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1. La politica e Verdi

Ferdinando Petruccelli della Gattina, patriota, medico, giornalista e deputato dell'estrema Sinistra al primo
Parlamento unitario, è oggi ricordato soprattutto per "I moribondi del Palazzo Carignano", brillante galleria
di ritratti dei suoi colleghi deputati alla Camera torinese. Tra le spassose statistiche della nuova Camera dei
deputati con cui si apre il primo capitolo, e che Petruccelli padroneggia con insuperabile conoscenza della
vis comica dell'Elenco,vi è quella sull'estrazione professionale e sociale dei deputati, dalla quale egli
argomenta non potersi dire "...giammai che il nostro sia un Parlamento democratico! -Vi è di tutto, il popolo
eccetto!". Così ci informa che tra i deputati vi erano, tra gli altri: "... 2 principi; 3 duchi,(..); 135 avvocati; 25
medici(..); 32 professori, ex professori o dantisi come tali; (...); 2 dittatori; 7 dimissionari;(...); altri senza
alcuna disegnativa di professione - e Verdi, il maestro Verdi!". In questo bizzarro elenco in cui i deputati
scorrono anonimi, quantificati da un numero espresso in cifre come nella bolla di accompagnamento delle
merci,dove perfino i dittatori Garibaldi e Farini sfilano innominati prima dei dimissionari di professione,
Verdi svetta solitario con nome, titolo e punto esclamativo, una patria Gloria cui si perdona perfino di
essersi infilato in una compagnia che, come al solito, si vorrebbe più eletta. E pazienza se il perfido
Petruccelli soggiunge che "... Verdi stesso darebbe bene il suo Trovatore per poter fare il più povero e
piccolo discorso".(Petruccelli della Gattina, 1862, pp. 13-14) Nel 1861, in effetti, Verdi è l'artista più popolare
d'Italia e la sua opera si identifica con il movimento nazionale fin dal suo primo vero successo, il Nabucco
del 1842. Eppure nella ricostruzione che Verdi stesso fece della genesi di quest'opera -del resto dedicata alla
figlia del viceré austriaco, l'Arciduca Ranieri - nella "nota autobiografica" che dettò a Giulio Ricordi nel 1879,
il libretto di Solera appare affascinarlo in una dimensione non già politica, ma tutta esistenziale, dove il coro
degli Ebrei gli parla del suo personale esilio dalla vita e dall'arte, che egli stesso si era imposto dopo la
terribile tragedia della morte in rapida successione dei due figli e della moglie Margherita.(in Werfel e
Stefan, 2013, pp. 65-74). L'opera però, venne avvertita subito dal pubblico come una metafora della
condizione dell'Italia e aprì a Verdi le porte di quello che divenne il luogo della sua formazione politica, il
salotto della contessa Clara Maffei. Già dalla scelta del libretto per l'opera successiva, "I Lombardi alla Prima
Crociata", dal romanzo di Grossi, Verdi si qualificò coscientemente come musicista , diremmo oggi,
impegnato a fianco del movimento nazionale, e praticamente tutte le opere del successivo fecondissimo
decennio, quand'anche non apertamente patriottiche, si prestarono, a volte anche oltre le sue intenzioni, a
una lettura in chiave italiana.

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2. Verdi nella rivoluzione

Nel 1847 Verdi era ormai sufficientemente affermato da ricevere le prime scritture fuori d'Italia, a
Londra,dove incontrò Mazzini, e a Parigi dove, avendo ormai iniziato ufficialmente la sua convivenza con
Giuseppina Strepponi, finì per trattenersi molto più del previsto. Avvenne così che la grande rivoluzione
europea del 1848 lo cogliesse a Parigi, da un lato quindi al centro della temperie rivoluzionaria, dall'altro
lontano dagli avvenimenti italiani. Verdi però prese pubblicamente posizione a favore della guerra
d'indipendenza. L'8 agosto, infatti, sottoscrisse insieme ad altri illustri italiani presenti a Parigi (ignari del
fatto che già nella sera del 6 Carlo Alberto e il suo esercito avevano abbandonato Milano alle truppe
austriache) un appello inviato dal Governo provvisorio della Lombardia al Governo repubblicano francese,
affinché intervenisse in vista dell'imminente assalto degli austriaci alla città di Milano. Peraltro, Verdi non
riponeva molte speranze in un intervento straniero; ne fa fede la lucida analisi d'impronta mazziniana,
formulata nella lettera che inviò a Clara Maffei dopo l'armistizio di Salasco:"…Vuol sapere l'opinione di
Francia sulle cose d'Italia? Buon Dio, cosa mi cerca mai! Chi non è contrario è indifferente: aggiungo di più
che l'idea dell'Unità Italiana spaventa questi uomini piccoli, nulli che sono al potere. La Francia non
interverrà colle armi (…) L'intervenzione diplomatica franco-inglese non può essere che iniqua, vergognosa
per la Francia, e ruinosa per noi. Difatti tenderebbe a fare che l'Austria abbandonasse la Lombardia e si
contentasse del Veneto (…) per noi resterebbe un'onta in più, la devastazione della Lombardia, ed un
principe in più in Italia (...). Sa in chi spero? Nell'Austria: nei sconvolgimenti dell'Austria. Qualcosa di serio
deve pur nascere là, e se noi sapremo cogliere il momento, e fare la guerra che si doveva fare, la guerra
d'insurrezione, l'Italia può ancora esser libera. Ma Iddio ci salvi d'aver confidenza nei nostri re e nelle
nazioni straniere…" (in Werfel e Stefan,2013, pp. 115-116).

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3.Verdi nella reazione

Come è noto, le cannonate di Windisch-Graetz a Vienna e l'intervento dell'esercito russo a Budapest posero
fine agli "sconvolgimenti dell'Austria" e, così come quella règia, anche la guerra di popolo andò incontro alla
sconfitta a Venezia e a Roma, dove Verdi ebbe una conferma anche troppo cruda di quanto fosse fondato lo
scarso assegnamento che egli aveva fatto l'anno prima sulla Francia; nel luglio del '49, ancora a Parigi,
scrisse allo scultore Vincenzo Luccardi:"... Non parliamo di Roma! A che gioverebbe? La forza regge ancora il
mondo! La giustizia? A che serve contro le baionette? (...). Dimmi infine tutto quello che i nostri novelli
padroni ti permettono di dire..."(in Werfel e Stefan, 2013, p. 124) Forse anche il disgusto per la politica
francese accelerò il rientro di Verdi in patria. In due anni l'atmosfera degli Stati italiani si era radicalmente
modificata. Se infatti la Sardegna aveva conservato il regime statutario, negli altri Stati italiani era in atto una
dura reazione. Nel Lombardo-Veneto, in particolare, il Governatore generale Radetzky diede vita a un
regime di vera e propria occupazione militare (lo stato d'assedio fu abolito solo nel maggio del 1854) la cui
durezza destò, nche a Vienna, preoccupazioni su cui peraltro prevalse la gratitudine verso il vecchissimo
feldmaresciallo; vi furono esecuzioni capitali per imputazioni anche minime come il possesso di manifestini,
molti fra i cittadini più in vista furono incarcerati o andarono in esilio, le classi medie soffrirono l'imposizione
di pesanti indennità di riparazione. Per Verdi, protetto dalla sua fama europea, il peso della
controrivoluzione si manifestò sotto una forma affatto particolare: la lotta, fatta di defatiganti trattative e
continui compromessi, contro la censura che dopo la grande paura rivoluzionaria era divenuta assillante e
sempre pronta a intervenire laddove si manifestasse un riferimento patriottico, una mancanza di rispetto
verso qualsivoglia corona regale, un affronto ai buoni costumi. Fu così che La battaglia di Legnano, già
rappresentata con questo titolo a Roma alla vigilia della Repubblica, continuò a vivere nei teatri italiani degli
anni cinquanta in un bizzarro travestimento olandese, come Assedio di Arnhem; che Gustavo III fu
trascinato dalla Svezia alla Boston coloniale e trasformato nel Ballo in maschera; che La Traviata venne
retrodatata al '700,per sfumare i vizi nelle brume del passato e far brillare la riconquistata purezza dei
costumi contemporanei; soprattutto, con mirabile esempio di eterogenesi dei fini, la censura si accanì con
felice ostinazione sul libretto della Maledizione, trasformandolo nel Rigoletto e, tra l'altro, spostò l'azione
del Roi s'amuse di Hugo dalla corte parigina di Francesco I alla Mantova dei Gonzaga, così creando
l'ambientazione ideale per quell'atmosfera di solare sensualità italiana che nell'opera fa da contrappeso alla
tragica cupezza della vicenda.

