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C'è un passaggio importante. Questa visione nuova della politica regionale nasce negli
anni 2000, dalla riforma nel 2001 del Titolo Quinto della Costituzione, che disciplina i
rapporti fra il governo centrale e le Regioni. In particolare, nell'articolo 117 (famigerato
per certi versi, perché è fonte di continue cause alla Corte Costituzionale), l'attribuzione
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Il testo è basato sulla trascrizione della lezione, revisione a cura di Margherita Russo.
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di competenze dice che ci sono alcune materie che sono di competenza esclusiva dello
Stato (la difesa, la politica estera, la pubblica istruzione, eccetera), ci sono invece delle
materie che sono di potestà concorrente, cioè possono agire su queste materie sia lo
Stato centrale sia le Regioni. Ricerca scientifica e tecnologica, e sostegno
all'innovazione per i settori produttivi fano parte delle materie concorrenti. Che cosa
vuol dire? Che le Regioni possono legiferare in materia, possono avere leggi regionali in
materia e possono destinare fondi a queste attività.
C'è un'importante innovazione per i settori produttivi perché qui non parliamo di
politiche per la ricerca. Parliamo di politiche industriali. Stiamo parlando di interventi
delle Regioni che sono a favore del sistema produttivo, cioè le Regioni non si
preoccupano di stabilire quali sono le frontiere della conoscenza a cui il sistema della
ricerca pubblica deve puntare, quindi non finanziano le università e non finanziano gli
enti di ricerca, se non per la parte che è di interesse per essere trasferita al sistema
produttivo.
"In seguito a questa riforma costituzionale, nel 2002 la Regione approva la legge
regionale n. 7, pietra miliare delle politiche regionali dell'Emilia-Romagna, che si
intitola “Legge per la Promozione del sistema regionale delle attività di ricerca
industriale, innovazione e trasferimento tecnologico”. Già nel titolo di questa legge c'è
un elemento importante: è la parola "sistema".
Quindi la Regione non intende dare soldi alle imprese o alle università per fare ricerca,
ma vuole promuovere un sistema di relazioni. Il senso è chiaro, la politica regionale non
può essere che questo. Le regioni non possono sostituirsi ai livelli nazionali, per
esempio nelle politiche fiscali. Pensate che una delle leve più importanti per favorire la
ricerca delle imprese è la leva fiscale, il credito d'imposta. Questa leva le regioni non ce
l'hanno e quindi devono agire su altri livelli. Il livello è quello delle reti, della
connessione, cioè della creazione di un ambiente, di un ecosistema favorevole affinché
le capacità di innovazione delle imprese, da un lato, e le capacità di ricerca del sistema
della ricerca pubblica, dall'altro, riescano a essere in stretta relazione per produrre
risultati e a produrre, alla fine dei conti, competitività e occupazione, perché di questo
parliamo: di una politica che mira a creare occupazione e crescita.
Dentro questa legge ci sono articoli importanti, l'articolo 6 che parla di sviluppo di rete,
ed è quello che dicevo. E ci sono altri articoli per sostenere le imprese e le start-up. E c'è
ne è uno in particolare che indica lo sviluppo di una rete di laboratori di ricerca e
trasferimento tecnologico. Grazie a questa legge, Aster diventa una società consortile, di
cui fanno parte tutti i soggetti pubblici che nella regione svolgono attività di ricerca e
diventa il soggetto accettato da tutti e condiviso come soggetto della governance di
questo sistema di coordinamento. Questo non è un passaggio irrilevante perché è un
unico soggetto che raggruppa tutti e che definisce delle linee condivise. È un passaggio
sicuramente chiave di tutta la politica.
Ci sono due pilastri dell'intervento regionale.
Da un lato, è rivolto alle imprese, e in particolare alle Pmi, che come noto sono quelle
che fanno più fatica a investire in ricerca e innovazione e non possono permettersi di
avere risorse dedicate a questa attività. Quindi, da un lato, azioni per sostenere la
capacità di investimento in ricerca e innovazione da parte delle imprese e delle filiere, in
particolare stimolando dei percorsi virtuosi che non sono semplicemente un sostegno
finanziario, ma anche sostegno per l'acquisizione di competenze perché le imprese
abbiano strumenti e nuovi ricercatori, in particolare giovani ricercatori, e non solo nelle
materie tecnico scientifiche.
