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La Grande Guerra nell’arte: Otto Dix

Il pittore tedesco Otto Dix può essere considerato uno “storiografo artistico”
del suo tempo. Si può dire questo perché nessuno più di lui ha saputo
raccontare la società e nel complesso, la storia del dopoguerra, in maniera
nuda e cruda per quello che era, cosa che gli valse in qualche modo il ritiro
dalle scene.
Otto Dix, nato nel 1891 a Gera, in Turingia, fu un artista tedesco formatosi
presso la Scuola d’Arte Decorativa di Dresda a partire dal 1910, sino allo
scoppio della Prima Guerra Mondiale, dove lui, interventista convinto,
partecipò attivamente sui fronti occidentale e orientale. Una presa di
posizione politica che mutò a guerra ultimata quando, scosso e traumatizzato
dopo quanto vissuto, si professò non solo pacifista, ma addirittura dedicò la
sua maturità artistica al racconto della guerra e della vita quotidiana
postbellica. Una mutazione, quella raccontata, non così strana da riscontrare
nella letteratura e nell’arte del post Prima Guerra Mondiale; basti pensare al
poeta italiano Giuseppe Ungaretti che, interventista prima della Grande
Guerra, cambiò la sua visione politica dopo aver vissuto la trincea sul fronte
austroungarico, denunciando nelle sue poesie l’orrore della guerra. Lo stesso
orrore fu denunciato quindi da Otto Dix a fine guerra, secondo una visione
artistico-stilistica molto vicina a quella dell’espressionismo fauvista, ma meno
intriso di soggettività emotiva e più intenso di denuncia sociale sotto uno
sguardo più oggettivo possibile: un oggettivismo così glaciale però, che non
poteva discostarsi dal toccare alcune corde di forte espressività; un nuovo
espressionismo, di stampo tedesco, definito Neue Sachlichkeit (Nuova
Oggettività) dal tema della mostra tenutasi a Mannheim, nel 1925. E la
posizione di Otto Dix a riguardo fu piuttosto dura, considerando l’incisività
delle sue opere artistiche: dipinti e acqueforti che si separavano in un bivio
argomentativo: se da un lato, infatti, forte impatto ebbero i dipinti denuncianti
gli orrori della guerra, dall’altro non di meno lo erano quelli denuncianti la
società tedesca, lasciata alla deriva di sé stessa dopo l’acclamazione della
nuova Repubblica di Weimar. Una società tedesca divisa tra chi aveva
vissuto passivamente la guerra, rimanendo ferma nei suoi prestigi nobiliari e
nelle sue ricchezze economiche, e chi l’aveva vissuta attivamente, rimanendo
tristemente reciso fisicamente e nell’animo dall’evento: i reduci di guerra,
mutilati e ormai impossibilitati a qualunque lavoro, un tempo eroi della patria,
adesso feccia della società, rifiuto umano difficile da smaltire. Ne sono
esempio tre dipinti del biennio 1920/1921, che raccontano per l’appunto la
triste figura del mutilato di guerra. In Via Praga, olio su tela del 1920, la figura
centrale del mutilato di guerra, monco di entrambe le gambe e del braccio
sinistro, sostituite da rozzi e improbabili protesi lignee, è attorniata da gente
che fugge via inorridita, come la donna in gonna rosa; un reduce ormai
impossibilitato a qualunque altra azione che non fosse l’elemosina: un gesto
disperato, evidenziabile nello sguardo ormai spento dell’uomo che chiede
pietà.
La stessa consapevolezza che si riscontra nel quadro Il venditore di
fiammiferi, del 1921, seduto sui marciapiedi di Dresda, allontanato ed
abilmente schivato dalle persone probabilmente inorridite dalla visione di una
realtà tanto sconvolgente e macabra, e disdegnato persino dal cane, che si
serve di lui per i suoi bisogni.
E ancora nel dipinto Invalidi di guerra che giocano a carte, è interessante
notare lo storpiamento fisico al limite dell’inverosimile, relegato alle tre figure
sedute al tavolo: nel pieno dell’impeto angosciante che può pervadere lo
spettatore, le tre figure giocano divertite a carte, nonostante la privazione di
gambe, braccia, occhi e mascelle, fantasiosamente sostituite da protesi in
legno o ferro.
Trasferitosi prima a Dusseldorf sino al 1925, poi, dopo un breve soggiorno di
due anni a Mannheim e a Berlino, stabilmente a Dresda dal 1927, Dix non
cessò di raffigurare la sua visione del mondo attuale tedesco, concedendo i
suoi sforzi verso la borghesia della città: una classe politica ormai nuova,
all’avanguardia, come dimostra esserne degna rappresentante la giornalista
del Dipinto della giornalista Sylvia Von Harden, raffigurata dal pittore nel
1926, quale icona di un nuovo arrivismo professionale, divergente da
qualunque attaccamento alla bellezza o al vezzo: la Sylvia Von Harden di
Otto Dix è una donna affermata, dal pratico monocolo e dal moderno taglio
corto di capelli; una donna che fuma e che non disdegna i piaceri della vita,
dal cocktail alla sigaretta. E due anni dopo è la volta del Trittico della
Metropoli, un componimento artistico di tre tele, volto a raccontare i fasti ed il
degrado della Dresda degli ultimi anni ’20, nella quale convivono i residui
dell’orrore della guerra e il risentimento di rivalsa e di voglia di concedersi
all’irrefrenabile.
Oltre che alla società a lui attuale, il ricordo traumatico di Dix si rivelò in
alcune sue opere ben mirate, volte a denunciare i ricordi della guerra vissuta
dall’artista: di forte impatto è la serie di acqueforti del 1924; una serie che
racconta in una visione macabra quanto accaduto su entrambi i fronti da lui
combattuti. Di forte impatto è Il suicidio in trincea, che raffigura un soldato
ormai scheletrico (lo scheletro è il simbolo del male e della morte), morto in
seguito alla sua decisione di togliersi la vita, evidentemente shockato da
quanto vissuto in prima persona: il fucile impugnato contro di sé, giace
ancora lì, con l’imboccatura inserita nella bocca del soldato. Ma altrettanto
significative sono le acqueforti che raccontano l’orrore della guerra nei centri
urbani, come La guerra durante un attacco di gas ed Il bombardamento
di Lens: nel primo disegno, l’effetto di terrore è dato dalla distorsione fisica
provocata dalle maschere antigas indossate dai soldati; nel secondo, è dato
dallo sguardo atterrito degli abitanti della città francese, che tentano di
sfuggire alla distruzione causata dalle bombe scagliate dall’aeroplano. Un
terrore che si esplica a pieno nel Trittico sulla guerra del 1929/1932;
un’apoteosi di morte, sofferenza, strazio e angoscia, tramutati in ammassi di
corpi morti, sangue, carne e ossa, come si evince dalla pala centrale; un
rimando all’azione bellica cruenta e abominevole, come si evince dalle pale
laterali; un inno alla morte, come si deduce dalla predella della pala centrale.

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