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4. L'unificazione nazionale

Dopo la riapertura del salotto della contessa Maffei nel 1850, l'ambiente politico-culturale nel quale si
muoveva Verdi avviò una riflessione sulla possibilità di conferire una prospettiva nuova e più efficace al
movimento nazionale. Ancora una volta fu Mazzini che, con la creazione del Partito d'Azione e l'indizione
del Prestito nazionale, tentò di far uscire il movimento patriottico dalla dimensione cospirativa. I ripetuti
insuccessi dei suoi tentativi insurrezionali determinarono però il rapido esaurimento di questa prospettiva, a
vantaggio di quella che si stava delineando grazie alla diplomazia europea di Cavour, soprattutto dopo la
guerra di Crimea e la fondazione della Società nazionale italiana. Si trattava di convincersi che la strada
giusta fosse quella della "confidenza" in un re italiano e in una Nazione straniera, contro la quale Verdi si era
espresso con tanta amara lucidità nel '48. Ai più questa scelta, in particolare dopo lo scoppio della seconda
guerra d'indipendenza e l'insurrezione della Toscana, dei Ducati e delle Legazioni pontificie, appariva l'unica
praticabile, ma c'era chi la viveva con minor entusiasmo degli altri. Fra questi ultimi vi era anche Verdi, che a
luglio così commentava il trattato di Villafranca con Clara Maffei: "... E dov'è dunque la tanto sospirata e
promessa indipendenza d'Italia?(..). O che la Venezia non è Italia? (...). Quanta povera gioventù delusa! E
Garibaldi che ha perfino fatto il sacrificio delle sue antiche e costanti opinioni in favore d'un Re senza
ottenere lo scopo desiderato (...). Scrivo sotto l'impressione del più alto dispetto e non so cosa mi dica. E'
dunque ben vero che noi non avremo mai nulla a sperare dallo straniero, di qualunque nazione sia!" (in
Werfel e Stefan, 2013, pp. 182-184). Il dispetto però non gli impedì di dare il suo contributo per contrastare
l'attuazione delle clausole del Trattato che prevedevano il ritorno dei vecchi sovrani nell'Italia centrale.
Pertanto, dopo aver avuto una parte di primo piano nell'organizzare l'armamento degli insorti
parmigiani,cui contribuì anche personalmente con l'acquisto di cento moderni fucili, accettò l'elezione a
rappresentante di Busseto all'Assemblea delle Province parmensi, proclamando che il programma al quale
egli si atteneva era l'annessione al Piemonte, nella quale risiedeva "... la futura grandezza e rigenerazione
della patria comune".(in Werfel e Stefan, 2013, p. 184) Presiedette quindi la delegazione inviata a Torino a
metà settembre per chiedere l'annessione agli Stati Sardi, e il ministro plenipotenziario britannico, Lord
Hudson, organizzò un suo incontro a Leri col dimissionario Cavour. Si trattò di un vero e proprio colpo di
fulmine: se il Maestro aveva certo già apprezzato la decisione di Cavour di non seguire il Re nell'adesione
alla pace francese, ora la personalità del Conte lo soggiogò letteralmente, e le parole di ringraziamento che
gli scrisse poi con accenti per lui inusuali, furono il prologo a un rapporto di fedeltà e fiducia che sarebbe
continuato senza incrinature per i due anni che ancora restavano da vivere allo statista piemontese: "... Non
iscorderò mai quel suo Leri, dov'io ebbi l'onore di stringere la mano al grande uomo di Stato, al sommo
cittadino, a colui che ogni italiano dovrà chiamare padre della patria..."(in Werfel e Stefan, 2013 pp.184-
185).

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5. L'elezione alla Camera


Il ruolo di Verdi nel moto unitario parmigiano completava la sua immagine di musicista nazionale per
antonomasia, e ne faceva quindi quello che oggi chiameremmo un perfetto testimonial del progetto politico
cavouriano. Il Conte chiese perciò a Verdi di candidarsi nel collegio di Borgo San Donnino (l'attuale Fidenza)
per le elezioni dell'VIII Parlamento sardo, che avrebbe proclamato Vittorio Emanuele Re d'Italia diventando
il primo Parlamento del nuovo Stato. La proposta turbò Il Maestro, consapevole dell'enorme differenza che
correva tra una rappresentanza rivoluzionaria come l'Assemblea delle Province parmensi - il cui unico scopo
era impedire il ritorno dei Borbone e preparare l'annessione agli Stati sardi - e una vera assemblea
legislativa e politica; ma nel gennaio del 1861, recatosi a Torino per rifiutare la candidatura, finì per cedere.
Quattro anni dopo, Verdi rievocò la vicenda in una lettera a Francesco Maria Piave: "...Mi presentai a Lui (...)
a sei ore del mattino, con 12 o 14 gradi di freddo. Avevo preparato il mio spice (sic!) che mi pareva un capo
d'opera, e glielo spiattellai là tutto disteso. Egli n'ascoltava attentamente e quando gli descrissi la mia
inattitudine a essere deputato (...) cominciò a ribattere una per una tutte le mie ragioni (...). Io soggiunsi:
ebbene signor Conte accetto, ma alla condizione che dopo qualche mese darò la mia dimissione. Sia,
rispose, ma me ne farete prima cenno. Fui deputato e nei primi tempi frequentai la camera. Venne la seduta
solenne in cui si proclamò Roma, capitale d'Italia. Dato il mio voto, mi avvicinai al Conte e gli dissi: ora mi
pare tempo di dare un addio a questi banchi. No, soggiunse, aspettate finché andremo a Roma.- Ci
andremo?- Sì.- Quando?- Oh, quando, quando!- Intanto io me ne vado in campagna.- Addio, state bene,
addio. - Fur l'ultime sue parole per me. Poche settimane dopo moriva!..."(in Werfel e Stefan, 2013, pp. 203-
204). La candidatura di Verdi non piacque al locale esponente del partito cavouriano, l'avvocato Giovanni
Minghelli Vaini, personaggio eminente di San Secondo parmense, che tentò di indurlo a ritirarla, o a
presentarla in altro collegio. Verdi, pur protestando a Minghelli Vaini la sua stima, gli scrisse che non poteva
venir meno all'impegno preso con Cavour, né poteva presentarsi in un collegio diverso da quello nel quale
ricadeva usseto, poiché una simile scelta "...perdonami, è contro a' miei principi. Così facendo, mi
presenterei per essere eletto ed io ripeto per la centesima volta: Sono costretto ad accettare, ma non mi
presento, né mi offro a nessun collegio. Se tu riesci a farmi avere la minorità dei voti, a farti nominare e a
liberarmi da questo impegno, io non troverò parole sufficienti per ringraziarti di sì segnalato servigio. Farai
un bene alla camera, un piacere a te, ed uno grandissimo a G. VERDI".(in Werfel e Stefan, 2013, p. 189). E in
realtà Verdi non fece nessuna campagna elettorale, a differenza di Minghelli Vaini; troppo differenti erano
tuttavia il prestigio e la popolarità dei due candidati cavouriani e Verdi, entrato in ballottaggio con l'avvocato
sansecondino nelle elezioni del 27 gennaio, risultò eletto il 3 febbraio con 339 voti contro 206 (Minghelli
Vaini fu comunque eletto nel collegio di Bettola).

