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Stavamo parlando di Torquato Tasso e stavamo appunto cercando di comprendere le ragioni

profonde per le quali lui a un certo punto non è censurato, ma finisce per censurarsi da solo. Nel
farlo abbiamo anche aperto un occhio su questo mondo dei corsari, dei pirati, che non sempre
agisce in maniera coerente: un mondo che è fatto di tentativi di riscatto, che non sempre vanno a
buon fine, perché molto spesso ci si accorge che gli schiavi che si vuole riportare all’interno della
penisola italiana non sempre hanno voglia di ritornare perché hanno sperimentato nel mondo
africano, nel mondo orientale, nel mondo turco delle possibilità di sviluppo di vita che sarebbero
inesplorabili, impercorribili nel loro paese di provenienza. Quindi tutto questo ci deve far
riflettere anche su tutte le possibili dimensioni che potevano arrivare alle orecchie e agli occhi di
uno scrittore come Tasso, dall’animo estremamente sensibile e controverso.
La Gerusalemme Liberata è un’opera al cui interno operano forze centrifughe e centripete, quindi
di obbedienza, liberazione del santo sepolcro e poi fuga dalla missione, ovvero innamoramenti,
avventure altre, stravaganze, inseguimenti… Questa ambivalenza è la stessa di quella dello
schiavo che dovrebbe tornare a casa, ma che fondamentalmente poi ha voglia di continuare a
fuggire.
La famiglia di mecenati, che gli dà da vivere a Tasso e gli offre la possibilità di poter esercitare la
sua professione di letterato, si impegnavano nel finanziare cerimonie del riscatto, per riportare a
casa questi schiavi, e quando ci riuscivano organizzavano queste cerimonie magniloquenti per
dare ai loro sudditi una manifestazione dell’opera di bene che loro avevano compiuto. Quando
poi si ritrovavano questi schiavi che non volevano ritornare a casa subivano uno smacco
tremendo per il loro prestigio; e allo stesso modo gli stessi smacchi li subivano i Medici, i
Gonzaga, tutti i membri delle grandi dinastie italiche che erano a capo di organismi politici molto
deboli che non riuscivano a reggere la concorrenza delle grandi monarchie straniere organizzate
diplomaticamente, burocraticamente.
Altro passaggio fondamentale quando valutiamo opere di questo tipo, qua entra in gioco una
data: lo scontro di Lepanto, evento militare che caratterizza l’epoca, quello più significativo degli
anni 70 del '500 in Europa. Alessandro Barbero, forse il più grande storico italiano, ci dedica un
libro.
È una battaglia che vede l’Europa cristiana insolitamente coalizzata contro il nemico turco. Il
nemico turco che si ritiene minacci alcune propaggini dell’Europa cristiana, in particolare
dell’impero spagnolo, di cui la parte più minacciata dell’impero spagnolo era il regno di Napoli -
le coste del meridione della penisola italiana sono quelle più soggette all’invasione turca.
Si organizza una lega e si cerca un’unità militare che vada oltre gli interessi delle singole
monarchie e dinastie, contro il turco. Con l’affermazione della coalizione cristiana, l’espansione
dell’impero turco viene fermata con la sconfitta navale che si consuma a Lepanto. Il principale
protagonista di questo tipo di affermazione militare fu l’erede di Carlo V re di Spagna, ossia
Filippo II d’Asburgo. Egli non aveva ereditato tutto l’enorme apparato territoriale controllato da
Carlo V, ma aveva ereditato solo la Corona spagnola e i domini della Corona spagnola, perché
l’impero era andato a un altro parente e non si poteva ottenere insieme quella mostruosità che era
nelle mani di un unico sovrano nella prima metà del ‘500.
Quindi in buona sostanza cosa eredita Filippo II? Eredita parecchia roba: i possedimenti della
penisola iberica nel resto d’Europa (Italia, Paesi Bassi…) e poi tutti i vicereami spagnoli del
Nuovo Mondo, dell’attuale America del Sud. Filippo II è il principale protagonista militare della
battaglia di Lepanto, è il re che fa da punto di riferimento in questo scontro. Ed è il sovrano che
investe anche dal punto di vista simbolico sulla battaglia, perché lui deve difendere da grande
monarca cattolico il vecchio mondo cristiano dall’invasione turca e quindi diventa artefice anche
di una sorta di accordo, poi con tutte le altre colonie europee, con il Papa, con Venezia, con tutti i
piccoli stati italiani per portare a termine questo tipo di impresa.
Filippo II aveva provato a gestire in maniera più presta anche le elisioni interne ai domini
spagnoli, le rivolte, le agitazioni dei contadini, quelle dei centri urbani… Aveva tentato anche di
dare riferimenti simbolici alla costruzione dell’immagine della Corona facendo passi in avanti
rispetto al predecessore Carlo V (che non potendo essere sempre presente agli occhi degli
spagnoli aveva fatto ricorso alla ‘corte itinerante’, cioè usava la corte come se fosse un po’ un
circo); decide di dare una capitale al mondo spagnolo e che questa debba essere Madrid. Decide
di costruire un palazzo reale che funga da punto di riferimento per tutti gli spagnoli, decide di
accreditarsi come sovrano cattolico, di darsi un santorale (un insieme di santi che fungono da
protettori della Corona, per poter rafforzare l’immagine di questa stessa). A un certo punto è
facilitato in quest’opera dalla presenza di una mistica che ha un potere di suggestione
straordinario sull’intero popolo: Teresa d’Avila – ancora oggi è una delle figure più importanti
dal punto di vista religioso per il mondo iberico.
