da solenni celebrazioni: la lira non esisteva più. In sé,
non se ne sentiva molto la mancanza, ma presto i prezzi di quasi tutto
raddoppiarono (vero o meno che fosse, l’impressione fu sicuramente questa).
L’Italia aveva faticato per raggiungere i parametri economici dell’euro. Ci
vollero i tagli feroci – e gli aumenti delle tasse – degli anni ’90 per rispettare i
criteri imposti dal Trattato di Maastricht del 1992. Non furono
provvedimenti popolari, ma si tendeva a darne la colpa alle élites nazionali e
non all’Europa.
Con l’andare del tempo l’euro sarebbe diventato un comodo capro espiatorio
per tutti i guai economici del paese. Romano Prodi, l’architetto dell’ingresso
nell’Eurozona, fu ‘promosso’ a presidente della Commissione europea nel
1999 (lo sarebbe rimasto fino al 2004). Venivano così premiati i suoi sforzi per
portare l’Italia nella moneta unica. Ma comunque la si voglia guardare, è
indubbio che oggi l’attaccamento degli italiani all’‘Europa’ è in declino.
Continuano a cercare e trovare nell’Unione occasioni di lavoro o di studio,
ma questi alti livelli di mobilità e apertura culturale sono sempre più scollegati
dall’identificazione con le istituzioni e le politiche dell’UE in quanto tale.

Nuovi italiani?
Aumenta in modo consistente la presenza di figure dell’alterità come rom e
migranti, che esprimono bisogni verso cui il territorio manifesta sia
accoglienza, sia una sorda ostilità.
Alessandro Portelli59

Non ci sono negri italiani. Balotelli sei un africano.


Coro da stadio contro il calciatore Mario Balotelli60
L’Italia non è mai stata un paese integralmente monoculturale o monoetnico,
ma nel dopoguerra gli immigranti stranieri erano piuttosto rari. C’era qualche
sacca di rifugiati dalle ex colonie – in particolare somali, negli anni ’70 – e qui
e là dei migranti economici. Ma i numeri erano trascurabili, rimanevano
stabili se non in talune zone localizzate, e queste comunità venivano assorbite
senza troppi problemi. Di rado se ne parlava a livello nazionale, e non
rientravano in alcuna narrazione politica. Era come se non esistessero.
Tutto cambiò negli anni ’80, ’90 e 2000. Gli italiani erano più ricchi, e
disertavano il settore ‘sporco’ del mercato del lavoro. Servivano braccia per le
pulizie, camerieri, domestici, ma anche operai e braccianti agricoli.
L’invecchiamento della popolazione e le famiglie meno numerose, insieme
con le nuove forme del lavoro, crearono una vasta domanda di badanti a
domicilio per anziani e bambini. Per la prima volta si apriva uno spazio
economico, e un mercato, per una consistente immigrazione di stranieri. Per
anni l’Italia aveva mandato all’estero i suoi cittadini (e continuò a farlo), ma
ora diventava un paese importatore. Nel 2013 il mercato legale del lavoro in
Italia impiegava 3 milioni di migranti (su un totale stimato di 5,3 milioni, di
cui si diceva che 540.000 fossero ‘clandestini’). Nelle scuole italiane
studiavano 670.000 figli di migranti, e oltre 210.000 migranti avevano aperto
una piccola impresa61.
Negli anni ’90 l’Italia era del tutto impreparata – sul piano culturale, legale e
sociale – all’arrivo di lavoratori stranieri. Le leggi relative ai movimenti
demografici erano datate, e in qualche caso totalmente assurde. In ogni città
c’era un ‘ufficio stranieri’, in questura, che assegnava ‘permessi di soggiorno’,
da rinnovare a intervalli regolari, che conferivano taluni diritti agli immigrati.
Ma con i movimenti di massa degli anni ’80 e ’90, quegli uffici non ressero il
peso dei numeri. Con l’adesione all’Unione Europea e l’apertura del mercato
del lavoro si creò poi un sistema a due corsie. I cittadini dell’UE dovevano
comunque richiedere il permesso di soggiorno, ma la fila era più rapida, e
venivano trattati con relativa umanità. Tutt’altra cosa per chi veniva da fuori
dell’Unione, che spesso doveva svegliarsi all’alba per mettersi in coda per
strada, dietro alle transenne. Per aggiungere la beffa al danno, spesso l’ufficio
stranieri apriva solo al mattino. Molti migranti finivano nell’economia illegale,
‘in nero’, che ha da sempre una parte rilevante nella vita italiana.
Il sistema a due corsie influiva anche sul linguaggio e sulla terminologia.
Molto presto la stampa e i documenti ufficiali cominciarono a usare il termine
‘extracomunitari’. Tecnicamente, si riferiva a chiunque venisse da fuori
dell’Unione Europea (con i suoi confini piuttosto incerti), ma veniva usato
soprattutto per gli immigrati di colore, e più avanti per i cosiddetti ‘negri
bianchi’ dell’Europa orientale (albanesi, poi romeni, bulgari e polacchi), e
molto di rado per i cittadini americani o svizzeri. Il linguaggio e i significati
cambiavano col mutare dell’Unione stessa. Molti termini di uso comune
erano smaccatamente razzisti. Per molti anni, per esempio, anche la stampa
più seria e i politici fecero libero uso dell’espressione ‘vu’ cumprà’ per definire
gli ambulanti neri che non parlavano italiano. Ci volle un’eternità perché
quell’epiteto razzista sparisse dai giornali e dal discorso politico.
La prima ondata di migranti aveva il beneficio dell’esotico, e fece poco
scalpore. Ma la seconda, tra la metà e la fine degli anni ’90, divenne subito un
tema politico scottante, con l’aumento delle tensioni e delle paure. I media
cominciarono a identificare specifiche aree urbane con l’immigrazione e la
criminalità (in genere senza alcun elemento concreto che ne confermasse la
pericolosità). Ci furono casi di violenza. Il razzismo negli stadi divenne la
norma. C’era confusione anche sul significato preciso del termine. In Italia
non si era mai discusso davvero sul tema, e il linguaggio era permeato di
parole e frasi stereotipate. Del passato coloniale si parlava poco, ma il peso
della sua eredità appariva evidente. Gli italiani si sentivano minacciati dai
migranti – in particolare da quelli neri. C’era una forte richiesta di ‘sicurezza’,
con continue chiamate alla polizia e ai carabinieri per segnalare gruppi di
migranti che in realtà non avevano commesso alcun reato.
Gli immigrati venivano ingaggiati per una certa categoria di impieghi, e
qualcuno apriva un’impresa propria. Molti lavoravano nel settore mal pagato,
in contanti, delle pulizie, delle lavanderie, o come baby sitter, ma nacquero
vere e proprie categorie occupazionali in sostituzione di funzioni tradizionali
della famiglia italiana come la cura degli anziani e dei malati. Altri erano facile
preda dell’avidità dei mediatori e della criminalità organizzata nel settore
agricolo (soprattutto al Sud), spesso in condizioni spaventose, o nell’industria
dei falsi. Ancora una volta, come negli anni ’50 e ’60, i cantieri edili erano il
principale snodo di accesso per i lavoratori immigrati.
All’inizio, l’arrivo degli immigranti venne stigmatizzato dalla stampa come
un’emergenza. C’era gente che dormiva accampata nelle fabbriche
abbandonate o nei vagoni ferroviari – gli “hotel della paura”, dicevano i
giornali. La struttura scricchiolante dello stato sociale faticava a far fronte ai
nuovi arrivi. Si approvarono leggi e decreti speciali, spesso in un clima di
panico, e di rado con l’idea di una strategia. Non tardarono ad esplodere
conflitti, ed entrarono in gioco i politici. La Lega attizzava il fuoco ovunque
ne aveva la possibilità62. Fu il momento in cui entrò in crisi anche lo
stereotipo degli ‘italiani brava gente’: il razzismo era diventato un tratto della
società italiana. Il senso dell’identità subiva pesanti tensioni. La vittoria di una
donna italiana nera, Denny Mendez, al concorso di Miss Italia nel 1996
provocò un vasto dibattito.

Sport, razzismo e migrazioni


Lo sport fu un importante terreno di confronto per l’immigrazione,
l’integrazione e il razzismo. Negli anni ’90 comparvero i primi campioni
italiani neri. Carlton Myers, uno spettacolare cestista nato a Londra da padre
caraibico e madre italiana, e trasferito in Italia a nove anni, divenne la stella
delle squadre di Pesaro e di Bologna, arrivando a segnare ottantasette punti in
una partita. Fu lui a portare la nazionale all’oro agli europei, guadagnandosi
così – unico italiano nero – l’onore di portare la bandiera alla cerimonia
inaugurale delle Olimpiadi di Sydney del 2000. Fiona May (italiana per
matrimonio) e Andrew Howe furono tra le prime stelle nere dell’atletica
italiana.
Si affermavano intanto anche i calciatori neri. Fabio Liverani, un
centrocampista molto tecnico, nato a Roma da padre italiano e madre somala,
fu il primo nero a giocare in nazionale, ed ebbe una lunga carriera in serie A.
E fu anche il primo allenatore nero di una squadra in A: il Genoa, che lo
tenne per sole sette partite.

L’assassinio di Abdellah Doumi


Dove era l’altra gente che poteva salvare il giovane marocchino?
Quanti hanno visto e non sono intervenuti?
Quella sponda sinistra del Po è frequentatissima.
E questi spettatori passivi non sono complici?
Don Luigi Ciotti63
Negli anni ’90 accadeva che certe zone delle città divenissero catalizzatori del
conflitto con i migranti stranieri, spesso considerati un ‘problema’ di ordine
pubblico per il solo fatto di essere tali, e perché stavano per la strada. Una di
queste erano i cosiddetti Murazzi sulle rive del Po a Torino.
Il problema della violenza sui Murazzi esplose alla vigilia della prima tornata
delle elezioni per il sindaco, nell’aprile 1997. Una notte una cinquantina di
giovanotti in giubbotto e passamontagna, armati di spranghe, sassi, bottiglie e
pistole giocattolo, fecero una scorreria. Gli immigrati stranieri furono costretti
alla fuga e uno, un disc jockey, si prese una sprangata in testa. La banda, che
contava molti elementi di estrema destra, si scatenò poi nel centro città,
sfasciando parecchie auto. La notte del 19 luglio 1997 (alle 5 del mattino) un
ventiseienne marocchino annegò nel Po. Si chiamava Abdellah Doumi. Era
stato cacciato in acqua da almeno dieci giovani italiani, alcuni dei quali col
casco da motociclista, che poi lo avevano bersagliato con bottiglie, sassi,
scatoloni e perfino un’aspirapolvere. Uno di loro gli aveva gridato: “Va’, va’, e
adesso nuota, esci dall’altra parte”64. I presunti responsabili furono arrestati
quasi subito: il ventiquattrenne Piero Iavarone con tre amici. Una settimana
dopo trecento immigranti manifestarono vicino al posto dov’era morto
Doumi, chiedendo giustizia. In prima istanza Iavarone e gli altri furono
condannati a ventidue anni per omicidio. Dopo una lunga campagna in loro
favore, la sentenza fu ridotta in appello.
Le interpretazioni di questo atto di violenza furono molte. Per qualcuno fu
un atto politico, per altri la naturale conseguenza dell’immigrazione
‘eccessiva’. Non ci volle molto perché l’omicidio di Doumi venisse quasi
completamente dimenticato.

Il controllo dei migranti


Come arrivavano in Italia i migranti stranieri? Qualcuno sulle barche, altri in
aereo o in treno, altri ancora in auto o in bus. Molti erano entrati
illegalmente, ma a forza di regolarizzazioni avevano conseguito una qualche
forma di statuto legale – che comunque poteva essere cancellato con un tratto
di penna. Pochi venivano riconosciuti come rifugiati. Col tempo fu costruita
una complicata struttura legale e di sicurezza per consentire allo Stato di
identificare e sanzionare i ‘clandestini’. I tartassati uffici stranieri locali furono
presto affiancati da altre istituzioni, con nuove norme e regolamenti. Il sistema
comprendeva una rete di centri di detenzione per gli immigranti, detti
eufemisticamente Centri di permanenza temporanea (aperti nel 1998, e poi
rinominati Centri di identificazione ed espulsione). Queste strutture
restrittive erano luoghi di detenzione per immigranti che non avevano
commesso alcun reato vero e proprio, ma esistevano in un limbo legale (il
semplice fatto di essere clandestini sarebbe poi comunque diventato un reato
penale). Le condizioni nei centri erano spesso spaventose, ed erano molti gli
immigrati che finivano nel circuito carcerario. I provvedimenti in materia di
migranti furono numerosi.
Pareva che la legge Bossi-Fini del 2002 irrigidisse i controlli
sull’immigrazione clandestina, ma il risultato fu l’opposto delle intenzioni
proclamate. La legge incrementò il numero di migranti senza documenti, e
favorì lo sfruttamento – come forza lavoro, o altro – dei nuovi arrivati. Il
messaggio politico della ‘linea dura sui migranti’ accontentava l’elettorato,
mentre i datori di lavoro potevano continuare a impiegare manodopera a
basso costo. Questa ambiguità fu un aspetto costante della gestione dei
migranti, in Italia e altrove. Anche la libertà di movimento nell’UE ebbe il suo
peso, modificando la provenienza dei migranti a mano a mano che nuovi paesi
entravano a far parte dell’Unione.
Nel frattempo migliaia di persone tentavano di varcare i confini d’Italia (e
dunque dell’UE) in barca, prima dall’Albania, poi attraverso il Mediterraneo
dall’Africa e dal Medio Oriente. Per qualche tempo fu la marina militare
italiana a ‘respingere’ quel movimento (una scelta che ebbe presto
conseguenze tragiche), poi si arrivò a una sorta di compromesso. I potenziali
immigranti dovevano essere portati in Italia, identificati e schedati; ma molti
non ce la facevano. Si sviluppò una vera industria, che arricchiva i trafficanti di
esseri umani e gli sfruttatori, e le associazioni criminali trovarono il modo per
mettere le mani sui fondi statali per l’assistenza ai nuovi arrivati.
L’Italia non concedeva il diritto di voto agli ‘extracomunitari’, in nessun
genere di elezioni, e dunque la comunità dei migranti non aveva alcun accesso
al potere e alla rappresentanza politica. Faticavano a far sentire la loro voce.
Anche chi era nato in Italia non otteneva la cittadinanza fino alla maggiore età.
In diverse occasioni furono avanzate proposte per cambiare questo stato di
cose, che non passarono in Parlamento: non c’era partito o movimento che
fosse disposto ad apparire debole sui temi dell’immigrazione e della sicurezza.
In certe zone, interi settori produttivi impiegavano immigrati per lavori un
tempo svolti dagli italiani. Nei dintorni di Brescia, per esempio, gli operai di
molte delle fabbriche ancora in funzione erano quasi esclusivamente neri,
mentre gruppi di Sikh si erano specializzati nella produzione del Grana
Padano. Intorno a Pessina Cremonese, i Sikh facevano i turni di notte nei
caseifici. Nei primi anni 2000, di ritorno da una passeggiata in montagna in
Trentino, incontrai due rom romeni che si occupavano delle vacche in
alpeggio in una baita da tempo abbandonata.
Le comunità di immigranti si dotavano di reti informali di solidarietà, con
servizi di corriere che andavano da un capo all’altro dell’Europa, e oltre.
Centri telefonici e Internet cafè consentivano di tenersi in contatto con i
parenti rimasi a casa. Sulle facciate dei condomini spuntavano le parabole
satellitari per captare le televisioni straniere.
Sotto la superficie, lontano dalla retorica e dal commercio politico, vi sono
state forme di vera integrazione, per quanto complicata e contraddittoria. I
figli degli immigrati frequentavano le scuole italiane; qualche immigrato è
diventato anche un personaggio pubblico. Gli ex immigrati di seconda o terza
generazione, nati e cresciuti in Italia, creavano nuove forme ibride di cultura,
di linguaggio, di relazioni sociali. Com’era stato nel primo Novecento, e negli
anni ’50 e ’60 per la migrazione interna, le nuove catene di solidarietà degli
immigrati hanno contribuito a questo processo.
L’Italia era un paese fondamentalmente razzista? Certi movimenti politici
soffiavano apertamente sul fuoco, ed è chiaro che molti immigranti erano
“richiesti ma non benvenuti”, come sostiene il sociologo americano Aristide
Zolberg, ovvero “utili invasori”, nelle parole del sociologo italiano Maurizio
Ambrosini. Gli italiani erano “importatori riluttanti” di immigranti65. Per i
nuovi arrivati c’erano buone opportunità a tutti i livelli dell’economia italiana,
ma le loro attività negli spazi sociali, politici e culturali erano gravemente
limitate. Escludendo gli immigrati dalla rappresentanza politica, l’Italia era ben
felice di incassarne le imposte e sfruttarne il lavoro senza dar loro alcun modo
di esprimere i propri desideri in una forma democratica.
Sarebbero, secondo alcuni, delle “non-persone”, prive dei diritti
fondamentali e di accesso al potere politico, ma comunque presenti nella
società, e soprattutto nei settori sociale, agricolo, industriale e dei servizi66.
Erano invisibili, e allo stesso tempo, per certi versi specifici, ‘troppo visibili’.
Così, sostiene Ambrosini, nonostante risulti evidente che l’Italia è ormai un
paese multietnico, “nelle loro rappresentazioni culturali, gli italiani tendono a
negare questa realtà”67. La politica rifiuta di affrontare a viso aperto queste
realtà economiche e sociali. Il risultato – per i migranti, per gli italiani, e per i
migranti italiani – è una miscela tossica di confusione, paura, segregazione,
esclusione e razzismo ormai radicato. La questione dei musulmani in Italia, e i
dibattiti e le tensioni intorno alla costruzione e la frequentazione delle
moschee, ne sono l’esempio più significativo.

Le moschee e l’Islam in Italia


Le moschee (meglio, l’ipotesi delle moschee) sono state al centro di accese
discussioni e proteste legate al conflitto multiculturale in Italia (e altrove nel
mondo). Nel periodo iniziale dell’immigrazione le poche moschee che furono
costruite non provocarono controversie: contavano poco o nulla. Ben presto
però l’immigrazione divenne questione scottante, e certi partiti rilanciarono i
temi del razzismo (spesso, ma non sempre, camuffati nelle rubriche della
‘sicurezza’ e della ‘cultura’), attribuendo alla presenza e alla frequentazione
delle moschee una connotazione problematicamente politica.
In periferia a Milano, a Segrate, nel 1988 venne costruita una piccola
moschea. Non ci furono commenti particolari. Da allora in poi, però,
qualsiasi proposta di aprire una nuova moschea più vicina al centro è stata
bloccata, producendo spesso dimostrazioni e proteste. Per molti anni i
musulmani milanesi hanno pregato in un anonimo garage della zona nord, in
viale Jenner. La struttura era troppo piccola per contenere tutti i fedeli, che
quindi si riversavano spesso sulla strada. Le lamentele del vicinato, per il
rumore e l’occupazione del suolo pubblico, erano continue. Alla fine il
‘centro islamico’ venne in parte smantellato68. Furono proposti diversi
progetti per una nuova moschea, tutti paralizzati dall’ostilità politica, dai
‘comitati di protesta’, dalle ‘procedure burocratiche’ – e le controversie a
questo proposito non si limitarono certo alla Lombardia. Tutto questo andava
a collocarsi in un contesto internazionale condizionato dagli eventi dell’11
settembre 2001 a New York.

La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci


La data fatidica dell’11 settembre segnò una svolta nel difficile rapporto
dell’Italia con l’Islam. Il 15 settembre, appena quattro giorni dopo l’attacco alle
Torri gemelle di New York, la celebre giornalista Oriana Fallaci pubblicò una
lunga, prolissa e polemica lettera-articolo sul “Corriere della Sera”, in cui
denunciava in termini di grande violenza “i pericoli dell’Islam”. Scrittrice
prolifica e popolare di alto profilo, intrepida intervistatrice dei potenti di tutto
il mondo, la Fallaci taceva da più di dieci anni. Quando avvenne l’attacco, si
trovava nel suo appartamento a New York. Il libro derivato da questo articolo
(uscito nel dicembre 2001) fu un best-seller assoluto, vendendo milioni di
copie in tutto il mondo. Soltanto in Italia, nel 2004 era arrivato alla
trentaseiesima edizione, e a oltre un milione di copie. La Fallaci era sempre
stata di sinistra, e la sua metamorfosi in simbolo della ‘lotta’ contro l’‘Islam’ fu
sconcertante. Negli anni a venire avrebbe prodotto parecchi altri libri sullo
stesso tema, tutti di grande successo.
Presentando il sensazionale pezzo, il direttore del “Corriere” Ferruccio De
Bortoli la definiva “la nostra più celebre scrittrice (lei dice scrittore e non
pronuncia più la parola giornalista)”69, e giustamente prevedeva che le sue
parole avrebbero provocato un vasto dibattito. La Fallaci chiudeva dichiarando
che “quello che avevo da dire l’ho detto. La rabbia e l’orgoglio me l’hanno
ordinato. La coscienza pulita e l’età me l’hanno consentito. Ma ora devo
rimettermi a lavorare, non voglio essere disturbata. Punto e basta”. Da questa
frase derivava il titolo dell’intero pezzo, La rabbia e l’orgoglio. Non mantenne la
parola: la ‘porta’ era ormai spalancata, e lei sarebbe ritornata di frequente sul
tema dell’Islam dopo quel 2001.
Chi era Oriana Fallaci? Partigiana durante la guerra, fu probabilmente la
giornalista italiana più letta e ascoltata degli anni ’60 e ’70. Si era specializzata
nelle inchieste e nelle interviste esclusive – una sorta di corrispondente estero
di alto bordo – ma aveva pubblicato anche una serie di romanzi e saggi
autobiografici di grande successo. In quanto donna in un mondo rigidamente
maschile come quello dei corrispondenti di guerra, era particolarmente
ammirata dalle sue lettrici. Mentre intervistava l’ayatollah Khomeini, per
esempio, si levò il chador che le avevano chiesto di indossare. Ebbe una lunga
relazione con un famoso oppositore della giunta militare greca, Alexandros
Panagulis, e come corrispondente rischiò più volte la vita – fu ferita da una
pallottola in Messico, nel 196870.
Ma cosa diceva la Fallaci in quel famigerato articolo, e nella serie di libri che
seguì? Come osserva lo storico Charles Burdett, “nella prospettiva [della
Fallaci] l’Islam – inteso come religione e come civiltà – rappresenta un corpo
immobile di pensiero e di fede che struttura l’identità dell’uomo in modo da
renderla implacabilmente ostile all’Occidente... il fondamentalismo non è una
realtà a sé stante, separata dalla corrente principale dell’Islam, bensì
l’espressione della forma interiore del mondo musulmano”71.
La Fallaci, che non viveva in Italia ormai da anni, si spingeva anche più in là a
proposito dei migranti. Collegava esplicitamente l’Islam radicale, il terrorismo
e i movimenti demografici. Sosteneva, per esempio, che “gli Osama Bin
Laden sono decine di migliaia, ormai, e non stanno soltanto in Afghanistan o
negli altri paesi arabi. Stanno dappertutto, e i più agguerriti stanno proprio in
Occidente. Nelle nostre città, nelle nostre strade, nelle nostre università”.
Le sue descrizioni degli immigrati in Italia erano quasi deliberatamente
offensive. Di Firenze, scriveva che
quella che era la capitale dell’arte e della cultura e della bellezza, non scoraggiò per niente gli altri
arrogantissimi ospiti della città: gli albanesi... i tunisini, gli algerini,... i nigeriani che con tanto fervore
contribuiscono al commercio della droga e della prostituzione a quanto pare non proibito dal Corano...
Dentro il piazzale degli Uffizi... di faccia alla Biblioteca Nazionale, all’entrata dei musei. Sul Ponte
Vecchio dove ogni tanto si pigliano a coltellate o a revolverate. Sui Lungarni dove hanno preteso e
ottenuto che il Municipio li finanziasse (sissignori, li finanziasse). Sul sagrato della Chiesa di San
Lorenzo dove si ubriacano... razza di ipocriti, e dove dicono oscenità alle donne... E guai se il cittadino
protesta, guai se gli risponde quei-diritti-vai-ad-esercitarli-a-casa-tua. “Razzista, razzista!”... Succede
anche nelle altre città, lo so. A Torino, per esempio. Quella Torino che fece l’Italia e che ormai non
sembra nemmeno una città italiana. Sembra Algeri, Dacca, Nairobi, Damasco, Beirut72.

Questo era il livello del ‘giornalismo’ della Fallaci sul tema dei migranti in
Italia. Le sue invettive ebbero vasta eco nel paese e all’estero: sosteneva che
tutti i musulmani si opponevano alla ‘civiltà occidentale’, ribadiva la presunta
superiorità della cultura italiana e occidentale in genere, e faceva un solo fascio
di tutta una serie di personaggi storici del mondo arabo, da Yasser Arafat a
Gheddafi – molti dei quali aveva conosciuto di persona ai tempi eroici delle
sue inchieste. E gli immigrati erano invasori, potenziali terroristi intenzionati
a distruggere i mondi ai quali avevano avuto accesso.
Chiunque non fosse d’accordo veniva dileggiato come “buonista” o
“cosiddetto esperto”. Una posizione violentemente estremista, ma stava
prendendo piede: i libri della Fallaci divennero i testi di saggistica più venduti
nella storia d’Italia. Agli ammiratori piaceva il coraggio ‘politicamente
scorretto’ dei suoi proclami. Per molta gente di sinistra, invece, aveva tradito il
suo stesso passato. Quell’idea unilaterale e male informata degli immigrati e
dei musulmani suscitò veementi reazioni nel mondo accademico, e non solo.
Qualcuno provò a smontare il nesso tra i valori della Resistenza e del
Risorgimento e “la rabbia e l’orgoglio”.
La Fallaci non ammetteva l’esistenza di un ‘Islam moderato’. “Sono milioni e
milioni, fanatici. E il vero protagonista di questa guerra non è lui [Bin Laden].
Non è neanche il paese che via via lo partorisce o lo ospita. È la Montagna.
Quella Montagna che da millequattrocento anni non si muove, non esce dagli
abissi della sua cecità, non apre le porte alle conquiste compiute dalla civiltà,
non vuol saperne di libertà e giustizia e democrazia e progresso”. Le moschee
in Italia andavano respinte, perché “pullulano fino alla nausea di terroristi o
aspiranti terroristi”.
Pareva sempre più delirante, e tuttavia veniva presa molto sul serio. Nel
2006, sulle pagine del “New Yorker”, dichiarò il suo sgomento per la
progettata moschea di Colle Val d’Elsa, nel Senese. Ancora una volta, parole
incendiarie:
Se sarò ancora viva... vado dai miei amici a Carrara... Sono tutti anarchici. Prendo l’esplosivo e la
faccio saltare in aria. Con gli anarchici di Carrara. Non voglio vederla, questa moschea, così vicino alla
mia casa in Toscana. Non voglio vedere un minareto da ventiquattro metri nel paesaggio di Giotto. E io
nel loro paese non posso nemmeno portare la croce, o la Bibbia! LA FACCIO SALTARE!73

Umberto Eco replicò all’intervento della Fallaci sul “Corriere” con un


articolo su “la Repubblica”. Non faceva il nome dell’autrice, ma denunciava
lo sciovinismo culturale e invocava la tolleranza. “Noi siamo una civiltà
pluralistica perché consentiamo che a casa nostra vengano erette delle
moschee, e non possiamo rinunciarvi solo perché a Kabul mettono in
prigione i propagandisti cristiani. Se lo facessimo diventeremmo talebani
anche noi”. A chi credeva nella superiorità della civiltà occidentale, Eco
ricordava che “fa parte della storia della cultura occidentale anche Hitler, che
bruciava i libri, condannava l’arte ‘degenerata’, uccideva gli appartenenti alle
razze ‘inferiori’”74.
Di colpo i ‘pericoli dell’Islam’ erano diventati notizia da prima pagina. La
destra, sia centrista che estrema, raccolse il grido di guerra della Fallaci. In
questo contesto si affermarono dei personaggi eccentrici, subito adottati dai
media. Magdi Allam, un musulmano residente in Italia, si convertì al
cattolicesimo adottando il nome Magdi Cristiano Allam. Nel 2008 pubblicò
un libro intitolato Grazie Gesù. In quel periodo fu una presenza costante alla
televisione, e fu impiegato come commentatore da giornali di primo livello
come il “Corriere” e “la Repubblica”. In qualche occasione criticò la
condanna indiscriminata dell’Islam, ma divenne noto soprattutto per le sue
opinioni che coincidevano con quelle della “rabbia e l’orgoglio”. A proposito
delle moschee, per esempio, sosteneva che “la vera arma del terrorismo
islamico è il lavaggio di cervello. E il lavaggio di cervello avviene all’interno
delle moschee”. Il dibattito e le tensioni continuarono anche nel decennio
successivo, e non soltanto tra gli intellettuali, ma anche nelle strade e nelle
piazze delle città italiane75.
Violenza e criminalità venivano spesso inquadrate nelle categorie etniche –
un’‘emergenza’ dovuta all’immigrazione. Il 13 febbraio 2010 una rissa in via
Padova a Milano finì con la morte di un giovane egiziano. Ci fu una piccola
rivolta, con qualche vetro rotto, pare ad opera soprattutto di giovani
immigrati. La reazione della stampa e del sistema politico fu immediata, con
riferimenti alla situazione etnica del quartiere e alle reazioni indignate degli
italiani (bianchi). A fronte di questa posizione dei media, l’amministrazione
milanese, di centrodestra, non tardò a emettere regolamenti municipali che
imponevano limiti di categoria e orario alle aziende aperte dagli immigrati. Ci
fu comunque anche una reazione positiva dal basso agli eventi di via Padova;
si tentò di capire e valorizzare la varietà etnica e culturale del quartiere,
organizzando un festival di grande successo, capace di mostrare un aspetto
della città diverso dalla ‘casbah’ ostile descritta da una parte della stampa e dalle
televisioni locali.

