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Che cos’è l’impresa?

L’impresa è un costrutto economico e sociale per la produzione di beni servizi, che implica un
organizzazione e l’impresa è precedente alla vita umana in quanto è nata ai tempi della
preistoria. Ovviamente l’impresa non è solo FOR PROFIT non è necessariamente di GRANDI
DIMENSIONI e anche la grande impresa è PRE INDUSTRIALE.
La STORIA DELL’IMPRESA è diversa dalla storia dell’economia e questa disciplina è utile agli
stakeholders, al mondo imprenditoriale e alla società in generale perché ci aiuta a
comprendere di più e prendere delle buone scelte di marketing

CAPITOLO 2
1.1 I fattori culturali
La storia dello sviluppo economico ci insegna che a fare la differenza è la cultura (Landers)
La cultura: è un insieme di valori e credenze condivise .
La definizione di cultura può evidenziare come la cultura favorisca l’efficienza con cui le risorse
scarse vengono utilizzate da un gruppo sociale, migliorando la quantità e qualità di informazioni a
disposizione degli individui; oppure come un valore come l’onestà promuova il coordinamento
dell’attività economica, dato che incoraggia i cittadini a essere sinceri e onesti, riducendo allo
stesso tempo l’incertezza riguardo il comportamento della controparte.
Il contesto in cui operano le imprese è il risultato di un processo culturale. Ad esempio
confrontando la concezione americana dell’impresa con quella europea:
 Prospettiva Americana: considera l’impresa una cosa, ovvero un bene o un insieme di
risorse da mettere sul mercato. L’assenza di personificazione dell’impresa ha reso più
semplice il processo di separazione fra proprietà e controllo, ovvero l’affermazione delle
burocrazie manageriali, e quindi la crescita delle dimensioni dell’impresa.
 Prospettiva Europea: identifica l’impresa con una persona, o un insieme di persone
(famiglia), o una comunità: ovvero un’attività che genera lavoro e ricchezza per i suoi
referenti
Un’altra differenziazione può essere fatta in merito alla cultura orientale e occidentale:
 Cultura orientale (Giapponese): molto forte è la presenza del senso collettivo
 Cultura occidentale: molto individualismo

1.2 Etica, ideologia e atteggiamenti della collettività


La componente etico-religiosa è stata anch’essa terreno di discussioni e approfondimenti, i cui inizi
possono essere fatti risalire alla pubblicazione a inizio Novecento di un saggio di Max Weber.
La tesi di Weber: Il calvinismo (protestantesimo) promosse l’ascesa del capitalismo moderno: la
riforma protestante che è andata conquistando una nuova etica cristiana, affermava che
l’affermazione in campo economico nella vita terrena può rappresentare un mezzo di
avvicinamento alla salvezza eterna. L’onesto perseguimento della ricchezza diventa simbolo di
una vita operosa quindi esempio di virtù.
La vita umana dedicata agli affari, prima veniva considerata pericolosa per l’anima. La povertà
non è più un merito, il lavoro non è più soltanto un mezzo economico. L’avidità è pericolosa ma è
una minaccia meno spaventosa della pigrizia.

Il disagio del progresso. E’ un atteggiamento culturale di difficoltà personale ad accettare i


cambiamenti e quindi ad adeguarsi ai cambiamenti della società.
La società cambia, si modifica, ed i nuovi contesi ci impongono di cambiare noi stessi per
adeguarsi.

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C’è chi abbraccia in modo positivo i cambiamenti, mentre la maggior parte possono avere dei
comportamenti di reazione. Questo determina un’idealizzazione del passato, delle epoche
precedenti ovvero alcune persone (soprattutto più anziane) che dicono “un tempo si stava
meglio”, mettendo in evidenza tutte le cose negative dei nuovi anni.
Il disprezzo per il presente e l’idealizzazione del passato fa si che ci sia una difficoltà ad accettare i
cambiamenti

1.3 Famiglia e genere


Sembra essere emersa sin dalle prime fasi dell’industrializzazione europea la tendenza a
preservare l’unità dell’impresa familiare.
La famiglia privilegiava il primo figlio maschio mentre alle femmine venivano attribuite consistenti
doti in grado di assicurare loro adeguati matrimoni. I figli minori venivano gratificati con posizioni
di responsabilità all’interno dell’impresa, oppure generosamente liquidati per avviarli a professioni
indipendenti.
Nelle dinastie industriali ottocentesche i matrimoni tra componenti della stessa faglia
rappresentarono una modalità molto comune per preservare l’unità dell’azienda e spesso per
rafforzarla. Tuttavia il prolungato mantenimento della proprietà e del controllo all’interno di una
stessa famiglia ne bloccava gli sviluppi nella direzione dell’impresa manageriale.
Per Landes il fatto che a fine ottocento fossero giunti al comando questi uomini che non avevano
alcun tratto in comune con l’imprenditore, va elencato fra le cause che spiegano il rallentamento
dell’economia britannica e la sua progressiva perdita di leadership economica del mondo, a
vantaggio di Germania e Stati Uniti: qui invece, dinamici uomini che non avevano mai rivestito una
carica pubblica, al vertice dell’imprenditoria erano disposti a innovare, ad abbandonare
l’individualismo e a sperimentare nuove forme di organizzazione d’impresa.
Un altro caso di differenziazione da porre in relazione ai sistemi di parentela riguarda
l’organizzazione imprenditoriale all’interno di due economie asiatiche: Corea del Sud e Taiwan.
I due gruppi d’impresa sono basati su principi di parentela simili ma operano in modo diverso:
 Corea: reti controllate verticalmente. La tradizione in Corea ha generato un sistema di
parentela che ha privilegiato il figlio maggiore della famiglia dominante: si è formata una
classe di grandi famiglie al vertice delle strutture gerarchiche, in stretto rapporto con lo
Stato.
 Taiwan: reti controllate orizzontalmente. Tale sistema creò una struttura economica basata
sulla piccola proprietà rurale e sviluppò legami orizzontali con persone dello stesso rango.

Un crescente numero di studi mostra anche che la presenza femminile negli affari è stato molto
più importante di quella che la storiografia d’impresa, con l’eccezione degli Stati Uniti e Gran
Bretagna, le ha riconosciuto.
Non a caso negli Stati Uniti e Gran Bretagna si erano maggiormente sviluppati gli studi di genere.
L’approccio di genere cerca di sviluppare un più profondo livello di d’analisi e di proposi come una
metodologia per affrontare temi generali delle imprese e dell’industria, non solo quelli interessati
da rapporti di genere.

1.4 Il ruolo dell’istruzione


L’istruzione e le modalità di formazione del capitale umano possono avere una duplice influenza
nel mondo degli affari:
 A livello macroeconomico: sulla crescita dei singoli paesi  perché stimolano la capacità di
generare tecnologia;

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 A livello microeconomico  perché agiscono come fattori modernizzanti della mentalità e
dei comportamenti degli operatori economici;
Il confronto tra Gran Bretagna di vecchia industrializzazione e Stati Uniti e Germania è
particolarmente efficacie nell’evidenziare come le differenze nei modelli di formazione del
capitale umano abbiamo impattato sulla loro storia economica e d’impresa.

In Gran Bretagna i ritardi e le difficoltà di adattamento del sistema dell’istruzione trovavano radice
dalla Prima rivoluzione industriale, che si sviluppò da tecnologie relativamente semplici, prodotte
dal lavoro di artigiani e operati, attraverso pratiche di apprendimento sul campo. La maggior
parte degli imprenditori durante l’Ottocento non aveva seguito studi regolari e aveva affinato le
proprie capacità attraverso la pratica.
Del resto l’Inghilterra era un paese in cui a metà dell’Ottocento, il tasso di analfabetismo era
ancora superiore al 30% maggiore di quello di aeree meno progredite economicamente.

Ben diversa era la situazione della Germania e Stati Uniti. Landes ha identificato l’istruzione con la
somministrazione di quattro tipi di conoscenza:
1. La capacità di leggere, scrivere e fare i conti;
2. Le conoscenze professionali dell’artigiano e del meccanico;
3. La combinazione di principi scientifici e di addestramento pratico che è propria
dell’ingegnere e del tecnico;
4. La conoscenza scientifica, teorica e pratica;
I vari stati tedeschi svilupparono fin dal 1820 una rete di scuole commerciali e di scuole tecniche
che formarono le basi per un sistema di scuola superiore. Le imprese tedesche, dalle piccole ditte
commerciali alle grandi società per azioni, si mostrarono felici di assumere diplomati di questi
istituti.
Il caso degli Stati Uniti presenta molte affinità con quello tedesco. Le considerazioni di ordine
religioso e fattori politici con la progressiva estensione del suffragio elettorale portarono
l’educazione dell’uomo ad essere sempre più riconosciuta come essenziale soprattutto per
un’adeguata partecipazione alla vita politica. In poco tempo il principio dell’educazione gratuita e
obbligatoria per la popolazione bianca si affermò in tutti gli stati. Più del 90% dei bianchi era in
grado di leggere e scrivere.

A differenza dell’Inghilterra, dove la questione dell’istruzione venne lasciata in mani private, sa


degli Stati Uniti che in Germania le istituzioni pubbliche parteciparono attivamente alla
costruzione del sistema scolastico.
Con il passare degli anni, le grandi imprese che per prime avevano realizzato i propri laboratori di
ricerca, furono all’avanguardia anche nel creare propri corsi di formazione per preparare il proprio
personale.

2.1 Le istituzioni pubbliche e lo stato


L’azione dello stato rappresenta un terreno di confronto per l’impresa: in quanto entità
storicamente determinata, essa è preesistente all’impresa capitalistica, si è evoluto con essa.
La sua azione si è mostrata concorde (simile) a quella delle imprese, spesso ha svolto un ruolo di
preparazione, stimolo e di sostengo all’affermazione di un moderno sistema economico.

Istituzioni: l’insieme di attività necessarie alla formazione di un efficiente mercato dei fattori della
produzione dei beni e servizi. Le istituzioni svolgono azioni che soltanto un’autorità superiore può
svolgere. Queste azioni sono di due tipi:
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 Progressiva riduzione dei costi di transazione: ovvero i costi necessari per far funzionare il
mercato;
 Creazione di istituzioni: ovvero gli interventi atti a garantire la titolarità di beni e servizi
oggetto di transazione, cioè i diritti di proprietà;
L’impatto della politica istituzionale e legislativa sulla crescita delle economie e sull’attività delle
imprese è meno evidente di altre forme di intervento dello stato (come la politica economica), ma
più duraturo e continuo. Ad esempio, uno studio ha cercato di dimostrare che il successo
economico di un paese dipende dalle sue origini legali e dalle sue tradizioni normative.

Gli interventi più significativi dello Stato si verificarono nel secolo e mezzo precedente alla
rivoluzione industriale. L’Inghilterra poté beneficiare con grande anticipo rispetto ai suoi
concorrenti di un sistema fiscale, commerciale e monetario unificato; vennero prese anche misure
per proteggere le innovazioni, con l’introduzione dello Statuto dei monopoli. Inoltre a partire dalla
prima metà del Seicento, vennero sempre più favorite le richieste di enclosure: ovvero recinzione
delle terre aperte, per stimolare l’applicazione delle moderne tecniche di coltivazione intensiva.

Questi vantaggi dell’Inghilterra risultano tanto più evidenti se si pensa che nell’Europa fu
necessario attendere la rivoluzione francese perché si abbattessero quelle istituzioni che
impedivano lo sviluppo delle società industriali.
Uno degli effetti più importanti della rivoluzione francese fu l’abolizione delle strutture feudali e
l’emancipazione della classe contadina. La soppressione delle corporazioni sancì per ciascun
individuo la libertà di esercitare qualsiasi attività commerciale e professionale. Questi cambiamenti
rimossero gli ostacoli allo sviluppo dello spirito imprenditoriale. In seguito Napoleone favorì
l’elaborazione di un codice di leggi fra cui il Code de commerce: che introduceva la distinzione tra
tre principali forme di società.
L’impatto della rivoluzione francese fu notevole e questo cambiamento aprì la strada alla
creazione (a partire dalla Francia) di un mercato istituzionalmente e territorialmente unificato,
dove beni, persone e idee potevano circolare senza restrizione  favorendo il sorgere di
un’economia nazionale.

L’attività degli stati americani in materia di diritto d’impresa fu significativa per la creazione di un
contesto istituzionale favorevole allo sviluppo delle attività economiche.
Ricordiamo che  in tutto il mondo occidentale erano entrate in vigore nel corso del Settecento
severe limitazioni per le iniziative di associazione del capitale. Per creare una società era
necessaria una specifica autorizzazione parlamentare, ma non veniva mai riconosciuta la
responsabilità limitata degli azionisti. Queste norme furono emanate per evitare <<bolle
speculative<< (aumento ingiustificato dei prezzi di uno o più beni) ed erano un vincolo alla libertà
di iniziativa d’impresa.
Diversi stati nel Nordamerica si resero conto del problema e vennero adottati dei provvedimenti
che liberalizzavano l’atto di creazione d’impresa.
I paesi europei tardarono ad intraprendere queste iniziative.
(pp. 83-84  non mi sembrava importante dilungarmi)

2.2 Mercati finanziari e finanza d’impresa


I mercati dei capitali sono diversi dagli altri mercati, perché in essi il denaro viene scambiato
contro una promessa di futuri introiti: garantire che questa promessa può essere rispetta è il
problema principale di questi mercati, per risolverlo sono state create apposite istituzioni
finanziarie.
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L’evoluzione di queste ultime è stata correlata con l’evoluzione delle imprese: le istituzioni
finanziare svolgono la funzione di risolvere i problemi che potrebbero impedire la raccolta di
capitali tra coloro che li detengono (INVESTITORI) e coloro che li usano (IMPRESE).
L’esistenza di sistemi finanziari evoluti incide positivamente sulla crescita economica, sulla
formazione di capitale (fisico e umano) e sugli aumenti di produttività.
La storia economica ha evidenziato come la finanza d’impresa sia stata influenzata da due diversi
modelli di governo:

SISTEMA FINANZIARIO MARKET ORIENTED  ORIENTATO AL MERCATO (Paesi Anglosassoni)


Esso si caratterizza per la prevalenza dei mercati come forma di finanziamento esterno alle
imprese: oltre all’autofinanziamento, il capitale viene raccolto  attraverso EMISSIONI DI AZIONI
E OBBLIGAZIONI.
In questi sistemi il ruolo delle banche non è stato trascurabile, esso ha riguardato soprattutto il
credito ordinario e non quello industriale.

Nel caso degli Stati Uniti, fino alla creazione delle compagnie ferroviarie, la dimensione ridotta
delle imprese facevano sì che il ricorso bancario si limitasse alle esigenze di breve termine.
Tuttavia dopo un ventennio di instabilità finanziaria provocata dall’assenza di disciplina nell’attività
delle banche venne introdotta una severa regolamentazione:
 Il numero degli istituti fu ridotto
 Venne creato un sistema di banche di primo livello: le banche nazionali. A queste venne
vietato di mantenere filiali al di fuori dello stato in cui avevano sede e posti limiti al
finanziamento alla singola impresa
La crescente esigenza di finanziamento industriale indotte dalla espansione delle imprese vennero
soddisfatte dal moltiplicarsi di istituti specializzati nel finanziamento a lungo termine e dalla
contemporanea esplosione del mercato borsistico.
Investment banks: svolsero un ruolo importante: oltre a fornire capitale, favorivano fusioni tra i
propri clienti, fornendo consulenza finanziaria e organizzativa.
Complessivamente le banche ebbero un ruolo nel finanziare la crescita del paese, ma esso fu
indiretto.