Filippo II quindi avendo prodotto questi sforzi sul fronte interno decide anche di ergersi a
protettore dell’intera cristianità europea. Lo fa durante la battaglia di Lepanto, lo fa grazie a
questa vittoria. Però se volessimo, al di là dei progetti di Filippo II, valutare la portata di questa
battaglia dal punto di vista geopolitico dovremmo riconoscere una questione fondamentale: da
questo punto di vista, la battaglia non cambiò quasi nulla. Cioè, si risolse in una sorta di
pareggio, non fu una vera affermazione cristiana né una sonora e totale sconfitta per i turchi. Un
momento importante nel quale le pretese di un mondo nei confronti di un altro uscirono
ridimensionate. In altre parole, laddove i turchi si aspettavano di poter sopraffare il nemico, si
dovettero rassegnare al fatto che il nemico non cedeva. Diciamo che a questa parziale
inconsistenza geopolitica della battaglia, come facciamo a spiegare poi la sua presenza così
dominante all’interno delle fonti storiche del tempo e all’interno dei manuali di storia che
andiamo a studiare? Perché dal punto di vista mediatico-comunicativo, generò un volume di
informazioni e di ricostruzioni senza precedenti; in altre parole, la battaglia non è importante per
come si è combattuta, per chi l’ha vinta o persa, ma è importante sul piano storico per quanto e
per come se ne parla al tempo. Avete presenti gli eventi, oggi, ai quali noi dedichiamo una
straordinaria attenzione mediatica anche se sul piano politico, economico o militare conta poco o
niente? Quanto è importante sul piano geopolitico la morte di Elisabetta II Winsor? Quanto è
importante il fatto che Harry Winsor a un certo punto decida di abbandonare la corte inglese e di
stare con Meghan, rinunciando a una parte dell’eredità? Il nodo è che l’ondata mediatica
generata da un singolo evento non sempre corrisponde a dei parametri che sono altrettanto
rilevanti sul piano politico, economico, amministrativo, giudiziario, democratico.
La battaglia di Lepanto è un evento che sul piano culturale e mediatico rappresenta una svolta
per l’Europa, il tipo di svolta che non è stato sul piano militare e politico e geopolitico. È uno di
quegli eventi che permette agli europei in quanto comunità, al di là delle singole barriere
linguistiche, di sentirsi tali. Allora, uno dei grandi problemi della storia d'Europa in Antico
Regime/Tardo Medioevo è stare di fronte a una realtà che ha da un lato una pretesa di unità,
dall’altro lato delle profonde specificità che la dividono. Oggi, quando noi ci sentiamo europei?
Con l’Eurovision, con la Champions League...: sono situazioni geopolitiche, sportive, in cui il
nostro essere italiani fa a pugni con l’essere europei. Quindi trovare un’unità all’interno di quel
tipo di contenitore è molto difficile. Uno dei fattori importanti è la possibilità di poter parlare
nello stesso momento della stessa cosa: noi ci sentiamo italiani, perché abbiamo diverse
occasioni nel nostro calendario che ci inducono quindi ad essere protagonisti tutti quanti di un
dialogo incentrato su un argomento, su un evento, su un nodo politico, una questione artistica...
siamo italiani quando andiamo a votare, quando c’è il festival di Sanremo, quando muore
Maurizio Costanzo. Sono cose fondamentali perché gli stessi eventi non sono declinati sul piano
europeo; sono molto più rare le occasioni che ci fanno sentire europei, perché dovremmo avere
degli argomenti sul tavolo che sono di comune interesse per noi, per i francesi, per gli spagnoli,
per i polacchi eccetera. Allora cosa ci fa sentire europei… è la guerra in Ucraina, in quanto c’è
un nemico esterno; le elezioni europee si tengono ogni 5 anni, ma questo Parlamento europeo
non sappiamo neanche cosa decide…
La battaglia di Lepanto fu questa cosa qui, un’occasione capace di creare un discorso mediatico
unico in tutto il mondo europeo. Fu un’operazione di grande rilevanza per la capacità di
sintonizzare un intero continente su un unico argomento.
La sincronia è un concetto fondamentale per i media: si può parlare di fenomeno mediatico fin
quando c’è sincronia. Possiamo dire che tutti guardiamo “Mare Fuori”, ma solo questo non crea
necessariamente sincronia, perché magari stiamo guardando tutti stagioni ed episodi diversi;
quindi, non si dà l’opportunità di parlare della stessa cosa nello stesso momento, non dà
l’opportunità di vivere lo spoiler. Invece l’Eurovision crea la sincronia, perché si segue lì
soltanto, stando connessi – o niente. Ecco, la battaglia di Lepanto fece anche questo, chiaramente
non con gli stessi tempi, questi erano un po’ più dilatati; per aspettare che la notizia arrivasse da
Madrid servivano quattro/cinque giorni, però crea questo: tutti discutono della stessa cosa nello
stesso momento. Si dà vita a quella che alcuni studiosi hanno definito SFERA PUBBLICA
TEMPORANEA.