L’Italia, l’Islam e la Chiesa cattolica


Negli anni ’90 e 2000 la Chiesa si trovò ad affrontare diverse nuove sfide
sociali e culturali. La più importante fu l’arrivo in Italia di un numero
cospicuo di non cattolici, che imponeva, nelle parole di John Pollard, “un
inedito, e scomodo, pluralismo religioso”76. I musulmani non erano certo la
maggioranza degli immigranti che in quegli anni si trasferirono o lavorarono
per qualche tempo in Italia, ma divennero comunque una minoranza degna di
rilievo. Non è facile trovare statistiche affidabili, ma risulterebbe che al 2005 i
musulmani costituivano il 2 per cento della popolazione italiana. Le differenze
tra le cifre proposte sono comunque importanti: si va da un milione a un
milione e mezzo di persone77.
L’Islam è oggi la seconda religione nel paese. Che cosa significa questo per
l’Italia, per i musulmani stessi e per la Chiesa cattolica? Come sostiene Charles
Burdett, “non è forse esagerato affermare che il rapporto con l’Islam, e per
estensione con il mondo islamico, rappresenta oggi una delle questioni
culturali e sociali più importanti che l’Italia si trovi ad affrontare”78. Il paese
fatica a comprendere e accettare la presenza dei musulmani, specie nelle fasi in
cui l’immigrazione ha assunto dimensioni massicce, e dopo i fatti dell’11
settembre a New York.
Come ha reagito la Chiesa all’immigrazione di massa e alla presenza di una
consistente comunità musulmana? Da un lato le organizzazioni cattoliche (e
di altre religioni) erano in prima fila nell’assistenza sul campo agli immigrati.
In molti casi gli immigrati cattolici ridavano vita alle chiese, e la loro presenza
si faceva sentire. All’interno della gerarchia, comunque, c’erano forti
divergenze in merito. L’arcivescovo Biffi di Bologna, per esempio (prelato di
grande potere), criticò la politica di accoglienza. Peraltro, la Chiesa non ha
esitato a schierarsi nello ‘scontro di civiltà’ che segna il XXI secolo, in
particolare con papa Benedetto XVI (2005-13). Il suo successore Francesco
propone invece un modo diverso di vedere il ruolo della Chiesa, invocando
integrazione e pubbliche manifestazioni di solidarietà con gli immigrati. Nel
marzo 2016 il papa ha lavato e baciato i piedi di dodici immigrati, alcuni dei
quali musulmani, in un centro di accoglienza a Roma nord. Ha poi dichiarato
che “tutti noi, insieme, musulmani, indù, cattolici, copti, evangelici, fratelli,
figli dello stesso Dio... vogliamo vivere in pace”79.

Il crocifisso
Il potere permanente della Chiesa si manifestava anche nella presenza fisica dei
suoi simboli80. Il crocifisso alla parete di molti (ma non tutti) edifici pubblici
risale al tempo della nascita della nazione italiana. I provvedimenti fascisti
degli anni ’20 stabilirono poi che dovesse far parte degli ‘arredi’ delle scuole,
accanto al ritratto del re. La Costituzione italiana del 1948 incorporò i Patti
lateranensi, e dunque il crocifisso rimase in molte aule scolastiche, sulla parete
alle spalle dell’insegnante in cattedra. Negli anni ’60 il provvedimento fu
esteso alla nuova media unificata. E non si trattava soltanto delle scuole: anche
le aule dei tribunali (seppure non tutti) esponevano il crocifisso.
Nel novembre 2009 la Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo
dichiarò che la presenza del crocifisso nelle scuole italiane era illegittima81. La
decisione era dovuta alla lunga battaglia di una cittadina italiana di origine
finlandese, Soile Lautsi (i cui figli andavano a scuola in Italia), che fin dal 2002
si era appellata sia alla Costituzione italiana che alla Convenzione europea. La
disputa legale continuò, con complesse questioni che interessarono un gran
numero di giudici e tribunali, e producendo anche decisioni che provavano a
individuare nel crocifisso un simbolo culturale più universale, e non soltanto
religioso.
Il giudizio di Strasburgo provocò indignazione in Italia, e in Vaticano. Lo
criticò perfino Pier Luigi Bersani, uomo del centrosinistra ed ex comunista:
“Il buon senso finisce per essere vittima del diritto. Io penso che un’antica
tradizione come il crocifisso non può essere offensiva per nessuno”82.
Particolarmente violenta fu l’opposizione dei politici della Lega Nord, uno dei
quali chiese perfino (forse provocatoriamente) l’inserimento del crocifisso
nella bandiera italiana: per loro tutto faceva parte della nuova ‘guerra all’Islam’.
L’Italia fece ricorso contro la sentenza del 2009, che è stata annullata nel 2011.
I crocifissi stanno ancora lì. Tecnicamente è un paese laico, e il cattolicesimo
non è – ufficialmente – religione di Stato, ma il suo laicismo risulta spesso
poco chiaro e confuso.

Il culto di padre Pio


Padre Pio, un cappuccino del profondo Sud – nato in Campania e vissuto in
Puglia –, sosteneva di aver ‘ricevuto’ le stimmate nel 1918. Divenne subito un
personaggio celebre, e la gente accorreva alle sue prediche. Per molti anni la
Chiesa ufficiale fu incerta su come trattare lui e il suo culto sempre più
diffuso. Si tentò, senza successo, di trasferire il frate lontano dalla sua casa, e
base di potere, nel Sud. Poi però a padre Pio fu riconosciuta una posizione
speciale, tanto che poté continuare a dir messa in latino mentre il resto delle
chiese d’Italia passava all’italiano. Miracoli e ‘stimmate’ furono ufficializzati, e
le code di gente in attesa di confessare i suoi peccati a padre Pio in persona
divennero sempre più lunghe.
Nonostante le controversie all’interno e all’esterno della Chiesa, il culto del
cappuccino continuò a crescere, soprattutto nel dopoguerra. Lo storico Sergio
Luzzatto scrive che “Padre Pio resta il santo più venerato nell’Italia del
ventunesimo secolo, di gran lunga in vantaggio – nelle preghiere dei cattolici
praticanti – non soltanto rispetto a sant’Antonio da Padova o a san Francesco
d’Assisi, ma anche rispetto alla Vergine e allo stesso Gesù di Nazareth”83. Con
i soldi portati dai devoti pellegrini che si sobbarcavano il lungo viaggio fino a
San Giovanni Rotondo in provincia di Foggia, negli anni ’50 fu costruito un
ospedale nuovo di zecca, confermando l’immagine di padre Pio come uomo
del popolo: non era soltanto un santo, ma anche un benefattore. Nel suo
importante studio, Luzzatto osserva che il culto aveva anche un lato oscuro:
stretti legami con il fascismo, e misteriose forniture di acido fenico che
potrebbero offrire una spiegazione alternativa alle ‘stimmate’.
Padre Pio morì nel 1968, ma il suo culto continuò a fiorire. Milioni di
pellegrini, italiani ma non solo, si riversano nella città e nella sua chiesa a San
Giovanni Rotondo. Nei primi anni ’90 il celebre architetto genovese Renzo
Piano progettò un imponente spazio destinato ad accoglierli; ci vollero tredici
anni per costruire la nuova chiesa, finalmente inaugurata nel 2004. Ha posti a
sedere per 6500 persone, e per 30.000 in piedi nella piazza antistante. Il
processo di santificazione di padre Pio seguì le vie brevi: venne beatificato nel
1999 e canonizzato nel 2002. Era diventato ufficialmente san Pio, ma molti
suoi seguaci continuano a utilizzare l’appellativo originale. La sua reputazione
di ‘umiltà’ pareva contrastare con quel titolo grandioso. I devoti portano i suoi
santini nel portafoglio, o sul parabrezza dell’auto: la barba bianca, la pelata, il
saio e le bende o i guanti che coprono le stimmate sono inconfondibili. Statue
del frate sono comparse all’interno e all’esterno di centinaia di chiese in tutta
Italia. Diversi papi sono scesi nel Meridione per godere della sua gloria riflessa.
Padre Pio porta soldi, e tanti. Nella sola cittadina di San Giovanni Rotondo
hanno aperto 160 alberghi. Secondo alcuni padre Pio è la maggiore attrazione
religiosa in Italia (e nel mondo) dopo Roma.
Il cattolicesimo e il modo di rapportarsi con la religione cambiano nel
tempo, e il culto e gli affari di padre Pio sono un simbolo perfetto di quella
trasformazione. Dopo il 1968, l’oggetto di maggior richiamo nella chiesa di
San Giovanni Rotondo è diventato la salma del frate. Come si legge in rete,
“Qui si può ammirare il corpo del Santo custodito in una teca di vetro, con il
volto coperto da una maschera che ne riproduce perfettamente i lineamenti. I
vestiti indossati sono quelli originali, in particolare le calze e i mezzi guanti
che San Pio usava per proteggere le stimmate e che custodiva all’interno della
sua cella”. I pellegrini possono visitare anche l’umile dimora del frate, che
contiene “l’inginocchiatoio sul quale San Pio passava ore a pregare e a soffrire,
ma anche la poltroncina, dove il frate si distendeva quando le sue sofferenze
erano troppo forti e lo travolgevano”. In città un museo delle cere riproduce
scene della vita del santo, al quale è dedicato anche un canale TV digitale (che
perlopiù trasmette riprese statiche della messa). Secondo la Chiesa, nel 2009 i
pellegrini a San Giovanni Rotondo sono stati quasi otto milioni.
Come è stato possibile che un culto del genere sia riuscito non soltanto a
sopravvivere, ma a prosperare, nel mondo presumibilmente laico del
Novecento e del Duemila, dove si divorziava, la partecipazione alle pratiche
religiose precipitava, e si aggravava la crisi delle vocazioni? Quel culto può
aiutarci a capire che il rapporto tra gli italiani e la Chiesa rimaneva forte e
radicato, a dispetto dei cambiamenti avvenuti. Nel 2016 i resti di padre Pio
sono stati esposti per una settimana a Roma, a San Pietro, per celebrare il
Giubileo straordinario della misericordia. Code interminabili di fedeli
attendevano ore per poterlo vedere. Molti, quando finalmente raggiungevano
la teca di vetro, accanto a quella del frate croato san Leopoldo Mandić, si
facevano un selfie84. Pare che papa Francesco fosse intervenuto di persona per
facilitare la traslazione. Per molti cattolici padre Pio e papa Francesco sono i
due volti della Chiesa nel XXI secolo.

1
Patrick McCarthy, The Crisis of the Italian State: From the Origins of the Cold War to the Fall of
Berlusconi and Beyond, London: Macmillan, 1997, p. 7.
2
Antonio Di Pietro, cit. in Guido Vergani, I mille giorni di Mani Pulite, “la Repubblica”, 7 dicembre
1994.
3
Presto il suffisso ‘-opoli’ sarebbe stato applicato a tutti gli scandali successivi (un po’ come il ‘-gate’
di Watergate); v. John Foot, Milano dopo il miracolo, Milano: Feltrinelli, 2003.
4
Perry Anderson, Land without Prejudice, “London Review of Books”, 24:6, 21 marzo 2002.
5
Fulvio Milone, Il forziere di Paperon de’ Poggiolini, “La Stampa”, 1° ottobre 1993.
6
Guido Passalunga, Da Milano la Lega Lombarda punta al Parlamento di Roma, “la Repubblica”, 2
luglio 1985.
7
Cit. in Gian Antonio Stella, Tribù: foto di gruppo con cavaliere, Milano: Mondadori, 2001, p. 34.
8
Sergio Romano, cit. ivi, p. 37.
9
Luciano Cheles e Lucio Sponza (a cura di), The Art of Persuasion: Political Communication in Italy from
1945 to the 1990s, Manchester: Manchester University Press, 2001, p. 6.
10
Arturo Tosi, Language and Society in a Changing Italy, Bristol: Multilingual Matters, 2000, p. 113.
11
V. Marco Belpoliti, La canottiera di Bossi, Parma: Guanda, 2012.
12
Maria Pia Pozzato, Fashion and Political Communication in the 1980s and 1990s, in Cheles e Sponza
(a cura di), The Art of Persuasion, p. 295.
13
“Se la sinistra vuole scontri, io ho 300mila uomini. I fucili sono sempre caldi”, “Corriere della
Sera”, 29 aprile 2008.
14
Luciano Cheles, Picture Battles in the Piazza: The Political Poster, in The Art of Persuasion, p. 161.
15
Carl Levy, Racism, Immigration and New Identities in Italy, in Andrea Mammone et al. (a cura di),
Routledge Handbook of Contemporary Italy, London: Routledge, p. 51.
16
Pier Paolo Giglioli, Ritual Degradation as Public Display: A Televised Corruption Trial, in Cheles e
Sponza (a cura di), The Art of Persuasion, p. 307.
17
Pino Corrias, Mani pulite, 1997. Tre parti sono disponibili su YouTube. Il programma non è mai
stato riprodotto in DVD.
18
Su uno dei canali di Berlusconi, il critico d’arte, uomo politico e comunicatore d’assalto Vittorio
Sgarbi (che divenne un personaggio televisivo in questo periodo) definì “assassini” i magistrati di
Mani pulite. Ventidue anni dopo la Cassazione confermò finalmente la sua condanna per
diffamazione.
19
http://legislature.camera.it/_dati/leg11/lavori/stenografici/stenografico/34744.pdf (accesso 27
ottobre 2017).
20
Cit. in Sergio Zavoli, C’era una volta la prima repubblica. Cinquant’anni della nostra vita, Milano:
Mondadori, 1991, p. 408.
21
Francesco Grignetti, Craxi con la scorta in TV, “La Stampa”, 1° maggio 1993.
22
Robert Lumley, The Last Laugh: Cuore and the Vicissitudes of Satire, in Cheles e Sponza (a cura di),
The Art of Persuasion, pp. 233-57.
23
Alexander Stille, Nella terra degli infedeli. Mafia e politica, Milano: Garzanti, 2007; John Dickie, Cosa
Nostra. Storia della mafia siciliana, Roma-Bari: Laterza, 2006; Jane Schneider e Peter Schneider,
Reversible Destiny: Mafia, Antimafia, and the Struggle for Palermo, Oakland: University of California
Press, 2003.
24
Enrico Deaglio, Patria. 1978-2008, Milano: Il Saggiatore, 2009, p. 367.
25
Ma non sempre; v. l’analisi in Perry Anderson, The Italian Disaster, “London Review of Books”,
36:10, 22 maggio 2014.
26
John Dickie, Falcone and Borsellino: The Story of an Iconic Photo, “Modern Italy”, 17 febbraio 2012,
p. 251. V. anche Eleanor Canright Chiari, The Whisper with a Thousand Echoes: Tony Gentile’s
Photograph of Falcone and Borsellino, “Modern Italy”, 21 aprile 2016, pp. 441-52.
27
Cit. in Dickie, Falcone and Borsellino, p. 255.
28
Chiari, The Whisper with a Thousand Echoes, pp. 441 e 443.
29
John Dickie, Mafia Republic. Cosa Nostra, camorra e ’ndrangheta dal 1946 a oggi, Roma-Bari: Laterza,
2014, p. 375.
30
Gianni Barbacetto, Cosa nostra presenta il conto, “Diario”, 26 luglio 2002.
31
Dickie, Mafia Republic, p. 351.
32
Nel 2002 Fini chiese perdono “come italiano” per le leggi antisemite. Quando visitò Israele nel
2003 si spinse anche oltre, definendo il fascismo “un male assoluto”, e le leggi antisemite “una
vergogna”. http://www.repubblica.it/online/politica/finisraele/integrale/integrale.html (accesso 27
ottobre 2017); http://www.repubblica.it/2003/k/sezioni/politica/finisr/leggi/leggi.html (accesso 27
ottobre 2017).
33
Berlusconi conservò una forte influenza sulla sua attività imprenditoriale pur dedicandosi alla
politica, anche dopo la nomina a presidente del Consiglio. Quando rinunciò al controllo formale,
conservò comunque strettissimi legami con il suo impero mediatico e sportivo (o lo affidò a parenti
e amici). La letteratura sul tema è vasta, ma v., per esempio, David Lane, Berlusconi’s Shadow: Crime,
Justice and the Pursuit of Power, London: Penguin, 2005; Alexander Stille, Sack of Rome: Media +
Money + Celebrity = Power = Silvio Berlusconi, London: Penguin, 2007; Giovanni Ruggeri, Berlusconi.
Gli affari del presidente, Milano: Kaos, 1994. Sulle analogie tra le carriere politiche e le vite personali
di Donald
Trump e Silvio Berlusconi v. John Foot, We’ve seen Donald Trump before. His name was Silvio
Berlusconi, “The Guardian”, 20 ottobre 2016.
34
Il testo del discorso è in Silvio Berlusconi, L’Italia che ho in mente. I discorsi ‘a braccio’ di Silvio
Berlusconi, Milano: Mondadori, 2000, pp. 289-92; Paul Ginsborg, Silvio Berlusconi: Television, Power
and Patrimony, London: Verso, 2005, pp. 65-6. V. anche Guido Crainz, Il paese reale. Dall’assassinio di
Moro all’Italia di oggi, Roma: Donzelli, pp. 308-9.
35
Marco Maraffi, Forza Italia, in Gianfranco Pasquino (a cura di), La politica italiana. Dizionario critico
1945-95, Roma-Bari: Laterza, 1995, p. 252.
36
Ivi, p. 253.
37
Deaglio, Patria, p. 425.
38
Donatella Della Porta e Alberto Vannucci, Corruption and Anti-Corruption: The Political Defeat of
“Clean Hands” in Italy, “West European Politics”, 30:4 (2007), pp. 830-53. Nel 2002 Paolo
Berlusconi è stato condannato per reati connessi a una discarica a Cerro Maggiore.
39
Seguì una serie di sigle minori, fino al ritorno del Partito socialista nel 2009, ma nessuna riuscì a
raggranellare più di un pugno di voti.
40
“Corriere della Sera”, 22 novembre 1994.
41
http://www.archivioantimafia.org/sentenze2/andreotti/andreotti_accusa.pdf (accesso 8 febbraio
2017).
42
Salvatore Lupo, Andreotti, la mafia, la storia d’Italia, Roma: Donzelli, 1996; Giuliano Ferrara e Lino
Jannuzzi, Il processo del secolo. Come e perché è stato assolto Andreotti, Milano: Mondadori, 2000.
43
Richard Bosworth, Italian Venice: A History, New Haven-London: Yale University Press, 2014,
pp. 231-33.
44
Cit. in Alvise Fontanella, Il ritorno della Serenissima. 1997. L’insorgenza indipendentista, Venezia:
Editoria universitaria, 2005, p. 33.
45
Pareva fosse finita lì. Ma ci fu un seguito. Nel 2014, diciassette anni dopo il fatto, furono effettuati
diversi arresti in Veneto per sospetta attività sovversiva. Tra questi c’era uno degli assalitori della
prima ora, e c’era anche un altro finto carro armato. Pare progettassero di rioccupare piazza San
Marco. Tra gli arrestati c’era Franco Rocchetta, sottosegretario agli Esteri nel governo Berlusconi
del 1994. Il processo si è aperto nel 2017: qualcuno rischia fino a quindici anni.
46
Cit. in Gianni Barbacetto et al., Mani pulite. La vera storia, Roma: Editori Riuniti, 2003, p. 678.
Non pare che le indagini di Mani pulite abbiano prodotto una rigenerazione morale della politica
italiana. Il bilancio dell’intervento contro la corruzione è desolante, ma soprattutto si sono aperte
profonde fratture nel rapporto della magistratura con la ‘nuova’ classe politica, che tenta spesso di
limitarne l’autonomia. Della Porta e Vannucci, Corruption and Anti-Corruption, p. 831.
47
Cit. in Marco Travaglio, La scomparsa dei fatti. Si prega di abolire le notizie per non disturbare le opinioni,
Milano: Il Saggiatore, 2010, p. 86.
48
Ha scritto anche un libro intitolato Forza Italia Addio!, Firenze: Loggia de’ Lanzi, 1998.
49
Cit. in Rosario Bentivegna e Alessandro Portelli, Achtung Banditen. Prima e dopo Via Rasella,
Milano: Mursia, 2004, p. 205.
50
Fondamentale, in questa prospettiva, è stato il pionieristico Una guerra civile di Claudio Pavone
(Torino: Bollati Boringhieri, 1991). Un altro momento fondante è dato dal convegno
internazionale In Memory, ad Arezzo nel 1994, che ha prodotto due libri importanti – Giovanni
Contini, La memoria divisa, Milano: Rizzoli, 1997; Leonardo Paggi et al., Storia e memoria di un
massacro ordinario, Roma: manifestolibri, 1996 – oltre ad ispirare l’affascinante ricerca di Paolo
Pezzino su un’altra strage tedesca vicino a Pisa, Anatomia di un massacro. Controversia sopra una strage
tedesca, Bologna: Il Mulino, 2007. Su tutto questo v. John Foot, Fratture d’Italia, Milano: Rizzoli,
2009.
51
Kappler, che era malato, morì cinque mesi dopo, in patria. Le conseguenze politiche della sua fuga
furono imbarazzanti, e il ministro della Difesa si dimise. Pare che le guardie non lo stessero
sorvegliando, ma non è chiaro se fosse dovuto a un ordine dall’alto, o semplicemente al fatto che si
era nel pieno delle ferie estive.
52
Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Roma: Donzelli,
1999.
53
Adriana Montezemolo, cit. ivi, p. 352.
54
Ivi, p. 222.
55
Tutto il materiale è disponibile online, https://archivio.camera.it/patrimonio/main-
page/commissione-sulle-cause-occultamento-fascicoli-relativi-crimini-nazifascisti-2003-2006
(accesso 9 giugno 2019).
56
Filippo Focardi, La questione dei processi ai criminali di guerra tedeschi in Italia: fra punizione frenata,
insabbiamento di Stato e giustizia tardiva (1943-2005), “Storicamente”, 2:3, 2006,
http://storicamente.org/focardi_shoa (accesso 27 ottobre 2017); Marco De Paolis e Paolo Pezzino,
La difficile giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia (1943-2013), Roma: Viella, 2016;
Robert Gordon, The Holocaust in Italian Culture, 1944-2010, Stanford: Stanford University Press,
2012.
57
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/parla-lavvocato-dellex-ss-i-miei-18-anni-priebke-
1068219.html (accesso 6 febbraio 2017). I giornalisti avrebbero poi scoperto in quale cimitero;
http://espresso.repubblica.it/archivio/2015/07/09/news/nel-cimitero-segreto-di-priebke-1.220717
(accesso 27 ottobre 2017).
58
http://www.treccani.it/enciclopedia/altiero-spinelli_(Enciclopedia-Italiana) (accesso 16 gennaio
2017).
59
Alessandro Portelli, Città di parole, Roma: Donzelli, p. 199.
60
Mauro Valeri, Che razza di tifo. Dieci anni di razzismo nel calcio italiano, Roma: Donzelli, 2010.
61
Maurizio Ambrosini, Immigration in Italy: Between Economic Acceptance and Political Rejection,
“International Migration & Integration”, 14, 2013, p. 175.
62
John Foot, The Creation of a Dangerous Place: San Salvario, Turin, 1990-1999, in Russell King (a
cura di), The Mediterranean Passage: Migration and New Cultural Encounters in Southern Europe,
Liverpool: Liverpool University Press, 2001, pp. 206-30.
63
Don Luigi Ciotti, “Corriere della Sera”, 22 luglio 1997.
64
Meo Ponte, L’hanno fatto affogare. E ridevano, “la Repubblica”, 20 luglio 1997.
65
Cit. in Ambrosini, Immigration in Italy, p. 176.
66
Alessandro Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Milano: Feltrinelli,
2004.
67
Cit. in Ambrosini, Immigration in Italy, p. 191.
68
Maurizio Giannattasio, Bossi: abbiamo chiuso la moschea di Milano, “Corriere della Sera”, 5 luglio
2008.
69
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2006/09_Settembre/15/rabbia1.shtml (accesso 6
febbraio 2017).
70
È morta il 15 settembre 2006. Nel 2015 è stata realizzata una mini-serie televisiva in due puntate
sulla sua vita.
71
Charles Burdett, Italy, Islam and the Islamic World: Representations and Reflections, from 9/11 to the
Arab Uprisings, Oxford: Peter Lang, 2016, p. 31.
72
Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, “Corriere della Sera”, 29 settembre 2001.
73
http://www.newyorker.com/magazine/2006/06/05/the-agitator (accesso 6 febbraio 2017).
74
Umberto Eco, Le guerre sante: passione e ragione, “la Repubblica”, 5 ottobre 2001.
75
A tutt’oggi (2019) Milano, con i suoi circa 100.000 musulmani, ancora non dispone di una
moschea.
76
John Pollard, Catholicism in Modern Italy: Religion, Society and Politics Since 1861, London:
Routledge, 2008, p. 169.
77
http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2015-11-15/il-boom-musulmani-italia-passeranno-
26percento-54percento-popolazione-entro-2030-131517.shtml?uuid=ACnOzbaB (accesso 7
febbraio 2017).
78
Charles Burdett, Representations of the Islamic Community in Italy 2001-2011, “Journal of Romance
Studies”, 13:1, 2013, p. 1.
79
Cit. in Elahe Izadi, Pope Francis washes the feet of Muslim migrants, says we are “children of the same
God”, “Washington Post”, 25 marzo 2016.
80
Gabriele Turi, Una croce senza Cristo, “Passato e Presente”, 81, 2010, pp. 93-104.
81
V. European Court of Human Rights rules crucifixes are allowed in state schools, “The Guardian”, 18
marzo 2011; e religionclause.blogspot.com/2011/03/European-courts-grand-chamber-
upholds.html (accesso 3 gennaio 2018).
82
Pier Luigi Bersani, cit. in Strasburgo, no al crocifisso in aula. Il governo italiano presenta ricorso, “la
Repubblica”, 3 novembre 2009.
83
Sergio Luzzatto, Padre Pio, Torino: Einaudi, 2009, p. 1.
84
Paolo Conti, Un selfie con Padre Pio. Tutti in coda per il santo, “Corriere della Sera”, 4 febbraio 2016.
6.
L’Italia nel XXI secolo:
crisi, post-democrazia e il trionfo del populismo

È un uomo che ha risorse inimmaginabili,


che ha della verità un concetto del tutto personale, per cui
la verità è quello che dice lui... a forza di dire bugie, ci crede.
Indro Montanelli su Silvio Berlusconi1

La finzione è meglio della realtà.


