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Letteratura Italiana - Federica Pich

Letteratura italiana (Università degli Studi di Trento)

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LETTERATURA ITALIANA

Lezione 1 – Introduzione al corso

Il sonetto
• Numero e tipo dei versi: 14 endecasillabi
• Presenza di rime che di per sé individuano alcuni raggruppamenti di versi.

«Nella forma normale, cui corrisponde l’assoluta maggioranza dei testi, il sonetto è composto di 14
endecasillabi, ed è diviso in due parti, rispettivamente di 8 e 6 versi. La prima parte (che è stata chiamata
fronte, ottava, quartine) si divide tradizionalmente in due quartine, ma alle origini era sentita divisa in
quattro distici […]. La seconda (sirma, sestina, terzine) si divide in due terzine».

Beltrami, p. 119

Schemi principali
ABABABAB (rime alternate)
ABBA ABBA (rime incrociate)
CDC DCD, CDC CDC etc.
CDE CDE, CDE DCE etc. (con maggiore possibilità di variazione)

Il nome e l’origine
Dal provenzale sonet, diminutivo di so (‘suono, melodia’), nel senso di ‘poesia musicata’, ‘poesia per
musica’.
Termine inizialmente usato in senso generico, poi in accezione specifica e tecnica.
Forma che nasce «adulta» (Antonelli), probabilmente per opera di Giacomo da Lentini, tra i rimatori attivi
presso la corte di Federico II di Svevia (1194- 1250)

Possibili ragioni della sua ‘invenzione’


Necessità di una forma breve, adatta alla corrispondenza tra poeti.
Forse sul modello della cobla esparsa (strofa isolata di canzone) provenzale, usata con questa funzione.
Natura ‘monostrofica’ del sonetto > suoi usi propriamente strofici (come nel Fiore), o a formare corone e
serie (fino ai nostri giorni).
Ipotesi numerologica (Pötters 1998, Desideri 2000) e ipotesi combinatoria (Antonelli 1989, Roncaglia 1992).

Sonetto: conformazione della fronte


Su 39 sonetti della Scuola Siciliana, ben 22 sono dovuti al ‘Notaro’ Giacomo Da Lentini. In tutti la fronte si
presenta a rime alternate.
Fronte: a rime alternate ABABABAB
Sirma: tra gli altri schemi possibili, presenta CDE CDE (a due rime alternate) e CDC DCD (a tre rime
replicate), destinati a restare maggioritari.
La conformazione della fronte trova riscontro nei testimoni manoscritti >

Sonetto e sintassi

Dal punto di vista sintattico, 20 su 39 sonetti del corpus siciliano si possono ricondurre allo schema 4+4+3+3.
Nessun sonetto presenta un legame sintattico tra fronte e sirma, mentre ci sono altre strategie di
connessione, basate sulla ripetizione, ad esempio lessicale (Menichetti 1975).
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L’elemento ‘istituzionale’ più caratteristico, seguito nella maggior parte del corpus siciliano, è l’andamento
sintattico che tende ad assecondare la scansione per dittici, soprattutto nel Notaro.

Giacomo da Lentini 1.25, 1-8


La fronte procede per coppie di versi e presenta una coordinazione tra subordinate, due causali:

Ogn’omo ch’ama de’ amar so ’nore A


e de la donna che prende ad amare, B
e foll’è chi non è soferitore, A
che la natura de’ omo isforzare, B
e non de’ dire ciò ch’egli àve in core, A
che la parola non pò ritornare: B
da tutta gente tenut’è migliore A
chi à misura ne lo so parlare. B

spiegazione: la caratteristica principale di questa fronte è che procede per coppie diverse e presenta una
coordinazione tra subordinate. “chi ama deve amare il proprio amore e quello della donna che prende ad
amare.”  è una sorta di sentenza, un’affermazione sicura. / “ed è folle chi non sopporta perché ci si deve
controllare”  subordinata causale. / “e non deve dire ciò che sente”  coordinata / “perché la parola non
torna indietro”  altra causale. / “chi si controlla nel parlare è ritenuto da tutti il migliore”  sorta di
riflessione sull’amore.
La coppia di quartine è didascalica, vengono spiegate delle caratteristiche ed è seguito da due terzine
soggettive, che spiegano l’amore dal punto di vista più personale. Dal punto di vista sintattico, la struttura ci
permette di avere accesso al pensiero dell’autore.

Giacomo da Lentini (a.r.), 1D.3, 1-8


Nella fronte, legame tra subordinate con ellissi del verbo:

Guardando basalisco velenoso A


che ’l so i sguardare face l’om perire, B
e l’aspido, serpente invidïoso, A
che per ingegno mette altrui a morire, B
e lo dragone, ch’è sì argoglioso A
cui elli prende no lassa partire; B
a loro asemblo l’amor c’è doglioso, A
che tormentando altrui fa languire. B

Spiegazione: struttura tripartita che inizia con un gerundio “mentre guardo”. Da questo “guardando”
dipende gran parte del testo, visto che l’oggetto del “guardando” sono tre figure: il basilisco, l’aspide e il
dragone. Le tre creature, tra il fantastico e il reale, creano nell’uomo gli stessi effetti terribili dell’amore che
l’uomo prova per la donna. Il verbo “cattura”, accostato al dragone, è un termine tipico per l’innoramento.

Rinaldo d’Aquino (attr.), 7D1, 1-8


Nella fronte, legame tra quartine con subordinazione consecutiva:

Un oseletto che canta d’amore. A


sento la note far sì dulzi versi B
che me fa mover un’aqua dal core, A

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e ven a gl’ogli ni pò retenersi B


che no sparga fora cum tal furore A
che di corrente vena par che versi; B
et i’ pensando che cos’è l’Amore A
sì zeto fora suspiri diversi. B

spiegazione: il primo verso è inusuale, dato che l’uccellino è un oggetto rispetto al verbo, e non il soggetto
come si potrebbe pensare. La subordinata fa sì che la struttura sia unita.

Giacomo da Lentini 1.19c (Tenzone con Iacopo Mostacci e Pier della Vigna)

Amor è un disio che ven da’ core A


per abondanza di gran piacimento; B
e li occhi in prima genera[n] l’amore A
e lo core li dà nutricamento. B
Ben è alcuna fiata om amatore A
senza vedere so ’namoramento, B
ma quell’amor che stringe con furore A
da la vista de li occhi ha nas[ci]mento: B
ché li occhi rapresenta[n] a lo core A
d’onni cosa che veden bono e rio C
com’è formata natural[e]mente; D
e lo cor, che di zo è concepitore, A
imagina, e [li] piace quel desio: C
e questo amore regna fra la gente. D

spiegazione: terzo sonetto della canzone che a livello di contenuto e linguaggio risente dei primi due. Il
sonetto si interroga sull’origine dell’amore.

LEZIONE 2 – LO STILNOVO E DANTE

Tre tipi di sonetto a «valenza libera» (secondo Gorni 1993)

a) Sonetto monovalente  Rapporto di proposta-risposta, singolo o ripetuto; nel secondo caso si parla
di tenzone

b) Sonetto a valenze plurime  Rivolto a più rimatori, dai quali sollecita una risposta.

c) Sonetto bivalente  Un sonetto y pensato come intermedio tra x e z, entro una serie più o meno
coerente di altri individui affini.

Altri funzioni del sonetto a «valenza libera» (secondo Gorni 1993)

• Sonetto di accompagnamento (ad es. per presentare un altro testo, più impegnativo)
• Sonetto in contesto prosimetrico
• Sonetto in contesto epistolare
• Sonetto con ampia didascalia in prosa

Origine dell’etichetta ‘Stilnovo’


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Dante, Purgatorio XXIV (cornice dei golosi), 19-63


Bonagiunta Orbicciani da Lucca
• «trapiantatore dei modi siciliani in Toscana» (Contini)
• polemica con Guido Guinizelli, a cui contesta la troppa dottrina immessa nella sua poesia d’amore >
per questo Dante sceglie di far pronunciare queste parole proprio a Bonagiunta
“O frate, issa vegg'io”, diss’elli, “il nodo
che ’l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’I’ odo! (55-57)

Lo Stilnovo: la poesia della lode

Dante, Vita nova 10 (XVII)


Poi che dissi questi tre sonetti nelli quali parlai a questa donna, però che fuoro narratori di tutto quasi lo mio
stato credendomi tacere e non dire più, però che mi parea di me assai avere manifestato, avegna che
sempre poi tacesse di dire a.llei, a me convenne ripigliare materia nuova e più nobile che la passata. […]
«Madonne, lo fine del mio amore fu già lo saluto di questa donna, forse di cui voi intendete, e in quello
dimorava la beatitudine che era fine di tutti li miei desideri. Ma poi che le piacque di negarlo a me, lo mio
signore Amore, la sua mercede, à posto tutta la mia beatitudine in quello che non mi puote venire meno».
[…]
E poi che alquanto ebbero parlato tra.lloro, mi disse anche questa donna, che m’avea prima parlato, queste
parole: «Noi ti preghiamo che tu ne dichi ove sta questa tua beatitudine». E io rispondendo lei dissi cotanto:
«In quelle parole che lodano la donna mia».
E però propuosi di prendere per matera del mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa
gentilissima; […]

M. Berisso, Introduzione a Poesie dello Stilnovo

• In volgare, per un pubblico che non conosceva il latino ed era interessato alla cultura «non per
dovere di mestiere o di culto».
• Un pubblico selezionato sulla base «del sentire e del pensare» (del core), non del censo o
dell’erudizione; nobiltà di costumi, non di sangue.
In questa chiave questi poeti più giovani guardano al Guido Guinizelli di Al cor gentil rempaira
sempre amore > Dante, Amore e ’l cor gentil sono una cosa
• «Sottiglianza» stilistica e concettuale (cfr. la tenzone Bonagiunta-Guinizelli)

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LEZIONE 3- LO STILNOVO E DANTE (2)

Il sonetto stilnovista: metrica e sintassi

Dal punto di vista metrico, si riscontra una predilezione per la fronte a rime incrociate: ABBA ABBA.
Dal punto di vista discorsivo e sintattico, lo schema dominante è 4+4+3+3.
Entro questo schema, il rapporto di (e il collegamento per) subordinazione diventa più frequente e può
essere collocato tra le quartine, tra le terzine oppure tra seconda quartina e prima terzina. >>

Il sonetto stilnovista: sintassi e argomentazione

>> la distribuzione ordinata delle frasi nelle partizioni metriche si combina, quindi, con l’introduzione di
implicazioni reciproche tra le partizioni stesse.
Questa configurazione più ‘integrata’ delle parti si presta a ospitare l’articolazione di ragionamenti e
argomentazioni, in genere secondo una linea di sviluppo logico che procede dalla principale alla
subordinata.
 Intonazione piana, ragionativa
 Dominio delle subordinate causali e consecutive (entrambe esprimono una relazione causa-effetto)

Il sonetto stilnovista: causali e consecutive

Tanto le consecutive quanto le causali aiutano a illustrare secondo una logica precisa processi e fenomeni
legati all’amore.
Le consecutive esprimono gli effetti di date premesse, mentre le causali (in genere posposte) descrivono la
causa di un dato fatto o fenomeno.
Nelle consecutive l’effetto (subordinata) deve necessariamente seguire la causa (principale), mentre con
l’ordine consentito dalle causali l’effetto (principale) può precedere la causa (subordinata).
‘Oggettivazione’ di amore e della sua fenomenologia: osservazione e analisi dell’esperienza amorosa come
un processo oggettivo, fisiologico, di ordine generale; ma, rispetto ai Siciliani, con una maggiore incidenza
della dimensione soggettiva, specie in Cavalcanti e in Dante.

Il sonetto stilnovista: temi principali

Dal punto di vista tematico, bisogna riconoscere:


• le continuità tra i sonetti di Giacomo da Lentini, quelli di Guido Guinizelli e quelli stilnovistici della
lode. Gli elementi tematici e formali legati al tema della lode accomunano questi poeti.
• le discontinuità nel trattamento del tema amoroso, in direzione sia ‘oggettiva’ sia ‘soggettiva’
• maggiore insistenza su elementi attinti al sapere medico e filosofico;
• nuova dimensione etica del discorso amoroso;  il modo di rapportarsi con la donna amata
viene messo in relazione con la nobiltà d’animo.
• maggiore adesione a un’esperienza dai tratti almeno in parte individuali. Tutta la poesia
medievale è “sincera”: nel patto tra autore e pubblico si dà per presupposto che il poeta sia
sincero. La poesia medievale è fatta di formule e convenzioni .

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Qualche precisazione

La lirica amorosa del Medioevo si fonda sul presupposto della sincerità.


• Da un lato, il poeta si attende e dà per scontato che i suoi lettori (o ascoltatori) ricolleghino il
contenuto del suo discorso lirico a una sua (presunta) esperienza personale, a un fatto o a una
situazione della sua vita: cioè che lo ritengano ‘sincero’.
• Dall’altro, il poeta costruisce il suo discorso secondo modelli e forme legati a precisi generi (metrici e
tematici), ricorrendo a situazioni codificate e a un linguaggio altamente convenzionale.
Si tratta di «un io che si presenta come individuale ma che […] si esprime come un io collettivo. […]
potremmo parlare di autobiografismo impersonale».
(M. Santagata, L’io e il mondo. Un’interpretazione di Dante, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 179).

Guido Guinizelli (n. 1230 ca. - m. ante 1276) – precursore dello stilnovismo

Io voglio del ver la mia donna laudare ABAB ABAB CDE CDE
ed asembrarli la rosa e lo giglio:
più che stella dïana splende e pare,
e ciò ch'è lassù bello a lei somiglio.
Verde river’a lei rasembro e l’âre,
tutti color di fior’, giano e vermiglio,
oro ed azzurro e ricche gioi per dare:
medesmo Amor per lei rafina meglio. [rima siciliana]
Passa per via adorna, e sì gentile
ch’abassa orgoglio a cui dona salute,
e fa ’l de nostra fé se non la crede;
e no·lle pò apressare om che sia vile;
ancor ve dirò c’ha maggior vertute:
null’om pò mal pensar fin che la vede.

Spiegazione: schema a rime alternate nelle quartine, tipico dei sonetti di Guinizelli. “Meglio” è legato alla
rima siciliana. Quando questi testi siciliani vengono tradotti in toscano, la rima diventa imperfetta. Quando
la stranezza non viene percepita come errore ma rima legittima, allora si parla di rima siciliana. Il discorso
vale per le rime tra “i” e “e” chiusa e “u” e “o” chiusa.
“Voglio lodare la mia donna secondo la verità e associarle la rosa e il giglio” / “si palesa luminosa più della
stella diana (stella del mattino, del pianeta Venere)” / “e paragono a lei le bellezze celesti”.
“Paragono a lei le campagne verdi e l’aria, l’oro e l’azzurro e le ricche gioie da donare” / “persino l’amore
diventa migliore grazie a lei”
Nelle terzine il soggetto è la donna: “Rende umili coloro che lei salutano/provoca salute” / “lo converte alla
nostra fede se lui non crede” / “non le si può avvicinare qualcuno che non abbia nobiltà interiore” / “e vi dirò
che ha ancora un’altra virtù: nessuno può pensare male dal momento in cui la vede”
Le parole in grassetto sottolineano ciò che il poeta sta facendo, la sua volontà nel voler raccontare e
testimoniare le qualità della donna. Queste parole sono quasi tutte all’inizio, nella seconda parte viene
accantonato l’aspetto comparativo e viene lasciato più spazio alla donna.
Dal punto di vista sintattico non ci sono grandi particolarità, la sintassi è abbastanza lineare.

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Guido Guinizelli (n. 1230 ca. - m. ante 1276)

Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo ABAB ABAB CDE CDE


che fate quando v’encontro, m’ancide:
Amor m’assale e già non ha reguardo
s’elli face peccato over merzede,
ché per mezzo lo cor me lanciò un dardo 5
ched oltre ‘n parte lo taglia e divide;
parlar non posso, ché ’n pene io ardo
sì come quelli che sua morte vede.
Per li occhi passa come fa lo trono,
che fer’ per la finestra de la torre 10
e ciò che dentro trova spezza e fende:
remagno como statua d’ottono,
ove vita né spirto non ricorre,
se non che la figura d'omo rende.

Spiegazione: questo sonetto è rivolto direttamente alla donna, vi è un’apostrofe diretta verso essa. Al
secondo verso c’è una sfasatura tra la fine del verso e il compimento sintattico: il soggetto è separato dal
verbo nella metrica e si trova in un altro verso; si tratta di enjambement o inarcatura.
“L’amore mi attacca e non si cura se fa qualcosa di sbagliato o di buono” / “perché mi scagliò una freccia in
mezzo al cuore che lo trapassa e lo divide in due parti” / “non posso parlare perché io brucio nelle sofferenze
amorose come colui che sta per morire” (pseudo-paragone)
Nella seconda parte ci si sofferma maggiormente sull’esperienza visiva. “Passa attraverso gli occhi come fa il
fulmine che entra dalla finestra e rompe ciò che c’è all’interno.” / “rimango come una statua di ottone dove
non ricorre né vita né respiro ma rende la figura di un uomo”.

Guido Cavalcanti (1259 ca. -1300) – ci restano una cinquantina di testi di Cavalcanti

Voi che per li occhi mi passaste ’l core ABBA ABBA CDE CDE
e destaste la mente che dormìa,
guardate a l’angosciosa vita mia,
che sospirando la distrugge Amore. 4
E’ vèn tagliando di sì gran valore,
che ’ deboletti spiriti van via:
riman figura sol en segnoria
e voce alquanta, che parla dolore. 8
Questa vertù d’amor che m’ha disfatto
da’ vostr’occhi gentil’ presta si mosse:
un dardo mi gittò dentro dal fianco. 11
Sì giunse ritto ’l colpo al primo tratto
che l’anima tremando si riscosse
veggendo morto ’l cor nel lato manco.

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Spiegazione: schema a rime incrociate, che è più comune per gli stilnovisti. “voi che mi trafiggeste con gli
occhi con il cuore” / “e risvegliaste la mia mente che dormiva” / “guardate la mia vita piena di angoscia” /
“perché amore la distrugge tra i sospiri”.
“Egli (Amore) avanza tagliando con tanta violenza che gli spiriti vitali scappano (l’amore blocca le funzioni
vitali) / “rimane solo la parvenza a dominare”
“questa virtù d’amore che mi ha distrutto partì dai vostri occhi” / “una freccia mi scagliò nel fianco” / “il
colpo arrivò così dritto al primo tiro d’arco “ / “che (consecutiva) l’anima ebbe un sussulto vedendo ucciso il
cuore nel lato sinistro.”
Rispetto al testo di Guinizelli c’è un invito esplicito della donna a considerare la condizione del poeta.

Guido Cavalcanti (1259 ca. -1300)

Tu m’hai sì piena di dolor la mente, ABAB ABAB CDE CDE


che l’anima si briga di partire,
e li sospir’ che manda ’l cor dolente
mostrano agli occhi che non può soffrire. 4
Amor, che lo tuo grande valor sente,
dice: «E’ mi duol che ti convien morire
per questa fiera donna, che nïente
par che pietate di te voglia udire». 8
I’ vo come colui ch’è fuor di vita,
che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia
fatto di rame o di pietra o di legno, 11
che si conduca sol per maestria
e porti ne lo core una ferita
che sia, com’egli è morto, aperto segno.

Spiegazione: “tu mi hai riempito così tanto la mente di dolore” / “al punto che l’anima ha fretta di
andarsene” / “e i sospiri che emana il cuore sofferente” / “mostrano agli occhi (degli altri) che non può
sopportare”
“Amore (protagonista personificato) che avverte il tuo grande potere dice: ‘mi dispiace che tu debba morire
per questa donna feroce che pare non ha pietà nei tuoi confronti’ / “Io (altro soggetto) mi comporto come
colui che è senza vita” / “che (relativa) sembra a chi lo guarda che sia un uomo fatto di rame, o di pietra, o
di legno.” / “che (relativa) si muova solo per maestria” / “e porti nel cuore una ferita che (relativa) sia segno
evidente di come sia stato ucciso.”

Giacomo da Lentini e Dante: un confronto


Cfr. Claudio Giunta, Ancora su Dante lirico (2013).

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Madonna à ’n sé vertute con valore


più che nul’altra gemma prezïosa:
che isguardando mi tolse lo core,
4 cotant’è di natura vertudiosa.
Più luce sua beltate e dà sprendore
che non fa ’l sole né null’autra cosa;
de tutte l’autre ell’è sovran’e frore,
8 che nulla apareggiare a lei non osa.
Di nulla cosa non à mancamento,
né fu ned è né non serà sua pare,
11 né ’n cui si trovi tanto complimento;
e credo ben, se Dio l’avesse a fare,
non vi metrebbe sì su’ ’ntendimento
che la potesse simile formare.

Spiegazione: sonetto di lode, non rivolto alla donna. È costruito per addizione di elementi che sono
analoghi. È un testo laico che risente di riferimenti religiosi, come l’accumulo di elogio assoluto.

Dante, Vita nova, 17 (XXVI)

«Questa gentilissima donna, di cui ragionato è nelle precedenti parole, venne in tanta gratia delle genti, che
quando passava per via, le persone correvano per vedere lei, onde mirabile letitia me ne giugnea nel cuore.
E quando ella fosse presso d’alcuno, tanta onestà giugnea nel cuore di quello, che non ardia di levare gli
occhi, né di rispondere al suo saluto. E di questo molti, sì come esperti, mi potrebbono testimoniare a chi
no.llo credesse.
Ella coronata e vestita d’umiltà s’andava, nulla gloria mostrando di ciò ch’ella vedea e udia. Diceano molti,
poi che passata era: «Questa non è femina, anzi è de’ bellissimi angeli del cielo». E altri diceano: «Questa è
una maraviglia; che benedecto sia lo Signore, che sì mirabilemente sa operare!».
Io dico che ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano in
loro una dolcezza onesta e soave tanto, che ridire no.llo sapeano; né alcuno era lo quale potesse mirare lei,
che nel principio nol convenisse sospirare.
Queste e più mirabili cose da.llei procedeano virtuosamente. Onde io pensando a.cciò, volendo ripigliare lo
stilo della sua loda, propuosi di dicere parole nelle quali io dessi ad intendere delle sue mirabili ed excellenti
operationi, acciò che non pur coloro che la poteano sensibilemente vedere, ma gli altri sappiano di lei quello
che le parole ne possono fare intendere. Allora dissi questo sonetto Tanto gentile».

Giacomo da Lentini e Dante: un confronto


Cfr. Claudio Giunta, Ancora su Dante lirico (2013).

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Tanto gentile e tanto onesta pare


la donna mia, quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua devèn, tremando, muta,
4 e li occhi no l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta,
e par che sia una cosa venuta
8 da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la mira
che dà per li occhi una dolcezza al core,
11 che ’ntender no la può chi no la prova;
e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira.

Spiegazione: il sonetto presenta delle coordinate spazio-temporali. “Mostrasi…”  poliptoto, ossia


ripetizione dello stessa parola ma con due funzioni diverse. Le frecce che vanno a capo indicano gli
enjambement, mentre le frecce corte indicano le subordinate consecutive con la stessa struttura logica.
La sintassi è distribuita in maniera ordinata a livello di partizioni.

01/03/2022

Lezione 4 – Il sonetto di Petrarca

«Sonetto a valenza libera» vs «sonetto-monade» (Gorni 1993)

• «sonetto-monade» (unità in sé completa, indipendente)


Petrarca importa un’innovazione, il canzoniere, una raccolta di sonetti. Il sonetto entra in relazione
con altri sonetti e con altri testi. Petrarca riesce ad integrare i sonetti in maniera perfetta all’interno
di una scrittura monologica.
In Petrarca:
• Sonetto come parte di una struttura fondata sull’aggregazione polimetrica
• Sonetto come organismo in origine concepito ‘in dialogo’ con altri (sonetti di corrispondenza) e poi
isolato e inglobato in una struttura ‘per voce sola’

È realistico pensare che Petrarca scrivesse già prima del Canzoniere ma abbiamo rime attestate solo dagli
anni ’20.

Le rime di Francesco Petrarca (1304-1374) prima del Canzoniere

La revisione delle rime in volgare comincia negli anni trenta del Trecento e una prima raccolta viene
trascritta nel 1342, ma il vero progetto dei Rerum vulgarium fragmenta prende avvio solo dopo il 1348.
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Diverse forme della raccolta si succedono


tra la fine degli anni cinquanta e la morte (1374).
I due testimoni più importanti:
Ms. Vat. Lat. 3195 (>)
Rerum vulgarium fragmenta
autografo-idiografo
Ms. Vat. Lat. 3196 (‘codice degli abbozzi’)
autografo con postille

Petrarca continuò a lavorare nel mondo della poesia fino agli ultimi mesi della sua vita ed il Vaticano Latino
è una delle testimonianze più importanti dell’autore. Il testo è in parte idiografo e autografo. Il Codice degli
Abbozzi, invece, è interamente autografo ed è una sorta di brutta copia.

Una svolta esistenziale e poetica: il 1348

Fam. I 1 a ‘Socrate’ (Ludwig van Kempen), 1350


• La consapevolezza del tempo che scorre
• 1348: l’anno di perdite irreparabili dovute alla Peste Nera.
• L’esigenza di ordinare i propri beni, tra i quali scritti sparsi e trascurati
Progetto: raccogliere e ordinare ‘i frammenti dell’anima’
> costruzione di un’immagine di sé attraverso tre raccolte (Familares, Epystole, Rerum vulgarium fragmenta)

Nel Maggio del 1348, una lettera dell’amico Van Kempfen giunse a Petrarca. In questa lettera gli viene
comunicata la morte di Laura, avvenuta il 6 Aprile dello scorso anno. Nel Luglio dello scorso anno gli giunge
la notizia della morte del cardinale Giovanni Colonna, amico fidato del poeta.
Petrarca, in seguito a questi lutti, scrive “A Socrate”, nel 1350. In questo componimento, Petrarca comunica
la consapevolezza del tempo che trascorre e si domanda a cosa valga la pena dedicarsi. Da qui nasce l’idea
di raccogliere i frammenti sparsi che corrispondono ai frammenti sparsi della sua anima. Per ordinare e
mettere in ordine, Petrarca prende come punto di riferimento “Le Confessioni di Sant’Agostino”.