Oggi si ritiene che la sfera pubblica sia PERMANENTE, cioè che sia ininterrotta, cioè che la
nostra connessione al dibattito pubblico sia costante; in Antico Regime non può succedere questa
cosa qui: ci sono solo degli argomenti specifici che creano un sistema riconducibile a una sfera
pubblica moderna. La battaglia di Lepanto lo avrebbe creato questo tipo di sistema, cioè
l’interesse sincrono di tantissime persone su un unico argomento. I messaggi che giravano erano
spesso fondati sulla disparità dei numeri in campo: in altre parole, all’epoca di Filippo II si
diceva che i cristiani non soltanto avessero vinto, ma che avessero conseguito una vittoria
miracolosa aiutata dalla Madonna, aiutata dal volere di Dio direttamente, perché i loro soldati
erano molti di meno rispetto ai turchi. Allora si incominciava a sparare numeri, c’era una corsa a
chi la sparava più grossa, perché tanto più erano sproporzionate le forze in campo, tanto più
sensazionale sembrava la vittoria dei cristiani. In conclusione, la battaglia di Lepanto è un
momento di grande affermazione culturale e mediatica di un’idea di Europa cristiana che ormai è
al tramonto, che è in crisi, fa acqua da tutte le parti. Il cristianesimo, l’abbiamo visto in tutte le
settimane passate di lezione, era spaccato: c’erano i protestanti, i cattolici, c’era una lacerazione
profonda che aveva spaccato in due anche l’impero asburgico. Allora torniamo a un concetto
chiave del nostro corso, cioè che gli sforzi mediatici e culturali sono inversamente proporzionali
alla capacità reale di affermare un potere politico o religioso o economico sulle cose. Ve lo posso
semplificare in maniera brutale: tanto più sono brutto tanto più mi metto il vestito bello - in
modo tale che si nasconde il fatto che sono brutto. Ecco, lo sforzo comunicativo, di costruzione
dell’immagine deve essere forte proprio per sopperire alle mie debolezze. La battaglia di Lepanto
è l’occasione per mettere in campo uno sforzo comunicativo che è inversamente proporzionale a
un potere reale di unità dell’Europa cristiana. Più la realtà è deficitaria più l’apparenza deve
essere aggressiva e se noi affianchiamo questo tipo di sforzo alla costruzione del *, allo
spostamento della capitale a Madrid, al rafforzamento delle corti, degli apparati rappresentativi
delle corti, ai cerimoniali... Se affrontiamo quello che facevano le corti italiane quando
riportavano a casa gli schiavi e non si accontentavano di portarli a casa ma dovevano organizzare
delle feste, delle cerimonie, degli apparati, delle processioni, per far vedere al popolo che gli
schiavi erano tornati a casa, allora capiamo bene che il piano dell’apparenza e il piano della
realtà storica non sempre viaggiano insieme. Molte volte viaggiano a velocità profondamente
diverse.
Altro nodo importante, sempre di carattere problematico, sempre che ci riporta all’oggi e alla
costruzione di scatole cronologiche che ci devono permettere di muoverci all’interno dell’età
moderna.
Nella seconda metà del Cinquecento abbiamo questa presenza abnorme di Filippo II e del suo
sforzo politico-militare contro i turchi e poi dello sforzo culturale-mediatico. Abbiamo gli stati
italiani sempre più in crisi, abbiamo la monarchia francese che attraversa una crisi altrettanto
profonda e abbiamo poi un’altra entità politica col quale ci confronteremo che segna una tra le
tradizioni culturali più importanti d'Europa, quella inglese.
Allora se io dicessi così, al naso, ma sapete come se la passa l’Inghilterra nella seconda metà del
'500? Nell’epoca di Filippo II (sincronia!) c’era Elisabetta I Tudor. Quella di cui Achille Lauro
ha vestito il costume nel Sanremo 2021. Elisabetta I appartiene a una dinastia, quella dei Tudor,
che ha consumato nel primo Cinquecento il cosiddetto SCISMA ANGLICANO. Enrico VIII era
sposato con Caterina d’Aragona; a un certo punto questo matrimonio non lo soddisfa, non gli dà
prole, la discendenza che si aspettava: decide di romperlo a vantaggio di una dama di corte molto
intraprendente, Anna Bolena.
Chi aveva il potere di sciogliere il matrimonio di Enrico VIII e Caterina d’Aragona? L’unico che
aveva questo potere era il papa; Enrico VIII chiede al papa di sciogliere questo matrimonio, il
papa oppone un netto rifiuto ed Enrico VIII decide di fare la sua Chiesa. E sembra anche una
scissione dettata da ragioni del tutto personali, quasi pruriginose. Il punto è che nell’ottica di uno
Stato dell’Antico Regime le ragioni strettamente personali, dinastiche sono abbastanza * dalle
ragioni di un intero paese. Molto spesso queste dinamiche sono ancora oggi frutto di
ricostruzioni storiografiche, quindi libri, film, serie… mi sapreste dire ogni anno quanti film e
serie escono sui Tudor inglesi del '500? Qualche tempo fa andava di moda una serie televisiva di
tre stagioni, “I Tudor” che seguiva il punto di vista di Enrico VIII e partiva proprio col tentativo
di sciogliere il matrimonio con Caterina d’Aragona e sposare Anna Bolena quindi fino a
consumare lo scisma anglicano e di creare una Chiesa che non aveva più il papa come punto di
riferimento ma lo stesso sovrano d’Inghilterra. Allora il nodo qual è: tutto quello che sembrava
una questione familiare, personale, di ambizioni legate alla dinastia, già nella serie televisiva
emergeva l’interesse da parte dell’impero inglese di accodarsi a questo tipo di scelta e di trarre
vantaggi da questo tipo di scelta.