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6. Verdi deputato

Nella citata lettera a Piave, Verdi dava conto dei suoi tentativi di dare le dimissioni e delle circostanze che
l'avevano impedito, concludendo: "... Ora io sono ancora deputato contro ogni mio desiderio ed ogni mio
gusto,senza avervi nessuna attitudine, nessun talento e mancante completamente di quella pazienza tanto
necessaria in quel recinto. Ecco tutto. Ripeto che volendo o dovendo fare la mia biografia come membro del
parlamento non vi sarebbe altro che imprimere in mezzo a un bel foglio di carta: ' I 450 non son veramente
che 449, perché Verdi come deputato non esiste' ". In realtà il Maestro, che certamente aveva difficoltà ad
adattarsi alle mediazioni proprie dell'attività legislativa, pure ebbe piena consapevolezza del suo ruolo e
delle sue responsabilità pubbliche, nonché del significato anche simbolico delle sue scelte politiche. Si pose
infatti in primo luogo il problema della sua corretta collocazione nell'emiciclo, decidendo alla fine di sedere,
accanto a Quintino Sella, sui banchi del Centro-Sinistra, con ciò ponendosi, come disse l'amico e
compaesano, nonché deputato parmigiano, Giuseppe Piroli, nel partito di coloro che appoggiavano il
Ministero, ma non per sistema. Nel primo anno di legislatura fu estremamente diligente, pur senza mai
prendere la parola in Assemblea; soprattutto si impegnò, su richiesta del Conte di Cavour, nel redigere un
progetto di riordinamento dell'attività e degli studi musicali. Il radicalismo della sua proposta però ne
determinò la tacita sconfessione da parte del Governo; Verdi immaginava infatti un impegno diretto dello
Stato nella promozione della cultura musicale, attraverso l'istituzione di tre Teatri lirici di Stato collegati a
Conservatori e scuole di canto completamente gratuiti (Pestalozza, 1988, p. 72). Quest'idea muoveva dalla
consapevolezza della centralità della trasmissione della cultura musicale ai fini della costruzione di
un'identità nazionale condivisa e diffusa, e non certo da un atteggiamento superficiale o naif nei confronti
dell'uso delle risorse pubbliche; al contrario, Verdi era perfettamente consapevole che il Regno poteva
dedicare al finanziamento delle politiche culturali ben poche risorse, da riservare perciò a progetti di ampio
respiro, e condannò come manifestazione di un costoso e futile provincialismo l'attivismo con cui le classi
dirigenti locali post-unitarie si diedero a celebrare sé stesse attraverso l'erezione di monumenti e opere
pubbliche che, nei contesti in cui venivano realizzati, apparivano di dubbia utilità. Si pensi alla sua lunga
lotta contro il progetto di edificare un teatro lirico a lui dedicato a Busseto. Estraneo alla pretesa wagneriana
di attribuire un valore metamusicale alla sua opera, Verdi non concepiva l'idea di un festival autocelebrativo
in stile Bayreuth, e vedeva in quel progetto un'onerosa cattedrale nel deserto, in presenza a Parma di un
grande teatro lirico come il Regio; così, fece appello al prestigio della sua carica per scoraggiarne
l'attuazione, scrivendo al Consiglio municipale di Busseto: "Adempio un dovere come Deputato, (...) L'Italia
corre in gravi pericoli (...) per ristrettezze pecuniarie. Non voglia il cielo che l'istoria abbia un giorno a
registrare che l'Italia fu disfatta per mancanza di denaro (...) in un tempo in cui s'abbelliscono città,
s'innalzano dappertutto monumenti e teatri. Busseto sta costruendo un teatro, né si creda che io voglia ora
osteggiare quest'opera, sia vana, e cosa inutile come io credo. Questo non è il momento di discussione ma
di pensare a cose più alte e importanti, ed è per questo che mi rivolgo a questo municipio onde esortarlo a
sospendere quel lavoro, ed imitando il nobile esempio di Brescia ed altre molte città, impiegare quel denaro
a ristorare le finanze patrie..." (in Werfel e Stefan, 2013, p. 191).

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7. Icona della Nazione.

L'affievolimento dell'impegno parlamentare di Verdi coincise con l'aumento dei suoi impegni internazionali.
Negli anni sessanta, in effetti, Verdi fu una sorta di icona culturale del nuovo Stato nazionale, e alternò
soggiorni italiani trascorsi in prevalenza a Sant'Agata a prolungati tour all'estero, dove debuttarono tutte le
opere composte in questo periodo; peraltro, Verdi non si lasciò mai tentare dal ruolo dell'artista di successo
"apolide", indifferente alle vicende che si svolgono attorno a lui e a qualunque conflitto che non abbia a
oggetto l'arte per l'arte. Uomo senza partito ma non certo senza convinzioni, il Maestro restò sempre
fedele, a differenza di tanti ex repubblicani della sua generazione, a una prospettiva di liberalismo
progressista e di patriottismo umanitario, e nel corso degli anni '60 guardò con preoccupazione alla deriva
nazionalista e imperialista che si stava cominciando a manifestare in Europa, e che si rivelò
drammaticamente nella guerra franco-prussiana. Alla fine di settembre del 1870, scriveva a Clara Maffei
parole in cui il disgusto per il nazionalismo militarista della Prussia e il timore per gli entusiasmi che esso
suscitava anche in Italia, confluiscono con l'afflizione per la sorte di Parigi, capitale della libertà e della
cultura europea, e con il senso di vergogna per l'incapacità dell'Italia di onorare un debito di riconoscenza
che, pur fra tante delusioni e incomprensioni, egli provava nei confronti della Francia: "... la presunzione dei
francesi era, ed è, malgrado tutte le loro miserie, insopportabile, ma infine la Francia ha dato la libertà e la
civiltà al mondo moderno. E s'essa cade, non ci illudiamo, cadranno tutte le nostre libertà, e la nostra civiltà.
Che i nostri letterati e i nostri politici vantino pure il sapere, le scienze e (Dio glielo perdoni) le arti di questi
vincitori; ma se guardassero un po' più in dentro, vedrebbero che sono (...) d'uno smisurato orgoglio, duri,
intolleranti, sprezzatori di tutto ciò che non è germanico (...). L'antico Attila (...) si arrestò avanti la maestà
della capitale del mondo antico: ma questi sta per bombardare la capitale del mondo moderno (...). Forse
perché non esista mai più, così bella, una capitale che essi non arriveranno mai a farne una eguale. Povera
Parigi! che ho vista così allegra, così bella, così splendida nel passato aprile! E poi?... Io avrei amato una
politica più generosa, e che si pagasse un debito di riconoscenza (...); avrei preferito segnare una pace vinti
coi Francesi, a quest'inerzia che ci farà sprezzare un giorno. La guerra europea non la eviteremo, e saremo
divorati. Non sarà domani, ma sarà. Un pretesto è subito trovato...". Il dolore non veniva certo diminuito
dall'annessione di Roma, che Verdi commenta con parole che tradiscono amarezza e perplessità: "L'affare di
Roma, è un gran fatto, ma mi lascia freddo (...) perché non posso conciliare Parlamento e Collegio
cardinalizio, libertà di stampa e Inquisizione, Codice civile e Sillabo (...). Che domani ci venga un Papa destro,
astuto, un vero furbo, come Roma ne ha avuti tanti, e ci ruinerà. Papa e Re d'Italia non posso vederli insieme
nemmeno in questa lettera."(in Werfel e Stefan, 2013, pp. 244-245).

