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Il sistema di innovazione è sostanzialmente il contesto nel quale le imprese svolgono la loro attività
innovativa. Il concetto di “sistema di innovazione” che è stato ripreso dagli economisti evolutivi alla fine
degli anni ’80, in realtà, è stato già introdotto da un economista tedesco: Friedrich List in un’opera del 1841
intitolata “Il sistema nazionale di politica economica”.
L’obiettivo di List era quello di spiegare la ragione per la quale la Germania era stata in grado di sviluppare
un sistema di produzione che stava diventando competitivo anche nei confronti dell’Inghilterra che era il
primo paese in Europa ad avere avviato la Rivoluzione Industriale. List spiega, dal punto di vista storico, in
che modo si fosse sviluppata l’economia tedesca e in che modo la stessa avesse permesso alla Germania di
fare concorrenza all’Inghilterra. Per fare questo, List sottolinea il ruolo dell’industria tedesca ma anche
come, in realtà, questa capacità di crescita dell’industria tedesca fosse stata possibile grazie all’esistenza di
una serie di altre istituzioni legate al mondo della scienza e a quello dell’educazione che, in qualche modo,
interagivano con le imprese e con l’industria: queste ultime avevano sicuramente un ruolo chiave, ma la
competitività della Germania derivava da un vero e proprio sistema: vi erano, infatti, imprese competitive
che, però, erano supportate da un sistema caratterizzato da altre istituzioni che interagivano con le
imprese: ciò aveva permesso alla Germania di diventare un Paese competitivo.
Quindi, i due elementi che troviamo all’interno del sistema di innovazione sono: da un lato, il fatto che
l’innovazione e, in questo caso, la competitività del sistema economico dipende dalle imprese ma anche da
altre istituzioni e dall’altro lato, il fatto che imprese e istituzioni siano tra loro collegate. L’interrelazione è,
infatti, fondamentale: uno Stato può disporre di università e imprese ma se queste non collaborano, se non
ci sono forme di connessione, di scambi di conoscenza, non si può parlare di sistema di innovazione. Il
sistema di innovazione, allora, è costituito dagli attori che lo compongono ma anche dalle interrelazioni che
esistono tra questi attori. Da un lato, bisogna considerare la competitività dei singoli attori ma dall’altro,
dobbiamo anche considerare l’efficienza delle interrelazioni e che queste siano, più o meno, consolidate.
Partiamo da un esempio che viene descritto in un articolo di Richard Nelson, uno dei fondatori della scuola
Schumpeteriana, che illustra lo sviluppo del settore farmaceutico negli Stati Uniti e sostanzialmente, per
spiegare lo sviluppo di questo settore negli USA, parte dal fatto che in questo Paese, negli anni ’60-’70, nei
dipartimenti di biologia delle università si inizia a fare ricerca su un ambito, che è quello della biologia
molecolare. Quindi, lo sviluppo del settore farmaceutico viene in qualche modo collegato all’attività di
ricerca che avviene nei laboratori delle università. Da qui, poi, nascono le prime imprese di biotecnologia
che sviluppano alcuni nuovi prodotti farmaceutici basati sulla ricerca di biologia molecolare. Ciò che viene
evidenziato, però, è che in quegli anni le imprese del settore farmaceutico, non avevano competenze
nell’ambito delle biotecnologie, competenze che si sviluppano, invece, nel campo della ricerca.
Un primo elemento fondamentale è che negli anni ’60,’70 negli Usa vi erano delle strette relazioni tra
l’università e il settore industriale. Occorre tener conto del fatto che in Europa, in quegli anni, non si parlava
ancora di rapporti tra università e industria. Attualmente, invece, le università affrontano il tema della
“Terza Missione”: uno degli obiettivi delle università, infatti, è proprio la terza missione. Ci si riferisce al
fatto che, tradizionalmente, le università si prefissavano due missioni: una era quella dell’educazione e
l’altra era quella della ricerca. Negli USA, già negli anni ’60,’70, le università avevano una terza missione che
era proprio quella di interagire con l’industria e sviluppare attività di ricerca che fosse rilevante per
l’industria, anche in collaborazione con l’industria stessa.
In Europa e specialmente in Italia, si sviluppa questo tipo di collaborazione solo nella metà degli anni 2000,
affiancata alle due tradizionali missioni dell’università.
Negli USA, invece, durante la metà degli anni 2000, la collaborazione tra università e industria era già molto
sviluppata. In particolare, esiste una legge: “Bay-Dole act” che aiuta, che incoraggia i rapporti tra università
e industria.
Nel modello “open science”, per esempio, era presente un incentivo, da parte dei ricercatori, a rendere
pubblici i risultati delle loro ricerche. Questa necessità nasce dal fatto che, per esempio nelle università
italiane, fino a poco tempo fa, i ricercatori non potevano registrare brevetti a loro nome. Per esempio, un
ricercatore dell’Università di Pavia non poteva registrare il brevetto dell’innovazione di cui egli stesso era il
proprietario ma poteva registrarlo esclusivamente sotto il nome “Università di Pavia”. Negli Stati Uniti, la
possibilità di registrare un brevetto a nome del ricercatore che ne è proprietario, risale al “Bay-Dole act”
fine anni ’60, inizio degli anni ’70, mentre nelle università europee e italiane è stato permesso solo di
recente. Infatti, è bene sottolineare che il proprietario del brevetto può beneficiare di una parte del
guadagno derivante dal brevetto stesso mentre, invece, se sul brevetto è presente esclusivamente il nome
dell’università afferente al ricercatore es: “Università di Pavia”, il guadagno sarà percepito solo
dall’istituzione e non dal ricercatore, quindi, la possibilità di guadagnare attraverso i brevetti funge anche
da incentivo per la ricerca. Inoltre, il “Bay-Dole act” anticipa quello che poi avverrà in seguito in Europa e in
Italia: la creazione, appunto, di un incentivo per i ricercatori a brevettare le invenzioni che, in aggiunta,
allinea gli incentivi del settore privato e del settore pubblico. Questo è un fattore che rende più efficaci le
relazioni tra università e industria.