Autobiografia e conversione: dalle ineptiae al racconto esemplare

Un modello fondamentale: le Confessioni di Sant’Agostino (354-430)


La conversione come paradigma narrativo:
• prima/ora
• ero/sono
Petrarca definisce le proprie rime «iuveniles ineptiae» (‘inezie giovanili’, Fam. VIII 3), ma continua a
riscriverle e a riordinarle, ben oltre i limiti della giovinezza.

«Le rime sparse per Laura sono […] nugae [‘sciocchezze, cose da poco’] […]: la loro riunione in un libro
organico avrà appunto lo scopo e l’effetto di arricchirle, attraverso la narrazione, di un sovrasenso morale.
[…]
Raccolte insieme nel libro, le rime sparse […] si votano ad un altro scopo: non delectare [‘dilettare’] ma
prodesse [‘giovare’] attraverso il racconto di una vita esemplare».
(C. Giunta, Versi a un destinatario, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 462-463)

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Petrarca inscena un dialogo con lo stesso Agostino. Quali sono gli strumenti per un racconto lirico senza
usare la prosa?

La costruzione di un ‘racconto’ lirico nei Rvf

• Divisione in due parti (1-263; 264-366)  per secoli si pensava ad una divisione tra la vita e la morte
di Laura ma non è esattamente così (Laura muore a pagina 267). L’ipotesi più probabile è il voler far
precedere il pentimento della morte di Laura.
• Componimenti di anniversario
• Sonetto con funzione proemiale
• «Connessioni intertestuali» tra testi contigui (connessioni «di trasformazione» e «di equivalenza»,
secondo M. Santagata, Dal sonetto al canzoniere. Ricerche sulla preistoria e la costituzione di un
genere, 1979)

Macrotesto

Definizione: «[…] testi con totale o parziale autonomia vengono raggruppati in un testo più ampio, un
macrotesto».
Es.
«composizioni liriche poi inserite dall’autore in opere prosastiche o combinate secondo un disegno
complessivo in un canzoniere»
«novelle pubblicate sparsamente, poi raccolte da un autore secondo un disegno preciso, e magari
inquadrate in una cornice».
«Lettere private, poi raccolte in epistolario dall’autore, secondo epoche, destinatari, argomenti, ecc.»
Cesare Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario (1985), p. 40

Come lo intendiamo noi: «[…] unità semiotica superiore al testo […]. Tale concetto è applicabile, in
determinate condizioni soltanto, a una raccolta di testi poetici o prosastici di un medesimo autore; in altre
parole una raccolta di rime o di racconti può essere un semplice insieme di testi riuniti per motivazioni
diverse, o configurarsi essa stessa come un grande testo unitario, macrotesto per l’appunto».
«1) se esiste una combinatoria di elementi tematici e/o formali che si attua nella organizzazione di tutti i
testi e produce l’unità della raccolta;
2) se vi è addirittura una progressione di discorso per cui ogni testo non può stare che al posto in cui si
trova».
Maria Corti, Testi o macrotesto? I racconti di Marcovaldo, in «Strumenti critici», IX, 27 (1975), pp. 182-197
(pp. 185-186).

I sonetti nei Rvf

Quanti?
317 sonetti distribuiti in modo vario
(contro 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate, 4 madrigali)
Talvolta formano dittici (es. 45-46, 77-78) o trittici (es. 41-43, 199-201) o serie

I sonetti nei Rvf: schemi rimici

15 schemi in tutto, che diventano 11 se escludiamo gli unici 4 sonetti (su 317) che adottano uno schema
anomalo nella fronte.

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Fronte
ABBA ABBA (303)  la fronte a rime alternate domina
ABAB ABAB (10)
Sirma
CDE CDE (121)
CDC DCD (114)
CDE DCE (66)
CDC CDC (10)
CDD DCC (4)
CDE DEC (1)
CDE EDC (1)

I sonetti nei Rvf: schemi principali

ABBA ABBA CDE CDE (116)


ABBA ABBA CDC DCD (109)
ABBA ABBA CDE DCE (65)
= 290 (più del 90% del totale dei sonetti)  Petrarca non è un grande sperimentatore nel campo metrico

Il sonetto di Petrarca negli studi più recenti

N. Tonelli, Varietà sintattica e costanti retoriche nei sonetti dei «Rerum vulgarium fragmenta», Firenze,
Olschki, 1999
La metrica dei Fragmenta, a cura di M. Praloran, Padova, Antenore, 2003
A. Soldani, La sintassi del sonetto. Petrarca e il Trecento minore, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2009

LEZIONE 5 – I Sonetti di Petrarca (2)

Tipologia sintattica dei sonetti (Soldani 2009)

Soldani cerca di descrivere il rapporto tra sintassi e delle partizioni nei sonetti di Petrarca.

Tipo 1: 4+4+3+3
Tipo 2: 8+6
Tipo 3: 8+3+3
Tipo 4: 4+4+6
Tipo 5: monoperiodale
Tipo 6: 11+3
Tipo 7: 4+10
Tipo 8: 4+7+3
Tipo 9: altre misure interne

Tipologia sintattica dei sonetti (Soldani 2009) – in ordine di frequenza

Tipo 1: 4+4+3+3
Tipo 3: 8+3+3
Tipo 4: 4+4+6
Tipo 8: 4+7+3

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Tipo 2: 8+6
Tipo 6: 11+3
Tipo 9: altre misure interne
Tipo 7: 4+10
Tipo 5: monoperiodale
La distribuzione quantitativa è in linea con quella degli stilnovisti, cioè, dal tipo più frequente al meno
frequente: 1, 3, 4, 8, 2, 6, 9, 7, 5. Queste misure sono le stesse degli stilnovisti, non presentano nulla di
particolare da questo punto di vista.

Tipo 1: 4+4+3+3 (58%)

Più del 50% dei sonetti, ma l’omogeneità dello schema è moderata e controbilanciata da:
• le molte possibilità di variazione all’interno di ciascuna parte;
• i meccanismi retorici ai quali Petrarca spesso ricorre in questi casi per collegare partizioni che
restano sintatticamente separate (usa soprattutto varie forme di ripresa lessicale e di parallelismo).

Tipo 2: 8+6 (4%)

Il doppio legamento, tra le due quartine e tra le due terzine, genera una bipartizione del sonetto (es. 48).
Gli stilnovisti interpretavano questa bipartizione come «sviluppo, e al limite […] duplicazione, del tema del
componimento» (es. Dante, Venite a intender li sospiri miei e molti sonetti di Cino da Pistoia, con avverbi
che esprimono relazioni di causa-effetto collocati in apertura della sirma), mentre in Petrarca prende
piuttosto la via dell’antitesi, in due casi mediata da ma (es. 8).
«a differenza di quanto accadeva in Dante, il movimento qui non è progressivo ma sostanzialmente
antinomico, il primo motivo esposto nelle quartine lascia il posto a un secondo motivo naturalmente
correlato ma di colore opposto, antitetico» (Praloran).

Tipo 3: 8+3+3 (14%)

La combinazione di fronte continua e sirma divisa riproduce, sul piano sintattico, la divisione propria dello
schema siciliano.
In Petrarca, tale organizzazione può corrispondere, ad esempio, a:
• un’opposizione (cfr. tipo 2; es. 1, 78)
• una scansione logica (es. 64, 108)
• i tre movimenti di un’argomentazione (es. 116, 141)

Tipo 3: 8+3+3 – es. Rvf 1

Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono


di quei sospiri ond'io nutriva 'l core
in sul mio primo giovenile errore
quand'era in parte altr'uom da quel ch'i' sono,
del vario stile in ch'io piango e ragiono
fra le vane speranze e 'l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.
Ma ben veggio or sí come al popol tutto

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favola fui gran tempo, onde sovente


di me medesmo meco mi vergogno;
e del mio vaneggiar vergogna è 'l frutto,
e 'l pentersi, e 'l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.

Tipo 3: 8+3+3 – es. Rvf 64

Se voi poteste per turbati segni,


per chinar gli occhi, o per piegar la testa,
o per esser piú d'altra al fuggir presta,
torcendo 'l viso a' preghi onesti e degni,
uscir già mai, over per altri ingegni,
del petto ove dal primo lauro innesta
Amor piú rami, i' direi ben che questa  direi (principale), forte correlazione tra le quartine.
fosse giusta cagione a' vostri sdegni:
che gentil pianta in arido terreno
par che si disconvenga, e però lieta
naturalmente quindi si diparte;
ma poi vostro destino a voi pur vieta
l' esser altrove, provedete almeno
di non star sempre in odïosa parte.

Tipo 3: 8+3+3 – es. Rvf 116

Pien di quella ineffabile dolcezza


che del bel viso trassen gli occhi miei
nel dí che volentier chiusi gli avrei
per non mirar già mai minor bellezza,
lassai quel ch’i’ piú bramo; e ho sí avezza
la mente a contemplar sola costei,
ch'altro non vede, e ciò che non è lei
già per antica usanza odia e disprezza.
In una valle chiusa d'ogni 'ntorno,
ch'è refrigerio de' sospir miei lassi,
giunsi sol cum Amor, pensoso e tardo.
Ivi non donne, ma fontane et sassi,
e l'imagine trovo di quel giorno
che 'l pensier mio figura, ovunque io sguardo.

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Spiegazione: “Lassai” è il verbo principale ma arriva solo al quinto verso. Di conseguenza tutto il resto del
sonetto è collegato al verbo, creando forte attesa nel lettore. La seconda terzina è una sorta di sintesi della
prima terzina e della seconda quartina.

Tipo 4: 4+4+6 (11%)

Con fronte divisa e sirma continua, risulta complementare al tipo 3, al quale è vicino nella frequenza e
nell’uso.
Es. 2, 21, 44

Tipo 4: 4+4+6 – es. Rvf 2

Per fare una leggiadra sua vendetta,


e punire in un dí ben mille offese,
celatamente Amor l'arco riprese,
come uom ch'a nocer luogo e tempo aspetta.
Era la mia virtute al cor ristretta
per far ivi et negli occhi sue difese,
quando 'l colpo mortal là giú discese
ove solea spuntarsi ogni saetta.
Però, turbata nel primiero assalto,
non ebbe tanto né vigor né spazio
che potesse al bisogno prender l'arme,
overo al poggio faticoso e alto
ritrarmi accortamente da lo strazio
del quale oggi vorrebbe, e non pò, aitarme.

Spiegazione: per vendicarsi e punire in un solo giorno mille offese, di nascosto Amore riprese l’arco come
uno che si mette in attesa per sferrare il colpo. Quindi la prima quartina si concentra sull’attacco di Amore.
La seconda quartina si concentra sulla reazione dell’io. La freccia colpisce dove prima nessuna freccia lo
aveva fatto. “Però” è usato come “Perciò”, è una causale. “Oggi” è indicativo di un punto di vista con cui il
passato viene visto attraverso altri occhi.

Tipo 5: monoperiodale (1%)

4 sonetti di un unico periodo, costruiti per aggiunzione di elementi equivalenti o simili e con effetto di
«detonazione» finale (Renzi 1988)
100, 213, 224, 351

Petrarca, pur non inventando il sonetto monoperiodale, lo perfeziona.

Tipo 5: monoperiodale – es. Rvf 213

Grazie ch'a pochi il ciel largo destina,


rare vertú, non già d'umana gente,
sotto biondi capei canuta mente,
e 'n umil donna alta beltà divina;
leggiadria singulare e pellegrina,

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e 'l cantar che ne l'anima si sente,


l'andar celeste, e 'l vago spirto ardente,
ch'ogni dur rompe e ogni altezza inchina;
e que' belli occhi che i cor' fanno smalti,
possenti a rischiarar abisso e notti,
e tôrre l'alme a' corpi, et darle altrui;
col dir pien d'intelletti dolci e alti,
coi sospiri soavemente rotti:
da questi magi transformato fui.

Spiegazione: le qualità che “trasformano” il poeta sono tutte elencate prima della frase in grassetto. Vi è
una sorta di lista tra qualità interiori ed esteriori.

Tipo 5: monoperiodale – es. Rvf 100

Quella fenestra ove l'un sol si vede,


quando a lui piace, e l'altro in su la nona;
e quella dove l'aere freddo suona
ne' brevi giorni, quando borrea 'l fiede;
e 'l sasso, ove a’ gran dí pensosa siede
madonna, e sola seco si ragiona,
con quanti luoghi sua bella persona
coprí mai d'ombra, o disegnò col piede;
e 'l fiero passo ove m'agiunse Amore;
e la nova stagion che d'anno in anno
mi rinfresca in quel dí l'antiche piaghe;
e 'l volto, e le parole che mi stanno
altamente confitte in mezzo 'l core,
fanno le luci mie di pianger vaghe.

Tipo 6: 11+3 (3%)

La bipartizione è qui decentrata, con un forte sbilanciamento nella struttura.


L’isolamento della seconda terzina viene sfruttato ai fini dell’argomentazione.
Es. 34, 146, 301, 312, 347, 348

Tipo 6: 11+3 – es. Rvf 348

Da' piú belli occhi, e dal piú chiaro viso


che mai splendesse, e da' piú bei capelli,
che facean l'oro e 'l sol parer men belli,
dal piú dolce parlare e dolce riso,
da le man, da le braccia che conquiso
senza moversi avrian quai piú rebelli
fur d'Amor mai, da' piú bei piedi snelli,
da la persona fatta in paradiso,
prendean vita i miei spirti: or n’ha diletto
il Re celeste, i Suoi alati corrieri;
e io son qui rimaso ignudo et cieco.
Sol un conforto a le mie pene aspetto:
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ch'ella, che vede tutti miei penseri,


m'impetre grazia, ch'i' possa esser seco.

Spiegazione  Il soggetto è diviso tra il 1 e l’11esimo verso


v. 9 Bellezze di Laura enumerate. Ad ognuna corrisponde una relativa
Dalle bellezze di Laura, i miei spiriti prendono vita → come le bellezze (ormai morte con Laura) gli venissero
sottratte, Ora la possono vedere gli angeli e Dio → ora loro possono compiacersi alla vista di Laura
Io (petrarca) sono rimasto l’unico cieco → ogni suo bene derivava da Laura, dalla sua bellezza
Privazione di lei → lui attende un conforto alle sue sofferenze
Conforto → che lei che vede tutti i miei pensieri, con la grazia posso ricongiungermi con lei (dalla vita alla
morte). Immaginando che lei possa pregare per lui, il quale la possa raggiungere

Tipo 7: 4+10 (2%)

Complementare al tipo 6, presenta uno sbilanciamento analogo ma inverso.


Secondo e terzo sonetto del trittico del guanto (199-201): 200 e 201, con funzione di ripresa del tema, che
in entrambi risulta isolato nella quartina in apertura.
Primo e ultimo dei testi sul presentimento della morte di Laura: 246 e 254, con funzione simile a quella
appena descritta.

Tipo 8: 4+7+3 (5%)

Crea una tripartizione quantitativamente disomogenea.


La parte centrale a volte esprime la causa di ciò che viene illustrato nelle due parti estreme (es. 57, 252,
255), ma anche con deviazioni e contraddizioni (es. 35).
I sonetti con questa struttura tendono a disporsi a coppie, di solito tenute insieme anche da legami di tipo
tematico (es. 260-261 e 364-365).

Tipo 8: 4+7+3 – es. Rvf 364

Tennemi Amor anni ventuno ardendo,


lieto nel foco, et nel duol pien di speme;
poi che madonna e 'l mio cor seco inseme
saliro al ciel, dieci altri anni piangendo.
Omai son stanco, e mia vita reprendo
di tanto error che di vertute il seme
ha quasi spento, e le mie parti estreme,
alto Dio, a Te devotamente rendo:
pentito e tristo de' miei sí spesi anni,
che spender si deveano in miglior uso:
in cercar pace e in fuggir gli affanni.
Signor che 'n questo carcer m’hai rinchiuso,
tràmene, salvo da li eterni danni,
ch'i' conosco 'l mio fallo, e non lo scuso.

Spiegazione  Siamo in un luogo molto vicino alla fine, ossia dove il pentimento del sentimento dell'uomo
vecchio/nuovo è quasi compiuto
1. Che mi tenne nel foco d’amore per 21 anni
2. felice nel fuoco d’amore e speranzoso nel dolore
3. poi che Laura e il mio cuore assieme

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4. dieci altri anni piangendo → i dieci anni dalla morte di Laura


(1348-1358)
dopo 31 anni che ha conosciuto Laura e la consapevolezza che c’è
5. ormai sono stanco, biasimo la mia vita
6. di tanto errore
Rivolgersi a dio in maniera diretta
9. Anni sprecati dietro a vani speranze e vani desideri che dovevano essere dedicati ad un fine migliore
Ultima terzina → preghiera: signore che mi hai rinchiuso in questo carcere (metaforicamente), toglimi da
questa
prigione. Consapevolezza della mia colpa.

Tipo 8: 4+7+3 – es. Rvf 35

Solo e pensoso i piú deserti campi


vo mesurando a passi tardi e lenti,
e gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio uman l'arena stampi.
Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d'alegrezza spenti
di fuor si legge com'io dentro avampi:
sí ch'io mi credo omai che monti e piagge
e fiumi e selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch'è celata altrui.
Ma pur sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so, ch'Amor non venga sempre
ragionando con meco, e io con lui.

Spiegazione  Logica delle prime due parti contraddetta dalla parte finale. I primi 7 versi dicono una cosa,
ma l’ultima terzina contraddice ciò che è detto nelle due quartine
1. Percorro a passi lenti/gravati, immerso nei pensieri
2. i luoghi deserti
3. volgo gli occhi attenti a fuggiti in luoghi
4. dove traccia umana lasci traccia nella terra → cerco di essere in assoluta solitudine
5. Altro riparo (diverso dall’isolarsi) non trovo che mi salvi
6. dalla chiara percezione della gente
7. perchè nei suoi atti privi di allegria
8. si vede all'esterno come io dentro bruci
9. che credo ormai che monti, piagge e fiumi
10. sappiamo di che tenore sia la mia via (perfino gli elementi naturali lo sanno)
11. che è nascosta agli altri
12. Ma eppure non so trovare vie così isolate
13. che Amore comunque non venga
14. a parlare con me ed io con lui

Tipo 9: altre misure interne (2%)

6 sonetti che si basano su una espansione per aggiunzione di subordinate (9-10) o di vocativi (162, 303),
chiusa da una conclusione autonoma, a volte di tono sentenzioso.
L’effetto che si crea non è lontano dal tipo 5 (monoperiodale).
9+3+2 (9-10)
12+2 (162)

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12m+m1 (74 e 303) [m= presenza di un emistichio sintatticamente connesso al periodo che lo segue o che
lo precede]
13+1 (285, caso a sé per la complessità della sintassi)

Tipo 9 – es. Rvf 303

Amor che meco al buon tempo ti stavi


fra queste rive, a' pensier' nostri amiche,
e per saldar le ragion nostre antiche
meco e col fiume ragionando andavi;
fior', frondi, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi,
valli chiuse, alti colli e piagge apriche,
porto de l’amorose mie fatiche,
de le fortune mie tante, e sí gravi;
o vaghi abitator de' verdi boschi,
o ninfe, e voi che 'l fresco erboso fondo
del liquido cristallo alberga e pasce:
i dí miei fur sí chiari, or son sí foschi,
come Morte che 'l fa; cosí nel mondo
sua ventura ha ciascun dal dí che nasce.

Spiegazione  Vocativi → varie entità a cui il poeta fa riferimento. Non c’è intenzione di chiedere il loro
ascolto
1. Amore che stavi con me quando Laura era viva
5. spazio petrarchesco tipico. Sono stati luoghi, porto delle sue sofferenze amorose
Dopo i luoghi, Petrarca si rivolge agli abitatori di quei luoghi (fiori + pesci)
12. antitesi: contrapposizione tra vita / morte
Come è scura la morte che ne causa oscurità
11. Così nel mondo della vita terrena
12. Ciascuno ha la propria sorte nel giorno in cui nasce
Da un piano individuale (Petrarca) → lutto universale: piano che la vita ha in serbo per ognuno di noi
(=morte)

Tipo 9 – es. Rvf 74

Io son già stanco di pensar sí come


i miei pensier in voi stanchi non sono,
e come vita ancor non abbandono
per fuggir de’ sospir sí gravi some;
e come a dir del viso e de le chiome
e de' begli occhi, ond'io sempre ragiono,
non è mancata omai la lingua e 'l suono
dí e notte chiamando il vostro nome;
e che ' pie' miei non son fiaccati e lassi
a seguir l'orme vostre in ogni parte
perdendo inutilmente tanti passi;
e onde vien l' enchiostro, onde le carte
ch'i' vo empiendo di voi: se 'n ciò fallassi,
colpa d' Amor, non già defetto d'arte.

Spiegazione  Tutti i punti dipendono dallo stesso verbo principale = io son già stanco di pensar
1. io sono ormai stanco di pensare (:)
2. che (si come) i miei pensieri non son stanchi di pensare a voi
3. che ancora non abbandono la vita
4. per evitare il peso insostenibile dei sospiri →quartine: fatica di pensare
5. che a dire del viso e dei capelli
6. e (che) io sempre ragiono dei begli occhi
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7. che non è mancata la lingua e la voca


8. a forza di parlare di voi
9. chiamando tutto il tempo il vostro nome
10. che i miei piedi non sono provati e stanchi → terzine: fatica dire / scrivere
11. a forza di seguire le vostre orme ovunque
12. sprecando tanti passi
13. (son stanco di pensare) da dove viene l'inchiostro, le carte
14. che continuo ad usare a parlar di voi; se in questo io fallissi (nel suo scrivere di voi, ossia laura)
15. sarebbe colpa di Amore, non già difetto di arte

Le principali strategie di orchestrazione sintattica

• Prevalenza numerica di soluzioni ‘medie’, dove le unità periodiche tendono a corrispondere alle unità
metriche
• Tendenza a protrarre la linea discorsiva oltre i confini metrici e a perturbare l’ordine diretto del
periodo (ad es. con interposizioni o con l’anticipazione della subordinata), con un effetto che si
somma a quello dell’ordine alterato della singola frase
• Ampio ricorso all’enumerazione e alla paratassi, con ripetizioni e parallelismi

Le principali innovazioni

1. Anteposizione della subordinata alla principale


2. Riduzione di causali e consecutive
3. Aumento delle condizionali

1. Anteposizione della subordinata alla principale

Considerando i legami subordinativi, prima di Petrarca la sequenza principale-subordinata domina, mentre in


lui la proporzione si rovescia tranne tra seconda quartina e prima terzina.
«l’anteposizione, sia o no normale [cioè risponda all’ordine ‘naturale’, cioè preferito, per date proposizioni],
crea sempre e comunque nel lettore un’attesa di completamento della struttura sintattica, che non si
esaurisce fino alla comparsa della principale […]. Sicché, stilisticamente, la preferenza per la risalita della
subordinata comporterà un effetto generale di tensione […]; mentre la posposizione […] è piuttosto
avvertita come aggiunzione di un ulteriore blocco frastico a una struttura per sé già compiuta e autoportante»
(Soldani 2009, pp. 39-40)

Lezione 6 – Il sonetto di Petrarca (3)

2-3. Più condizionali e meno causali e consecutive

«[…] crescita evidentissima delle condizionali, che da un lato favoriscono l’anticipazione della dipendente
[…], dall’altro […] sottopongono a condizione, e problematizzano, il rapporto di causa-effetto […].
Tradotto in termini di fisiologia erotica petrarchesca, ciò significa anzitutto che […] il periodo ipotetico
configuri l’azione amorosa di Laura, e tipicamente il suo sguardo, come un’eventualità non controllabile
(quanto diversa – che so - dall’aspetto abituale dei presenti che descrivono gli atti di Beatrice nei sonetti
della loda […]), aprendo uno spazio di incertezza nel meccanismo ‘oggettivo’ dell’amore stilnovista.
Sicché anche gli effetti subìti dal poeta, e trascritti nell’apodosi, invece di oggettivarsi negli schemi e nei miti
esplicativi approntati dalla scienza d’amore (spiritelli ecc.), corrispondono piuttosto a un’immagine
‘scompaginata’ dell’interiorità […]; il tutto rafforzato […] dalla presenza del lessico del dubbio e
dell’occasionalità (s’aven che…, se talor… forse mi ven…)».
(Soldani 2009, pp. 42-43)

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2-3. Più condizionali e meno causali e consecutive

«L’impressione è, altrove, confermata sintatticamente dalla scelta dei tempi verbali, per la quale Petrarca, nei
costrutti all’indicativo, sembra orientarsi per il futuro nell’apodosi, e con ciò trasferire gli effetti dell’amore
dal presente, appunto, al futuro, dalla logica delle conseguenze necessarie all’ipotesi sì possibile ma
non ancora esperita».
Es. Rvf 12
(Soldani 2009, p. 44)

Rvf 12 – 8+3+3

Se la mia vita da l'aspro tormento ABBA ABBA CDC DCD


si può tanto schermire, e dagli affanni,
ch'i' veggia per vertú degli ultimi anni,
donna, de' be' vostr' occhi il lume spento,
e i cape' d'oro fin farsi d'argento,
e lassar le ghirlande e i verdi panni,
e 'l viso scolorir che ne' miei danni
a lamentar mi fa pauroso e lento:
pur mi darà tanta baldanza Amore
ch'i' vi discovrirò de' mei martiri
qua' sono stati gli anni, e i giorni, e l'ore;
e se 'l tempo è contrario ai be' desiri,
non fia ch'almen non giunga al mio dolore
alcun soccorso di tardi sospiri.