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Verdi in Senato8. Il senatore Verdi

Il 15 novembre1874 Verdi venne nominato senatore del Regno, scelto fra gli appartenenti alle categorie 20
(cittadini che avevano illustrato la Patria con meriti eminenti) e 21 (grandi contribuenti) dell'articolo 33 dello
Statuto. La nomina aveva, intrinsecamente e per le circostanze di tempo in cui avveniva, una natura affatto
diversa da quella dell'elezione alla Camera dei deputati di tredici anni prima: Verdi non era certo più il
testimonial di un progetto politico in fieri e, a sessantun anni, appariva ormai anziano, un artista che aveva
raccolto nell'ultimo decennio il frutto maturo della sua opera, e che da quattro anni non componeva più per
il teatro. Alla luce dell'esperienza del mondo della lirica, la carriera di Verdi, come operista se non come
musicista, sembrava ragionevolmente conclusa: Bellini era morto a trentaquattro anni, Donizetti era
impazzito a quarantacinque, mentre Rossini a metà della sua vita, a trentasei anni, aveva abbandonato il
teatro, limitandosi a una ridotta seppur significativa produzione di musica strumentale, corale e sacra.
Invece davanti al Maestro si apriva una lunga e attivissima vecchiaia, nel corso della quale, accanto ai ruoli di
agricoltore, filantropo e uomo pubblico svolti con infaticabile impegno, avrebbe continuato a sviluppare il
proprio percorso artistico, attraverso lunghi periodi di riflessione sulle possibilità aperte alla tradizione
melodica dalle nuove prospettive del linguaggio musicale, fino alla realizzazione di due capolavori
rivoluzionari come l'Otello e, a ottant'anni, il Falstaff. In effetti la partecipazione di Verdi ai lavori del Senato
fu minima e pressoché formale, cosa che peraltro, data la natura dell'organo e il suo stesso carattere
vitalizio, non rappresentava certo un'eccezione. Ciò però, una volta di più, non significa che Verdi non
sentisse le responsabilità pubbliche della nuova carica, né che fosse meno sensibile alle nuove
problematiche che agitavano la vita della nazione, prima fra tutte la questione sociale, che nell'ultimo
trentennio del secolo si manifestò con una crescente conflittualità, specie nelle campagne che risentivano
dell'aumentato sfruttamento in funzione di accumulazione del capitale necessario allo sviluppo industriale.
Sarebbe eccessivo affermare che Verdi simpatizzasse per il movimento sindacale; tuttavia non si accodò al
mainstream del suo ambiente - la borghesia agraria - che vedeva ottusamente nella questione sociale il
mero frutto dell'azione sovvertitrice dei "settari", da fronteggiare con la forza, ed ebbe sempre chiaro che la
ribellione testimoniava un crescente scollamento fra Paese legale e Paese reale. Nel marzo del 1878 scrisse
a Piroli: "...Se voi vedeste, caro Piroli, da noi quanti poveri (...) hanno mandato rinforzi di carabinieri a
cavallo, di Bersaglieri etc. per prevenire qualche dimostrazione. Così la povera gente dice: 'noi domandiamo
lavoro, pane.. essi ci mandano soldati e manette...' Così è..." (in Rescigno, 2012, p. 742). Verdi si sentì parte
di una classe dirigente che non poteva continuare a rimanere indifferente al peggioramento delle condizioni
di vita delle classi popolari: Se in gioventù aveva partecipato alla temperie politica attraverso la sua opera di
artista, ora ritenne che il fronte dove egli doveva assumersi le sue responsabilità nei confronti della
collettività fosse quello dell'attività economica. Scriveva infatti nella primavera del 1881 all'amico giornalista
Opprandino Arrivabene: "...siamo tutti a S. Agata (...) per dare un colpo d'occhio ai lavori che ho fatto fare
durante l'inverno sia nei campi come nella casa (...) ho speso qualche soldo che ha dato da mangiare a molti
poveri operai: Perché dovete sapere, voi abitanti delle capitali, che la miseria è grande, grandissima, e se
non ci sarà una provvidenza sia dall'alto che dal basso un giorno o l'altro succederanno guai gravissimi..." (in
Werfel e Stefan, 2013, pp.305-306) e in dicembre: "...tu sai (...) che sono in fabbriche; l'anno passato ho
fabbricato una cascina, ques'anno due ancora più grosse; e che sono circa duecento operai che hanno
lavorato fino ad oggi, ed ai quali ho dovuto dare disposizioni per l'avvenire appena il gelo lo permetterà.(...)
tanto tanto la gente guadagna, e nel mio villaggio la gente non emigra..." (in Werfel e Stefan, 2013, p. 307).
Verdi del resto si impegnò moltissimo per lo sviluppo delle infrastrutture civili in tutto il territorio, in
particolare attraverso la fondazione dell'Ospedale di Villanova sull'Arda, di cui sorvegliò sempre con grande
attenzione l'amministrazione. Solo nella sua estrema vecchiaia, in particolare dopo la morte di Giuseppina
Strepponi nel 1897, il Maestro si concesse un orizzonte di attività pubblica più limitato, impegnandosi nella
sua più nota opera filantropica, la Casa di riposo per i Musicisti di Milano, che vide la luce nel 1899, e presso
la quale fu sepolto alla sua morte, avvenuta il 27 gennaio 1901.

https://www.conoscereverdi.it/news/l'impegno-politico/12

L'impegno politico

Lo slancio risorgimentale di Verdi nella vita come nell’arte, l’aspirazione ad una Unità capace di costruire
un'Italia solidale e moderna, gli incontri con Mazzini e Cavour, l’elezione a deputato, la delusione, sono
ancora oggi elementi di riflessione.

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Nel 1847 Verdi era ormai sufficientemente affermato da ricevere le prime scritture fuori d'Italia, a Londra,
dove incontrò Mazzini e a Parigi dove, avendo ormai iniziato ufficialmente la sua convivenza con Giuseppina
Strepponi, finì per trattenersi molto più del previsto. Avvenne così che la grande rivoluzione europea del
1848 lo cogliesse a Parigi, da un lato quindi al centro della temperie rivoluzionaria, dall'altro lontano dagli
avvenimenti italiani. Verdi però prese pubblicamente posizione a favore della guerra d'indipendenza. L'8
agosto, infatti, sottoscrisse insieme ad altri illustri italiani presenti a Parigi (ignari del fatto che già nella sera
del 6 Carlo Alberto e il suo esercito avevano abbandonato Milano alle truppe austriache) un appello inviato
dal Governo provvisorio della Lombardia al Governo repubblicano francese, affinché intervenisse in vista
dell'imminente assalto degli austriaci alla città di Milano. Peraltro, Verdi non riponeva molte speranze in un
intervento straniero; ne fa fede la lucida analisi d'impronta mazziniana, formulata nella lettera che inviò a
Clara Maffei dopo l'armistizio di Salasco: "Vuol sapere l'opinione di Francia sulle cose d'Italia? Buon Dio,
cosa mi cerca mai! Chi non è contrario è indifferente: aggiungo di più che l'idea dell'Unità Italiana spaventa
questi uomini piccoli, nulli che sono al potere. La Francia non interverrà colle armi (…) L'intervenzione
diplomatica franco-inglese non può essere che iniqua, vergognosa per la Francia, e ruinosa per noi. Difatti
tenderebbe a fare che l'Austria abbandonasse la Lombardia e si contentasse del Veneto (…) per noi
resterebbe un'onta in più, la devastazione della Lombardia, ed un principe in più in Italia (...). Sa in chi
spero? Nell'Austria: nei sconvolgimenti dell'Austria. Qualcosa di serio deve pur nascere là, e se noi sapremo
cogliere il momento, e fare la guerra che si doveva fare, la guerra d'insurrezione, l'Italia può ancora esser
libera. Ma Iddio ci salvi d'aver confidenza nei nostri re e nelle nazioni straniere".

