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CLUNY

Il monastero di Cluny fu fondato nel settembre 910, presso Mâcon, in Borgogna,


grazie ad una donazione fatta da Guglielmo III duca d’Aquitania all’abate
Bernone, in quel tempo superiore dei due monasteri di Beaume e Gigny. L’abate
Bernone fondò in questo modo un monastero, dedicato ai SS. Pietro e Paolo, abitato da
dodici monaci che condussero vita cenobitica sotto l’osservanza della Regola di san
Benedetto. Già alla sua fondazione, l’ordine cluniancense presenta le due
caratteristiche che continueranno a distinguerlo: è una Congregazione di monasteri, i
quali sono totalmente indipendenti da ogni tipo di ingerenza laica ed ecclesiastica
(esenzione) eccetto all’autorità della Santa Sede. Il compito principale della Comunità
monastica cluniacense, inoltre, doveva essere quello della preghiera continua a suffragio
dei donatori defunti, caratteristica altamente spirituale, che lasciava però alquanto in
secondo piano il lavoro, come invece la Regola benedettina prescriveva ai propri monaci:
saranno veri monaci solo quando vivranno del lavoro delle loro mani (Regola di san
Benedetto, Cap. XLVIII).
Il periodo di massimo splendore cluniacense va dal 910 al 1156. La prima data
corrisponde all’anno della fondazione dell’abbazia, mentre la seconda indica l’anno della
morte di Pietro Venerabile, ultimo dei grandi abati che governeranno Cluny. Il suo
primo abate, Bernone, rimane in carica fino al 927. Gli succede Oddone (927-942):
quale concezione egli avesse della stessa vita monastica risulta nel suo scritto di
ispirazione biblica, Occupatio. La Chiesa è vista come un vasto monastero, il monastero è
un riassunto della Chiesa. Egli auspica un ritorno alla Chiesa primitiva attraverso la
povertà, la vita comunitaria, l’assidua preghiera, anticipazione su questa terra della
Gerusalemme celeste nei limiti delle proprie forze. Dopo Oddone sarà la volta dell’abate
Aimardo che lasciò il suo breve ufficio nel 948. Viene seguito dall’abate Maiolo (948-
994). Durante il suo governo fu incaricato dai Re di Francia e dagli Imperatori germanici
della riforma di molti monasteri per cui si trovò spesso in viaggio. Nel 974 l’Imperatore
Ottone II di Sassonia e sua madre Adelaide gli offrirono di diventare Papa, ma egli
rifiutò preferendo rimanere al governo del suo cenobio. Sarà poi la volta dell’abate
Odilone (994-1049) che grazie alla “politica” dei suoi predecessori, diverrà il promotore,
con buoni risultati, di un periodo di pace tra i vari signori feudali, troppo spesso in lotta
fra loro. Suo successore sarà l’abate Ugo (1049-1109) il quale saprà allargare la funzione
“politica” di Cluny a tutta la cristianità. L’Istituto, infatti, possiede ora monasteri sia in
Spagna che in Inghilterra. Le Consuetudines cluniacenses ormai circolano in tutta Europa;
esse vengono adottate da centinaia di monasteri; è questo il momento di massimo
splendore di Cluny. (Ugo fece costruire la chiesa a cinque navate distrutta durante la
Rivoluzione Francese) Ultimo, per ordine cronologico, dei grandi abati cluniacensi,
Pietro Venerabile (1109-1156). Durante il suo governo amministrò il celebre
monastero con grande saggezza e prudenza. Seppe affrontare anche gravi problemi di
natura economica, già presenti ai tempi di Ugo, per adattare la conduzione del vasto
patrimonio monastico ad una situazione di più intensa circolazione monetaria. Più
impegnativo, in rapporto a tutte le problematiche finora esposte, fu però il confronto, di
natura spirituale, sostenuto con la nuova Osservanza cistercense e soprattutto con il suo
massimo esponente Bernardo di Chiaravalle. Motivo del dissenso con Bernardo fu
l’interpretazione, data da Cluny, della Regola benedettina. All’interno dell’Ordine
cluniacense che, durante il suo abbaziato, conobbe ancora un’epoca di grande vitalità,
egli promosse una attenta riorganizzazione degli usi liturgici e disciplinari e che culminò
con la stesura degli Statuta. Nella premessa a questi decreti Pietro spiega come si debba
attentamente discernere tra quanto, con legge immutabile, ci comanda il Signore e,
quanto invece è stato stabilito dagli uomini e che pertanto può rendersi mutabile, perché
quanto fu utile un tempo può, con il mutare delle circostanze, divenire nocivo. Durante
il suo governo Cluny contava circa quattrocento monaci residenti nel solo monastero
borgognone e duemila case dipendenti sparse in tutto il territorio europeo.