L’evoluzione delle istituzioni finanziare e della finanza d’impresa in Inghilterra rappresenta un caso
di prolungato condizionamento del contesto socio istituzionale. Ricordiamo he le imprese sorte
durante la rivoluzione industriale erano per la maggior parte di dimensioni contenute, con impianti
relativamente semplici. Date le ridotte esigenze di investimenti si provvide in larga parte con
l’autofinanziamento  contribuendo in parte al ritardo nella formazione di un dinamico sistema
bancario. In secondo luogo, l’Inghilterra dovette a lungo scontare la conseguenza della bolla
speculativa del 1720. Venne promulgata una normativa molto restrittiva in materia societaria al
fine di evitare speculazioni, fu imposta la responsabilità illimitata ai soci, ridotto a 6 il numero
massimo, proibito il trasferimento delle azioni. Venne così inibita la creazione di banche in grado
di effettuare investimenti industriali di larga portata.
Ci volle più di un secolo intero perché si desse avvio ad un lento processo di attenuazione delle
restrizioni, al momento della seconda grande onda industriale il sistema bancario inglese si mostrò
inadeguato a fronteggiare i cospicui investimenti richiesti da impianti di grandi dimensioni: a
questa carenza in parte fece fronte lo sviluppo della Borsa di Londra, accompagnato dalla crescita
dei merchant banks specializzate in attività di consulenza e intermediazione finanziaria.
L’investimento azionario riguardò azioni privilegiate che assicuravano dividendi più elevati ma che
non davano diritto di voto e si indirizzò verso settori tradizionali.
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SISTEMA FINAZIARIO BANK ORIENTED  ORIENTATO AGLI INTERMEDIARI (Giappone ed Europa)
Il sistema orientato agli intermediari è associato a Germania e Giappone e a vari paesi dell’Europa:
in esso la forma prevalente di finanziamento esterno alle imprese è il  CREDITO BANCARIO.
Le banche quindi hanno un ruolo fondamentale nella trasformazione industriale di questi paesi.
In questi sistemi le banche assumono la dorma di  BANCHE MISTE: in quanto forniscono
finanziamenti sia a breve che a lungo termine.
Un effetto condiviso dai sistemi così strutturati è stata la stretta partecipazione tra banca e
imprese, che in alcuni casi ha assunto la forma di: capitalismo finanziario caratterizzato da una
relativa subordinazione dell’impresa alla banca.

Il confronto fra i due diversi sistemi di finanziamento ha sottolineato i limiti di efficienza,


trasparenza e stabilità dei regimi bank oriented: essi sarebbero dominati da potenti istituzioni
private e/o governative.
Del tutto diversi dai regimi market oriented: caratterizzati da mercati liberi e concorrenziali e
trasparenti negli affari.

Così:
 Un sistema orientato al mercato: sembra mostrare maggior efficienza allocativa in un
contesto di stabile crescita delle imprese;
 Un sistema orientato agli intermediari: sembra favorire una logica di accumulazione di
lungo periodo, mostrandosi però più adeguato in situazioni di rapido cambiamento e più
reattivo di fronte alle innovazioni tecnologiche.
Negli ultimi decenni sembra essere in atto una certa convergenza nei due modelli, come
conseguenza della progressiva globalizzazione del mondo finanziario.

3.1 La legislazione antitrust


Il differente sviluppo che ha caratterizzato la legislazione antitrust all’interno delle singole realtà
nazionali è il miglior esempio di quanto le specificità possano influenzare le strategie delle
imprese. Questa differenza trova rappresentazione nei comportamenti diversi seguiti nei due
paesi protagonisti della Seconda rivoluzione industriale: Stati Uniti e Germania. Tratto comune
delle due economie fu la tendenza alla concentrazione degli impianti con il conseguente
rafforzamento della grande impresa.
Negli Stati Uniti, era cresciuta l’ostilità della popolazione nei confronti delle dimensioni eccessive
che andavano assumendo le imprese, in particolare le società ferroviarie a causa dei abusi e
pratiche discriminatorie. In Germania l’affermazione di pratiche di cooperazione fra imprese
operanti all’interno di uno stesso settore attraverso accordi di cartello fu quasi una scelta
consapevole e tutelata dalla legge.

Così negli Stati Uniti, di fronte alla sempre più frequenti richieste di regolamentazione il
Congresso seppur tardivamente varò una legislazione. La nuova normativa dettò alcune regole
generali che dichiaravano incostituzionale la pratica dei pools (accordi stabilito tra imprese
concorrenti di uno stesso settore) e degli accordi di cartello, ma che lasciavano ampio spazio a
fusioni. Poco dopo la Corte Suprema rese illegale ogni forma di accordo fra imprese formalmente
indipendenti. In tale frangente la fusione rimaneva l’unica via di controllo del mercato praticabile
dall’imprese. Frutto del mutato clima politico e istituzionale furono le coraggiose decisioni della
Corte Suprema di smembrare i due potentissimi gruppi che controllavano il mercato del petrolio e
il tabacco: la Standard Oil e l’American Tabacco.
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In Germania, la tendenza alla cartellizzazione nella forma di accordi volontari fra imprese per una
politica solidale di mercato venne riconosciuta come legittima e protetta dallo Stato: i cartelli
avevano lo scopo di limitare la concorrenza, di stabilizzare i prezzi e i profitti e riaffermare il
controllo monopolistico del mercato.

La politica antitrust, in Germania e Stati Uniti costituisce un esempio emblematico di come i diversi
contesti istituzionali possono influenzare il comportamento delle imprese.
La tendenza tedesca possono essere accostate quelle di altri paesi ritardatari: in Francia nel 1884
viene abrogata legge napoleonica che vietava accordi sui prezzi, in Giappone il governo Meiji aiutò
in svariati modi la formazione di gruppi conglomerati di imprese.

3.2 L’evoluzione della disciplina giuridica in materia di bilanci e <<corporate governance>>


La seconda importante area di intervento legislativo riguarda il bilancio.
Il bilancio rappresenta il principale strumento di informazione dell’azienda, fornendone una
sintetica esposizione della consistenza patrimoniale della capacità reddituale un dato momento.
Nei libri mastro dell’impresa capitalistica esso compare due volte: la prima volta come bilancio di
apertura (riferito alla situazione contabile di inizio esercizio), la seconda volta come bilancio di
chiusura (che differisce dalla precedente nella misura in cui sono avvenute variazioni alle singole
voci che lo compongono).
Con l’affermazione delle società di capitali e del principio della responsabilità limitata, il bilancio
diviene una fonte contabile autonoma e separata per le società di capitale. L’abbandono del
controllo governativo sulle società di capitale in tutti i principali paesi occidentali sostituì al
principio della protezione dell’esecutivo quello dell’autotutela esercitata dagli stessi soci: ciò
poteva avvenire grazie al sistema di norme tese sia a proteggere i tori sociali sia a tutelare gli
azionisti.
Una notevole eccezione rimase il Giappone, la forma società e la responsabilità limitata non
sarebbero state legalmente riconosciute fino al codice di commercio del 1899.

CAPITOLO 3
L’evoluzione delle dimensioni e delle forme delle imprese
Fino agli anni '80 la storia d'impresa tendeva ad identificarsi con la storia della grande impresa.
Ciò era dovuto sia da ragioni pratiche, in quanto le grandi imprese tendono a lasciare maggiori
tracce di se sia negli archivi che mediante celebrazioni di ricorrenze permettendo agli studiosi di
disporre di una notevole quantità̀ di volumi (i quali però possono fornire solo quadri parziali
dell'ascesa delle imprese, tralasciando il declino di esse, dato che sono scritti dalle medesime), sia
da ragioni scientifiche, collegate al prevalere nella storia economica e nella storia d'impresa di un
approccio funzional determinista, per il quale la produzione di massa e la grande impresa non
rappresentano che l'inevitabile sbocco delle trasformazioni dell'economia e della società
contemporanea.
Negli anni '80 gli studiosi di impresa hanno cominciato a mutare il loro modo di accostare
l'impresa. Si sono così affacciate nuove linee di indagine che da un lato hanno dato spazio alla
contestualizzazione geografico-temporale delle diverse esperienze di crescita delle imprese, e
dall'altro hanno abbandonato il concetto di generalizzazione di impresa simile al modello
americano, per iniziare a studiare le specificità̀ delle imprese difformi dal modello degli Stati Uniti.

1. Dimensione e performance delle imprese in prospettiva storica

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L'economista Leslie Hannah a supporto delle nuove linee d'indagine propone una similitudine,
ossia compara:
 le grandi imprese americane alle grandi sequoie (nome di due gigantesche piante);
 le piccole-medie imprese al resto della foresta.
Studiare solamente la crescita delle sequoie non dice nulla sul comportamento generale della
foresta, così come studiare solamente il comportamento delle grandi imprese non da alcuna
informazione sul comportamento delle piccole-medie imprese.
1.1 Piccola, media e grande impresa
I parametri più utilizzati per la valutare la dimensione d’impresa sono: numero di dipendenti,
fatturato, ranking (posizione). Non c'è tuttavia un criterio univoco, a causa delle diverse situazioni
nei vari paesi (ad esempio un’impresa considerata piccola in Inghilterra viene considerata medio-
grande in Italia).
Le dimensioni d0impresa dipendono anche dalle strategie competitive delle singole imprese:
 se si vogliono sfruttare economie di scala → sarà necessaria impresa grandi dimensioni
 se si vuole attuare una produzione specializzata o di nicchia → piccola-media impresa
La struttura dimensionale di un’impresa dipende dalla storia, dal contesto istituzionale, dalla
cultura di ogni singolo paese.
Dai dati emerge che le piccole imprese sono soprattutto diffuse in Italia e Giappone, piuttosto che
negli Stati Uniti, Inghilterra, Germania, dove le grandi imprese sono le principali.
Tuttavia è riscontrato che il processo di americanizzazione del secondo dopoguerra, oggi entra in
crisi. Due sono le teorie che tentano di fornirne una ragione:
1. teoria post-industriale → attribuisce la causa alla perdita degli occupati del settore
industriale, senza tuttavia spiegarne le cause; debole
2. teoria neoindustriale → dovuto ai processi di decentralizzazione e disgregazione, a
vantaggio di una maggiore flessibilità̀ produttiva e organizzativa; più quotata.

1.2 Due indicatori di performance: longevità e redditività


l concetto di performance è molto complesso, ed è impossibile darne una definizione esaustiva e
soddisfacente.
Vi sono differenti approcci per misurare le performance d’impresa per arrivare a capire quali sono
quelle più reddittizie:
 Approccio mainstream (quello che va per la maggiore): l’impresa deve massimizzare il
profitto e per determinare le imprese più profittevoli si deve effettuare un’analisi: “l’analisi
di bilancio”. Il bilancio é il documento contabile per eccellenza dell’impresa, composto da
Poste.
Confluiscono infatti valutazioni di vario tipo:
- Carattere contabile → relative all'efficienza di produrre beni e servizi che
assumono la forma di indici specifici (ROE, ROS, ROI)
- Carattere patrimoniale → relative alla solidità̀ dell'impresa (current ratio, indice di
leva...)
- Performance finanziarie → come capitalizzazione
 Approccio istituzionalista: secondo cui l’impresa viene valutata in base alla sua capacità di
ridurre i costi di transazione e di minimizzare i conflitti tra principale/agente
 Approccio evolutivo: l’enfasi è posta sulla sopravvivenza dell’impresa, ovvero sulla sua
capacità di superare la continua selezione prodotta dalle mutevoli condizioni del mercato.
Se un’impresa è longeva è un’impresa di successo, che è stata capace. Questo approccio ha
il punto di forza dell’immediatezza: quando e nata l’impresa? anno x . Ok allora è longeva
ed è di successo.
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 Approccio del management strategico: la performance dell’impresa dipende dalla
struttura del settore e dalla sua capacità ad interagire con esso .
L’impresa deve agire in mood virtuoso con il contesto (stakeholder): se la comunità locale,
gli investitori, i dipendenti, etc. sono contenti -> allora è un’impresa di successo. Come fai a
sapere se sono contenti? Tramite la somministrazione di questionari.
 Approccio sociologico: il termine di confronto è la capacità dell'impresa di raggiungere
determinati obiettivi. Qual è il punto critico? Se ce’ un’impresa dove il management, gli
azionisti sono meno ambiziosi: risulterà più performante rispetto ad altre imprese.

Per superare tali conflitti lo storico di impresa Youssef Cassis ha proposto una suddivisione dei
diversi criteri di valutazione del comportamento delle imprese in cinque categorie categorie:
dimensione, rendimento, sopravvivenza, competitività̀, etica.

Sono quindi ancora relativamente pochi gli studi di performance d'impresa, in quanto è un campo
di ricerca recente e complesso. Gli studi fino ad ora svolti sono stati fatti su grandi imprese, sulla
base delle due uniche variabili di cui è stato possibile ricostruirne l'andamento per periodi
prolungati: sopravvivenza e redditività̀.

Lo spunto per tali studi è avvenuto dalle ricerche di Alfred Chandler, nell'opera Scale and Scope,
dove mette a confronto la dinamica delle 200 maggiori imprese di Stati Uniti, Gran Bretagna, e
Germania del XX secolo.
In esso sostiene che la grande impresa industriale moderna abbia continuato a dominare per tutto
il Novecento i settori ad alta intensità di capitali mantenendosi ai vertici della graduatoria
mondiale delle grandi imprese.
L’economia di scala (se aumenti le dimensioni perché aumenti il prodotto: abbatti i costi fissi) e
l’economia di scopo (sinergia tra i diversi prodotti che produci. Concetto anche di filiera).
Per studiare l’economia utilizza un modo: ranking-> all’interno di uno stato classifica le imprese
per dimensioni (dalla più grande a scendere) e si concentra tra le prime 100.
L’obbiettivo è di vedere quali rimangono nel raking, salendo, scendendo, uscendo, etc.
Gli elementi che interessano sono la permanenza nel raking, e la longevità.
Per Chandler sopravvivenza e redditività̀ sono i migliori indicatori per valutare il successo di
un'impresa. Tale studio ha suscitato un dibattito:
 Louca e Mendonca → stesso campione Chandler; affermano che ciò che caratterizza
maggiormente il campione nella lunga durata è la turbolenza piuttosto che la continuità̀
 Giannetti e Vasta → metodologia simile a quella sopra descritta applicata all'Italia; hanno
riscontrato maggior turbolenza per le imprese italiane piuttosto che per quelle americane
 Hannah → interpreta la turbolenza delle imprese americane come un qualcosa collegato ad
un ambiente più propenso ed aperto ad abbracciare nuoe invenzioni e mutamenti
tecnologici
 Carreras e Taffunel → ritengono sia necessario cogliere i valori di fondo piuttosto che
valori contabili per spiegare la dinamica e l'evoluzione delle imprese.