Spiegazione: lunga parte iniziale tutta continua che precede l’arrivo della principale (v.9). la seconda terzina
apre ancora un’altra ipotesi. Da “veggia” dipendono tutti gli elementi successivi.
“Se riuscirò a sopportare le sofferenze dell’amore abbastanza a lungo da vedervi vecchia, il lume dei vostri
bei occhi spento e i capelli d’oro farsi argento e che io veda le ghirlande e i verdi panni essere lasciati e
scolorire il viso, che i miei mali mi rende esitante a non lamentarmi, allora mi darà tanto coraggio che io vi
dirò quali sono stati gli anni, i giorni e le ore dei miei dolori. Se la vecchiaia non arriverà, …
Le due terzine accostano 2 cose inconciliabili: desiderio amoroso + vecchiaia
Le rime martiri/ desiri/ sospiri  riprende Dante (episodio di Paolo e Francesca). Questi sono i versi in cui
Dante si rivolge a Francesca, chiedendole di spiegare la sua storia. Qui, invece, c’è un ricordo in un futuro.

Rvf 12

Se la mia vita da l'aspro tormento


si può tanto schermire, e dagli affanni, [rima inclusiva]
ch'i' veggia per vertú degli ultimi anni,
donna, de' be' vostr' occhi il lume spento,
e i cape' d'oro fin farsi d'argento,
e lassar le ghirlande e i verdi panni,
e 'l viso scolorir che ne' miei danni
a lamentar mi fa pauroso e lento:
pur mi darà tanta baldanza Amore
ch'i' vi discovrirò de' mei martiri
qua' sono stati gli anni, e i giorni, e l'ore;
e se 'l tempo è contrario ai be' desiri,
non fia ch'almen non giunga al mio dolore
alcun soccorso di tardi sospiri.
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Rvf 12 e 315-317; 315 – 4+4+3+3

Tutta la mia fiorita e verde etade


passava, e 'ntepidir sentia già 'l foco
ch' arse il mio core, ed era giunto al loco
ove scende la vita ch'al fin cade.
Già incominciava a prender securtade
la mia cara nemica a poco a poco
de' suoi sospetti, e rivolgeva in gioco
mie pene acerbe sua dolce onestade.
Presso era 'l tempo dove Amor si scontra
con Castitate, e agli amanti è dato
sedersi inseme, e dir che lor incontra.
Morte ebbe invidia al mio felice stato,
anzi a la speme; e feglisi a l'incontra
a mezza via come nemico armato.

Spiegazione: non è un testo rivolto direttamente a Laura. Le T e le P sono una sorta di espediente che
Petrarca usa per legare tra di loro i 3 testi. Un’altra ipotesi può essere il collegamento all’opera “Il trionfo di
castità).
“Stava passando la sua giovinezza ed era arrivato a quel punto della vita dove si comincia a discendere. Di
conseguenza, lei cominciava a rassicurarsi delle sue intenzioni e per questo la sua volontà diventava meno
crudele. La morte ha invidia dello stato felice tra il poeta e la sua amata ed impedisce che i due possano
essere felici.”
Rvf 316 – 4+4+3+3

Tempo era omai da trovar pace o triegua


di tanta guerra, ed erane in via forse,
se non che ' lieti passi indietro torse
che le disaguaglianze nostre adegua:
ché, come nebbia al vento si dilegua,
cosí sua vita súbito trascorse
quella che già co' begli occhi mi scorse,
e or conven che col penser la segua.
Poco avev' a 'ndugiar, ché gli anni e 'l pelo
cangiavano i costumi: onde sospetto
non fôra il ragionar del mio mal seco.
Con che onesti sospiri l'avrei detto
le mie lunghe fatiche, ch'or dal cielo
vede, son certo, et duolsene ancor meco!

Spiegazione: Petrarca fa subito i conti con la morte. La morte di Laura viene paragonata alla nebbia che si
dilegua con il vento, essa viene dimenticata in un battito di ciglia. Petrarca immagina ipotesi irrealizzabili a
causa della morte di Laura ma egli ci pensa comunque.

Rvf 317

Tranquillo porto avea mostrato Amore


a la mia lunga e torbida tempesta
fra gli anni de la età matura onesta
che i vizii spoglia, e vertú veste e onore.
Già traluceva a' begli occhi il mio core,
e l' alta fede non piú lor molesta.
Ahi Morte ria, come a schiantar se' presta
il frutto de molt' anni in sí poche ore!
Pur vivendo veniasi ove deposto
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in quelle caste orecchie avrei parlando


de' miei dolci pensier l'antiqua soma;
ed ella avrebbe a me forse resposto
qualche santa parola sospirando,
cangiati i volti, e l'una et l'altra coma.

Spiegazione: la separazione tra le terzine è più attenuata, sono coordinate. Ognuna delle due disegna un
aspetto che è reciproco con l’altro.
Amore era quasi arrivato alla fine dei tormenti (tempeste) e approda al porto (pace). Seconda quartina: agli
occhi di Laura trasparivano il cuore e la profonda fedeltà (comincia a fidarsi). Apostrofe sulla morte:
interruzione del flusso del pensiero.

Dispersione e coesione, frammenti e organismo unitario

«movimentazione ‘ipotattica’ della linea del discorso, soprattutto mediante la risalita della subordinata, e
nel contempo […] largo dispiego della coordinazione» (Soldani 2009, p. 102)
«Petrarca sa coniugare la dispersione connessa all’enumerazione coordinativa con l’istanza di unitarietà, di
coesione discorsiva cui risponde la subordinazione (specie in prolessi): in un sottile equilibrio nel quale non
sarà eccessivo scorgere una fedele trascrizione di analoghe spinte e controspinte, tra disordine centrifugo e
conversio centripeta, che innervano lo schema psicologico e morale su cui si fonda il Canzoniere. Tanto che
in qualche caso i due livelli, stilistico e – per così dire – interiore, sembrano sorreggersi a vicenda e quasi
fare tutt’uno: come a 298, 1-11: […]».
(Soldani 2009, p. 54).

Nelle poesie di Petrarca c’è una tendenza ad usare le coordinate che si contrappone ad un uso frequente
delle subordinate.

Rvf 298 – 8+3+3

Quand'io mi volgo indietro a mirar gli anni ABBA ABBA CDE CDE
ch’hanno fuggendo i miei penseri sparsi,
e spento 'l foco ove agghiacciando io arsi,
e finito il riposo pien d'affanni,
rotta la fe' degli amorosi inganni,
e sol due parti d'ogni mio ben farsi,
l'una nel cielo e l'altra in terra starsi,
e perduto il guadagno de' miei danni,
i'mi riscuoto, e trovomi sí nudo,
ch'i' porto invidia ad ogni estrema sorte:
tal cordoglio et paura ho di me stesso.
O mia stella, o Fortuna, o Fato, o Morte,
o per me sempre dolce giorno e crudo,
come m'avete in basso stato messo!

Spiegazione: le quartine non si separano ma procedono insieme, la principale però arriva solo nella prima
terzina. Dunque vi è una lunga temporale che precede la principale.
Petrarca si volge a guardare gli anni che stanno fuggendo e hanno disseminato i suoi pensieri. Dopo aver
elencato una serie di avvenimenti nella temporale, Petrarca torna improvvisamente in sé e vi è un improvviso
svuotamento dello spazio del testo che è riflesso dello svuotamento della mente.

Dispersione e coesione: Rvf 298

«l’arcata aperta dalla temporale si espande per aggiunzione polisindetica dal primo verso alla prima terzina,
quando compare la principale che ne raccoglie le disiecta membra; in perfetto parallelismo con il movimento
mentale che, seguendo la medesima scansione testuale, porta il poeta prima a diffondersi sulla dispersione
di sé provocata dall’amore (e dal tempo), poi a “riscuotersi” nella presa di coscienza» (Soldani 2009, p. 54).

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Dispersione e coesione: Rvf 288 – 8+6

I’ ho pien di sospir quest'aere tutto, ABBA ABBA CDE CDE


d'aspri colli mirando il dolce piano
ove nacque colei ch'avendo in mano
meo cor in sul fiorire e ’n sul far frutto,
è gita al cielo, ed hammi a tal condutto,
col súbito partir, che, di lontano
gli occhi miei stanchi lei cercando invano,
presso di sé non lassan loco asciutto.
Non è sterpo né sasso in questi monti,
non ramo o fronda verde in queste piagge,
non fiore in queste valli o foglia d'erba,
stilla d'acqua non vèn di queste fonti,
né fiere han questi boschi sí selvagge,
che non sappian quanto è mia pena acerba.

Spiegazione: questo testo fa il contrario del precedente: nelle due quartine abbiamo una sorta di catena di
subordinate. La principale è presentata subito ma non conclude subito il procedimento sintattico, questo si
protrae fino alla fine delle terzine.
“I miei sospiri hanno saturato l’aria intorno a me, lo stesso hanno fatto le lacrime nel mio cuore”, … nelle
terzine vi è l’anafora di “non”.

Dispersione e coesione: Rvf 292 – 8+3+3

Gli occhi di ch'io parlai sí caldamente, ABBA ABBA CDC DCD


e le braccia e le mani e i piedi e 'l viso,
che m'avean fatto sí da me stesso diviso,
e fatto singular da l'altra gente;
le crespe chiome d'òr puro lucente
e 'l lampeggiar de l'angelico riso,
che solean fare in terra un paradiso,
poca polvere son, che nulla sente.
E io pur vivo, onde mi doglio e sdegno,
rimaso senza 'l lume ch'amai tanto,
in gran fortuna e 'n disarmato legno.
Or sia qui fine al mio amoroso canto:
secca è la vena de l'usato ingegno,
e la cetera mia rivolta in pianto.

Spiegazione: lo schema è costruito su una relazione tra sostantivo e relativa. Nelle terzine  contrasto tra la
polvere e ciò che accade. Questo testo, per un certo periodo, venne scelto come testo conclusivo del
Canzoniere.

Altre sperimentazioni

Inarcatura tra comparti metrici


Es. 309, 1-8 (con anastrofe dell’oggetto rispetto a verbo e soggetto)
L'alto e novo miracol ch'a' dí nostri
apparve al mondo, e star seco non volse,
che sol ne mostrò 'l ciel, poi sel ritolse
per adornarne i suoi stellanti chiostri,
vuol ch'i' depinga a chi nol vide, e 'l mostri,
Amor, che 'n prima la mia lingua sciolse,
poi mille volte indarno a l'opra volse
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ingegno, tempo, penne, carte e 'nchiostri.

Spiegazione: anastrofe, l’oggetto precede il verbo che a sua volta precede il soggetto.

Altre sperimentazioni
Inarcatura tra comparti metrici
Es. 64, 1-8
[Se voi poteste per turbati segni,
per chinar gli occhi, o per piegar la testa,
o per esser piú d'altra al fuggir presta,
torcendo 'l viso a' preghi onesti e degni,
uscir già mai, over per altri ingegni,
del petto ove dal primo lauro innesta
Amor piú rami,] i' direi ben che questa
fosse giusta cagione a' vostri sdegni:

Altre sperimentazioni
Inarcatura tra comparti metrici
Es. 337, 1-8
Quel, che d'odore e di color vincea
l'odorifero e lucido orïente,
frutti fiori erbe e frondi (onde 'l ponente
d'ogni rara eccellenzia il pregio avea),
dolce mio lauro, ove abitar solea
ogni bellezza, ogni vertute ardente,
vedeva a la sua ombra onestamente
il mio signor sedersi e la mia dea.

In Petrarca, il racconto lirico riesce a fare a meno della prosa. Petrarca, con la sua sintassi, riesce a
presentare la vita interiore del soggetto.

Rapporto tra queste innovazioni e la forma-canzoniere

«Le poesie del Canzoniere […] parlano, cioè narrano da sé sole [cioè senza la prosa, che le collegava nella
Vita nova di Dante] attraverso la loro mera successione, e la ragione di questa autonomia sta nel fatto […]
che esse rispecchiano nella sua dinamica, e nella dialettica di riflessione e memoria, la vita interiore del
soggetto».
(C. Giunta, Versi a un destinatario, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 453)

Rapporto tra queste innovazioni e la forma-canzoniere

«Petrarca opera […] un vero e proprio rovesciamento della tradizione. Il soggetto che desidera viene con lui
ad occupare quello spazio che era riservato alle rappresentazioni della donna, ai rituali del corteggiamento,
all’analisi oggettivante di amore. Il palcoscenico sul quale si sceneggiava il rapporto triadico Amore, amata e
amante si trasforma nello spazio dell’‘io’. Questo, che a prima vista può sembrare un impoverimento, nei
secoli si rivelerà un territorio sconfinato. È anche grazie a questa scelta che Petrarca diventerà il caposcuola
della poesia moderna. Egli ha sottratto il discorso amoroso ai condizionamenti storici, alle trasformazioni dei
contesti sociali e culturali e ne ha fatto una zona franca, capace di rigenerarsi con il trascorrere del tempo.
La scelta, benché indipendente, è omogenea a quella linguistica. L’una e l’altra definiscono la moderna
poesia erotica come spazio dell’‘io’ e delle sue contraddizioni».
M. Santagata, Introduzione a Petrarca, Canzoniere, Milano, Mondadori, 1996, p. LIV.

Petrarca come modello: tra fortuna e ‘tradimento’

Fortuna vasta ma parziale e spesso superficiale del modello petrarchesco


• Lessico
• Schemi metrici
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• Temi e motivi
• Struttura

Petrarca come modello: tra fortuna e ‘tradimento’

Quando possiamo parlare di ‘canzonieri’?


• ‘Proemio’ (quasi sempre un sonetto) – ‘epilogo’
• Componimenti di anniversario
• Divisione in due parti
• «Connessioni intertestuali» tra testi contigui (connessioni «di trasformazione» e «di equivalenza»,
secondo M. Santagata, Dal sonetto al canzoniere. Ricerche sulla preistoria e la costituzione di un
genere, 1979)
Cfr. i criteri seguiti nelle schede dell’Atlante dei canzonieri in volgare del Quattrocento, a cura di A. Comboni
e T. Zanato, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2017

Lezione 7 – Il sonetto nel Quattrocento

Petrarca come modello: tra fortuna e ‘tradimento’

Fortuna vasta ma parziale e spesso superficiale del modello petrarchesco


• Lessico  è l’aspetto più fedele. Maggiore ibridismo linguistico  le varie influenze dialettali delle
regioni si sentono di più.
• Schemi metrici  soprattutto gli schemi di rime, che vengono ripresi in modo molto fedele. Lo stesso
non si può dire per gli schemi più complessi.
• Temi e motivi  molti temi vengono ripresi dal canzoniere. Il macrotema che fatica maggiormente ad
essere ripreso è il pentimento. C’è spazio per motivi che non avrebbero mai trovato spazio nei
componimenti di Petrarca, come l’amore corrisposto. In questo contesto è ora possibile leggere le
poesie singolarmente, cosa che non accadeva con Petrarca.

• Struttura  è l’aspetto che viene imitato in modo meno fedele.

Quando possiamo parlare di ‘canzonieri’? tratti caratteristici:


• ‘Proemio’ (quasi sempre un sonetto) – ‘epilogo’
• Componimenti di anniversario  serve a dare l’idea che il tempo passi.
• Divisione in due parti
• «Connessioni intertestuali» tra testi contigui (connessioni «di trasformazione» e «di equivalenza»,
secondo M. Santagata, Dal sonetto al canzoniere. Ricerche sulla preistoria e la costituzione di un
genere, 1979)
Cfr. i criteri seguiti nelle schede dell’Atlante dei canzonieri in volgare del Quattrocento, a cura di A. Comboni
e T. Zanato, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2017

Il Quattrocento: schemi rimici

Nel Tre e Quattrocento per le quartine dominano decisamente le rime incrociate (ABBA ABBA), per cui le
differenze vanno osservate nelle terzine.
Gli schemi petrarcheschi sono i più diffusi (CDE CDE, CDC CDC, CDE DCE), con il primo (CDE CDE)
largamente dominante e seguito dal terzo (CDE DCE), forse per influenza di Giusto de’ Conti (La bella
mano) e per l’associazione del secondo (CDC CDC) con la poesia comico-realistica.

Quello che per Petrarca era il secondo preferito, diventa il terzo (e viceversa).

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Il Quattrocento: legami sintattici

 In generale, la subordinazione tende a dominare sulla coordinazione. La frequenza delle ipotetiche


permane.
 La predilezione petrarchesca per le ipotetiche convive con una resistenza di causali e consecutive,
soprattutto nei poeti più influenzati dallo Stilnovo (come Lorenzo de’ Medici).

Il Quattrocento: i rimatori principali

Giusto de’ Conti (1403/4 - 1449), La bella mano


Matteo Maria Boiardo (1441-1494), Amorum libri tres
Lorenzo de’ Medici (1449-1492), Canzoniere e Comento de’ miei sonetti

Giusto de’ Conti, La bella mano

Princeps (prima stampa) 1472 con il titolo La bella mano, ma composto per la maggior parte entro il 1440 e
senza titolazione originale.
Circa 150 testi (ci sono oscillazioni nella tradizione manoscritta); 144 certamente d’autore; 131 sonetti (su un
totale di 144 componimenti)
‘Trama’: amore per una Isabetta, durato sette anni e terminato a causa del matrimonio di lei con un altro;
senza conclusione di pentimento.
«la sua esperienza amorosa, iniziata in primavera (11), ha luogo a Bologna (15; 123), e una durata di 7 anni;
nel corso del quinto anno (90) il poeta è costretto da eventi esterni a trasferirsi in luoghi lontani dall’amata
(94; 107); alla fine del settimo anno, dunque nuovamente in primavera (136), egli può occasionalmente
tornare a Bologna (139), dove conferma alla donna la propria fedeltà amorosa (140), ma al contempo si
congeda da lei per sempre, sfinito dalla lontananza incessante (141); infine, in vesti di pastore, impreca
contro l’amata andata in sposa a un rivale (144)».
(I. Pantani, in ACAV, p. 233)

Non abbiamo prove sicure che il titolo fosse originale e voluto da Giusto, tuttavia è ormai un titolo legato alla
tradizione. Il testo autorizza un titolo del genere, dato che la donna viene lodata in 32 testi.

Differenze con la canzone di Petrarca:


- 3 differenze nella trama: 1. La donna non muore / 2. Lui non si pente / 3. Non è un amore che dura
una vita ma solo 7 anni. /

Giusto de’ Conti, La bella mano (1)

Amor, quando per farme ben felice ABBA ABBA CDE CDE; 8+3+3
l’alta amorosa spina nel cor mio
piantò con la gran forza del disio
che ’nfin ne le mie piante ha la radice,
mi fé pria singular più che fenice,
mentre a mia voglia a morte l’alma invio,
e poi mi tinse nel tenace oblio
sì ch’a me ricordar di me non lice.
Da inde in qua mia voce mai non tacque,
ma sempre, ovunque io fusse, lagrimando
d’Amor e di madonna si ragiona;
così de lei parlare ognor mi piacque,
el suo bel nome ne’ mei detti alzando
che ’n tante parte per mia lingua sona.

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Spiegazione: l’organizzazione sintattica prevede quartine unite e terzine separate: inarcatura tra partizioni.
“Amore” è la prima parola del Canzoniere e del sonetto. La spina piantata nel cuore del poeta è la metafora
dell’amore che lo pervade. L’Amore, personificato, rende il poeta più unico della Fenice, che manda
volontariamente la sua anima a morire. Dal momento dell’innamoramento, il poeta ha continuato a scrivere
dell’innamorata. Riferimento a Petrarca  “Di Madonna si ragiona” – “piango si ragiona”.

Giusto de’ Conti, La bella mano (141)

Va, testimon de la mia debil vita, ABBA ABBA CDE CDE; 4+4+3+3
nanzi a l’altero e venerabil fronte,
a piè del bel fiorito e sagro monte:
mira se l’alma nostra indi è partita.
Ivi è la vista ch’al ben far me invita
e d’ogni mia salute il vero fonte;
ivi son, lasso, quelle man sì pronte,
ond’io soffersi l’immortal ferita.
A lei te inchina, e di’ ch’io più non posso:
il corpo è stanco, e stanchi i mei pensieri,
vivendo sempre dal mio ben lontano;
ma pur l’usanza, colla morte adosso,
vuol che in tanta aspra guerra pace io speri
dalla benigna sua pietosa mano.

Spiegazione: il poeta si rivolge all’opera finita. Al verso 9 possiamo assistere al limite della sopportazione del
poeta.

Matteo Maria Boiardo (1441-1494)

Amorum libri tres (titolo ispirato a Ovidio, Amores); princeps 1499, ma composti verosimilmente tra il 1474 e
il 1476.
180 componimenti, 60 per libro; ciascuno dei tre libri è costruito su 50 sonetti più dieci testi di diverso metro;
dunque i sonetti sono 150 in totale.
«La vicenda d’amore è scandita in modo tale che il primo dei libri amorum coincide grosso modo con la
zoglia amorosa, il secondo con la depressione dell’abbandono, il terzo con un percorso altalenante fra
disforia ed euforia. […] i 60 componimenti del libro primo abbracciano circa 10 mesi (5 giorni per ogni lirica),
il secondo appena 3 mesi (3 giorni a poesia), il terzo i rimanenti 13-14 mesi (7 giorni pro capite): dove è
notabile l’effetto di allungamento collegato alla descrizione degli esiti negativi dell’amore sul poeta che
occupa l’intero liber secundus, in cui la velocità narrativa cala in maniera molto vistosa, mentre sale in modo
significativo nel terzo libro […].
Dell’anomala “lunghezza” diegetica della fase disforica degli AL B. era perfettamente conscio, allorché
scriveva, a inizio del son. III 34, Il terzo libro è già di mei sospiri, / e il sole e l’anno ancor non è il secondo».
(T. Zanato, in ACAV, p. 153)

 Struttura con simmetrie ben precise. Struttura divisa perfettamente in 3 libri e bilanciata. Scelta
diversa dal Canzoniere di Petrarca.

L’innamoramento dura poco più di due anni, il tempo della storia non coincide con il tempo della
composizione. La conclusione indica un pentimento finale ma minore rispetto a quello di Petrarca. La prima
parte della composizione si svolge in giorni vicini, mentre la seconda dura mesi.

Boiardo: il proemio (I 1)

Amor, che me scaldava al suo bel sole


nel dolce tempo de mia età fiorita,
a ripensar ancor oggi me invita
quel che alora mi piacque, ora mi dole.
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Così racolto ho ciò che il pensier fole


meco parlava a l’amorosa vita,
quando con voce or leta or sbigotita
formava sospirando le parole.
Ora de amara fede e dolci inganni
l’alma mia consumata, non che lassa,
fuge sdegnosa il püerile errore.
Ma certo chi nel fior de’ soi primi anni
sanza caldo de amore il tempo passa,
se in vista è vivo, vivo è sanza core.

Spiegazione: anche in questo sonetto, Amore apre la composizione. Divisione molto netta tra passato e
presente (alora vs ora). Differenza tra l’Io che scrive e l’Io che ricorda. I termini “errore” e “puerile” sono un
chiaro riferimento a Petrarca. Stando al sonetto, chi non prova amore durante la giovinezza non vive, l’età
della giovinezza è “autorizzata” a provare amore.

Matteo Maria Boiardo: schemi rimici

• Uso sostanzialmente fedele al modello petrarchesco sul fronte delle terzine (CDE CDE e CDC DCD)
• Sperimentazioni segnalate da rubriche latine (ad es. rime equivoche, cioè con identità di suono delle
parole in rima, usate da Petrarca in Rvf 18)
Es. II 9, in cui tali rime equivoche «diventano figura di un tragico avvitamento su sé stesso» (Zanato,
comm., p. 387)
Parole equivoche perché hanno lo stesso suono ma significato diverso

Boiardo, II 9 – Aequivocus

Tanto è spietata la mia sorte e dura,


che mostrar non la pòn rime né versi,
né per sospir’ on lacrime che io versi
costei se intenerisse on men se indura.
Passan le voce, e il duolo eterno dura
ne’ spirti che a doler tutti son versi;
dal ciel la luna pòn detrare i versi,
né mover pòn questa alma ferma e dura!
Per questo odio le rime e il tristo canto,
nel qual dolendo ormai tropo me atempo
né porgo al mio dolor alcun aiuto.
Odio me stesso e il mio cantare, e canto
rime forzate per vargare il tempo,
e con la voce il suspirar aiuto.

Spiegazione: la condizione del poeta è tanto dura e crudele che i versi e le rime non lo possono spiegare. I
lamenti passano ma il dolore dura. Il poeta odia le rime, odia sé stesso ed il suo canto. Canta rime forzate
controvoglia, per passare il tempo.

Matteo Maria Boiardo: sintassi

• Uso misurato dell’inarcatura


• Netta predilezione per l’assenza di legamenti tra le partizioni (tipo 4+4+3+3 per circa il 70% dei
sonetti)
«In diverse circostanze i sonetti […] appaiono quasi costruiti per giustapposizione di blocchi, spesso non a
caso deputati a ospitare interrogative retoriche, invocazioni ed esclamazioni, senza un progresso o una
variazione di senso percepibile lungo il testo». (Baldassari 2017, p. 111).

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Boiardo, I 16

Già tra le folte rame aparir veggio ABBA ABBA CDE DEC
ambe le torre ove il mio cor aspira;
già l’ochio corporale anche lui mira
la terra che ha l’effetto e ’l nome reggio.
Alma cittade, ove Amor tien suo seggio
e te sopravolando sempre agira,
qual nascosta cagion tanto me tira
che altro che esser in te giamai non chieggio?
Deh, che dico io? ché la cagion è aperta
a le fiere a li augelli ai fiumi ai sassi
e ne l’abisso e in terra e in mare e in celo.
Ormai del mio furor per tutto sciassi,
ché a poco a poco è consumato il gelo
che un tempo ebe mia fiama in sé coperta.

Spiegazione: l’occhio fisico vede la città che ha effetto e nome “reggio”. L’ordine in cui gli animali e gli
elementi della natura sono disposti risulta intrecciato ai rispettivi luoghi, è un modo iperbolico per comunicare
che tutto il mondo naturale sa il motivo per cui il poeta vuole arrivare alla città.

Matteo Maria Boiardo: figure iterative

Alla relativa rarità di legami tra partizioni fa riscontro la frequenza di ripetizioni e diverse figure iterative.
Talvolta l’iterazione funziona anche tra un testo e l’altro, al punto da creare organismi di forte continuità,
come l’acrostrofe che unisce i primi quattordici sonetti del primo libro (I, 1-14), per la quale Mengaldo ha
parlato di ‘ipersonetto’ (2001, p. 7): i loro capilettera formano il nome ‘ANTONIA CAPRARA’, in acrostico nel
sonetto I 14.