Vi ricordate quando abbiamo parlato di impero e del suo rapporto con i principi protestanti? E
abbiamo visto che lui fondamentalmente 3quando ad esempio ci fu la rivolta dei contadini (1525)
con Lutero e i principi, perché i principi avevano tutto da guadagnare da questa scissione che si
stava consumando nell’impero. Be’, all’interno del mondo inglese succede qualcosa di simile,
perché gran parte delle nobiltà locali, delle alte gerarchie aristocratiche percepiscono la presenza
di Lutero come un peso troppo forte da sopportare e quindi un’eventuale scissione, autonomia
della Chiesa inglese rispetto al potere del Papa, che è comunque percepito come un sovrano
straniero, è stato qualcosa di nuovo, come da scavalcare eventualmente.
Quindi, quando noi immaginiamo la decisione presa da Enrico VIII di rompere questo
matrimonio e di perseguire un altro tipo di unione e quindi andare alla ricerca di un altro tipo di
discendenza, dobbiamo guardare da un lato alle esigenze personali, dall’altro anche il fatto che,
attraverso quella scelta, Enrico si faceva anche interprete del malcontento, dei mal di pancia di
un Paese intero. O comunque di una parte importante di quel Paese, che vedeva quel
cambiamento non come un trauma ma come punto di partenza. Quindi: ragioni individuali >
ragioni collettive; ragioni del sovrano > ragioni dello Stato. Ancora oggi si parla anche di ragioni
di Stato e noi ne abbiamo parlato nel caso di formazione dello Stato moderno. Ecco, affinché si
possa parlare di Stato moderno ci deve essere un potere centrale forte ed emanciparsi dalla
presenza di un potere straniero religioso è un indizio importante nella formazione di uno Stato
moderno, nuovo che viaggi, si costruisca su basi nuove.
Primo passaggio importante che chiaramente già marca una differenza: ma nella sostanza, questa
Chiesa anglicana come si organizzò? Si organizzò avendo il re come punto di riferimento
fondamentale, affidando all’arcivescovo di Canterbury la guida formale e poi avendo una
struttura che sul piano della dottrina era sospettosamente vicina al calvinismo; sul piano liturgico
però, quindi sul piano proprio dell’organizzazione delle cerimonie (=le messe) assomigliava
ancora tantissimo al cattolicesimo. Quindi un mix abbastanza micidiale tra dottrina calvinista e
liturgia pseudo-para-cattolica, con una guida affidata al sovrano e attraverso di cui
all’arcivescovo.
Elisabetta nasce dal matrimonio tra Enrico e Anna Bolena. La successione è abbastanza
controversa, perché poi Enrico ha anche un figlio maschio, che non vive abbastanza e da lì
bisogna poi trasmettere necessariamente il trono all’erede femminile. Esistono ancora all’interno
del regno delle importanti presenze di matrice cattolica, le quali soprattutto con ramo scozzese
della dinastia. Ciononostante quando Elisabetta prende il potere ha una missione da svolgere, che
è quella di consolidare il regno nella sua identità anglicana: nella sua identità di chiesa nazionale
autonoma, slegata dal controllo di Roma e dal tentativo di ingerenza di altre dinastie straniere
che possono utilizzare il cattolicesimo come scusante per entrare nel mondo inglese. In altre
parole, ‘anglicanesimo’ vuol dire difendere il Paese da dinastie straniere che potrebbero voler
utilizzare la crisi religiosa e dinastica per mettere il naso e affermare il nostro potere. Chi era, da
questo punto di vista, il più grande pericolo per l’Inghilterra ed Elisabetta? Era la Spagna, era
Filippo II che voleva sposarla. E nel momento in cui l’avrebbe sposata, da esponente maschio
della dinastia, avrebbe affermato sull’Inghilterra non soltanto il potere asburgico ma avrebbe
utilizzato il cattolicesimo per rafforzarlo. Elisabetta, che ancora oggi è ricordata, anche da queste
ricostruzioni televisive, da queste macchine mediatiche che ci propongono continuamente
evocazioni come ‘regina vergine’, si oppone. Si oppone pagando un prezzo altissimo, perché lei
sa che nel momento in cui questa decisione di non contrarre matrimonio verrà portata ad estreme
conseguenze, la stessa dinastia Tudor morirà col tempo – lo sa benissimo. Ma accetta il rischio,
perché si trova in una posizione troppo debole nel corso del ‘500 che porterebbe comunque i
Tudor a diventare subalterni rispetto a un potere altrui. Quindi decide fino in fondo per
l’autonomia, per costruire quella identità, di percorrere quella strada volta al rafforzamento
dell’identità liturgica e dottrinale della Chiesa anglicana.