LE CORRENTI EREMITICHE: CAMALDOLESI E CERTOSINI.


Una risposta alla “crisi” di tante istituzioni monastiche fu la rinascita del movimento
eremitico, peraltro sempre esistito in tutto l’Alto Medioevo, ma che ora tendeva ad
organizzarsi in veri e propri Ordines. La fondazione dell’Istituto di Camaldoli, nel
980, si deve a San Romualdo, entrato ventenne nel monastero di Sant’Apollinare
in Classe di Ravenna. La Congregazione dei monaci eremiti benedettini depositaria
dell’ideale del suo santo fondatore, la vita monastica ed eremitica, ha come suoi
fondamentali Maestri oltre allo stesso San Romualdo, San Rodolfo, primo Priore del
monastero di Camaldoli e San Pier Damiani, Priore di Fonte Avellana. L’approvazione
definitiva, in Congregazione benedettina, risale a Papa Gregorio VII nel 1074. San
Romualdo, consegnò ai suoi discepoli la Regola di san Benedetto, che fu il primo e più
importante codice per la Congregazione; a questo sono unite le Consuetudini, che
contengono l’interpretazione pratica della Regola con le norme per la vita eremitica
(Dichiarazioni) e gli elementi giuridici che costituiscono la Congregazione (Costituzioni).
Un altro importante movimento eremitico, quello dei Certosini, trae origine da San
Bruno di Colonia, il quale nel 1084 fondava l’eremo della Grande-Chartreuse
presso Grenoble. Chiamato in Italia da Papa Urbano II che fu suo discepolo a
Reims, si trasferì in Calabria dove fondò due eremitaggi. Il movimento della
Certosa ha per programma un’osservanza strettamente eremitica, mitigata da alcuni
momenti di vita cenobitica. Se i monaci camaldolesi possono essere definiti dei cenobiti
indirizzati all’eremo, i certosini sono degli eremiti raccolti in un cenobio. Il monaco
certosino vive in una casetta, fornita di un locale per il lavoro e di un piccolo giardino, da
cui esce tre volte al giorno: per il lungo Ufficio notturno, per la Messa conventuale e per
i Vespri. Anche l’unico pasto giornaliero è consumato in cella; solo alla domenica ci si
reca al refettorio comune. L’autorità suprema dell’Ordine certosino appartiene al
Capitolo generale, che si riunisce ogni due anni presso la Gran Certosa. L’Istituto è
governato dal Priore della Grande-Chartreuse. Il Superiore è chiamato Priore dai
confratelli perché considerato primus inter pares e non dominus.
Si vedano Certosa di Garegnano a Milano e Certosa di Pavia.

LA RIFORMA CISTERCENSE.
Nessuno dei movimenti monastici sorti nei secoli XI° e XII° eguagliò l’importanza
dell’Ordine di Cîteaux. La sua origine non fu dovuta ad interventi di sovrani,
come nel periodo carolingio, o a signori feudali, come per Cluny, ma bensì
all’unica e decisa presa di coscienza di un gruppo di monaci che esprimevano un
desiderio generale e diffuso di rinnovamento e di riforma.
Ludovico il Pio incaricò l’abate del monastero benedettino di Aquisgrana, Benedetto
d’Aniane (750-821) di introdurre una riforma in tutti i monasteri presenti nel regno
franco. Per questo egli convocò nell’estate 817 un sinodo presso Aix-la-Chapelle
radunando tutti gli abati dell’impero. Sarà una tappa fondamentale nel cammino del
monachesimo occidentale. Benedetto d’Aniane spiegò integralmente la Regola di san
Benedetto sottoponendo all’approvazione dell’assemblea le idee che aveva esposte. Fu
redatto un documento che passò alla storia come il Capitulare monasticum in cui si
prescriveva l’introduzione della Regola di san Benedetto in tutti i monasteri maschili e
femminili dell’impero. È considerato dagli studiosi, per questa sua opera, il vero ideatore
dell’Ordine benedettino o meglio dell’Unità di disciplina o di Regola.