Boiardo, I 14 Capitalis

Arte de Amore e forze di Natura ABBA ABBA CDE DCE


Non fur comprese e viste in mortal velo
Tutte giamai, dapoi che terra e celo
Ornati fòr di luce e di verdura;
Non da la prima età simplice e pura,
In cui non se sentio caldo né gelo,
A questa nostra, che de l’altrui pelo
Coperto ha il dosso e fatta è iniqua e dura; [rima inclusiva]
Accolte non fòr mai più tutte quante
Prima né poi, se non in questa mia
Rara nel mondo, anci unica fenice.
Ampla beltade e summa ligiadria,
Regal aspetto e piacevole sembiante
Agiunti ha insieme questa alma felice.

Spiegazione: l’ordine delle iniziali riporta il nome della donna amata. Il poeta non fa che ribadire in ogni
ripartizione che mai nella storia del mondo si sono viste tutte le qualità della donna nella stessa persona. Il
sonetto è consono ad ospitare l’acrostico.

Boiardo, III 15 – un sonetto costruito su una similitudine

Qual sopra Garamante on sopra Gange ABBA ABBA CDE EDC (unico negli AL)
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se aduce il cervo paventoso e stanco, [le rime B sono le stesse di Rvf 16, sonetto a
batendo per lo affanno il sciuto fianco, sua volta costruito su una similitudine]
quando fatica e caldo inseme lo ange,
come l’onda corrente in prima tange
il spirto anello, il gran desir vien manco,
e il sangue torna sbigotito e bianco
per la fredura che il fervor afrange;
tal il mio cor, che di gran sete avampa,
nel suo bel fonte disiando more,
e piglia oltre al poter l’ampla dolceza:
però che nel mirar questa vagheza
ha giunto tanto foco al primo ardore
che maraviglia n’ho se quindi campa.

Spiegazione: il testo si regge interamente su una similitudine tra il cervo che si avvicina alla fonte d’acqua ed
il cuore del poeta che si avvicina alla fonte della felicità.

Boiardo, III 15 – un sonetto costruito su una similitudine

«[…] il sonetto poggia su un unico periodo, scisso di fatto fra una fronte blandamente narrativa, ruotante
attorno al cervo assetato, e una sirma di applicazione del paragone animale all’innamorato, secondo una
chiave logica di rovesciamento, per cui mentre il cervo, arrivato a bere, smorza immediatamente il suo
«fervor» con la «fredura» dell’acqua (v. 8), al contrario il cuore del poeta, giunto a dissetarsi presso il «fonte»
dell’amata, finisce per raddoppiare il suo «primo ardore» (v. 13)».
(Zanato, comm., p. 739)

Lorenzo de’ Medici (1449-1492)

Fin dal 1465 compone rime, che circa un decennio dopo comincia a raccogliere in un canzoniere; dopo altri
cinque anni avvia il progetto del Comento de’ miei sonetti, prosimetro sul modello della Vita nova, che rimane
incompiuto.
Il canzoniere comprende 166 testi, di cui 150 sono sonetti.
Il Comento include 41 sonetti, per ciascuno dei quali l’autore rievoca le circostanze di composizione e la
base filosofica della materia articolata nei versi.
La fedeltà metrica a Petrarca (tanto nelle forme strofiche e nella loro disposizione, quanto negli schemi
metrici) si accompagna a una riscoperta della sintassi stilnovista, specie nella seconda fase della sua
produzione lirica.

Interesse da parte di Lorenzo de’ Medici per un approccio più simile al dolce stil novo per la descrizione
dell’amore. Rispetto alla Vita Nova, mancano le divisioni e per l’indugio narrativo, che in Dante è abbastanza
ampio. Per quanto riguarda gli schemi rimici, vi è una somiglianza con Petrarca.

Lorenzo de’ Medici (1449-1492)

«La necessità di oggettivare il processo amoroso e dunque l’inflessione della voce lirica che lo descrive
conduce con grande coerenza a incardinare la sintassi entro la griglia metrica, inibendone il movimento
prima così libero». (Bellomo 2017, p. 88)

«Sintatticamente, […] andamento narrativo di tipo raziocinante e talora sillogistico […]». (Zanato, ACAV, p.
405).

Lorenzo de’ Medici – Canzoniere 116 [Comento cap. XXIV]

Allor ch’io penso di dolermi alquanto ABBA ABBA CDE CDE, 4+4+3+3
de’ pianti e de’ sospir’ miei teco, Amore,
mirando per pietà l’afflitto core
l’imagin veggo di quel viso santo.
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E parmi allor sì bella e dolce tanto,


che vergognoso il primo pensier more;
nascene un altro poi, che è uno ardore
di ringraziarla, e le sue laude canto.
La bella imagin che laudar si sente,
come dice il pensier che lei sol mira,
sen fa più bella e più pietosa assai.
Quinci surge un disio nuovo in la mente
di veder quella che ode, parla e spira:
e torno a voi, lucenti e dolci rai.

Lorenzo de’ Medici – Canzoniere 1

Tanto crudel fu la prima feruta, ABBA ABBA CDC DCD; 4+4+3+3


sì fero e sì veemente il primo strale,
se non che speme il cor nutrisce ed ale, [(che), se non fosse che la speranza nutre…]
sare'mi morte già dolce paruta. [mi sarebbe parsa dolce (come liberazione dal tormento amoroso)]
E la tenera età già non rifiuta
seguire Amore, ma più ognor ne cale; [ne è coinvolta]
volentier segue il suo giocondo male,
poi c'ha tal sorte per suo fato avuta.
Ma tu, Amor, poi che sotto la tua insegna
mi vuoi sì presto, in tal modo farai, [‘pronto’ oppure ‘giovane’]
che col mio male ad altri io non insegna. [rima equivoca]
Misericordia del tuo servo arai,
e in quell'altera donna fa' che regna
tal foco, onde conosca gli altrui guai. [lamenti]

Spiegazione  la ferita si riferisce alla ferita d’amore. Se non ci fosse la speranza ad alimentare, il poeta
sarebbe già morto. Il poeta si rivolge direttamente ad Amore, ed è un esempio per gli altri che non seguano
Amore. Rispetto ai sonetti precedenti, i temi toccati ricordano i testi di Boiardo, dato che si ricorda che in età
giovanile è lecito essere presi da amore. Non c’è in modo esplicito un riferimento al pentimento. Un
riferimento assente rispetto ai testi di Boiardo è l’operazione letteraria.

Lorenzo de’ Medici – Comento (cap. XXIV)

«Ero soletto e sanza compagnia se non delli miei amorosi pensieri, li quali molestandomi come el più delle
volte sogliono fare, cominciai meco medesimo a fare pensiero di volerne fare doglienza con Amore, come
cagione de' miei pianti e sospiri e dell'altre amorose pene. E volendo ad una ad una narragliene, me era
necessario cominciare da quella parte che e prima e più era offesa, la quale era il cuore. Volendo adunque
narrare l'afflizione del cuore, pareva necessario di guardare nel cuore, e, guardando, considerare per potere
narrare lo stato suo. E se bene nel cuore erano dipinte molte passioni e tormenti, pure maggiore
impressione aveva fatto in esso la imagine del viso della donna mia, el quale, essendo bellissimo e, sì come
era il vero, molto lucente e chiaro, e per la bellezza e per la luce tirò gli occhi miei e gli sforzò a rimirare
quella immagine, levando loro la visione delle pene del cuore; parendo molto conveniente che una cosa
bella e lucente e levi la visione dell'altre cose, com'è natura della eccessiva luce, e tragga gli occhi a sé,
come sempre suol fare la bellezza».

Spiegazione: ero solo con i miei pensieri che mi molestavano, cominciai a pensare di fare una dimostranza
ad amore in quanto questo causa delle mie sofferenze. Volendo narrare ad amore le mie sofferenze, era
necessario dalla parte più offesa, nonché la prima, il cuore. Sebbene nel cuore fossero dipinti vari tormenti e
passioni, l’immagine del viso della donna aveva lasciato un’impronta ancora più profonda. La cosa bella e
lucente impedisce la visione delle altre cose.

«Mirando adunque gli occhi miei questa immagine in luogo delle pene, parve loro molto bella e dolce, cioè
piena di pietà. E però, se prima era intenzione degli occhi vedere l'afflizione del cuore, cosa molesta e
deforme, per dolersi, veggendo il viso della donna mia bello e pietoso, e de directo opposito a quelle
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afflizioni, ne doveva nascere ancora uno effetto tutto contrario al dolersi. Per la qual cagione il primo
pensiero di dolersi vergognoso morì e in tutto si spense e un altro ne nacque contrario, di ringraziare e
onorare la donna mia, la quale era sì bella e tanto gentile [cfr. Dante], che, solamente essendomi concesso
di vedere sì bella cosa, quando mai non vi fussi suto pietà alcuna, non potevo avere cagione a dolermi, ma
più tosto di ringraziarla. Mosse el pensiero di dolersi la passione, che accieca la mente e obumbra lo
intelletto nostro de una tenebrosa ignoranzia; ma, sopravenendo la luce della verità e fugate queste tenebre,
non sanza vergogna si rimira l'errore passato, e però muore vergognoso el primo pensiero e nel suo luogo
succede l'altro pensiero, più vero e più laudabile, di ringraziare la donna mia e di essaltarla e laudarla;»

Spiegazione: il pensiero di dolersi scompare, preso dalla vergogna. Muore quel pensiero e ne nacque un
altro: il pensiero di voler lodare la donna amata (riferimento a Dante).

«le quali laude, sendo portate alla immagine sua che è nel mio cuore, la fanno parere assai più bella e più
piatosa; ché così pare al pensiero mio, che non vede alcuna cosa se non questa immagine. [qui si dilunga
nella spiegazione filosofica] […] quanto la immaginazione è più forte, più gli pare vedere quello che allora
immagina, e immaginando la donna mia piatosa e bella, pare necessario che, quanto più la immagina così,
più diventi bella e piatosa nel pensiero. Da questa tale immaginazione di tanta bellezza e dolcezza nasce
uno desiderio ardentissimo e nuovo nella mente di vedere la donna mia viva e vera. Né [il sonetto] dice
“disio nuovo” perché questo sia nel cuore mio el primo desiderio che avessi mai di vedere la donna mia, ma
dice nuovo a quegli altri pensieri, quasi rinato allora di nuovo. Questo nuovo disire adunque mi muove a
vedere la donna mia viva e vera, perché il parlare, udire e spirare sono uficio d'animale vivo, e non di cosa
che sia immaginata».

Spiegazione: le lodi, portate alle immagini di un cuore, appaiono ancora migliori. Dalla visione immaginaria
della donna, il poeta prova un forte desiderio di vedere la donna. “Nuovo” desiderio rispetto agli altri pensieri.

Lorenzo de’ Medici – Canzoniere 116 [Comento cap. XXIV]

Allor ch’io penso di dolermi alquanto ABBA ABBA CDE CDE, 4+4+3+3
de’ pianti e de’ sospir’ miei teco, Amore, (composto nel settembre 1481)
mirando per pietà l’afflitto core
l’imagin veggo di quel viso santo.
E parmi allor sì bella e dolce tanto,
che vergognoso il primo pensier more;
nascene un altro poi, che è uno ardore
di ringraziarla, e le sue laude canto.
La bella imagin che laudar si sente, [cfr. Dante, Tanto gentile e tanto onesta pare]
come dice il pensier che lei sol mira,
sen fa più bella e più pietosa assai.
Quinci surge un disio nuovo in la mente
di veder quella che ode, parla e spira:
e torno a voi, lucenti e dolci rai.

Spiegazione: quando io penso di lamentarmi con te dei miei pensieri, il cuore afflitto fa venire in mente al
poeta la figura della donna, quindi il pensiero originario muore. Sentire parlare e respirare la sua donna, alla
quale si riferisce direttamente, il poeta torna a lei. Questo testo, attraverso la sintassi e i connettori temporali,
fa un qualcosa di diverso rispetto al concetto razionale di rapporti amorosi.

Lezione 8 – Il sonetto di Bembo

Pietro Bembo (1470-1547) – Introduzione

1470 nasce a Venezia, figlio di Bernardo


1497-99 segue il padre a Ferrara, presso la corte degli Este
1500-1501 relazione con la nobildonna friulana Maria Savorgnan  Noi non abbiamo acceso diretto alle
lettere di Maria
1501 cura un’edizione del Canzoniere e dei Trionfi di Petrarca (basata sul Ms. Vat. Lat. 3195)
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1502 cura un’edizione della Commedia di Dante


1502-3 amore per Lucrezia Borgia
1505 Gli Asolani (dialogo in forma di prosimetro), a lei dedicati
1506-12 è a Urbino, alla corte dei Montefeltro – comincia la carriera ecclesiastica
1512-1520 a Roma, segretario ai brevi di papa Leone X
1522 dopo un periodo a Venezia, si trasferisce a Padova
1525 Prose della volgar lingua (Petrarca e Boccaccio come modelli unici di stile)
1530 Rime
1535 muore Faustina Morosina della Torre, compagna di Bembo e madre dei suoi figli
1539 nomina a cardinale

Sappiamo con certezza che Bembo avesse visto di persona l’autografo di Petrarca. Assenza di apparati di
commento che cominciano ad ingombrare i margini dei canzonieri, il testo viene lasciato solo senza
commenti, con un formato pratico. “Le basi della volgar lingua” è un’opera fondamentale di Bembo.
5 anni dopo escono le “Rime” di Bembo.

Petrarca nel carteggio di Bembo con Maria Savorgnan

«Ho ricevute due lettere da voi. L’una dice così: […] L’altra dice: […] E dicovi che poichè voi partiste da me,
se gli Idii mi conservino nella grazia vostra, che io mai non chiusi occhio ma «di pensier in pensier, di monte
in monte» [Rvf 129], mi sono iti guidando i vostri gentili costumi […]. Voi dite non aver chiuso occhio, dapoi
che io da voi mi diparti’, ma di pensiero in pensiero. E io dico che sempre, dapoi che io prima mi disposi
d’amarvi, ho vegghiato nel pensiero dolcissimo di voi in guisa, che Io son già stanco di pensar sì come i miei
pensieri in voi stanchi non sono [Rvf 74].» (da una lettera del 1 agosto 1500)

«La vostra imagine, come che io l’abbia sempre nel cuore, pure ho io carissima sopra quanti doni ebbi
giamai. […] Holla basciata mille volte in vece di voi, e priegola di quello, che io voi volentieri pregherei, e
veggo che ella benignamente assai par che m’ascolte, più che voi non fate, se risponder sapesse a’ detti
miei [Rvf 78]». (da una lettera del 22 luglio 1500)

Spiegazione  due lettere di Bembo che usano le parole di Petrarca per comunicare con la donna amata.
Gioco tra immagine fisica e immagine interiore della donna.

Le rime di Bembo: una tradizione complessa

I suoi testi ebbero un’ampia circolazione manoscritta prima della princeps del 1530.
Ci sono giunti molti testimoni riconducibili all’autore e molti non d’autore (Donnini 2003, vol. 2).
Tra gli altri:
• raccolta risalente all’ultimo decennio del Quattrocento (ms. Paris, BNF, Ital. 1543)
• silloge per Elisabetta Gonzaga, duchessa d’Urbino (ms. Marciano Italiano IX.143)
• ms. Wien, Österreichische Nationalbibliothek, 10245, scelto da Donnini come base per la sua
edizione critica (2003)

Stratificazione molto complessa, passano per diverse fasi di elaborazione.

Le principali edizioni a stampa

1530 princeps (114 testi)


1535 (138 testi)
1548 (179 testi)
L’edizione Dorico (1548), postuma, fu curata da Carlo Gualteruzzi, corrispondente e stretto collaboratore di
Bembo. Include anche 14 componimenti tratti dagli Asolani.
Secondo Albonico (2006), nella sequenza dei 179 testi sarebbe possibile riconoscere una struttura tripartita
(134; 21; 21+3):
• 1-134 (‘canzoniere’)
• 136-155 (testi di encomio e di corrispondenza)
• 156-179 (testi ‘in morte’ + chiusa spirituale)
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Abbiamo 180 testi, non tutti d’amore. All’interno di essi si possono isolare i premi 134 che fanno parte di un
vero e proprio canzoniere Petrarchesco, mentre gli altri formano due raccolte.
Criterio narrativo/architettonico e forme metriche con relativo uso  criteri per comparare le opere di Bembo
con quelle di Petrarca.

1-134: un canzoniere petrarchesco?

In apertura:
1 proemio (< Rvf 1)
2 innamoramento (< Rvf 3)  riprende ciò che faceva Petrarca nel testo 2 e 3 cambiando ordine
3 innamoramento (< Rvf 2)
50 rifiuto del ‘mondo’ (punto di svolta? cfr. 1)
In chiusura:
128-134 rinuncia ad Amore
Secondo Albonico 2006: 1-44; 45-90; 91-134 (cioè 44, 46 e 44 testi)

Il sonetto proemiale

Piansi e cantai lo strazio e l’aspra guerra, ABBA ABBA CDE CDE; 4+4+6
ch’i ebbi a sostener molti e molti anni
e la cagion di così lunghi affanni, [rime inclusive; cfr. Rvf 364]
cose prima non mai vedute in terra.
Dive, per cui s’apre Elicona e serra,
use far a la morte illustri inganni,
date a lo stil, che nacque de’ miei danni,
viver, quand’io sarò spento e sotterra.
Ché potranno talor gli amanti accorti,
queste rime leggendo, al van desio
ritoglier l’alme col mio duro exempio,
e quella strada, ch’a buon fine porti,
scorger da l’altre, e quanto adorar Dio
solo si dee nel mondo, ch’è suo tempio.

Spiegazione  piansi e cantai (parole riprese da Petrarca) il tormento e la crudele guerra (d’amore) che
dovetti combattere per lunghi anni. “Dive” è un altro modo per dire “muse”, l’invocazione alle muse è
abbastanza particolare ed unica. Probabilmente egli vuole comunicare uno stile aulico. Nelle terzine si
scopre che la richiesta alle muse viene fatta in modo che gli altri impareranno da lui, anche gli altri
gioveranno di ciò.
Cfr. Rvf 1

Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono


di quei sospiri ond'io nutriva 'l core
in sul mio primo giovenile errore
quand'era in parte altr'uom da quel ch'i' sono,
del vario stile in ch'io piango e ragiono
fra le vane speranze e 'l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.
Ma ben veggio or sí come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;
e del mio vaneggiar vergogna è 'l frutto,
e 'l pentersi, e 'l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.

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Un sonetto di svolta (?): 50 (1548) (47 ed. Dionisotti; 50 ed. Donnini)

Or c’ho le mie fatiche tante e gli anni ABBA ABBA CDC DCD; 8+3+3
spesi in gradir Madonna, e lei perduto [cfr. Rvf 364, 9-13 spesi anni : affanni: danni]
senza mia colpa, e non m’hanno potuto
levar di vita gli amorosi affanni,
perché vaghezza tua più non m’inganni,
mondo vano e fallace, io ti rifiuto,
pentito assai d’averti unqua creduto,
de’ tuoi guadagni sazio e de’ tuoi danni.
Ché poi che di quel ben son privo e casso, [rime C e D consonanti]
che sol volli e pregiai più che me stesso,
ogni altro bene in te dispregio e lasso. [rima equivoca]
Col monte e col suo bosco ombroso e spesso
celerà Catria questo corpo lasso, [monte tra Marche e Umbria]
infin ch’uscir di lui mi sia concesso.

Spiegazione  ora che ho speso gli anni a servire una donna e l’ho perduta senza una colpa, sopravvivendo
alle sofferenze dell’amore, affinchè la tua bellezza non mi inganni più, io ti rifiuto pentito di averti creduto. Da
quando ho perduto la donna, disprezzo e abbandono ogni altro bene. Il monte Catria nasconderà il mio
corpo. Come in Petrarca, abbiamo un pentimento e un rifiuto della vita.

Verso l’epilogo: 134 (1548) (120 ed. Dionisotti; 137 ed. Donnini)

Signor del ciel, s’alcun prego ti move, ABBA ABBA CDE CDE
volgi a me gli occhi, questo solo, e poi,
s’io ’l vaglio, per pietà coi raggi tuoi
porgi soccorso a l’alma e forze nove;
tal ch’Amor questa volta indarno prove
tornarmi ai già disciolti lacci suoi.
Io chiamo te, ch´assecurar mi puoi:
solo in te speme aver posta mi giove.
Gran tempo fui sott’esso preso e morto;
or poco o molto a te libero viva,
e tu mi guida al fin, tardi o per tempo.
Se m’ha falso piacer in mare scorto,
vero di ciò dolor mi fermi a riva:
non è da vaneggiar omai più tempo.

Spiegazione  rifiuto e rinuncia all’amore rivolgendosi direttamente a Dio. Signor del cielo, se qualche
preghiera ti muove dai forze alla mia anima con i tuoi raggi.

Cfr. Rvf 1

Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono


di quei sospiri ond'io nutriva 'l core
in sul mio primo giovenile errore
quand'era in parte altr'uom da quel ch'i' sono,
del vario stile in ch'io piango e ragiono
fra le vane speranze e 'l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.
Ma ben veggio or sí come al popol tutto
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favola fui gran tempo, onde sovente


di me medesmo meco mi vergogno;
e del mio vaneggiar vergogna è 'l frutto,
e 'l pentersi, e 'l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.

1-134: un canzoniere petrarchesco?

Distribuzione dei metri (ed. 1548):


107 sonetti
14 canzoni
4 ballate
4 madrigali
2 sestine, di cui una doppia
2 canzonette
1 capitolo in terza rima
1 strambotto (ottava isolata)
Se è vero che la ‘media’ dei petrarchisti non ripropone le sperimentazioni più ardite dei Rvf, limitandosi alla
ripresa degli schemi più tradizionali, proprio Bembo non trascura gli schemi più complessi.

Dal punto di vista dei metri, ci sono elementi di notevole fedeltà e altri meno. Le sestine sono molte di meno
rispetto a Petrarca. Il capitolo della terza rima viene dalla struttura Dantesca e viene influenzato da Petrarca
(“Trionfi”). Per quanto riguarda le canzoni, c’è una maggiore fedeltà a Petrarca.

LEZIONE 9 – Il Sonetto di Bembo (2)

I sonetti di Bembo: sintassi e partizioni metriche

Il tipo 4+4+3+3 si riscontra in poco più del 30% dei sonetti (gran cambiamento rispetto a Petrarca e Boiardo),
confermando un avvenuto cambiamento nel gusto, in favore della gravitas prodotta dai periodi lunghi (Afribo
2001).
Il legame tra le quartine (8+6; 8+3+3), così importante nella tradizione, permane ma arretra, mentre vengono
in primo piano i legami tra la seconda quartina e la prima terzina (cioè i tipi 5-9 nello schema di Soldani
2009): dal 12% dei Rvf al 34% di Bembo.
Dunque è più che raddoppiato il numero di testi con una struttura sbilanciata, i cui legami interni tendono a
isolare le unità periferiche (4+7+3), in particolare la seconda terzina, che in Bembo assume un rilievo
particolare.

I sonetti di Bembo: isolamento sintattico della seconda terzina

Di solito la seconda terzina ospita «la conclusione logica del discorso o un cambio di prospettiva, che talora
si risolve in un vero contrasto con la prima parte» (Juri 2017, p. 136). Infatti al v. 12 troviamo:
• connettori logici, come ma (congiunzione avversativa), così o tal (con funzione conclusiva e/o
comparativa);
• uno scarto che può riguardare
• il soggetto grammaticale (ad es. dalla seconda persona singolare o plurale alla prima)
• il tempo (dal passato al presente, segnalato da or)
• il modo (dalla certezza all’ipotesi e viceversa).

Lo scarto di tempo o di modo all’inizio della seconda terzina può generare una conclusione esclamativa e/o
riflessiva, che spesso
• esprime un desiderio irrealizzabile
• afferma una verità di ordine generale (chiusa sentenziosa, spesso con versi-frase)
Es. 162 (1548) (148 ed. Dionisotti; 72 ed. Donnini), vv. 12-14

Ben si pò dir omai, che poca fede


ne serva il mondo, e come strale o raggio,
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a pena spunta un ben, che si disperde.  testo di lutto. Si tratta di un testo che originariamente era dedicato
ad una donna non identificata. L’informazione riguardante la morte della donna ci interessa perché viene
inserito tra i testi che riguardano la morte di Bembo. “Ben si pò dire” conferisce sin da subito certezza al
testo. come un freccia o un raggio di luce, un bene appena appare si disperde. Nella costruzione di questi 3
versi, l’ordine artificiale conferisce un particolare effetto.

Da un punto di vista grammaticale, il tempo verbale può cambiare: ciò che è stato vero nel passato non lo
sarà necessariamente anche nel presente o nel futuro. Lo stesso discorso lo si può fare per il modo e per il
soggetto.

I sonetti monoperiodali

Tutti i sonetti monoperiodali «a detonazione» (Renzi) di Bembo sono composti entro il 1510-11, in una fase
ancora ‘quattrocentesca’, dopo la quale tenderà ad abbandonare sia queste soluzioni sia strutture fondate su
correlazione e ossimoro.  contraddizione dentro la stessa locuzione.
Probabilmente composti nel periodo in cui Bembo è innamorato di Lucrezia Borgia (1502-1503).