Quando sentiamo parlare di cose tipo, il cosiddetto Book of Common Prayer... che cos’è? È una
specie di vade me cum, un manualetto di preghiere, cioè: gli anglicani pregano così. E hanno
questo modo comune, che può permettere loro di riconoscersi come tali. Ecco, perciò, ‘il libro
delle preghiere comuni’. Il tifoso del Napoli si riconosce cantando delle canzoni: il gruppo
eterogeneo diventa un tutt’uno in quel momento, quando canta la stessa canzone. Quella
canzone, tra l’altro, ha un qualcosa di profondamente liturgico: arriva sempre negli stessi
momenti della partita, celebra le stesse vittorie nello stesso modo, dà vita a un rituale. Ecco, è
quello che Elisabetta si sforza di fare con la sua Chiesa, cioè di dare delle cadenze precise, dei
rituali precisi, delle cose a livello dei quali gli inglesi possono riconoscersi. Quand'è che abbiamo
visto la potenza del rituale anglicano? Durante i funerali di Elisabetta II: lì si è visto quanto è
forte il libro delle preghiere comuni, cioè quanto è ‘cosa altra’ rispetto al cattolicesimo - lì si è
marcata la differenza. E allora questo sforzo è enorme da parte di Elisabetta I e viene prodotto in
un momento in cui il suo potere politico, dinastico, geopolitico è debole. (Tanto più sono debole
da un lato, tanto più produco sforzo dall’altro lato, come dicevamo prima)
Perché ricordiamo l’età elisabettiana? Per Shakespeare, una vita culturale effervescente che
conosce una fortuna quasi senza precedente e che si rende visibile agli occhi di un pubblico
ampio, non soltanto agli occhi dell’élite, ma diventa tale per i sudditi. Shakespeare era un uomo
di teatro, non è un teologo, o uno che si chiude all’interno delle corti e va a celebrare attraverso
una poesia intangibile, anzi: è un letterato che si apre al mondo, al palcoscenico e che tramite
questo si apre al mondo - cioè, tutto diventa visibile.
Le corti italiane promuovevano l’arte, ma un’arte che molto spesso rimaneva all’interno delle
stanze dei palazzi; in altri casi diventava qualcosa di rappresentabile all’esterno anche agli occhi
degli illetterati. Shakespeare era un letterato che parlava anche agli illetterati: tutti possono
seguire le vicende di Amleto, di Otello, di Romeo e Giulietta, anche quelli che non sanno
leggere. I meccanismi di funzionamento del teatro ai tempi di Elisabetta sono importanti, è un
teatro che offre lo spettacolo a prezzi sempre più accessibili e a fasce sempre più emergenti della
popolazione. Non come oggi, che il cinema costa €10 e quindi poi mi istigano a fare
l’abbonamento a Disney+; è una cosa un po’ diversa, ma in realtà poi oggi la vera diffusione
della cultura non è più nella sala cinematografica, che sta diventando un luogo d’élite, ma sulle
piattaforme digitali.
Questo step è importante e ancora una volta ci rimanda alla sproporzione che c’è tra una stabilità
politica precaria, ricercata, desiderata ma mai raggiunta e una politica culturale molto molto
forte, molto aggressiva. E poi c’è l’elemento di connessione o parziale, quello che avveniva nelle
corti italiane e nel Mediterraneo nel corso del Cinquecento: i pirati.
La scorsa settimana siamo partiti ponendo una differenza importante tra la figura del corsaro e la
figura del pirata. Il corsaro agisce sulla base di una patente di corsa, cioè di un documento che gli
viene dato da un’autorità statale costituita e quindi compie razzie, scorribande ma lo fa sul
mandato di qualcuno, con una certa ufficialità; il pirata, invece, agisce solo e unicamente per sé
stesso, per il proprio reso conto senza obbedire a nessun padrone. Molto spesso si dice che l’età
elisabettiana sia stata anche l’età dei grandi pirati; il più famoso di tutti è Francis Drake. Perché
continuiamo a chiamarli ‘pirati’ nonostante siano personaggi vicinissimi a Elisabetta, molto
spesso legati a lei tramite rapporti diversi? Non erano corsari, non agivano sulla base di patenti di
corsa, di istruzioni che arrivavano direttamente dalla regina: il problema è proprio questo, il non
formalmente, perché anche per il potere sui mari Elisabetta giocava su una profonda
ambivalenza, cioè da un lato doveva starci, dall’altro lato doveva non starci. La sua presenza non
poteva mai essere veramente ufficiale, anche e soprattutto perché questo potere sui mari non era
un potere Mediterraneo, ma Atlantico, nord-Atlantico, Oceanico e andava a confrontarsi con
concorrenti di un certo tipo; quindi, il sostegno che lei offre a questi pirati non è ufficiale, è
molto sottobanco. Non posso permettermi esplicitamente di assaltare e rapinare le imbarcazioni
spagnole, di andare a depredare le navi portoghesi, di andare a distruggere le imbarcazioni
francesi. Tutto questo mi creerebbe enormi problemi e quindi (proverbio: lanciare il sasso e
nascondere la mano) il sostegno a questo tipo di guerra, che è una guerra di assalti, che è una
guerra fatta di crimini in buona sostanza non può essere mai un sostegno esplicito, è un sostegno
che deve avvenire sempre dietro le quinte, in virtù di una strategia tutta quanta di dissimulazione,