2. L’impresa familiare
L’impresa famigliare non ha avuto l’attenzione di una specifica letteratura economica o
manageriale che tende a definirla come un retaggio del passato e come un ostacolo al
funzionamento dei meccanismi del mercato, a causa delle sue rigidità in materia di proprietà e
management.
Essa si caratterizza per:
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 Dimensione ridotta
 Lento tasso di crescita
 Agli investimenti prediligono la distribuzione dei dividenti (che corrisponde al
sostentamento della famiglia)
 Autofinanziamento quindi riluttanza ad attingere a finanziamenti esterni
 Se si ricorre a finanziamenti esterni preferenza a quelli bancari a breve termine rispetto al
mercato azionario che potrebbe diluire il controllo famigliare
 Scarsa propensione alle fusioni
 Affidamento sui componenti della famiglia che impediscono l’ingresso di talento
imprenditoriale esterno
Questa raffigurazione dell’impresa famigliare sembra pienamente condivisa dalla scuola
chandleriana. In questo approccio emerge la contrapposizione fra impresa famigliare e quella
manageriale verso cui convergerebbero tutti i percorsi di crescita.

Successivamente sono state approfondite le motivazioni alla base del duraturo successo che le
imprese famigliari hanno incontrato in determinati contesti e della minor facilità con cui esse sono
state gradualmente sostituire da organizzazioni più complesse come imprese manageriali o
imprese pubbliche. Si è notato che l’impresa famigliare si adatta meglio a condizioni di elevata
incertezza del mercato e scarsa efficacia del contesto normativo, consentendo di ridurre i costi di
transazione, di far circolare meglio le informazioni e di limitare con la successione all’interno del
gruppo famigliare i rischi connessi alla sostituzione di leadership.
Il tema dell’impresa famigliare occupa un notevole spazio nella storiografia d’impresa europea,
dove tale forma di organizzazione produttiva manteneva e mantiene una discreta vitalità. Le
esperienze dei paesi europei mostrano che alcune connotazioni negative attribuite alle aziende
famigliari non corrispondo appieno alla realtà.
Durante il Novecento: in Gran Bretagna il controllo famigliare sulle 200 maggiori imprese è
cresciuto fra le due guerre dal 55 al 70%; in Francia i gruppi famigliari hanno manutenuto il
controllo di grandi imprese fino agli anni Sessanta; anche n Germania, Svezia, Italia le imprese
famigliari hanno detenuto il primato.
La duratura presenza dell’impresa famigliare ai vertici delle big business non è soltanto una
caratteristica europea: oltre ai casi di Corea del Sud, Cile, dove continuano a permanere imprese di
impronta famigliare, negli stessi Stati Uniti, non sono rari i casi di capitassimo personale che si
prolunga per tutto il Novecento.
L’impresa famigliare va considerata una fra le molte imprese che si pongono nel continuum di
gerarchie e mercati.

3. La grande impresa manageriale


Sia negli Stati Uniti che in Europa all'origine della grande impresa moderna vi è la costruzione di
ferrovie. L’influenza delle ferrovie si esercitò attraverso molteplici vie:
 Tramite la loro costruzione, comportando l’impiego di enormi unità di ferro, acciaio,
cemento e legno, stimolò fortemente lo sviluppo delle attività industriali a monte.
 Una volta in servizio, le ferrovie sollecitarono le attività a valle, tagliando i tempi di
percorrenza, facilitando la movimentazione di merci e di passeggieri e consentendo alle
imprese di ampliare i propri mercati.
 Inoltre, fornirono un concreto esempio di big business moderno, con le seguenti
caratteristiche: impianti di grandi dimensioni, organizzazione complessa, forti necessità di
coordinamento manageriale, crescente separazione proprietà̀-controllo. L'elemento

10
chiave fu rappresentato dalla necessità di far fronte ai grandi investimenti richiesti: la
formula preferita fu quella delle obbligazioni, ma non fu raro il ricorso ad emissioni
azionarie.
L'entità̀ di tali imprese richiedeva nuove strutture organizzative e nuove procedure di
coordinamento. Ciò comportò l'introduzione di un'organizzazione per funzioni basata su gerarchie
formali distinte per linee d'autorità̀ e deleghe di responsabilità̀, nonché́ la sperimentazione di
sofisticate tecniche contabili.

3.1 La mano invisibile e il paradigma chandleriano


La grande impresa he trovato negli Stati Uniti le condizioni migliori per affermarsi: il paese era
scarsamente popolato e aveva quindi una ridotta possibilità̀ di sfruttamento della forza lavoro (il
che spiega la forte migrazione), ma godeva di un'abbondante offerta di risorse naturali e di
capitale. Ciò permette di spiegare la tendenza allo sviluppo di tecnologie labour saving (risparmio
di manodopera) e quindi la precoce spinta alla meccanizzazione.
Si svilupparono poi una serie di innovazioni di processo e di prodotto, che resero possibile la
diffusione delle pratiche di standardizzazione.
Si sviluppò quindi il cosiddetto American system of manufacturing ( ovvero il tipo di
organizzazione in fabbrica): una tecnologia che anticipava la produzione di massa, e che sarebbe
stato il primo stadio di una filiera tecnologica che sarebbe poi sfociata nel fordismo, ossia nella
completa meccanizzazione del processo produttivo mediante la catena di montaggio.

Era evidente che negli ultimi decenni dell'800 negli Stati Uniti aveva preso avvio un processo
irreversibile di integrazione delle attività̀ produttive, dal quale sarebbero ben presto emerse
poche grandi imprese dominati. Si sostituì la “mano visibile” della grande impresa, con la “mano
invisibile” del mercato: si andava delineando in modo sempre più̀ netto la tendenza
all'internalizzazione di operazioni e transazioni fino ad allora lasciate al mercato, i cui meccanismi
non sembravano in grado di assicurare le economie di scala e di ampiezza necessaria a garantire
quel flusso di prodotto che era ormai condizione indispensabile per lo sviluppo dell'impresa.

Negli Stati Uniti di fine '800 la grande impresa si diffuse soprattutto nelle industrie e nei settori
caratterizzati da un elevato tasso di cambiamento tecnologico e sollecitati da una domanda in
rapida espansione. Vi erano sostanzialmente due categorie di imprese:
1. Settori leggeri: i del tabacco, alimentare, meccanica leggera → caratterizzate da un
processo di crescita interno, attraverso strategie di integrazione a valle nel campo della
distribuzione e del marketing e a monte nell'acquisizione delle materie prime.
Tali strategie potevano essere sostenute con proprie risorse finanziarie, assicurate
dall'elevato cash-flow generato dalla produzione e distribuzione di massa.
Godono di un mercato di massa.
Cash Flow: pagamenti dilazionati nel tempo, questo fa si che tu abbia un “bafer” di
liquidità, cioè hai disposizione dei soldi per fare degli investimenti .
2. Settori pesanti: Settori del petrolio, chimica, elettromeccanica pesante, gomma,
automobile → operavano in settori ad alta intensità̀ di capitale, e che sono cresciute
attraverso strategie di integrazione orizzontale per il controllo dei prezzi e della
produzione. La concorrenza non é spietata, in quanto sono decisamente ridotte le imprese
che operano in tali settori.
Elemento di differenziazione rispetto alle imprese del primo gruppo, e cioè un ben più
ampio ricorso al mercato dei capitali.

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3.1 Economie di scala e diversificazione: i <<first movers>>
Per Chandler tutte queste imprese (settori leggeri e pesanti) avevano in comune il fatto di essere
dei first movers, cioè le prime imprese ad aver effettuato investimenti su larga scala in una triplice
direzione:
1. In adeguate economie di scala e di scopo → per rafforzare produzione
2. In un'organizzazione della distribuzione → per rendere fluido il collegamento fra impresa
e mercato
3. In una struttura manageriale → coordinamento e controllo delle attività precedenti

Gli imprenditori che per primi hanno effettuato tali investimenti hanno potuto godere di un forte
vantaggio competitivo, creando barriere all'entrata in grado di essere superate dagli sfidanti
soltanto con sforzi ancora più̀ rilevanti e rischi maggiori. Solo pochi sono riusciti a superare
queste barriere, e quindi il mercato si è trovato in una condizione di oligopolio.
Oligopoli ; situazione di mercato composto da poche imprese che producono lo stesso prodotto,
presente principalmente per il secondo gruppo
Ricerca e sviluppo  nelle grandi imprese ci sono persone apposite che si occupano
esclusivamente di innovazione, di ricerca. L’innovazione é fondamentale per il successo

Quattro principali strategie consentono alle grandi imprese di continuare a crescere e a


mantenersi ai vertici delle economie contemporanee.
Due di esse hanno motivazioni difensive, in quanto sono finalizzate a proteggere gli investimenti
già effettuati:
1. integrazione orizzontale → unirsi con o acquisire con imprese che utilizzano metodi
produttivi simili, per produrre uno stesso prodotto rivolto ad uno stesso mercato
2. integrazione verticale → tendenza ad assorbire unità coinvolte nelle attività̀ a monte o a
valle del proprio processo produttivo
Le altre 2 hanno carattere offensivo, ovvero sono finalizzate ad entrare in nuovi mercati e a
intraprendere nuove attività:
3. Diversificazione produttiva (azienda conglomerata)
4. Espansione verso aree geograficamente lontane (azienda multinazionale)

La conglomerata è il punto d'arrivo di una strategia di diversificazione spinta. La diversificazione


viene classificata in due categorie:
1. diversificazione correlata → riguarda l'espansione dell'impresa in linee di prodotto vicine,
per caratteristiche tecnologiche e produttive o per modalità̀ di marketing e distribuzione,
al core business originario. Ad esempio mobili d’ufficio e cancelleria.
2. Diversificazione non correlata → diversificazione in settori remoti, non si creano delle
sinergie tra il business principale e quello nuovo. Sono aziende che operano in settori
completamente diversi. Si utilizza tale diversificazione solo per il principio di prudenza, nel
caso in cui ci dovesse essere una crisi settoriale, in tal caso colpisce solo un proprio settore
e non fa perdere all’imprenditore l’intero capitale. Ad esempio se una fabbrica di
macchine acquista una fabbrica di pannolini.

3.2 Le imprese multinazionali


Le imprese multinazionali sono: imprese che controllano operazioni e attività̀ che generano
reddito in più di un paese. Sono diversi i fattori che possono spingere l'impresa a creare propri
impianti in un paese estero:

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 Tariffe doganali: producendo direttamente in un altro paese, non vi sono le tariffe doganali
per importare il prodotto. Ad esempio Brasile che comprava automobili chiede alla fabbrica
di spostarsi in cambio dell’annullamento dei dazi di importazione nel paese: fabbrichi
prodotto, lo vendi nel mercato e dai lavoro alla popolazione.

 Costo del lavoro: in determinati paesi il costo del lavoro é inferiore al paese dove si trova la
sede principale della multinazionale
 Nuovi mercati: considerando che il trasposto é costoso, é conveniente aprire sedi nei paesi
in cui si vuole vendere
 Differenziare il prodotto per esigenze locali: ogni paese ha una propria cultura e abitudini.
È conveniente diversificare il prodotto in base alle esigenze locali.
Ad esempio: prodotti farmaceutici tipo le pastiglie che contengono un granulare nella
capsula: queste capsule non devono essere velenose, devono sciogliersi nello stomaco,
contenere senza alterale principio attivo -> queste capsule sono fatte di midollo di mucca
(per la maggior parte). In alcuni paesi tipo India che non possono mangiare carne le case
farmaceutiche

FDI (investimenti esteri diretti): É uno strumento per misurare le multinazionali. É un indicatore
delle attività produttive di un paese che sono di proprietà di una società straniera.
Nel 1913 l’80% dei FDI proveniva dall’Europa e solo il 14% dagli Stati Uniti.
La maggior parte delle multinazionali era rappresentata da imprese si registrate nella
madrepatria, ma che all'interno di essa non svolgeva alcuna attività̀, non erano quindi filiazioni
estere di grandi imprese nazionali, bensì aziende specializzate in una singola
attività/prodotto/servizio solitamente in un solo paese (free standing companies). Questo
fenomeno si andò attenuando negli anni '20, lasciando spazio alle classiche multinazionali.
Negli anni '30, a causa della crisi mondiale, rallentò la crescita degli FDI, a vantaggio della
costituzione di cartelli internazionali per il controllo di specifici mercati.
A partire dagli anni '50 si ebbe una forte ripresa degli FDI (flusso crebbe di 5 volte tra fine anni '50
e 1980); tuttavia erano gli USA a far la parte del leone, con il 40% del totale degli FDI; in tale
periodo inizia a risaltare anche il Giappone (7%).
Dagli anni '80 vi è un vero boom degli Fdi, cresciuti ad un ritmo del 15% annuo, aprendo le strade
alla globalizzazione; si segnala anche la presenza di multinazionali tascabili, ovvero di medie
dimensioni.
Negli anni '90 si segnala il nuovo sorpasso dell'Europa sugli USA, mentre l'aumento della quota
asiatica è da ricollegarsi all'ascesa cinese.

4.2 I gruppi di imprese, gli <<zaibatsu>> e il modello asiatico


I gruppi hanno sfruttato l'ampio spettro di tecnologie straniere mature, e quindi disponibili sul
mercato, per dar vita ad un ventaglio di industrie, spesso tecnologicamente non convergenti e
capaci di mettere in pratica un'aggressiva politica di espansione sui mercati esteri.

Il primo modello è quello giapponese degli zaibatsu, grandi gruppi di imprese diversificate
posseduti e controllati da ricche famiglie che le avevano acquistate dallo Stato.
Dopo la seconda guerra mondiale vi fu lo smantellamento di tali imprese e delle grandi proprietà̀
famigliari che li controllavano ad opera degli americani. Con il recupero della sovranità̀ il governo
tornò a favorire la formazione di gruppi d'impresa (keiretsu) che si differenziavano dai precedenti
per l'assenza di controllo famigliare, sostituito da una rete di partecipazioni incrociate fra le
imprese del gruppo.
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In tali gruppi l'aspetto della flessibilità̀ è fondamentale (si spiega a causa della forte diversificazione
delle imprese che facevano parte del gruppo). La gestione si è conseguentemente sviluppata sulla
base di un sistema di lavoro collettivo.

Il secondo modello è quello dei chaebol coreani, gli aspetti principali sono uguali al modello
giapponese, tranne che per il fatto che non possono controllare banche, permettendo così al
governo di controllare il processo di industrializzazione e di guidare le scelte decisionali.
Contribuiscono molto al PNL coreano (più del 60%) e possono essere molto influenti.

Infine vi sono i groupos sudamericani, imprese multisocietarie che operano su diversi mercati ma
con gestione finanziaria e imprenditoriale unificata. I primi si sono formati agli inizi del '900, ma
dopo la grande crisi scompaiono praticamente tutti.

4.2 Forme flessibili di produzione: reti di imprese e distretti


La specializzazione flessibile, ossia l'organizzazione della produzione in reticoli territoriali di
piccola impresa, rappresenta un'alternativa alla big corporation, evitando la dequalificazione del
lavoratore.
Essa rappresenta l'aspetto più̀ originale e significativo dei distretti industriali, i quali caratterizzano
particolarmente il modello italiano.