Esempi: 5 e 6, che formano un dittico sullo stesso verso finale (citazione da Petrarca)

5 (1548; Dionisotti; Donnini): monoperiodale

Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura, ABBA ABBA CDE DEC
ch’a l’aura su la neve ondeggi e vole,
occhi soavi e più chiari che ’l sole,
da far giorno seren la notte oscura,
riso, ch’acqueta ogni aspra pena e dura,
rubini e perle, ond’escono parole
sì dolci, ch’altro ben l’alma non vòle,
man d’avorio, che i cor distringe e fura,
cantar, che sembra d’armonia divina, [cfr. 6]
senno maturo a la più verde etade, [cfr. Rvf 213, 3 sotto biondi capei canuta mente]
leggiadria non veduta unqua fra noi,
giunta a somma beltà somma onestade, [Cfr. Rvf 351]
fur l’esca del mio foco, e sono in voi
grazie, ch’a poche il ciel largo destina. (Cfr. incipit di Rvf 213, monoperiodale)

Spiegazione  mentre nelle quartine si parla delle caratteristiche fisiche della donna, nelle terzine si
descrivono i suoi pregi interiori. Nel verso 11 vengono unite le qualità.
La maggior parte degli elementi del sonetto sono tessere petrarchesche. “neve” si riferisce al bianco perfetto
del volto / rubini e perle  metafore riferite a labbra e denti. L’enumerazione petrarchesca culmina nella
principale, nel penultimo verso.

6 (1548; Dionisotti; Donnini): monoperiodale

Moderati desiri, immenso ardore, ABBA ABBA CDE CDE


speme, voce, color cangiati spesso, (cfr. Rvf 351, monoperiodale)
veder, ove si miri, un volto impresso,
e viver pur del cibo, onde si more,
mostrar a duo begli occhi aperto il core,
far de le voglie altrui legge a se stesso,
con la lingua e lo stil lunge e da presso. [rima inclusiva]
gir procacciando a la sua donna onore,
sdegni di vetro, adamantina fede,
sofferenza lo schermo e di pensieri
alti lo stral e ’l segno opra divina, [cfr. 5]
e meritar e non chieder mercede,
fanno ’l mio stato, e son cagion ch´io speri
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grazie, ch´a pochi il ciel largo destina. (Cfr. incipit di Rvf 213, monoperiodale)

Spiegazione  il finale sigilla i due testi e li fa finire nello stesso modo. La struttura è anche qui enumerativa
ma gli elementi elencati riguardano il poeta e non la donna. Del poeta ci vengono descritti il suo stato
d’animo ed i suoi comportamenti. I primi versi sono affollati di molti sostantivi. I desideri del poeta sono
misurati, sono forti ma il poeta si contiene nella loro espressione. La parte più metaforica del sonetto inizia
nelle terzine. Il vetro si contrappone al diamante, lo sdegno è fragile e dura poco mentre la fede è
adamantina. Lo schermo, ciò che difende il poeta, è la sofferenza.

Una riscrittura del sonetto 5 di Bembo: Giovanni Della Casa, Rime, 11

Sagge, soavi, angeliche parole, ABBA ABBA CDE CDE, monoperiodale:


dolce rigor, cortese orgoglio e pio, le rime A riprendono le rime B di Bembo
chiara fronte e begli occhi ardenti ond'io
ne le tenebre mie specchio ebbi e sole,
e tu, crespo oro fin, là dove sòle
spesso al laccio cader còlto il cor mio,
e voi, candide man, che 'l colpo rio
mi deste cui sanar l'alma non vòle,
voi d'Amor gloria sète unica e 'nseme
cibo e sostegno mio, col qual ho corso
securo assai tutta l'età più fresca,
né fia già mai, quando 'l cor lasso freme
nel suo digiun, ch'i' mi procuri altr'esca, [Cfr. la stessa parola, con diverso significato, nel v. 13 di B.]
né stanco altro che voi cerchi soccorso.  “non cercherò mai aiuto in qualcun altro che non sia voi”.

Spiegazione  e voi, candide man, che 'l colpo rio


mi deste cui sanar l'alma non vòle,  le qualità di cui si parla riguardano la donna. L’enumerazione riguarda
elementi non fisici. “Crespo d’oro” è un elemento bembiano che viene spostato e fatto precedere da qualità
non fisiche. “sòle” è un altro elemento ripreso da Bembo ma anche questo viene spostato. Il poeta si rivolge
direttamente alle bellezze della donna, creando un’atmosfera più intima.
I termini “vole” ed “esca” sono ripresi da Bembo ma cambiano posizione.

Rvf 213

Grazie ch'a pochi il ciel largo destina,


rare vertú, non già d'umana gente,
sotto biondi capei canuta mente,
e 'n umil donna alta beltà divina;
leggiadria singulare e pellegrina,
e 'l cantar che ne l'anima si sente,
l'andar celeste, e 'l vago spirto ardente,
ch'ogni dur rompe e ogni altezza inchina;
e que' belli occhi che i cor' fanno smalti,
possenti a rischiarar abisso e notti,
e tôrre l'alme a' corpi, et darle altrui;
col dir pien d'intelletti dolci e alti,
coi sospiri soavemente rotti:
da questi magi transformato fui.

Spiegazione  in Petrarca era il verso iniziale.

I sonetti di Bembo: altre caratteristiche

Di pari passo con la predilezione per le partizioni legate va quella per i periodi lunghi: in quasi l’80% dei casi
le parti unite ospitano un unico periodo. Non così nelle terzine, tra le quali tende a cadere una pausa logica
forte.
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Rispetto a Petrarca, Bembo è meno ostile alle subordinate causali, che usa ad esempio per articolare una
ragione al seguito di una richiesta o di una preghiera (in genere in testi di corrispondenza).

Nei componimenti più tardi (dal 1525 in poi, seguendo le datazioni di Donnini), le inarcature diventano più
frequenti e più forti, la perturbazione dell’ordine naturale delle parole si accentua e la sintassi si fa più
contorta (Zuliani 2009).
Es. 124 (1548) (110 ed. Dionisotti; 127 ed. Donnini), vv. 1-4 (a Rodolfo Pio da Carpi):

Da tôrvi agli occhi miei s’a voi diede ale


Fortuna ria, cui del mio bene increbbe,
di levarvi al penser forza non ebbe,
ch’è con voi sempre, al volar vostro equale.

Spiegazione: sonetto dedicato a Rodolfo Pio, un amico di Bembo a cui il poeta dedica la poesia nel
momento del suo trasferimento. I due litigarono, pertanto Bembo decise di dedicarlo ad un’altra persona
salvo tornare poi su suoi passi. Il soggetto è la fortuna crudele; siamo all’interno di un’ipotetica. “se la fortuna
crudele a voi diede ali per sottrarvi ai miei occhi, che (il pensiero) è con voi sempre uguale al vostro volare.

129 (1548) (115 ed. Dionisotti; 132 ed. Donnini) – A Bernardo Cappello

Se de le mie ricchezze care e tante ABBA ABBA CDC DCD


e sì guardate, ond’io buon tempo vissi
di mia sorte contento, e meco dissi:
– Nessun vive di me più lieto amante, –
io stesso mi disarmo, e queste piante,
avezze a gir pur là, dov’io scoprissi
quegli occhi vaghi e l’armonia sentissi
de le parole sì soavi e sante,
lungi da lei di mio voler sen’ vanno,______
lasso, chi mi darà, Bernardo, aita?
O chi m´acqueterà, quand´io m´affanno?____
Morrommi, e tu dirai, mia fine udita:
– Questi, per non veder il suo gran danno,
lasciata la sua donna, uscìo di vita .-

Spiegazione  sonetto dedicato ad un altro amico. Idea della rinuncia ad amore. Il “se” introduce una
subordinata ipotetica; “Se io stesso mi disarmo delle mie ricchezze care e preziose e così ben custodite e
grazie alle quali vissi un tempo felice e contento del mio destino e dissi tra me e me, nessun amante vive più
lieto di me. e dipende da se. “Se io mi disarmo delle mie ricchezze ed i miei piedi si allontanano da lei”  la
principale è “chi mi darà, Bernardo, aita?”

165 (1548) (151 ed. Dionisotti; 163 ed. Donnini)

Quando, forse per dar loco a le stelle, ABBA ABBA CDE DCE, con rime derivative
il sol si parte, e ’l nostro cielo imbruna, e inclusive
spargendosi di lor, ch’ad una ad una,
a diece, a cento escon fuor chiare e belle,
i’ penso e parlo meco: in qual di quelle
ora splende colei, cui par alcuna
non fu mai sotto ’l cerchio de la luna, [cfr. Rvf 237, 2-3]
benché di Laura il mondo assai favelle?
In questa piango, e poi ch’al mio riposo
torno, più largo fiume gli occhi miei,
e l’imagine sua l´alma riempie, [forte inarcatura]
trista; la qual mirando fiso in lei
le dice quel, ch’io poi ridir non oso:
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o notti amare, o Parche ingiuste et empie!

Spiegazione  questa volta non vi è l’utilizzo di una subordinata ipotetica ma di una subordinata temporale
(Quando). Nelle terzine, le inarcature sono molto accentuate. Testo in morte  3 parche  filo della vita,
assegna i destini, taglia i fili della vita.

Testo che fu scritto per un’altra donna, ma nel montaggio finale per le rime il testo va nei componimenti per
la donna amata. Riferimento nella poesia a Laura, la donna di Petrarca, ma la donna del componimento è
più bella di quest’ultima.

LEZIONE 10 – Bembo e Della Casa

97 (1548) (87 ed. Dionisotti; 98 ed. Donnini)

O superba e crudele, o di bellezza ABBA ABBA CDE DEC


e d’ogni don del ciel ricca e possente,
quando le chiome d’or caro e lucente
saranno argento, che si copre e sprezza,
e de la fronte, a darmi pene avezza,
l’avorio crespo e le faville spente,
e del sol de’ begli occhi vago ardente
scemato in voi l´onor e la dolcezza,
e ne lo specchio mirerete un’altra,___
direte sospirando: – È, lassa, quale
oggi meco penser? perché l’adorna [inarcatura]
mia giovenezza ancor non l’ebbe tale?
A questa mente o ’l sen fresco non torna?
Or non son bella, alora non fui scaltra .-

Spiegazione  il testo ricorda un testo di Petrarca, il sonetto 12, dove Petrarca immagina di arrivare alla
propria vecchiaia arrivando a vedere Laura per confidarle il suo amore. Bembo si rivolge direttamente alla
donna amata  vocativo + temporale. L’indicativo futuro fa in modo che non ci sia un dubbio su ciò che
avverrà.

Nel rinascimento, il poeta italiano più apprezzato all’estero è Petrarca.

Torquato Tasso, 108 (redazione 1567)

Non più cresp’oro, ed ambra tersa e pura [cfr. Bembo, 5] ABBA ABBA CDE ECD
sembrano i crin, che ’ndegno laccio ordiro,
e nel volto e nel seno altro non miro
che vana di bellezza ombra e pittura.
Fredda è la fiamma omai, la luce oscura
de gli occhi, e senza grazia il moto e ’l giro.
Deh come i miei pensier di te invaghiro,
lasso, e chi ’l senso e la ragion ne fura?
Ahi ch’io cieco d’amor altru’ ingannai,
in rime ornando di sì ricchi fregi
la forma tua, che poi leggiadra apparve.
Ecco i' rimovo le mentite larve:
or ne la propria tua sembianza omai
ti veggia il mondo, e ti derida e spregi.

Spiegazione  il primo verso riprende l’incipit di Bembo (Deittico 5-6) ma lo rovescia. La donna viene vista
prive delle qualità interiori. I capelli non sembrano più oro ondulato e ambra tersa pura ma capelli che
ordirono un laccio. Ormai la fiamma è fredda e oscura, gli occhi hanno perso la loro luce e il loro movimento
è senza grazia. Come i miei pensieri potessero innamorarsi di te nessuno lo sa. Adornando nei miei versi la
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tua immagine, essa appare più leggiadra, ingannando gli altri. Rimuovo le false immagini in modo che ora il
mondo ti veda nel tuo aspetto reale e che ti derida.

97 (1548) (87 ed. Dionisotti; 98 ed. Donnini)

Fonte di questo sonetto è, oltre a Rvf 12 (Se la mia vita da l’aspro tormento), un’ode del poeta latino Orazio
(Carmina, IV 10, raccolta dove occupa il 98° posto, proprio come questo sonetto nel ms. viennese), alla
quale Bembo resta più fedele di Petrarca.
Le scelte sintattiche risentono del modello latino e di analoghe subordinate temporali estese di Petrarca,
come in 298 (Quand’io mi volgo indietro a mirar gli anni).

Orazio, Carmina, IV 10, ode rivolta a Ligurino

Spiegazione  Grande aggressività nei confronti dell’oggetto amato; dal punto di vista sintattico c’è una
somiglianza con il modello petrarchesco.

Petrarca, Rvf 12

Se la mia vita da l'aspro tormento


si può tanto schermire, e dagli affanni,
ch'i' veggia per vertú degli ultimi anni,
donna, de' be' vostr' occhi il lume spento,
e i cape' d'oro fin farsi d'argento,
e lassar le ghirlande e i verdi panni,
e 'l viso scolorir che ne' miei danni
a lamentar mi fa pauroso e lento:
pur mi darà tanta baldanza Amore
ch'i' vi discovrirò de' mei martiri
qua' sono stati gli anni, e i giorni, e l'ore;
e se 'l tempo è contrario ai be' desiri,
non fia ch'almen non giunga al mio dolore
alcun soccorso di tardi sospiri.

Pierre de Ronsard (1524-1585), Sonets pour Hélène (Livre II. xxiv)

Quand vous serez bien vieille, au soir à la chandelle,


Assise aupres du feu, devidant et filant,
Direz, chantant mes vers, en vous esmerveillant,
Ronsard me celebroit du temps que j’estois belle.
Lors vous n’aurez servante oyant telle nouvelle,
Desja sous le labeur à demy sommeillant,
Qui au bruit de mon nom ne s’aille resveillant, [< de Ronsard]
Benissant vostre nom de louange immortelle.
Je seray sous la terre, et fantôme sans os
Par les ombres myrtheux je prendray mon repos:
Vous serez au fouyer une vieille accroupie,
Regrettant mon amour et vostre fier desdain.
Vivez, si m’en croyez, n’attendez à demain:
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Cueillez dés aujourd’huy les roses de la vie.

Spiegazione  Non sappiamo se Ronsard sapesse dell’esistenza del sonetto di Bembo. “Quando sarete
molto vecchia, la sera seduta presso il fuoco sfilando la lana, direte cantando i miei versi: “Ronsard mi lodò
nel tempo in cui ero bella”  a differenza dei versi di Petrarca, c’è la presentazione e la descrizione di una
situazione e soprattutto il nome del poeta all’interno del testo. “Allora voi non avrete una serva che al dire
quelle parole non si svegli al sentire il mio nome. Esse vi loderanno per essere stata lodata da me.”
“Quando sarò morto e giacerò sotto i mirti”  riferimento all’Eneide, gli amanti infelici sono collocati in un
campo di mirti.
“voi sarete una vecchia piegata sul focolare che rimpiange il mio amore e il vostro sdegno. Vivete, non
attendete domani per cogliere le rose della vita.”

Pierre de Ronsard, Sonets pour Hélène (Livre II. xxiv): modelli e fonti

Petrarca Rvf 12

servante < Tibullo, Elegia I.3


accroupie < Orazio, Carmina, IV 10
vivez < Catullo, carmen 5
cueillez < Ausonio, idillio 14

Stando al biografo di Ronsard, Claude Binet (1597), la regina madre Caterina de’ Medici gli avrebbe chiesto
di comporre una sequenza di sonetti per una delle sue dame d’onore, Hélène de Surgères. Le Oeuvres
complètes del 1578 comprendevano Le premier livre des Sonnets pour Hélène e Le second livre des
Sonnets pour Hélène.

W.B Yeats, When you are old

When you are old and grey and full of sleep,


And nodding by the fire, take down this book,
And slowly read, and dream of the soft look
Your eyes had once, and of their shadows deep;

How many loved your moments of glad grace,


And loved your beauty with love false or true,
But one man loved the pilgrim soul in you,
And loved the sorrows of your changing face;

And bending down beside the glowing bars,


Murmur, a little sadly, how Love fled
And paced upon the mountains overhead
And hid his face amid a crowd of stars.

Spiegazione  non è un sonetto ed ha una forma giambica. Stampato per la prima volta nel 1893 dedicato
alla donna che Yeats amò per tutta la vita, Maud Gonne. Nella seconda quartina, Yates ripercorre i pensieri
della donna quando questa apre il libro. Finale misterioso, qualcuno interpreta le stelle come riferimento a de
Ronsard. L’inizio dei due componimenti presenta la medesima situazione. Inoltre, Ronsard cita sé stesso
mentre Yeates cita direttamente la sua opera (il libro ispirato a lei). Yeates vuole distinguere il suo amore da
quello degli altri.

Fabrizio De André, Valzer per un amore (1969)

Quando carica d'anni e di castità


Tra i ricordi e le illusioni
Del bel tempo che non ritornerà
Troverai le mie canzoni

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Nel sentirle ti meraviglierai


Che qualcuno abbia lodato
Le bellezze che allor più non avrai
E che avesti nel tempo passato
Ma non ti servirà il ricordo
Non ti servirà
Che per piangere il tuo rifiuto
Del mio amore che non tornerà

Spiegazione  la fonte non è Yeates ma de Ronsard. L’inizio della canzone ricorda la poesia di Ronsard, la
donna è piegata dalla vecchiaia.

Il ‘petrarchismo’ in Francia, Inghilterra e Spagna

1470 Princeps di Rvf e Trionfi


Edizioni e commenti influenzano la ricezione di Petrarca.

Esempi dell’influenza del commento di Alessandro Vellutello (1525):


• in Francia, Vasquin Philieul traduce la prima parte seguendo il suo ordine (Laure d’Avignon, 1548)
• in Inghilterra, Thomas Wyatt è autore di traduzioni e riscritture di sonetti petrarcheschi

1545 pubblicazione a Venezia della prima antologia di rime di una fortunata serie che continuerà fino al 1560
> i poeti francesi ne imiteranno molti testi, anche di autori poco noti

In Francia

Maurice Scève e il re Francesco I ad Avignone (1533)

Clément Marot, traduzione di sei sonetti (Six sonnetz de Pétrarque sur la mort de sa Dame Laure), 1539
Maurice Scève, Délie (1544), sequenza di 449 dizains
Pontus de Tyard, Erreurs amoureuses (1549)
Joachim Du Bellay, Deffence et illustration de la langue française (1549) e Olive (1549)
Pierre de Ronsard, Les Amours (1552), sonetti in decasyllabes (185 > 222)
Pierre de Ronsard, La continuation des Amours (1555), 70 sonetti in alessandrini

In Inghilterra

Sir Thomas Wyatt (1503-1542)


• i primi sonetti in inglese
• traduzioni e imitazioni da Petrarca
Es. Rvf 134 (uno dei più imitati, insieme a 132)
Henry Howard, Earl of Surrey (1516-1547)
• poche imitazioni (es. Rvf 140)
I loro componimenti furono pubblicati postumi nella miscellanea Songs and Sonnets (1557) curata da
Richard Tottel.

In Inghilterra la diffusione dei sonetti di Petrarca è più lenta rispetto alla Francia.

Rvf 134

Pace non trovo, e non ho da far guerra;


e temo, e spero; e ardo, e son un ghiaccio;
e volo sopra 'l cielo, e giaccio in terra;
e nulla stringo, e tutto 'l mondo abbraccio.
Tal m’ha in pregion, che non m'apre né serra,
né per suo mi riten né scioglie il laccio;
e non m'ancide Amore, e non mi sferra,
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né mi vuol vivo, né mi trae d'impaccio.


Veggio senza occhi, e non ho lingua e grido;
e bramo di perir, e cheggio aita;
e ho in odio me stesso, ed amo altrui.
Pascomi di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte e vita:
in questo stato son, donna, per voi.

Wyatt, 17 (da Rvf 134)

I find no peace, and all my war is done.


I fear and hope. I burn and freeze like ice.
I fly above the wind, yet can I not arise;
And nought I have, and all the world I seize on.
That loseth nor locketh holdeth me in prison
And holdeth me not—yet can I scape no wise—
Nor letteth me live nor die at my device,
And yet of death it giveth me occasion.
Without eyen I see, and without tongue I plain.
I desire to perish, and yet I ask health.
I love another, and thus I hate myself.
I feed me in sorrow and laugh in all my pain;
Likewise displeaseth me both life and death,
And my delight is causer of this strife.

Giovanni Della Casa, Rime, 1

Poi ch'ogni esperta, ogni spedita mano, ABBA ABBA CDE CDE
qualunque mosse mai più pronto stile,
pigra in seguir voi fôra, alma gentile,
pregio del mondo e mio sommo e sovrano;
né poria lingua, od intelletto umano
formar sua loda a voi par, né simile,
troppo ampio spazio il mio dir tardo umile
dietro al vostro valor verrà lontano:
e più mi fôra onor volgerlo altrove;
se non che 'l desir mio tutto sfavilla,
angel novo del ciel qua giù mirando:
o se cura di voi, figlie di Giove,
pur suol destarmi al primo suon di squilla,
date al mio stil costei seguir volando.

Spiegazione  Giovanni Della Casa è considerando da Bembo il suo erede. Il canzoniere di Della Casa è
fedele a quello di Petrarca nella struttura, ossia la chiusura con un testo che esprime pentimento.
Della Casa si rivolge direttamente all’amata, c’è una sorta di dedica. Il testo si struttura con la principale che
arriva soltanto alla fine della seconda quartina. La lunga causale che precede la principale è una somiglianza
della poesia di Petrarca. Tutto il componimento è una lode alla donna e una riflessione sulla difficoltà di
trovare una forma adeguata per lodarla. La donna viene descritta come un angelo in terra, dotata di qualità
che impediscono al poeta di non poterla cantare.

Giovanni Della Casa, Rime, 64

Questa vita mortal, che 'n una o 'n due ABBA ABBA CDE CED
brevi e notturne ore trapassa, oscura
e fredda, involto avea fin qui la pura
parte di me ne l'atre nubi sue.
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Or a mirar le grazie tante tue


prendo, ché frutti e fior, gielo e arsura,
e sì dolce del ciel legge e misura,
eterno Dio, tuo magisterio fue.
Anzi 'l dolce aer puro e questa luce
chiara, che 'l mondo a gli occhi nostri scopre,
traesti tu d'abissi oscuri e misti:
e tutto quel che 'n terra o 'n ciel riluce
di tenebre era chiuso, e tu l'apristi;
e 'l giorno e 'l sol de le tue man sono opre.

Spiegazione  Tasso definisce “rompimento dei versi” l’inarcatura presente nei versi di Della Casa. Questo
testo si rivolge a Dio. “Questa vita mortale che passa in una o due ore brevi e cupe e che aveva avvolto fin
qui la mia anima, ora comincio a guardare le tue grazie perché le stagioni sono opera tua. Dal caos e
dall’oscurità, portasti fuori l’aria e la luce chiara che rivolgono il mondo ai nostri occhi.” La fine del verso di
questo sonetto crea un legame con l’inizio del sonetto precedente.

LEZIONE 11 – Altri Temi del Sonetto del ‘500

Giovanni Della Casa, Rime, 63

O dolce selva solitaria, amica ABBA ABBA CDE DCE


de' miei pensieri sbigottiti e stanchi,
mentre Borea ne' dì torbidi e manchi
d'orrido giel l'aere e la terra implica,
e la tua verde chioma ombrosa, antica
come la mia, par d'ogn’intorno imbianchi,
or che ‘n vece di fior vermigli e bianchi
ha neve e ghiaccio ogni tua piaggia aprica,
a questa breve e nubilosa luce
vo ripensando, che m'avanza, e ghiaccio
gli spirti anch'io sento e le membra farsi;
ma più di te dentro e d'intorno agghiaccio,
ché più crudo Euro a me mio verno adduce,
più lunga notte, e dì più freddi e scarsi.

Spiegazione  Della Casa si rivolge direttamente alla selva, amica dei suoi pensieri. Nel leggere il testo è
inevitabile che la luminose luce si riferisca all’ambiente, si tratta invece di una metafora della vita del poeta.
Viene descritto un paesaggio invernale. Ciò che rende specifico questo sonetto è il modo in cui l’Io coincide
con la selva. L’uso delle scelte sintattiche contribuisce a questo effetto, tramite l’uso del tempo presente.
La differenza tra l’Io e la selva sta nella natura dell’inverno della natura e l’inverno della vecchiaia.

Giovanni Della Casa, Rime, 54

O Sonno, o de la queta, umida, ombrosa ABBA ABBA CDC DCD


Notte placido figlio, o de' mortali
egri conforto, oblio dolce de' mali
sì gravi ond'è la vita aspra e noiosa;
soccorri al core omai che langue e posa
non ave, e queste membra stanche e frali
solleva: a me ten vola o Sonno, e l'ali
tue brune sovra me distendi e posa.
Ov'è 'l silenzio che 'l dì fugge e 'l lume?
E i lievi sogni, che con non secure
vestigia di seguirti han per costume?
Lasso, che 'nvan te chiamo e queste oscure
e gelide ombre invan lusingo: o piume
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d'asprezza colme!, o notti acerbe e dure!

Spiegazione  tema del sogno. L’invocazione del sonno porta tregua dai problemi del giorno. Rapporto tra
metro e sintassi: le inarcature sono caratteristiche di Della Casa e in questo sonetto ce ne sono tantissime.
Dal punto di vista complessivo, la scelta del tempo verbale è diversa dalla scelta del sonetto della selva.
Il testo inizia con l’invocazione del sonno, che come la Notte è personificato. I primi 4 versi sono interamente
costruiti sull’invocazione, mancano infatti le principali. Il verbo “Soccorri” arriva nella seconda quartina,
insieme ad altri verbi. Nelle terzine non c’è più un’invocazione ma ci sono prima delle interrogative retoriche
che rendono il tono più drammatico e l’esclamazione finale, di tono doloroso.
“Piume”  sineddoche, figura retorica per cui con una parte si indica il tutto.

Della Casa, Rime, 35 (risponde a Casa, in cui le virtudi han chiaro albergo di Bembo)

L'altero nido, ov'io sì lieto albergo [Venezia] ABBA ABBA CDE DEC
fuor d'ira e di discordia acerba e ria,
che la mia dolce terra alma natia [Firenze]
e Roma dal penser parto e dispergo;
mentr'io colore a le mie carte aspergo
caduco, e temo estinto in breve fia,
e con lo stil ch'a i buon tempi fioria
poco da terra mi sollevo ed ergo,
meco di voi si gloria: ed è ben degno,
poi che sì chiare e onorate palme
la voce vostra a le sue lodi accrebbe.
Sola per cui tanto d'Apollo calme,
sacro cigno sublime, che sarebbe
oggi altramente d'ogni pregio indegno.