perché tutto il resto la porterebbe in rotta di collisione esplicita con gli altri grandi poteri. Però, a
un certo punto, nonostante le dissimulazioni, nonostante le accortezze, nonostante i
nascondimenti e le cautele purtroppo i contrasti fra la Spagna degli Asburgo e l'Inghilterra dei
Tudor emergono e non si può più fare a meno. È soprattutto Filippo II a non sopportare più
questi affronti continui e a voler punire Elisabetta per il rifiuto che gli è stato opposto. Tra le altre
cose, Filippo II aveva tentato lungo tutto il regno di Elisabetta di mettere il naso all’interno del
mondo inglese utilizzando gli scozzesi; quindi cercò di indebolire fortemente la corona. Quindi
Filippo II rompe con tutti e dopo aver conseguito quel successo, che in realtà era più un successo
mediatico che non militare, quello di Lepanto, decide di contrastare il potere inglese sui mari
partendo proprio dal versante nordico della penisola iberica, quindi andando verso l’area
nord-orientale dell’Atlantico. E cerca di attaccare l’Inghilterra con una flotta marittima armata: la
INVINCIBILE ARMATA. Era fatta di navi pesanti, che sono resistenti, difficili da affondare, ma
anche molto lente; vengono in contrasto con la flotta inglese nel canale della Manica, che ancora
oggi separa l’Europa continentale dalla penisola britannica, e lì si rivelano troppo lente per poter
affrontare le navi inglesi. L’avventura della armata invincibile si trasforma in un fiasco colossale
e Filippo II proprio per mano di Elisabetta subisce una delle sconfitte più umilianti.
Elisabetta nel momento in cui muore non ha una discendenza (qui in particolare si vede la
contraddizione profonda che c’è tra politica culturale, marittima, mediatica, religiosa aggressiva
e una debolezza dinastica irrimediabile): il suo potere passa a dei parenti, gli Stuart, il primo dei
quali fu Giacomo Stuart. Egli subito si deve confrontare con un mondo sempre più effervescente
e instabile; la prima accusa che gli viene rivolta è quella di cripto-cattolicesimo.
Ecco, questo dice una cosa fondamentale, e cioè che tutti gli sforzi di Elisabetta avevano
prodotto un entusiasmo enorme e una spinta culturale crescente, però non avevano risolto un
problema strutturale profondo che c’era all’interno del mondo inglese e che permane, cioè
l’ambiguità forte che esiste tra l’anglicanesimo inteso come religione, confessione che potrebbe
assegnare al sovrano il ruolo di guida e una persistente liturgia e dottrina che continua a essere
vicina a questo cattolicesimo che non è mai stato completamente abbandonato. Molto spesso si
sente parlare di PURITANESIMO: ramo radicale dell’anglicanesimo profondamente diffidente
nei confronti della presenza di residui del cattolicesimo e che quindi pretende una purezza
anglicana che secondo loro la dinastia non è capace di garantire.
Parlavamo di guerre in Antico Regime e sottolineavamo l’importanza dell’inappropriatezza del
concetto di guerra di Stato. Dicevamo, in Antico Regime bisognerebbe parlare di guerre fra
dinastie; le guerre del Cinquecento non sono guerre tra Francia e Spagna, ma tra gli Asburgo e i
Valois. Ecco, in Francia ci sono i Valois che sono una delle dinastie più importanti e potenti del
‘500 europeo.
I Valois, a un certo punto, nella seconda metà del ‘500, al pari dei Tudor, vanno in crisi dinastica:
non hanno un erede diretto, devono cercare una metodologia di sopravvivenza. E, come già visto,
una crisi di Stato e una crisi dinastica si sovrappongono, ma perché essere in crisi dinastica
significa mettere un intero Stato in crisi. L’Inghilterra dei Tudor è un’Inghilterra che vive una
crisi profonda perché non ha un erede al trono, Elisabetta affronta in maniera così aggressiva e
intraprendente quella crisi profonda perché non ha un erede al trono. I Valois non hanno un erede
al trono. Il punto è che la mancanza di un erede al trono non è un tipico problema per i francesi; a
essere di origine francese era Giovanni Calvino, che era il teologo, predicatore che aveva portato
per certi pressi alle estreme conseguenze il messaggio di Lutero e aveva poi elaborato una
dottrina significativamente diversa da quella di Lutero soprattutto sul piano dell’idea di
predestinazione, dando ai fedeli quello spiraglio di possibilità di intravedere il proprio destino.
Calvino aveva realizzato le sue idee a Ginevra: a differenza di Lutero, era convinto della
possibilità di avere in Terra una Chiesa visibile che fosse una comunità di santi. E Ginevra si era
trasformata nella sua comunità di santi, lo era davvero dal punto di vista di Calvino, ma dal
punto di vista di tanti che non condividevano in tutto e per tutto al 100% le idee di Calvino,
Ginevra si trasformò in un inferno. Perché Ginevra, al pari di tanti altri luoghi religiosi del ‘500
divenne anche un luogo di intolleranza: tutti coloro che dissentivano rispetto a Calvino
cominciarono a essere perseguiti, repressi, alcuni furono condannati a morte - forse la condanna
a morte più crudele, inflessibile, dotata di risonanza a livello europeo riguardò un medico,
Michele Serveto.