Le istanze di riforma dell’ordine matureranno di lì a poco. La prima tappa di questo
sviluppo di idee ebbe luogo a Molesme, abbazia fondata dall’abate Roberto nel
1075 che, dopo circa un ventennio, decise di lasciare questa prima fondazione per
accentuare ulteriormente l’allontanamento dal mondo, la povertà, il lavoro manuale e
l’ascetismo rigoroso, messi in pratica sotto la stretta osservanza della Regola benedettina.
Durante prolungati e animati dibattiti, i futuri fondatori di Cîteaux ebbero la possibilità
di chiarire le loro intenzioni e di ridurle ad una forma molto semplice e pratica: il ritorno
all’Osservanza letterale della Regola di san Benedetto. Fu probabilmente durante
l’autunno del 1097 che l’abate Roberto si recò accompagnato da alcuni suoi monaci,
dall’Arcivescovo Ugo de Die di Lione, legato pontificio in terra di Francia per ottenere
l’approvazione ecclesiastica alla nuova fondazione. Roberto presentava il suo piano al
prelato dando come ragione principale l’osservanza tiepida e negligente della Regola, così
come era vissuta a Molesme, mentre egli prometteva di seguirla da allora in poi più
strettamente e con maggiore perfezione. Ottenuta l’approvazione l’abate Roberto
fondò nella Borgogna francese il giorno 21 marzo 1098, festa di San Benedetto e
Domenica della Palme, il Nuovo Monastero che dal nome della località Cistercio,
in latino Cistercium, prese il nome di Cîteaux.
Le caratteristiche tipiche di Cîteaux sono messe in risalto dall’immediato confronto con
Cluny. La comparazione dello “stile di vita” tra i monaci neri cluniacensi ed i monaci
bianchi cistercensi fa capire immediatamente le differenze sul fondamentale problema
all’interpretazione della Regola benedettina. Mentre per i primi il compito principale
della Comunità monastica doveva essere quello della preghiera continua (ricordiamo che
la commemorazione dei defunti, il 2 novembre, fu istituita dall’abate Odilone),
caratteristica squisitamente spirituale che lasciava però in secondo piano il lavoro
manuale, come invece la Regola benedettina prescriveva, per i Cistercensi l’ideale
monastico tendeva ad una vita solitaria quasi eremitica dedita, oltre che alla preghiera,
anche al lavoro manuale nella bonifica dei territori posti intorno ai loro monasteri,
edificati in luoghi impervi e paludosi di pianura per sottolineare il nascondimento al
mondo, contrariamente ai monasteri cluniacensi che spesso si trovavano posti su luoghi
elevati in cima alle colline. Roberto ed i suoi monaci insistevano nell’affermare che essi
non avevano altro desiderio se non quello del ritorno ad una vera autentica Osservanza
della Regola di san Benedetto, codice venerato e venerabile da tutti i monaci.
Successore di Roberto (+1111) alla guida di Cîteaux, che suo malgrado dovette rientrare
a Molesme per ordine del Papa Urbano II nel 1099, sarà Alberico. Durante il suo
governo abbaziale egli si premurò di chiedere a Papa Pasquale II, la protezione
apostolica conosciuta come il Privilegio Romano, che gli fu concessa con la bolla
Desiderium quod in data 19 ottobre 1100, sottraendo così il Nuovo Monastero ad ogni
ingerenza della nobiltà locale ed ecclesiastica. Terzo abate di Cîteaux sarà Stefano
Harding (+1134), nominato alla morte di Alberico (+1109). Inglese di nascita giunse già
monaco nell’abbazia di Molesme deve decise di stabilirsi. È durante il suo governo
abbaziale che inizia la stesura della Costituzione cistercense meglio conosciuta come
Carta di Carità o Carta Caritatis opera composta tra il 1114 ed il 1119. Di lui ci rimane
anche una Prefazione all’Innario Cistercense, composto tra il 1108 ed il 1113. In esso
Stefano spiega che Cîteaux adottò gli Inni Ambrosiani di Milano per meglio conformarsi
alla Regola benedettina. Figura di grande rilievo non soltanto per l’Ordine Cistercense,
Stefano, negli anni seguenti al 1120, svolse un importante ruolo nella fondazione della
prima abbazia cistercense femminile di Tart, non lontano da Cîteaux, la quale ne adottò
le Consuetudini e che in seguito si sviluppò come abbazia madre di molte altre
fondazioni. Roberto, Alberico e Stefano Harding sono i veri Padri fondatori dell’Ordine
di Cîteaux.