Spiegazione  questo sonetto, in origine, era stato scritto in risposta ad un sonetto di proposta di Bembo.
Questo sonetto venne scritto da Bembo pochi mesi prima della sua morte. Questo sonetto sarà stampato nel
1548 nelle “Rime di Bembo”, da questo si evince che Bembo considerasse Della Casa il suo vero erede.
Architettura molto precisa del canzoniere di Della Casa: 64 testi. Lo schema di rima e le rime sono le stesse
presenti in Bembo, la parola “Albergo” viene ripresa; in questo caso è un verbo ma in Bembo era un nome.
“Il nido illustre dove io così lietamente risiedo, fuori dal dire, dalla discordia che parto e respingo dal mio
pensiero la mia voce natale e Roma.”  Venezia, Firenze e Roma  Bembo si riferiva alla patria (Venezia)
e Roma (dove si trasferì per la carriera ecclesiastica).
Il verbo della principale arriva solo nella prima terzina.
Il rovescio delle parole permette un innalzamento del tono e conferisce solennità al testo.

Gaspara Stampa (1523-1554), Rime, 1

Voi, ch'ascoltate in queste meste rime, ABBA ABBA CDE CDE


in questi mesti, in questi oscuri accenti
il suon degli amorosi miei lamenti
e de le pene mie tra l'altre prime,
ove fia chi valor apprezzi e stime,
gloria, non che perdon, de' miei lamenti
spero trovar fra le ben nate genti,
poi che la lor cagione è sì sublime.
E spero ancor che debba dir qualcuna:
«Felicissima lei, da che sostenne
per sì chiara cagion danno sì chiaro!
Deh, perché tant'amor, tanta fortuna
per sì nobil signor a me non venne,
ch'anch'io n'andrei con tanta donna a paro?»

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Spiegazione  leggiamo pochi testi di donne a causa di una motivazione storica. Nei 96 più importanti
canzonieri del ‘400 solo uno è stato scritto da una donna. Nel ‘500, tuttavia, la tendenza cambia; a partire
dagli anni ’20 del 500 anche le autrici iniziano a firmare i sonetti e a scrivere i canzonieri. Questo cambio di
tendenza è permesso dall’invenzione della stampa, che permette una maggiore accessibilità ed una
maggiore circolazione. Un altro fattore è il cambiamento nel modo di fare poesia; in un momento in cui la
maggior parte degli scrittori si riconosce in un modello e in una lingua comune, allora diventa più facile
inserirsi nel mercato editoriale. Imparando a scrivere come Petrarca si è legittimati ad entrare in questo
mondo.
Scrivere come Petrarca comporta subito un problema per una donna dell’epoca: scrivere in maniera esplicita
non era consentito secondo la morale ed il costume dell’epoca. La maggior parte della autrici si trovò
costretta a nascondere la narrazione di un amore esplicito, narrando per esempio un amore coniugale.
Gaspara Stampa fu una delle poche scrittrici dell’epoca a narrare un amore esplicito. Una delle ragione per
cui fu legittimata nel farlo era la sua posizione sociale marginale. Ella era nata a Padova da una famiglia
agiata ma non nobile. Suo padre, oltre ad essere ricco, era anche colto e permise a Gaspara una formazione
culturale. La relazione tormentata con Collaltino di Collalto è al centro delle sue composizioni. A un certo
punto questo amore viene sostituito da un altro, quello con Bartolomeo Zeni.
La rime vennero stampate dopo la sua morte e dedicate a Della Casa.
In questo sonetto i versi sono scorrevoli. Somiglianze con Petrarca:
- L’incipit, vocativo assoluto proprio come in Petrarca.
- Il suono dei lamenti

Che cosa è molto diverso da Petrarca:


- Non c’è pentimento, la poetessa si vanta della sublimità dei suoi lamenti.
- Implicito rivolgersi alle donne

Isabella di Morra (ca. 1520-1546), 1

I fieri assalti di crudel Fortuna ABBA ABBA CDC DCD


scrivo piangendo, e la mia verde etate;
me che 'n sì vili ed orride contrate
spendo il mio tempo senza loda alcuna.
Degno il sepolcro, se fu vil la cuna,
vo procacciando con le Muse amate;
e spero ritrovar qualche pietate
malgrado de la cieca aspra importuna,
e col favor de le sacrate Dive,
se non col corpo, almen con l'alma sciolta
essere in pregio a più felice rive.
Questa spoglia, dov'or mi trovo involta,
forse tale alto Re nel mondo vive
che 'n saldi marmi la terrà sepolta.

Spiegazione  Isabella venne uccisa dai fratelli poiché sospettata di adulterio. Da questa poetessa ci sono
arrivati solo 10 sonetti e 3 canzoni.
Nel testo si crea una corrispondenza tra il suo essere ignota e il luogo inospitale dove si trova.
La poetessa spera di essere acclamata in un luogo più felice dopo la sua morte. Questo verso può anche
essere interpretato come la volontà in vita di ricongiungersi al padre, in Francia.

Torquato Tasso (1544-1595), 1

Vere fur queste gioie e questi ardori ABBA ABBA CDE CDE
ond'io piansi e cantai con vario carme,
che poteva agguagliar il suon de l'arme
e de gli eroi le glorie e i casti amori;
e se non fu de' più ostinati cori
ne' vani affetti il mio, di ciò lagnarme
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già non devrei, ché più laudato parme


il ripentirsi, ove onestà s'onori.
Or con l'esempio mio gli accorti amanti,
leggendo i miei diletti e 'l van desire,
ritolgano ad Amor de l'alme il freno.
Pur ch'altri asciughi tosto i caldi pianti
ed a ragion talvolta il cor s'adire,
dolce è portar voglia amorosa in seno.

Spiegazione  di Tasso ci sono arrivati moltissimi sonetti. Mentre il canzoniere di Bembo è essenzialmente
scritto in senso petrarchesco, con Tasso soltanto le rime amorose sono riconducibili al modello petrarchesco.
Inizialmente Tasso ha l’idea di scrivere un canzoniere incentrato sul modello petrarchesco, ma poi
abbandona questa idea per lavorare ad una raccolta di rime multifocale con temi diversi. Il testo sopra è
scelto da Tasso come testo proemiale e presenta dei supporti para testuali d’autore che sono dei brevi
sommari che Tasso antepone a ciascuno dei testi per indicarne l’argomento. Egli inserisce anche un
commento, autocommento.
“Vere” rivendica la veridicità delle gioie e degli ardori che prova Tasso.
Si parla di un amore concluso e superato, pertanto viene visto con distanza ma non con pentimento.
Punto di vicinanza con il proemio di Bembo  vv. 10-11 Tema reso in maniera meno solenne rispetto a
Bembo.

Torquato Tasso, 1, dall’esposizione (1591)

«Ond’io piansi e cantai»: il cantare e ’l piangere sono effetti d’Amore convenevolissimi al poeta lirico. Il quale
gli accoppia insieme come il PETRARCA, dicendo «Del vario stile in ch’io piango e ragiono» [Rvf 1, 5]. E ’l
BEMBO: «Piansi, e cantai lo stratio, e l’aspra guerra» [Rime, I, 1], o gli divide come il PETRARCA «I’ piansi,
hor canto» [Rvf 230, 10] et «Cantai, hor piango» [Rvf 229, 1].

Francesco Beccuti detto il Coppetta (1509-1553), Rime, CXXIX

Quel caro nodo che ne lega insieme ABBA ABBA CDE CDE
e di due corpi una sol alma cinge,
gentil consorte, a ragionar mi spinge
con voi, de la mia vita unica speme.
Veggio che 'l tempo già v'assale e preme
del vicin parto e di pallor si tinge
la bella guancia e 'l pensier vostro finge
vane paure e d'ogni effetto sceme.
La novità che può turbarvi alquanto
omai ceda al valore, al chiaro ingegno,
a la prudenza, al vostro animo accorto:
lunga gioia sperar d'un breve pianto
e d'un picciol sudor sì nobil pegno
sia del vostro patir dolce conforto.

Spiegazione  Francesco Beccuti fu originario di Perugia ma conobbe Bembo a Roma. Anche nel suo caso,
le rime vennero raccolte solo in seguito alla sua morte.
Questo sonetto presenta un caso di petrarchismo famigliare, è un testo dedicato alla moglie per darle
conforto. Nella prima parte si sottolinea che il poeta e la moglie sono un anima e due corpi.
Antitesi  lunga gioia vs breve pianto / picciol sudor vs nobil pegno

Francesco Beccuti detto il Coppetta (1509-1553), Rime, CLXVII

Questo, che 'l tedio, ond’è la vita piena, ABBA ABBA CDE CDE
temprando va con dolce inganno ed arte,
che l'ore insieme e le fatiche parte
tacito sì, ch'altri le scorge appena,
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con la veste conforme a l'alta pena


che d'ogni intorno ha pie lacrime sparte,
sen viene a voi, per rallentar in parte
il giusto duol ch'a lamentar vi mena.
Voi, come in chiaro speglio, in lui talora
scorger potrete l'invisibil volo
di quel che passa e mai non torna indietro;
e come sia la vita nostra un'ora
e noi polvere et ombra e sotto il polo
ogni umana speranza un fragil vetro.

Spiegazione  sonetto inviato da Beccuti insieme ad un orologio come dono per consolare un amico, il
quale aveva sofferto un grave lutto famigliare. L’orologio assume un valore simbolico, è in grado di consolare
un anima sofferente.
Si passa dal dolore individuale a quello collettivo.

Lezione 12 – Dalla fine del Cinquecento al Settecento

Ludovico Ariosto (1474-1533)

Corpus: 80 testi in totale, con qualche incertezza di attribuzione.


Un progetto incompiuto di ‘canzoniere’ è attestato dal Vaticano Rossiano 639, codice compilato sotto la
sorveglianza dell’autore poco dopo il 1522: 48 componimenti; è riconoscibile il disegno di un canzoniere
amoroso.
Una successiva fase di elaborazione è attestata da due manoscritti della Biblioteca Ariostea di Ferrara,
probabilmente trascritti nei primi anni trenta del Cinquecento: i componimenti sono raggruppati per metro.
Stampa postuma (Coppa, 1546): ordinamento stabilito dal curatore.
Edizioni moderne:
• Edizione Fatini (1924): per metri e senza distinzione tra testi ‘per il canzoniere’ e non.
• Edizione Bozzetti, in Fra satire e rime ariostesche, a cura di C. Berra (2000), pp. 207-290.
• Selezione commentata in Poeti europei del Cinquecento (2004).
• Rime per il canzoniere (2021), a cura di G. Guassardo, che segue l’ordine del Rossiano e in
appendice riporta i testi aggiunti nei manoscritti ferraresi.

Una caratteristica particolare dei sonetti di Ariosto è la ripresa di poeti come Bembo e poeti del’400,
particolarmente celebrati nell’ambiente ferrarese dove Ariosto vive. Ariosto era inoltre una grande
conoscitore dei classici e questo lo si può riscontrare nei suoi componimenti. Dal punto di vista lessicale, c’è
una forte ripresa di Petrarca.

Ludovico Ariosto (1474-1533), Rime, XIII (XIX nel Rossiano)

Aventuroso carcere soave, ABBA ABBA CDE CDE


dove né per furor né per dispetto,
ma per amor e per pietà distretto
la bella e dolce mia nemica m'ave;
gli altri prigioni al volger de la chiave
s'attristano, io m'allegro: ché diletto
e non martìr, vita e non morte aspetto,
né giudice sever né legge grave,
ma benigne accoglienze, ma complessi
licenziosi, ma parole sciolte
da ogni fren, ma risi, vezzi e giochi;
ma dolci baci, dolcemente impressi
ben mille e mille e mille e mille volte; [ < Catullo, 5]
e, se potran contarsi, anche fien pochi.

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Spiegazione  dal punto di vista tematico, il sonetto celebra le gioie dell’amore. La prima quartina mantiene
forme abbastanza fedeli a Petrarca. Nelle quartine la figura dominante è l’antitesi, che non è presente nelle
terzine. Il “carcere” si contrappone al termine “soave”; il carcere si può considerare come stato amoroso ma
anche come luogo fisico, quello dove si sono incontrati il poeta e la donna amata. Il poeta non è rinchiuso
per rabbia ma per scelta d’amore. Contrapposizione tra il poeta e gli altri prigionieri: essi si rattristano al
girare della chiave, Ariosto si rallegra. I testi classici sono il modello su cui si basa questo sonetto.
Gaspara Stampa, CIV

O notte, a me più chiara e più beata ABBA ABBA CDC DCD


che i più beati giorni et i più chiari,
notte degna da' primi e da' più rari
ingegni esser, non pur da me, lodata;
tu de le gioie mie sola sei stata
fida ministra; tu tutti gli amari
de la mia vita hai fatto dolci e cari,
resomi in braccio lui che m'ha legata.
Sol mi mancò che non divenni allora
la fortunata Alcmena, a cui sté tanto
più de l'usato a ritornar l’Aurora.
Pur così bene io non potrò mai tanto
dir di te, notte candida, ch'ancora
da la materia non sia vinto il canto.

Spiegazione  tema classico, gratitudine nei confronti della notte dato che la si è passata con il proprio
amante. La parola “notte” viene spesso ripetuta nel sonetto ed è definita la dispensatrice delle gioie della
poetessa. Ella immagina una notte senza fine. l’episodio di Alcmena si collega alla letteratura classica.

Matteo Bandello (1485-1561), Rime, CLV

Spesso madonna a scacchi far m'invita, ABBA ABBA CDE CDE


e piglia per suo Rege un dolce sguardo,
bellezza per Reina, ed ond' i' m'ardo,
con que' begli occhi per Arfil s'aita.
Rocch' è 'l parlar, e fa la speme ardita,
e pace e guerra cavalcar i' guardo;
motti, sdegni, furor, attender tardo,
atti, cenni, no… sì… Pedoni addita.
Ed io per Regge, l'appresento il core,
col pietoso mirar, con gli occhi morti,
tema, silenzio, ardor e gelosia,
strazio, pianto, servir, riso, dolore,
fede, credenza e passi mal accorti:
ma beltà scacco dammi tutta via!

Spiegazione  Bandello è principalmente conosciuto per le sue novelle ma fu anche poeta. Egli presenta in
questo sonetto la “Battaglia d’Amore” e lo trasforma in una partita di scacchi.
Re  dolce sguardo; Regina  bellezza; Alfiere  gli occhi; Torre  parlare; Pace e guerra  cavalli
Motti, sdegni, atti, cenni, …  pedine.
Mentre la donna ha il dolce sguardo come Re, il poeta ha il cuore. La partita è praticamente già persa, dato
che il poeta ha dalla sua parte solo una serie di atteggiamenti che rappresentano la figura del
pedone/pedina.

Invece di celebrare la bellezza della donna, vengono celebrati alcuni elementi bizzarri  questo è un tratto
tipico della struttura tematica della fine del Cinquecento-inizio Seicento.

Tra fine Cinquecento e primo Seicento: centralità dei ‘soggetti’

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• Notevole estensione degli argomenti ‘poetabili’


• Raccolte individuali e antologie organizzate su base tematica (es. Tasso, Marino)
• Uso di variazioni in serie  serie di sonetti riguardanti lo stesso tema
• Più frequente ricorso a didascalie, nella forma di argomenti o di veri e propri titoli
• Uso di indici tematici  in un certo senso, il tema è più importante dell’autore
• Diffusione di repertori di temi (Giovanni Cisano, Tesoro di concetti poetici, 1610)

Giovan Battista Marino, La lira (1614)

 L’elemento della varietà tematica viene subito esibita, nella copertina della
Lira vengono subito indicati i sottogruppi/sottotemi. Siamo in una realtà completamente diversa da quella di
Petrarca.

Il sonetto di Giovan Battista Marino (1569-1625)

Rime (1602) (454 sonetti) ; La lira (1614) (408 sonetti)

• Maggiore apertura dal punto di vista del lessico e dei temi

• Tendenza a formare serie e sequenze di variazioni sullo stesso tema

• Schema preferito per le terzine CDC DCD  consente una maggiore vicinanza delle rime

• Notevole artificiosità sul piano retorico (antitesi, chiasmi etc.)  la difficoltà non riguarda più la
sintassi ma il piano retorico, tra le quali antitesi e chiasmo in maggior misura.

• Sintassi meno complessa e più ‘cantabile’

• «[…] ricerca di un andamento epigrammatico, con conseguente potenziamento dei nessi logici che
accompagnano e sbilanciano il testo verso la conclusione arguta» (Raboni 2012, p. 126)

Nel Ritratto del sonetto e della canzone (1677) di Federigo Meninni, il sonetto viene assimilato all’epigramma
e Marino viene elogiato come maestro di questo tipo di componimento. Tra gli altri, Meninni loda il sonetto
intitolato Madonna chiede versi di baci.

Giovan Battista Marino, Madonna chiede versi di baci

 Contrapposizione tra baci di carta (rime) e baci veri.

Il sonetto nel Settecento

In un contesto di sperimentazione molto vivace in altri generi metrici, il sonetto


resta comunque la forma più usata per gli aspetti sociali della poesia, come componimento di
corrispondenza e d’occasione. Il genere rimane importante ma meno interessante rispetto ai secoli
precedenti.

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Nelle parole di Ugo Foscolo:

«i nostri poeti […] essendo men ricchi di voi [patrizi] vi fanno un sonetto quando nascete; e quando uscite di
collegio un sonetto; e quando vi ammogliate, un sonetto; e quando mandate le vostre figliuole in convento,
un sonetto; - e quando morite vi cantano il requiem aeternam con un altro sonetto […]».

Dal punto di vista formale, la ricerca di equilibrio e armonia e la cantabilità dominano sul gusto per l’arguzia
finale.

Lo schema CDC DCD rimane il più fortunato per le terzine, mentre nelle quartine si riaffaccia il tipo ABAB
ABAB (ancora minoritario ma ben più presente che nel Seicento).

Sviluppi particolari:

• sul piano tematico, il sonetto pittorico: «descrizione di un personaggio o di un fatto, storico o


mitologico che fosse, compendiata in quattordici versi» (Croce);

• sul piano formale, il sonetto di ottonari, detto anacreontico o pastorale.

Vittorio Alfieri (1749-1803)

Autobiografia (in prosa), postuma

Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso (1806)

Rime come ‘diario in versi’ (ciascun componimento è accompagnato da luogo e data di composizione o
ideazione)

• 350 testi di metro vario; raccolte organizzate per metri, con i sonetti in apertura

• Prima Parte (1789): 188 sonetti su 238 testi

• Seconda Parte (1804): 71 sonetti su 112 testi

Vicinanza a Petrarca nei temi e negli schemi di rime (il più diffuso è ABBA ABBA CDC DCD, ma non manca il
tipo con quartine alternate ABAB ABAB CDC DCD)

Tono solenne, con frequente ricorso a versi spezzati e inarcature, ma fondamentale adesione della sintassi
alle partizioni (con frequenza di esclamative e interrogative).

Vittorio Alfieri, Rime, XXVI (1778)

Già cinque interi, e più che mezzo il sesto ABBA ABBA CDC DCD
lustro ho trascorso, e dir non oso: io vissi;
che quanto io lessi, vidi, appresi, o scrissi,
or sento essere un nulla manifesto.

Appresi io mai ciò ch’ora apprendo in questo


celeste sguardo, in cui miei sguardi ho fissi?
Pria che a’ tuoi rai, mio Sol, le luci aprissi,
s’io chieggo a me; che fui? muto mi resto.

Che fui, che seppi, e che vid’io finora?


Io, che a mirarti, oimè! sì tardi arrivo;
e, giunto in tempo, altr’uom già forse io fora.

Or che a te sola penso, e parlo, e scrivo,


e son tuo, se mi vuoi, finch’io mi mora;
ora incomincio e ardisco dir, ch’io vivo.

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Spiegazione  il poeta si accusa di non aver imparato nulla prima di aver conosciuto la donna amata. L’auto
interrogarsi e il contrasto tra passato e presente sono elementi tipici di Petrarca.

Vittorio Alfieri, Rime, XXVII (1778)

Tu sei, tu sei pur dessa: amate forme, ABBA ABBA CDC DCD
deh, come pinte al vivo! Ecco il vermiglio
labro, il negr’occhio, il sen che vince il giglio,
d’ogni alto mio pensier le amate norme.

Meco la viva immago e veglia, e dorme;


or la bacio, or la chiudo, or la ripiglio;
or sul cor me l’adatto, ora sul ciglio,
qual uom che di ragion smarrite ha l’orme.

Poi le favello; e in suo tenor mi pare


ch’ella m’intenda, e mi sorrida, e dica:
di figger baci in me non ti saziare;

mercé n’avrai dalla tua dolce amica;


ch’ella quant’io n’ho tolti a te può dare,
se avvien che a lei piangendo tu il ridica.

Spiegazione  il ritratto dell’amata, inteso come vero e proprio dipinto, è l’argomento di questo sonetto. I
sonetti 77 e 78 di Petrarca sono qui ripresi. Il poeta si rivolge direttamente all’amata nella prima quartina,
questa tendenza cambia nella seconda quartina dove si passa alla terza persona. Nella prima terzina
sembra quasi esserci un’intesa tra il dipinto ed il poeta. Il poeta cambia il proprio umore in base alle azioni
della donna, questo è un altro tratto tipico petrarchesco.

Vittorio Alfieri, Rime, XXXV (1778)

Solo al girar d’un bel modesto sguardo, ABBA ABBA CDC DCD
color, voglia, pensiero io cangio, e stato;
e a seconda ch’io ’l veggo, o dolce, o irato,
temo a vicenda o spero, agghiaccio od ardo.

Son io quell’un dal maschio cor gagliardo,


che per non mai servir credeasi nato?
Che contro Amor già da molt’anni armato,
a scherno omai pigliava ogni suo dardo?

Ah! non son quello: o per vergogna il deggio


negare almeno, or che la mia fierezza
volta in perfetta obbedïenza io veggio.

Ma voi, cui rider fa mia debolezza,


pria di rider, mirate (altro non chieggio)
a quai virtudi io servo, a qual bellezza.

Spiegazione  la parola “ardo” proviene addirittura da Dante.

Vittorio Alfieri, Rime, 173 (1786)

Tacito orror di solitaria selva ABBA ABBA CDC DCD


di sì dolce tristezza il cor mi bea,
che in essa al par di me non si ricrea

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tra’ figli suoi nessuna orrida belva.

E quanto addentro più il mio piè s’inselva,


tanto più calma e gioja in me si crea;
onde membrando com’io là godea,
spesso mia mente poscia si rinselva.

Non ch’io gli uomini abborra, e che in me stesso


mende non vegga, e più che in altri assai;
né ch’io mi creda al buon sentier più appresso:

ma non mi piacque il vil mio secol mai:


e dal pesante regal giogo oppresso,
sol nei deserti tacciono i miei guai.

Vittorio Alfieri, Rime, 167 (1786)

Sublime specchio di veraci detti, ABAB ABAB CDC DCD


mostrami in corpo e in anima qual sono:
capelli, or radi in fronte, e rossi pretti;
lunga statura, e capo a terra prono;

sottil persona in su due stinchi schietti;


bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono;
giusto naso, bel labro, e denti eletti;
pallido in volto, più che un re sul trono:

or duro, acerbo, ora pieghevol, mite;


irato sempre, e non maligno mai;
la mente e il cor meco in perpetua lite:

per lo più mesto, e talor lieto assai,


or stimandomi Achille, ed or Tersìte:
uom, se’ tu grande, o vil? Muori, e il saprai.

Spiegazione  uno dei sonetti più famosi di Alfieri, omaggiato anche da Foscolo. Il componimento è
dedicato ad una sorta di autoritratto di sé. “Di veraci detti”  di parole autentiche. Due piccole incrinature
nell’autoritratto  la testa china, sintomatico di un atteggiamento pensoso, e “pallido in volto”, per la paura.

Ugo Foscolo (1778-1827) [7]

Solcata ho fronte, occhi incavati intenti,

crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto,

labbro tumido acceso, e tersi denti,

capo chino, bel collo, e largo petto;

giuste membra; vestir semplice eletto;

ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti;

sobrio, umano, leal, prodigo, schietto;

avverso al mondo, avversi a me gli eventi:

talor di lingua, e spesso di man prode;

mesto i più giorni e solo, ognor pensoso,

pronto, iracondo, inquieto, tenace:


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di vizj ricco e di virtù, do lode

alla ragion, ma corro ove al cor piace:

Morte sol mi darà fama e riposo.

Spiegazione  non c’è l’idea di guardarsi allo specchio, c’è direttamente un autoritratto. La descrizione della
fisicità ci comunica che il mondo interiore del personaggio è scosso. La fronte è segnata, si nota della fatica
nei suoi occhi, capelli rossi e guance scavate, aspetto ardito, labbro gonfio e denti tersi. Il capo chino indica
la riflessione. Con il secondo verso della seconda quartina passiamo dall’aspetto fisico al comportamento.
Gli atti e le parole del poeta sono caratterizzati dalla velocità e da una connotazione positiva delle qualità
morali. Foscolo si autoritrae como una persona sola contro il mondo e con gli eventi a lui avversi.
Il poeta è quasi sempre triste e solo con i suoi pensieri, ricco tanto di vizi che di virtù, si fa trascinare dalle
emozioni e non dalla ragione  antitesi petrarchesca, il poeta non segue ciò che è giusto. Il poeta aspetta la
morte perché nella vita non avrà gloria.

Ugo Foscolo (1778-1827)

Elementi autobiografici

Le ultime lettere di Jacopo Ortis (1802)

Poesie: 2 odi e 12 sonetti, pubblicati per tre volte tra il 1802 e il 1803  solo 12 sonetti ma essi sono tra i più
importanti dell’intero secolo.