Un altro aspetto importante è la disponibilità dei finanziamenti: si parla del “venture capital”, si tratta di
una forma di finanziamento che presenta delle caratteristiche particolari, disponibile tra le piccole imprese
innovative che è molto diffuso negli Usa rispetto a quanto lo sia, invece, in Europa.
Inoltre, sono molto rilevanti gli investimenti nel settore pubblico: istituto di ricerca pubblico americano il
“National Institutes of Heath”, operante nel settore della sanità, che è il più grande istituto di ricerca
pubblico dopo l’Arpa (settore di difesa).
Tutti gli elementi analizzati finora contribuiscono a facilitare l’interazione tra l’industria farmaceutica che
però non aveva competenze specifiche in ambito di biotecnologie e dall’altro lato, le università dove,
invece, c’erano dei ricercatori che investivano in ricerca proprio nell’ambito delle biotecnologie.
Per spiegare lo sviluppo del settore delle biotecnologie nell’industria farmaceutica americana, Nelson ha
posto l’accento sull’esistenza di un sistema, cioè: la crescita dell’industria farmaceutica negli Stati Uniti non
avviene solo grazie a ciò che è circoscritto nelle imprese farmaceutiche ma l’esistenza di un sistema
permette il “boom” del settore. Questo sistema è costituito da un sistema finanziario efficiente che fornisce
le risorse alle piccole imprese, le università che si occupano della ricerca, un istituto di ricerca pubblico che,
appunto, si occupa di ricerca utilizzando le risorse finanziarie dello Stato e lo Stato che crea anche il
contesto ideale, per esempio attraverso il “Bay-Dole act” cioè un contesto di regole che favorisce
l’interazione tra le varie parti del sistema.
Ciò che descrive Nelson è proprio un esempio di sistema di innovazione che sta dietro allo sviluppo di un
nuovo settore tecnologico che ha a che fare con la ricerca biotecnologica nel settore farmaceutico.
Si evince che all’interno di un sistema operano diversi attori, ognuno con un proprio ruolo ma è importante
anche la presenza di un sistema istituzionale che facilita l’interazione tra i diversi attori presenti all’interno
del sistema.
Trattiamo, adesso, alcune definizioni presenti in letteratura di “Sistema di innovazione” che enfatizzano
dimensioni diverse del sistema di innovazione. Le definizioni qui presentate risalgono agni anni ’90 dove
l’innovazione era ancora trattata in modo circoscritto al singolo Paese
Vi è, inoltre, una serie di rappresentazioni del sistema di innovazione che, tra loro, sono complementari e
aggiungono nuovi elementi:
SISTEMA INNOVATIVO
INDICATORI DI SVILUPPO
Fondamentale nel sistema di innovazione è l’interazione tra ricerca pubblica e privata che può avere dei
vantaggi così come degli svantaggi:
Benefici: da un lato, se l’università si dedica alla ricerca per le aziende, ciò porta delle risorse. O,
ancora, i ricercatori dell’università possono avere accesso alla strumentazione delle imprese.
Interagendo con le imprese, infatti, si accede al “know-how” e a tecnologie che possono essere
complementari alle conoscenze che ci sono in università, il fatto che, attraverso l’interazione, si può
dar luogo alle “start-up”: ormai, qualsiasi università ha un incubatore di start-up. Un incubatore di
imprese è un luogo dove i ricercatori, professori che dispongono di un’idea innovativa che
potenzialmente ha una sua applicabilità nel mercato, creano delle imprese perché l’applicazione
dell’idea innovativa con l’obiettivo del mercato non è più compito dell’università: l’università non
crea profitto ma può sostenere le imprese che nascono dalla ricerca nata in università. L’incubatore
delle start-up serve anche a fornire degli spazi, laboratori che fungono da supporto alle imprese che
nascono, permettendo ai professori e studenti di dare vita a un’attività innovativa a scopo di
impresa, all’interno dell’università. Le relazioni con le imprese facilitano l’entrata degli studenti nel
mercato del lavoro e l’opportunità di stages. Vi è anche una possibilità di guadagni per l’università e
per il ricercatore attraverso i brevetti che hanno successo sul mercato.
Rischi: Le risorse sono limitate, tanto più l’università investe in ricerca applicata quindi rilevante per
le imprese, tanto meno investe in ricerca di base. Gli obiettivi della ricerca applicata e di quella di
base possono essere diversi: la ricerca di base è più proiettata sul lungo periodo e può condurre a
innovazioni più radicali. Se le imprese pagano, esse stesse spingono i ricercatori universitari a fare
ricerca su ciò che è più di loro interesse quindi, vi può essere meno libertà per i ricercatori nella
scelta del tema su cui, appunto, fare ricerca. Inoltre, le imprese che collaborano con l’università
tendono a essere imprese di grandi dimensioni quindi, le imprese più piccole hanno ruoli più
marginali. Anche perché nelle piccole imprese, spesso, non ci sono tecnici che siano in grado di
collaborare con l’università. Ci sono, infatti, delle istituzioni che stanno a metà tra le università e le
imprese per trasferire i risultati di ricerca: per esempio, nel settore agricolo dove, tipicamente, ci
sono degli attori hanno il ruolo di essere in contatto con l’università e trasferire, in modo
comprensibile, i risultati di questa ricerca alle piccole imprese migliorando, così, i risultati della
ricerca stessa.