Come è noto, le cannonate di Windisch-Graetz a Vienna e l'intervento dell'esercito russo a Budapest posero
fine agli "sconvolgimenti dell'Austria" e, così come quella règia, anche la guerra di popolo andò incontro alla
sconfitta a Venezia e a Roma, dove Verdi ebbe una conferma anche troppo cruda di quanto fosse fondato lo
scarso assegnamento che egli aveva fatto l'anno prima sulla Francia; nel luglio del '49, ancora a Parigi,
scrisse allo scultore Vincenzo Luccardi: "Non parliamo di Roma! A che gioverebbe? La forza regge ancora il
mondo! La giustizia? A che serve contro le baionette? (...). Dimmi infine tutto quello che i nostri novelli
padroni ti permettono di dire”. Forse anche il disgusto per la politica francese accelerò il rientro di Verdi in
patria. In due anni l'atmosfera degli Stati italiani si era radicalmente modificata. Se infatti la Sardegna aveva
conservato il regime statutario, negli altri Stati italiani era in atto una dura reazione. Nel Lombardo-Veneto,
in particolare, il Governatore generale Radetzky diede vita a un regime di vera e propria occupazione
militare (lo stato d'assedio fu abolito solo nel maggio del 1854) la cui durezza destò, anche a Vienna,
preoccupazioni su cui peraltro prevalse la gratitudine verso il vecchissimo feldmaresciallo; vi furono
esecuzioni capitali per imputazioni anche minime come il possesso di manifestini, molti fra i cittadini più in
vista furono incarcerati o andarono in esilio, le classi medie soffrirono l'imposizione di pesanti indennità di
riparazione. Per Verdi, protetto dalla sua fama europea, il peso della controrivoluzione si manifestò sotto
una forma affatto particolare: la lotta, fatta di defatiganti trattative e continui compromessi, contro la
censura che dopo la grande paura rivoluzionaria era divenuta assillante e sempre pronta a intervenire
laddove si manifestasse un riferimento patriottico, una mancanza di rispetto verso qualsivoglia corona
regale, un affronto ai buoni costumi. Fu così che La battaglia di Legnano, già rappresentata con questo titolo
a Roma alla vigilia della Repubblica, continuò a vivere nei teatri italiani degli anni cinquanta in un bizzarro
travestimento olandese, come Assedio di Arnhem; che Gustavo III fu trascinato dalla Svezia alla Boston
coloniale e trasformato nel Ballo in maschera; che La Traviata venne retrodatata al '700,per sfumare i vizi
nelle brume del passato e far brillare la riconquistata purezza dei costumi contemporanei; soprattutto, con
mirabile esempio di eterogenesi dei fini, la censura si accanì con felice ostinazione sul libretto della
Maledizione, trasformandolo nel Rigoletto e, tra l'altro, spostò l'azione del Roi s'amuse di Hugo dalla corte
parigina di Francesco I alla Mantova dei Gonzaga, così creando l'ambientazione ideale per quell'atmosfera di
solare sensualità italiana che nell'opera fa da contrappeso alla tragica cupezza della vicenda.

Dopo la riapertura del salotto della contessa Maffei nel 1850, l'ambiente politico-culturale nel quale si
muoveva Verdi avviò una riflessione sulla possibilità di conferire una prospettiva nuova e più efficace al
movimento nazionale. Ancora una volta fu Mazzini che, con la creazione del Partito d'Azione e l'indizione
del Prestito nazionale, tentò di far uscire il movimento patriottico dalla dimensione cospirativa. I ripetuti
insuccessi dei suoi tentativi insurrezionali determinarono però il rapido esaurimento di questa prospettiva, a
vantaggio di quella che si stava delineando grazie alla diplomazia europea di Cavour, soprattutto dopo la
guerra di Crimea e la fondazione della Società nazionale italiana. Si trattava di convincersi che la strada
giusta fosse quella della "confidenza" in un re italiano e in una Nazione straniera, contro la quale Verdi si era
espresso con tanta amara lucidità nel '48. Ai più questa scelta, in particolare dopo lo scoppio della seconda
guerra d'indipendenza e l'insurrezione della Toscana, dei Ducati e delle Legazioni pontificie, appariva l'unica
praticabile, ma c'era chi la viveva con minor entusiasmo degli altri. Fra questi ultimi vi era anche Verdi, che a
luglio così commentava il trattato di Villafranca con Clara Maffei: "E dov'è dunque la tanto sospirata e
promessa indipendenza d'Italia?(..). O che la Venezia non è Italia? (...). Quanta povera gioventù delusa! E
Garibaldi che ha perfino fatto il sacrificio delle sue antiche e costanti opinioni in favore d'un Re senza
ottenere lo scopo desiderato (...). Scrivo sotto l'impressione del più alto dispetto e non so cosa mi dica. E'
dunque ben vero che noi non avremo mai nulla a sperare dallo straniero, di qualunque nazione sia!". Il
dispetto però non gli impedì di dare il suo contributo per contrastare l'attuazione delle clausole del Trattato
che prevedevano il ritorno dei vecchi sovrani nell'Italia centrale. Pertanto, dopo aver avuto una parte di
primo piano nell'organizzare l'armamento degli insorti parmigiani,cui contribuì anche personalmente con
l'acquisto di cento moderni fucili, accettò l'elezione a rappresentante di Busseto all'Assemblea delle
Province parmensi, proclamando che il programma al quale egli si atteneva era l'annessione al Piemonte,
nella quale risiedeva "la futura grandezza e rigenerazione della patria comune”. Presiedette quindi la
delegazione inviata a Torino a metà settembre per chiedere l'annessione agli Stati Sardi, e il ministro
plenipotenziario britannico, Lord Hudson, organizzò un suo incontro a Leri col dimissionario Cavour. Si trattò
di un vero e proprio colpo di fulmine: se il Maestro aveva certo già apprezzato la decisione di Cavour di non
seguire il Re nell'adesione alla pace francese, ora la personalità del Conte lo soggiogò letteralmente, e le
parole di ringraziamento che gli scrisse poi con accenti per lui inusuali, furono il prologo a un rapporto di
fedeltà e fiducia che sarebbe continuato senza incrinature per i due anni che ancora restavano da vivere allo
statista piemontese: "Non iscorderò mai quel suo Leri, dov'io ebbi l'onore di stringere la mano al grande
uomo di Stato, al sommo cittadino, a colui che ogni italiano dovrà chiamare padre della patria".

Il ruolo di Verdi nel moto unitario parmigiano completava la sua immagine di musicista nazionale per
antonomasia e ne faceva quindi quello che oggi chiameremmo un perfetto testimonial del progetto politico
cavouriano. Il Conte chiese perciò a Verdi di candidarsi nel collegio di Borgo San Donnino (l'attuale Fidenza)
per le elezioni dell'VIII Parlamento sardo, che avrebbe proclamato Vittorio Emanuele Re d'Italia diventando
il primo Parlamento del nuovo Stato. La proposta turbò Il Maestro, consapevole dell'enorme differenza che
correva tra una rappresentanza rivoluzionaria come l'Assemblea delle Province parmensi - il cui unico scopo
era impedire il ritorno dei Borbone e preparare l'annessione agli Stati sardi - e una vera assemblea
legislativa e politica; ma nel gennaio del 1861, recatosi a Torino per rifiutare la candidatura, finì per cedere.
Quattro anni dopo, Verdi rievocò la vicenda in una lettera a Francesco Maria Piave: "Mi presentai a Lui (...) a
sei ore del mattino, con 12 o 14 gradi di freddo. Avevo preparato il mio spice che mi pareva un capo d'opera,
e glielo spiattellai là tutto disteso. Egli n'ascoltava attentamente e quando gli descrissi la mia inattitudine a
essere deputato (...) cominciò a ribattere una per una tutte le mie ragioni (...). Io soggiunsi: ebbene signor
Conte accetto, ma alla condizione che dopo qualche mese darò la mia dimissione. Sia, rispose, ma me ne
farete prima cenno. Fui deputato e nei primi tempi frequentai la camera. Venne la seduta solenne in cui si
proclamò Roma, capitale d'Italia. Dato il mio voto, mi avvicinai al Conte e gli dissi: ora mi pare tempo di dare
un addio a questi banchi. No, soggiunse, aspettate finché andremo a Roma.- Ci andremo?- Sì.- Quando?- Oh,
quando, quando!- Intanto io me ne vado in campagna.- Addio, state bene, addio. - Fur l'ultime sue parole
per me. Poche settimane dopo moriva!”. La candidatura di Verdi non piacque al locale esponente del partito
cavouriano, l'avvocato Giovanni Minghelli Vaini, personaggio eminente di San Secondo parmense, che tentò
di indurlo a ritirarla, o a presentarla in altro collegio. Verdi, pur protestando a Minghelli Vaini la sua stima,
gli scrisse che non poteva venir meno all'impegno preso con Cavour, né poteva presentarsi in un collegio
diverso da quello nel quale ricadeva Busseto, poiché una simile scelta "perdonami, è contro a' miei principi.
Così facendo, mi presenterei per essere eletto ed io ripeto per la centesima volta: Sono costretto ad
accettare, ma non mi presento, né mi offro a nessun collegio. Se tu riesci a farmi avere la minorità dei voti, a
farti nominare e a liberarmi da questo impegno, io non troverò parole sufficienti per ringraziarti di sì
segnalato servigio. Farai un bene alla camera, un piacere a te, ed uno grandissimo a G. VERDI". E in realtà
Verdi non fece nessuna campagna elettorale, a differenza di Minghelli Vaini; troppo differenti erano tuttavia
il prestigio e la popolarità dei due candidati cavouriani e Verdi, entrato in ballottaggio con l'avvocato
sansecondino nelle elezioni del 27 gennaio, risultò eletto il 3 febbraio con 339 voti contro 206 (Minghelli
Vaini fu comunque eletto nel collegio di Bettola).