Il distretto industriale è un'entità̀ socio territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in


un'area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità̀
di persone e di una popolazione di imprese industriali che tendono a compenetrarsi.
Il distretto ha poi una rete stabile di collegamenti con i suoi fornitori e i suoi clienti al di fuori del
distretto, ampliando gradualmente la sua azione fino a raggiungere una dimensione regionale, ma
in certi casi anche nazionale e internazionale.
Gli elementi caratterizzanti del distretto sono 4:
 La comunità̀ di persone → incorpora un sistema omogeneo di valori che si esprime in
termini di etica del lavoro e dell'attività̀, della famiglia... tali valori vengono tramandati da
istituzioni locali alle nuove generazioni, che rigenerano e implementano il distretto
 La popolazione delle imprese → ciascuna impresa è specializzata in una o in poche fasi del
processo produttivo tipico del distretto; i processi produttivi devono potersi scomporre in
fasi separabili dal punto di vista temporale e spaziale. La divisione del lavoro è realizzata
quindi nel mercato locale ed ogni unità è allo stesso tempo caratterizzata dalla propria
storia ed è un ingranaggio specifico di quel distretto. Le imprese del distretto appartengono
perlopiù a uno stesso settore, dove possiamo trovare l’industria principale è le industrie
accessorie, ovvero la produzione del bene tipico e dei prodotti intermedi, quali macchinari,
servizi, correlati
 Le risorse umane → Sono coloro che lavorano nelle imprese del distretto.
Godono di skills, conoscenze, elevate.
Nel distretto industriale é più facile fare carriera che in una grande impresa, in quanto si
lavora con compiti intercambiabili, esigenze che cambiano tutti i giorni. Tendenza a
ridistribuire e riallocare continuamente le risorse umane (elevata mobilità verticale),
ricoprendo anche ruoli di responsabilità.
L’imprenditore puro è una caratteristica delle risorse umane del distretto. È colui che é
titolare dell’impresa, ci lavora e si occupa di gestire in prima persona l’azienda stessa (nella
grande impresa si trova il manager)

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 Il mercato del distretto → Il mercato del distretto non è un vasto e omogeneo mondo di
compratori, ma è flessibile e specializzato.
Su tale mercato, la merce rappresentativa di ogni distretto deve essere riconoscibile per
determinati standard qualitativi, per tipicità di produzione, regolarità delle consegne.
Oltre a queste caratteristiche se ne aggiungono altre due:
 Percezione delle innovazioni: vi è una maggior resistenza rispetto alla big corporation,
all’introduzione di tecnologie in una realtà dominata dall’uomo. Tale introduzione è
graduale e non sostitutiva all’uomo.
 Ruolo della banca locale: le banche locali hanno maggior flessibilità rispetto alle banche
nazionali dato che sono nate nel distretto e conosce meglio degli altri operatori
economico-finanziari propri interlocutori.

4.3. Le imprese cooperative


Le cooperative sono un tratto distintivo del nostro sistema economico. L’Emilia Romagna
é la regione con il maggior numero di cooperative.
Le cooperative sono considerate il ‘terzo settore’, a seguito del primo caratterizzato dalle imprese
private e dal secondo caratterizzato dalle imprese pubbliche.
Hanno l’obbiettivo di coniugare l’attività imprenditoriale con i valori.

Le cooperative: sono associazioni autogestite e volontarie di individui che si uniscono per


soddisfare le proprie aspirazioni economiche, sociali e culturali e si fondono sui valori della
responsabilità̀ e dell'aiuto reciproco, della democrazia, dell'equità̀, dell'eguaglianza e della
solidarietà̀.
Differiscono dalle classiche imprese capitalistiche in quanto le loro strategie e i loro
comportamenti sono subordinati a logiche etico-sociali diverse da quelle del profitto e del
mercato. Inoltre differiscono per:
 governance democratica → praticano la democrazia economica, i soci hanno tutti lo stesso
potere, “una testa un voto” (al contrario delle s.p.a dove il potere é proporzionato alla
quota sociale).
 reinvestimento di una parte degli utili in misura molto superiore → vi sono anche le
cosiddette riserve indivisibili
 il loro scopo è lo scambio mutualistico → ristorno di utili in misura maggiore a chi più ha
contribuito alla causa
 manca un mercato delle quote azionarie → principio della porta aperta: L’ammissione è
subordinata al parere favorevole del CDA. Chi vuole fa parte della cooperativa si aggiunge
agli altri soci, non é necessario che un socio gli venda la sua quota. Il capitale é variabile
sulla base volontaria dei soci.

Possono essere di 3 tipi:


 cooperative di lavoro → i soci sono i lavoratori
 cooperative di utenza → i soci sono coloro che utilizzano la cooperativa
 cooperative di supporto → i soci sono piccoli imprenditori

La storiografia è unanime nell'individuare l'inizio della moderna era delle cooperative nella
costituzione della Rochdale Equitable Piooners Society nel 1844: si trattava di uno spaccio
cooperativo di prodotti alimentari e candele, messo in piedi da una decina di operai, con lo scopo
di acquistare all'ingrosso beni di prima necessità e cederli ai soci a prezzi vantaggiosi, in risposta

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allo strozzinaggio. Tale iniziativa diede l'imprinting alla tradizione cooperativa britannica, che nel
settore del consumo trovò la sua principale applicazione.

Oltre a questo modello la storiografia ne ha identificati altri 3 in Europa:


 Francese → sviluppo di cooperative di produzione che hanno tratto origine dagli atelier
nationaux, i quali rappresentarono il punto di riferimento per la formazione di cooperative
operaie; gli atelier sociaux, organizzati sulla base della parità̀ di salario e dell'egualitaria
ripartizione degli utili; il proliferare richiese la creazione di una camera consultiva per tali
cooperative ed alla creazione di un'apposita banca;
 Tedesco → sviluppo di cooperative nel settore del credito (casse rurali), la prima nel 1840
in un piccolo comune della valle del Reno, creata da Raiffeisen e ad azionariato popolare
con un'attività limitata al raggio dei soci (contadini soprattutto), a cui si concedeva crediti a
tassi favorevoli; il proliferare portò alla creazione di un istituto centrale di credito agricolo,
che divenne l'istituto di riferimento per le cooperative cattoliche; si formò anche un credito
agricolo di carattere non confessionale. Infine si formò un'altra forma, la banca popolare,
che forniva sostegno economico all'artigianato e alle cooperative di produzione industriale
 Scandinavo → diffusione di cooperative agricole

In Italia il movimento mosse i primi passi nel Regno di Sardegna, quando nel 1854 venne costituita
la prima cooperativa di consumo a Torino. Le culture promotrici furono i demoliberali,
repubblicani, socialisti e cattolici.
Nel 1882 c'è il riconoscimento legislativo: ciò apre all'epoca d'oro delle cooperative in Italia che
corrisponde all'età giolittiana.
Ai giorni nostri le cooperative rappresentano una componente importante dell'economia italiana.
Infine si segnala una peculiarità tutta italiana, ovvero le cooperative sociali.
Possono essere di 3 tipi:
 tipo A → gestiscono servizi socio sanitari o educativi
 tipo B → gestiscono attività finalizzate all'inserimento o reinserimento nel mercato del
lavoro di persone svantaggiate; nascono negli anni '70 come alternativa ai manicomi, su
iniziativa di Basaglia; l'Italia fu prima in tutto il mondo (approfondimento su miei appunti
sula Legge Basaglia)
 tipo C → modello ibrido fra le precedenti

Concludendo si può dire che le cooperative hanno si dei vantaggi; sono infatti un fenomeno
globale che è in crescita, particolarmente in Italia, e promuovono la cultura del reinvestimento;
hanno però anche svantaggi, come la difficile gestione, la non sempre piena consapevolezza da
parte dei soci, e un difficile equilibrio da mantenere.

CAPITOLO 4
1. L’evoluzione dell’organizzazione
Il processo di crescita della grande impresa non avrebbe potuto compiersi senza le profonde
TRASFORMAZIONI ORGANIZZATIVE che l’accompagnarono: esse resero efficiente e veloce il flusso
della produzione all’interno dell’azienda e portarono al coordinamento ottimale di questi flussi.

1.1. L’organizzazione della grande impresa negli STATI UNITI


Prima dell'avvento delle ferrovie il modello principale di organizzazione era quello
monofunzionale; esso era caratterizzato da un proprietario che gestiva direttamente l'impresa,

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affiancato da qualche collaboratore tecnico per la supervisione dell'officina e della contailità. È un
modello che non può funzionare per imprese di grandi dimensioni.

Le società ferroviarie rappresentarono la prima forma di BIG BUSINESS.


Con l'avvento delle grandi ferrovie (ultimi decenni '800) si hanno importanti innovazioni
organizzative e gestionali; gli uomini che gestivano tali imprese divennero i primi manager
modernamente intesi: essi misero a punto una struttura organizzativa basata sulla distinzione fra
responsabilità̀ gerarchica (line) e di stato maggiore (staff). Si trattava di una struttura
plurifunzionale accentrata (U-Form), organizzata in una serie di dipartimenti funzionali
(marketing, produzione...) dotati di responsabilità̀ operativa. L'ufficio centrale, composto dal cda
e dal comitato esecutivo, svolgeva allo stesso tempo il compito di effettuare le scelte di lungo
termine, quanto quelle di valutare, pianificare e coordinare le attività̀ dei dipartimenti.
Tale struttura risultò efficiente fino a che le aziende concentravano i loro sforzi in attività
omogenee, ma entrò in crisi quando, nei primi decenni del '900, molte imprese intrapresero la
strada della diversificazione.
Per far fronte alle insufficienze organizzative, venne così introdotta una nuova forma organizzativa
la cosidetta forma multidivisionale (M-Form), che è ancora oggi la struttura prevalente.
Nella M-form piena responsabilità operativa viene assegnata a divisioni, ovvero centri di profitto
autonomi organizzati o per linee di prodotto o per aree geografiche.
L'elemento chiave risulta quindi la separazione fra decisioni strategiche e decisioni operative, con
il top managment responsabile delle decisioni strategiche e le divisioni delle decisioni operative. La
responsabilità strategica è attribuita ad un quartier generale, formato dal cda e dal comitato
esecutivo, che analizza e valuta la performance delle singole divisioni, assistito da funzionari di alto
livello.
Tale forma venne sperimentata inizialmente dalla Du Pont e dalla General Motors, la prima
operante nella chimica, la seconda nell'automobile; entrambe avevano vissuto un boom, ma
tuttavia nella recessione dei primi anni '20 entrambe si trovarono di fronte ad una crisi di
domanda, con conseguente giacenza di pezzi invenduti e causa dei prezzi, che spinse le due
imprese alla ricerca di forme organizzative più̀ efficienti sia a livello di strategia che di gestione del
prodotto.

1.2 L’imitazione europea


Casi simili a quelli della General Motors e della Du Pont si verificarono anche in Germania
(Siemens) e in Francia (Saint-Cobain), ma resta il fatto che la diffusione del M-form in Europa fu
piuttosto lenta.
La diffusione della struttura multidivisionale ha rappresentato una componente di rilievo nel
processo di americanizzazione delle economie europee nel secondo dopoguerra. Nei primi anni
Sessanta, la supremazia economica degli Stati Uniti sull’Europa cominciò ad affievolirsi,
subentrarono società̀ di consulenza con la loro opera di promozione delle tecniche manageriali
americane; la più importante fu la McKinsey che lavorò con Shell, Air France, Volskwagen.

1.3 Holding, reti e gruppi


La holding (H-form), è una società finanziaria che possiede azioni o quote di altre imprese.
L’impresa multidivisionale (M-form) appariva superiore in tutto: per la sua visione strategica
complessiva, per la chiara struttura proprietaria delle sue divisioni, per la netta separazione tra
strategia e attività operativa, etc. Tuttavia la Holding è rimasta a lungo la forma di organizzazione
preferita delle grandi imprese europee.

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La spiegazione rinvia ancora una volta a fattori esogeni all’impresa, cioè alla storia e al contesto
istituzionale delle singole realtà nazionali

2.1 L’organizzazione del lavoro nell’impresa ottocentesca (MODELLO VITORIANO)


Il modello vittoriano non è un vero e proprio modello perché nessuno lo ha pensato o studiato
La fabbrica vittoriana può essere il simbolo dell’organizzazione del lavoro dell’impresa
ottocentesca.
La fabbrica vittoriana ha avuto diverse visioni:
 Per Engels essa era responsabile di una rottura sociale (social breakdown) che sradicando il
lavoratore dalla compagna lo aveva trasformato in manodopera dequalificata, subordinata
alla macchina.
 Per Marshall: lo sradicamento sociale ipotizzato da Engels fu un fenomeno territoriale con
dimensioni ridotte. La sua visione si avvicina più all’idea di distretto, ovvero una fabbrica
composta da unità familiari.
Fino a metà Ottocento il mercato del lavoro britannico mostrò un forte radicamento territoriale e
scarsa mobilità, almeno fino alla prima guerra mondiale.
Tale mercato era caratterizzato dalla paga sulla base del cottimo, ovvero il salario si basava sul
numero di unità prodotte (che venne abolito dopo molte battaglie intorno al ‘900)
Il processo che portò alla formazione di un moderno mercato del lavoro fu contradditorio e
influenzato da fattori esogeni, quali il progresso e la legislazione di fabbrica;
Il modello vittoriano del tardo Ottocento si caratterizzava per la nascita di aristocrazie operaie:
ovvero capi-squadra che avevano una conoscenza dell'organizzazione del lavoro, erano precisi
nell'esecuzioni di mansioni specializzate, abili nel superare gli inconvenienti di procedure ancora
empiriche, ed erano in grado di suscitare il senso della disciplina; ciò assicurava loro un salario
elevato, e perciò̀ erano restii alla divulgazione delle loro abilità. Essi esercitavano anche un
controllo sulle assunzioni, licenziamenti e salario. Ci furono anche polemiche da parte dei
proprietari delle fabbriche poiché i capi-squadra presero troppo potere.