Silvio Berlusconi2

Tutta la vita politica italiana ruota attorno a Silvio Berlusconi: a lui sono
rivolti gli sguardi, i pensieri, le speranze, le paure.
Maurizio Viroli3

L’apogeo di Berlusconi: 2001-6


La vittoria di Berlusconi nel 2001 – che avrebbe prodotto un governo stabile e
duraturo – comportò anche delle scelte politiche concrete. L’alleanza vincente
del 1994 era stata un patto frammentario, più che un sistema di accordi
effettivi. Allora l’obiettivo era mettere insieme un partito regionalista con uno
nazionalista, e Berlusconi – così come Bossi e Fini – non aveva alcuna
esperienza di governo. Né aveva mai lavorato all’interno, o nei dintorni, delle
strutture del Parlamento. Le cose erano cambiate, nel lungo periodo prima
che gli si presentasse l’occasione di tornare al potere, nel 2001. Faceva parte
del sistema politico ormai da sette anni, e le sue alleanze avevano basi solide.
Coalizioni di centrodestra governavano sia a livello locale che regionale.
Erano pronti, e Berlusconi non era disposto a lasciare che il 1994 si ripetesse.
Nel 2001 i suoi avversari erano indeboliti dalla spaccatura a sinistra del 1998,
che aveva portato alla caduta del primo governo Prodi. Rifondazione
comunista si presentava da sola al Senato; sul resto era stato concordato un
patto di ‘non belligeranza’. Il leader del centrosinistra era allora Francesco
Rutelli, bell’uomo ma politico inconcludente. Berlusconi spiazzò gli
avversari, stando al centro della scena per l’intera campagna e sfruttando
appieno la sua potenza mediatica, nonostante i nuovi limiti normativi.
Nell’aprile 2001 fece stampare milioni di copie di un opuscolo con la sua
‘biografia’ (titolo Una storia italiana) che venne spedito in tutte le case d’Italia.
Con l’avvicinarsi del voto, Berlusconi tirò fuori un altro coniglio dal cilindro
– un trucco che avrebbe ripreso nelle campagne successive.
L’8 maggio 2001, dal vivo in orario di massimo ascolto, Bruno Vespa
consentì a Berlusconi di presentare quello che lui chiamava il ‘contratto con
gli italiani’. Un accesso diretto alla comunicazione politica con gli spettatori
(su un canale di servizio pubblico) che non aveva precedenti, e prometteva
male per il futuro. Un servilissimo Vespa azzardava ogni tanto una blanda
critica, ma sapeva bene da che parte tirava il vento. Il ‘contratto’ era esposto
anche su un foglio di grande formato che Berlusconi aveva portato per
l’occasione. Cominciava così: “Contratto con gli italiani. Tra Silvio
Berlusconi, nato a Milano il 29 settembre 1936, leader di Forza Italia e della
Casa delle Libertà, che agisce in accordo con tutti gli alleati della coalizione, e
i cittadini italiani si conviene e si stipula quanto segue”. Seguivano cinque
promesse: tagli delle tasse (con cifre precise); repressione della criminalità;
aumenti delle pensioni; 1,5 milioni di nuovi posti di lavoro (un vecchio
ritornello del 1994, con mezzo milione aggiunto per buona misura); e infine
investimenti pubblici per un Piano decennale per le Grandi opere: “strade,
autostrade, metropolitane, ferrovie, reti idriche, e opere idro-geologiche per
la difesa dalle alluvioni”. Voleva sembrare un ‘vero’ contratto. Berlusconi
prometteva che se almeno quattro dei cinque impegni non fossero stati
rispettati entro cinque anni dall’elezione, si sarebbe ritirato dalla scena politica.
“Il Contratto”, concludeva, “sarà reso valido e operativo il 13 maggio 2001
con il voto degli elettori italiani”.
Gli fu permesso di leggere l’intero testo (su carta ‘intestata’ speciale), con
Vespa che gli copriva le spalle (in abito chiaro, per non fare concorrenza al
solito doppiopetto scuro del padrone). Vespa recitava il triplo ruolo di spalla,
compare e notaio. C’era perfino una speciale scrivania (come per la ‘discesa in
campo’ del 1994) per la firma. Lo studio Rai era stato completamente
modificato per l’evento. Berlusconi firmò il documento con lo svolazzo, e
annunciò che la sua vittoria era “certa”.
Il contratto non fu rispettato. Secondo alcuni, non fu realizzata nessuna delle
cinque promesse4. Il che ovviamente non impedì a Berlusconi di ripresentarsi
alle elezioni del 2006 e del 2008. Fu un esempio audace e rutilante di teatro
politico: un appello personale diretto al ‘popolo’. Il centrosinistra non aveva
nulla di lontanamente comparabile a questo livello di marketing. Si potrebbe
dire che non aveva mai compreso la potenza della televisione. Cinque giorni
dopo gli italiani andarono alle urne.
La fiducia di Berlusconi trovò conferma il 13 maggio 2001: fu una vittoria
travolgente. La sua coalizione conquistò 18,4 milioni di voti, mentre la fragile
alleanza di centrosinistra di Rutelli arrivò appena a 13 milioni. Con 1,9
milioni di voti Rifondazione raggranellò soltanto una manciata di seggi5.
Berlusconi disponeva di una comoda maggioranza in entrambe le Camere. Il
1994 non si sarebbe ripetuto. Nasceva l’era di Berlusconi, e molti
cominciarono a ripensare alla Prima repubblica quasi con nostalgia: almeno i
democristiani avevano dato prova di ‘senso dello Stato’. Certo, il vecchio
sistema era corrotto e disonesto, ma non si era mai fatto vanto della corruzione
e della disonestà. La volgarità kitsch dell’era Berlusconi era dura da digerire6.
Dopo il 2001, con una maggioranza stabile, Berlusconi si preparava a
governare per l’intera durata della legislatura, un fatto senza precedenti nel
dopoguerra italiano. Prima degli anni ’80, nella Prima repubblica, il potere era
sì centralizzato, ma non eccessivamente personalizzato. Berlusconi rimase in
carica per oltre 1400 giorni – battendo il record dell’amico Bettino Craxi,
unico predecessore che avesse governato per un periodo consistente senza
interruzioni. Sarà presidente del Consiglio per otto dei dieci anni successivi
(2001-6 e 2008-11), per un totale complessivo (compreso il 1994) di oltre
3300 giorni al potere. Due uomini soltanto avevano governato il paese più a
lungo dopo l’Unità nell’Ottocento: Benito Mussolini (che non doveva
preoccuparsi troppo delle elezioni) e Giovanni Giolitti.
Il primo grande impegno internazionale del presidente del Consiglio
Berlusconi nel 2001 era previsto a Genova, con il vertice del G8.

Genova 2001: i giorni dell’ira,


della violenza, della morte
Il vertice si aprì con una festa, mentre i manifestanti del social forum
organizzarono un concerto di Manu Chao. Nonostante il montare della
tensione, gli allarmi, le misure di sicurezza e la chiusura della ‘zona rossa’,
l’incontro del G8 a Genova tra il 19 e il 22 luglio 2001 pareva procedere senza
eccessivi problemi. I contestatori avevano previsto numerose contro-
manifestazioni e altri eventi, e la città era presidiata dalle forze dell’ordine. Il
20 luglio, all’improvviso, le cose presero una brutta piega. La polizia caricò
ripetutamente in tutta la città, aggredendo i manifestanti, che spesso tenevano
le mani in alto in segno di passività – c’erano stati attacchi contro le banche e
altri ‘simboli’ del capitalismo da parte di personaggi mascherati che i media
chiamavano i ‘black bloc’. Strano a dirsi, quel giorno i black bloc
imperversarono senza quasi incontrare la polizia. I due giorni rimanenti del
vertice di Genova furono una litania di violenze e tensioni efferate.
Intorno alle 5,30 del pomeriggio del 20 luglio (dopo una giornata di scontri),
in piazza Alimonda, il ventitreenne Carlo Giuliani fu ucciso da un colpo di
pistola mentre si avvicinava a una camionetta dei carabinieri tenendo in mano
un estintore. Pare che il colpo fosse partito dall’arma di un carabiniere di leva,
la recluta Mario Placanica. Nella fretta di levarsi di mezzo, la camionetta passò
sopra il corpo di Giuliani. L’indagine che seguì prosciolse Placanica da ogni
imputazione: il proiettile avrebbe colpito Giuliani di rimbalzo, e comunque
lui aveva agito per ‘legittima difesa’. Non si arrivò nemmeno al processo. La
versione ufficiale fu contestata – e continua ad esserlo – dalla famiglia e dagli
avvocati difensori. Non ufficialmente, piazza Alimonda è oggi piazza Carlo
Giuliani7.
Qualcuno disse poi che a Genova i diritti democratici erano stati
temporaneamente sospesi. Nei giorni delle dimostrazioni fu aperto un centro
di detenzione non ufficiale nella caserma di Bolzaneto, in periferia. Qui molti
arrestati furono trattenuti a lungo, senza alcuna assistenza per i feriti, anche
gravi; si verificarono violenze fisiche e psicologiche, e dai cellulari dei
poliziotti risuonavano inni fascisti. Molti dei fermati erano stranieri, e non
parlavano italiano.
Bolzaneto fu un centro di tortura, fisica e mentale. A nessuno fu permesso di
parlare con un avvocato. Una donna inglese venne insultata, e costretta a stare
in piedi per più di un’ora contro un muro, col polso rotto fasciato. Una
giovane tedesca rimase a piangere in cella per ore, perdendo sangue dai denti
spaccati. Andando al bagno i ‘detenuti’ passavano davanti a una stanza con la
porta chiusa da un lenzuolo, dalla quale ogni tanto uscivano grida di dolore. A
qualcuno rasarono la testa. La democrazia e la legalità furono ripristinate
soltanto con il trasferimento dei fermati di Bolzaneto nelle carceri ordinarie,
dove trovarono avvocati e cure mediche adeguate.
L’atto finale di questa tragica vicenda avvenne all’interno e all’esterno della
scuola Diaz, destinata a dormitorio per i manifestanti, molti dei quali
venivano dall’estero. La sera del 21 luglio si stavano sistemando per dormire,
traumatizzati dalla giornata di violenza cui avevano assistito. Intorno alla
mezzanotte centinaia di poliziotti e carabinieri in assetto antisommossa (più di
cinquecento) irruppero nell’edificio – prima di entrare, in strada, picchiarono
selvaggiamente il giornalista britannico Mark Covell.
Dentro, fu un macello. Donne e uomini inermi bastonati, e novantatré
arresti. Molti finirono in ospedale. Pavimenti e pareti della scuola schizzati di
sangue, processioni di barelle che portavano i feriti alle ambulanze. Ci sono
filmati che mostrano ufficiali di polizia che introducono bottiglie Molotov e
magliette nere nell’edificio. Tutti i novantatré fermati furono rilasciati, ma
non fu mai aperta un’inchiesta pubblica. Qualche magistrato coraggioso
continuò a indagare nonostante i depistaggi e l’ostilità. Qualche funzionario fu
condannato per le violenze nella scuola e a Bolzaneto, e qualche dimostrante
fu perseguito per i fatti che le avevano precedute. Le violenze di Genova, e le
loro conseguenze, furono un’esperienza terribile per chi le subì e le vide, e
segnarono un inizio tutt’altro che promettente per la coalizione di
centrodestra8.

Ad personam: Berlusconi al potere


È una degenerazione della democrazia in demagogia.
Maurizio Viroli9

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale


e sono eguali davanti alla legge.
Art. 3 della Costituzione italiana, 194810
Berlusconi non cercava il potere politico per arricchirsi: era già ricchissimo
quando si candidò. Nel 2003 la rivista “Forbes” calcolava che la sua fortuna
valesse intorno ai 5,9 miliardi di dollari – era il quarantacinquesimo tra i più
ricchi del mondo. Come spiega Perry Anderson, “ha rovesciato il tipico
percorso dalla carica al profitto, ammassando una fortuna prima di assumere
una carica, che poi ha utilizzato non tanto per incrementare la sua ricchezza
quanto per tutelarla, e tutelare se stesso, da una sequenza di imputazioni
penali per i modi in cui l’aveva acquisita”11. Berlusconi diceva spesso di essere
il portatore di un grande progetto per l’Italia. Ma era davvero così? Non gli
piaceva il ‘comunismo’ – qualsiasi cosa significasse la parola nel 2001 – ma
non era certo un ideologo del libero mercato e delle privatizzazioni. Preferiva
evitare, se possibile, di imporre qualsiasi riforma impopolare – purché la
riforma non toccasse direttamente i suoi interessi personali. Il suo ‘Contratto’
con gli italiani aveva qualcosa di vagamente keynesiano: investimenti pubblici,
tagli alle tasse, aumenti delle pensioni. Romano Prodi e i governi tecnici di
emergenza (1993-94 e dopo il 2011) hanno privatizzato più di lui.
Berlusconi usava il potere per diventare più potente, e si beava della nuova
fama e delle entrature che gliene derivavano. Non si faceva problemi per
quello che secondo molti era ‘conflitto di interessi’: per lui non c’era conflitto,
solo una serie di opportunità. Quel conflitto riusciva a presentarlo come un
dato positivo, un punto a suo favore. Era “troppo ricco” per lasciarsi
corrompere. Aveva “sacrificato” al bene dell’Italia una carriera imprenditoriale
di successo. Come scrive Umberto Eco, aveva imposto “l’identificazione del
partito, del paese e dello Stato con una serie di interessi aziendali”. Era
arrivato cioè a una “convergenza di interessi... facendo accettare al paese l’idea
che i suoi personali interessi coincidano con quelli della comunità
nazionale”12. Si apriva così la fase dell’uso personale dello Stato.
Il tempo al potere di Berlusconi dopo il 2001 fu contrassegnato da una serie
di tentativi di utilizzare lo Stato e il Parlamento a favore dei suoi affari e della
sua posizione giudiziaria, consolidando ulteriormente il suo potere politico.
Leggi e decreti che la stampa soprannominò ad personam in quanto parevano
fatte apposta per favorire nei modi più diversi la persona di Berlusconi, le sue
aziende, i suoi amici.
In qualche caso si trattava dei suoi problemi giudiziari specifici – decreti sul
falso in bilancio, per esempio (nel 2001 era coinvolto in cinque procedimenti
relativi a questo reato), o sulle rogatorie internazionali per le autorità fiscali e
di polizia (che minacciavano i suoi depositi e interessi offshore). Altri erano
attacchi diretti all’attività della magistratura, come il trasferimento di certi
processi a sedi più accomodanti, lontano dai giudici che considerava suoi
nemici (in particolare quelli di Milano). Altri ancora favorivano gli interessi di
Berlusconi nello sport, come il cosiddetto ‘decreto salvacalcio’ del 2002, che
concedeva alle società anni di dilazione nel pagamento delle imposte dovute.
E soprattutto, ci fu la riduzione dei tempi di prescrizione, che portò
direttamente all’annullamento di alcuni dei suoi processi.
Oltre a queste piccole prodezze di legislazione ‘personale’, Berlusconi tentò
anche – in due occasioni – di fare l’en plein. Voleva per sé, e altre figure
istituzionali di vertice, l’immunità completa – se non per i delitti più gravi. I
relativi provvedimenti sarebbero serviti a disinnescare il conflitto con la
magistratura, che a suo dire aveva motivazioni politiche. Per molti,
comunque, era chiara la sua intenzione di usare le leggi per porsi al di sopra
della legge.
Il primo affondo verso l’immunità prese il nome piuttosto magniloquente di
‘Lodo Schifani’ (2003). Proponeva la sospensione degli eventuali
procedimenti in atto contro le cinque massime cariche dello Stato per tutta la
durata dell’incarico – ovviamente una di queste era occupata proprio da
Berlusconi. Questa è la parte essenziale del testo: “Non possono essere
sottoposti a processi penali, per qualsiasi reato anche riguardante fatti
antecedenti l’assunzione della carica o della funzione fino alla cessazione delle
medesime, il Presidente della Repubblica, il Presidente del Senato, il
Presidente della Camera dei Deputati, il Presidente del Consiglio dei
Ministri, il Presidente della Corte Costituzionale”. Per buona fortuna
dell’Italia, la sua Costituzione è un documento solido. Dichiara
esplicitamente, per esempio, che “la legge è eguale per tutti”; e comprende
una clausola che rende obbligatoria l’azione penale – a scanso di favori politici
da parte dei magistrati. I provvedimenti per l’immunità di Berlusconi furono
respinti dalla Corte costituzionale.
Nel 2008, dopo un’ulteriore vittoria elettorale, ci riprovò. Questa volta le
persone (o meglio, le cariche) oggetto di ‘immunità’ erano solo quattro. Così
proponeva il decreto (noto al tempo come ‘Lodo Alfano’): “1. Salvi i casi
previsti dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali nei confronti
dei soggetti che rivestono la qualità di Presidente della Repubblica, di
Presidente del Senato della Repubblica, di Presidente della Camera dei
deputati e di Presidente del Consiglio dei ministri sono sospesi dalla data di
assunzione e fino alla cessazione della carica o della funzione. La sospensione è
applicata anche ai processi penali per fatti antecedenti l’assunzione della carica
o della funzione”. Berlusconi e i suoi avvocati vedevano una buona possibilità
di far passare questa formula modificata alla Corte costituzionale. Avevano
provato ad evitare i trabocchetti del Lodo 2003, esercitando pressioni sui
giudici della Corte – due dei quali furono perfino invitati a cena nella villa di
Arcore. Ma ancora una volta si sbagliavano: la Corte tenne duro.
Nondimeno, sul piano politico e culturale era quantomeno preoccupante
che questi decreti assurdi e senza precedenti venissero votati dal Parlamento e
firmati dal presidente della Repubblica. All’interno dell’alleanza erano pochi –
anche nella Lega – quelli che non obbedivano a Berlusconi. Aveva costruito
un partito personale, imprenditoriale, e su quell’organizzazione e i suoi alleati,
e dunque sul Parlamento stesso, esercitava un controllo quasi totale.
Berlusconi sfruttò il Lodo Alfano per tre diversi processi, prima del verdetto
della Corte costituzionale. A volte il suo Parlamento faceva pensare a un
feudo personale.
Decreti e clausole meno smaccatamente ‘personali’ in favore di Berlusconi si
intrufolavano spesso nei provvedimenti più ampi, o nelle leggi di bilancio –
facilitazioni per il settore delle comunicazioni, o incentivi per l’acquisto di
decodificatori per il digitale (venduti da suo fratello Paolo). Molti di questi
articoli, o clausole, erano opera dei suoi avvocati, alcuni dei quali erano stati
ricompensati con un seggio in Parlamento. In linea di massima, a Berlusconi il
Parlamento serviva soltanto quando poteva usarlo a proprio vantaggio: stava in
aula di rado, per lui era “tempo sprecato”.
Questi provvedimenti provocavano proteste, sulla stampa e in piazza, oltre
che in Parlamento, ma il centrodestra non mancava comunque di levare cupe
lamentazioni ad ogni decisione che lo contrastava – minacciando la legittimità
sia della Costituzione che della Corte costituzionale. Berlusconi non aveva
tempo da perdere con la democrazia rappresentativa o parlamentare: lui si
appellava direttamente al ‘popolo’. Secondo il politologo Giovanni Sartori,
dopo il voto sull’immunità del 2008, “qui siamo al sultanato, alla peggiore
delle corti”13.
Prendendo spunto da Sartori, lo storico Maurizio Viroli pubblicò uno studio
sconvolgente su Berlusconi al potere, intitolato La libertà dei servi. Presentava il
circolo ristretto intorno al capo come una corte: “una forma di potere
caratterizzato dal fatto che un uomo sta al disopra e al centro di un numero
più o meno grande di individui – i cortigiani – che dipendono da lui per avere
e conservare ricchezza, status e fama”14. Berlusconi sapeva usare “il vecchio
trucco di sedurre il popolo dicendogli che è onnipotente e che nessuno deve
limitare il suo... potere”. Viroli concludeva che “dove si è formata la corte
non può esserci libertà del cittadino”15. Vennero approvati almeno
trentacinque decreti ad personam tra il 1994 e il 2011 (anche se non tutti
divennero legge). Berlusconi era circondato da un’accozzaglia di ex
democristiani, ex socialisti, ex comunisti, regionalisti, ex fascisti, dipendenti
delle sue aziende e avvocati. A guardarla, sorprende che questa coalizione sia
sopravvissuta tanto a lungo, e il tasso di ricambio tra gli alleati era altissimo: il
minimo accenno di tradimento veniva punito con rigore.
In politica estera, da bravo sultano, Berlusconi amava farsi bello davanti agli
altri potenti della terra. Andava particolarmente d’accordo con Vladimir Putin
e George W. Bush, nonché – parrebbe – con Tony Blair. Ma Angela Merkel
non lo sopportava, e nessuno dimentica il grave imbarazzo del luglio 2003,
quando si lasciò andare a insultare l’intero Parlamento europeo. La sua idea di
politica estera era puro spettacolo. Il 6 aprile 2009 un forte terremoto scosse la
città dell’Aquila. Ci furono 309 morti (compresa una bambina non nata).
Otto studenti morirono nel crollo di un ostello, già identificato come ‘a
rischio’ in caso di sisma. Silvio Berlusconi colse subito l’opportunità di
comparire sotto i riflettori.
Per prima cosa decise di spostare dalla Sardegna all’Aquila il previsto vertice
del G8 – erano già stati spesi milioni per ospitare i leader del mondo alla
Maddalena, ma le strutture costruite per il vertice sull’isola non furono mai
inaugurate. Non che a Berlusconi importasse molto dell’Aquila; sapeva però
che le macerie della città sarebbero state molto più efficaci come sfondo per le
sue foto con Barack Obama e gli altri. Quanto alla ricostruzione, voleva si
identificasse con la sua persona – visitò più volte il luogo del disastro, facendo
molte promesse16.
In termini più generali, Berlusconi considerava lo Stato come una risorsa per
ampliare o consolidare il suo potere. In caso di incertezza, comprava le
persone – promettendo poltrone nelle istituzioni. Lo spoils system non era
certo una novità, ma con Berlusconi divenne più esplicito, un elemento
accettabile del corso delle cose. Sapeva che i sostenitori apprezzavano il suo
potere di multimilionario e magnate delle televisioni, e ora poteva fare e
disfare carriere in un gran numero di ambiti e istituzioni. Per lui una
conferenza stampa non era un momento in cui i giornalisti potevano fargli
qualche domanda: era soltanto l’ennesima occasione di fare spettacolo. Ogni
tanto un giornalista coraggioso gli teneva testa, e in genere veniva subito
umiliato.
Altre tattiche erano più turpi: diffamazione e denigrazione di singoli
individui, e tra questi i magistrati, sui giornali, sui periodici e in televisione, e
diffusione di ‘dossier’ infamanti. Le commissioni parlamentari d’inchiesta,
destinate un tempo a indagare su aspetti fondamentali della vita italiana come
la mafia o il terrorismo, ora venivano utilizzate a scopo puramente politico.
Ne fu costituita una su un presunto scandalo per un contratto per le
telecomunicazioni legato al centrosinistra, e un’altra sui vecchi rapporti dei
comunisti italiani con l’Unione Sovietica.
Contro Berlusconi
La ‘discesa in campo’ e la presa di potere di Silvio Berlusconi incontrarono la
resistenza di diverse forze, interne ed esterne alla società italiana. In molti casi,
l’opposizione veniva dalle istituzioni – insegnanti, studenti, magistrati – ma
era forte anche nella società civile, e a livello internazionale. Le donne si
organizzavano per difendere i loro diritti dall’ostilità di Berlusconi. Gli
oppositori denunciavano i conflitti di interesse, le leggi ad personam, la
manipolazione della democrazia, e la sua condotta personale. Nel periodo
iniziale assunse grande rilievo la protesta antifascista – le manifestazioni a
Milano del 25 aprile 1994 ne furono il momento più intenso.
Per quanto spettacolari, questi movimenti furono spesso effimeri. Nel
gennaio 2002, con Berlusconi al governo di una coalizione che appariva
stabile, una serie di piccoli gruppi spontanei confluì in quello che prese il
nome di movimento dei ‘girotondi’. L’inizio fu la ‘marcia dei professori’ a
Firenze, guidata dallo storico Paul Ginsborg e dal geologo Francesco Pardi. A
Roma si formarono catene umane di protesta davanti al Palazzo di giustizia –
da cui il nome ‘girotondi’. Si impegnò anche il regista Nanni Moretti,
criticando la fiacchezza dell’opposizione del centrosinistra ufficiale a
Berlusconi. Nel settembre 2002 si tenne a Roma una manifestazione
grandiosa – si parlò di circa un milione di persone. Paolo Ceri l’ha definita “la
più grande dimostrazione autoconvocata nella storia della Repubblica”17.
Molti di questi movimenti e gruppi di discussione sopravvissero a livello
locale, ma dopo il 2002 quello nazionale si andò spegnendo. Ci sarebbero stati
altri movimenti sociali contro Berlusconi nel periodo successivo, ma nessuno
con la portata e la potenza di quanto si vide in quell’anno.
L’opposizione si rafforzò durante l’intervento dell’Italia nella guerra in Iraq.
La maggioranza degli italiani era contraria al conflitto, come testimoniavano le
selve di bandiere arcobaleno della pace che sventolavano in tutto il paese. Dal
momento dell’invasione, le dimostrazioni di protesta furono continue. Il 12
novembre 2003 l’Italia subì la più grave perdita di vite umane in un fatto
militare dalla fine della Seconda guerra mondiale. Un attacco suicida contro
una MSU (Multinational Specialized Unit) dei carabinieri a Nassiriya in Iraq
provocò ventotto morti: dodici carabinieri, cinque soldati italiani, due civili
italiani e nove civili iracheni. Per le vittime italiane si tennero solenni funerali
a Roma, e il 12 novembre divenne la ‘Giornata del ricordo dei caduti militari
e civili nelle missioni internazionali’. In loro onore si sono intitolate vie e
piazze in tutto il paese – ma come tante altre memorie in Italia, anche questa è
contestata, politicizzata e divisa.