Nella citata lettera a Piave, Verdi dava conto dei suoi tentativi di dare le dimissioni e delle circostanze che
l'avevano impedito, concludendo: "Ora io sono ancora deputato contro ogni mio desiderio ed ogni mio
gusto,senza avervi nessuna attitudine, nessun talento e mancante completamente di quella pazienza tanto
necessaria in quel recinto. Ecco tutto. Ripeto che volendo o dovendo fare la mia biografia come membro del
parlamento non vi sarebbe altro che imprimere in mezzo a un bel foglio di carta: I 450 non son veramente
che 449, perché Verdi come deputato non esiste ". In realtà il Maestro, che certamente aveva difficoltà ad
adattarsi alle mediazioni proprie dell'attività legislativa, pure ebbe piena consapevolezza del suo ruolo e
delle sue responsabilità pubbliche, nonché del significato anche simbolico delle sue scelte politiche. Si pose
infatti in primo luogo il problema della sua corretta collocazione nell'emiciclo, decidendo alla fine di sedere,
accanto a Quintino Sella, sui banchi del Centro-Sinistra, con ciò ponendosi, come disse l'amico e
compaesano, nonché deputato parmigiano, Giuseppe Piroli, nel partito di coloro che appoggiavano il
Ministero, ma non per sistema. Nel primo anno di legislatura fu estremamente diligente, pur senza mai
prendere la parola in Assemblea; soprattutto si impegnò, su richiesta del Conte di Cavour, nel redigere un
progetto di riordinamento dell'attività e degli studi musicali. Il radicalismo della sua proposta però ne
determinò la tacita sconfessione da parte del Governo; Verdi immaginava infatti un impegno diretto dello
Stato nella promozione della cultura musicale, attraverso l'istituzione di tre Teatri lirici di Stato collegati a
Conservatori e scuole di canto completamente gratuiti. Quest'idea muoveva dalla consapevolezza della
centralità della trasmissione della cultura musicale ai fini della costruzione di un'identità nazionale condivisa
e diffusa, e non certo da un atteggiamento superficiale o naif nei confronti dell'uso delle risorse pubbliche;
al contrario, Verdi era perfettamente consapevole che il Regno poteva dedicare al finanziamento delle
politiche culturali ben poche risorse, da riservare perciò a progetti di ampio respiro, e condannò come
manifestazione di un costoso e futile provincialismo l'attivismo con cui le classi dirigenti locali post-unitarie
si diedero a celebrare sé stesse attraverso l'erezione di monumenti e opere pubbliche che, nei contesti in cui
venivano realizzati, apparivano di dubbia utilità. Si pensi alla sua lunga lotta contro il progetto di edificare un
teatro lirico a lui dedicato a Busseto. Estraneo alla pretesa wagneriana di attribuire un valore metamusicale
alla sua opera, Verdi non concepiva l'idea di un festival autocelebrativo in stile Bayreuth, e vedeva in quel
progetto un'onerosa cattedrale nel deserto, in presenza a Parma di un grande teatro lirico come il Regio;
così, fece appello al prestigio della sua carica per scoraggiarne l'attuazione, scrivendo al Consiglio
municipale di Busseto: "Adempio un dovere come Deputato, (...) L'Italia corre in gravi pericoli (...) per
ristrettezze pecuniarie. Non voglia il cielo che l'istoria abbia un giorno a registrare che l'Italia fu disfatta per
mancanza di denaro (...) in un tempo in cui s'abbelliscono città, s'innalzano dappertutto monumenti e teatri.
Busseto sta costruendo un teatro, né si creda che io voglia ora osteggiare quest'opera, sia vana, e cosa
inutile come io credo. Questo non è il momento di discussione ma di pensare a cose più alte e importanti,
ed è per questo che mi rivolgo a questo municipio onde esortarlo a sospendere quel lavoro, ed imitando il
nobile esempio di Brescia ed altre molte città, impiegare quel denaro a ristorare le finanze patrie”.

L'affievolimento dell'impegno parlamentare di Verdi coincise con l'aumento dei suoi impegni internazionali.
Negli anni sessanta, in effetti, Verdi fu una sorta di icona culturale del nuovo Stato nazionale, e alternò
soggiorni italiani trascorsi in prevalenza a Sant'Agata a prolungati tour all'estero, dove debuttarono tutte le
opere composte in questo periodo; peraltro, Verdi non si lasciò mai tentare dal ruolo dell'artista di successo
"apolide", indifferente alle vicende che si svolgono attorno a lui e a qualunque conflitto che non abbia a
oggetto l'arte per l'arte. Uomo senza partito ma non certo senza convinzioni, il Maestro restò sempre
fedele, a differenza di tanti ex repubblicani della sua generazione, a una prospettiva di liberalismo
progressista e di patriottismo umanitario, e nel corso degli anni '60 guardò con preoccupazione alla deriva
nazionalista e imperialista che si stava cominciando a manifestare in Europa, e che si rivelò
drammaticamente nella guerra franco-prussiana. Alla fine di settembre del 1870, scriveva a Clara Maffei
parole in cui il disgusto per il nazionalismo militarista della Prussia e il timore per gli entusiasmi che esso
suscitava anche in Italia, confluiscono con l'afflizione per la sorte di Parigi, capitale della libertà e della
cultura europea, e con il senso di vergogna per l'incapacità dell'Italia di onorare un debito di riconoscenza
che, pur fra tante delusioni e incomprensioni, egli provava nei confronti della Francia: "la presunzione dei
francesi era, ed è, malgrado tutte le loro miserie, insopportabile, ma infine la Francia ha dato la libertà e la
civiltà al mondo moderno. E s'essa cade, non ci illudiamo, cadranno tutte le nostre libertà, e la nostra civiltà.
Che i nostri letterati e i nostri politici vantino pure il sapere, le scienze e (Dio glielo perdoni) le arti di questi
vincitori; ma se guardassero un po' più in dentro, vedrebbero che sono (...) d'uno smisurato orgoglio, duri,
intolleranti, sprezzatori di tutto ciò che non è germanico (...). L'antico Attila (...) si arrestò avanti la maestà
della capitale del mondo antico: ma questi sta per bombardare la capitale del mondo moderno (...). Forse
perché non esista mai più, così bella, una capitale che essi non arriveranno mai a farne una eguale. Povera
Parigi! che ho vista così allegra, così bella, così splendida nel passato aprile! E poi?... Io avrei amato una
politica più generosa, e che si pagasse un debito di riconoscenza (...); avrei preferito segnare una pace vinti
coi Francesi, a quest'inerzia che ci farà sprezzare un giorno. La guerra europea non la eviteremo, e saremo
divorati. Non sarà domani, ma sarà. Un pretesto è subito trovato". Il dolore non veniva certo diminuito
dall'annessione di Roma, che Verdi commenta con parole che tradiscono amarezza e perplessità: "L'affare di
Roma, è un gran fatto, ma mi lascia freddo (...) perché non posso conciliare Parlamento e Collegio
cardinalizio, libertà di stampa e Inquisizione, Codice civile e Sillabo (...). Che domani ci venga un Papa destro,
astuto, un vero furbo, come Roma ne ha avuti tanti, e ci ruinerà. Papa e Re d'Italia non posso vederli insieme
nemmeno in questa lettera."