2.2. TAYLORISMO E FORDISMO


Il modello vittoriano entrò in crisi a fine Ottocento, a favore del unionismo di massa.
Ciò fu l'esito :
 da una parte delle modificazioni della struttura produttiva con l'esplosione del big
business e dell'azione imprenditoriale rivolta ad una maggiore efficienza produttiva;
 dall'altra, dall'organizzazione dei lavoratori unskilled (non qualificati) in sindacati, molto
spesso politicizzati, alternativi a quelli di mestiere, facendo sempre più ricorso allo
sciopero.
Le trasformazioni produttive di maggior impatto sul lavoro si ebbero nelle imprese statunitensi,
dove l' American System e la produzione standardizzata stavano evolvendo nella produzione di
massa, basata sulla catena di montaggio: ovvero un dispositivo che faceva scorrere il prodotto in
corso di lavorazione; la sua introduzione implicava un rovesciamento nel modo di concepire il
processo produttivo, infatti le mansioni che prima venivano svolte da un solo operaio furono
frazionate in operazioni diverse, con il pezzo che si spostava lungo la fabbrica, mentre gli operai
erano fermi, aumentando la velocità di produzione. Ciò cambiò il modo di lavorare e la velocità
divenne l’imperativo del sistema.
Ciò implicava lo studio di un nuovo modello organizzativo. Lo studio di un nuovo modello
organizzativo fu opera dell’ingegnere statunitense Taylor. Nella sua opera più influente attraverso
l’analisi dei movimenti e delle operazioni lavorative misurò esattamente il tempo necessario

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all’esecuzione di ogni operazione e quindi di definire l’unico modo migliore per compiere
un’operazione.
Con l’uso sistematico delle macchine e la standardizzazione della produzione la fabbrica era
divenuta un sistema complesso, formato da processi meccanici, che poteva essere controllato e
diretto solo da tecnici selezionati per svolgere mansioni organizzative.
Le aristocrazie del lavoro videro diminuire la loro forza contrattuale poiché le tecniche di
produzione spinsero gli imprenditori ad assumere operai despecializzato.
I ritmi di lavoro subirono una forte accelerazione e la spersonalizzazione divenne caratteristica
specifica del sistema di fabbrica: gli uomini costituivano elementi intercambiabili.
L'organizzazione taylorista si basava su una serie di principi:
 Netta separazione fra operaio e direzione d'impresa
 Esproprio delle tradizionali work rules (regole di lavoro) e la raccolta e la codifica in
formule e principi matematici di tutte le conoscenze tacite
 Sostituzione della routine con un rigoroso calcolo dei tempi richiesti per ogni singolo
aspetto della produzione
 Selezione scientifica dei lavoratori in base alle competenze e potenzialità̀

Tale dottrina suscitò numerose critiche, accusandola di essere promotrice di una liquidazione delle
professionalità̀ tradizionali, oltre che causare alienazione nei lavoratori; inoltre il sindacato fu
sminuito.
Guardando il rovescio della medaglia, la produzione di massa tagliò i tempi e i costi di produzione,
e quindi diminuzione del prezzo di vendita: nel 1925 la Ford era in grado di immettere nel mercato
un modello T ogni 15 secondi mentre i costi di produzione si riducevano di tre volte. Ma come
detto più volte la produzione di massa implicava anche un mercato di massa. Ford vedeva nei suoi
operai potenziali consumatori, e li poneva nella condizione per diventare suoi clienti aumentando i
salari (con 60 gg di lavoro un operaio poteva permettersi l'automobile, inoltre furono destinatari di
un welfare aziendale).
Questa visione entrò tuttavia in crisi durante la grande depressione, quando disoccupazione e
stenti rilanciarono il movimento sindacale. Gli scioperi potevano causare enormi perdite, poiché
bloccando anche un singolo reparto si bloccava l'intero sistema. Inoltre il governo degli Stati Uniti
portò avanti una politica favorevole al mondo del lavoro, dapprima con il National Recovery
Industrial Act (1933), che riconosceva il diritto alla contrattazione collettiva, e nel 1935 con il
National Labor Relations Act, che eliminava restrizioni al sindacato.
La Ford intraprese una battaglia che la portò sull'orlo del fallimento prima di cadere nel 1941.

In Italia l'affermazione di tale modello richiedeva la formazione di una manodopera stabile


attraverso l'integrazione della componente derivata dal lavoro artigianale e di quella contadina,
che richiedeva un lungo e specifico addestramento. Anche nell’industria automobilistica la
razionalizzazione dei processi organizzativi restò a lungo subordinata al ruolo del caposquadra.
Tra fine Ottocento e inizio Novecento vi furono molti viaggi di imprenditori negli Stati Uniti alla
ricerca di un'alternativa al modello europeo.
Il processo che portò l'Italia ad ispirarsi al modello USA fu lungo e complesso, e dovette
confrontarsi con la resistenza da parte della componente professionale della manodopera. Esso
prese avvio con l'apertura dello stabilimento del Lingotto alla Fiat, tra il 1916 e il 1922, e fu una
realizzazione straordinaria sia dal punto di vista organizzativo sia da quello architettonico (basato
sul modello della Ford di Highland Park). Il sistema organizzativo prevedeva uno sviluppo verticale
della produzione, con la lavorazione che iniziava al piano terra e terminava all'ultimo piano, dove

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l'auto veniva collaudata nella pista sul tetto.
Tuttavia la ristrettezza del mercato italiano sminuì̀ di molto il significato dell'iniziativa.
Fra le due guerre in Italia la rivoluzione tayloriana rimase confinata in alcuni ambiti specifici: al
controllo del lavoro operaio, all'analisi dei tempi, al metodo dei calcoli dei costi di produzione, e
alla razionalizzazione del lavoro d'ufficio. Un salto di qualità̀ si ebbe nel secondo dopoguerra con
l'inaugurazione dell'impianto di Mirafiori, che capovolgeva le logiche organizzative del Lingotto,
proponendo lo sviluppo in orizzontale delle attività.

2.1.1 Produzione snella e TOYOTISMO


La crisi attraversata dalle economie occidentali negli anni Settanta ha avuto una profonda
influenza anche sull'organizzazione del lavoro di stampo taylorista, originata dal declino della
produzione di massa a favore di una produzione più differenziata.
Un'alternativa al modello fordista fu rappresentata dal modello giapponese di fabbrica snella
(lean production) , che trae ispirazione da una radicata traduzione produttiva di stampo
artigianale, attenta alla qualità e al gusto del produttore.
Fu ancora una volta l'industria automobilistica a rappresentare il terreno ideale di
sperimentazione, in particolare le innovazioni introdotte alla Toyota dall'ingegnere Taiici Ohno
negli anni Settanta. La grande novità del toyotismo risiedeva in un ripensamento complessivo
dell'organizzazione dell'attività produttiva, in un rovesciamento del tradizionale approccio alla
fabbricazione del prodotto: si programmava il flusso produttivo non più da monte a valle, ossia
dalle prime fasi della produzione fino al montaggio finale, ma all'inverso, muovendo dalle
richieste del mercato e da queste risalire alla produzione. Ciò permetteva di eliminare gli sprechi,
in particolare eliminare il magazzino.
In sintesi si basa su principi che possono essere sintetizzati in 3 categorie:
1. il just in time → ciascun componente deve arrivare alla linea nel preciso momento in cui
c'è bisogno e nella quantità̀ necessaria
2. autoattivazione → la capacità dell'operaio di intervenire rapidamente in situazioni di
anomalia di linea e eliminarle, consentendo di mantenere standard qualitativi elevati
3. il lavoro per squadre → valorizza la responsabilità̀, il controllo di qualità̀ e l'autogestione
dei gruppi di lavoro
La Toyota passò così nel giro di 2/3 decenni da impresa insignificante a potenza mondiale, con un
livello produttivo superiore 4 volte a quello americano. Ciò̀ ha spinto imprese europee e
americane ad adottare tale metodo, come nel caso dello stabilimento Fiat di Melfi.
A partire dagli anni Novanta i principi del toyotismo sono stati portati all''estrremo nel sistema che
oggi è noto come World Class Manufacturing (WCM), il cui obiettivo è il cost deployment, cioè
usando un metodo di analisi dei costi produttivi di una determinata attività teso all'evidenziazione
delle fonti di perdita economica. Ciò̀ significa che le arie problematiche vengono affrontate sulla
base della loro incidenza economica avendo come obiettivo la minimizzazione dei costi.

3. L’impresa, il progresso tecnico e l’attività innovativa


L’approccio schumpeteriano
É un filosofo che sostiene che il ruolo dell’imprenditore é di innovare!
L’innovazione è il motore dell’impresa e include l’innovazione:
 Di prodotto
 Di processo: stesso prodotto ma con un procedimento più efficiente
 Organizzativa: ha a che fare con i ruoli delle persone. Gli organigrammi indicano le funzioni
dell’azienda, chi ricopre determinati ruoli.
 Di marketing: come si vende al meglio i prodotti
20
 Relativa al controllo dei costi: cercare di ridurre i costi

Sono 3 gli elementi che producono una sinergia che produce l’innovazione:
1. Processo di apprendimento specifico: le innovazioni sono riconducibili a un individuo che
possedeva conoscenze, competenze su quel campo specifico
2. Crescita della domanda: elemento di carattere economico. Maggiore richiesta del prodotto
con determinate caratteristiche
3. Creazione di nuova conoscenza scientifica e tecnologica: le discipline devono produrre
ricerche autonomamente non per forza sulle esigenze del mercato, ma mettono in atto un
avanzamento scientifico rispetto a ciò che già si conosceva

Sull’innovazione ci sono due punti di osservazione e giudizio completamente in opposti tra di loro
 La scuola classica
 La New Growth theory

Il progresso tecnico e la scuola classica


 L’innovazione non è programmabile: scaturisce da un’idea geniale in un momento
imprevedibile
 L’innovazione non è misurabile :le varie innovazioni non sono comparabili, non possono
essere misurabili far loro. Le innovazioni sono tutte diverse.
 L’innovazione necessita di un approccio qualitativo: come citato sopra non possono essere
quantificate, ma possono essere analizzare dal punto di vista qualitativo, innovazione per
innovazione

Il progresso tecnico e la New growth theory, sostiene un’idea totalmente differente alla scuola
classica
 L’innovazione è programmabile: assumendo personale qualificato, con ottimi strumenti,
possono dare una data di arrivo per raggiungere gli obbiettivi (vaccini COVID)
 L’innovazione è misurabile: da una stima di analisi di mercato si determina il numero di
persone che sono interessate, il prezzo di produzione, il prezzo di vendita, il margine, i costi
di ricerca sostenuti e quindi siamo a conoscenza della quantificazione
 L’innovazione necessita di un approccio quantitativo
 L’innovazione non é riconducibile, schematizzabile in punti fissi validi per tutti i prodotti. A
seconda del punto di osservazione dove ci si colloca possono prevalere punti di vista della
scuola classica o della scuola New Growth, a seconda delle situazioni.

La storia economica ha considerato l’innovazione a partire da altri fattori:


 Fattori esogeni/endogeni
 Continuità/discontinuità  migliorie al prodotto / innovazione paradigmatica
 Percorsi nazionali
 “Ritmo” dell’innovazione  i cambiamenti ad oggi sono molto più rapidi rispetto a quello
che accadeva nel medioevo
 Path dependence  é la dipendenza dal sentiero di sviluppo. Le scelte di oggi
condizioneranno e generazioni future
 Innovazione alta e bassa  innovazione importante o meno importante

I luoghi comuni sull’innovazione (puramente falsi):

21
 E’ solo tecnologica  esistono altre forme di innovazione (organizzativa, sociale)
 E’ legata al genio (e quindi alla “follia”) ; gli inventori non sono individui fuori dal comune
 E’ talvolta associata a comportamenti etici  ad esempio le case farmaceutiche che non
 producono un farmaco che potrebbe svoltare la medicina perché non c’è convenienza
economica.
 Procede a salti anziché step by step  la maggior parte delle volte si lavora alle migliorie
sul prodotto o processo di produzione già esistente. É incrementale

Caratteristiche dell’innovazione:
 Ricerca attorno a ciò che non si conosce  l’innovazione é scaturita da tale attività
 Screening  prevede una valutazione che conduce a trovare effettivamente il risultato
sperato
 Trials
 Errors
 Metodo sperimentale  prevede che l’innovatore abbia già intuito quale sia l’innovazione.
È l’esperimento che si basa sull’intuito dell’innovatore
 “Dall’alchimia alla chimica”  l’alchimista mischia gli elementi che ha a disposizione per
ottenere la formula. Il chimico mischia gli elementi non a caso, ma intuendo già il risultato.
Altre caratteristiche dell’innovazione che nella realtà sono in contrasto tra di loro
 Processo cumulativo  ogni generazione che nasce ha a disposizione conoscenze che sono
state elaborate dalle generazioni precedenti che sfruttano per raggiungere i propri
obbiettivi
 Processo irreversibile  mano a mano che vengono messe a disposizioni nuove tecnologie
vengono utilizzate quelle e messe da parte le tecnologie precedenti
É giusto sapere la storia, ma é anche giusto utilizzare le ultime conoscenze. Dipende dal settore

3.2 Impresa, innovazione R&S (o R&D) ricerca e sviluppo


É una divisione aziendale che si occupa esclusivamente di innovazione, di ricerca e sviluppo.
Avevano l’obbiettivo esclusivo di innovare il prodotto, processi produttivi, ecc...

Innovazione sociale
È un’innovazione altrettanto importante ma meno “percepita”

L’effetto Beck
Harry Charles Beck é un disegnatore britannico. Passato per la storia per aver disegnato una
cartina nel 1931. È una cartina altamente innovativa. Precedentemente le cartine venivano
tracciate come erano nella realtà, Beck prevede delle linee ortogonali con una chiarezza di fondo
di come i tracciati fossero organizzati, che non seguivano i tracciati reali ma andavano in contro ai
bisogni della persona. Facilita la comprensione
La distanza fra le singole fermate, nella cartina di Beck, é più o meno la stessa

4. Marketing e relazioni pubbliche


Il marketing è il segmento aziendale che si occupa delle vendite, ovvero l'insieme delle attività̀ che
connettono consumatore e produttore.
La storia dell’impresa oltre che essere vista dal punto di vista della produzione, può essere
considerato anche dal punto di vista del consumo.

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Le varie attività che caratterizzano l’interconnessione fra produttore e consumatore possono
essere raggruppate sotto il termine marketing.

4.1 Marketing e impresa fra teoria e storia


A livello teorico la storia del marketing si può suddividere in quattro ere, che coprono tutto l’arco
del XX secolo:
I. Era della fondazione (1900-1920) → caratterizzata dall'affermarsi del marketing come
specifico corso in diverse università̀
II. Era del consolidamento formale della disciplina (1920-1950) → create le prime
associazioni professionali e nacquero diverse riviste specializzate, mentre a livello teorico
l'enfasi primaria venne posta sullo sviluppo e l'integrazione di principi base del marketing
generalmente accettati
III. Era del cambiamento di paradigma (1950-1980) → indotto dal boom dei consumi di
massa, ed è stata caratterizzata da due tendenze principali:
 da una parte, un accentuato ricorso alle scienze quantitative e comportamentali
come strumenti di conoscenza dell'atteggiamento consumatori;
 dall'altra lo sviluppo del marketing managment, ovvero l'analisi del mercato
secondo la prospettiva di manager specializzati nel cogliere l'orientamento e i gusti
dei clienti. È in tale contesto che viene formulato il concetto di marketing mix delle
4 P- product, price, place, promotion
IV. Era della frammentazione del mainstream (1980-oggi) → continui riposizionamenti della
disciplina di fronte al moltiplicarsi di nuove sfide quali globalizzazione, flessibilità con
conseguente frammentazione e specializzazione della disciplina

Queste linee evolutive si riferiscono all'esperienza americana, l'unica per la quale si dispone di una
reale riflessione storica, a differenza di un'assenza di ricostruzioni di questo tipo riguardanti
l'esperienza europea.
Lo sviluppo del marketing thought americano può rappresentare una via proficua per ricostruire la
storia del marketing americano. La più efficace è sicuramente quella proposta da Tedlow, che ne
ha modellato la vicenda in 3 fasi, successivamente arricchite di una 4:
1. Frammentazione del marketing precedente al 1880 → a causa della scarsa integrazione del
mercato interno americano
2. Unificazione (ultimi decenni 1800-1950) → fase in cui si forma e si consolida un mercato
integrato nazionale che assume man mano le caratteristiche di un mercato di massa a
seguito della rivoluzione dei trasporti innescata prima dalla costruzione delle grandi linee
ferroviarie e poi dalla motorizzazione su larga scala.
In questo periodo emerge il nuovo protagonista del mass marketing, ossia la marca, che
permetteva al produttore di lanciarsi in campagne pubblicitarie su scala nazionale. Era il
classico caso dei first movers che oltre alle innovazioni nella produzione rivoluzionarono le
tecniche di distribuzione e commercializzazione: Duke nelle sigarette, Heinz nelle conserve
alimentari
3. Segmentazione (1950-2000) → il passaggio a questa fase fu l'esito di trasformazioni
economiche, con una crescita esponenziale di offerta dei prodotti, e di cambiamenti
socioculturali. Il messaggio pubblicitario arrivava ora direttamente nelle case dei
consumatori. Il marketing andò̀ così segmentandosi per venire incontro alle esigenze di un
pubblico sempre più̀ differenziato. Tale fase fu dunque caratterizzata da una crescente
attenzione per il consumatore nelle sue diverse declinazioni, il che implicò lo sviluppo di
sempre più̀ sofisticate ricerche di mercato.
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4. Ipersegmentazione e micromarketing (oggi) → dovuta allo sviluppo delle nuove tecnologie
e dell'informazione. Essa sembra avvicinarsi al sogno di ogni uomo di marketing: vendere al
potenziale consumatore esattamente ciò che egli vuole rendendolo da soggetto passivo e
inconsapevole a protagonista attivo delle proprie scelte.
Questa segmentazione ha portato al problema dell’iper scelta: sei davanti a così tanti
prodotti che non hai la possibilità di valutare in modo razionale ciò che più è adatto alle tue
esigenze. Non valuti in modo razionale ma emozionale.