La seconda guerra con la magistratura


Continuava l’opposizione anche all’interno delle istituzioni, e delle strutture
dello Stato. Nel gennaio 2002, all’inaugurazione dell’anno giudiziario a
Milano, il potente magistrato Francesco Saverio Borrelli – tra i protagonisti
delle inchieste di Mani pulite – prese apertamente posizione di fronte ai
colleghi. A proposito delle riforme che venivano proposte, Borrelli sosteneva
che “le riforme annunciate, meglio minacciate con trasparenti intenti punitivi
verso una magistratura certamente non al massimo dell’efficienza, ma
altrettanto certamente indipendente, ben poco hanno a che fare con
l’efficienza... si è tentato... di frapporre ostacoli, con la legge sulle rogatorie e
con il mandato di arresto europeo e l’orchestrazione di campagne di rabbiosa
informazione”. Borrelli concludeva con un’espressione che fu più volte
ripresa, risalente ai tempi della Prima guerra mondiale: occorreva “resistere,
resistere, resistere”. I fronti erano schierati: alleati e ministri di Berlusconi
abbandonarono la sala per protesta.
L’invito di Borrelli a ‘resistere’ segnò l’inizio di una nuova fase nella lunga
battaglia tra il politico-imprenditore Silvio Berlusconi e la magistratura, che
infuria da oltre vent’anni. Interi libri sono stati dedicati ai più minuscoli
dettagli di questa ‘guerra’, che appassionò l’Italia (e in una certa misura, il resto
del mondo); migliaia di giornate passate ad analizzare i processi, le prove, i
tempi di prescrizione, le deposizioni dei testimoni, i conti bancari, i bilanci e
la contabilità, le intercettazioni telefoniche. Gli avvocati (e Berlusconi ne
aveva una squadra) si arricchivano sull’onda di quei procedimenti
interminabili.
E quanto più duravano i processi, tanto meglio andavano le cose – per
Berlusconi. I tempi di prescrizione erano un elemento chiave di questa
‘guerra’. In Italia i processi hanno un limite di tempo, che dipende dal tipo di
reato: tirando abbastanza in lungo, è possibile evitare la condanna (i giudici
possono determinare comunque le modalità del reato, ma non sanzionarne la
colpa). Era anche una battaglia tra le istituzioni. Berlusconi sostenne spesso di
non poter presenziare a processi o udienze a causa dei suoi impegni
istituzionali (un ottimo espediente per prendere tempo); gli scontri su queste
‘assenze giustificate’ e sui tempi della prescrizione furono continui.
Alcuni processi si salvarono per il rotto della cuffia, ma risultò evidente che
ai giudici qualche volta non dispiaceva che il tempo scadesse, liberandoli dalle
implicazioni politiche delle loro decisioni. Berlusconi, i suoi sodali, gli alleati
politici e i suoi mezzi di comunicazione lanciavano attacchi continui contro i
magistrati, sul piano personale oltre che istituzionale. Circolavano i dossier
(come per Di Pietro) e le voci diffamatorie. Alla straordinarietà di queste
vicende politico-giudiziarie contribuiva ovviamente il fatto che Berlusconi era
presidente del Consiglio, capo di uno dei più potenti imperi mediatici
d’Europa, e presidente di una squadra di calcio di prima categoria, il Milan.
Ogni azione legale diventava anche politica.
Nonostante le imputazioni e i processi, la giustizia italiana (nei tre gradi di
giudizio) non l’avrebbe riconosciuto colpevole fino al 2013, quando la
Cassazione confermò una condanna per frode fiscale. In tutti gli altri casi
intervenne la prescrizione (qualche volta per una questione di giorni), o fu
prosciolto. E se il tempo scadeva, invalidando il verdetto, spesso era perché i
tempi della prescrizione erano stati ridotti da qualche decreto di un governo
Berlusconi. Le campagne mediatiche contro i magistrati, i testimoni o gli
avvocati contribuivano poi a creare un clima in cui una soluzione raffazzonata
pareva più facile di una presa di posizione di parte.
Indagini e processi erano eventi pubblici, che si trascinavano per anni
producendo commenti costanti sulla stampa e alla televisione (in tutto il
mondo). Si affermarono subito due correnti di opinione. Da una parte si
sosteneva che Berlusconi non era ‘adatto a governare’, e si doveva dimettere;
aveva evitato le condanne soltanto perché poteva permettersi i migliori
avvocati, e per la sua influenza politica. Dall’altra – e qui stava anche
Berlusconi – l’intera serie di indagini e processi veniva interpretata come un
complotto di natura politica. Fu una guerra senza quartiere, combattuta sui
media, in Parlamento, e in tribunale.
Lui, intanto, usava tutte le armi a sua disposizione per evitare una condanna.
I suoi canali televisivi sparavano una propaganda quasi costante contro i
singoli giudici e la magistratura in generale. Per certi magistrati, si ricorreva
alla diffamazione e ai dossier: un periodico della famiglia Berlusconi pubblicò
un’‘inchiesta’ su uno di loro, presentato come uno svitato perché stava seduto
su una panchina lasciando intravedere – orrore! – dei calzini turchese.
Gli osservatori, e gli elettori comuni, faticavano a capire perché Berlusconi
non si fosse dimesso di fronte allo scandalo e agli attacchi alla magistratura. I
tre gradi di giudizio del sistema italiano lo favorirono: in più occasioni fu
condannato in prima istanza, per essere poi prosciolto in appello o in
Cassazione. In altri casi i giudici esitarono di fronte alle implicazioni politiche
di un verdetto, preferendo il ripiego della prescrizione, che consentiva di
emettere comunque un giudizio nella motivazione scritta, permettendo però
a Berlusconi – in quanto presidente del Consiglio – di farla franca. In altri casi
ancora, le prove erano davvero insufficienti. Ma non poteva sfuggire
all’infinito: il suo relativo declino politico ebbe anche motivazioni giudiziarie.
La ‘guerra contro la magistratura’ ebbe anche effetti a lungo termine che non
iniziarono, né si esaurirono, con Berlusconi. Molti persero fiducia nei
magistrati (e a questo non furono estranei gli errori e gli eccessi effettivamente
avvenuti). I procedimenti giudiziari erano politicizzati. Le accuse di
complotto non si cancellavano, e arrivavano da entrambe le parti. E
Berlusconi trattava la giustizia come una forma di spettacolo, nel quale lui
poteva intervenire come e quando gli pareva. L’aula del tribunale era
l’ennesimo palcoscenico. Come molti avevano capito già nel 1993, questa
situazione era in parte il risultato inevitabile del conflitto di interessi irrisolto
nato dalla sua elezione alla presidenza del Consiglio: usava il potere politico
per allargare e tutelare i suoi interessi di imprenditore. Intanto, nacque una
vera e propria industria dell’antiberlusconismo – che faceva vendere libri e
giornali. Pareva quasi che la sinistra avesse bisogno di lui per non collassare.

La censura e il potere dei media


Anche la televisione di Stato – o meglio, una parte della televisione di Stato –
tentò di opporre resistenza all’aggressione di Berlusconi e alla sua potenza
incontenibile. Ne derivò uno degli episodi più tristemente noti della sua
stagione al governo. Il 18 aprile 2002 tenne una conferenza stampa in Bulgaria
(dove si trovava in visita ufficiale), facendo il nome di tre personaggi televisivi
– lavoravano tutti per la Rai – che a suo dire avevano “fatto della televisione
pubblica, pagata coi soldi di tutti... un uso criminoso”. Di tutti e tre chiedeva
il licenziamento, o quantomeno la censura.
Chi erano costoro? Uno era una leggenda del giornalismo, Enzo Biagi, che
all’epoca teneva un programma quotidiano di cinque minuti su Rai 1, subito
dopo il telegiornale, nell’orario di massimo ascolto – otto milioni di spettatori.
Personaggio molto popolare, Biagi non era certo un radicale – anche se era
stato partigiano – ma aveva un forte senso etico, e rifiutava di piegarsi alle
esigenze dei nuovi potenti. Daniele Luttazzi, invece, era un comico d’assalto
che aveva corso un grosso rischio: nel marzo 2001 (in piena campagna
elettorale) aveva detto l’indicibile: dal vivo, nel suo show Satyricon su Rai 2,
aveva toccato il tasto dei legami di Berlusconi con la mafia – in un’intervista
con il giornalista investigativo Marco Travaglio. La reazione fu immediata.
Come scrive Alexander Stille, “a giudicare dalla reazione del mondo politico,
si potrebbe pensare che l’Italia fosse stata attaccata da una potenza straniera, o
che fosse stato assassinato un grande uomo politico”18. La direzione della Rai
fu presa dal panico, e concesse a Marcello Dell’Utri, amico e sodale di
Berlusconi (che poi sarebbe stato condannato per associazione mafiosa), il
‘diritto di replica’.
Il ‘terzo uomo’, Michele Santoro, era un ex maoista, presentatore di
programmi di informazione in cui giornalismo e dibattito politico si
fondevano con una buona dose di retorica. Anche lui, nel marzo 2001, mise il
naso nei presunti rapporti di Berlusconi con la mafia. Questa volta il
presidente si infuriò al punto di intervenire con una telefonata durante una
trasmissione dal vivo. A giudicare dai risultati elettorali del 2001, comunque,
parrebbe che nessuna di queste uscite fosse servita a molto.
Berlusconi attese un anno per vendicarsi dei tre presentatori/giornalisti. Il
suo pronunciamento divenne noto come ‘l’editto bulgaro’: i tre furono
cacciati dalla Rai, ormai controllata da personaggi nuovi. Berlusconi era
riuscito a ‘occupare’ il servizio televisivo di Stato – d’altra parte, le
interferenze della politica nei media pubblici non erano certo una novità, in
Italia. Biagi e Santoro rientrarono nell’ovile, rispettivamente, soltanto nel
2006 e nel 2007.

Per capire Berlusconi


Se una cosa non è in televisione, non esiste.
Silvio Berlusconi19
Ma cos’era il ‘berlusconismo’? Come spiegarne la presa di potere e la lunga
stagione di successi elettorali? Qualcuno lo collocava in un contesto molto più
vasto, risalendo al tempo dell’Unità d’Italia nell’Ottocento20. Il suo richiamo
avrebbe agito su certe tendenze di fondo della storia italiana – bassi livelli di
legittimazione dello Stato, scarso rispetto per la legge, propensione a seguire
un capo piuttosto che le scelte politiche e i programmi etici. Berlusconi era un
prodotto dei tempi – televisione, consumismo, individualismo? O era invece
un prodotto dell’Italia stessa? Il berlusconismo veniva prima di Berlusconi, e
poteva sopravvivergli? Fu lui a trasformare l’Italia, o si limitò a riflettere
tendenze e contesti già esistenti? È probabile che la vera risposta stia nel
mezzo. Berlusconi e il berlusconismo vanno considerati nel contesto
dell’Italia postindustriale, dove la televisione privata e il calcio erano diventati
vettori culturali decisivi. Ma il messaggio centrale, che contrapponeva ogni
uomo o donna (o famiglia) allo Stato, alla politica e al diritto, aveva radici ben
più profonde.
L’era di Berlusconi lo vide vincere tre elezioni politiche (1994, 2001, 2008)
e perderne tre – una di strettissima misura – (1996, 2006, 2013). Perse la
poltrona due volte, nel 1994 (per lo scioglimento della sua maggioranza) e nel
2011 (sull’onda di una crisi finanziaria incombente). In entrambi i casi
dichiarò che ‘il popolo’ era stato tradito, e che si era trattato di una specie di
colpo di Stato. Fu più volte messo da parte, considerato politicamente ‘finito’,
ma ogni volta (o quasi) riuscì a risorgere. La botta finale è sembrata essere
giunta con la sentenza definitiva per frode fiscale del 2013, che insieme con
una nuova legge sui precedenti penali dei politici ha comportato la sua
espulsione dal Parlamento. Politicamente, però, il colpo poteva anche non
essere fatale.
Matteo Renzi, per esempio, è stato presidente del Consiglio senza essere
eletto in Parlamento dal 2014 al 2016. Ma l’espulsione di Berlusconi è
coincisa con una scissione nel suo partito, e con la sensazione che componenti
significative del suo elettorato si stessero rivolgendo altrove. Si è aperto così
un finale interminabile, segnato dalle trattative (esplicite o meno) sulla exit
strategy. Il problema era in parte giudiziario e in parte politico. L’era di
Berlusconi volgeva al termine, ma la sua eredità continuava a pesare. Come
per Margaret Thatcher nel Regno Unito, molti hanno visto evidenti
parallelismi tra Berlusconi e tutti i suoi successori, comunque fossero
schierati. La politica era ormai irrimediabilmente personalizzata, ‘antipolitica’.
Lo sprezzo di Berlusconi per ‘il pubblico’, la verità e la coerenza era diventato
parte del sistema. La sua strategia post-fattuale, narcisistica, non-partitica è
stata adottata come formula vincente da molti altri. Iniziava così, senza scosse,
l’era dei Renzi, dei Salvini... per non dire di Trump e Grillo. Una folla di
‘piccoli Berlusconi’ che tentavano la sorte.

2006: ancora scandali


L’apogeo di Berlusconi finì nel 2006. Romano Prodi era rientrato in Italia
dalla Commissione europea, e il centrosinistra era di nuovo (formalmente)
unito, nell’ampio raggruppamento dell’Ulivo, e in un’alleanza complicata e
frammentaria detta “l’Unione”. La scelta del candidato traeva ulteriore
legittimità dal nuovo sistema delle primarie: alle prime, nell’ottobre 2005,
votarono 4,3 milioni di persone, di cui 3,2 milioni scelsero Prodi. Il sistema
sarebbe diventato la norma (per il centrosinistra), e fu esteso anche a livello
locale, per la scelta dei candidati sindaci.
Uno degli ultimi atti di Berlusconi al governo era stato l’approvazione di una
nuova legge elettorale. Violando la tradizione, era passata senza ottenere il
consenso trasversale dei partiti. Il suo stesso creatore la definì “oscena”, e “una
porcata” – da cui il soprannome di “Porcellum”.
L’effimero esperimento di uninominale secca si chiudeva (per il momento).
Il Porcellum veniva presentato come un ritorno alla rappresentanza
proporzionale, ma in realtà toglieva potere agli elettori e ne assegnava ancora
di più ai leader dei partiti. Il blocco delle liste e l’abolizione delle preferenze
significavano che quasi tutti i destinati all’elezione sarebbero stati scelti dai
capi prima del voto. Per poter sperare di andare al governo, partiti e
movimenti dovevano costituire una coalizione elettorale, indicandone il
‘capo’. Si prevedeva un premio di maggioranza per i vincitori per favorire – in
teoria – la ‘governabilità’. Era di una complicatezza infernale. La riforma
fissava una soglia minima del 4 per cento per accedere al Parlamento, e il
totale dei voti di ogni coalizione era costituito dalla somma dei voti dei partiti
che l’avevano raggiunta a livello nazionale. Al Senato, però, i premi di
maggioranza andavano alle liste vincenti a livello regionale. Un ulteriore
fattore di imprevedibilità era la concessione di voti e seggi agli italiani
all’estero.
La legge era estremamente impopolare, ma poiché favoriva i partiti maggiori
era molto difficile modificarla. Negli anni seguenti i partiti discussero a lungo
sui cambiamenti da apportare, ma l’Italia andò alle urne con quel sistema
anche nel 2008 e nel 2013. Nel giugno 2009 un referendum per l’abrogazione
di alcuni articoli non raggiunse il quorum e fu invalidato. Un ulteriore
tentativo di modificare la legge con un referendum fu bocciato dalla Corte
costituzionale nel 2012.
Tutti prevedevano che nel 2006 Berlusconi avrebbe perduto. Così dicevano
anche i sondaggi. Ma ancora una volta fece campagna elettorale occupando gli
schermi televisivi. In un dibattito con Prodi, mentre passavano i titoli di coda
promise che avrebbe abolito l’odiata ICI, la tassa locale sugli immobili. Gli
italiani ne avevano già sentite tante, ma questa parve convincerli. Le prime
elezioni a base di Porcellum funzionarono come il ‘fattore Florida’ per George
W. Bush: il risultato fu deciso da soli 26.000 voti, e da quelli degli italiani
residenti all’estero. Ci furono accuse di brogli (da entrambe le parti), e
Berlusconi non volle accettare la sconfitta. Il sistema aveva generato una vasta
coalizione di centrosinistra con una minoranza minuscola al Senato, che si
trovava quasi impossibilitata a governare: bastava che un paio di senatori
passassero dall’altra parte perché il governo Prodi cadesse prima ancora di
cominciare.

Da Calciopoli al trionfo
Nell’estate 2006 l’attenzione della nazione non era concentrata tanto sul
dramma politico romano, quanto su un traumatico scandalo nel mondo del
calcio. Un’indagine sul giro delle scommesse illegali a Napoli aveva scoperto
un intrico di intrallazzi tra le grandi squadre, gli arbitri, gli agenti e i giocatori.
Pareva che certi faccendieri al vertice del settore fossero in grado di decidere il
risultato delle partite e di truccare il calciomercato. La giustizia sportiva stabilì
ben presto che la Juventus – la squadra più grande, più vincente, più potente,
più amata e più odiata d’Italia – era stata al centro del sistema, e la retrocesse
per una stagione in serie B. Dieci milioni di tifosi juventini rimasero
interdetti; ma altri sedici milioni di tifosi ne furono entusiasti.
Alla Juventus vennero anche revocati due scudetti (compreso quello che
aveva appena ‘vinto’ nel 2006), un verdetto che la squadra e molti tifosi
continuano a contestare ancora oggi. Il procedimento giudiziario fu invece
molto più lento e complesso, e si è concluso definitivamente soltanto nel
2015, quando le accuse contro Luciano Moggi, ex direttore sportivo della
Juve, e altri erano ormai cadute in prescrizione. La sentenza dei giudici lo
definiva comunque “l’ideatore di un sistema illecito di condizionamento delle
gare del campionato 2004-2005 (e non solo di esse)”. Moggi, aggiungevano,
era stato a capo di un’associazione a delinquere “ampiamente strutturata e
capillarmente diffusa nel territorio”21. L’esito dei processi è stato il tipico
compromesso giudiziario italiano. Moggi è rimasto a piede libero (pur se
bandito a vita dal mondo del calcio), ma il giudizio sui suoi presunti reati era
inequivocabile.
Lo scandalo di ‘Calciopoli’ fu una macchia sul nome dell’Italia all’estero,
segnando l’inizio del declino delle fortune calcistiche della serie A (è probabile
che sia costato al paese anche la possibilità di ospitare un campionato
europeo). Ma finì anche per dividere i tifosi italiani in campi opposti, che
propugnavano versioni ‘alternative’ dei ‘fatti’. Per qualcuno gli scandali
smascherarono definitivamente un sistema di potere imperniato su una singola
società onnipotente. Altri (per lo più tifosi juventini) consideravano l’intera
vicenda come un complotto ordito contro la squadra da rivali incattiviti
dall’invidia. Per loro lo scandalo doveva chiamarsi “Farsopoli”, e ancora oggi
la società ritiene di aver diritto ai due scudetti ufficialmente revocati.
Nel 1982 l’Italia era uscita da un rovinoso scandalo calcistico vincendo la
Coppa del mondo. La storia si sarebbe ripetuta? Alla vigilia del torneo del
2006 in Germania, la squadra e il direttore tecnico erano sotto tiro. Il capitano
Fabio Cannavaro veniva criticato perché pareva aver difeso Moggi, e ci fu chi
chiese le sue dimissioni, mentre all’allenatore Marcello Lippi si rimproverava
il presunto coinvolgimento del figlio Davide – procuratore di giocatori – nello
scandalo (fu poi scagionato da ogni addebito).
L’Italia partì quindi per la Germania col fiato della stampa sul collo, e
aspettative estremamente scarse. Come nel 1982, però, lo scandalo e le
pressioni che ne derivavano parvero compattare la squadra, che andò avanti
inesorabile, con una difesa solida, un portiere praticamente imbattibile
(Gianluigi Buffon), e di tanto in tanto un colpo di genio dell’‘architetto’, il
centrocampista Andrea Pirlo. Una combinazione fortunata contrappose l’Italia
all’Australia nella fase finale a eliminazione diretta, e nel tempo di recupero
Francesco Totti trasformò senza fatica un rigore forse un po’ troppo generoso.
Avevano giocato a lungo in dieci uomini, ma vinsero; gli australiani hanno
ancora il dente avvelenato, per quel rigore.
Dopo una facile vittoria sull’Ucraina nei quarti di finale, l’Italia affrontò i
padroni di casa tedeschi a Dortmund. Fu una partita intensa, ma a un solo
minuto dalla fine dei tempi supplementari nessuno aveva segnato: pareva
proprio che sarebbe finita ai rigori. Poi a Pirlo riuscì un passaggio no-look
all’inaspettato eroe della partita, Fabio Grosso, che mandò il pallone in rete in
girata. L’entusiasmo di Grosso parve quasi una parodia dell’urlo di Marco
Tardelli nel 1982. Qualche secondo dopo l’Italia segnò di nuovo, un
magnifico gol di squadra rifinito da Alessandro Del Piero: in finale contro la
Francia, a Berlino.
L’Italia non giocò meglio, ma la Francia non riuscì a sfondare dopo le due
reti di inizio partita, che fissarono il pareggio a 1-1. Poi, a venti minuti dalla
fine dei supplementari, Zinedine Zidane si fermò di colpo, si voltò e colpì il
difensore italiano Marco Materazzi con una testata in pieno petto. Il fatto era
sfuggito all’arbitro, ma stando al rapporto ufficiale fu il quarto uomo a
comunicarglielo. Zidane – il miglior giocatore della Francia, e il suo primo
rigorista – fu espulso. Si discusse molto su quello che Materazzi aveva detto a
Zidane: probabilmente un insulto a proposito di sua sorella. Lui pubblicò poi
un libro intitolato Che cosa ho detto veramente a Zidane, che conteneva 249 frasi
possibili22. Un finale cincischiato portò ai rigori. L’Italia, contrariamente al
solito, non ne sbagliò uno; la Francia prese una traversa. L’Italia aveva vinto la
sua quarta Coppa del mondo, e il capitano Cannavaro vinse, poi, il pallone
d’oro: nessuno parlava più di dimissioni. L’imprevisto successo scatenò
ovviamente celebrazioni nazionali, ma la festa non fu come nel 1982.
In primo luogo, la partita era stata trasmessa su due canali diversi, e parecchi
spettatori preferirono Sky alla Rai. Per molti immigrati, poi, c’era anche
l’alternativa delle TV satellitari. C’era quindi la scelta tra almeno due
commenti. Oltre a questo, nel 2006 in tutta Italia vennero allestiti i
megaschermi. Per molti versi, la partita fu guardata come se fosse stata
‘soltanto’ una gara di campionato, come se i tifosi fossero allo stadio.
Insomma, come un’importante partita di serie A, mentre nel 1982 era stata un
evento di tutt’altro genere, vissuto soprattutto nell’ambiente domestico.
L’esperienza del 2006 fu più diluita, la sua memoria inevitabilmente destinata
a fondersi con quella delle vittorie di squadra in Coppa dei Campioni o in
serie A, celebrate ormai in modo sempre più ritualistico, e dunque
immediatamente dimenticabile: una improvvisa esplosione di gioia, seguita da
un rapido ritorno alla normalità.
Contò molto anche il fatto che né il presidente del Consiglio Romano
Prodi, né quello della Repubblica Giorgio Napolitano tentarono di trarre
vantaggio politico dalla vittoria. La Coppa del mondo 2006 non ebbe il suo
Pertini. Fu una fortuna, forse, che Berlusconi non fosse più al timone:
possiamo soltanto immaginare come avrebbe tentato di sfruttare quel trionfo.
Le due Coppe del mondo successive, 2010 e 2014, sono state per l’Italia due
fiaschi ignominiosi. Il successo del 2006 non cancellò certo il trauma di
Calciopoli, ma sicuramente lo addolcì. Comunque fosse, nel calcio nazionale
tutto tornò presto alla normalità. La Juventus fu subito promossa in serie A, e
nel 2018 ha raggiunto il record di sette nuovi scudetti di fila, giocando in un
magnifico nuovo stadio che è l’invidia di tutte le altre società. Se pure
Calciopoli fu una rivoluzione, non durò che lo spazio di un mattino.
L’ultimo Berlusconi
Il governo di Romano Prodi tirò avanti fino al 2008, sopravvivendo a una
serie di votazioni risicate. Il segno della sua debolezza e inefficacia era il gran
numero di ministri, viceministri e sottosegretari – oltre cento persone. Nel
gennaio di quell’anno un pugno di senatori cambiò schieramento, votando
contro il governo. Vennero convocate nuove elezioni nell’aprile 2008, con il
medesimo sistema ‘osceno’ del 2006. Uno dei voltagabbana avrebbe poi
dichiarato di essere stato pagato (da Berlusconi). La magistratura aprì diverse
inchieste sui sospetti che i senatori fossero stati trattati come giocatori nel
calciomercato. Berlusconi negò ogni addebito. Un ex senatore, Sergio De
Gregorio, ha confessato di aver ricevuto tre milioni di euro, ed è già stato
condannato. Dopo la condanna in primo grado di Berlusconi e di un
giornalista, Valter Lavitola, nell’aprile 2017 la corte d’appello ha dichiarato che
il procedimento era caduto in prescrizione. I giudici, comunque, “hanno
ritenuto... sussistente l’ipotesi di corruzione”23.
Nel 2007 fu celebrata in pompa magna la nascita del Partito democratico
dalle ceneri del Partito democratico della sinistra, dei Democratici di sinistra,
di diversi raggruppamenti cattolici centristi, dell’Ulivo e dell’Unione. In
quanto ‘democratico’, il centrosinistra rinunciava ufficialmente a qualsiasi
riferimento alla ‘sinistra’. Per molti il modello era il New Labour di Tony
Blair, o quantomeno la versione italiana del blairismo: nessun collegamento
con la guerra in Iraq, ma sempre propenso a privilegiare lo stile sulla sostanza.
La campagna elettorale del Partito democratico nel 2008 fu condotta da
Walter Veltroni, dimessosi da sindaco di Roma per guidare una coalizione che
escludeva la sinistra estrema ma comprendeva il piccolo e personalizzato
movimento anticorruzione di Antonio Di Pietro. La chiusura a sinistra – tra i
presupposti fondativi del PD – e la decisione di non fare nemmeno il nome di
Berlusconi in campagna, si rivelarono un errore. Berlusconi vinse senza
difficoltà, sebbene la sua coalizione avesse perduto quasi due milioni di voti.
Riuscì perfino ad ottenere una solida maggioranza in Senato. Anche la
coalizione di centrodestra aveva un nuovo nome, dopo l’avvio della fusione di
Alleanza nazionale con Forza Italia: il Popolo della libertà. La fusione sarebbe
stata completata nel 2009, dopo le elezioni.
Fin dall’inizio, però, si videro gli effetti dell’atteggiamento sempre più
autoritario di Berlusconi nei confronti degli alleati, e della crisi finanziaria –
che in Italia colpì duramente. L’apparente solidità della maggioranza subì un
grave colpo nell’estate del 2010, quando Gianfranco Fini formò un nuovo
gruppo parlamentare denominato Futuro e libertà, che all’inizio poteva
contare su trentatré deputati. In novembre ministri e sottosegretari di quel
gruppo uscirono dal governo. Fini e i suoi si opponevano a quelli che
consideravano gli atteggiamenti dittatoriali di Berlusconi, e riproponevano la
questione sempre aperta dei conflitti di interesse e delle leggi ad personam. Nel
dicembre 2010 Fini riuscì quasi a far cadere il governo, che ottenne la fiducia
per soli tre voti. Dopo la scissione la maggioranza di Berlusconi era
risicatissima, ma riuscì a tirare avanti fino al novembre 2011, incalzato
dall’aggravarsi della crisi economica e del debito pubblico. L’ultimo
Berlusconi era ormai disperato, assediato da una serie di scandali sessuali e di
corruzione24.