Il punto è che tra repressione, slancio innovativo, tensione mistica visionaria e desiderio di
salvezza il calvinismo va ben oltre i confini territoriali della Francia o della Svizzera, ma
comincia ad allargarsi a varie aree del pianeta. Abbiamo anche parlato della teoria di Max *,
delle confluenze, delle vicinanze che ci sono tra etica calvinista e spirito capitalista… Sta di fatto
che in Francia la presenza calvinista diventa forte. Ma la Francia, pur essendo uno Stato unico,
quindi tutto quanto unito sotto un’unica dinastia, quella dei Valois, a differenza dell’Italia, la
Francia rimane un Paese cattolico. La monarchia dei Valois rimane saldamente cattolica, e
quindi, gestire una presenza calvinista così forte diventa un problema. Fin da subito i calvinisti
francesi si identificano sotto un nome diverso, ma non sappiamo perché si chiamavano così:
UGONOTTI. Ci sono varie ipotesi, anche questioni di carattere linguistico-filologico, sta di fatto
che però questa minoranza presente all’interno dello Stato francese è molto attiva, intraprendente
sul piano economico, pregiudicata negli scambi commerciali, nell’attività artigianale e
imprenditoriale: quindi sono pochi, ma molto ricchi, mobili, preziosi anche per l’economia
dell’intero Paese. A maggior ragione si pongono dei problemi importanti per gestire questi pochi
che fanno dipendere poi un ampio della popolazione dai loro guadagni e dalla loro attività. A un
certo punto la crisi dinastica francese dei Valois si sovrappone alle tensioni religiose che
derivano dalla presenza dei calvinisti e il Paese comincia ad essere attraversato da guerre
intestine, lacerazioni interne che vedono contrapposti famiglie che pretendono di conquistare il
potere e quindi soppiantare i Valois e guerre di carattere religioso.
Le due guerre importanti che attraversano il secondo Cinquecento francese vengono definite
guerre di religione e guerra dei tre Enrichi. Sono due guerre che si sovrappongono l’una con
l’altra: le prime sono guerre che mettono i cattolici (calvinisti > ugonotti) contro i protestanti; la
seconda è una guerra dinastica e contrappone tre famiglie importanti che vogliono soppiantare la
dinastia dominante e sostituirsi ad essa. Quali sono queste tre famiglie: una è dello stesso ramo
dei Valois, una è la famiglia dei Guisa, un’altra quella dei Navarra-Borbone. Queste guerre
danno vita a scontri molto sanguinosi, tra cui il più mediaticamente celebrato, anche frutto di
ricostruzione letteraria, è la notte di San Bartolomeo. Una notte in cui muoiono tantissime
persone in virtù di questi scontri, ma sta di fatto che questa guerra la vince la famiglia dei
Navarra-Borbone, che ha come suo massimo esponente Enrico di Navarra di Borbone, che
prende il potere con il nome di Enrico IV, e quindi sostituisce i Valois.
Uno potrebbe dire be’, è finita la guerra, problema risolto, si guarda avanti: ci sono molti
problemi invece che rimangono irrisolti nonostante la conclusione degli scontri. Molto spesso le
vittorie delle guerre sono tutte illusorie, le guerre non le vince mai nessuno, anche se il nostro
ecosistema mediatico continua a comunicarci l’idea che le guerre si possano vincere - non è vero.
Le guerre le perdono tutti coloro che le combattono. Enrico eredita tantissimi problemi: il primo
è lui stesso, perché è calvinista, la famiglia Navarra-Borbone lo è. E, vincendo una guerra di
successione, si trova a dover ereditare la corona di un Paese di tradizione cattolica e lo fa dopo
una stagione di lacerazioni, di spargimenti di sangue, difficile da dimenticare. Enrico decide di
fare una scelta radicale, cioè di convertirsi al cattolicesimo. Secondo la leggenda, lui avrebbe
detto «Parigi val bene una messa» (da Internet: vale la pena compiere un sacrificio per ottenere
un bene maggiore). Ma non basta la conversione, perché c’è un problema ancora più radicale da
risolvere che è la presenza di tantissimi calvinisti (=ugonotti) nel territorio francese. Non si
possono lasciare nel dimenticatoio quelle stesse minoranze che hanno causato tutti quegli scontri,
sovrapposti a quelli dinastici. Allora Enrico di Borbone, verso la fine del ‘500, emana l’editto di
Nantes nel quale comincia a regolamentare in maniera precisa e sistematica la presenza ugonotta
all’interno del territorio francese.
L’editto di Nantes nei manuali è portato come esempio dell’affermazione della tolleranza
religiosa nel Cinquecento europeo; e viene di solito inglobato in un’unica scatola concettuale
insieme alla Pace di Augusta, che si era centrata alla fine dell’impero di Carlo V e che aveva
affermato un principio di convivenza religiosa nel Sacro Romano Impero ispirato dal “cuius
regio cuius religio”, che significa che ogni suddito deve praticare la religione del suo principe
territoriale. Quando Carlo V è costretto ad abdicare e a distribuire i suoi possedimenti tra nipote
e figlio, nel mondo tedesco si accetta l’idea che i protestanti debbano stare insieme ai cattolici:
però è un’idea che non ha un principio * territoriale, perché posso convivere nel mondo tedesco
ma non sotto lo stesso principe territoriale. In altre parole, se tu abiti in una zona del mondo
tedesco e il tuo principe è protestante, devi essere protestante anche tu e così via. Quindi sì,
cattolici e protestanti insieme, ma sempre con una subordinazione della fede alla posizione che si
occupa all’interno del territorio imperiale e alla subordinazione che si ha rispetto all’autorità
locale: non decide il fedele, ma quest’ultima.