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E, dall'altro, alle imprese che attivano in maniera strutturata collaborazione con il
sistema della ricerca. Si tratta quindi di finanziamenti legati a questi due modelli di
comportamento.
Il concetto è che se le imprese non hanno risorse da dedicare a ricerca innovazione, la
Regione le aiuta in modo che la ricerca non diventi occasionale, ma sia un'attività
strutturata.
L'altro aspetto, quello su cui ci concentreremo di più, invece riguarda il lato dell'offerta
di ricerca, cioè quel mondo estremamente diffuso di capacità di ricerca scientifica e
tecnologica, in particolare, che è quella che interessa maggiormente il sistema
produttivo (anche se era vero nel 2002, ma adesso ci sono filosofi e umanisti che
lavorano nelle aziende manifatturiere un mondo molto cambiato). Le competenze da cui
si sviluppano conoscenze sono, in particolare, nel sistema universitario, che si occupa di
didattica, si occupa di ricerca di base, e dovrebbe fare anche la cosiddetta terza missione
dell'università, deve cioè anche trasferire al sistema produttivo le conoscenze acquisite
al proprio interno.
Tutto questo mondo va organizzato perché non è possibile che l'imprenditore che cerca
una competenza non sa dove trovarla nell'università. C'è un ufficio di trasferimento
tecnologico dove il professore può gestire un progetto di ricerca per un'impresa, e non è
costretto a farlo in mezzo alle mille altre cose che deve fare (didattica, ricerca, tesi,
eccetera).
Quindi c'è bisogno che anche il sistema della ricerca si strutturi attraverso
l'organizzazione di centri che abbiano come esclusiva missione quella di lavorare per le
imprese, quindi che in qualche modo centri, che siano essi stessi imprese, capaci di stare
sul mercato e quindi di trasferire alle imprese le capacità di ricerca e di conoscenza che
si sviluppa negli atenei. Come questo avviene lo vediamo dopo.
Per darvi qualche dato: in tutte le università della regione ci sono oltre 140 mila
studenti. Ci sono molti enti di ricerca di carattere nazionale che hanno sede in Emilia-
Romagna con alcune eccellenze (Cineca per dirne uno, il centro di calcolo ad alte
prestazioni di grandissimo livello Europeo) e Cnr, Enea e enti che hanno qui in Emilia-
Romagna delle sedi importanti (e alcuni istituti magari meno noti, tipo l'Istituto
Nazionale di Astrofisica)2. Alcuni di questi sono più abituati a lavorare per imprese e
alcuni proprio poco, ma dipende anche dalle vocazioni. Si stimano che ci sono
circa12.000 ricercatori strutturati e questo numero comprende tutti i docenti e ricercatori
universitari strutturati, a cui si devono aggiungere quelli che lavorano negli enti come
assegnisti, dottorandi, eccetera. Una forza di ricerca notevole e anche diffusa su tutto il
territorio.
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La lista dei principali enti di ricerca di carattere nazionale è la seguente:
CNR – Consiglio Nazionale delle Ricerche (16 dipartimenti)
ENEA – Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile
INFN - Istituto Nazionale di Fisica Nucleare
INAF – Istituto Nazionale di Astrofisica
INGV – Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia
CINECA – Consorzio interuniversitario per il calcolo ad alte prestazioni
IOR – Istituto Ortopedico Rizzoli
SSICA – Stazione Sperimentale per l’Industria delle Conserve Alimentari
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Una rete di centri per la ricerca e innovazione
Tornando al punto della rete, con l'organizzazione dell'offerta quindi la Regione intende
fare in modo da spingere le università ad organizzarsi in maniera efficiente rispetto alla
richiesta delle imprese. Per questo Aster ha sostenuto la creazione di una rete di
laboratori di ricerca industriale che comprende laboratori di centri industriale e centri
per l'innovazione.