Anche se non esente da difetti, il modello Tedlow ha avuto il merito di fornire una griglia
interpretativa per la storia del marketing. Al di fuori del mondo anglosassone l’evoluzione
del marketing è stato un campo ampiamente trascurato dalle indagini della storia
d’impresa

4.2 L’evoluzione della distribuzione


Il passaggio a una società di consumi di massa si accompagnò a profonde trasformazioni nella
struttura e nell'organizzazione del commercio. Nei primi 50 anni dell' Ottocento vi erano due
figure cardine negli USA:
 la prima era l'agente commissario che faceva da tramite tra l’economia delle piantagioni e
il mercato;
 la seconda era il grossista indipendente, il quale acquistava direttamente all'asta o
direttamente dagli importatori e fabbricanti nazionali e rivendeva agli stores.
Nella seconda metà del secolo intervengono nuove figure a far concorrenza al grossista:
- grandi magazzini: offrivano ai clienti la possibilità̀ di concentrare in breve tempo, in un solo
luogo, una gamma completa di acquisti
- vendita per corrispondenza: spedivano a domicilio i prodotti ordinati su catalogo grazie
alle nuove infrastrutture nel campo dei trasporti. I prodotti venivano pagati in contrassegno
ovvero alla loro ricezione
- catene di negozi: punti vendita sparsi in diverse città, ma con un’insegna unica;
compravano una partita di prodotto da una ditta e se la ripartivano tra loro così non cera
bisogno del grossista che ti vendeva una parte di quanto comprava lui dalla grande
fabbrica. Sistema basato più sulla quantità̀ che sulla qualità̀
- integrazione in un'unica impresa dei processi di produzione di massa con quelli di
distribuzione di massa. Furono 3 le categorie industriali che intrapresero tale strada:
1. Produttori di beni di consumo che si confrontavano con particolari problemi di
commercializzazione, quali conservazione o refrigerazione
2. Fabbricanti di beni di consumo durevole che abbisognavano di interventi per
l'installazione, di assistenza specifica, di dimostrazioni per l'impiego e la manutenzione
3. Coloro che si erano dotati di impianti per la produzione a ciclo continuo per
incrementare il ritmo e il flusso dei loro prodotti

Un'ulteriore evoluzione nelle strutture commerciali fu la nascita del self-service, in particolare lo


sviluppo dei supermarket alimentari. Il primo nacque a Memphis nel 1916, ma la reale
affermazione si ebbe negli anni Trenta, quando pur rappresentando una piccola quota il 3,5%
muovevano un giro d'affari pari al 35% del totale.
Fu un impatto di notevole importanza, rivoluzionando il modo di concepire di fare la spesa, che
diveniva un momento piacevole e socializzante; dall'altro lato però rappresentavano la spinta
verso il consumismo di massa, in quanto i consumatori erano sempre più spinti grazie alla
spettacolarizzazione del prodotto.
24
In Europa la comparsa dei grandi magazzini fu quasi simultanea a quella statunitense, con il primo
inaugurato nel 1852 in Francia il Bon Marchè, mentre negli altri Stati la diffusione fu più lenta.
In Italia il primo, Aux Ville d'Italie, venne inaugurato a Milano nel 1877, poi ribattezzato con il
nome Alle città d'Italia, su iniziativa dei fratelli Bocconi. Alla morte dei fratelli fu acquisito da un
gruppo di imprenditori milanesi, guidati da Borletti, che ribattezzò il nome in La Rinascente
(suggerito da D’annunzio) che divenne presto l'emblema del grande magazzino italiano.
Successiva alla crisi del 1929 fu la creazione di una catena di negozi a prezzo unico, l'UPIM (Unico
Prezzo Italia Milano), destinata ad una clientela popolare, che ebbe subito notevole successo,
tant'è che se ne formarono altre, una su tutte La Standa.

Più consistente fu il gap temporale fra l'America e l'Europa riguardo alla diffusione dei
supermercati. La loro comparsa dovette attendere il secondo dopoguerra, con tassi di sviluppo
diversi a seconda delle leggi in vigore, e fu anche rallentata dalla resistenza dei piccoli
commercianti.
In Italia il primo aprì nel 1957 a Milano su iniziativa da una società̀ controllata da Rockfeller, e fu
l'Esselunga (all'epoca Supermarkets Italiani).

Oggi si è arrivati al consumismo, descritto come l'identificazione della felicità personale con
l'acquisto, il possesso, o il consumo di beni materiali, favorito dall'eccesiva pubblicità̀. Vi sono sia
pro, come lo sviluppo economico e la libertà di scelta, ma anche contro, come l'iperscelta, la
schiavitù̀ del consumatore e la necessità di risorse.
Come risposta al consumismo si è creato il Consumerismo, ovvero l'unione dei consumatori per
fronteggiare il potere dei produttori e rivendicare i propri diritti, su tutti la sostenibilità̀ e la lotta al
consumo critico.

Approfondimento supermercati
Il supermercato deve il suo successo alle sue grandi superfici di vendita che consentono la vendita
di alti volumi, con la prevalenza di self-service, il tutto in modo conveniente, inoltre offre comodità
(ampi parcheggi) e risparmio in termini di tempo. Inoltre pesso rientrano nei Piani di edilizia
economica e popolare, ossia sono costruiti nei pressi di aree residenziali.
Nel tempo si sono diffusi altri modelli, quali:
- ipermercato → simile al supermercato, con l'aggiunta dei prodotti non food. Oggi entrano
in crisi a causa dei cosidetti category killer, ossia specifici supermercati per vari segmenti
del mercato (decathlon, obi..)
- discount → supermercati con prezzi più bassi ma bassa qualità e meno possibilità di
scelta (inizialmente erano di 2 tipi, hard, con prodotti ancora negli imballaggi e prezzi
ancora più stracciati, e soft, che corrisponde alla tipologia oggi esistente più vicina al
supermercato)
- superstore → via di mezzo tra supermercato e ipermercato
- minimarket → marchi dei supermercati in strutture più piccole, per rispondere alle
diverse esigenze di un'utenza con poco tempo a disposizione
Debolezze della grande distribuzione organizzata:
 la gestione accessoria è in perdita nella maggior parte dei casi → compensata da quella
finanziaria (dispone di liquidità per fare investimenti) e da quella immobiliare (affitti da
altre attività nello stesso complesso)
 prezzi differenti in diversi punti vendita, stabiliti in base alla concorrenza

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 rapporti coi fornitori in contrasto, in qunato si cerca di lucrare sul posizionamento dei
prodotti e si cerca di ottenere pagamenti posticipati
 orari di apertura
 spese per vigilanza
 sviluppo dell' e-commerce
Punti di forza:
o convenienza sul rapporto qualità/prezzo
o rispetto del contratto collettivo nazionale del lavoro, non vi è nero
o assenza di evasione fiscale
o capacità di adattamento ai cambiamenti

4.3 Le origini delle relazioni pubbliche


Le relazioni pubbliche sono strategie di società di grandi dimensioni (e medie) che mettono in
campo per generare nell’opinione pubblica una percezione positiva del proprio operato.
NON HANNO A CHE FARE CON LA PROMOZIONE DEL PRODOTTO.
Ci si interessa a  tutelare e promuovere l’azienda (sostenibili, protezione clienti, protezione
lavoratori)
Perché con il crescere delle dimensioni industriali, a iniziare dagli stati uniti d’America , cè una
crescente stampa scandalistica che comincia ad identificare alcuni comportamenti di grandi
imprese come POTENZIALMENTE NEGATIVE, quindi sui giornali descritte male. PROBLEMI
REPUTAZIONALI DELLE SOCIETA’.
Per ricostruire la propria immagine e presentarsi come un protagonista del processo di crescita e
della corsa verso il benessere collettivo, il big business comprese per tempo l'importanza della
comunicazione col pubblico.
Fra le prime a muoversi ci fu la Pennsylvania Railroad, che decise di dar vita ad una martellante
strategia di comunicazione, mediante il continuo invio di stampa di note, informazioni, dati su
questioni di grande richiamo, le migliorie per aumentare la sicurezza, la qualità dei servizi, le
iniziative a favore dei dipendenti.
Al giorno d'oggi si sono evolute talmente tanto le relazioni pubbliche e all'interno dell'impresa
costituiscono specifici segmenti aziendali.

5. La contabilità: dalla partita doppia all’analisi di bilancio


Il bilancio di un'impresa ne rappresenta il principale strumento di conoscenza interna ed esterna.
L'utilizzo più immediato per le scritture contabili dovrebbe essere quindi quello di strumento
d'indagine della performance dell'impresa.
Margaret Levenstein ha dimostrato come un approccio multidisciplinare, in cui pratiche contabili
e storia dell'accounting si incrociano con la teoria dell'impresa, l'economia dell'informazione e
dell'innovazione, possa illuminare aspetti della modernizzazione produttiva e della
trasformazione corporate dell'impresa americana a cavallo del '900 prima trascurati dalla
storiografia.
La documentazione contabile dovrebbe dunque occupare a buon diritto uno spazio privilegiato
nell'indagine dello storico d'impresa, ma nella realtà̀ ciò non sempre si è verificato.
Tale strumento è stato spesso usato come fonte d'informazioni riguardanti eventi
sostanzialmente non economici e di cui si trova traccia soltanto in documenti contabili, ad
esempio nelle tavolette minoiche lineari B di Creta e Micene; oppure di eventi di carattere
economico ma di rilevanza macroeconomica piuttosto che microeconomica, come i bilanci delle
piantagioni.

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Ancora le tecniche contabili possono essere usate per ricostruire l'evoluzione delle tecniche
ragionieristiche e delle convenzioni ad essa collegate.
Un uso recente ha dato vita ad un nuovo fine di studi: è una linea di ricerca nella quale l'enfasi
storica ha come oggetto di indagine non tanto l'impresa privata, ma il comportamento di
organizzazioni produttive di grandi dimensioni gestite da amministrazioni pubbliche, arsenali
militari, monopoli dei tabacchi. Da queste indagini risultato la modernità delle scritture per
spiegare le origini del moderno management e del coordinamento burocratico dell’attività
produttiva.

5.1 Le origini della moderna contabilità


Le origini della moderna contabilità̀ vanno rintracciate nell'Italia prerinascimentale, in particolare il
libro a partita doppia avrebbe scandito l'origine del capitalismo. Tale procedura, che si basava sul
principio secondo cui ciascun episodio aziendale dovesse tradursi necessariamente in 2 partite di
conto, antitetiche per segno contabile ed eguali per misura monetaria, avrebbe raggiunto un
accettabile grado di elaborazione pratica e teorica nella Firenze del tardo Quattrocento.

Fino alla seconda rivoluzione industriale la buona contabilità̀ fu soprattutto un'arte e non una
scienza. Con l'avvio del processo di industrializzazione, l'arte dei conti in Inghilterra non fu in
grado di tenere il passo con la fabbrica capitalistica: da un lato vi era il problema dei sempre più
ingenti quantitativi di capitale fisso, di cui soltanto una tecnica dell'ammortamento via via più
raffinata poteva rendere conto in maniera adeguata, dall'altro vi era la necessità di conoscere nel
modo più̀ preciso la gestione reddituale dell'impresa, così da tenere sotto controllo i costi e da
correggere le aree operative di scarso rendimento. Tali problemi erano comuni a tutti i paesi
occidentali che si andavano man mano industrializzando.
Un importante contributo all'evoluzione della contabilità̀ venne dal mondo degli accountants
(contabili).. Fin dal 1860 un crescente numero di professionisti del ramo venne impiegato in
qualità̀ di analisti del bilancio, contribuendo in maniera decisiva alla formazione dei principi di
base ai quali, da allora in poi, le società̀ inglesi si sarebbero attenute nella stesura dei propri
bilanci.
A partire dal 1880 erano disponibili i primi manuali di contabilità̀, una disciplina che si era
guadagnata un proprio spazio, diverso da quello tradizionalmente occupato dalla ragioneria. Già
da allora si potevano considerare definitivamente formati i criteri per la valutazione dell'attivo
dello stato patrimoniale e per la determinazione dei profitti reali.
Rimaneva ancora il problema dei costi, più̀ precisamente l'esatta determinazione dei costi fissi e di
quelli variabili e l'individuazione di criteri attendibili per l'allocazione dei costi generali ai vari
centri di spesa in quanto si era sempre proceduto facendo rozze stime.
La soluzione venne dal mondo dei tecnici e degli ingegneri, che sotto l'incalzare della grande
depressione che negli anni '70 spinse verso il basso i profitti delle fabbriche brittaniche, si pose il
problema della riduzione dei costi industriali, che poteva essere raggiunta solamente mediante
informazioni sui costi dettagliate. Un primo successo nacque dalla collaborazione tra un
ingegnere, Garke, ed un contabile, Fells, con la pubblicazione nel 1887 del manuale Factory
Accounts, con la novità̀ che per la prima volta i costi fissi venivano distinti con chiarezza da quelli
variabili.
Da un altro ingegnere, Matheson, negli stessi anni proveniva un'altra dimostrazione che la
contabilità̀ industriale si stava evolvendo: egli fu il primo a distinguere fra svalutazione degli
impianti e loro obsolescenza ed a introdurre quindi i concetti di ammortamento tecnico ed
ammortamento economico.

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La contabilità̀ britannica avrebbe a poco a poco perso la sua supremazia, esattamente come la
sua industria avrebbe a poco a poco perso competitività̀ nei confronti di Stati Uniti e Germania.
In Germania verso fine secolo si assistette ad un grande risveglio in materia di elaborazione di
bilanci aziendali, grazie al moltiplicarsi delle scuole tecnico-commerciali superiori e all'attività̀ di
ricerca (studioso Schmalenbach). Col nuovo secolo, l'elaborazione della contabilità̀ e della
ragioneria si consolidava in un indirizzo, che sottometteva l'analisi contabile allo studio
dell'azienda come unità unica ed indissolubile, della quale essa ne rappresentava solamente un
aspetto. Ciò causò una brusca frenata nello sviluppo di tali studi.