“Dalla mia finestra vedo tutti i giorni un bastimento e qualche volta due carichi almeno di mille emigranti
ciascuno! Miseria e fame! Vedo nelle campagne proprietarj di qualche anno fà [sic], ridotti ora a Contadini,
Giornalieri, od emigranti (miseria e fame). I ricchi, di cui la fortuna diminuisce d’anno in anno, non possono
più spendere come prima, e quindi miseria e fame!”. È il 10 febbraio 1889, Giuseppe Verdi e sua moglie
Giuseppina Strepponi stanno, come abitudine, passando l’inverno a Genova e dal loro palazzo affacciato sul
porto vedono partire gli emigranti italiani. Due giorni prima, a Roma, alcune centinaia di operai edili rimasti
disoccupati avevano manifestato per le strade del centro e con vanghe e badili avevano sfasciato vetrine,
divelto lampioni, eretto barricate.

Come sono lontani gli entusiasmi risorgimentali: nel 1848-49 Verdi voleva sentir parlare solo di «musica del
cannone», scriveva che «la carta da musica è buona per avvolgere pallottole» e fremeva al pensiero di una
patria «una, libera, indipendente». Quarant’anni più tardi, prevale il disincanto sulle sorti della nazione.
“Cosa vuol dire che quando l’Italia era divisa in tanti piccoli Stati, tutti quasi avevano le Finanze in ottimo
stato, ed ora che siamo uniti siamo rovinati. Ma tutte le ricchezze d’una volta se l’è mangiate il Diavolo? Voi
mi risponderete: l’armata e la marina... E mandateli a casa tutti. Cosa ne faremo? Chi si batterà con noi?
Eppoi: quando si hanno risultati come quelli di Custozza [sic] e Lissa è meglio non aver nulla. – Vi giuro che
tutto ciò mi rattrista e m’annienta ed i sarcasmi degli stranieri gli meritiamo” (18 giugno 1867, quando
ancora bruciano le sconfitte della Terza Guerra d’Indipendenza).

Un carteggio, appena pubblicato, tra Giuseppe Verdi e Giuseppe Piroli, nato anch’egli a Busseto, avvocato,
docente universitario, deputato già nell’ultima legislatura Subalpina nel 1860, poi nel neonato Regno d’Italia
dal 1861 al 1876, proclamato senatore nel 1884, come dieci anni prima lo era stato Verdi, aiuta a comporre
un sempre più attendibile ritratto del pensiero politico e civile del Maestro. Un corpus di 721 tra lettere e
biglietti, curato scrupolosamente da Giuseppe Martini e compreso in un arco di tempo esteso dal 1859 al
1890, anno della scomparsa dell’amico, al quale Verdi sopravvive undici anni. Quasi interamente inediti i
documenti di Piroli;

Liberale, «moderato e indipendente», Piroli è celebre soprattutto per il suo intervento in aula nel 1864
come relatore della commissione di inchiesta sulla Società delle Ferrovie Meridionali, che scoperchia i primi
intrighi fra finanza e politica della nuova Italia. Quando nel carteggio si parla di musica - Piroli era un
ascoltatore appassionato, un devoto ammiratore più che un intenditore - lo si fa soprattutto relativamente
al problema del costo degli allestimenti e della tutela del diritto d’autore, battaglia che vide il compositore
impegnato in prima persona, fino a essere tra i fondatori di quella che diventerà la Siae.

Proprio a Piroli, il 12 marzo 1878 Giuseppe Verdi aveva scritto: “La miseria è molta; è cosa grave e può
diventare gravissima, compromettendo anche la sicurezza pubblica. Si tratta di fame!!!!!!!!
Nelle grandi città il commercio è diminuito d'assai, i fallimenti frequentissimi e quindi mancanza di lavoro.
Nelle piccole nostre città come Parma, Piacenza, Cremona, il proprietario non ha denari, e se ne ha qualche
poco, lo tiene ben stretto in tasca perché ha paura dell'avvenire; è così troppo aggravato di contribuzioni, fa
i lavori strettamente necessari, non dà lavoro ai giornalieri, il fondo peggiora ed intanto la ricchezza pubblica
decresce.

Se Voi vedeste da noi quanti giovani robusti che domandano lavoro! E ciò dovrebbe essere noto al
“governo". Se io fossi il "governo" non penserei tanto al partito sia bianco, rosso, nero, penserei al pane da
mangiare. Ma non parliamo di politica perché non me ne intendo e perché la detesto...almeno quella che è
stata fatta finora. E intanto il "governo" pensa ad aumentare le imposte e a far strade ferrate. È veramente
uno scherno. Ma per Dio se avete milioni spendeteli a fare lavori ai fiumi prima che ci allaghino tutti. Poveri
noi in che mani siamo, o ambiziosi o ignoranti.

A me poco importa dei bianchi, dei rossi, dei neri, dei destri, dei sinistri, ma vorrei degli uomini capaci e
pratici. Del resto se ne accorgeranno loro stessi più tardi, perché le imposte non si potranno più pagare».

https://www.storicang.it/a/giuseppe-verdi-cantore-risorgimento-italiano_15044

Giuseppe Verdi, cantore del Risorgimento italiano

Le opere del compositore di Busseto non solo affascinarono gli appassionati e la gente comune, ma
alimentarono i fermenti patriottici negli anni che portarono all’unità d’Italia

Josep Palau

27 gennaio 2021, 07:00

GIUSEPPE VERDI

RISORGIMENTO

Alcune grandi personalità giungono a incarnare il sentire di un’epoca, i sogni di un intero popolo. Tra queste
vi è Giuseppe Verdi, compositore assurto a simbolo dell’identità culturale dell’Italia unita. Le opere che il
musicista compose durante la sua lunga carriera, quali il Nabucco o il Don Carlos, fecero la loro comparsa
sullo sfondo dei moti rivoluzionari che agitarono la Penisola nel corso dell’Ottocento e divennero l’emblema
dell’Italia del Risorgimento.

Ritratto di Giuseppe Verdi. Olio su tela di Giovanni Boldini. Casa di riposo per musicisti, fondazione Giuseppe
Verdi, Milano. 1886

Foto: Dea / Album

In quel periodo gli italiani necessitavano di figure pronte a farsi interpreti delle rivendicazioni collettive e
capaci di assumere la guida dei propri compatrioti sulla via dell’unità e dell’identità nazionale. Anche se il
compositore di Busseto non era certamente un rivoluzionario come Mazzini o Garibaldi, riuscì a trasporre
nella musica l’anelito alla libertà degli italiani, infiammando il loro patriottismo con l’energia e la forte carica
emotiva delle sue opere.

Nacque nel 1813 nel piccolo Ducato di Parma, all’epoca incluso tra i possedimenti napoleonici, e morì nel
1901 a Milano, che era già la capitale economica dell’Italia. Pochi artisti furono tanto esaltati in vita dai loro
compatrioti come lui. Fama e successo lo raggiunsero presto, se già nel 1846, quando aveva solo 33 anni, lo
scrittore Benedetto Bermani pubblicò una biografia su di lui: Schizzi sulla vita e sulle opere del maestro
Giuseppe Verdi.