I laboratori di ricerca industriale sono quindi dei centri di competenza. Possono essere
pubblici, possono essere completamente privati, possono essere anche di carattere
misto. Devono essere autonomi rispetto alle organizzazioni di appartenenza perché non
devono avere i vincoli che hanno le organizzazioni pubbliche, ad esempio nel
reclutamento di personale o negli appalti, perché devono essere capaci di parlare con le
imprese e di rispondere immediatamente i loro bisogni. E quindi questo è l'obiettivo.
L'idea è che in questi laboratori devono lavorare esclusivamente ricercatori, i cosiddetti
ricercatori industriali, quindi non ricercatori che aspirano a fare carriera accademica, ma
ricercatori che aspirano ad andare a lavorare in un'impresa o a rimanere nel laboratorio,
o quando va bene andare a lavorare per le imprese, perché anche questo è un modo per
fare il trasferimento tecnologico, forse è quello principale per trasferire direttamente "le
teste" dal mondo universitario alle imprese, perché c'è un modello di trasferimento
tecnologico
Dei Centri per l'innovazione ne parlo meno: sono organizzazioni, spesso di carattere
locale, che lavorano sul territorio di una provincia, e che hanno l'obiettivo di "aggregare
la domanda", cioè di individuare i fabbisogni dell'impresa e magari anche proporre
soluzioni tecnologiche già disponibili. Sono promossi da associazioni imprenditoriali,
amministrazioni locali, camere di commercio. Promuovono l’adozione di soluzioni
innovative attraverso consulenza, eventi, formazione, assistenza tecnica. Sono rivolti ai
bisogni sia tecnologici che organizzativi delle PMI. Quindi non è il mestiere dei
laboratori, che invece sviluppano nuova conoscenza. Il mestiere del Centro per
l'innovazione è quello di favorire l'adozione da parte delle imprese di soluzioni magari
già disponibili. Si colloca al livello più vicino al mercato, all'industrializzazione, mentre
i laboratori lavorano più in una fase di ricerca anche per la creazione di prototipi.
Rete dell’Alta Tecnologia: i principali passaggi
Nel 2009 nasce la Rete ad Alta Tecnologia che è ormai un brand con una decina d'anni
di storia. Ci sono stati alcuni anni di fase sperimentale, però come Rete Alta Tecnologia
assume questa denominazione a partire dal 2009 3. Questa rete è fatta di 81 laboratori
accreditati, che è una condizione per garantire ai laboratori l'ingresso in questa rete, che
vuol dire anche poter accedere a finanziamenti in maniera specifica, e quindi non è un
titolo onorifico, occorre un riconoscimento che il laboratorio fa parte di una comunità in
cui ha dei diritti, dei doveri e anche dei privilegi. Attualmente ci sono 81 laboratori
accreditati e ci sono 14 centri per l'innovazione, che chiamiamo Tecnopoli, che sono
dislocati su tutto il territorio regionale. Non tutti i laboratori stanno fisicamente dentro il
Tecnopolo, che è un'infrastruttura spesso presso l'Università. A Modena è presso il
campus di Ingegneria, accanto c'è un laboratorio di medicina rigenerativa, di scienze
della vita, c'è una parte di motoristica. Ogni provincia ha una sua infrastruttura dove
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2003 Adozione del Programma Regionale per la Ricerca Industriale, l’Innovazione e il Trasferimento
Tecnologico (PRRITT)
2004-2007 Prima fase pilota con finanziamento dei primi 30 laboratori
2007 Adozione di un modello di accreditamento per i laboratori e centri per l’innovazione
2009 Nasce la Rete Alta Tecnologia
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sono collocati alcuni laboratori, altri invece sono in altre sedi, ma fanno comunque
riferimento al Tecnopolo come soggetto che sul territorio si interfaccia con le imprese.