La repubblica del bunga bunga:


Berlusconi e gli scandali sessuali
I primi problemi pubblici di Berlusconi in questa sfera specifica gli vennero
proprio da casa sua. I segnali c’erano da tempo. Nel gennaio 2007 Veronica
Lario, la pazientissima seconda moglie e madre di tre dei figli di Berlusconi,
scrisse una lettera a “la Repubblica”, forse il più antiberlusconiano dei
quotidiani italiani. Rispondeva alle voci secondo cui il marito aveva detto a
un’altra donna che “se non fossi già sposato la sposerei subito”. La Lario
chiedeva scuse pubbliche, “non avendone ricevute privatamente”25.
Berlusconi si affrettò a scusarsi: fu un avvertimento, ma lui non parve curarsi
molto dei commenti della moglie.
Nell’aprile 2009 si presentò a sorpresa alla festa per il diciottesimo
compleanno di una ragazza nel Napoletano. Si chiamava Noemi Letizia, e a
quanto pare per lei Berlusconi era “Papi”. Noemi raccontò ai giornalisti di
averlo conosciuto, anche se la natura precisa dei loro rapporti non fu mai
chiarita. Ma gli effetti di quella festa, e delle foto che circolarono, furono
catastrofici. Per Veronica Lario fu la goccia che fece traboccare il vaso. Decise
di divorziare, rilasciando una dichiarazione: “Chiudo il sipario... sulla mia vita
coniugale... Non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni”26. A
Berlusconi costò caro, quel divorzio. Tre donne magistrato decisero all’inizio
che dovesse versare alla Lario tre milioni di euro al mese, e l’amarissimo
procedimento legale si è trascinato per anni, ben oltre il momento effettivo
del divorzio. Tutto questo, ovviamente, avveniva sotto i riflettori dei media.
Rubygate
Ma il peggio doveva ancora venire. Intorno alle 11,30 di notte del 27 maggio
2010 Berlusconi chiese al suo caposcorta di fare una telefonata. Era
preoccupato, quasi disperato: voleva evitare uno scandalo. Ma quella
telefonata fu l’avvio della crisi più grave in una carriera politica durata oltre
diciassette anni. La chiamata era al cellulare di un pezzo grosso della questura
di Milano, e scatenò una serie di eventi che avrebbero portato
(potenzialmente) a un esito del tutto straordinario: il presidente del Consiglio
di un paese democratico processato – tra le altre cose – per “sfruttamento della
prostituzione minorile”. Come in quasi tutti gli scandali dell’era Berlusconi, i
fatti stessi sono controversi, e i procedimenti giudiziari che ne sono seguiti
sono stati confusi e interminabili. Peraltro, non è mai stata emessa una
condanna definitiva per reati connessi a quella vicenda (Berlusconi fu
condannato in primo grado e prosciolto in appello). Per capire il motivo di
quella telefonata, il suo contenuto e le sue conseguenze, occorre risalire al
febbraio 2010.
Fu allora, parrebbe, che a Berlusconi fu presentata una diciassettenne
marocchina di nome Karima El Mahroug, ‘nome d’arte’ Ruby Rubacuori.
Ruby era arrivata in Sicilia con i genitori intorno al 2003, a soli nove anni.
Nel 2010 il suo italiano era ormai perfetto. Scappata di casa, lavorò per un po’
come ‘cubista’ e danzatrice del ventre. Sognava di entrare nel mondo della
televisione e della pubblicità, industrie che facevano capo al vasto impero
mediatico di Silvio Berlusconi a Milano. Nel febbraio 2010 Ruby fu invitata
nella villa principesca del presidente del Consiglio ad Arcore. Qui incontrò lui
in persona, che a quanto pare le diede parecchie migliaia di euro in contanti –
cos’altro facessero insieme non si sa per certo. Nei mesi successivi passò molto
tempo con lui: stando ai tabulati telefonici, gli incontri avvennero il 14, 21, 27
e 28 febbraio, poi il 9 marzo, e ancora il 4, 5, 24, 25, 26 aprile, e il 1° e 2
maggio 2010. Secondo gli inquirenti, dopo queste visite le ragazza riceveva
denaro e regali.
La crisi del 27 maggio fu innescata dal fatto che Ruby era stata portata in
questura per accertamenti dopo che un’amica l’aveva accusata di furto.
Berlusconi era preoccupato, e voleva Ruby fuori dalla questura il prima
possibile. Si inventò quindi una storia assurda, dichiarando che in realtà ‘Ruby
Rubacuori’ era la nipote di Hosni Mubarak, all’epoca presidente dell’Egitto.
Pare che abbia detto alla polizia che se Ruby non fosse stata rilasciata si
rischiava un incidente diplomatico internazionale. Eppure funzionò: a
nessuno venne in mente di controllare nemmeno se Ruby fosse davvero
egiziana. Berlusconi pretese che la ragazza venisse consegnata a un’altra
‘amica’, Nicole Minetti (all’epoca venticinquenne). A marzo la Minetti, di
professione igienista dentale, era stata eletta nel Consiglio regionale della
Lombardia in una lista di centrodestra, pur non avendo alcuna esperienza
politica. E così Ruby, finta nipote di Mubarak, doveva essere consegnata alle
cure della Minetti, ‘finta’ politica. Uscite che furono dalla questura, ognuna
andò per la sua strada. Ruby finì a casa di una prostituta brasiliana. Secondo gli
inquirenti, Berlusconi aveva abusato del suo potere politico per ottenerne il
rilascio. Lui negò ogni addebito, affermando di aver agito in buona fede.
Per un po’ dei bizzarri eventi di quella notte nessuno seppe nulla, ma i
magistrati milanesi avevano preso in mano il caso. Intercettarono telefonate e
cominciarono a raccogliere prove. Furono perquisite abitazioni in tutta la
città, e diverse persone furono convocate a deporre. Nel frattempo,
Berlusconi si era reso conto di aver commesso un gravissimo errore: aveva
regalato ai magistrati del materiale che poteva servire a distruggerlo una volta
per tutte. Si era forse arrivati all’ultimo atto della guerra che infuriava dal
1994?
Nell’ottobre 2010 la storia uscì sulla stampa italiana, e a quel punto i
magistrati annunciarono l’apertura di un’indagine su Berlusconi e altri per
‘sfruttamento della prostituzione minorile’ e ‘concussione’. Un documento di
380 pagine fu presentato al Parlamento per l’autorizzazione a perquisire certi
immobili di sua proprietà. Conteneva materiale di intercettazioni telefoniche
(non tutto, va detto, strettamente pertinente al caso) e un resoconto
dettagliato degli eventi del 27-28 maggio. I sostenitori di Berlusconi in
Parlamento si strinsero intorno al capo: a loro dire, lui aveva veramente creduto
che Ruby fosse la nipote di Mubarak. Si tentò di bloccare l’indagine con una
votazione in cui 316 parlamentari sostennero doverosamente il loro leader:
disciplina assoluta. Secondo un giornalista spiritoso, il Parlamento italiano
aveva deciso che Ruby era davvero la nipote di Mubarak. Già nel maggio
2002 l’amico e socio in affari di Berlusconi Fedele Confalonieri (che si
definiva, in inglese, ‘chairman’ di Mediaset) aveva scritto alla “London
Review of Books” polemizzando con un’analisi di Perry Anderson sui
presunti legami di Berlusconi con la mafia. “Quanto a stigmatizzazione
sociale”, affermava, “questa calunnia equivale a un’accusa di abuso sessuale di
minore”. Lapsus freudiano o premonizione?27
Domenica 13 febbraio 2011 (un anno dopo il primo incontro tra Silvio e
Ruby) più di un milione di persone, in maggioranza donne, scesero in piazza
per chiedere le sue dimissioni. Lo slogan era semplice: “Se non ora, quando?”
(dal titolo di un libro di Primo Levi), e il loro inno era People Have the Power di
Patti Smith. La grande manifestazione (che si svolse in 231 città italiane, oltre
che a New York, Londra, Parigi e Bruxelles) fu organizzata senza alcun
apporto della politica ufficiale da diversi gruppi, tra i quali il movimento del
‘popolo viola’, una rete giovanile che da tempo militava sul web contro Silvio
Berlusconi e la ‘casta’ che governava l’Italia.
Si venne a sapere dei cosiddetti festini “bunga bunga” nella villa di Arcore –
una definizione che Berlusconi aveva preso da uno dei suoi tanti amici un
tempo potenti e ormai destinati al tramonto: il colonnello Gheddafi. Secondo
i magistrati, in quelle serate giovani donne si esibivano a beneficio di anziani
uomini di potere. Per Berlusconi erano “cene eleganti”28. La stampa
internazionale andò a nozze. Ma il danno politico era ormai fatto: il Rubygate
non avrebbe più smesso di perseguitarlo. Si sospettava che nel primo processo
il silenzio di certi testimoni fosse stato comprato. L’odissea giudiziaria di
Berlusconi non dava alcun segno di distensione.
La vittoria schiacciante del centrosinistra a Milano nel 2011 fu un segno
evidente di come anche le sue roccaforti di consenso incondizionato gli
stessero sfuggendo di mano. La ‘liberazione’ della città venne festeggiata da
migliaia di persone in piazza del Duomo. E questa era la città di Berlusconi, la
sede delle sue televisioni, delle aziende pubblicitarie ed editoriali, e della
squadra di calcio che aveva appena vinto lo scudetto.

Finale di partita: post-Berlusconi?


Il 12 novembre 2011 il quarto governo Berlusconi fu travolto dalla tempesta
finanziaria della crisi dell’euro. Non ci furono elezioni: il governo venne
semplicemente sostituito da un gruppo di ‘tecnici’ non eletti, i cosiddetti
‘professori’. Tre giorni prima Mario Monti era stato nominato senatore a vita
dal presidente Giorgio Napolitano. Monti era un europeista ben noto (per
circa dieci anni a Bruxelles nella Commissione europea) e un autorevole
economista. Fu un piano coordinato: l’Italia era stata sottoposta a forti
pressioni dall’Unione Europea – Francia e Germania in particolare. A una
conferenza stampa del 24 ottobre Angela Merkel a Nicolas Sarkozy si erano
scambiati un sorriso ammiccante quando qualcuno fece il nome di Berlusconi.
La sua sorte era segnata.
Non che l’Italia volesse tornare alla lira, ma non c’era nemmeno un grande
trasporto per l’euro. Dopo il tracollo del 2008, il debito italiano aveva subìto
forti pressioni globali. Dal 2000 la retorica antieuropeista dominava la
narrativa politica della destra populista (merito di Berlusconi e della Lega
Nord, che arrivò al punto di definire l’euro “un crimine contro l’umanità”) e
sarebbe stata un elemento chiave del richiamo dei movimenti antipolitici nel
nuovo secolo29. Berlusconi tentò di imputare al centrosinistra l’aumento dei
prezzi e la crisi economica – che più volte attribuì all’euro.
La caduta del ‘Cavaliere’ fu accolta da una festa di piazza a Roma, con tanto
di coro che intonava l’inno nazionale. Molti erano entusiasti, in particolare gli
oppositori più convinti. “La Repubblica”, per la quale l’antiberlusconismo era
ormai diventato quasi una raison d’être, pubblicò uno speciale Atlante intitolato
Gli anni di Berlusconi: 256 pagine al prezzo stracciato di 4,90 euro. Perfino per
loro era stato “un rivoluzionario che ha cambiato l’Italia”, ma non era certo
stato un cambiamento in meglio30.
Berlusconi camminava sulle sabbie mobili fin dalla crisi finanziaria del 2008,
a dispetto della vittoria elettorale di quell’anno. Da allora aveva continuato a
perdere pezzi della sua coalizione: ex alleati non più disposti ad accettare la sua
inconcludenza nella gestione del debito, e l’ossessione personalistica delle sue
politiche. Nel frattempo Gianfranco Fini andava sparendo dalla scena – uno
scandaletto su una casa a Montecarlo fu il colpo di grazia. E anche i grandi
scandali legati a Berlusconi contribuirono alla sua caduta. Le leggi ad personam
non funzionavano più. Il progetto Berlusconi si era incagliato.

I professori al potere
Il governo di Mario Monti si proponeva una politica di austerità ispirata dalla
UE. Esordì con cupe previsioni di disastro imminente: Monti disse che presto
non sarebbe stato forse possibile nemmeno pagare gli stipendi degli statali. Si
parlava di piani di salvataggio alla greca, o di una drammatica uscita dall’euro.
Il governo era ridotto all’osso: tredici ministri in tutto. Monti aveva tenuto
per sé l’economia, e anche altri avevano doppi dicasteri. La post-democrazia si
presentava come una fase tutt’altro che passeggera. Il governo Monti non fece
molto per aumentare la popolarità dell’Unione Europea in Italia: nel periodo
di austerità 2010-12 certi sondaggi mostrano un calo intorno al 20 per cento
della fiducia nell’Unione31.
Monti passò con una maggioranza imponente sia al Senato che alla Camera
(dove il voto a favore fu di 556 contro soli 65). L’era Berlusconi era finita, o
almeno così pareva, specie dopo la defezione e il passaggio all’opposizione dei
fedeli alleati leghisti. Nel frattempo la crisi imperversava: l’economia italiana
rimaneva in linea piatta, senza il minimo segno di una ripresa all’orizzonte.
L’iniziale popolarità del governo Monti non tardò a svanire. Le leggi sul
lavoro furono liberalizzate, aprendo feroci ostilità con i sindacati. I mercati
finanziari e gli eurocrati erano soddisfatti, ma pochi italiani ne rimasero
convinti.

1
Indro Montanelli, cit. in Alexander Stille, Citizen Berlusconi, Milano: Garzanti, 2009.
2
Cit. in Maurizio Viroli, La libertà dei servi, Roma-Bari: Laterza, 2009, p. 34.
3
Ivi, p. 30.
4
Luca Ricolfi, Tempo scaduto. Il ‘Contratto con gli italiani’ alla prova dei fatti, Bologna: Il Mulino, 2006.
5
Le cifre si riferiscono al voto in quota proporzionale per la Camera.
6
Stephen Gundle, How Berlusconi Will Be Remembered: Notoriety, Collective Memory and the
Mediatisation of Posterity, “Modern Italy”, 20:1, 2015, pp. 91-109.
7
V. il documentario diretto da Francesca Comencini, Carlo Giuliani, ragazzo, 2002.
8
http://www.radiopopolare.it/2016/07/g8-genova-i-racconti-di-quel-luglio-2001/ (accesso 6
febbraio 2017), https://www.amnesty.org/en/documents/eur30/012/2001/en (accesso 6 febbraio
2017).
9
Maurizio Viroli, The Liberty of Servants: Berlusconi’s Italy, Princeton: Princeton University Press,
2012, p. XVII.
10
Come sta scritto in molte aule di tribunale italiane, “La legge è eguale per tutti”.
11
Perry Anderson, The Italian Disaster, “London Review of Books”, 36:10, 22 maggio 2014.
12
Umberto Eco, Turning Back the Clock: Hot Wars and Media Populism, London: Random House,
2014, pp. 31-2.
13
Giovanni Sartori, Il sultanato, Roma-Bari: Laterza, 2009, p. 127.
14
Viroli, La libertà dei servi, p. XII.
15
Ibid.
16
V. Sabina Guzzanti, Draquila. L’Italia che trema, 2010.
17
Paolo Ceri, Challenging from the Grass-Roots: The Girotondi and the No Global Movement, in Daniele
Albertazzi et al. (a cura di), Resisting the Tide: Cultures of Opposition Under Berlusconi (2001-06),
London-New York: Continuum, 2009, p. 89.
18
Stille, Citizen Berlusconi.
19
Ibid.
20
Giovanna Orsina, Berlusconism and Italy: A Historical Interpretation, London-New York: Palgrave,
2014.
21
http://www.giurisprudenzapenale.com/2015/09/10/calciopoli-depositate-le-motivazioni-della-
corte-di-cassazione-cass-pen-363502015 (accesso 27 ottobre 2017).
22
Marco Materazzi, Che cosa ho detto veramente a Zidane, Milano: Mondadori, 2006.
23
Compravendita senatori, prescrizione per Berlusconi, “Il Sole 24 Ore”, 20 aprile 2017.
24
Nel maggio 2014 Marcello Dell’Utri, uno degli architetti di Forza Italia, e personaggio centrale
del settore pubblicitario, è stato condannato definitivamente a sette anni per concorso esterno in
associazione mafiosa, ed è finito in carcere.
25
http://www.repubblica.it/2007/01/sezioni/politica/lettera-veronica/lettera-veronica/lettera-
veronica.html (accesso 7 febbraio 2017).
26
http://www.repubblica.it/2009/04/sezioni/politica/elezioni-2009-2/veronica-divorzio/veronica-
divorzio.html (accesso 7 febbraio 2017).
27
Letters, “London Review of Books”, 9 maggio 2002.
28
Piero Colaprico, Le cene eleganti, Milano: Feltrinelli, 2011.
29
V. Fabio Serricchio, Italian Citizens and Europe: Explaining the Growth of Euroscepticism, “Bulletin of
Italian Politics”, 4:1, 2012, pp. 115-34.
30
Atlante. Gli anni di Berlusconi, Roma: “la Repubblica”, 2011.
31
Pietro Castelli Gattinara e Caterina Froio, Opposition in the EU and Opposition to the EU: Soft and
Hard Euroscepticism in Italy in the Time of Austerity, Institute of European Democrats, 2014, p. 6,
https://www.iedonline.eu/download/2014/bratislava/IED-2014-Opposition-in-the-EU-and-
opposition-to-the-EU-Pietro-Castelli-Gattinara-Caterina-Froio.pdf (accesso 16 gennaio 2017).
7.
L’Italia oggi

I nuovi emigranti:
italiani in movimento
Sebbene sia ufficialmente un paese ospitante, e a dispetto delle continue
diatribe sull’immigrazione, l’emigrazione dall’Italia è continuata anche in
questo scorcio del XXI secolo. L’accesso a molte professioni risulta chiuso ai
più giovani, costringendoli a cercare altrove, o ad accettare impieghi precari o
malpagati nell’attesa di qualche spiraglio nel blocco del mercato. Nel 2014 i
professori ordinari nelle università italiane erano 13.623; di questi, soltanto sei
avevano meno di quarant’anni. L’età media dei ricercatori era di 46 anni1.
Una sorta di ‘gerontocrazia’ che produce la cosiddetta ‘fuga dei cervelli’,
tendenza che di tanto in tanto provoca articoli preoccupati sui giornali. Un
mercato del lavoro sempre più orientato sulla doppia corsia, con un gruppo di
lavoratori più anziani ‘garantiti’ da contratti stabili, e una massa di giovani
rimasti fuori, ha rappresentato un potente incentivo all’emigrazione.
Nel 2015 almeno 200.000 italiani risiedevano a Londra (ma quasi
certamente la cifra reale era più alta). Un terzo di loro aveva un’età compresa
tra i diciotto e i trentaquattro anni. La crisi del 2008 fu un fattore
determinante nell’accelerazione di questi movimenti.
Osserva lo studioso della migrazione Russell King a proposito di quello che
definisce “il richiamo di Londra”: “la riprova dell’esistenza di una reale fuga
dei cervelli sta in un semplice dato statistico: gli italiani laureati di recente che
risiedono all’estero sono otto volte più numerosi dei laureati stranieri che
vivono in Italia”2. Rispondendo agli intervistatori, questi migranti parlavano
della ‘crisi’, e lamentavano che in Italia non c’era più spazio per loro.
Secondo Arianna, di circa vent’anni, “in Italia c’è una situazione
sociopolitica che proprio non mi piace... l’Italia è una società vecchia,
ripiegata su se stessa... non si investe nei giovani, e questo si vede anche nella
politica”3. Quei migranti denunciavano anche l’assenza di meritocrazia, per
cui l’unica via per un posto di lavoro dignitoso passava per le raccomandazioni
e le clientele. Come spiega King, “la disillusione profonda per il modo in cui
funzionano la società e il mercato del lavoro porta a una sorta di ‘rifiuto’
dell’Italia, e per alcuni intervistati, quasi alla ‘disidentificazione’ con il proprio
paese di nascita e formazione”4. Non si trattava soltanto di migrazione
economica, quindi, ma di qualcosa di più profondo, risultato di una
frustrazione emotiva e politica nel rapporto con il paese d’origine e il suo
modo di funzionare (allora e oggi). Siano o meno davvero una nuova
generazione, è certo che gli italiani a Londra si considerano tali5.
Luca Vullo, un regista italiano che lavora a Londra, confrontava la
migrazione italiana di oggi con quella degli anni del dopoguerra. “Noi non
abbiamo vissuto una guerra mondiale, ma il nostro paese sta cadendo a pezzi,
e la gente non lo sopporta più”6. Vullo ha girato un film sugli italiani a
Londra, intitolato Influx7. Così riassume la loro vita di contraddizioni: “la vita
qui è una giungla... ma è una giungla equa, mentre l’Italia, se non hai i
contatti giusti, è una giungla senza possibilità di successo”8.
Date le modalità della nuova migrazione, i contatti con i migranti storici, più
anziani, arrivati in periodi precedenti, sono scarsi. “La vecchia migrazione e
quella nuova sono distaccate, e hanno di rado l’occasione di incontrarsi e di
comunicare”9. I nuovi migranti sono spesso bilingui, o sanno bene l’inglese, e
sono molto più istruiti di chi li ha preceduti. E inoltre i social media e i nuovi
collegamenti facilitano enormemente i rapporti con il paese e la famiglia di
origine. I nuovi migranti concordano comunque sulla valutazione negativa
dell’Italia – e da questo derivano una sorta di identità di gruppo10. Va detto
che la ricerca cui ci riferiamo è stata condotta prima del voto per la Brexit del
giugno 2016.

Il Movimento 5 Stelle
In Italia, intanto, nuove forme di populismo contendevano la scena a quelle
propagate per anni da Berlusconi e dalla Lega. La mappa politica del paese
stava per essere ridisegnata da un movimento guidato da un comico e da un
guru di Internet.
Beppe Grillo (nato a Genova nel 1948) è stato un popolare comico televisivo
degli anni ’80; pungente, ma in linea di massima non si occupava di attualità.
Molti credono che nel 1986 fosse stato ‘escluso’ dalle reti pubbliche per certe
battute sui potenti – una gag in cui dava (indirettamente) dei ‘ladri’ ai
socialisti. Grillo scese in piazza, richiamando folle numerose ai suoi spettacoli
dai toni sempre più messianici. Teatrante vulcanico e instancabile, le sue
esibizioni erano lunghe e rabbiose tirate – molto divertenti – contro la società,
la politica e il sistema economico. Nei primi anni 2000, concludeva il numero
sfasciando una serie di computer in scena con una mazza. “Credevo in te” –
diceva abbracciando un monitor e fingendo di piangere –; poi invitava sul
palco qualcuno del pubblico per dare i colpi finali. Uno dei suoi tormentoni
era “Dietro Internet non c’è nulla!... Ci sono sempre gli stessi”11.
Ma Grillo non ha tardato a convertirsi a Internet e ai social media, aprendo
nel 2005 un blog popolarissimo che richiamava milioni di lettori ogni
settimana12. Con Gianroberto Casaleggio, esperto guru dell’informatica,
decise di utilizzare Internet sia come fonte di ‘informazione’ alternativa, sia –
e sempre di più – come arma di mobilitazione per un nuovo movimento.
Insieme, i due hanno inventato una forma di ‘populismo digitale’13. La scelta
di temi sufficientemente generici richiamava sostenitori (soprattutto tra i più
giovani) da destra e da sinistra. La propaganda a 5 Stelle denunciava la
corruzione della classe politica e i suoi privilegi (come certi vitalizi
vergognosamente generosi), i problemi dell’ambiente, e il potere delle
multinazionali, e organizzava campagne in favore dei consumatori. Nuovi
esponenti della società civile entravano in politica, promettendo di fare le cose
in modo diverso, di non farsi coinvolgere dal gioco del potere, di rimanere
‘onesti’ e ‘puliti’ anche dopo essere stati eletti. Molti non si identificavano né
con la sinistra, né con la destra. Per lo più erano relativamente giovani, con un
buon livello di istruzione. Stava forse nascendo una nuova classe politica (o
antipolitica)?
Nel 2009 fu fondato il Movimento 5 Stelle – in origine l’avevano chiamato
Movimento di liberazione nazionale, ma suonava troppo di sinistra. Venne
annunciato con quello che Grillo definiva un ‘non-statuto’, e un elaborato
programma in oltre 120 punti. Il successo elettorale fu quasi immediato. Nel
frattempo, l’Italia cadeva a pezzi, ancora sotto il moribondo governo
Berlusconi, paralizzata dagli scandali quasi quotidiani, sprofondata nella
recessione e nella crisi finanziaria. Non sorprende che molti non andassero
nemmeno più a votare, e comunque non per i grandi partiti.
Fondamentale per l’ascesa dell’M5S fu il successo del libro – dall’eloquente
titolo La casta (2007) – di due giornalisti di punta, Sergio Rizzo e Gian
Antonio Stella, che ricostruivano gli sprechi grotteschi perpetrati dalla ‘classe
politica’. Il libro rappresentò “la… scintilla che incendia la prateria. È un
frame potentissimo, che stuzzica gli italiani e la loro rabbia verso una politica
immobile ormai da decenni”14. Nel solo 2007 bruciò 1,2 milioni di copie. Gli
italiani erano particolarmente indignati per i piani pensionistici molto speciali
che i politici si erano regalati. Bastavano cinque anni in Parlamento per avere
diritto a una generosa buonuscita. E queste elargizioni potevano essere
‘cumulate’ da chi veniva eletto a più di un incarico. A seguito della
controversia scatenata dalle rivelazioni della Casta, che usava le tecniche del
giornalismo d’inchiesta per scovare i dettagli della corruzione e del privilegio,
si tentò di riformare il sistema con una serie di provvedimenti – che
comunque incontrarono forte opposizione legale e politica. Prima e dopo
essere stati eletti, i rappresentanti del Movimento 5 Stelle rifiutavano qualsiasi
privilegio. Il Movimento si definiva una “libera associazione di cittadini”.
Non era un partito politico, e non voleva diventarlo, e riconosceva “alla
totalità dei cittadini il ruolo di governo”.
L’M5S offriva ospitalità a forum democratici su Internet e associazioni locali
che si trasformavano rapidamente in fonti di voti su vasta scala. Nel 2012 il
Movimento ebbe un decollo spettacolare. Alle amministrative di maggio a
Parma – una delle città più ricche d’Italia, che fino a tutti gli anni ’90 era stata
roccaforte del centrosinistra, poi governata per più di un decennio (in modo
inefficiente e disonesto) dal partito di Berlusconi – venne eletto sindaco uno
sconosciuto rappresentante dei 5 stelle. Il candidato di centrosinistra fu
sbaragliato: il trentanovenne Federico Pizzarotti conquistò oltre il 60 per
cento dei voti. Pizzarotti era in politica soltanto dal 2009. Alle regionali in
Sicilia il Movimento divenne primo partito, ottenendo quindici consiglieri.
Con la consueta esuberanza, Grillo aveva traversato a nuoto lo stretto di
Messina in apertura di campagna – un gesto dal sapore mussoliniano che
dimostrava la sua abilità nella manipolazione dei media, che dichiarava di
detestare.
Le elezioni politiche del 2013 furono un’ulteriore formidabile conferma di
quanta strada avesse fatto il Movimento in un tempo tanto breve. Soltanto il
voto degli italiani all’estero impedì all’M5S di diventare primo partito. Lo
scelsero 8,8 milioni di italiani: un risultato comparabile – ma senza alleati –
con quello di Berlusconi nel 1994. 648 dei 945 rappresentanti eletti nel
Parlamento precedente si erano ripresentati, ma ne furono rieletti soltanto
344. Tutti i deputati e i senatori eletti nelle liste M5S entravano in
Parlamento per la prima volta. Molti avevano tra i venti e i trent’anni. Per la
maggior parte erano completamente ignoti ai media e agli elettori e avevano
poca o nessuna esperienza politica.
Grillo rifiutò qualsiasi ipotesi di alleanza con il Partito democratico e tenne i
suoi all’opposizione. Dall’esterno del Parlamento (una condanna subita nel
1988 per omicidio stradale gli avrebbe comunque impedito di candidarsi)
Grillo controllava il Movimento con pugno di ferro. Qualsiasi forma di
dissenso comportava l’espulsione immediata – decisione che si voleva presa
grandiosamente da ‘Internet’, e che però di fatto corrispondeva a numeri
relativamente esigui di voti online.
Fu subito evidente che le componenti più radicali dell’M5S venivano
abbandonate in favore di una linea anti-euro, anti-UE e anti-immigrati. Il
messaggio lanciato alleandosi con l’UKIP di Nigel Farage nel Parlamento
europeo era chiaro. Grillo e Casaleggio parevano esercitare un controllo
ferreo sull’organizzazione ‘leggera’ che avevano creato. Questi cambiamenti
accompagnavano i segni evidenti del passaggio all’M5S di molti elettori di
centrodestra che ne avevano abbastanza di Berlusconi, di Alleanza nazionale o
della Lega. E senza dubbio ci fu anche chi abbandonò il centrosinistra –
magari in via temporanea, per vedere se l’M5S avrebbe mantenuto le
promesse.
All’interno dell’M5S il ricambio dei candidati, e dei militanti, era continuo.
A Parma il sindaco Pizzarotti e alcuni dei suoi consiglieri uscirono dal
Movimento nell’ottobre 2016, dopo una serie di scontri con Grillo. I
consiglieri protestavano per il modo in cui si gestiva l’organizzazione,
attraverso “votazioni ‘confermative’ in cui si può solo prendere per buono ciò
che in altre stanze è stato deciso; capi politici autoproclamati; direttivi di
partito nominati dall’alto; successioni dinastiche come nella peggiore
tradizione padronale”15. E aggiungevano: “Noi non siamo cambiati, non sono
cambiati i nostri valori e la nostra volontà di cambiare le cose. È cambiato un
movimento che è indiscutibilmente mutato geneticamente”. Pizzarotti batté
senza fatica il candidato ufficiale dell’M5S alle successive elezioni del 2017, e
fu rieletto con una lista indipendente.
La vittoria alle comunali di Livorno nel giugno 2014 dimostrò ancora una
volta che l’M5S era capace di vincere nelle roccaforti della sinistra, andando a
sfidare quel che restava delle tradizioni comuniste. Grillo portava al limite
estremo la politica dell’antipolitica. Nella scelta dei candidati M5S contavano
soprattutto la provenienza non-politica e la trasparenza di redditi, rimborsi
spese e altre forme di accesso ai privilegi di cui godevano altri settori della
‘classe politica’. L’M5S era contro molte cose – l’euro, gli immigranti – ma
che cosa voleva? Era ultra-democratico, o era invece una forma di autocrazia,
in cui il feticcio della ‘rete’ rimpiazzava quello delle ‘masse’ o del ‘popolo’?
Grillo e i suoi denunciavano il ‘finanziamento pubblico’ dei ‘media
convenzionali’, funzionali al sistema.
L’M5S aveva indovinato la formula (quantomeno a breve), sfruttando la
rabbia diffusa contro l’immigrazione, la crisi interminabile e le istituzioni
europee, compreso l’euro. La crisi del debito aveva portato austerità,
disoccupazione giovanile alle stelle e contrazione delle pensioni. I risultati del
2013 mostrarono tutta l’estensione e la potenza dell’onda populista in Italia. Il
nuovo partito di Monti finì ai margini, con appena il 9 per cento. Grillo
vendeva un’illusione – come Berlusconi prima di lui – ma era un’illusione di
tipo nuovo. I veri problemi dell’Italia – proclama Grillo – sono politici: la
corruzione e il potere della ‘casta’ (che a suo dire investe anche i media, i
sindacati, la magistratura e altri settori della vita pubblica). Se riusciamo a
sostituire chi sta al potere, potremo risolvere tutto. Ma Grillo ha poco da dire
sull’economia, sul debito pubblico, e anche sull’immigrazione, a parte facili
slogan come “espulsione immediata degli immigrati clandestini”. Il suo è un
anti-programma.
Se tutti fossero ‘onesti’ e ‘nuovi’, sembra dire Grillo, tutto andrebbe per il
meglio. Noi siamo ‘puri’, affermano i grillini, siamo ‘puliti’, non siamo come
‘loro’. Ma se la storia insegna qualcosa – dopo Tangentopoli – è che l’essere
‘onesti’ o meno è una categoria senza senso. I politici non sono tutti eguali,
questo è ovvio; ma ogni movimento o partito italiano che si sia proclamato
onesto e pulito è poi finito in tribunale. Come è successo anche a qualche
esponente del Movimento di Grillo, soprattutto ai nuovi amministratori
locali. L’M5S si concentra sui sintomi, non sulle cause dei problemi del paese.
Nulla di tutto questo è parso frenare l’avanzata elettorale dei grillini. Nel
giugno 2016 un’altra semisconosciuta candidata M5S vinse il ballottaggio,
diventando sindaca della città più grande, e forse più difficile da governare,
d’Italia: Roma. Virginia Raggi era consigliera comunale soltanto dal 2013.
Conquistò più del doppio dei voti del candidato del centrosinistra: 770.000, il
67 per cento. Da anni Roma era scossa da gravi scandali di corruzione,
culminati con la scoperta di stretti collegamenti tra la criminalità organizzata e
la classe politica. Intanto i blog e i tweet della propaganda grillina si
concentravano sul messaggio anti-immigranti, in parte per rincorrere
l’aggressiva politica razzista della Lega, rivitalizzata dal nuovo leader Matteo
Salvini, che si identificava con Marine Le Pen in Francia e con
l’euroscetticismo. Nel giugno 2015 Grillo twittò un appello per le elezioni a
Roma, “prima che la città venga sommersa dai topi, dalla spazzatura e dai
clandestini”.
Nel 2016, dopo l’uccisione a Milano di un ricercato per un attentato
terroristico a Berlino, Grillo lanciò appelli all’espulsione degli immigrati e alla
sospensione temporanea degli accordi di Schengen: “L’Italia sta diventando
un viavai di terroristi, che non siamo in grado di riconoscere e segnalare, e che
grazie a Schengen possono sconfinare indisturbati in tutta Europa. Bisogna
agire ora”. Nel 2017 si è opposto alla concessione della cittadinanza agli
immigrati nati sul suolo italiano.
La nuova sindaca di Roma, Virginia Raggi, che è un avvocato, aveva
trentasette anni, ed era stata tirocinante nello studio di uno degli avvocati, e
amici, di Berlusconi, Cesare Previti. La sua amministrazione esordì bocciando
la candidatura di Roma per le Olimpiadi (un ‘no’ popolare, in linea di
massima). Ma presto cominciarono i problemi con i suoi funzionari e fecero
capolino i problemi giudiziari. Seguirono indagini e arresti, e lei fu accusata di
aver mentito all’autorità anticorruzione. Nel dicembre 2016 un ‘contratto’
firmato dai candidati M5S, che li impegnava a dimettersi in caso di condanna,
o anche soltanto di avviso di garanzia, suscitò molte perplessità. Il contratto
legava le mani agli amministratori M5S anche per quanto riguardava le
alleanze16. La clausola più problematica del documento, comunque, era la
‘multa’ prevista per i candidati che danneggiassero ‘l’immagine’ del
Movimento. I portavoce M5S erano a favore: basta amministratori eletti con il
Movimento che poi passano ai partiti tradizionali. La morte prematura di
Casaleggio, a sessantun anni nell’aprile 2016, ha privato l’M5S di una delle
figure più importanti, ma si sono fatti subito avanti altri giovani candidati, e il
figlio di Casaleggio, Davide, ha ereditato in parte l’aura del padre.
Grillo inveiva contro l’intero sistema politico – e sapeva bene di cosa parlava.
Documentava l’ammontare assurdo dei contributi statali a giornali politici
inesistenti, per esempio, e sparava sia a destra che a sinistra, quasi senza
distinzioni. Berlusconi era uno “psiconano”; Pier Luigi Bersani (leader del
PD nel 2013) lo “zombie”, oppure “Gargamella” (un personaggio dei Puffi);
Mario Monti “rigor Montis”. Usava un linguaggio violento e diretto,
organizzava i “Vaffanculo day” contro il governo – di fatto, contro tutti. Ce
l’aveva anche con le multinazionali, chiedeva una maggiore democrazia degli
azionisti.
Per quanto ne sappiamo, i seguaci di Grillo sono in genere giovani e idealisti.
Di conseguenza, il Parlamento del 2013 era il più ‘nuovo’ dal 1994. Da loro ci
si aspetta il massimo rigore personale. Molti, se non tutti, sono cresciuti con
Internet, che usano in modo quasi esclusivo per comunicare e ottenere
informazioni e notizie. Il partito di Grillo è post-moderno e post-politico, ma
è soggetto a un controllo gerarchico rigoroso.