Nel 1115 il monaco benedettino Bernardo (1090-1153) fondò la sede abbaziale di
Clairvaux. Nello stesso anno sorse l’abbazia di Morimond.
San Bernardo di Clairvaux fu protagonista della importante disputa, scoppiata dopo il
1124, riguardante l’Osservanza della vita monastica. Bernardo lanciò un duro attacco
contro Cluny, che sfocerà nella sua celebre Apologia. In quel periodo i Cistercensi
avevano guadagnato una grande popolarità. Con il suo stile magistrale San Bernardo
metteva in netta contrapposizione i “monaci neri” ricchi, pomposi, dalla vita agiata con i
“monaci bianchi” i Cistercensi, araldi di una nuova forma di vita monastica che vivevano
con il frutto del proprio lavoro esattamente come gli Apostoli; separati dal mondo e
senza alcun interesse per esso; austeri nel proprio abbigliamento ed anche nelle loro
abitazioni; parchi nel cibo e nelle bevande; semplici perfino nel loro servizio liturgico. La
sintesi è che i Padri fondatori di Cîteaux decisero, come afferma il cronista inglese
Guglielmo di Malmesbury (1090-1143), di “osservare la Regola di San Benedetto alla
lettera, allo stesso modo in cui i Giudei osservano la Legge di Mosè”. Generalmente i
monaci consideravano precetti divini, oltre ai comandamenti in senso stretto, anche le
varie disposizioni dettate dai Padri “i quali hanno seguito le orme degli Apostoli”. A tutti
senza eccezione si deve uguale obbedienza e venerazione, perché come scriveva Pietro
Venerabile in tutti si riconosce il soffio dello stesso Spirito. Secondo san Bernardo,
applicando i principi esposti in precedenza alla Regola, accanto alle prescrizioni
immutabili vi sono altre norme esterne e pertanto mutabili, contenute nella Regola
benedettina che il santo Legislatore prevede per meglio realizzare la legge della carità. Il
potere di agire sulla Regola compete unicamente agli Abati. Essi soltanto, continua san
Bernardo, sono i dispensatori autentici, in forza del loro ufficio di rappresentanti di Dio
all’interno del cenobio. Essi però non possono agire a capriccio: hanno dei limiti che
non possono oltrepassare. Loro norma dovrà essere quella di salvare la carità, di
fomentare la carità che è “la grande Regola di Dio”. L’indirizzo delle varie correnti
difendono quindi la supremazia della carità e ne fanno il principio motore di ogni
evoluzione della disciplina monastica. Ma, su questo punto, dove si deve ricercare la
diversità di opinioni tra la mentalità tradizionale di Cluny e quella dei Cistercensi ?
Monaci tradizionali e Cistercensi rappresentavano due concezioni diverse della vita
claustrale: due ideali paralleli; l’uno in una forma più larga, l’altro in una espressione più
austera. Ma nessuna delle due aveva il diritto di condannare l’altra e ciò è dimostrato
anche dalla grande amicizia che legava l’abate di Cluny all’abate di Clairvaux. Un altro
paragrafo presente nella Costituzione cistercense, la Carta di Carità, alludeva alle circostanze
delle nuove fondazioni. Il sistema cluniacense prevedeva una struttura per cui a capo di
tutte le fondazioni vi era l’abbazia madre di Cluny, mentre i Cistercensi istituirono un
nuovo ordinamento giuridico conosciuto con il nome di filiazione. Questo principio
trasforma rispetto a Cluny l’organizzazione del sistema, rendendo sui iuris tutte le case
fondate e cioè indipendenti dall’abbazia madre, stabilendo diritti e doveri reciproci.