La crescita delle dottrine americane fu rapidissima. Intorno al 1880 la contabilità̀ americana era ad
un livello rudimentale, in quanto era sconosciuto l'uso di presentare alle banche bilanci per
ottenere aperture di credito; in questo periodo comparvero i primi contabili di professione, ma
non erano legalmente riconosciuti.
Le cose mutarono nel nuovo secolo, con l'applicazione dello scientific managment anche in campo
contabile, grazie allo sforzo di tecnici e ingegneri (tra quest'ultimi spicca Hess, al quale viene
attribuito di aver messo a punto il concetto di break even point). A partire dagli anni '10, il mondo
dell'accounting americano tentò di individuare gli standard ratios (rapporti standard), ossia
indicatori che costituissero un valido punto di riferimento per una corretta gestione contabile
dell'azienda; essi trovarono progressiva applicazione a partire dagli anni '20, ma fu dal secondo
dopoguerra che si diffusero in tutto il mondo occidentale.
5.2 Indici e flussi, gli Stati Uniti e <<l’analisi scientifica>> del bilancio
Con la ratyo analysis (le cui fondamenta teoriche furono ideate da Justin), il bilancio cessa di
essere un mero rapporto di ciò che l'impresa fa, ma diviene uno strumento d'analisi dell'impresa
stessa.

Alle nuove e complesse forme organizzative che andava assumendo l'industria degli Stati Uniti
erano inoltre necessari nuovi strumenti di comunicazione all'interno dell'impresa, in modo da
rendere più̀ rapido ed efficiente il flusso di informazioni e che il controllo operativo divenisse
sistematico e continuo. L'analisi dei quozienti economici e finanziari, l'esame dei flussi, il
budjeting divennero allora elementi irrinunciabili della gestione finanziario-amministrativa.
Inoltre a seguito del processo di separazione fra proprietà̀ e controllo e del crescente ricorso al
mercato finanziario per il reperimento dei fondi necessari all'espansione dell'impresa, divenne
necessaria l'analisi di bilancio.
La ratio analysis fu dominata soprattutto dalle esigenze del mondo creditizio e si incentrò
essenzialmente su due quozienti statici di situazione finanziaria: current ratio e quick ratio, che
mettevano in relazione rispettivamente disponibilità̀ e passività correnti e disponibilità e
passività liquide.

Primo impiego documentato nel 1891 da parte della Pennsylvania Railroad.


Nel 1903 per la prima volta una società̀ quotata in borsa presenta una classificazione dettagliata e
omogenea del proprio stato patrimoniale.
Nel 1913 si andò̀ generalizzando l'uso da parte delle banche di modelli di bilancio da fornire a ditte
e società̀ clienti.

Lo sviluppo di quozienti di analisi reddituale fu invece un fenomeno che prese avvio all'interno
dell'impresa e che soltanto successivamente trovò un'adeguata sistemazione teorica.
Si riteneva che la formula Brown ( (R/K)= (V/K) x (R/V) ), che mette in relazione il ROI con il
turnover del capitale e i profitti di vendita, fosse stata impiegata per la prima volta alla Du Pont nel
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1919. Studi successivi hanno dimostrato che già nel 1904 Du Pont era in grado di presentare ogni
mese dati accurati su costi, sull'utile e sui tassi di rendimento del capitale; tuttavia l'assunzione di
Brown portò a ulteriore affinamento le tecniche di controllo operativo e di valutazione della
redditività̀ dell'azienda. La sua formula forniva all'alta dirigenza informazioni strategiche a getto
continuo, di primaria importanza per le previsioni a breve e medio termine dello sviluppo
dell'azienda; ricava infatti le informazioni necessarie alla valutazione delle performance delle
singole divisioni, e della capacità del managment di far rispettare i piani di espansione aziendale.
La struttura organizzativa della Du Pont e i sistemi contabili ad essa funzionali vennero applicati a
partire dal 1920 anche dalla General Motors.

5.3 Gli sviluppi della contabilità in Europa e in Italia


Al di fuori degli USA questo corpus di concetti e di tecniche di analisi e di valutazione si diffuse
molto lentamente; esse iniziarono a diffondersi grazie al processo di americanizzazione avvenuto
nel secondo dopoguerra.
In Italia soltanto negli anni Settanta sembrano aprirsi spiragli a queste novità̀. Il ritardo fu dovuto
sia dalla differente concezione del mondo industriale, ancora dominato da piccolo-medie
imprese, sia dalla concezione aziendale che nel periodo fra le due guerre si era andata
diffondendo, ossia quella di Zappa, il quale considerava l'azienda come un soggetto autonomo,
cardine portante del sistema economico, con l'impossibilità quindi di scomporla in più dottrine.
Da fine 'Ottocento a Milano si era registrata la partecipazione di tecnici e ingegneri alla
codificazione di norme comportamentali all'interno dell'azienda (tra tutti Pareto ma soprattutto
Colombo, il quale che scrisse un manuale per la corretta amministrazione, con istruzioni relative
alla determinazione dei costi industriali nei vari settori e informazioni sempre agiornate sulle
tecniche e sulle quote di ammortamento da applicare alle varie industrie).
La ratio analysis fu introdotta da Masi negli anni '30, ma è stato necessario attendere qualche
decennio poiché essa si affermasse come normale strumento d'indagine aziendale.

CAPITOLO 5
1. Lo sviluppo delle imprese pubbliche
Con il termine impresa pubblica ci si riferisce a quella molteplicità di attività̀ in qualche modo
collegate allo stato: esse riguardano tanto le imprese possedute e/o gestite a livello centrale
(imprese pubbliche vere e proprie, aziende autonome, imprese a partecipazione statale...) quanto
quelle che operano a livello decentrato (aziende municipali).

1.1 Motivi e ambiti delle nazionalizzazioni


Svariati sono i fattori che implicano la scelta di nazionalizzare attività̀ precedentemente in mano ai
privati o di creare ex novo imprese pubbliche.
In qualche caso, l’origine di un’impresa pubblica non è nemmeno il frutto di una scelta
programmata: ad esempio la nazionalizzazione della Volkswagen in Germania, nel dopoguerra, in
quanto lo stato fù costretto a intervenire per mancanza di possibili compratori (termine usato per
questo fenomeno <<nazionalizzazione by default>>)
I motivi della nazionalizzazione si possono raggruppare in 3 categorie:
1. Ragioni di carattere politico e ideologico → Alla base di esse vi è la convinzione che
l'allargamento della proprietà̀ e dell'attività̀ avrebbe dato occasione ad un cambiamento
fondamentale nella distribuzione del potere all'interno della società̀, di cui avrebbero
beneficiato i lavoratori a scapito del capitale privato; inoltre i manager a capo di tali
imprese avrebbero dato conto delle loro decisioni a tutta la società̀ e non solo agli azionisti
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privati.
Questa convinzione accomunava molti partiti progressisti (socialisti, socialdemocratici,
laburisti), infatti tutte le spinte verso le nazionalizzazioni sono emerse d Franca, Austria,
Paesi bassi quando questi partiti erano al potere.
Nel caso delle nazionalizzazioni portate avanti dai laburisti in Gran Bretagna, oltre a queste
motivazioni, erano presenti spinte verso una maggior efficienza economica.
Una forte impronta ideologica caratterizzò poi le politiche di standardizzazione dei regimi
dirigisti in Italia, Spagna, Germania e Giappone nel periodo infrabellico, in quanto l'impresa
pubblica era considerata un mezzo per raggiungere l'autarchia e per spingere l'economia e
la società̀ ad un livello superiore
Politica contro lo stato interventista LIBERISMO. Politica a favore dello stato interventista
COMUNISIMO e MARXISMO.
2. Ragioni di carattere sociale → riguardano la volontà̀ di garantire l'occupazione, di offrire
migliori condizioni di lavoro alla manodopera e di promuovere nuove relazioni industriali.
In altri casi possono porsi l'obiettivo di stimolare lo sviluppo di una classe imprenditoriale
nazionale ancora assente o debole. Inoltre anche di sconfiggere la debolezza e il
provincialismo di alcune grandi imprese private.
3. Varie ragioni di carattere economico:
 fallimenti del mercato → la proprietà pubblica è necessaria in situazioni in cui vi è
assenza o insufficienza di informazioni. Il caso più comune è quello dei monopoli
naturali, che si hanno nei settori dei servizi di pubblica utilità (luce, gas, acqua, etc):
qui è inevitabile che una gestione monopolistica, ispirata a criteri privatistici, generi
diseconomie per il consumatore. Al contrario la nazionalizzazione di industrie e
servizi di imprese che appartengono alla categoria dei monopoli naturali dovrebbe
essere in grado di garantire prezzi equi.
Laddove tali servizi sono lasciati in mano a privati, come negli Stati Uniti, è
necessaria una rigorosa regolamentazione rispetto a prezzi, tariffe, qualità delle
prestazioni.
 obiettivi di promozione della crescita economica e dello sviluppo sociale nelle
aree e/o nei settori arretrati → l'intervento statale è giustificato dal fatto che
questo prende decisioni su considerazioni di lungo periodo, non mirando al
profitto. I settori in cui interviene lo Stato sono lo sfruttamento delle risorse
naturali, la nazionalizzazione di imprese per lo sfruttamento di risorse energetiche,
alla creazione di infrastrutture, alla presenza dello stato nei settori dell'industria di
base
 salvataggi → in tali occasioni lo Stato tenta di salvare imprese affette da crisi
gravissime, per salvaguardare l'occupazione (Rolls-Royce, Jaguar e Rover in UK, vari
in Spagna)
 redistribuzione del reddito e di stabilizzazione economica → i primi conseguono
anche delle politiche di prezzi e tariffe di beni e servizi richiesti soprattutto dalle
classi a basso reddito. Quanto ai possibili effetti di stabilizzazione, si è sostenuto
che l’esistenza di un vasto settore pubblico rappresenta una piattaforma
favorevole per l’attuazione di politiche di investimenti di carattere anticiclico.
Il raggio d'azione delle imprese pubbliche risulta praticamente illimitato, ci sono però 4 ambiti di
riferimento principali:
1. Servizi pubblici
2. Settori dell'industria di base
3. Le banche e le assicurazioni
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4. L’istruzione e la salute

1.2 Le origini storiche del fenomeno


Si può suddividere in 3 fasi l'evoluzione storica del fenomeno fino ai giorni nostri:
 Fase 1 (età moderna-fine '800) → si denota la progressiva maturazione di un nuovo
atteggiamento nei confronti dell'economia e della società̀ da parte dello stato
 Fase 2 (primi 40 anni XX secolo) → a seguito delle vicende della prima G.M e dei disastrosi
effetti della grande depressione, entrano in crisi i tradizionali meccanismi di funzionamento
dell'economia di mercato e si ebbero i primi significativi interventi dello stato nella sua
funzione di imprenditore.
 Fase 3 (seconda G.M – oggi) → fase prima dell'apice e della crisi poi in tutti i paesi.
Fino all'epoca della rivoluzione industriale, le esperienze di nazionalizzazione ebbero per lo
più carattere occasionale e furono limitate a settori considerati strategici per la difesa, quali
il metallurgico e il minerario. Le eccezioni di rilievo sono date dalle “manifatture reali della
corona” di Enrico 4 e imitate in Spagna e Prussia.

E’ soprattutto nell’Ottocentesche vanno ricercate le premesse economiche, politiche e ideologiche


di quel diverso atteggiarsi dei rapporti fra stato e mercato e fra pubblico e privato. Tali premesse
maturarono ei paesi: Stati Uniti, Belgio, Francia e Germania, e cioè paesi che erano accumunati
dalla crescente fiducia che lo stato potesse e dovesse svolgere un ruolo di primo piano nel
processo di rincorsa alla nazione leader sul piano industriale.

1.2 Le imprese pubbliche fino alla seconda guerra mondiale


Pure a prescindere dalla fase bellica, iniziative nient’affatto trascurabili anche se isolate, avevano
accomunato i principali paesi dell’Europa occidentale:
 Creazione Port of London Autority
 BBC
 Statizzazione delle ferrovie (creazione Azienda autonoma delle ferrovie dello stato)
 Agenzia italiana petroli (AGIP)
 Compagnie Francaise des Petrols
 Numerose iniziative in campo bancario e finanziari
 Nazionalizzazione delle costruzioni navali
 Etc.
Se già con la guerra 1914-1918 il processo di intervento degli organi statali si era già avviato, le
crisi sociali e politiche del dopoguerra e soprattutto la crisi del 1929 portarono ad un vero e
proprio cambiamento dei tradizionali modi di funzionamento dell’economia di mercato.
Fù così che negli anni Trenta una prima intensa politica di nazionalizzazione venne intrapresa,
soprattutto nei paesi Europei che più avevano sentito della crisi economica, molto spesso per
salvare imprese o industrie in crisi.

In Italia ad esempio l’IRI (Istituto di ricostruzione industriale 1933), fu concepito come ente per
liberare le tre maggiori banche dai loro eccessivi immobilizzi.

In Germania, prima del nazismo, lo stato venne coinvolto nella ristrutturazione del sistema
bancario e divenne grande azionista delle principali Grossbanken: dato lo stretto legame tra
banca e industria, queste misure conferirono allo stato un potere su tutte le maggior imprese,
alcune delle quali furono acquistate e poste sotto il suo controllo diretto.

31
Verso la fine della guerra lo stato nazista controllava circa il 50% del capitale delle società per
azioni tedesche.

In Spagna, la creazione dell’INI (Instituto nazional de Industria 1941), che si ispirava all’IRI, fu
motivata dalla volontà di stimolare l’industria nazionale, con obbiettivo principale di ridurre la
dipendenza dell’estero (importazioni).

La Francia, si spense sul terreno delle nazionalizzazioni: la più importante fu quella delle ferrovie
con la creazione di una società mista con partecipazione maggioritaria dello stato.
Altri interventi riguardarono il settore delle armi e delle costruzioni aereonautiche, mentre venne
avviata la nazionalizzazione della Banca di Francia.

In Gran Bretagna le nazionalizzazioni realizzate nel decennio furono limitate, le più importanti
riguardano il sistema dei trasporti passeggeri, ma furono gli anni in cui presero forma i progetti di
intervento dello Stato elaborati dal Partito Laburista che avevano l’obbiettivo di contrastare la crisi
economica e il declino industriale.

Nei paesi come Svezia, Norvegia, Paesi Bassi, il processo di nazionalizzazione stentò a decollare:
tuttavia lo stato entrò con consistenti partecipazioni nel settore dei trasporti e in alcuni istituti di
credito.
Anche in Giappone, America Latina, Stati Uniti, si preferì ricorrere a forme di intervento indiretto
per stimolare la ripresa.

1.4. L’impresa pubblica nel secondo dopoguerra


Dopo il secondo conflitto mondiale si avviò il periodo in cui avvennero le maggiori
nazionalizzazioni.
L'assunzione della proprietà̀ e della gestione di attività̀ economiche da parte dello stato e gli sforzi
rivolti alla programmazione economica divennero i capisaldi delle politiche di ricostruzione e
sviluppo nei paesi a economia mista.

In Europa, piani economici e nazionalizzazioni assunsero un'ampiezza senza precedenti


nell'intento di porre rimedio alla penuria di materie prime, di riorganizzare il sistema produttivo e
di assicurare il funzionamento di alcuni servizi indispensabili.
A livello politico non fu trascurabile il fatto del peso assunto dalle forze di sinistra, divenisse più
rilevante che in passato.