Ascesa, caduta e ri-ascesa della Lega.


Il futuro dell’Italia
Col tempo la Lega Nord ha cambiato il registro di molti dei suoi proclami,
alternando posizioni più decisamente secessioniste (federalismo radicale, o
perfino separazione del Nord dal Sud in due Stati diversi) ad atteggiamenti più
moderati (specie nella coalizione di governo con Berlusconi dopo il 2001). Le
riforme federaliste approvate dal governo di centrosinistra furono confermate
da un referendum nel 2001, in cui votarono 16,8 milioni di italiani, di cui il
64 per cento a favore. Quelle proposte dal governo Berlusconi – che
comprendeva la Lega – furono invece bocciate da un referendum analogo nel
2006 (questa volta 26 milioni di votanti, 61 per cento per il No). Il Sì vinse
soltanto in Lombardia e in Veneto. Per la Lega fu un duro colpo. I suoi ideali
e le sue proposte di decentramento (che comprendevano la pubblica
istruzione e la polizia) si erano confuse con altre riforme costituzionali e per di
più il voto era diventato una specie di referendum sulla persona di Berlusconi.
Comunque fosse, la Costituzione italiana era costruita per durare, e molti
preferivano che rimanesse così.
L’impressione è che la Lega tendesse ad accendere o spegnere le sue
aspirazioni alla Padania indipendente a seconda del contesto politico. Al
potere, il movimento divenne più moderato, integrandosi sempre più nel
sistema. Qualcuno l’accusò di essersi ‘romanizzato’ – peccato imperdonabile
per un leghista. Nel governo formato da Berlusconi nel 2001 la Lega aveva tre
ministri. Si dimostrarono alleati fedeli di Forza Italia sia all’interno che
all’esterno del governo e il ‘tradimento’ del 1994-95 fu presto dimenticato.
Nel 2004 Bossi fu colpito da un ictus quasi fatale, che ridusse le sue capacità di
comando. Non si ritirò dalla politica e rimase potente all’interno del
movimento, ma il vero capo della Lega divenne Roberto Maroni, un politico
più tranquillo, e più efficace, ma del tutto privo del carisma e della potenza del
Bossi degli anni ’80 e ’90.
Si potrebbe sostenere che la Lega e Bossi si avvicinarono troppo al potere – a
livello nazionale e locale – tradendo così molte delle proprie radici populiste.
Gli scandali del nuovo secolo avrebbero rivelato la dimensione di questo
processo. Soltanto vent’anni dopo Tangentopoli, il partito che si era
maggiormente schierato dalla parte dei magistrati e di Mani pulite fu colpito
da un grave scandalo politico. Il movimento i cui militanti avevano
allegramente agitato il cappio in Parlamento per cacciare i politicanti dal
potere finiva esso stesso alla sbarra. Umberto Bossi, i membri della sua
famiglia e i maggiori leader della Lega furono accusati di corruzione e di aver
speso a scopo personale denaro destinato all’attività politica. Nel 2012 lo
scandalo finì sui giornali. I titolisti si divertirono: “La Stampa”, per esempio,
uscì con “Da Roma ladrona a Padania ladrona”17.
“Il Fatto quotidiano” sosteneva che “Chiamare terremoto quanto è successo
all’interno della Lega rischia di essere un eufemismo”18. Umberto Bossi si
dimise da segretario federale (ma fu presto nominato presidente federale, e
nessuno sapeva bene quale fosse la differenza), e si dimise anche suo figlio
Renzo, eletto in Consiglio regionale lombardo. Quanto emergeva di tanto in
tanto sulle vicende della famiglia Bossi era al tempo stesso divertente e
preoccupante. Renzo, per esempio, era stato bocciato per tre volte alla
maturità, prima di superare l’esame al quarto tentativo; la stampa parlò molto
del fatto che pareva essersi laureato in Albania senza seguire un’ora di lezione.
Lui dichiarò di non saperne nulla. I giornali replicarono con titoli come
“Renzo Bossi laureato a sua insaputa”19. L’altro figlio di Bossi, Riccardo (che
negò ogni addebito), nel 2016 fu condannato in primo grado per
appropriazione indebita di fondi pubblici.
Il tesoriere della Lega Roberto Belsito venne arrestato per una serie di reati
finanziari, e al 2019 sono ancora in corso diversi processi. Al di là degli esiti
giudiziari, l’affare inflisse danni gravissimi alla Lega e alla sua reputazione.
Erano comunque pochi gli italiani che rimasero sorpresi. La corruzione
politica non era certo finita con Tangentopoli, e ogni partito, movimento o
organizzazione era stato prima o poi coinvolto, insieme con tanti affaristi e
privati cittadini. Erano talmente tanti che ormai l’opinione pubblica era ‘sazia’
di scandali, alcuni dei quali si meritarono anche il suffisso “-opoli”:
“Affittopoli” per gli affitti stracciati pagati dai politici e dai loro amici;
“Vallettopoli” per un’inchiesta legata al mondo della televisione e a ‘scambi di
affettuosità’ fra politici, imprenditori e attrici.
Con l’incremento dell’immigrazione la Lega è diventata sempre più razzista,
soffiando sul fuoco del risentimento contro migranti e rom (e poi
dell’islamofobia) ovunque si manifesti. Il politico della Lega Mario Borghezio
si specializzò nell’organizzazione di marce e manifestazioni contro gli
immigrati. Certi leghisti si organizzarono in ‘ronde’, gruppi di vigilanti vestiti
di verde che si autonominavano poliziotti. In diverse occasioni militanti della
Lega hanno chiesto di gettare gli immigranti dagli aerei, di deportarli in treno,
di rastrellarli e rinchiuderli in ‘campi di lavoro’, di cacciarli come animali; fino
a richiedere la castrazione per gli immigrati accusati di stupro. Il leghista
Roberto Calderoli ha detto di una parlamentare di colore: “Amo gli animali...
ma quando vedo le [sue] immagini... non posso non pensare... alle sembianze
di un orango”20.
Attaccando l’immigrazione, la Lega è riuscita ad assumere dimensioni
sempre più nazionali (adottando perfino, in qualche occasione, sentimenti
nazionalistici in luogo del regionalismo). Una situazione paradossale,
considerato che proprio gli appelli della Lega alla divisione del paese negli anni
’90 e 2000 avevano avuto come riflesso una rivalutazione dei simboli nazionali
nella sinistra. La bandiera italiana – che per molti era stata una questione
problematica – ha assunto allora un nuovo significato. In opposizione alla
Lega, molte persone di sinistra hanno adottato quella bandiera che un tempo
era stata guardata con un certo fastidio.
Lo scandalo che travolse Bossi e i suoi alleati dopo il 2012 portò al cambio
della guardia, e gli uomini di Roberto Maroni si insediarono nelle posizioni di
potere. Il cosiddetto ‘cerchio magico’ al vertice della Lega – che comprendeva
membri della famiglia Bossi – venne marginalizzato. Nel 2013 si tennero le
primarie per scegliere il leader: con l’82 per cento dei voti venne eletto un
personaggio più giovane, dinamico e aggressivo, l’ex studente di storia Matteo
Salvini. Salvini prendeva a modello il Front National di Le Pen, e dava la
priorità al linguaggio anti-immigrazione, anti-islam, anti-rom – una
propaganda che rientrava da sempre nella strategia della Lega, ma che ora
assumeva un ruolo centrale – e al forte richiamo dell’euroscetticismo. Salvini
era deciso a trasformare la Lega in un partito davvero nazionale, e alle
regionali del 2015 il movimento cominciò a diffondersi in regioni
tradizionalmente rosse come l’Emilia Romagna, la Toscana e l’Umbria.

Mario Balotelli
Nel 2007 un giovane centravanti nato in Italia debuttò nell’Inter; aveva
diciassette anni. Divenne subito una celebrità, vincendo una serie di titoli in
Italia e all’estero. Mario Balotelli è nato a Palermo il 12 agosto 1990, ma è
cresciuto a Concesio, vicino a Brescia – parla con un forte accento bresciano.
Il suo precoce talento fu scoperto quando era ancora alle medie, e a quindici
anni giocava nella squadra giovanile del Lumezzane; poi, nel 2006-7, venne
ingaggiato da una grande squadra, l’Inter.
Nella stagione 2007-8 Balotelli si mise in luce segnando due reti in una
partita di Coppa Italia che portò alla vittoria dell’Inter sulla Juventus. Nella
nazionale under 21 segnava di continuo. Era grande e forte, con un tiro
potente, e fin dall’inizio richiamò l’attenzione. Non sorprende che i tifosi
juventini lo insultassero quando giocava a Torino: l’Inter era una vecchia
nemica e lo scandalo di Calciopoli del 2006 aveva riscaldato le passioni. La
cosa interessante, però, è il contenuto degli insulti. Il calcio non c’entrava
affatto. Nel 2009 in una partita contro la Juventus si è sentito questo: “Non ci
sono negri italiani. Balotelli sei un africano”. E invece Mario Balotelli è
italiano, ed è nero. I suoi genitori biologici vengono dal Ghana, ma l’hanno
dato in adozione a una famiglia italiana quando aveva appena tre anni.
Pur essendo nato e cresciuto in Italia, Balotelli ha dovuto aspettare i
diciott’anni per diventare cittadino italiano. Le leggi discriminatorie sul diritto
di cittadinanza sono sfasate rispetto al resto d’Europa: Balotelli rischiava anche
di perdere ogni diritto se fosse uscito in qualsiasi momento dal paese. Il giorno
dopo il diciottesimo compleanno si tenne una speciale cerimonia per
celebrare l’acquisizione di qualcosa che Balotelli considerava da sempre suo:
un pezzo di carta che lo dichiarava ufficialmente italiano.
Molti italiani odiavano – e odiano – Balotelli. In parte, perché giocava
nell’Inter, all’epoca signora del campionato. Ma il vero motivo è più
profondo. Balotelli riassume tutte le contraddizioni dell’immigrazione
straniera in Italia. Molti italiani non riescono ad accettarlo come uno di loro:
lui è l’Altro, nero, africano (inteso come insulto, naturalmente), inferiore. E si
è macchiato anche di un altro delitto: non è umile. Non si inchina a nessuno;
anzi, a volte sembra quasi divertito dalla notorietà di cui gode presso tifosi e
giocatori.
Le reazioni agli insulti nella partita del 2009 contro la Juventus sono
rivelatrici. Per molti la colpa era di Balotelli, col suo atteggiamento
‘provocatorio’, non da ‘vero campione’. Insomma, non sapeva stare al suo
posto. I tifosi si erano quindi sentiti in diritto di fischiarlo, o quantomeno
avevano avuto una qualche giustificazione. Qualcuno sosteneva che non
erano stati insulti razzisti. Dopo pesanti critiche del presidente dell’Inter
Massimo Moratti, che disse che avrebbe ritirato la squadra dal campo se fosse
stato presente alla partita, le autorità del calcio italiano si decisero a
provvedere, imponendo alla Juventus la sanzione di una partita a porte chiuse.
Perché proprio la Juventus? Mario era sempre stato accompagnato da cori
razzisti, compreso il classico “Balotelli negro di merda”. Niente di nuovo, lo
sappiamo, né in Italia né altrove. Ma in Italia era un’altra cosa: la situazione
peggiorava per il semplice motivo che il razzismo veniva dall’alto, incoraggiato
dai politici e da chi teneva le redini del potere.
Quando Balotelli segnò la seconda, magnifica rete che eliminò la Germania
dalle semifinali del Campionato europeo, divenne un eroe nazionale; per un
po’ si dimenticarono che era nero. Ma quando giocò male (come parecchi
altri) nella Coppa del mondo 2014, non gliela perdonarono. Divenne un
facile capro espiatorio, e dal 2014 al 2018 non giocò mai in nazionale: era
ritornato ad essere un negro21.
Il ‘caso Balotelli’ rivela quanto sia profonda in Italia l’ostilità per quella che
potremmo definire la società multiculturale. Gli immigrati sono tollerati
finché rimangono invisibili. Non devono eccellere in qualcosa, fare soldi, o
sentirsi ‘come noi’. Balotelli mette a nudo le spaventose contraddizioni di
questa società. Per questo ispira odio, sospetto e paura. È una visione del
futuro, un futuro (e un presente) al quale molti italiani guardano con profonda
inquietudine.

Eliminati. Gli Azzurri


e la Coppa del mondo 2018
Dopo la discreta prestazione della nazionale italiana ai Campionati europei del
2016, venne nominato un nuovo direttore tecnico, Gian Piero Ventura, con
poca esperienza ai vertici del mondo del calcio. Nel girone di qualificazione
per la Coppa del mondo 2018 l’Italia finì seconda dopo la Spagna. Si rese
necessario uno spareggio con la Svezia, partita di andata e ritorno. Come
dubitare che i quattro volte campioni del mondo avessero la meglio, con tanta
esperienza e il vantaggio di giocare il ritorno in casa? E invece all’andata, a
Stoccolma, la Svezia segnò su tiro deviato, vincendo 1-0. Per quanto si
dessero da fare, nel ritorno a Milano il 13 novembre 2017 gli italiani non
riuscirono a sfondare. Ventura non volle mandare in campo l’attaccante del
Napoli Lorenzo Insigne, giocatore di talento e in gran forma. Nel secondo
tempo, quando gli dissero di scaldarsi, il centrocampista Daniele De Rossi
protestò: “Dobbiamo vincere, non pareggiare...”. Finì 0-0. Per la prima volta
dal 1958 l’Italia non riusciva a qualificarsi per la Coppa del mondo. Il 2006
pareva veramente lontano – e gli ultimi giocatori che avevano partecipato a
quel trionfo si dimisero tutti dalla nazionale dopo la partita con la Svezia. I
giornali strillavano che l’Italia era stata umiliata – una ‘catastrofe’. Ma non pare
che la presunta tragedia avesse grandi effetti sulla gente: gli italiani sembravano
essersi disamorati della nazionale.
Ventura si dimise – per non essere cacciato – e venne sostituito da Roberto
Mancini, che subito richiamò in squadra Mario Balotelli, per la prima volta
dal 2014. Il Balotelli risorto segnava, ma ancora una volta fu presto scaricato.
La nazionale italiana era entrata in declino terminale, oppure era
semplicemente diventata una squadra qualsiasi?
Nel frattempo la serie A attraversava una crisi di diverso genere. Nel 2018 la
Juventus ha vinto il settimo scudetto di fila, dopo un lungo duello con il
Napoli, e ha ingaggiato una super-stella mondiale, Cristiano Ronaldo, per la
stagione successiva. Non pare nemmeno giusto: un altro scudetto, ancora!
Possibile che nessun altro riesca a vincere?

Papa Francesco
Il pontificato di Benedetto XVI si è concluso drammaticamente l’11 febbraio
2013. Una giornalista attenta, che conosce il latino – Giovanna Chirri –, si
accorse di colpo che il papa stava annunciando una cosa inaudita. Nella sua
breve dichiarazione aveva colto la parola “renuntiare”: il papa si dimetteva.
L’ultima volta era successo 598 anni prima. Papa Benedetto spiegava che per
occupare quell’incarico nel mondo moderno “è necessario anche il vigore, sia
del corpo sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in
modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il
ministero a me affidato. Per questo... con piena libertà, dichiaro di rinunciare
al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per
mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle
ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro sarà vacante e dovrà essere
convocato, da coloro cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo
Sommo Pontefice”22.
Il mondo rimase a bocca aperta. Seguirono febbrili speculazioni sui reali
motivi delle dimissioni. Il papa aveva una malattia terminale? Era stato
coinvolto in troppe coperture di scandali per abusi sessuali? Nessuno lo
sapeva. Non era stato un papa popolare: troppo cerebrale, troppo riservato,
troppo poco carismatico per un ruolo ormai intimamente legato ai media. La
Chiesa aveva bisogno di qualcos’altro. In marzo elessero l’uomo all’altezza del
compito.
Il pontificato di Francesco ha rappresentato un soffio d’aria fresca per tutto il
mondo cattolico. Lui parla direttamente alla gente, e si è dato come missione
l’impegno della Chiesa in favore dei poveri nel mondo. “Fin dalla scelta del
nome, il nuovo papa ha manifestato... un amore speciale per i poveri, i
marginali, gli esclusi, i disoccupati, i disabili, i ‘reietti’, e i cosiddetti ‘residuali
urbani’”23. Si è rivolto anche contro “l’economia che uccide”, criticando
molti aspetti della società dei consumi. In netto contrasto con il predecessore,
la sua popolarità è immensa.
Papa Francesco è spesso riuscito a stupire, anche gli uomini di Chiesa, con i
suoi pronunciamenti e le sue decise prese di posizione. Nel giugno 2014, in
visita in Calabria, dichiarò a una folla adorante di 250.000 fedeli che “la
Chiesa deve dire di no alla ’ndrangheta. I mafiosi sono scomunicati” – la frase
non era prevista nel discorso originale, e pare abbia turbato parecchi prelati.
In Italia il rapporto della Chiesa con la criminalità organizzata si è basato in
genere sulla coesistenza, quando non sul favoreggiamento attivo. Ci sono stati
casi di preti antimafia, che spesso hanno pagato con la vita, ma nell’insieme
Chiesa e mafia (e la camorra, e la ’ndrangheta) andavano d’accordo. Il primo
papa a pronunciare il nome della mafia è stato Giovanni Paolo II nel 1993. Ma
la dichiarazione di papa Francesco è molto più forte: in teoria espelle del tutto
i mafiosi (e i camorristi e gli ’ndranghetisti) dalla Chiesa24.
Molti capi mafiosi hanno sempre sostenuto di essere profondamente
religiosi, nonostante le loro attività criminali (che spesso negano). Che fare di
loro? E i preti che lavoravano con loro nelle carceri? In teoria la scomunica è
un affare serio: niente battesimo, niente confessione, niente matrimonio
religioso, niente funerale in chiesa. In poche parole, spedisce i mafiosi
all’inferno. Tutti25. Nella pratica, le cose sono molto più sfumate; la
traduzione in comportamenti delle pronunce ‘infallibili’ del papa è affare
politico e pragmatico. Si vedrà col tempo se la Chiesa, in quanto istituzione,
ha realmente modificato il suo approccio alla criminalità organizzata.
Una serie di sconcertanti rivelazioni dall’interno del Vaticano dimostra però
quanto sia stato difficile il tentativo di riformare la Chiesa. L’affare ‘Vatileaks’,
quando documenti e registrazioni segreti furono passati ai giornalisti da diversi
personaggi vaticani, rivelò una gerarchia ecclesiastica spendacciona, dilaniata
da aspre rivalità personali e politiche combattute a suon di dossier e pugnalate
alla schiena. Erano spariti fondi donati dai fedeli e destinati ai ‘poveri’; di certi
cardinali si scopriva che vivevano nel lusso. A richiamare l’attenzione fu
soprattutto lo sfarzoso appartamento del cardinal Bertone (300 metri quadri
secondo il cardinale, più del doppio secondo altri, con magnifica terrazza sui
tetti di Roma), i cui costosi lavori di restauro sarebbero stati pagati con denaro
spettante a un ospedale pediatrico. Bertone avrebbe poi rimborsato 150.000
euro, dichiarando tuttavia che quei soldi erano stati spesi “a sua insaputa”26.
L’opinione pubblica è rimasta affascinata da queste indiscrezioni, pubblicate
in una serie di libri di grande successo27. Il rapporto della Chiesa con la
ricchezza appariva esattamente il contrario di quello auspicato dal nuovo papa.
I tentativi di Francesco di strappare il controllo delle finanze della Chiesa dalle
mani di un’élite arroccata hanno incontrato una fiera resistenza. Il Vaticano ha
reagito comunque male per le modalità con cui è avvenuta la fuga di notizie,
sottoponendo i presunti responsabili ai procedimenti del suo bizzarro sistema
giudiziario28.
La rivoluzione di papa Francesco non è facile, e le forze che vi si oppongono
sono potenti. Sanno di avere tempo, di poter attendere la fine del pontificato.
È uno scontro affascinante, che si estende ben oltre la collocazione geografica
del Vaticano nel cuore di Roma. Scrive un esperto vaticanista:
“Misteriosamente la Chiesa cattolica riesce spesso a eleggere i pontefici giusti
nei passaggi epocali. Giovanni XXIII arriva sul crinale del disgelo tra il blocco
occidentale e quello sovietico. Paolo VI coincide con il movimento planetario
di decolonizzazione. Giovanni Paolo II marca la fine della cortina di ferro.
Francesco è diventato papa in una stagione di crisi mondiale. Non sono più
solo i paesi del Terzo mondo a soffrire di gravi squilibri economici, povertà,
emarginazione, corruzione, violenza, differenze intollerabili tra ceti iper-
ricchi e settori sociali alla fame”29. Eppure, chiunque sa qualcosa della Chiesa
si aspetta che la continuità avrà la meglio sul cambiamento. Come dice
l’adagio, “morto un papa, se ne fa un altro”.