Paladino dell’Unità

Curiosamente, soltanto sei anni prima la situazione appariva diametralmente opposta. Il secondo lavoro di
Verdi, Un giorno di regno, presentato alla Scala di Milano nel settembre del 1840, si era rivelato un
clamoroso insuccesso. D’altronde, nell’arco di due anni egli aveva perso i due figlioletti e la giovane moglie,
morta di meningite; aveva così portato a termine l’opera in condizioni psicologiche disastrose solo per
rispettare il contratto. Conscio dei limiti del suo lavoro e oppresso dal dolore, Verdi aveva giurato di non
scrivere mai più una nota.

Verdi prestò voce all’anelito di libertà degli italiani, infiammando il loro patriottismo

Tuttavia, come narra lo stesso compositore nella sua Autobiografia epistolare, in una sera d’inverno del
1841 l’impresario della Scala Bartolomeo Merelli insistette perché musicasse un libretto del poeta
Temistocle Solera, Nabucodonosor. Verdi ricorda di aver gettato il manoscritto sul tavolo “con un gesto quasi
violento”, non appena rincasato; ma il fascicolo cadendo sul tavolo si era aperto: “Senza saper come i miei
occhi fissano la pagina che stava a me innanzi e mi si affaccia subito il verso ‘Va’ pensiero sull’ali dorate’.
Scorro i versi seguenti e ne ricevo una grande impressione”, narrò il compositore. Verdi lesse l’opera tre
volte quella notte: “Al mattino si può dire che io sapeva a memoria tutto il libretto di Solera”.

Copertina dello spartito di La Traviata. Museo teatrale alla Scala, Milano

Foto: Scala, Firenze

Il dramma su libretto di Solera narrava le vicissitudini degli ebrei, schiacciati dal potere dispotico del sovrano
babilonese Nabucodonosor. Ogni italiano avrebbe potuto riconoscere le proprie sventure in quelle del
popolo ebraico: Nabucodonosor non era che un simbolo dell’oppressore austriaco. Colpito da tale opera,
Verdi, fervente patriota e strenuo sostenitore degli ideali liberali che serpeggiavano in Europa, accantonò la
tristezza, pronto a rimettere in gioco il proprio talento.

Un anno dopo, il 9 marzo del 1842, il Nabucco (contrazione dell’originario Nabucodonosor) venne messo in
scena per la prima volta al Teatro alla Scala ed ebbe un successo straordinario, tanto da essere
rappresentato 64 volte nel suo primo anno di esecuzione. Fu soprattutto il coro degli ebrei in schiavitù del
terzo atto a infiammare l’animo degli spettatori. Gli emozionanti versi del Va’ pensiero, la sua invocazione
nostalgica: “Oh, mia patria sì bella e perduta!” sarebbero rimasti scolpiti nell’immaginario collettivo. Il coro
del Nabucco subì un processo di mitizzazione senza pari che lo trasformò in un potente inno nazionalista,
fatto proprio dai patrioti italiani.

Secondo la leggenda la dicitura “Viva Verdi”, più volte scritta sui muri dai patrioti, doveva essere letta come
un acronimo: “Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia”

Foto: Karger-Decker / Age Fotostock

Benché furono personaggi chiave come Cavour, Garibaldi e Mazzini a guidare la lotta per l’indipendenza e
l’unità d’Italia, alimentata da letterati quali Manzoni, Grossi o Guerrazzi, Verdi offrì un contributo
fondamentale al Risorgimento con la sua musica carica di valori simbolici. Dopo la rappresentazione del
Nabucco, Verdi vide i suoi incarichi aumentare, così come gli interventi della censura. Il compositore,
peraltro, poteva contare sulla protezione della contessa Clara Maffei, che gestiva a Milano un salotto
culturale, punto di riferimento per gli oppositori liberali.

L’opera I Lombardi alla prima crociata (1843), composta da Verdi subito dopo il Nabucco, segnò il suo primo
incontro con la censura austriaca. L’arcivescovo di Milano Carlo Gaetano di Gaisruk, informato
dell’argomento religioso dell’opera e preoccupato da quella mescolanza di sacro e profano, si rivolse al capo
della polizia Torresani, chiedendo la proibizione della rappresentazione e minacciando, in caso contrario, di
scrivere all’imperatore d’Austria Ferdinando I.

Vittorio Emanuele II durante la battaglia di San Martino (24 giugno 1859), che sancì la vittoria sabauda nella
Seconda guerra d’indipendenza contro l’Austria

Foto: A. De Gregorio / Dea / Age Fotostock

Vittorio Emanuele II durante la battaglia di San Martino (24 giugno 1859), che sancì la vittoria sabauda nella
Seconda guerra d’indipendenza contro l’Austria

Torresani, dunque, fece convocare l’impresario Merelli, il librettista Solera e Verdi; narrano le cronache che
quest’ultimo rifiutò di presentarsi, dichiarando in merito all’opera: “O si rappresenta com’è, o non la si
rappresenta affatto!”. Il dramma lirico sarebbe comunque andato in scena l’11 febbraio 1843 con una
piccola modifica: il titolo della preghiera di Giselda nel primo atto fu mutato da “Ave Maria” in “Salve
Maria”, ritenuto più adatto al contesto profano del teatro.

Verdi, in ogni caso, continuò a mettere in musica i temi della tirannia e della rivolta in opere come l’Attila
(1846), che narra la discesa nei territori italiani del temuto esercito unno, o il Macbeth (1847), dove,
all’inizio dell’ultimo atto, i profughi scozzesi piangono le sorti della loro “Patria oppressa”.

Tra politica e musica

Il compositore parmense, del resto, rivestì, seppur in minor parte, un ruolo anche politico. Nel 1859 egli
rappresentò la sua città natale, Busseto, nell’assemblea che votò l’annessione delle province parmensi al
Regno di Sardegna, poi Regno d’Italia, e partecipò alla deputazione che portò al futuro sovrano d’Italia
Vittorio Emanuele II i voti del plebiscito.

In seguito, su proposta di Cavour, capo del governo sabaudo, prese parte al primo parlamento dell’Italia
unita, di cui fu deputato dal 1861 al 1865, anno in cui decise di ritirarsi per dedicarsi nuovamente alla
carriera musicale. A quest’epoca risale la stesura del Don Carlos (1867), opera al cui centro dominano le
figure negative di Filippo II e del grande inquisitore, personaggio nel quale si condensa la veemente critica
anticlericale del compositore. La Chiesa viene infatti presentata da Verdi come un crudele apparato al
servizio del potere e dell’ambizione.

Teatro Verdi di Busseto. Fu inaugurato nel 1868 con le rappresentazioni di 'Rigoletto' e del 'Ballo in
maschera'

Foto: Giorgio Allegretti / Age Fotostock

Quando l’imperatrice di Francia Eugenia, di origini spagnole, assistette alla prima all’Opéra di Parigi, ritenne
senz’altro offensivo il soggetto del dramma, accusando Verdi di aver accolto i luoghi comuni della leggenda
nera antispagnola e anticattolica. In realtà, con il Don Carlos il compositore aveva inteso affrontare un tema
di scottante attualità per l’epoca: il conflitto tra Stato e Chiesa. La conquista dell’ultimo baluardo che
impediva la piena unificazione dell’Italia, lo Stato Pontificio, sarebbe avvenuta solo tre anni dopo, con la
presa di Roma, il 20 settembre del 1870.

L’impegno civile e l’apporto del musicista alla causa dell’Unità fu riconosciuto dalle personalità politiche del
nuovo Stato italiano, tanto che nel 1874 il re Vittorio Emanuele II lo nominò senatore a vita, carica che,
peraltro, sarà per Verdi poco più che onorifica. Quando il compositore morì a Milano, il 27 gennaio 1901, le
persone che a migliaia accompagnarono la sua salma all’ultima dimora intonarono il Va’ pensiero, salutando
così uno dei massimi protagonisti del Risorgimento.

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