1802 (Pisa, «Nuovo giornale dei letterati»)

1803 (Milano, Destefanis)

1803 (Milano, Nobile – aggiunge il sonetto in morte del fratello)

Saggi su Petrarca

Antologia Vestigi della storia del sonetto italiano dall’anno MCC al MDCCC (1816): tra gli altri, Guittone
d’Arezzo, Cavalcanti, Dante, Cino, Petrarca, Giusto de’ Conti, Lorenzo de’ Medici, Pietro Bembo, Vittoria
Colonna, Veronica Gambara, Galeazzo di Tarsia, Della Casa, Angelo Di Costanzo, Torquato Tasso, Tassoni,
Redi, Menzini, Guidi, Zappi, Parini, Alfieri.

Foscolo nasce in Grecia, sull’isola dello Zante. Dal 1785 si trasferisce a Venezia. La lingua italiana non la
conosce subito, prima conosceva il greco ed il veneziano. L’artificialità della sua lingua poetica è dovuta sia
all’aver acquisito una lingua che dal prendere Petrarca come esempio.
Dal punto di vista economico, non possiamo comparare Alfieri (nobile) a quella di Foscolo (più tormentata)

Ugo Foscolo, Odi e sonetti, [2]

Non son chi fui; perì di noi gran parte:

questo che avanza è sol languore e pianto.

e secco è il mirto, e son le foglie sparte

del lauro, speme al giovenil mio canto.

Perchè dal dì ch'empia licenza e Marte

vestivan me del lor sanguineo manto,

cieca è la mente e guasto il core, ed arte

la fame d'oro, arte è in me fatta, e vanto.

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Che se pur sorge di morir consiglio,

a mia fiera ragion chiudon le porte

furor di gloria, e carità di figlio.

Tal di me schiavo, e d'altri, e della sorte,

conosco il meglio ed al peggior mi appiglio,

e so invocare e non darmi la morte.

Spiegazione  “Non son chi fui” è una tessera petrarchesca, il poeta non si riconosce più. Egli critica la fine
dell’amore e della poesia. Il mirto è secco e le foglie dell’alloro sono sparse; questi due elementi erano parte
della sua speranza giovanile. Il poeta resiste solo per il desiderio di gloria e per l’amore verso la madre.
Le rime tornano alternate e non sono più solo incrociate.

Ugo Foscolo, Odi e sonetti, [1]

Forse perchè della fatal quiete ABAB ABAB CDC DCD


tu sei l'imago a me sì cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,
e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all'universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch'entro mi rugge.

Spiegazione  riferimento a Della Casa per le inarcature ed i periodi lunghi. Non abbiamo una sintassi
eccessivamente complicata ma ci attira il modo in cui sono collegate le due quartine: la coordinazione tra
due subordinate temporali. Il punto fermo coincide con la fine della fonte. Le terzine sono collegate da
un’inarcatura. Nel sonetto il poeta si rivolge alla sera, personificata.
“Quando scendi mi sei così cara forse perché sei simile alla pace fatale, a quello della morte”. Le temporali
servono a comunicare che il desiderio del poeta di veder scendere la sera c’è sempre.
La sera fa vagare Foscolo con il suo pensiero verso il nulla eterno, ossia la morte. Visione materialistica
della vita che finisce con la morte. L’idea del tempo che continua a scorrere durante i nostri pensieri è
un’altra tessera petrarchesca.
“Mentre io sono fermo a contemplare la pace, lo spirito guerriero che mi ruggisce dentro dorme.”

Ugo Foscolo [5]

Così gl'interi giorni in lungo incerto

sonno gemo! ma poi quando la bruna

notte gli astri nel ciel chiama e la luna,

e il freddo aer di mute ombre è coverto;

dove selvoso è il piano e più deserto

allor lento io vagando, ad una ad una

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palpo le piaghe onde la rea fortuna,

e amore, e il mondo hanno il mio core aperto.

Stanco mi appoggio or al troncon d'un pino,

ed or prostrato ove strepitan l'onde,

con le speranze mie parlo e deliro.

per te le mortali ire e il destino

spesso obbliando, a te, donna, io sospiro:

luce degli occhi miei chi mi t'asconde?

Spiegazione  “passo interi giorni in questo sonno incerto e lungo, ma poi quando la notte scura chiama le
stelle e la luna dal cielo, l’aria fredda è piena di ombre mute, dove il piano è selvoso e più deserto.”
La principale arriva dopo una serie di descrizioni.
Le ferite metaforiche sono descritte come fisiche. Riemergono ricordi petrarcheschi (“pino”  “troncon d’un
faggio”, Rvf 129).
Nell’ultima terzina capiamo che il testo è rivolto alla donna.

Ugo Foscolo, Odi e sonetti, [9]

Nè più mai toccherò le sacre sponde

ove il mio corpo fanciulletto giacque,

Zacinto mia, che te specchi nell'onde

del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde

col suo primo sorriso, onde non tacque

le tue limpide nubi e le tue fronde

l'inclito verso di colui che l'acque

cantò fatali, ed il diverso esiglio

per cui bello di fama e di sventura

baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,

o materna mia terra; a noi prescrisse

il fato illacrimata sepoltura.

Spiegazione  abbiamo un periodo che comincia all’inizio del sonetto e finisce alla fine della prima terzina.
Si innestano sulla principale una serie di relative, la prima affermazione è netta e risoluta (“Mai più toccherò
le sacre sponde”)  sacre per la nascita di Venere e per l’infanzia di Foscolo. Egli si rivolge all’isola
chiamandola con il suo nome antico e sentendola come sua. le inversioni che alterano l’ordine del discorso
avvengono in modo sofisticato. L’Odissea viene citata attraverso “l’inclito verso”.
Foscolo condivide con Ulisse l’esilio ma, a differenza dell’eroe epico, egli non tornerà mai nella sua terra
natale.
L’isola non avrà mai il corpo di Foscolo ma solo i suoi versi, per loro il fato non ha previsto alcuna sepoltura.
Parallelo anche con Omero, visto che entrambi compongono versi.
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Lezione 13 – Dall’Ottocento al Novecento

Il sonetto nell’Ottocento

Da un lato, si assiste a una evidente ‘crisi del sonetto’, a cui si preferiscono metri più brevi o più ampi.
Propensione ai temi politici e alla narrazione in versi, ai quali il sonetto tendenzialmente non si presta (ma,
per i temi politici, non era stato così nel Medioevo).
Dall’altro, specialmente negli anni finali del secolo e nei primi del seguente, la forma del sonetto è oggetto di
sperimentazioni sempre più notevoli sul fronte delle rime e della misura dei versi.

Serie di sonetti (esempi):


Zanella (1820-1888), Astichello (1884; 91 sonetti)  tutti ispirati alla vita campestre
Carducci (1835-1907), Ça ira (1883; 12 sonetti)
Pascoli (1855-1912), Colloquio (in Myricae, 1891: 5 sonetti – altri 19 nella raccolta)  si rivolge al fantasma
della madre morta
D’Annunzio (1863-1938), Città del silenzio (in Elettra, 1904; 41 sonetti – altri 18 nella raccolta)

Il più grande poeta dell’Ottocento, Leopardi, non scriverà mai sonetti. Il sonetto durante l’Ottocento non
troverà mai la sua dimensione. Dal punto di vista metrico si prediligono la vallata e l’endecasillabo sciolto che
si prestano al respiro che richiede la narrazione. Nella seconda parte del secolo troviamo le sperimentazioni
più notevoli del sonetto, in una forma che comincia a sgretolarsi.
Lo schema rimico ed il numero/lunghezza dei versi rappresentano i cambiamenti più significativi.

Prima parte del secolo: prevalenza dello schema ‘foscoliano’ ABAB ABAB CDC DCD
Parte finale del secolo:
• ritorno allo schema ‘petrarchesco’ ABBA ABBA CDE CDE (ad es. in D’Annunzio)
• Sperimentazioni
• sullo schema rimico, fino al limite della possibilità di un sonetto ‘senza rime’
• sulla misura del verso – sonetti in ottonari, in settenari etc.
Sonetto in bisillabi, datato 1904, di Gustavo Botta (1880-1948)
Luna, / bella / nella / bruna // sera, / sgombra / l’ombra / nera. // Spandi / raggi / blandi // sui / faggi / bui.

• Sonetti ‘per l’occhio’, identificati visivamente e per la sintassi corrispondente alle partizioni, ma senza
schema rimico e senza isometria (es. Luigi Capuana, Semiritmi, 1888)
• Sonetti ricombinati, dove le singole strofe, sintatticamente autonome, sono disposte in una sequenza
inconsueta (ad es. 3+4+3+4; es. Remigio Zena, Poesie grigie, 1880)

Il sonetto nel primo Novecento

Corrado Govoni (1884-1965)


Le fiale (1903): 100 sonetti regolari, pur con qualche libertà negli schemi rimici e nel ritmo; scelte lessicali
insolite, specie in rima.
Fuochi d’artifizio (1904): 25 sonetti, tutti con versi di 13 sillabe.
Guido Gozzano (1883-1916)
La via del rifugio (1907), 20 sonetti (mentre ne resteranno solo 2 nei Colloqui), interessanti soprattutto per le
scelte lessicali in rima, come nel terzo sonetto della serie di 6 Sonetti del ritorno:
O Nonno! E tu non mi perdoneresti
ozi vani di sillabe sublimi,
tu che amasti la scienza dei concimi
dell’api delle viti degli innesti! (vv. 1-4)

Umberto Saba (1883-1957)


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Si attiene alle partizioni strofiche 4+4+3+3 e all’uso dell’endecasillabo regolare, ma fino all’inizio degli anni
Venti si discosta dallo schema tradizionale in alcuni aspetti:
• moltiplica le rime nella fronte e predilige la rima baciata nella sirma;
• ricorre ad inarcature anche ‘intertestuali’, cioè tra un sonetto e il seguente (es. Il capitano, nei Versi
militari, composti nel 1908).
Queste violazioni vengono messe da parte nei 15 sonetti dell’Autobiografia (1924, con fronte a rime alternate
e sirma a rime replicate) e nei 15 de I prigioni (1924, ancora con sirma a rime replicate).

Umberto Saba da Autobiografia

Ed amai nuovamente; e fu di Lina


dal rosso scialle il più della mia vita.
Quella che cresce accanto a noi, bambina
dagli occhi azzurri, è dal suo grembo uscita.
Trieste è la città, la donna è Lina,
per cui scrissi il mio libro di più ardita
sincerità; né dalla sua fu fin’
ad oggi mai l’anima mia partita.
Ogni altro conobbi umano amore;
ma per Lina torrei di nuovo un’altra
vita, di nuovo vorrei cominciare.
Per l’altezze l’amai del suo dolore;
perché tutto fu al mondo, e non mai scaltra,
e tutto seppe, e non se stessa, amare. ABAB ABAB CDE CDE

Spiegazione  Lina è la moglie di Saba. Egli predilige un registro semplice ed antiaulico.


“il più della mia vita appartenne a Lina”. Saba parla di un libro di più ardita sincerità, probabilmente si rivolge
proprio ad Autobiografia.
Per Lina, Saba inizierebbe una nuova vita. Il suo amore è reso speciale dall’altezza del suo dolore. Ella
seppe amare chiunque ma non sé stessa.

Tra la seconda metà degli anni Trenta e la fine della seconda guerra mondiale

Carlo Betocchi (1899-1986), Sonetti d’amore a Emilia secondo l’imitazione dal Petrarca e da John Donne: 15
sonetti (poi ridotti a 13) composti tra fine anni Trenta e anni Cinquanta, ma raccolti in pubblicazione solo
molto dopo (Il sale del canto, 1980).
Eugenio Montale (1896-1981), Finisterre (1943): 15 testi destinati a confluire ne La bufera e altro (1956); 4
sono sonetti elisabettiani (4+4+4+2).
Giorgio Caproni (1912-1990)
• sonetto Folle vento (1939, su rivista)
• Sonetti dell’anniversario, composti nella seconda metà del 1942 e pubblicati in Cronistoria (1943);
quasi tutti con fronte e sirma a rime alternate
• Lamenti (ne Il passaggio d’Enea, 1943-1955)

Il trauma della guerra sembra quasi legittimare il ritorno al sonetto.


La difficoltà dei testi in queto periodo non dipende dal cambio di significato delle parole, come accadeva in
passato, ma dagli eventi che hanno causato la poesia.

Carlo Betocchi Sonetti d’amore a Emilia, IV

Nella camera estranea, nella sola ABAB CDCD EFG EFG


solitudine in cui l’anima consente
a goder di se stessa, nella scuola
d’un gran poeta lucido cui niente

nascose Amore, a sonetto a sonetto


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volgendo le sue pagine e con te


presente in opre quasi d’un perfetto
accordo meco, e come fosse in tante

parti diviso il cuore mio, ed in una


sola riunito, con te e la campagna
e la poesia vivendo, e quelle udendo

voci dei campi, al dì che si consuma


e alla sera veniente cui s’accompagna
Morte, io dissi – Grazie! in cuore ardendo.

Spiegazione  inarcatura tra comparti metrici che consente la continuità tra le parti. Le rime non sono
regolari. Il luogo fisico dove si svolge la vicenda è una camera estranea, nella sola solitudine. Nella camera il
poeta legge ed impara da un altro grande poeta (Petrarca).

Carlo Betocchi, Sonetti d’amore a Emilia, I, datato 1944, poi come Versi sul fiume in Poesie del
sabato (1980)

Al sole di settembre, ai freschi primi


d’autunno, sull’acquatile sponda
scendi fra i giunchi dove stagna l’onda
- e uno spirito lieve erra tra i limi
grigiastri e il cielo azzurro – e intemerata
scegli la rosa della tua memoria
e affidala a quell’alito, e la storia
dimentica di te, se la beata
guancia dei dì fanciulli ti ritorni
sensibile com’era, e se una pèsca
ti sembri come allora, giù dal ramo
pèndula e calda al sole di quei giorni,
e ancor tra ’l verde vaghi una canestra
curva a un braccio femineo, in uno strano
silenzio.

Spiegazione  il titolo è un elemento determinante per aiutarci a capire il senso del testo. C’è la scelta da
parte del poeta di un periodo lungo con inarcature e senza punteggiatura. Il lessico quotidiano lascia spazio
ad un linguaggio aulico.

Eugenio Montale, Nel sonno

Il canto delle strigi, quando un’iride ABAB CDCD EFEF GG


con intermessi palpiti si stinge,
i gemiti e i sospiri
di gioventù, l’errore che recinge
le tempie e il vago orror dei cedri smossi
dall’urto della notte – tutto questo
può ritornarmi, traboccar dai fossi,
rompere dai condotti, farmi desto
alla tua voce. Punge il suono d’una
giga crudele, l’avversario chiude
la celata sul viso. Entra la luna
d’amaranto nei chiusi occhi, è una nube
che gonfia; e quando il sonno la trasporta
più in fondo, è sempre sangue oltre la morte.

Eugenio Montale, Gli orecchini


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Non serba ombra di voli il nerofumo ABAB CDCD EFEF GG


della spera. (E del tuo non è più traccia).
È passata la spugna che i barlumi
indifesi dal cerchio d’oro scaccia.
Le tue pietre, i coralli, il forte imperio
che ti rapisce vi cercavo; fuggo
l’iddia che non s’incarna, i desiderî
porto fin che al tuo lampo non si struggono.
Ronzano èlitre fuori, ronza il folle
mortorio e sa che due vite non contano.
Nella cornice tornano le molli
meduse della sera. La tua impronta
verrà di giù: dove ai tuoi lobi squallide
mani, travolte, fermano i coralli.

Giorgio Caproni, Folle vento (1939)

La mia città di mare come s’apre ABBA CDDC EFE GFG


serena ai balzi ariosi! Veleggiare
m’è stato dolce; più dolce approdare
per ritrovarti, e alle dilette capre

alte sui sassi a piombo alla marina


materna, sulla palma al dolce muso
recare il sale che le induce al chiuso
stabbio dove più certa è la mattina.

Chi mi rubò all’affetto?, chi le braccia


in ansia sciolse dal giovine petto
e rinnovò a ogni luna alla tua faccia

quel raro lacrimare? Folle vento


dell’avventura, tu sii maledetto,
che già mi tenti ed ancora mi pento!

Giorgio Caproni, Sonetti dell’anniversario, I (1943)

Poco più su d’adolescenza ahi mite


fidanzata così completamente
morta. Sulle compagini sfinite
di tante pietre, una scienza demente
riduce già la storia: le nutrite
vampe delle cavalle alla mordente
rena di gioventù – le nostre unite
briglie, frenate nell’etere ardente
della rincorsa e al sonno ora allentate
sulle tue nocche per l’eterno. (O fu
anche il tuo nome una paglia in estate
strinata fra i papaveri – un di più
appena opposto alle corse accecate
per non sperdere a sangue ogni virtù?)

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Lezione 14 – Il sonetto nel Novecento (2)

Tra la seconda metà degli anni Trenta e la fine della seconda guerra mondiale

Carlo Betocchi (1899-1986), Sonetti d’amore a Emilia secondo l’imitazione dal Petrarca e da John Donne: 15
sonetti (poi ridotti a 13) composti tra fine anni Trenta e anni Cinquanta, ma raccolti in pubblicazione solo
molto dopo (Il sale del canto, 1980).
Eugenio Montale (1896-1981), Finisterre (1943): 15 testi destinati a confluire ne La bufera e altro (1956); 4
sono sonetti elisabettiani (4+4+4+2).
Giorgio Caproni (1912-1990)
• sonetto Folle vento (1939, su rivista)
• Sonetti dell’anniversario, composti nella seconda metà del 1942 e pubblicati in Cronistoria (1943);
quasi tutti con fronte e sirma a rime alternate
Lamenti (ne Il passaggio d’Enea, 1943-1955)

Carlo Betocchi, Sonetti d’amore a Emilia, I, datato 1944, poi come Versi sul fiume in Poesie del
sabato (1980)

Al sole di settembre, ai freschi primi ABBA CDDC EFG EFG


d’autunno, sull’acquatile sponda
scendi fra i giunchi dove stagna l’onda
- e uno spirito lieve erra tra i limi
grigiastri e il cielo azzurro – e intemerata
scegli la rosa della tua memoria
e affidala a quell’alito, e la storia
dimentica di te, se la beata
guancia dei dì fanciulli ti ritorni
sensibile com’era, e se una pèsca
ti sembri come allora, giù dal ramo
pèndula e calda al sole di quei giorni,
e ancor tra ’l verde vaghi una canestra
curva a un braccio femineo, in uno strano
silenzio.

Tra la seconda metà degli anni Trenta e la fine della seconda guerra mondiale

Carlo Betocchi (1899-1986), Sonetti d’amore a Emilia secondo l’imitazione dal Petrarca e da John Donne: 15
sonetti (poi ridotti a 13) composti tra fine anni Trenta e anni Cinquanta, ma raccolti in pubblicazione solo
molto dopo (Il sale del canto, 1980).
Eugenio Montale (1896-1981), Finisterre (1943): 15 testi destinati a confluire ne La bufera e altro (1956); 4
sono sonetti elisabettiani (4+4+4+2).
Giorgio Caproni (1912-1990)
• sonetto Folle vento (1939, su rivista)
• Sonetti dell’anniversario, composti nella seconda metà del 1942 e pubblicati in Cronistoria (1943);
quasi tutti con fronte e sirma a rime alternate
• Lamenti (ne Il passaggio d’Enea, 1943-1955)

Carlo Betocchi, Sonetti d’amore a Emilia, I, datato 1944, poi come Versi sul fiume
in Poesie del sabato (1980)

Al sole di settembre, ai freschi primi


d’autunno, sull’acquatile sponda
scendi fra i giunchi dove stagna l’onda
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- e uno spirito lieve erra tra i limi


grigiastri e il cielo azzurro – e intemerata
scegli la rosa della tua memoria
e affidala a quell’alito, e la storia
dimentica di te, se la beata
guancia dei dì fanciulli ti ritorni
sensibile com’era, e se una pèsca
ti sembri come allora, giù dal ramo
pèndula e calda al sole di quei giorni,
e ancor tra ’l verde vaghi una canestra
curva a un braccio femineo, in uno strano
silenzio.

Spiegazione  abbiamo una serie di verbi coordinate e tre subordinate che si collegano l’una con l’altra.
Siamo in certi sull’identità della figura che compie la discesa verso lo stagno. Il “Tu” potrebbe riferirsi alla
donna o ad un “Io” alternativo, che indicherebbe un colloquio interiore. L’”Io” invita il “Tu” a compiere una
serie di azioni: “Scendi”, “Scegli”, “Dimentica”. Il sole è autunnale, di settembre, con la temperatura che
comincia a rinfrescarsi. Contrasto tra lo stagno azzurro ed il cielo.
“Scegli la rosa della tua memoria”  “Rosa” è metafora del ricordo migliore.
Il “Se” introduce una secondaria che ci porta in una situazione di incertezza. I giorni a cui il poeta si riferisce
fanno parte del passato, non sono i giorni attuali del tempo della narrazione. Il soggetto, dal punto di vista
grammaticale, non è la figura femminile ma la canestra e questo accresce la atmosfera di irrealtà della
scena. Il periodo unico scelto da Betocchi permette il flusso di pensiero da una cosa all’altra, con un silenzio
finale che permette a Betocchi di indicare un qualcosa che supera il bordo dello stagno.

Eugenio Montale, Nel sonno

Il canto delle strigi, quando un’iride ABAB CDCD EFEF GG


con intermessi palpiti si stinge,
i gemiti e i sospiri [settenario]
di gioventù, l’errore che recinge
le tempie e il vago orror dei cedri smossi
dall’urto della notte – tutto questo
può ritornarmi, traboccar dai fossi,
rompere dai condotti, farmi desto
alla tua voce. Punge il suono d’una
giga crudele, l’avversario chiude [assonanza]
la celata sul viso. Entra la luna
d’amaranto nei chiusi occhi, è una nube
che gonfia; e quando il sonno la trasporta
più in fondo, è sempre sangue oltre la morte. [rima imperfetta]

«Nel sonno. Poesia di guerra e di ricordo. L’avversario […] può essere il male o il destino dell’uomo. Suoni
vari e colori nel ricordo di chi dorme».  autocommento

Spiegazione  per Montale, la guerra è un trauma che legittima il ritorno al sonetto, per questo motivo nella
raccolta “Finisterre” (1943) troviamo 4 sonetti Elisabettiani. La scelta di utilizzare i sonetti Elisabettiani è
dovuta all’ammirazione per Shakespeare e alla figura di Irma Brandeis, conosciuta a Firenze e che per 5
anni fu la donna amata; ella era un’amante della letteratura inglese. Il lessico di questi sonetti ricorda
principalmente Dante, piuttosto che Petrarca.
Lo schema di rime di questo sonetto è tipico del sonetto Elisabettiano, con versi regolari in endecasillabi
(tranne il settenario indicato sopra). Nelle rime, invece, abbiamo irregolarità, con un’alta densità di sostituti
della rima (assonanza, rima imperfetta, ..)
I titolo ci dice qualcosa del testo, in questo caso ci fa capire la situazione rappresentata, che accade nel
sonno. Questo viene ribadito da un breve autocommento.
Il testo è incorniciato da due subordinate temporali (“Quando”), uno schema ciclico tipico del sonno.
“Quando un’iride si offusca perché ci si sta addormentando, con palpiti dell’occhio intermittenti”.
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I primi versi non contengono un verbo e questo crea una sensazione di attesa.
“Canto delle strigi”  le strigi sono dei rapaci notturni, portatori di malaugurio.
“L’errore che recinge le tempie”  Riferimento al terzo canto dell’Inferno di Dante.
“Cedri”  probabilmente l’idea del cedro fa riferimento ad un testo barocco seicentesco.
Il canto, l’errore, i sospiri di gioventù sono tutti elementi che precedono l’addormentarsi.
La luna d’amaranto è una luna di un rosso acceso, è una luna apocalittica. L’immagine di sangue
dell’amaranto della luna si impone anche oltre la morte, occupa tutto lo spazio.

Perché poesia di guerra?  “Punge il suono d’una giga crudele, l’avversario chiude la celata sul viso.”
La “Giga” è una danza rituale seicentesca che punge, perché ha note staccate; è una musica infernale.

Eugenio Montale, Gli orecchini

Non serba ombra di voli il nerofumo ABAB CDCD EFEF GG


della spera. (E del tuo non è più traccia).
È passata la spugna che i barlumi
indifesi dal cerchio d’oro scaccia. [unica rima perfetta]
Le tue pietre, i coralli, il forte imperio
che ti rapisce vi cercavo; fuggo
l’iddia che non s’incarna, i desiderî
porto fin che al tuo lampo non si struggono.
Ronzano èlitre fuori, ronza il folle
mortorio e sa che due vite non contano.
Nella cornice tornano le molli
meduse della sera. La tua impronta
verrà di giù: dove ai tuoi lobi squallide
mani, travolte, fermano i coralli.

Spiegazione  anche questo sonetto presenta il tipico schema Elisabettiano. Il testo è molto segmantato sin
dall’inizio e si parte subito con un’affermazione molto negativa. Il nerofumo dello specchio fa riferimento ad
uno specchio ossidato, dove non ci si può aspettare. In esso non si possono vedere i “voli riflessi” 
allusione alla vita. In sintesi, il nero specchio non mostra traccia di vita. Il cerchio d’oro è la cornice dello
specchio.
Nella seconda quartina, Montale si riferisce direttamente ad Irma. Montale sente il bisogno della presenza
fisica dell’amata (“fuggo l’iddia che non si incarna”).
Prima terzina: entra in scena la guerra. Il ronzio degli aerei si associa con il ronzio del mortorio, che
letteralmente significa funerale, dove il ronzio indica i lamenti funebri. Nella cornice tornano le ombre della
sera.