La Rete Alta Tecnologia oggi
81 Laboratori di ricerca | 14 Centri per l’innovazione | 10 Tecnopoli
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non arrivavano perché neanche sapevano che esistessero i laboratori. Ho esagerato, ma
occorreva essere più aperti e più inclusivi. E questo è sicuramente è mancato.
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Le aree di specializzazione intelligente per orientare la ricerca e l’innovazione
Research and Innovation Smart Specialization Strategy (RIS3) Areas and Technological Priorities
Quindi, queste sette priorità hanno dato vita a sette cluster, ciascuno dei quali è
organizzato in gruppi didi lavoro, "value chain" le abbiamo chiamate, non sono settori
ma sono catene di valore, spesso trasversali rispetto a settori, in un quadro che può
anche modificarsi. Questo è il quadro complessivo di come sono organizzati i clust-ER.
Che cosa sono i clust-ER? Sono delle associazioni. La Rete dell'Alta Tecnologia era una
community aperta. I clust-ER sono delle vere e proprie associazioni, di cui possono
essere soci i Laboratori e centri per l'innovazione accreditati ai sensi della DGR
762/2014, le imprese, in forma singola, incluse start-up innovative; i raggruppamenti di
imprese, ad es. consorzi, reti o cluster di imprese; gli organismi di ricerca che si
impegnano ad ottenere l’accreditamento; gli enti con esperienza nella formazione
terziaria non universitaria; gli altri attori dell’innovazione nell’ambito di riferimento del
Clust-ER. Sono organi dell’Associazione: l’Assemblea, il Presidente, il Consiglio
Direttivo. La Regione li finanzia, per un primo triennio, fino alla fine del 2020. Poi si
vedrà. Abbiamo alle spalle un arco di attività che è servito soprattutto per il loro start
up, per mettere a punto anche la struttura organizzativa, la comunicazione.
Soci dei Clust-ER al 31/01/2019
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Clust-ERs e Value Chains
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Risultati raggiunti
Per concludere, quali risultati abbiamo ottenuto? Un dato è la quota di spesa in ricerca e
sviluppo sul PIL, un indicatore classico che si usa per misurare l'intensità di ricerca che
c'è nel territorio. Molti anni fa, nel Trattato di Lisbona, l'Unione europea si diede come
obiettivo quello di arrivare al 3% medio di spesa in ricerca e sviluppo sul Pil. Sono
passati più di dieci anni e in Emilia-Romagna siamo al top rispetto all'Italia, ma non
siamo neanche al 2%. Quindi è un indicatore che va preso con le dovute cautele per le
modalità di rilevazione, ma non è questo che mi interessa. Dai dati si vede che c'è un
trend crescente: la spesa pubblica in ricerca e sviluppo è ferma da 6-7 anni, ma la spese
del settore privato è cresciuta.
Percentuale di spesa in Ricerca e Sviluppo sul PIL, in Emilia-Romagna, 2006-2016 (fonte Istat)
Allora è merito della politica regionale? Sarebbe successo lo stesso? Questo non lo
sapremo mai, a meno di effettuare un'analisi controfattuale, che è sempre molto
difficile. Molti economisti hanno tentato di fare delle analisi basate su ricerche sulle
singole misure di politica regionale. Ad esempio, quando la Regione finanzia attraverso
bandi i progetti di ricerca delle imprese, si chiede se quel finanziamento è servito:
abbiamo dato dei soldi che avrebbero comunque speso? Quindi questo tipo di
valutazione di efficacia e impatto è necessario, ma sempre difficile. Un altro dato che vi
posso citare è che negli ultimi dieci anni, da quando esiste la Rete Alta Tecnologia,
abbiamo monitorato (con un sistema che chiamiamo “cruscotto”) 215 milioni di euro
che i laboratori della rete hanno incassato in collaborazione con le imprese: in dieci
anni, sono circa 21 milioni all'anno. È molto o poco? È una valutazione molto
discrezionale, è all’incirca quello che la Regione ci ha messo. Quindi, per ogni euro che
la Regione ha investito e dato ai laboratori, il laboratorio ha portato a casa un altro euro.