Nell’editto di Nantes in Francia, Enrico di Borbone dice: partiamo dal presupposto che la Francia
è un Paese cattolico, il cattolicesimo è religione di Stato e ciò è indiscutibile; partiamo dal
presupposto che non essere cattolici non è ben visto in Francia e che tutte le lacerazioni che ci
sono state negli anni precedenti devono essere completamente dimenticate - tutto ciò viene da un
ex-calvinista. Poste queste premesse, Enrico dice: è consentito all’interno di alcuni territori,
molto ben circoscritti, la pratica della confessione calvinista, ed è consentita soltanto dietro
esplicito permesso che viene dato dal sovrano. Come può tutto questo essere scambiato con
tolleranza religiosa? È una costruzione formulata dai manuali, profondamente teleologica, cioè
noi guardiamo delle cose che sono accadute nel ‘500 sulla base di principi che si sarebbero
affermati solo nei secoli successivi, quasi come se la tolleranza religiosa fosse la ruota d’approdo
naturale per la convivenza civile: ma in realtà, questi principi che si affermano (editto di Nantes e
pace di Augusta) non hanno nulla a che fare con la tolleranza religiosa. Sono, anzi, un forte
tentativo di riaffermazione di una unità religiosa che è inscindibile dall’unità politica; semmai, la
pace di Augusta era stata il riconoscimento del carattere frammentario del Sacro Romano Impero
e non della tolleranza religiosa, perché non sto invitando secondo il ‘cuius regio cuius religio’ i
cattolici a unirsi coi protestanti, ma sto dicendo che invece sotto un determinato principe o si è
cattolici, o si è protestanti - che è una cosa molto diversa. Allo stesso modo, con l’editto di
Nantes sto ribadendo che l’unica possibile religione praticabile all’interno dei confini dello Stato
sotto i Borbone è il cattolicesimo, e che l’unica deroga possibile è all’interno di alcune roccaforti
molto ben definite sotto il permesso del re.
Questo è ancora più evidente alla luce del fatto che l’editto di Nantes resta in vigore in Francia
per meno di un secolo. Nella seconda metà del ‘600, sotto Luigi XIV (il cosiddetto re Sole, “Lo
Stato sono io”, che fece costruire la reggia di Versailles, l’accentratore di potere, il protagonista
del presunto trionfo dell’assolutismo) l’editto di Nantes viene revocato. Viene revocato nello
specifico con l’editto di FONTAINEBLEAU per delle ragioni ben identificabili: nel corso del
‘600 (quindi un secolo più tardi rispetto alla presa del potere di Enrico IV), non solo la tolleranza
religiosa non si è affermata in Francia, ma è diventata ancora più improbabile la possibilità anche
della sola la convivenza tra cattolici e calvinisti.
Quando parliamo di Seicento, parliamo di un’epoca di crisi. Il concetto di crisi abbraccia diverse
realizzazioni: crisi pandemica, crisi economica, crisi climatica, crisi generazionale. Il concetto di
crisi è molto molto ampio, ed è utile a connettere diversi campi, ci permette di agganciare diversi
ambiti del sapere.
Nel 2008 c’era stata l’esplosione della bolla finanziaria negli Stati Uniti che si era prodotta nella
paralisi di due grandi sistemi bancari e che aveva portato a una recessione difficilissima da
affrontare. Si cominciò a dire: il grande precedente storico di questa crisi è stato il primo
Seicento.
Il primo Seicento fu un’epoca di grandi trasformazioni e grandi difficoltà economiche, ma non
per tutta l’Europa, meno che mai per tutto il pianeta. Una delle principali ragioni del
cambiamento fu l’onda lunga che si era generata a partire dalla fine del ‘400 e del primo ‘500 in
virtù dello spostamento dell’asse commerciale di riferimento dal Mediterraneo all’Atlantico. In
altre parole, le conseguenze della scoperta di nuovi mondi, del Nuovo Mondo. Il Mediterraneo,
nello specifico, che fin dall’antichità era stato figura costante dell’economia, degli scambi, smise
di essere il punto di riferimento e perse il primato a vantaggio dell’oceano Atlantico. A pagare le
conseguenze di questo spostamento di prospettive furono in particolar modo i Paesi europei che
affacciano sul Mediterraneo. Quindi di crisi si può parlare, ma a subirla furono la penisola
italiana, il sud della Francia, il versante mediterraneo della penisola iberica e poi l’area
balcanica, volendo. Tutto il mondo che faceva capo, che guardava al Mediterraneo vide
forzosamente cambiare le sue prospettive perché perse il cosiddetto primato. Ecco, il primato
della penisola italiana era incentrato su alcuni prodotti: in particolare le stoffe, che cominciano a
dare problemi perché la produzione che si sviluppa altrove ha una competitività non eguagliabile
dal sistema della penisola italiana.

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