L’abate del monastero fondatore si chiamerà Padre immediato ed avrà l’obbligo di visita
annuale presso tutte le filiazioni. Cîteaux, che non aveva una casa madre doveva essere
“visitata” simultaneamente dagli abati delle sue prime quattro case figlie e cioè dagli
abati di La Fertè, Pontigny, Clairvaux e Morimond. Ogni filiazione dovrà avere,
oltre ad alcuni fratelli conversi, almeno dodici monaci, guidati da un abate. Tutte le
chiese conventuali dovranno essere dedicate alla Beata Vergine Maria e collocate in
luoghi ameni, lontani dai villaggi e dalle città. I mezzi di sussistenza dei monaci, come
abbiamo visto dovevano derivare dal lavoro manuale, dalla coltivazione della terra e
dall’allevamento del bestiame. Per questo e per il disbrigo degli affari economici delle
fondazioni cistercensi varrà istituita una nuova categoria di religiosi sotto la stretta
disciplina del monastero: i fratelli conversi. Con questo termine si indica un religioso
laico, vincolato da tutti gli obblighi fondamentali della vita religiosa eccetto l’Ufficio
Divino. Questi ultimi data l’esenzione all’Ufficio Divino potevano vivere anche lontano
dal monastero di appartenenza, sulle sue proprietà, in costruzioni chiuse, dove si
conservava il raccolto e gli attrezzi agricoli, denominate grange. Il successo
dell’economia agraria dei Cistercensi e la sua superiorità nei confronti delle grandi
proprietà terriere, ormai superate e decadenti, trova spiegazione soprattutto
nell’organizzazione e nella pianificazione dello sfruttamento delle proprietà dell’Ordine.
Lo strumento di maggior successo per raggiungere tale scopo fu l’organizzazione in
grange, una specie di stanziamenti monastici agrari, del tutto paragonabili alle moderne
fattorie, le quali univano i vantaggi della pianificazione centrale data dal monastero di
appartenenza con l’autonomia locale. Secondo le norme più antiche, le grange non
dovevano distare dall’abbazia più di una giornata di cammino: esse potevano restare così
sotto stretto controllo ed i fratelli conversi potevano fare ritorno ogni domenica al
monastero per gli uffici religiosi.
I monaci di coro non avevano il permesso di pernottare nelle grange: il lavoro
quotidiano, nelle grange, divenne perciò responsabilità dei fratelli conversi, sotto la
direzione del maestro della grangia, o grangiario, uno dei fratelli più esperti. Quest’ultimo
riceveva istruzioni dal cellerario e dal procuratore dell’abbazia, ed a sua volta era
responsabile di fronte all’abate.
L’Ordine Cistercense, come abbiamo visto, nasce e si sviluppa dal ceppo benedettino.
Perciò sia la spiritualità che la struttura urbanistica delle abbazie hanno come punto di
riferimento l’ordine, inteso come disposizione e sistemazione nello spazio, tipicamente
benedettino. Nel Cap. 66 della Regola tra l’altro si afferma: possibilmente il monastero
deve essere costruito in modo di potervi trovare quanto è necessario, cioè, l’acqua, un
mulino, un orto e reparti per le varie necessità, così che i monaci non debbano
girovagare fuori: ciò infatti non reca alcun vantaggio alle loro anime. Anche
nell’architettura cistercense è possibile decodificare quel bisogno di ritorno alla
semplicità, all’ autenticità, osservando lo spogliamento tipico che lascia intatti e visibili i
muri delle loro costruzioni, mettendo così in risalto la bellezza e l’armonia delle forme.
Nonostante la grandiosa fioritura dell’arte sacra che si ebbe dopo il Mille i Cistercensi
eliminarono radicalmente ogni forma di decorazione che aveva il solo scopo di attirare
folle di pellegrini e devoti. La planimetria delle primitive chiese cistercensi presenta tre
navate e un transetto affiancato da cappelle. Lo spazio centrale della chiesa era
praticamente riservato solo al coro dei monaci e a quello dei conversi presenti in
monastero. Non dobbiamo cercare lontano l’origine di questa estetica: l’ideale della
riforma di Cîteaux, era appunto, come già accennato, il ritorno alla Regola di san
Benedetto nella sua integrale purezza. E il monastero è l’officina in cui si esercita tale
pratica; e nel monastero la chiesa, costruita su pianta a croce latina, è il luogo dove più
alta e pura si esercita tale arte. Al centro del complesso monastico è significativamente
collocato il chiostro su quattro lati, quadrato come viene immaginata dai Cistercensi la
Città di Dio, con i suoi quattro lati che simboleggiano i quattro evangelisti, i quattro
venti, le quattro stagioni, le quattro virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza,
temperanza).
Abbazia di Morimondo e di Chiaravalle.

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