In Gran Bretagna il settore pubblico si andò̀ allargando soprattutto sotto i governi laburisti,
durante i quali passarono in mano pubblica la Banca d’Inghilterra, l’industria del carbone, le
ferrovie, la navigazione interna, l’industria elettrica e del gas, del ferro e dell’acciaio, etc.

In Francia le fasi più importanti di espansione postbellica del settore pubblico si sono avute in due
fasi 1944-1948 e nel 1982.
 Nella prima fase 1944-1948: caratterizzata dalla partecipazione dei socialisti e dei
comunisti al governo, nazionalizzarono: la Banca di Francia, quattro principali banche di
deposito, trasporto aereo, gran parte del settore assicurativo e imprese come Renault.
 Nella seconda fase 1982, sotto il governo socialista Mauroy il 53% delle società francesi
venne a trovarsi in mano pubblica. Inoltre furono nazionalizzati l’industria siderurgica, la

32
quasi totalità del sistema bancario, l’industria delle telecomunicazioni e cinque gruppi
industriali di primo piano.
Tuttavia il governo di centrodestra insediatosi nel 1986 provvide nel giro di pochi anni a
riprivatizzare gran parte delle attività e smantellando l’apparato di imprese pubbliche
preesistenti.

Nei paesi scandinavi: in Belgio e nei Paesi Bassi le forze socialdemocratiche al governo attuarono
una politica di riforme e stimolarono los viluppo delle imprese pubbliche soprattutto nel settore:
delle comunicazioni, dei servizi e delle risorse naturali.

In Italia, la convergenza della sinistra cattolica e dei partiti della sinistra laica su posizioni si
sostegno alle nazionalizzazioni portò a un ulteriore ampliamento dello stato imprenditore.
Nel 1976 lo Stato imprenditore era giunto a fornire 1/5 del valore aggiunto del settore industriale
e il 12% del PNL. All'inizio degli anni '80 circa 1/3 delle società̀ italiane era in mano pubblica.
Le nazionalizzazioni più importanti furono quelle: dell’ENI, creazione del ministro delle
Partecipazioni statali e nella nazionalizzazione pressoché̀ totale dl settore dell'energia elettrica.

Questa tendenza, nel secondo dopoguerra non riguardò solo l'Europa, fra tutti spicca il Canada.
Ma riguardò inoltre anche il mondo non industrializzato, India su tutti, che mediante il Bombay
Plan, portò il paese a possedere la più ampia economia non di mercato al di fuori del mondo
comunista.

1.5 L’impresa di stato nelle economie pianificate


Non è possibile identificare l'impresa di stato in un solo modello.

Nella stessa Unione Sovietica è stata caratterizzata da continui mutamenti indotti dal succedersi
delle diverse fasi della vicenda politica ed economica. Si possono tuttavia evidenziare due elementi
di continuità̀: la grande dimensione e la natura della governance.
Il primo traeva origine da una tendenza alla concentrazione già̀ emersa nel periodo pre-
rivoluzionario. I grandi trust pubblici furono protagonisti anche della ripresa economica dopo il
periodo critico della guerra e della rivoluzione, durante la NEP (Nuova Politica Economica). C'è da
dire tuttavia che, con l'avvio della fase dei piani quinquennali, la concentrazione industriale e la
crescita dimensionale mediante economie di scala e di ampiezza divennero ancora più evidenti.
Il secondo tratto concerneva più direttamente la gestione delle grandi imprese: se durante la NEP
venivano tollerate piccole iniziative private nell'industria e nel commercio, fin dalla rivoluzione le
grandi imprese non furono dotate di capacità decisionali autonome, poiché́ la strategia veniva
imposta dal governo; era il cosiddetto Gosplan, cui facevano riscontro a livello locale unità
amministrative di produzione territoriale, i glavk.

Caso emblematico è quello della Cina, che continua a sopravvivere ancora oggi, è che ha portato il
paese a divenire la seconda potenza mondiale. Non c'è dubbio che all'origine del grande balzo vi
sia stata in concomitanza dell'ampio potenziale di mercato e dell'elevata arretratezza dei consumi,
ma è certo che senza le politiche economiche adottate dopo la morte di Mao tale risultato non
sarebbe mai stato raggiunto; la maggior parte di tali politiche ha riguardato l'organizzazione
produttiva e il sistema delle imprese, sino ad allora improntati ad una rigida e greve
pianificazione.
Nel 1992 si è teorizzato un sistema di economia sociale di mercato, che ha fatto emergere tutte le
potenzialità̀ del mercato. E’ stato un processo graduale, ben differente dalla terapia d'urto
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praticata dalle economie pianificate dell'est Europa: nella prima fase esso ha reintrodotto
elementi di capitalismo nell'economia pianificato. Allo smantellamento delle cooperative ha fatto
seguito un sistema semiprivato di gestione della terra e delle attività produttive collaterali nei
mercati periferici, organizzato in imprese collettive. In una seconda fase la Cina ha poi aperto le
frontiere agli investimenti delle multinazionali estere, preferibilmente nella forma di joint-
venture con imprese locali, concentrandoli in 4 zone con un regime fiscale favorevole, creando
così opportunità̀ di apprendimento tecnologico e organizzativo potenzialmente riversabili
sull'intera economia.
Con il nuovo millennio si è poi accentuata la politica di ristrutturazione e parziale smantellamento
dell'impresa di stato, con l'attenzione del governo che si è concentrata su una piccola quota di
esse operanti nei settori strategici, con l'obiettivo di creare dei campioni nazionali sotto la
supervisione di un'agenzia specializzata; in questo modo 3 imprese di stato cinesi figurano oggi fra
le 10 maggiori imprese mondiali.

2. Il processo di privatizzazione
2.1 La cornice analitica: cause e obbiettivi
La convinzione che denazionalizzare (=privatizzare) rappresenti uno strumento fondamentale di
modernizzazione dell'economia è il frutto di profonde modificazioni dell'opinione pubblica e
dell'atteggiamento della politica nei confronti dello stato imprenditore, che ha guadagnato
consenso a partire dai tardi anni Settanta.
E’ possibile individuare una serie di cause che sono all’origine del processo di privatizzazione:
1. Ragioni economiche → frequenti i casi di government failure (fallimenti di governo) che
hanno dato luogo a cattivi risultati sotto il profilo della gestione e della profittabilità̀
dell'impresa pubblica. Spesso hanno tratto origine da politiche governative troppo rivolte
ad assegnare all'iniziativa pubblica obiettivi di carattere sociale piuttosto che economico,
ma anche da un'eccessiva burocratizzazione delle pratiche manageriali e da un rapporto
perverso principale/agente. Infine vi fu la volontà̀ di spezzare i monopoli pubblici, che
determinò scarsa qualità̀ in assenza di concorrenza
2. Ragioni finanziarie → le privatizzazioni sono una leva importante per diminuire il debito
degli stati e contribuiscono a comprimere il disavanzo in varie maniere: tramite la
riduzione dei finanziamenti a fondo perduto, il calo degli interessi sul debito pubblico, la
destinazione dei proventi delle dismissioni a fondi di ammortamento del debito pubblico.
3. Ragioni politiche e ideologiche → l'allargamento della partecipazione della classe media
al capitale delle imprese è stato visto come un importante tassello delle moderne
democrazie. Inoltre privatizzare è parso uno strumento utile a spezzare i legami perversi
che si erano creati fra lo stato e i potenti economici. Non a caso vi è una correlazione tra i
governi conservatori e fasi di accentuazione della produzione (UK, Francia), l'Italia ha
costituito un'eccezione, visto che la quasi totalità̀ delle privatizzazioni è stata condotta da
governi di centrosinistra o esecutivi tecnici.

Le politiche di privatizzazione sono spesso state associate all'esperienza britannica durante


l’amministrazione Tatcher, ed erano finalizzate ad obiettivi sia politici, sia economici (macro e
micro). Quest'ultimi possono essere sintetizzati:
 aumentare gli introiti dello stato: privatizzando, lo stato incassa denaro
 promuovere l'efficienza economica: il mercato senza l’aiuto dello Stato allocca in modo
migliore le risorse
 ridimensionare dello stato nell'economia

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 stimolare l'allargamento della proprietà̀ azionaria: quando veniva privatizzata un’azienda
pubblica poteva esserci il caso di una società privata che la comprasse interamente, ma più
di frequente veniva divisa in azioni comprate dai risparmiatori
 introdurre maggior concorrenza e competitività̀
 esporre le imprese pubbliche alla disciplina del mercato
 sviluppare il mercato nazionale dei capitali

Per ciò che riguarda le modalità̀ attraverso le quali sono state attuate le politiche di
denazionalizzazione, la ricerca ha evidenziato alcune tendenze di fondo:
 nei casi di dismissione di imprese pubbliche di grandi dimensioni è prevalso il sistema
dell'offerta pubblica di vendita, mentre il sistema di trattativa privata è prevalso nei paesi
in via di sviluppo
 nella vendita delle prime tranche azionarie spesso i governi hanno fatto ricorso
all'underpricing, cioè hanno praticato un notevole sconto sul valore effettivo dell'azienda
per invogliare gli acquirenti
 la maggior parte dei governi si è spesso riservata poteri speciali di veto in materia di
cambiamenti dell'azionista di controllo e di investimenti esteri

Un caso di celebre insuccesso è stato quello delle ferrovie in Gran Bretagna; la


denazionalizzazione, a lungo ostacolata dal partito laburista, fu realizzata nel 1996, con scarsi
risultati dal punto di vista dell'efficienza e della sicurezza. In certi casi la privatizzazione
contribuisce a risolvere le criticità che avevano interessato imprese di carattere pubblico ma in
alcuni casi potrebbero anche NON FUNZIONARE -> caso FERROVIE BRITANNICHE. Esse vengono
privatizzate a metà del anni ’90. Quando vengono privatizzate si suddivide l’onere di
manutenzione dei binari e delle linee (proprietari) circolazione dei treni (altri soggetti) -> la società
che gestisce la manutenzione die binari si chiama Railtrack: privatizzandola ci sono degli azionisti
che l’acquistano. Diventò impresa privata, quindi l’obbiettivo mutò in MASSIMIZZAZIONE DEL
PROFITTO -> diminuendo le spese.. in che modo? -> DIMINUENDO LE MANUTENZIONI ,
DIMINUENDO IL PERSONALE (pensionamento, indotto a cambiare attività con incentivi) e si fanno
dei contratti a ribasso con società esterne di manutenzione.
Se qualcuno accetta la manutenzione di una tratta A RIBASSO, quindi A PREZZO BASSO, significa
che ci saranno: persone inesperte, taglio dei servizi, diminuzione dei servizi. Tutto questo genera
degli incidenti ferroviari, dei morti sul lavoro, etc -> MARCIA INDIETRO : lo Stato si riprende
indietro la Railtrack : non la trasforma in un’impresa pubblica ma utilizza una forma ibrida ->
IMPRESA SENZA SCOPO DI LUCRO SUSSIDIATA DALLO STATO.

In ogni caso, perché̀ un programma di denazionalizzazione abbia successo, sono necessarie alcune
precondizioni:
1. un mercato dei fattori e dei prodotti concorrenziale
2. legislazione a protezione di azionisti e risparmiatori
3. mercato dei capitali sufficientemente evoluto, sul quale le imprese siano contendibili

2.2. La dimensione quantitativa


Inizialmente la privatizzazione ha riguardato in linea di massimi settori competitivi quali le banche
e le imprese manifatturiere. In un secondo momento ha toccato massicciamente settori
monopolistici e infrastrutturali quali trasporti, public utilities.

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Circa la metà degli introiti realizzati nel periodo 1977-2003 si è concentrata nei paesi dell'UE
allargata, il 90% dei quali nei paesi dell'Europa occidentale, dove era già sviluppato il mercato
azionario, mentre nei paesi di nuova accensione, specie in quelli ex socialisti, il mercato dei capitali
ha dovuto essere creato ex novo, e pertanto i singoli governi nazionali hanno dovuto trovare nuovi
metodi per procedere alla privatizzazione, su tutti la distribuzione di voucher ai cittadini.

Nei paesi cosiddetti in transizione, cioè nei paesi ex socialisti nella loro fase di passaggio verso
l'economia capitalista, quasi ovunque (anche a causa di forti pressioni della Banca mondiale e del
FMI) si sono avuti massicci e rapidi interventi di smobilizzo delle imprese pubbliche; ciò è avvenuto
attraverso cessioni a investitori esteri, ma soprattutto mediante privatizzazioni di massa forzate,
che quasi sempre hanno assunto la forma della distribuzione diretta e gratuita di voucher ai
cittadini, mentre in altre si è diffusa la forma del managment-employee buyout. Tali modalità
erano finalizzate a radicare il diritto di proprietà̀ nelle società ex comuniste; ciò tuttavia ha influito
sulla qualità̀ delle privatizzazioni, impedendo il consolidamento di una corporate governance.

2.3 Gli effetti delle politiche di privatizzazione


Tracciare un bilancio delle politiche di privatizzazione è tutt'altro che semplice, ma si può
evidenziare qualche fatto.
Il primo che risulta che se i programmi di privatizzazione hanno significativamente ridotto il ruolo
delle imprese pubbliche nei paesi industrializzati (quota scesa dall' 8,5% al 5%), ciò non si può dire
in riguardo ai paesi in via di sviluppo (quota sopra al 10%), anzi le tendenze più recenti sembrano
indirizzare quest'ultimi verso una ristrutturazione.
In secondo luogo, molti studi hanno sottolineato la maggior efficienza e redditività delle imprese
private in confronto a quelle pubbliche; tuttavia non è un dato condiviso da tutti gli studiosi,
poiché́ riguardo alla redditività̀ molto dipende dalla misura della performance che viene impiegata:
le imprese pubbliche sono spesso tenute a massimizzare più il benessere sociale che il profitto;
questo è vero soprattutto per gli stati LDC, dove è maggiore il controllo dello stato sull'economia,
mentre nei paesi sviluppati il controllo statale è inferiore, e le imprese sono in grado di realizzare
performance migliori.
Ad inizio millennio sono emersi alcuni casi virtuosi di imprese pubbliche che hanno raggiunto alti
livelli di performance sia sotto il profilo della produttività̀ che quello della redditività̀, su tutte
Indian Railways, Petrobas (compagnia energetica di stato brasiliana) e Statoil (azienda energetica
di stato della Norvegia). Ciò dimostra che in materia di efficienza e performance non è tanto la
tipologia di proprietà, pubblica o privata, a fare la differenza, ma la struttura dei mercati, le
modalità di finanziamento e organizzazione dll'impresa, mentalità e cultura.

Recentemente sembra essere maturato un nuovo ripensamento a proposito dello stato


imprenditore, suscitato dai risultati ambivalenti delle privatizzazioni nelle economie in transizione
e soprattutto dalle recenti crisi. Il capitalismo di stato sembra molto più dinamico, infatti nazioni
quali Cina, Brasile, India, con sistemi economici fortemente improntati ad esso, hanno mostrato
maggior resilienza di fronte alla crisi, ed inoltre i loro governi hanno realizzato che le imprese
pubbliche che realizzano profitti rendono lo stato più forte. Va tuttavia notato che queste
osservazioni si riferiscono a economie che stanno ancora attraversando la prima fase della loro
modernizzazione, sfruttando quindi i vantaggi dell'arretratezza.

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