La vita e la morte
I valori cattolici hanno ancora radici profonde nella società italiana. Lo
rivelano, in diverse occasioni, i dibattiti appassionati e le controversie
politiche scatenate da casi di cronaca. Nel 1992 Eluana Englaro, di Lecco,
aveva solo ventun anni quando subì un grave incidente d’auto che la lasciò in
uno ‘stato vegetativo persistente’, alimentata con il sondino e affidata alle
suore. Doveva stare appoggiata su un fianco perché non riusciva a deglutire la
propria saliva. Il padre, Beppino Englaro, intraprese una lunga e difficile
battaglia legale (durata quasi undici anni) per sospendere la ‘terapia’ e lasciarla
morire. Nel luglio 2008 il caso scatenò un dibattito nazionale sul diritto a
decidere della vita e della morte in questo tipo di situazione. Beppino Englaro
ottenne ragione dalla Corte d’appello. Il caso divise l’Italia. La Chiesa e molti
politici cattolici difendevano il ‘diritto alla vita’ di Eluana, mentre l’Italia laica
sosteneva il padre. Seguì una controversia violenta e carica di emozioni, che
arrivò fino ai massimi livelli dello Stato italiano. Englaro fu perfino accusato di
aver ucciso sua figlia; ad un certo punto fu aperta un’inchiesta ufficiale.
Nel 2009 il governo di Silvio Berlusconi approvò un decreto senza
precedenti, che vietava la sospensione dell’alimentazione artificiale per tutti i
pazienti. Berlusconi dichiarò che Eluana “avrebbe anche potuto avere un
figlio”, e che aveva “un bell’aspetto”30. Per il politico cattolico Rocco
Buttiglione, “Eluana potrebbe anche svegliarsi, così, da un momento
all’altro”31. In tutta Italia si svolsero manifestazioni in favore di Beppino
Englaro e contro il decreto. Il presidente Napolitano rifiutò di firmare il
provvedimento ‘d’emergenza’. Si discuteva molto su ‘cosa avrebbe voluto
Eluana’, ma per altri era soprattutto una questione etica e politica. Tuttavia il
governo Berlusconi non mollava l’osso. Impose al Senato una seduta
straordinaria per approvare un decreto identico, ma era troppo tardi. La
decisione su Eluana fu eseguita, come prescritto dal tribunale, il 9 febbraio
2009. Era rimasta in coma per diciassette anni. Il sindaco di destra di Roma,
Gianni Alemanno, annunciò che il Colosseo sarebbe rimasto illuminato tutta
la notte in segno ‘di lutto’ per quella “vita che poteva e doveva essere
salvata”32. Il decreto di Berlusconi fu revocato.
In tutta questa vicenda, la presa di posizione dei politici del governo
regionale lombardo ebbe un ruolo di primo piano, in quanto fecero di tutto
per impedire a Englaro di dare alla figlia una morte dignitosa, al punto da
costringerlo a portare Eluana a Udine. Nel 2016 la Regione Lombardia fu
condannata a pagare i danni agli Englaro per il suo intervento nella vicenda.
Le passioni evocate da questo caso, e il modo in cui è stato sfruttato dai
politici, evidenziano le profonde divisioni tra i valori laici e quelli che per
molti rappresentavano i valori cattolici – divisioni trasversali agli schieramenti
di centrodestra e centrosinistra, che comprendevano entrambi esponenti
cattolici e laici.

Un cimitero galleggiante
La globalizzazione ha avuto un impatto profondo sull’Italia, per la sua
posizione geopolitica ai margini e insieme al centro dell’Europa. Nonostante
le difficoltà che migranti e profughi incontrano in Italia, molti tentano ancora
quel viaggio pericoloso. Per la sua collocazione geografica ai confini dell’UE,
la piccola isola di Lampedusa si è trovata d’un tratto al centro di una crisi di
dimensioni globali.
Nella notte di Natale del 1996, un’imbarcazione chiamata F174 affondò al
largo della costa siciliana. I morti furono circa 300 – per lo più venivano
dall’India, dal Pakistan e dallo Sri Lanka. Dopo la tragedia, nota come la Strage
di Natale, i pescatori siciliani iniziarono a trovare resti di cadaveri nelle loro
reti. Di solito ributtavano tutto in mare; poi venne a galla un documento
d’identità, di un certo Anpalagan Ganeshu, diciassette anni, un tamil dello Sri
Lanka. La stampa cominciò a interessarsi, ma le autorità non mossero un dito.
Il pescatore che aveva trovato il documento lo portò a Roma e lo diede a un
coraggioso giornalista della “Repubblica”, Giovanni Maria Bellu, che decise
di andare a vedere.
Nel 2001 Bellu affittò una telecamera e una specie di mini-sottomarino, e
cominciò la ricerca del relitto. Non fu molto difficile. Ritrovò presto i segni
tremendi di una tragedia: pezzi di barca, ossa, scheletri ancora vestiti, scarpe
spaiate. Questa catastrofe, e l’omertà che l’aveva accompagnata, sarebbero poi
state il tema di una potente opera d’arte e di un dramma teatrale33. All’epoca
venne definito il più grave disastro nel Mediterraneo dalla fine della Seconda
guerra mondiale. Il record, purtroppo, sarebbe stato presto battuto: nel
secondo decennio del XXI secolo eventi come questo sono diventati
praticamente la norma34.

Lampedusa, l’Italia e l’Europa:


l’isola dei sogni e degli incubi
Nel potente Fuocoammare di Gianfranco Rosi (2016), nominato agli Oscar, c’è
una scena che rimane nella memoria ben oltre la durata del film. Una barca
galleggia sul mare. Mentre la telecamera scende sotto coperta, si capisce che ci
sono dei morti, molti; i corpi sono accatastati. La camera entra nella stiva
accompagnata da un silenzio tremendo. Eppure, di questa tragedia non si era
forse saputo nulla. Il passaggio verso l’Europa è un rischio mortale che molti
sono costretti a correre a causa della guerra, delle persecuzioni, degli eccessi
prodotti dalla diseguaglianza. Non sapremo mai quanti non ce l’hanno fatta –
e non ce la faranno.
Lampedusa è minuscola, ma tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo è
stata forse il luogo più importante d’Italia. Si trova a circa 230 chilometri dalla
Sicilia, e ha una popolazione residente di circa 6000 persone. L’elettricità è
arrivata nel 1951, il primo telefono nel 1963. Cinque anni dopo venne
inaugurato l’aeroporto. È un posto stupendo, pieno di colori. Ed è più vicina
all’Africa e a Malta che all’Italia. La costa tunisina è a soli 167 chilometri, e
anche la Libia è relativamente vicina: Tripoli dista 355 chilometri.
Fino agli anni ’90 a Lampedusa non era mai successo nulla di storico.
Nell’Ottocento, ospitava una remota colonia penale. L’invasione alleata
dell’Italia, che avrebbe portato alla caduta di Mussolini, partì da qui (l’isola si
arrese senza sparare un colpo), ma la guerra vera si trasferì presto in Sicilia. Poi
però le cose sono cambiate. Lampedusa è finita sulla bocca di tutti, a livello
globale: un tema di dibattito politico e controversie, il centro di una
catastrofe. Molti politici hanno visitato l’isola, e gli amministratori hanno
provato a conciliare le esigenze locali con quelle internazionali.
A Lampedusa è arrivato perfino il papa. Nel 2013 venne sull’isola in visita
ufficiale, e pronunciò un discorso appassionato. Prendeva spunto dal titolo di
un giornale: Immigrati morti in mare. “Quando ho appreso questa notizia... il
pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta
sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a
compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze
perché ciò che è accaduto non si ripeta, non si ripeta per favore [corsivo mio]”35.
Purtroppo queste potenti parole del papa non sono bastate ad impedire nuove
tragedie.
L’isola è diventata una tappa di passaggio per migliaia di potenziali migranti,
profughi e richiedenti asilo che tentano di entrare nell’Unione Europea. Il
Mediterraneo si è trasformato in un cimitero galleggiante per i tanti che sono
morti nel tentativo di arrivare in Italia, mentre altri riuscivano a toccare
Lampedusa, o venivano scortati nel suo porto. L’isola è diventata la pietra di
paragone del modo in cui l’UE, l’Italia e l’Occidente intero intendono e
gestiscono la migrazione e la globalizzazione – e della loro reazione all’‘altro’.
‘Lampedusa’ è entrata nel lessico politico italiano. Gli ‘sbarchi’ (un termine
problematico e vagamente aggressivo) sono diventati materia scottante, con
periodi di ‘emergenza’, disastri, e momenti in cui la crisi finiva quasi
dimenticata nell’ordinaria amministrazione. Nel frattempo, in molti –
sull’isola e altrove – hanno dato prova di solidarietà verso i migranti e la loro
sorte. È iniziata così la bizzarra coesistenza tra l’isola come luogo di arrivo e
partenza in grado di smaltire migliaia di persone identificate come migranti o
rifugiati potenziali, e Lampedusa come luogo di vacanza. Un falegname del
posto, Francesco Tuccio, cominciò a raccogliere rottami delle barche
naufragate dai quali trasse delle croci, una forma di omaggio nei confronti di
chi non ce l’aveva fatta. Una di queste croci è stata esposta al British Museum.
Il legno viene dal fasciame di una barca naufragata nell’ottobre 2013, con la
morte di 368 somali ed eritrei. Altri 150 vennero salvati.
Spesso, i dettagli di queste tragedie sono orribili. “Molti degli annegati non
erano riusciti nemmeno a saltare dalla barca capovolta. Tra le 108 persone
intrappolate sotto coperta c’era una donna eritrea, sui vent’anni, che aveva
partorito mentre annegava. Si erano rotte le acque nell’acqua. I sommozzatori
trovarono il bambino morto, ancora attaccato al cordone ombelicale, dentro i
calzoni”36.
La migrazione verso Lampedusa ha seguito una serie di fasi, con alti e bassi, e
variazioni continue nell’origine della gente in arrivo, dovute in buona misura
al contesto politico e militare dei paesi di provenienza – per esempio dalla
Tunisia, dal Marocco, da altri paesi nordafricani, dalla Siria, dal Pakistan,
dall’Africa centrale. L’isola è stata via via attrezzata con nuove infrastrutture,
compreso un complesso di edifici destinati a ospitare, trattenere e schedare i
migranti e i richiedenti asilo37.
Quali strategie hanno adottato l’Italia e l’Unione Europea per far fronte ai
continui arrivi dei cosiddetti ‘boat people’? Lampedusa (e il mare che la
circonda) sarebbe diventata un sito chiave nella risposta a questa domanda.
Qui l’Europa comincia, e finisce. I migranti sbarcati a Lampedusa ebbero
modo di sperimentare in prima persona gli effetti del mutamento delle
condizioni politiche in Italia (e nell’UE). Il salvataggio e l’accompagnamento
in porto delle barche (imposti dalla legge del mare e dal diritto internazionale)
avevano un andamento alterno, e anche per chi era riuscito a sbarcare ci
furono cambiamenti. Quelli che arrivavano erano rifugiati oppure, come si
diceva, ‘migranti economici’? E se pure queste categorie avevano senso, che
fare di quella gente una volta collocata in una o l’altra delle categorie?
Lampedusa e il mare che la circonda erano un posto da sogno che spesso si
trasformava in un incubo.
Le immagini degli ‘sbarchi’ erano esplosive. Si creò una specie di emergenza
permanente, che produceva paura e sfiducia, ma anche solidarietà. I media
italiani continuavano a mostrare barche che entravano in porto cariche di
persone, raccontando ‘casi umani’ scelti (bambini che nascevano, morti a
bordo, atti di violenza). Si percepiva anche una certa sazietà: si parlava poco
delle persone, erano quasi sempre numeri senza volto.
Gli arrivi avvenivano sempre più secondo un rituale ben organizzato,
descritto da Gianluca Gatta nel suo studio etnografico sull’isola. “Giunti al
porto, i migranti sono condotti giù dalle navi uno per uno. In questa fase di
discesa ha luogo un primo conteggio e a volte gli agenti scattano qualche
fotografia. Sulla banchina, i migranti sono organizzati in file parallele di
cinque persone ognuna. Essi devono mantenere la posizione assegnata loro
dalle forze dell’ordine, accovacciati o seduti a terra; non possono quindi
muoversi liberamente sul molo”38. Oggi ci sono dei bagni chimici nei pressi
del porto, ma prima del 2005 “i migranti venivano portati in un punto della
banchina, poco distante dal punto di raccolta, dove potevano urinare in
mare”39, con il risultato di produrre “una rappresentazione stereotipata
dell’arrivo dei migranti, una di quelle immagini che nel discorso pubblico
assumono dei connotati simbolici molto densi e finiscono per denotare
l’intero fenomeno migratorio”40. Qualcuno lo ha definito “lo spettacolo del
confine”41.
Intorno agli ‘sbarchi’ operano diversi tipi di forze di polizia e militari, oltre ai
volontari delle associazioni umanitarie e alla guardia costiera. A volte si tratta
di organizzazioni nazionali, ma spesso sono trans-nazionali o internazionali.
Coesistono quindi molti e diversi tipi di ‘intervento’, diversi livelli di legalità,
diversi schemi di riferimento, in una situazione dai confini fluidi e mutevoli.
Queste organizzazioni sono cambiate nel tempo, in genere per motivi politici.
Le considerazioni sulla sicurezza si incrociano con l’attività umanitaria. In
ballo ci sono un mucchio di soldi: la migrazione richiama finanziamenti, che a
loro volta richiamano l’attenzione della criminalità organizzata42. La
migrazione è un ottimo affare. Nel frattempo le traversate e le tragedie
silenziose si ripetono quasi ogni giorno. Scrive Frances Stonor: “nel cimitero
di Lampedusa le tante targhe che dicono ‘migrante ignoto’ si limitano a
comunicarci che nel Mediterraneo si muore da almeno venticinque anni – più
di ventimila morti, stando alle stime attuali”43.
Lampedusa e la politica italiana
Lampedusa è diventata anche un palcoscenico per le esibizioni dei politici.
Nel 2009 il ministro dell’Interno Roberto Maroni, uno dei leader della Lega,
dichiarò di aver adottato la nuova politica dei ‘respingimenti’, che a suo dire
avrebbe portato alla chiusura del centro di accoglienza sull’isola. Un accordo
con la Libia consentì per qualche tempo di ‘riportare’ – in modo più o meno
ufficiale – in quel paese i migranti raccolti in mare. Presto però la pressione
dei nuovi arrivi portò alla riapertura del centro di Lampedusa. Si adottò allora
un’altra ‘politica’: dare la colpa all’Europa (o all’Unione Europea). Sia da
destra che da sinistra si sosteneva che l’Europa aveva ‘lasciato sola’ l’Italia ad
affrontare la crisi dei migranti. Si chiedeva una soluzione su scala europea.
Qualcuno, comunque, si limitava a fare retorica.
Silvio Berlusconi fece la sua apparizione sull’isola nel marzo 2011. Come sua
abitudine, si presentò con una serie di pronunciamenti. Li avrebbe mandati
via lui, i migranti, e subito. “Nelle prossime 48-60 ore – questa l’implausibile
promessa – l’isola sarà abitata solo dai lampedusani”44. “Abbiamo organizzato
sei navi – aggiungeva – e stiamo trattando per una settima”. Vennero altre
rassicurazioni: candidatura dell’isola al Nobel per la pace, esenzioni fiscali per
gli isolani, un nuovo campo da golf e un casinò. Disse anche di aver appena
acquistato una casa lì, quel mattino stesso, su Internet: “Anche io diventerò
lampedusano”. Non sorprende che ben poche di quelle promesse siano state
realizzate. I giornalisti che nell’agosto 2012 andarono a vedere la villa
acquistata da Berlusconi la trovarono in uno stato di totale abbandono.
L’importanza di Lampedusa risiede anche nella sua efficacia sui media – la
resa spettacolare degli eventi migratori in quel luogo preciso. La forte visibilità
di quegli ‘sbarchi’ non corrisponde necessariamente alla loro rilevanza nel
contesto della migrazione verso l’Italia. In realtà, si calcola che soltanto uno su
dieci degli immigrati arriva via mare, e ancora meno sulle barche attraverso il
Mediterraneo.
Il problema dell’instabilità uscì aggravato dalle elezioni politiche del 2013.
Ancora una volta il Porcellum, nato in teoria per garantire stabilità, non aveva
prodotto una maggioranza in entrambe le Camere. Nessuna delle coalizioni o
liste in lizza al Senato raggiungeva una maggioranza decisiva, e i vani tentativi
di formare un governo produssero mesi di incertezza. Finalmente, alla fine
dell’aprile 2013, si arrivò a un nuovo accordo di coalizione, con ministri che
andavano dal centrodestra al centrosinistra, e senza l’appoggio del Movimento
5 Stelle. Era una specie di grande coalizione post-democratica.

Ascesa e caduta di Matteo Renzi


Matteo Renzi, nato nel 1975, è un figlio della televisione berlusconiana. Tutti
sanno della sua partecipazione come concorrente al popolare programma di
Mike Bongiorno La ruota della fortuna, dove vinse 48 milioni di lire. Ha fatto
una rapida carriera politica nei gruppi cattolici di centrosinistra. Nominato
presidente della Provincia di Firenze nel 2004, divenne sindaco nel 2009.
Quando si insediò alla presidenza del Consiglio, a trentanove anni nel
febbraio 2014, era il più giovane primo ministro nella storia d’Italia. Renzi
imitava Tony Blair, perfino nei manierismi del discorso. E non si faceva
scrupolo di pranzare con Berlusconi nella sua villa, o di stendere un patto
politico con lui nel 2014. È stato forse il primo leader post-berlusconiano
dell’‘opposizione’.
L’ascesa di Renzi veniva raccontata (da lui stesso e dai media) come quella di
un outsider populista – un’immagine evidentemente obbligata per i nuovi
politici del XXI secolo. Ma per quanto protestasse, rimaneva un politico di
professione. Usava la sua ‘giovinezza’ come un grido di mobilitazione politica,
e prometteva di ‘rottamare’ chi controllava il Partito democratico. Ma c’era
poco da rottamare: il PD era un guscio vuoto, sovraccarico di dirigenti e
burocrati, privo di idee e di veri attivisti, di un obiettivo morale chiaro, e di
una storia alle spalle. Si è parlato anche di quanto Renzi abbia imparato da
Berlusconi: lo stile, la personalizzazione della politica, l’uso dei media. Renzi
però si è rivelato abile anche nell’uso di Internet (come un altro dei suoi
modelli, Barack Obama), che invece Berlusconi non è mai riuscito a capire.
Renzi fu per la prima volta candidato premier del centrosinistra nel 2012. In
quell’occasione le primarie diedero una netta vittoria a Pier Luigi Bersani,
tipico esponente dell’ex Partito comunista (anche se Renzi raccolse oltre un
milione di voti). Bersani fu poi travolto per non essere riuscito a dare la
presidenza della Repubblica a Romano Prodi nel 2013. Senza Bersani, e con
candidati alternativi poco credibili, Renzi vinse senza difficoltà le successive
primarie di dicembre. Nel frattempo il Porcellum era in piena tempesta: la
Consulta dichiarò incostituzionale la legge elettorale – già utilizzata tre volte
per le elezioni politiche. In teoria, significava che l’intero Parlamento in carica
(e i due precedenti) era illegittimo, ma nessuno volle spingere a fondo su una
questione tanto delicata.
Da presidente del Consiglio Renzi, forte di una ‘grande alleanza’ con quel
che rimaneva della coalizione di Berlusconi, si è barcamenato attraverso una
piccola serie di blande riforme, compresa una forma limitata di matrimonio
per i gay. Ma aveva anche il compito di imporre gli ennesimi cambiamenti
costituzionali al sistema elettorale. Tra questi, l’abolizione di molti dei poteri
attribuiti alla Camera alta, il Senato. Il Porcellum venne sostituito da qualcosa
che a ben pochi apparve come un progresso, ma che Renzi – che ha occhio
per le strategie di mercato – ribattezzò ‘Italicum’. L’Italicum era ancora più
complicato del Porcellum, e serviva a mantenere al potere i grandi partiti e le
coalizioni. Aggrappata disperatamente al potere, la classe politica italiana aveva
messo le mani nel funzionamento del sistema elettorale per tutto il corso degli
anni 2000. In tutte queste riforme, i partiti non avevano tenuto alcun conto
dei bisogni dell’elettorato. Era roba loro, dei membri della casta. Gli elettori
facessero come volevano: i partiti tradizionali dovevano rimanere al potere.
Le riforme arrancavano in Parlamento (l’opinione pubblica era ormai stufa
dei dettagli), ma quando alla fine del 2016 si arrivò a un referendum – come
richiesto per ogni emendamento costituzionale non approvato in Parlamento
con la necessaria maggioranza qualificata – la popolarità di Renzi era in
notevole declino. Incautamente, aveva promesso di dimettersi qualora avesse
perso il referendum. L’arroganza di questi suoi proclami galvanizzò
l’opposizione, contro di lui e contro le riforme, in un’‘empia alleanza’ che
andava dalla Lega all’M5S fino alla sinistra estrema e agli oppositori interni del
PD. Un referendum su una serie di complessi emendamenti costituzionali
divenne quindi per molti un plebiscito su Renzi e sullo stato dell’economia.
Ben pochi italiani avevano visto migliorare le proprie condizioni nel XXI
secolo. Come ha osservato Perry Anderson, “dopo l’introduzione della
moneta unica, l’Italia ha registrato il risultato economico peggiore di tutti gli
Stati dell’Unione: vent’anni di stagnazione praticamente ininterrotta”45. Il 4
dicembre 2016 portò una sonora sconfitta a Renzi, che dopo pochi giorni si
dimise. Quasi il 60 per cento dei votanti – 19,5 milioni di persone – scelse il
No. Paradossalmente, il risultato rendeva ancor più difficile l’approvazione di
eventuali riforme future. Ma pareva non importasse alla Lega e all’M5S, che
cantavano entrambi vittoria. Ora l’Italia stava nel limbo, e senza una legge
elettorale in vigore.
Nell’ottobre 2017 i grandi partiti – ma non i 5 Stelle e settori della sinistra –
si accordarono su un nuovo sistema elettorale, soprannominato ‘Rosatellum’
(da Ettore Rosato, firmatario della prima stesura). Per farla semplice, si tratta
di una forma modificata del Mattarellum, usato per le elezioni dal 1994 al
2006. Un’altra legge terribilmente complicata, le cui involuzioni potevano
interessare soltanto psefologi e politologi. Prevedeva che alla Camera, 232
seggi fossero assegnati con il sistema maggioritario, mentre altri 386 con la
proporzionale. Gli elettori si sarebbero trovati davanti a un’unica scheda sulla
quale apporre due voti: il primo per un candidato, il secondo per un partito o
una coalizione. Ma potevano anche scegliere di dare un solo voto, nel qual
caso la scelta valeva per entrambe le caselle. In buona sostanza, agli elettori
non era concesso di votare per il candidato di una coalizione e poi per un
gruppo diverso nella proporzionale. Per la prima volta, peraltro, venivano
introdotte clausole per la parità di genere.
Sul piano politico, era evidente che lo scopo del Rosatellum fosse di
impedire al Movimento 5 Stelle di prendere il potere a livello nazionale,
un’eventualità resa molto probabile dalle travolgenti vittorie a Roma e a
Torino nel 2016. Da solo, senza alleati politici, il Movimento di Grillo
avrebbe perduto di parecchie lunghezze rispetto alle coalizioni rivali, in
particolare del centrodestra. Pare incredibile (o magari non troppo), ma
ancora una volta il risultato più probabile era che nessuno vincesse le
elezioni46. Si sarebbe formata una coalizione raffazzonata. Le cose cambiavano,
ma soltanto perché nulla cambiasse – la reintroduzione di piccole
circoscrizioni elettorali venne comunque considerata positiva.