Che sia un risultato positivo o negativo dipende dai punti da cui lo si guarda.
Quello che però volevo sottolineare sono i risultati di tipo qualitativo, che sono
indiscutibili, e cioè che per molte imprese la collaborazione fra imprese e il sistema
della ricerca è diventato strutturale. Ci sono i rapporti consolidati anche per i laboratori:
anche per loro è diventata un'attività strutturale e non solo occasionale. In questi anni la
Regione ha finanziato oltre tremila assegni di ricerca, di ricercatori che hanno lavorato
presso i laboratori della Rete, molti dei quali (non abbiamo dato precisi) sono andati a
lavorare in imprese in cui hanno fatto un'esperienza importante per la loro formazione.
C'è un senso di appartenenza a questa comunità regionale, sicuramente non uguale per
tutti, ma sicuramente crescente.
Si comincia anche, sebbene con fatica, a ragionare in una logica di Open Innovation
multidisciplinare. C'è molta più consuetudine a condividere le idee e quindi a temere
meno la competizione del vicino. Quello che dicevo, all’inizio della lezione, è che la
competitività del territorio è fondamentale anche per la singola impresa e le imprese che
l'hanno capito sono dentro ai cluster, partecipano, qualcuno è ancora un po’ diffidente,
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ma il nostro è un lavoro di tipo culturale, mettendo a disposizione strumenti per
superare queste diffidenze.
C'è ancora tanto da fare, in termini organizzativi: troppi laboratori della rete sono ancora
troppo legati agli enti di appartenenza, e quindi hanno dei vincoli dell'operatività molto
forti; è un problema molto grosso da risolvere per questioni tecniche, ma anche
politiche.
Molti dei laboratori hanno un management che è troppo universitario: i docenti faticano
a fare spazio a persone che non siano incardinate nell'università. Quindi c'è un problema
di management, sicuramente.
Occorre allargare il numero delle imprese perché è vero come dicevo prima che molte
imprese ormai sono strutturalmente abituate a lavorare con i laboratori, ma è un numero
ancora basso rispetto al potenziale. Non è che tutte le imprese potranno mai fare ricerca
e innovazione: in Emilia-Romagna abbiamo 400 mila imprese (non solo manifatturiere)
e ovviamente non si può ragionare su quei livelli, parliamo di qualche migliaio di
imprese. C'è una tendenza da parte dei laboratori a mantenere il portafoglio di clienti
esistenti e non andare a cercarne altri. Questo è un meccanismo che è sicuramente da
scardinare.
Per la mia esperienza, bisogna concentrare maggiormente le risorse, è ancora troppo
forte la dispersione in tanti ambiti diversi. La politica fa fatica a scegliere. Per un
assessore è difficile dire su che cosa puntare e la tentazione di dare un pochino a tutti è
sempre molto forte. Questo è un grosso problema soprattutto perché le risorse sono
sempre più scarse.
Per ultimo, e ancora per la mia personale opinione, bisogna sempre più stare sul livello
della innovazione e meno su quello della ricerca, cioè più sull'innovazione intesa come
applicazione industriale e meno sullo sviluppo di nuova conoscenza. Ad esempio, oggi
la disponibilità di tecnologie digitale è talmente elevata che c'è più bisogno di aiutare le
imprese ad adottare tecnologie esistenti che non a sviluppare cose completamente
nuove. Bisogna fare un salto anche concettuale e quindi puntare di più su quel tipo di
relazione che sia meno di ricerca di frontiera, di grandi invenzioni che poi richiedono
lunghi tempi di sviluppo, ma molto di più su questo tipo di competenze. Sicuramente è
importante perché ovviamente dentro all'università si fa un altro mestiere che è quello
del proprio ricercatore. Quello che manca sono soggetti, anche privati, che facciano
questo tipo di lavoro con le imprese, cioè che le aiutino ad a adottare soluzioni
tecnologiche, ma anche organizzative: sempre più la tecnologia è legata anche
mutamenti di carattere organizzativo. E questo è un tipo di professione ancora
insufficiente nella nostra regione.
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