«Le èlitre sono gli aerei di guerra visti come funesti insetti. Due vite, la tua e la mia ma anche in generale le
sorti dei singoli individui. Meduse, ombre nello specchio, particolare realistico. Il personaggio è tanto assente
da sembrar quasi morto. Emerge dallo specchio e porta ancora gli orecchini di corallo. […] Verrà di giù dal
nero dell’inconoscibile. Il volo è il tuo. E di chi potrebbe essere? La spugna, simbolo di ciò che cancella, ma
anche particolare realistico».
«Escludo che le mani fossero mie o del fantasma. Forse sono mani che escono dai sepolcri di gente gassata
o massacrata (ebrei come il fantasma [di Irma Brandeis-Clizia]); ma possono essere anche mani non
identificabili che sorgono dal nulla e vi ricadono. Gli orecchini non erano a pendente ma a fermaglio, di un
genere che spesso richiede mano estranea».  autocommento

Giorgio Caproni, Folle vento (1939)

La mia città di mare come s’apre


serena ai balzi ariosi! Veleggiare
m’è stato dolce; più dolce approdare
per ritrovarti, e alle dilette capre

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alte sui sassi a piombo alla marina


materna, sulla palma al dolce muso
recare il sale che le induce al chiuso
stabbio dove più certa è la mattina.

Chi mi rubò all’affetto?, chi le braccia


in ansia sciolse dal giovine petto
e rinnovò a ogni luna alla tua faccia

quel raro lacrimare? Folle vento


dell’avventura, tu sii maledetto,
che già mi tenti ed ancora mi pento!

Spiegazione  questo è l’unico sonetto dove Caproni sceglie di staccare i versi. Caproni non usa i sonetti
Elisabettiani come Montale, inoltre egli ama le rime perfette a differenza del collega. Questo testo venne
inizialmente pubblicato in rivista nel 1939. La pausa più forte del testo arriva dopo le quartine.
Il testo comincia con un’esclamazione nei confronti della città di Genova, dove Caproni mancava da tempo.
Le rime Veleggiare/Approdare riassumono l’esperienza del viaggio.
Il “ti” in “ritrovarti” potrebbe riferirsi alla stessa Genova o alla madre, menzionata nelle terzine successive.
L’arrivo al giorno seguente delle capre è un qualcosa di rassicurante ed è un parallelismo con Caproni che
torna nella sua città.
Giorgio Caproni, Sonetti dell’anniversario, I (1943)

Poco più su d’adolescenza ahi mite ABAB ABAB CDC DCD


fidanzata così completamente
morta.│ Sulle compagini sfinite
di tante pietre, una scienza demente
riduce già la storia: le nutrite
vampe delle cavalle alla mordente
rena di gioventù – le nostre unite
briglie, frenate nell’etere ardente
della rincorsa e al sonno ora allentate
sulle tue nocche per l’eterno.│ (O fu
anche il tuo nome una paglia in estate
strinata fra i papaveri – un di più
appena opposto alle corse accecate
per non sperdere a sangue ogni virtù?)

Spiegazione  sono così tante le immagini in questo sonetto che è impossibile interpretarlo in maniera
univoca.
La morte della fidanzata Olga farà scrivere molti sonetti a Caprone che confluiscono nelle raccolte
“Anniversario” e “Cronistoria “. Lo schema di rime qui è alternato.
Il sonetto è rivolto ad Olga, morta fisicamente e che comincia a sparire nel ricordo; il sonetto è dunque una
riflessione su cosa rimane del ricordo.
Da “Sulle compagini” abbiamo una serie di frasi nominali che rendono estremamente difficile interpretare il
testo.
“Tante pietre”  tombe nel cimitero o rovine di Roma. Forse anche pietre della Val Trebbia, dove Olga è
sepolta.
“Scienza demente”  perché sappiamo poco della morte
Nella parentesi, Caproni mette in discussione la certezza del nome, egli ha il dubbio che anche il nome può
essere destinato a sparire.
Caproni stesso afferma di aver scritto poesie per domare le sue passioni.

Tra gli anni Sessanta e Settanta: ‘ipersonetti’

- Pier Paolo Pasolini (1922-1975)

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Sonetto primaverile (1960): 14 sonetti (endecasillabi non canonici; assonanze o rime imperfette al posto
della rima; sintassi libera rispetto alle partizioni)
L’hobby del sonetto (incompiuto): corona di 112 sonetti (14x8)
- Andrea Zanzotto (1921-2011)
Ipersonetto, al centro de Il Galateo in Bosco (1978): 14 sonetti più una premessa e una postilla
«così ancora di te mi sono avvalso, / di te sonetto, righe infami e ladre – / mandala in cui di frusto in frusto
accatto». (Postilla, a F. Fortini, vv. 12-14)

«[…] la certezza che viene dalla misura metrica e, anche mediante questa, dalla cosiddetta forma […] è
anche l’ambizione di produrre un oggetto, di diventare un oggetto, una cosa, un bene, come si suol dire,
durevole» (Fortini 1980).
Con il termine “Ipersonetto” si intende un componimento fatto da più sonetti, con 14 sonetti che sostituiscono
i 14 versi del sonetto.

Andrea Zanzotto, Ipersonetto

«[L’Ipersonetto] è un componimento formato da 14 sonetti che tengono ognuno il posto di un verso in un


sonetto. Più una premessa e una postilla. È questo un particolare omaggio a coloro che, come Gaspara
[Stampa] e il Monsignore del Galateo [Giovanni Della Casa], scrissero sonetti abitando nel Bosco [la selva
del Montello]». (da una delle note finali dell’autore).
«L’incontro tra cultura [Galateo] e natura [bosco] si svolge lungo l’asse di una trasformazione della prima
nella seconda: memoria materiale e biologica che tiene nascosti e quasi protetti tra le sue pieghe i resti delle
vittime della guerra [c’è qui un ossario dei caduti della Prima guerra mondiale] – figure morte come quelle
della più lontana tradizione letteraria, ma, al loro pari, ritenute depositarie di un’autenticità che appare al
poeta perduta nel regime dell’odierna insignificanza». (Testa 2005, p. 95)

L’Ipersonetto è costruito ‘a norma’ o ‘a regola d’arte’, ma con materiali sparsi raccolti nel ‘bosco’.
• Endecasillabo regolare (ma non sempre nel ritmo)
• Prevalenza di rime perfette, pur nella varietà degli schemi rimici
• Divisione tra quartine e terzine, sostanzialmente rispettata dalla sintassi
XI (Sonetto del che fare e che pensare)

Che fai? Che pensi? Ed a chi mai chi parla? / Chi e che cerececè d’augèl distinguo, / con che stillii di rivi il
vacuo impinguo / del paese che intorno a me s’intarla? (1-4)

Che pensi tu, che mai non fosti, mai / né pur in segno, in sogno di fantasma / sogno di segno, mah di mah,
che fai? // voci d’augei, di rii, di selve, intensi / moti del niente che sé a niente plasma, / pensier di non
pensier, pensa: che pensi? (9-14)

 Zanzotto riprende le parole di Petrarca

Gli anni Ottanta: ‘neometricismo’

Forte ritorno alle rime chiuse ma con l’intenzione di parodizzare:


Patrizia Valduga (1953-) – solo forme chiuse, ma grande varietà di schemi; temi inattesi e provocazioni
I medicamenta (1982): 22 sonetti (in mezzo ad altre forme)
Medicamenta e altri medicamenta (1989): aggiunge altri 8 sonetti.
Gabriele Frasca (1957-) – lavoro estremo sulle forme della tradizione; spesso schema ABBA ABBA CDC
DCD; solo minuscole e assenza di punteggiatura. Appartiene al gruppo ’93, che si rifà al gruppo del’63.
«Sonetti, sestine, ottave, terzine ecc. rappresentano dei veri e propri dispositivi che consentono di mettere al
riparo l’individuo non tanto e non più dalle tragedie della storia quanto da quelle individuali, biologiche, legate
allo scorrere inesauribile del tempo […]» (Magro 2017, p. 223)
‘Gruppo ’93’ – es. sonetto ‘circolare’ di Marco Berisso sulla natura di amore

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Edoardo Sanguineti (1930-2010), ad es. Erotosonetto (1979, ma pubblicato in Segnalibro, 1982): sonetto
regolare, con rime perfette; in ogni verso quasi solo parole che cominciano con la stessa lettera; con
acrostico ‘Sanguinetiamat’.
Se sa sedurti soltanto un sonetto
Archetipo d’amaro amore assente,
Nasconderò nei tuoi nomi il mio niente,
Golfo mio, mia girandola, mio ghetto: [vv. 1-4]
Giovanni Giudici (1924-2011), Salutz (1986): 70 componimenti di 14 versi indivisi di varia misura, spesso con
schemi rimici che sembrano rinviare al sonetto, più un Lais conclusivo.

Gli anni Novanta: Giovanni Raboni (1932-2004)

In tutto, 86 sonetti, dei quali:


75 in endecasillabi
11 in versi minori, compresi i 9 Sonetti d’infermità e convalescenza della raccolta Ogni terzo pensiero (1993).
58 nella forma italiana
28 nella forma elisabettiana
«Non saprei spiegare perché ho alternato un po’ queste due forme di sonetto, però sono per me molto
diverse, nel senso che proprio la sentenziosità del distico finale [nel sonetto elisabettiano] mi comporta un
altro tipo di discorso, un altro modo di affrontare il tema, di svolgerlo, persino forse un altro tipo di moralità».
Partizioni strofiche distinte ma non rispettate dalla sintassi, con inarcature forti e frequenti.

Giovanni Raboni, da Ogni terzo pensiero (1993)

Sonetti d’infermità e convalescenza: 9 sonetti


«[…] la storia di una degenza ospedaliera dal momento prechirurgico e anestetico al ritorno alla lucidità e
alle cure nella completa dipendenza da cannule e infermiere, fino al recupero dell’autonomia nutritiva che
conclude la serie […]. Tanto più che questi nove sonetti, la cui misura versale oscilla fra il senario e il
novenario con netto prevalere dell’ottonario, trovano conclusione (e in certo senso riconoscimento
dell’identità narrativa) al loro esterno, in particolare nel primo degli Altri sonetti, terza e ultima sezione del
libro […]»
(N. Tonelli, Aspetti del sonetto contemporaneo, Pisa, ETS, 2000)

Lezione 15 – Il sonetto nel Novecento (3)

Gli anni Ottanta: ‘neometricismo’

Patrizia Valduga (1953-) – solo forme chiuse, ma grande varietà di schemi; temi inattesi e provocazioni
I medicamenta (1982): 22 sonetti (in mezzo ad altre forme)
Medicamenta e altri medicamenta (1989): aggiunge altri 8 sonetti.

Gabriele Frasca (1957-) – lavoro estremo sulle forme della tradizione; spesso schema ABBA ABBA CDC
DCD; solo minuscole e assenza di punteggiatura.
«Sonetti, sestine, ottave, terzine ecc. rappresentano dei veri e propri dispositivi che consentono di mettere al
riparo l’individuo non tanto e non più dalle tragedie della storia quanto da quelle individuali, biologiche, legate
allo scorrere inesauribile del tempo […]» (Magro 2017, p. 223)
‘Gruppo ’93’ – es. sonetto ‘circolare’ di Marco Berisso sulla natura di amore

Edoardo Sanguineti (1930-2010), ad es. Erotosonetto (1979, ma pubblicato in Segnalibro, 1982): sonetto
regolare, con rime perfette; in ogni verso quasi solo parole che cominciano con la stessa lettera; con
acrostico ‘Sanguinetiamat’.
Se sa sedurti soltanto un sonetto
Archetipo d’amaro amore assente,
Nasconderò nei tuoi nomi il mio niente,
Golfo mio, mia girandola, mio ghetto: [vv. 1-4]

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Giovanni Giudici (1924-2011), Salutz (1986) (allude al genere della poesia trobadorica) : 70 componimenti di
14 versi indivisi di varia misura, spesso con schemi rimici che sembrano rinviare al sonetto, più un Lais
conclusivo.

Questi autori tornano al sonetto per traumi privati, come la morte e la malattia; i traumi non sono più
“universali” ma personali.

Gli anni Novanta: Giovanni Raboni (1932-2004)

In tutto, 86 sonetti, dei quali:


75 in endecasillabi
11 in versi minori, compresi i 9 Sonetti d’infermità e convalescenza della raccolta Ogni terzo pensiero (1993).
58 nella forma italiana
28 nella forma elisabettiana
«Non saprei spiegare perché ho alternato un po’ queste due forme di sonetto, però sono per me molto
diverse, nel senso che proprio la sentenziosità del distico finale [nel sonetto elisabettiano] mi comporta un
altro tipo di discorso, un altro modo di affrontare il tema, di svolgerlo, persino forse un altro tipo di moralità».
Partizioni strofiche distinte ma non rispettate dalla sintassi, con inarcature forti e frequenti.

Giovanni Raboni, Ogni terzo pensiero (1993)

Sonetti d’infermità e convalescenza: 9 sonetti


«[…] la storia di una degenza ospedaliera dal momento prechirurgico e anestetico al ritorno alla lucidità e
alle cure nella completa dipendenza da cannule e infermiere, fino al recupero dell’autonomia nutritiva che
conclude la serie […]. Tanto più che questi nove sonetti, la cui misura versale oscilla fra il senario e il
novenario con netto prevalere dell’ottonario, trovano conclusione (e in certo senso riconoscimento
dell’identità narrativa) al loro esterno, in particolare nel primo degli Altri sonetti, terza e ultima sezione del
libro […]»
(N. Tonelli, Aspetti del sonetto contemporaneo, Pisa, ETS, 2000)

Giovanni Raboni
da Ogni terzo pensiero (1993),
sezione Sonetti d’infermità e convalescenza

Ah no, non a un filo soltanto ABAB ABAB CDE EDC


era attaccata la mia vita
ma al buffo intrico ch’era vanto
dell’infermiera vietnamita
e goccia dopo goccia intanto
che pareggiava la partita
del molto sangue dentro sparso
per delega della ferita
di taglio e punta a un altro male
così silenzioso che anch’io
fui quasi per crederlo un bene
versava in più nelle mie vene
il cocktail di plasma e d’oblio
d’una triaca trionfale.

Spiegazione  a livello di sintassi, le rime alternate apportano un tono ironico al sonetto.


Non c’è un solo filo a cui il poeta è appeso ma un intero sistema di cavi, dei quali l’infermiera va orgogliosa.
Intanto  temporale dentro la principale.
Il male non è necessariamente fisico ma anche interiore. Nel suo corpo viene introdotto un liquido materiale
ma anche uno immateriale.
Il testo non contiene parole ricercate e difficili, ad eccezione del finale dove la parola “triaca” indica un antico
antidoto a base di veleno di vipera.

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Giovanni Raboni
da Ogni terzo pensiero (1993),
sezione Altri sonetti

Sogno infaticabilmente da un po’ ABAB BABA CDC DCD


di tempo: come in ospedale: segno
di troppa vita o che manca, non so;
e ogni notte mi sembra che il disegno
sia più arduo e più limpido e io più indegno
di vederlo, più torbido l’oblò
da cui lo guardo. Forse ha più ritegno
del vero, rifletto, la verità; o
invece nel deperibile ardore
della ritrovata solarità
d’ogni veggenza si sbarazza il cuore
per farsi non dico intrepido ma
a altri bisogni indurante, all’orrore
della luce che crepita e si sfa.

Spiegazione  il sonetto inizia con una sorta di contraddizione, seguita da un’inarcatura.


“Segno” antonomasia di “sogno”.
“Disegno sia più arduo”  riferimento al poeta T.S. Eliot
Le inversioni contribuiscono a rendere più solenne lo stile del sonetto.
Mentre nella malattia c’era una forma di veggenza, il ritorno della solarità ne cancella ogni traccia.

Giovanni Raboni sul sonetto

«Non c’è niente secondo me che liberi più l’immaginazione del dover rispettare una rima, perché a quel
punto scattano una quantità di associazioni che altrimenti uno non si permetterebbe, che non verrebbero
neppure in mente. D’altra parte […], io ho lavorato moltissimo sugli accenti. Gli accenti canonici servono per
ricordare l’esistenza del canone, ma in realtà quasi ogni sonetto ha grande prevalenza di versi con accenti
non canonici. Ciò rappresenta appunto quel corpo a corpo con la forma che secondo me è essenziale per
dare slancio al fare poetico» (1995).
«Il sonetto […] è diventato il modo in cui oggi penso la poesia. D’altra parte, quasi contemporaneamente ho
cominciato a lavorare contro il sonetto. I miei sonetti rispettano lo schema ma allo stesso tempo cercano di
disfarlo, di metterlo in discussione, per esempio con un gioco di accenti, di rime sulle particelle e sulle
congiunzioni» (1997).

Spiegazione  visione profondamente creativa del sonetto, che si differenzia parecchio dalla visione relativa
al sonetto come esperienza post traumatica.

«Mi sono convinto che lo stesso lavoro di liberazione metrica che attraversa tutto il secolo si è un po’
esaurito» (1997).

«L’aver adottato ufficialmente una forma chiusa, da un certo punto in poi, è stato un modo per garantirmi […]
la possibilità di una maggiore compromissione ed esposizione dell’io autoriale nel testo o di assumere in
altre parole, finalmente e senza schermi, una voce lirica. Era un modo per avere uno spazio dentro il quale
muovermi» (1997).
Sul sonetto: stabilità o variazione?

«Nessuna forma metrica del patrimonio romanzo quanto il sonetto appare, nella sua lunga vita, così costante
nella figura e così polivalente per funzione e contenuti». (Gorni 1993, p. 63)
In realtà, «nessuno dei tratti distintivi solitamente deputati a render conto della sua struttura superficiale
possiede il requisito dell’invarianza» (Menichetti 1975, p. 1), cioè:
• il numero dei versi può variare (es. sonetto rinterzato, caudato etc.)
• il numero delle sillabe (es. sonetto di settenari)

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Sul sonetto: divisione o unità?

«Mentre le canzoni dei Provenzali e dei loro seguaci italiani possono dilungarsi per un lasso di tempo
indefinito, il sonetto offre un’energica compressione, un’unità facilmente discernibile, una direzione lineare
unica, che lo rende paragonabile all’epigramma antico. Per me dunque il sonetto è prima di tutto un’unità
(che ha suddivisioni), non due parti (che giungono, in una maniera o in un’altra, all’unità)».
(Spitzer 1958, p. 65)

Da tale unità consegue:


«[…] la direzione irreversibile del suo sviluppo tematico: sicché sarebbe inimmaginabile (dico naturalmente a
livello del contenuto, non del metro) un ribaltamento della sestina prima dell’ottava, analogamente a quanto
invece anche di fatto (nei vari manoscritti) avviene […] delle stanze della canzone».
(Menichetti 1975, p. 12)
Sul sonetto: sonetto ed epigramma

‘Le Sonnet suit l’épigramme de bien près, et de manière, et de mesure : et […] n’est autre chose que le
parfait épigramme de l’Italien, comme le dizain du Français. Mais pource qu’il est emprunté par nous de
l’Italien, et qu’il a la forme autre que nos épigrammes, m’a semblé meilleur de le traiter à part’
[Il sonetto segue l’epigramma e ne è vicino, di maniera e di misura. Non è altra cosa che l’epigramma
perfetto dell’italiano, come il dizain lo è del francese. Ma perché noi l’abbiamo preso in prestito dall’italiano, e
ha una forma diversa dai nostri epigrammi, ho pensato che fosse meglio trattarlo a parte].
Thomas Sebillet, Art poétique françois [1548], in Traités de poétique et de rhétorique de la Renaissance, a
cura di Francis Goyet, Parigi, Le Livre de poche classique, 1990, p. 107.

Lorenzo de’ Medici: un elogio del sonetto

«È sentenzia di Platone che il narrare brevemente e dilucidamente molte cose non solo pare mirabile tra gli
uomini, ma quasi cosa divina. La brevità del sonetto non comporta che una sola parola sia vana; e il vero
subietto e materia de’ sonetti per questa ragione debbe essere qualche acuta e gentile sentenzia, narrata
attamente e in pochi versi ristretta, fuggendo la oscurità e durezza. Ha grande similitudine e conformità
questo modo di stilo collo epigramma quanto all’acume della materia e alla destrezza dello stile, ma è degno
e capace il sonetto di sentenzie più gravi, e però diventa tanto più difficile. Confesso el ternario essere più
alto e grande stile e quasi simile all’eroico; né per questo però più difficile, perché ha el campo più largo, e
quella sentenzia, che non si può ristrignere in due e in tre versi sanza vizio di chi scrive, nel ternario si può
ampliare».
(Comento de’ miei sonetti)

«Le canzone mi pare abbino grande similitudine colla elegia, ma credo, o per natura dello stile nostro o per
la consuetudine di chi ha scritto insino a qui canzone, lo stile della canzone non sanza qualche poco di
pudore ametterebbe molte cose non solamente leggieri e vane, ma troppo molle e lascive, le quali
comunemente si trovono scritte nelle latine elegie. Le canzone ancora, per avere più larghi spazii dove
possino vagare, non reputo tanto difficile stile quanto quello del sonetto. E questo si può assai facilmente
provare colla sperienzia: perché chi ha composto sonetti e se è ristretto a qualche certa e sottile materia, con
grande difficultà ha fuggito la oscurità e durezza dello stile; e è grande differenzia dal comporre sonetti in
modo che le rime sforzino la materia, a quello che la materia sforzi le rime. […] Concluderemo per questo el
verso vulgare essere molto difficile, e, tra gli altri versi, lo stile del sonetto difficillimo, e per questo degno
d’essere in prezzo quanto alcuno degli altri stili vulgari».

Spiegazione  il modo corretto di scrivere sonetti è che le rime derivino dalla materia, di solito accade
invece il contrario.

La Veronica overo del sonetto (1589), dialogo di Vincenzo Toraldo

«[…] come suol avvenire a molti, che volendo richiuder gran cose in così pochi versi, vengono ad oscurarsi
in modo che ad intendergli a pena basterebbe quell’Edipo che vinse la Sfinge, dichiarandole l’oscurissimo
enimma; e senza empiture altresì, come accade a coloro che, mendicando i concetti, procurano di finire il
sonetto nel meglior modo che possono; e tal volta in modo vien loro data la corda, per dir così, dalle rime,
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che i meschini contra loro voglia si conducono a dir cose che non avevano giamai pensate di dire. E il Signor
Francesco Maria Vialardi […] suol dire che il far sonetti è simile al letto di Procuste tiranno […]».

Spiegazione  anche qui il problema sono le rime, che forzano il poeta a dire un qualcosa che non
intendeva dire.
Lezione del sonetto (1592), di Cesare Crispolti

«Una sol cosa mi resta da avvertire, ch’il concetto che s’avrà da spiegare nel sonetto, sia sopra qual si voglia
materia, non deve esser maggiore né minore di esso sonetto. Onde alcuni lo paragonarono al letto di
Procuste tiranno, qual letto se avanzava di grandezza a coloro che vi si coricavano, il tiranno li faceva con
funi et ingegni talmente tirare ch’a viva forza li riduceva alla giusta misura dell’istesso letto. E se il letto era di
misura più picciola di coloro ch’in esso giacevano, il medesimo tiranno faceva tagliare tutto quello che di più
avanzava. Così il concetto che si ha da stendere in quatordeci versi, se talvolta tutto abbracciato e compreso
non reste, perde ciò che ha di rimanente, perciò che l’autore il taglia. E se il concetto è più picciolo, con
epitteti et altre empiture si va tanto stiracciando e tirando il povero concetto che bisogna per forza arrivi al
quatordecimo verso».

Spiegazione  l’aggiunta di elementi inutili nel sonetto costringe il concetto di base ad essere messo
nell’ultimo verso.

La Veronica overo del sonetto (1589), dialogo di Vincenzo Toraldo

Dialogo tra Partenopeo e Genovino.


PAR: «[…] ho qui un sonetto del Risvegliato, che tratta di esso [un gioco appena descritto da Genovino],
dicendo tutto quello che voi raccontaste».
GEN: «Oh se mi piace, e mi par veramente assai, dire in un sonetto quel giuoco e tutto ciò che in lui
successe così chiaramente; e certo difficil cosa è spiegar bene simili suggetti in un sonetto».
Cfr. “Sonetti pittorici” e la tradizione degli epigrammi dell’Antologia Planudea (IV), ad esempio sulle fatiche di
Ercole

Lezione del sonetto (1592), di Cesare Crispolti

«Il sonetto, sì come di bellezza supera tutte l’altre poesie toscane, così è anco sovra tutti gl’altri
componimenti il più difficile che far si possa. Nasce questa difficoltà da molte cagioni, ma principalmente
dalla picciolezza sua. In un quadro grande dipinto non si notano se vi sono alcune cose fatte meno
acconciamente, né poste a suo luogo né distinte con l’ombre, perché ve ne sono molt’altre che con la varietà
dei colori, con la distinzione de’ membri, con l’ornamento delle vesti e con bella situazione de’ luoghi
rapiscano gli occhi e gli animi di coloro ch'il mirano. Ma in una picciola pittura si nota con severo giudizio
ogni diffetto per minimo che sia. Il medesimo appunto avviene nel sonetto, dove tutte le cose che si dicano in
un istesso tempo s’influiscono nell’animo. […]
Il sonetto, se ben talora tratta di materia grave et illustre, come la canzone, tuttavia non la dilata né, per
adornarla, altre cose porta di fuori; ma di tutte quelle ricchezze la veste che può per se stesso in picciol
corpo ricevere».

Torquato Tasso, Lezione sopra il Sonetto Questa vita mortal (1570 ca.)

Sonetto e gravità di stile


«[…] con pace di Dante sia detto, se egli è pur lecito che nel sonetto concetti gravi e magnifici abbiano
luogo, sarà parimenti lecito che le parole siano gravi e magnifiche; però che essendo le parole, come
Aristotele nel terzo della Retorica c’insegna, imitazione de’ concetti, debbono la loro bassezza e la loro
altezza imitare».
«Poich’è vario il soggetto di cui si tratta nel sonetto, le parole ancora con le quali esso deve essere spiegato
saranno varie e con quello si conformeranno; per che se il soggetto sarà facile, lo stile dovrà esser tale; se
sarà grave et alto, farà di bisogno usare, con l’ampiezza e maestà delle sentenze, quasi una regal presenza
di parole a tal soggetto accommodate. […] […] s’egli è leccito, come provato abbiamo, che nel sonetto
soggetto grave e magnifico abbia luogo, sarà parimente leccito che le parole siano gravi e magnifiche; […]».
(C. Crispolti, Lezione del sonetto)
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