I giallo-verdi al potere
Con la nuova legge elettorale finalmente in vigore, il presidente Sergio
Mattarella sciolse il Parlamento alla fine del dicembre 2017; le nuove elezioni
politiche vennero fissate per il 4 marzo 2018. La campagna elettorale fu
segnata da un episodio inquietante di violenza razzista. Il 3 febbraio, a
Macerata, Luca Traini, ventottenne dalla testa rasata, si scatenò in una
sparatoria con la sua pistola. Traini si era presentato con la Lega alle elezioni
amministrative del 2017 per il comune di Corridonia (voti 0). Mirava ai neri,
a tutti i neri che vedeva. Sparò dall’interno della sua Alfa, in diversi posti –
compresa una fermata d’autobus affollata – poi si costituì col saluto fascista,
avvolto nel tricolore, nei pressi del monumento ai caduti di guerra. In faccia,
un tatuaggio da estremista di destra. Sei i feriti, un vero miracolo che non ci
sia scappato il morto. Traini tirò qualche colpo anche contro la sede locale del
Partito democratico. Questa aggressione razzista era la risposta (nella testa di
Traini, e nei media) all’orrendo omicidio di una ragazza italiana, Pamela
Mastropietro, il cui cadavere smembrato era stato ritrovato vicino a Macerata
il 31 gennaio.
La reazione politica a questo episodio è stata sorprendente. Paradossalmente,
i colpi di Traini sembrarono dare ancora più forza ai toni xenofobi che
avevano contrassegnato fin dall’inizio la campagna sui media del centrodestra.
Matteo Salvini, il leader della Lega, fece un vago accenno alla ‘criminalità’, ma
scaricò la colpa sulla sinistra. “È chiaro ed evidente – sosteneva – che
un’immigrazione fuori controllo, un’invasione come quella organizzata,
voluta e finanziata in questi anni, porta allo scontro sociale”. Silvio Berlusconi
si affrettò a promettere che avrebbe rimandato a casa “600.000 immigranti” se
lo avessero rieletto (sebbene, per legge, non potesse nemmeno candidarsi).
Roberto Saviano avrebbe poi scritto che “più parlo di migranti, più sono
accusato di incoraggiare l’odio verso di loro. È una specie di logica back-to-
front: come è possibile, mi chiedo, che se racconto quello che sta accadendo
in Libia nei centri di detenzione, se parlo della macchina del fango contro le
ONG che operano nel Mediterraneo, ottengo l’effetto contrario di ciò che sto
cercando di fare?”47. Nell’ottobre 2018 Traini è stato condannato a dodici
anni per “tentata strage con l’aggravante dell’odio razziale”. In seguito ha
chiesto perdono per le sue azioni, dichiarando di aver cambiato idea grazie ai
migranti incontrati in carcere48.
Il 4 marzo il 73 per cento degli italiani è andato a votare. Come previsto, il
nuovo sistema elettorale non ha prodotto alcuna chiara maggioranza per una
coalizione o un partito. Ma non c’erano dubbi su chi avesse vinto. Il
Movimento 5 Stelle diventava il primo partito, vincendo a man bassa in
Meridione e guadagnando oltre il 32 per cento su scala nazionale. In Sicilia è
andata così bene che i candidati non sono bastati a coprire le nomine. L’altro
vincitore era Matteo Salvini della Lega, con la sua campagna anti-immigranti
condotta in modo agile e aggressivo in tutto il paese. Anche sui perdenti non
c’erano dubbi. Il PD di Matteo Renzi precipitava sotto il 20 per cento,
mentre gli scissionisti di Liberi e Uguali sparivano senza lasciare tracce. L’ex
presidente del Consiglio Massimo D’Alema otteneva soltanto il 3,9 per cento
nella sua circoscrizione. Il ‘partito’ di Silvio Berlusconi faceva la figura
peggiore della sua storia: per la prima volta la Lega poteva pretendere la guida
del centrodestra.
Dopo questo risultato, occorrevano nuove alleanze per formare un governo.
Da che parte sarebbe andato l’M5S? A destra, con Salvini (con il quale aveva
molto in comune, sul piano politico); o verso il centrosinistra, verso quel
Partito democratico che aveva a lungo e aspramente criticato? Per parecchio
tempo apparvero inevitabili nuove elezioni. Il sistema elettorale studiato
apposta per non produrre un vincitore aveva funzionato perfettamente.
Seguirono trattative tortuose, e cominciò a prendere forma il cosiddetto
accordo ‘giallo-verde’ tra 5 Stelle e Lega. Nessuno dei due intendeva cedere di
un millimetro, e l’M5S esitava a salire per la prima volta al governo nazionale
senza adeguate garanzie.
Berlusconi si chiamò fuori, e toccò a Salvini e Luigi Di Maio, ‘leader’
dell’M5S, il compito di mettere insieme un programma – e di spartirsi le
spoglie. Fatto insolito (e forse anche anticostituzionale), le due parti
concordarono un ‘contratto’ al di fuori del Parlamento, che comprendeva
anche clausole etiche. Era insieme un programma (lungo, ma spesso vago) e
una serie di articoli all’apparenza legali che intendevano regolamentare i
comportamenti individuali e politici, istituendo anche un sedicente
‘Comitato di conciliazione’. I punti più rilevanti comprendevano la revoca
delle sanzioni contro la Russia, un sistema ‘flat-tax’ semplificato, reddito di
cittadinanza per i poveri, chiusura all’immigrazione, abolizione delle recenti
norme restrittive sulle pensioni, e ‘revisione’ dei trattati stipulati con l’UE. Il
patto, richiamato spesso nella fase iniziale del governo, è poi uscito
rapidamente di scena. Il 1° giugno 2018 – ottantanove giorni dopo le elezioni
– è nato il governo ‘giallo-verde’, definito dai suoi creatori “governo del
cambiamento”. Salvini è diventato ministro dell’Interno. C’è stato un gran
trambusto intorno alla scelta del ministro dell’Economia e delle Finanze,
perché il presidente Mattarella (definito da alcuni “l’ultimo democristiano”)
considerava troppo anti-europeista il primo candidato proposto dalla
coalizione. Alla fine, in alternativa, l’incarico è stato affidato al moderato
Giovanni Tria. Il nuovo governo aveva salde maggioranze in entrambe le
Camere.
La scelta del presidente del Consiglio è arrivata quasi in coda: Giuseppe
Conte, un giurista accademico quasi sconosciuto con un curriculum
interessante (peraltro in parte presto smentito). Conte esce dal nulla, e fin
dall’inizio è apparso che sarebbe stato l’alfiere di un’insolita amministrazione a
sei mani, guidata di fatto dai due vicepresidenti, entrambi anche leader dei
rispettivi movimenti: Di Maio e Salvini. Qualcuno ha definito Conte un
mero ‘portavoce’.
Salvini è salito subito sul palco. Il 10 giugno ha annunciato che alla nave
Aquarius, con a bordo 630 persone raccolte al largo della costa libica, sarebbe
stato negato l’accesso ai porti italiani – un provvedimento di dubbia
costituzionalità, se non anche legittimità. Una notizia da prima pagina, e non
soltanto in Italia. L’odissea della nave è stata seguita dai mass media. C’erano
autorità locali italiane disposte ad accoglierla, ma alla fine ha fatto rotta per
Valencia, in Spagna. Salvini ha dichiarato che il primo porto d’attracco per la
nave avrebbe dovuto essere Malta, e il suo ‘no’ è risultato estremamente
popolare: la Lega è volata sempre più in alto nei sondaggi.
Un nuovo conflitto si è poi aperto intorno alla nave della guardia costiera
italiana Diciotti, con a bordo 177 potenziali rifugiati o migranti. Attraccata a
Catania, in un primo momento nessuno è stato autorizzato a sbarcare. Dopo
dieci giorni l’ordine è stato revocato. Per l’affare Diciotti Salvini è stato
indagato ufficialmente per sequestro di persona. Per tutta risposta, ha aperto la
busta gialla contenente la notifica dei magistrati dal vivo su Facebook,
prendendo in giro i giudici e sventolando i documenti a mo’ di medaglia
d’onore. “Mi avete chiesto voi, con il vostro voto, di controllare i confini, i
porti, di evitare gli sbarchi, limitare le partenze e espellere i clandestini. Me lo
avete chiesto voi e per questo vi ritengo miei amici, miei sostenitori e miei
complici. Io, comunque, non sono preoccupato, non sono terrorizzato”.
Poco dopo un magistrato ha proposto l’archiviazione. Salvini se ne è
rallegrato. Dicendo di avere il ‘dovere’ di proteggere i confini, e che molti
italiani sono d’accordo con lui. Poi, nel gennaio 2019, un’altra corte di
giustizia in dissenso ha avanzato la richiesta di autorizzazione a procedere in
Parlamento. Salvini ha dato la colpa ai ‘giudici di sinistra’. Non è difficile
cogliere le somiglianze con Berlusconi. Nel febbraio 2019 una commissione
del Senato ha bocciato l’autorizzazione a procedere. I 5 Stelle hanno deciso di
sostenere Salvini dopo un controverso voto on-line della loro ‘base’. Per il
momento quello della Diciotti è un caso chiuso.
Gli atti di razzismo si moltiplicano. A Torino un’atleta italiana nera è stata
colpita a un occhio da un uovo, e altri incidenti si sono verificati in tutto il
paese. Luigi Di Maio e l’M5S hanno cercato di portare avanti le loro priorità,
ma vengono surclassati di continuo da Salvini, anche lui capace di utilizzare
appieno i social media per arrivare direttamente all’opinione pubblica. Sia
Salvini che Di Maio sono a proprio agio in piazza, o circondati dai sostenitori,
mentre tendono a non farsi vedere in Parlamento. Nel frattempo la sinistra è
in scompiglio, profondamente divisa, priva di una strategia chiara, e spaccata
in fazioni che fanno capo a una serie di personalità ed ex leader.
Ben presto però il governo giallo-verde si è trovato di fronte alla dura realtà
dell’economia malata, ‘in crisi’ da oltre dieci anni. I tentativi di mantenere le
promesse – ‘reddito di cittadinanza’, sistema ‘flat-tax’, aumenti delle pensioni
abolendo i tagli della tecnocrazia montiana – si sono subito scontrati con
l’aumento dello spread – il differenziale di rendimento tra i titoli di Stato a
lungo termine italiani e quelli tedeschi – e con le proteste dell’UE.
L’approvazione del bilancio 2018 si è rilevata lunga, brutale e controversa.
L’UE ha rifiutato la prima proposta nell’ottobre 2018, spingendo Salvini a
dichiarare che l’Unione andava “contro il popolo italiano”; poi, in novembre,
è arrivato il ‘no’ ufficiale. Qualcuno ha intravisto una possibile apertura verso
la via scivolosa di una ‘Italexit’, ma Conte si è affrettato ad escluderla.
Eppure il governo raccoglie forti consensi in tutto il paese. I decreti punitivi
promettono il pugno di ferro con la criminalità e l’immigrazione, che Salvini
non manca mai di associare in tutti i suoi discorsi. Il fatto che queste misure
possono rendere più difficile l’immigrazione legale non importa a nessuno.
Quel che conta è il muso duro. Per molti immigrati la vita in Italia sta
diventando ancora più difficile. Le amministrative del giugno 2018 hanno
visto alcune delle ultime roccaforti della sinistra – ad esempio Pisa e Siena –
cadere in mano a candidati della Lega o del centrodestra. Analoga minaccia
incombe anche su altre città tradizionalmente di sinistra, alcune delle quali
‘rosse’ fin dal 1945. La fazione di Berlusconi, intanto, è apparsa del tutto
irrilevante. All’interno del suo partito personale e imprenditoriale non ha
provveduto a far crescere un successore adeguato. La Lega e i 5 Stelle hanno
avuto campo libero, e ne hanno approfittato per dire e fare quello che
volevano, con poca o nessuna opposizione.
Molti osservatori si sono affrettati a dichiarare che il 2018 è stato davvero
l’inizio di una Terza repubblica. Il sistema dei partiti di massa del dopoguerra
è ormai un ricordo lontano. Della Democrazia cristiana e del Partito
comunista non rimangono tracce. L’Italia politica è irriconoscibile rispetto al
paese uscito dalla Guerra fredda. Ma mentre la nazione celebrava il
settantesimo anniversario della Costituzione antifascista, la lunga crisi era
tutt’altro che conclusa.

Cemento fragile: Genova 2018


Quel giorno, il 14 agosto 2018, a Genova pioveva a dirotto. Gli italiani erano
già in vacanza, sulla via del mare o della montagna. Giancarlo Lorenzetto
viaggiava sul ponte Morandi, costruito nel 1967, che da Genova porta verso la
Francia, passando alto sopra la zona della periferia ovest. Tutti i genovesi lo
conoscono bene. Lorenzetto ha rischiato brutto: stava al volante del suo
camion quando, all’improvviso, una parte del ponte è precipitata spezzando –
pare – i cavi di sostegno. Lorenzetto ha inchiodato proprio sull’orlo
dell’abisso, e se l’è cavata con qualche contusione, ma intorno e sotto al suo
camion c’era il cataclisma. I morti sono stati quarantatré, in parte
automobilisti di passaggio sull’autostrada, in parte persone sotto il ponte
colpite dalle macerie di calcestruzzo. Una strage internazionale: ventinove
italiani, quattro francesi, tre cileni, due albanesi, un colombiano, un
giamaicano, un moldavo, un peruviano e un romeno.
Come la maggior parte delle infrastrutture italiane, il ponte Morandi era di
cemento e risaliva agli anni del boom economico. Lo scaricabarile è iniziato
subito. La responsabilità ricadeva sul sistema autostradale privatizzato, o
sull’amministrazione locale, o sul governo regionale? Perché non era stata
curata la manutenzione del ponte? Perché non lo si era del tutto sostituito? I 5
Stelle in diverse occasioni passate si erano opposti a nuovi progetti stradali
nella zona. È stata aperta un’inchiesta, e si è scatenato il dibattito. Quando, in
ottobre, la nazionale italiana ha giocato a Genova, al quarantatreesimo minuto
la folla si è alzata in piedi per applaudire in segno di omaggio alle vittime.
Intanto, in tutto il paese sono emerse forti preoccupazioni per ponti, scuole
ed edifici pubblici costruiti nello stesso periodo, e spesso con gli stessi metodi.
Quale sarà il prossimo?

Riace
Riace, una cittadina calabrese divisa tra la montagna e il mare, è nota
soprattutto per le due magnifiche statue greche in bronzo del V secolo a.C.
scoperte nel 1972. La parte in collina di Riace si è oggi conquistata nuova
fama. Per un periodo prolungato, a partire dagli anni ’90, ha rappresentato un
‘modello di integrazione’. Si sono utilizzati fondi pubblici per sostenere le
comunità di migranti e profughi che hanno ripopolato la città, facendo
riaprire le scuole e stimolando tutte le attività locali. Simbolo di questo
esperimento di integrazione, il sindaco Domenico Lucano. Non sorprende
che Matteo Salvini non sia un ammiratore del ‘modello Riace’, né che abbia
criticato pubblicamente Lucano in diverse occasioni. In agosto Lucano ha
minacciato uno sciopero della fame perché i finanziamenti sarebbero stati
bloccati.
Nell’ottobre 2018 il sindaco è stato messo agli arresti domiciliari a seguito di
un’inchiesta sulla gestione dei finanziamenti al progetto Riace. Salvini
gongolava, sfottendo i ‘buonisti’ in un tweet. Poi, nello stesso mese, il
ministero dell’Interno presieduto da Salvini ha fatto un altro annuncio
dirompente: Riace sarebbe stata ‘chiusa’ e i migranti trasferiti. Il giorno
seguente le autorità specificavano che i trasferimenti sarebbero stati
‘volontari’, ma la fine del modello Riace pareva proprio segnata. Era scoppiata
la guerra sui temi della migrazione, del ‘prima gli italiani’ e dell’integrazione,
una guerra eminentemente politica. Lucano stesso è stato costretto a lasciare la
sua casa di Riace, mentre le indagini proseguivano49. Gli italiani appaiono
profondamente divisi sull’organizzazione, la funzione e le prospettive future
dell’immigrazione e dei profughi. Riace rappresenta il simbolo di un certo
modo di intenderla, e di una possibile soluzione dei problemi sociali legati ai
movimenti demografici. Ma il richiamo della filosofia del ‘prima gli italiani’,
dove non c’è posto per il ‘modello Riace’, è troppo forte.

1
http://espresso.repubblica.it/attualita/2015/10/22/news/la-rara-fortuna-di-essere- un-professore-
giovane-1.235654 (accesso 7 febbraio 2017).
2
Russell King et al., The Lure of London: A Comparative Study of Recent Graduate Migration from
Germany, Italy and Latvia, University of Sussex, Sussex Centre for Migration Research, Working
Paper n. 75, p. 17, https://www.sussex.ac.uk/webteam/gateway/file.php?
name=mwp75.pdf&site=252 (accesso 7 febbraio 2017).
3
Cit. ivi, p. 20.
4
Ivi, p. 21.
5
Per citare King, “si considerano un ‘tipo’ diverso di italiani, con una mentalità diversa da quelli
rimasti in Italia. Si autodefiniscono più avventurosi, più tesi a un progetto di autorealizzazione, più
critici della cultura della raccomandazione e del nepotismo, e dunque moralmente superiori a quelli
che rimangono a casa con in genitori e fanno la ‘vita facile’”. Ivi, p. 23.
6
http://www.cafebabel.co.uk/society/article/influx-a-journey-into-the-pulse-of-italian -
london.html (accesso 28 ottobre 2017).
7
http://www.influxlondon.com (accesso 28 ottobre 2017).
8
http://www.cafebabel.co.uk/society/article/influx-a-journey-into-the-pulse-of-italian -
london.html (accesso 28 ottobre 2017).
9
Giuseppe Scotto, From “emigrants” to “Italians”: What is New in Italian Migration to London?,
“Modern Italy”, 20:2, 2015, p. 153,
http://researchonline.ljmu.ac.uk/3312/3/Modern%20Italy%20Scotto.pdf (accesso 28 ottobre 2017).
10
Ivi, p. 159. “L’idea che in Italia non esista la meritocrazia conferisce ai membri di questo gruppo
un senso di identità condivisa”.
11
https://www.youtube.com/watch?v=4jdHN4edCqA (accesso 7 febbraio 2017).
12
All’inizio del 2017 Grillo poteva contare su 2,28 milioni di follower su Twitter. Paolo Natale e
Roberto Biorcio, Politica a 5 stelle. Idee, storia e strategie del movimento di Grillo, Milano: Feltrinelli,
2013.
13
Giuliano Santoro, Un Grillo qualunque. Il Movimento 5 Stelle e il populismo digitale nella crisi dei partiti
italiani, Roma: Castelvecchi, 2013.
14
Ivi, p. 769; Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, La Casta. Così i politici italiani sono diventati
intoccabili, Milano: Rizzoli, 2007.
15
http://www.gazzettadiparma.it/news/politica/383287/m5s-addio-nasce-effetto-parma-la-lettera-
integrale.html (accesso 7 febbraio 2017).
16
http://www.carteinregola.it/index.php/quel-codice-di-comportamento-firmato-da- raggi-e-
consiglieri-m5s/ (accesso 9 giugno 2019).
17
Da Roma ladrona a Padania ladrona, “La Stampa”, 4 aprile 2012, cit. in G. Crainz, Storia della
repubblica, Roma: Donzelli, 2016, p. 348.
18
Tesoriere sotto inchiesta, bufera nella Lega. Vertice in via Bellerio, dimissioni in 45 minuti, “Il Fatto
Quotidiano”, 3 aprile 3012.
19
http://www.corriere.it/politica/16_luglio_12/renzo-bossi-laurea-albania-b69af87c-48ea-11e6-
ae06-0cc76a275352.shtml?refresh_cecp (accesso 28 ottobre 2017).
20
http://www.repubblica.it/politica/2013/07/14/news/vedo_il_ministro_
kyenge_e_penso_a_un_orango_e_polemica_per_la_frase_del_leghista_calderoli-62945682/ (accesso
9 giugno 2019).
21
V. Luca Pisapia, Balotelli, the Thing, https://www.wumingfoundation.com/giap/2015/09/balotelli-
the-thing/ (accesso 9 giugno 2019).
22
La dichiarazione è reperibile in diverse lingue: http://w2.vatican.va/content/benedict-
xvi/en/speeches/2013/february/documents/hf_ben-xvi_spe_20130211_declaratio.html (accesso 28
ottobre 2017).
23
Juan Carlos Scannone, Pope Francis and the Theology of the People, “Theological Studies”, 77:1,
2016, p. 133.
24
V. il documentario http://www.cbc.ca/passionateeye/episodes/the-pope-the-mafia (accesso 28
ottobre 2017).
25
https://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2014/documents/papa-
francesco_20140621_cassano-omelia.html (accesso 28 ottobre 2017).
26
http://espresso.repubblica.it/archivio/2016/03/31/news/vaticano-inchiesta-attico-bertone-
espresso-mostra-le-lettere-che-lo-inchiodano-1.256129 (accesso 28 ottobre 2017).
27
Gianluigi Nuzzi, Via Crucis, Milano: Chiarelettere, 2015, e Vaticano SPA, Milano: Chiarelettere,
2015.
28
Due giornalisti sono stati prosciolti dal tribunale vaticano nel 2016:
http://www.corriere.it/cronache/16_luglio_07/vatileaks-assolti-giornalisti-nuzzi-fittipaldi-
condannati-chaoqui-balda-211cb048-4457-11e6-a4dc-8aa8f57c2afd.shtml (accesso 7 febbraio
2017).
29
Marco Politi, Francesco tra i lupi, Roma-Bari: Laterza, 2014, p. 124.
30
http://www.corriere.it/cronache/16_luglio_07/vatileaks-assolti-giornalisti-nuzzi-fittipaldi-
condannati-chaoqui-balda-211cb048-4457-11e6-a4dc-8aa8f57c2afd.shtml (accesso 7 febbraio
2017).
31
http://www.repubblica.it/2008/07/sezioni/cronaca/eluana-eutanasia-2/camera-ok-
conflitto/camera-ok-conflitto.html (accesso 7 febbraio 2017). V. Beppino Englaro e Elena Nave,
Eluana. La libertà e la vita, Milano: Rizzoli, 2008.
32
http://www.repubblica.it/2009/02/dirette/sezioni/cronaca/eluana/9feb/index.html?ref=kwhpt2
(accesso 7 febbraio 2017).
33
Giovanni Maria Bellu, I fantasmi di Portopalo. Natale 1996: la morte di 300 clandestini e il silenzio
dell’Italia, Milano: Mondadori, 2006;
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2003/10/22/chi-ha-paura-della-nave-
fantasma-ecco.html (accesso 7 febbraio 2017);
http://www.teatrodellacooperativa.it/distribuzione/la-nave-fantasma (accesso 7 febbraio 2017).
L’articolo originale è Giovanni Maria Bellu, Nave fantasma, ecco le foto. Così morirono 283 clandestini,
“la Repubblica”, 15 giugno 2001.
34
Emma Jane Kirby, The Optician of Lampedusa, London: Allen Lane, 2016.
35
https://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2013/documents/papa-
francesco_20130708_omelia-lampedusa.html (accesso 7 febbraio 2017).
36
Frances Stonor Saunders, Where on Earth Are You?, “London Review of Books”, 38:5, 2016.
37
Centro per la ricezione e la reclusione dei migranti.
38
Gianluca Gatta, Corpi di frontiera. Etnografia del trattamento dei migranti al loro arrivo a Lampedusa,
“AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica”, 33-4, 2012, p. 132.
39
Ibid.
40
Ivi, p. 133.
41
Nicholas De Genova, The Legal Production of Mexican/Migrant “Illegality”, “Latino Studies”, 2:2,
2004, pp. 160-85.
42
V., per esempio, il cosiddetto scandalo ‘Mafia Capitale’:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/12/02/mafia-capitale-buzzi-immigrati-si-fanno-soldi-
droga/1245847 (accesso 17 febbraio 2017).
43
Stonor Saunders, Where on Earth Are You?.
44
Lampedusa, il giorno di Berlusconi. “L’isola libera in due-tre giorni”, “Corriere della Sera”, 30 marzo
2011.
45
Perry Anderson, The Italian Disaster, “London Review of Books”, 36:10, 22 maggio 2014.
46
Sul Rosatellum v. Paolo Natale, http://www.fondazionehume.it/politica/un-paese-elettorale-in-
stallo (accesso 2 gennaio 2018).
47
Roberto Saviano, Fascism is back in Italy and it’s paralysing the political system, “The Guardian”, 11
febbraio 2018, https://www.theguardian.com/commentisfree/2018/feb/11/fascismis-back-in-italy-
and-its-paralysing-politics (accesso 16 ottobre 2018).
48
http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2018/10/3/Macerata-sentenza-Luca-Traini-scusate-
ho-sbagliato-Ultime-notizie-vendicavo-Pamela-Mastropietro-/842184/ (accesso 16 ottobre 2018).
49
https://www.internazionale.it/opinione/ida-dominijanni/2016/04/04/riace-migranti-sindaco
(accesso 16 ottobre 2018).
Conclusioni.
Trasformazione e crisi

Un viaggio per l’Italia ci porta davanti alla società più mobile, più fluida e più
distruttrice d’Europa.
Guido Piovene1

L’Italia è stata un laboratorio di esperienze politiche.


Eric Hobsbawm2

Nessuna forma sociale vorrà mai confessare di essere superata.


Antonio Gramsci3
Dal 1945 l’Italia ha attraversato cambiamenti sociali, politici e culturali di
enorme portata. I contadini sono spariti. Con gli anni ’80 e ’90 li hanno
seguiti nell’estinzione la classe degli operai di fabbrica e un intero sistema di
produzione, il fordismo. Queste scomparse hanno lasciato vuoti culturali,
sociali e politici profondi. Anche i partiti politici di massa, che avevano
dominato e organizzato la vita italiana per buona parte del dopoguerra, non
esistono più. Il loro consenso si era fondato per lo più sui contadini e sulla
classe operaia industriale. Un movimento sindacale un tempo robusto è ormai
ridotto all’agonia. L’Italia è irriconoscibile rispetto al paese che uscì in rovine
dalla guerra nel 1945, ma è lontana anni luce anche dall’ottimismo del boom
degli anni ’50 e ’60.
Queste drammatiche trasformazioni non sono state gestite dalla classe
politica, che ha preferito arricchire se stessa, aggrappandosi al potere fino
all’ultimo. Era “una società che non si sente governata”, e gli effetti furono
gravi e permanenti4. A parte un boom breve ed effimero negli anni ’80,
l’economia italiana non decolla. Per buona parte del dopoguerra il paese ha
vissuto all’ombra di una crisi. In retrospettiva, con l’eccezione dei due periodi
comunemente considerati di ‘boom’ – più o meno, 1955-65 (soprattutto) e
poi gli anni ’80 (ma certamente non l’intero decennio) – si è sempre parlato di
crisi economica, accostandola quasi sempre a una crisi politica, e persino a una
‘crisi del sistema’.
Nel XXI secolo gli italiani delle nuove generazioni – i millennial, i nati dopo
il baby-boom – sono meno garantiti sul lavoro rispetto ai loro genitori. Molti
se ne sono andati, in cerca di impiego o di una formazione migliore. Dopo il
crollo finanziario del 2008, ‘la Crisi’ è stata lunga e pesante, incidendo su tutti
gli strati sociali. A tutto il 2017 i segnali di ripresa sono ben pochi. Ce la farà
mai l’Italia ad uscire del tutto dalla ‘Crisi’? È la domanda che assilla il paese,
dalla Sicilia a Milano, e senza distinzioni di classe.
Se c’è un filo che tiene insieme questo libro, è il senso costante di crisi e
trasformazione che permea la storia d’Italia, il susseguirsi delle emergenze,
l’alternarsi di momenti di crisi profonda a periodi di calma relativa, e perfino
di speranza. Guardandole oggi, le stagioni di speranza e di boom appaiono
concentrate e limitate – l’immediato dopoguerra dopo il 1945, il miracolo
economico, qualche momento negli anni ’80, Tangentopoli. Con queste
eccezioni, ha sempre prevalso il senso della crisi, e perfino del declino. Le
istituzioni stesse – in particolare il sistema politico, ma anche la magistratura e
le forze dell’ordine – faticano a guadagnarsi livelli accettabili di legittimazione.
Per quanto sia popolare la Costituzione – un insieme di norme generali buone
per tutti –, il sistema che nasce da quella Costituzione rimane profondamente
impopolare.
Intorno al 1930 Antonio Gramsci scriveva dal carcere che “la crisi consiste
appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere [il corsivo è mio]:
in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”5. Per
l’Italia, tra questi ‘fenomeni morbosi’ c’è stato un lungo periodo in balìa di un
‘partito-azienda’ che agiva quasi esclusivamente nell’interesse personale di un
unico riccone. Dal 2011, poi, è stata governata da una serie di personaggi non
eletti e amministrazioni tecniche o ‘di emergenza’, che manipolavano
continuamente le leggi elettorali per conservare il potere.
Non si vedono prospettive di una rapida soluzione a questa ‘crisi organica’.
Nel 1975 Thomas Bates parlava – a proposito di Gramsci – di “una crisi... in
cui il popolo non crede più alle parole dei leader nazionali, e comincia ad
abbandonare i partiti tradizionali. La crisi può essere prolungata, e per
contrastarla gli intellettuali della classe dominante faranno ricorso ad ogni
sorta di mistificazione, imputando il fallimento dello Stato a un partito di
opposizione, oppure a una minoranza etnica o razziale. È un momento molto
pericoloso per la vita civile, perché... se le forze progressiste ancora non
riescono ad imporre la propria soluzione, la vecchia classe dirigente può
cercare la salvezza in un ‘capo per diritto divino’”6. Al 2019, non risulta
ancora chiaro se questo ‘Cesare’ sia già entrato in scena.
L’Italia di oggi è irriconoscibile rispetto al paese uscito dalla guerra nel 1945.
Sul piano fisico, sociale, culturale ed economico, tutto è stato reinventato. Un
viaggiatore del tempo faticherebbe a capire quanto è successo in questo
settantennio breve ma tumultuoso. Nel 1945 esistevano ancora i mezzadri e i
latifondisti, e negli anni ’50 e ’60 enormi fabbriche impiegavano fino a 50.000
operai. Quelle strutture sociali ed economiche fanno ormai parte della storia.
La politica di massa ha fatto il suo tempo. La Guerra fredda è stata vinta.
Nessuno dei partiti politici che guidarono la transizione alla democrazia esiste
più. L’immigrazione interessa ogni regione del paese, e in tutte le città e le
province d’Italia nascono e crescono generazioni di migranti. È sempre l’Italia,
ma non quella che conoscevamo un tempo. La storia ci aiuta a capire da dove
viene questo paese, ma indica anche la direzione verso la quale potrebbe
andare. Pensando alle sorprese e agli spaventi degli ultimi settant’anni, il
futuro dell’Italia non sarà forse roseo, ma di certo non sarà monotono.

1
Guido Piovene, Viaggio in Italia, Milano: Baldini Castoldi Dalai, 2007, p. 872.
2
Eric Hobsbawm, Gramsci and Political Theory, “Marxism Today”, July 1977.
3
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana, vol. 1, Quaderno 4, Torino:
Einaudi, 1975, p. 455.
4
Cit. in Guido Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma: Donzelli,
2003, p. 437.
5
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, vol. 1, Quaderno 3, p. 311; Quintin Hoare e Geoffrey
Nowell-Smith (a cura di), Selections from the Prison Notebooks, New York: International Publishers,
1971, pp. 275-76.
6
Thomas Bates, Gramsci and the Theory of Hegemony, in James Martin (a cura di), Antonio Gramsci:
Critical Assessments of Leading Political Philosophers, vol. II, Marxism, Philosophy and Politics, London-
New York: Routledge, 2001, p. 258 (“Journal of the History of Ideas”, 2, 1975, pp. 351-66).
Ringraziamenti

Questo libro è il risultato di più di vent’anni di insegnamento, conversazioni e riflessioni sulla storia e la
politica in Italia, vissuti in un’ampia varietà di contesti. È dunque anche il prodotto di un’infinità di
discussioni con laureandi, dottorandi, colleghi, amici e parenti, e con parecchi perfetti sconosciuti. Il
debito primo, e più cospicuo, è nei confronti del relatore della mia tesi di dottorato, Paul Ginsborg. Per
molto tempo, Paul mi ha offerto consigli pratici, e ispirazioni di ogni genere, incoraggiandomi sempre a
spingermi fuori dall’accademia per parlare a un pubblico più vasto, e a scrivere nel modo più chiaro
possibile. Per l’aiuto, i consigli, o i piccoli atti di solidarietà che mi hanno dato, desidero ringraziare
Marina Arienti, Matthew Brown, Charles Burdett, Helen Castor, Phil Cooke, Rhiannon Daniels, John
Dickie, Claire Fermont, Kate Foot, Lorenzo Foot, Matt Foot, Tom Foot, Ruth Glynn, Robert
Gordon, Lawrence Grasty, Tristan Kay, Bob Lumley, Florian Mussgnug, Paolo Natale, Catherine
O’Rawe, Simon Parker, Lucy Riall, Vanessa Roghi e Filippo Tantillo. Mike Jones mi ha offerto un
parere decisivo in un passaggio cruciale. Michael Fishwick di Bloomsbury è stato (ed è) un editor
eccellente, e Richard Mason e Sarah Ruddick hanno dato il loro esperto contributo redazionale al testo.
La mia agente Georgina Capel non ha mai rinunciato alla speranza che il libro si facesse davvero, e Anita
e William Metcalfe sono sempre stati pronti nel far fronte alle emergenze.
Sarah Metcalfe mi ha dato amore, sostegno e creatività.
Nell’aprile 2011 è nata Corinna, e per me ogni secondo della sua vita è stato una gioia. Questo libro è
dedicato a lei.

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