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Libro economia internazionale

Economia Internazionale (Università degli Studi di Pavia)

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Economia Internazionale (Manuale).

Capitolo 2. Commercio Internazionale: Uno sguardo d'insieme.


Aspetto di crescente integrazione economica dei mercati: nel secondo dopoguerra le esportazioni
mondiali sono cresciute più della produzione mondiale; nel 2009 si nota anche il forte e inusuale
crollo delle esportazioni mondiali conseguenza della crisi economica.
– Perché i paesi vendono molto di ciò che producono ad altri paesi? Perché acquistano molto
di ciò che consumano da altri paesi?
– Quali sono i benefici e i costi del commercio internazionale? Gli effetti delle politiche?
La relazione empirica conosciuta come modello gravitazionale è utile per prevedere il valore del
commercio tra coppie di Paesi e permette di far luce sugli ostacoli che continuano a limitare il
commercio internazionale anche nell'economia globale dei nostri giorni.

2.1 Chi commercia con chi?


Commercio estero totale degli Stati Uniti e dell'Unione Europea con i principali partner: i dieci
paesi citati rappresentano il 65% del valore del commercio degli Stati Uniti e il 46% di quello
dell'Unione Europea.
Perché gli Stati Uniti e l'Unione Europea commerciano così tanto con quest'ultimi?

2.1.1 La dimensione conta: il modello gravitazionale.


Tre dei dieci più importanti partner commerciali degli Stati Uniti sono paesi europei: Germania,
Regno Unito e Francia; gli Stati Uniti commerciano intensamente con quest'ultimi poiché hanno i
valori più elevati di Prodotto Interno Lordo (PIL), che misura il valore complessivo di tutti i beni
e servizi prodotti in un'economia.
Esiste una forte relazione empirica tra la dimensione dell'economia di un paese e il volume delle sue
importazioni ed esportazioni: infatti, guardando al commercio mondiale nel suo complesso, è stata
teorizzata un'equazione che predice in maniera accurata il volume di commercio tra qualsiasi coppia
di paesi, espressa come:

T ij =A x Y i x Y j / D ij

dove A è un termine costante, T è il valore di commercio tra il paese i e il paese j, Y è il PIL del
paese (i e j) e D la distanza tra i due paesi. Il valore del commercio tra i due paesi è proporzionale, a
parità di tutto il resto, al prodotto dei PIL dei due paesi, e diminuisce al crescere della distanza tra
questi (modello gravitazionale).
Una versione più generale del modello gravitazionale è la seguente:

T ij=A x Yia x Y jb /D c ij

Le tre determinanti del volume del commercio tra due paesi sono la dimensione dei loro PIL e la
distanza che intercorre tra essi, senza però assumere che il commercio sia esattamente proporzionale
al prodotto dei due PIL e inversamente proporzionale alla distanza; al contrario, a, b, c venfono
scelti in modo che il modello si adatti il più possibile a dati reali.

2.1.2 L'utilizzo del modello gravitazionale: scoprire le anomalie.


Uno dei principali utilizzi dei modelli gravitazionali è quello di aiutare a scoprire le anomalie del
commercio internazionale: quando il commercio tra due paesi è molto maggiore o molto minore di
quanto un modello gravitazionale prevederebbe, gli economisti cercano possibili spiegazioni.
Alcune tra queste riguardano:
– affinità culturali;
– ruolo delle imprese multinazionali;
– geografia, costi di trasporto e flussi commerciali.

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2.1.3 Ostacoli al commercio: distanza, barriere e confini.


Perché gli Stati Uniti commerciano in misura tanto maggiore con i paesi limitrofi del Nord America
di quanto facciano con i partner europei?
– Una delle ragioni è che Canada e Messico si trovano più vicino.
Tutte le stime dei modelli gravitazionali mostrano un forte effetto negativo della distanza sul
commercio internazionale: questo calo riflette in parte l'aumento dei costi di trasporto di
beni e servizi. Gli economisti negano anche fattori meno tangibili giochino un ruolo
cruciale: il commercio tende ad essere intenso quando esistono stretti contatti personali tra
paesi, e questi contatti tendono ad affievolirsi quando le distanze sono notevoli.
– Oltre ad essere limitrofi, Canata e Messico sono parte di un accordo commerciale.
Gli economisti usano il modello gravitazionale come strumento per valutare gli effetti degli
accordi sul commercio internazionale: se un accordo commerciale è efficace, esso deve
portare a volumi di commercio fra i paesi membri significativamente maggiori di quanto si
potrebbe altrimenti prevedere dato il PIL di questi paesi e la distanza tra ciascuno di essi.
È tuttavia importante notare che, sebbene tali accordi generalmente eliminino le barriere
commerciali formali tra i paesi, essi raramente annullano la rilevanza dei confini nazionali
(il commercio tra regioni dello stesso paese è molto maggiore di quello tra regioni di paesi
diversi con uguale posizione geografica).

2.2 I cambiamenti della struttura del commercio internazionale.


Il commercio internazionale è un obiettivo mobile; la sua direzione e composizione attuale sono
sensibilmente diverse rispetto a trent'anni fa. Quali sono i fatti principali?

2.2.1 Il mondo è diventato più piccolo?


Se da una parte Internet rende possibili comunicazioni istantanee e senza costi tra persone distanti
migliaia di chilometri, i modelli gravitazionali continuano a mostrare un forte effetto negativo della
distanza sul commercio internazionale.
Il progresso dei mezzi di trasporto e di comunicazione ha reso davvero il mondo più piccolo?
Sì, ma la storia mostra anche che fattori politici possono compensare gli effetti del progresso
tecnologico; inoltre, gli storici dell'economia ci insegnano che un'econoima globale, con forti
collegamenti fra nazioni anche molto distanti, non è un fatto nuovo, in quanto la prima si è basata su
ferrovie, navi a vapore e telegrafo. Nel 1919 Keynes trattò i caratteri generali di tale
globalizzazione, “giunta al termine” nel 1914: infatti le due guerre mondiali, la Grande Depressione
e il diffuso protezionismo hanno contribuito in modo determinante a scoraggiare il commercio
mondiale. Quest'ultimo è cresciuto rapidamente nei decenni precedenti la Prima guerra mondiale
per poi ridursi e salire vertiginosamente subito dopo gli anni Settanta. Una parte consistente di
questo aumento riflette la cosiddetta “disintegrazione verticale” della produzione: prima di giungere
nelle mani dei consumatori, un bene passa attraverso molte fasi di produzione in diversi paesi.

2.2.2 Che cosa scambiano?


Quando i paesi commerciano scambiano manufatti e prodotti agricoli, frammento chiave in questo
quadro. I beni manufatti hanno svolto la parte del leone nel comemrcio mondiale: gran parte del
valore delle materie prime è costituito dal petrolio e altri combustibili. Il commercio di prodotti
agricoli, sebbene fondamentale per nutrire le popolazioni di molti paesi, rappresenta solo una quota
del commercio mondiale moderno.
Le esportazioni di servizi includono le tradizionali tasse di trasporto, i preni assicurativi e le spese
dei turisti stranieri.
Il quadro attuale, in cui i manufatti dominano il commercio mondiale, è relativamente recente: in
passato i prodotti primari avevano un ruolo più importante nel commercio mondiale; all'inizio del
XX secolo il Regno Unito, a fronte di esportazioni dominate da beni manufatti, importava
prevalentemente prodotti primari. Oggi manufatti dominano entrambi i flussi di commercio del

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paese. Una trasformazione più recente è stata l'aumento delle esportazioni di manufatti dei paesi del
Terzo Mondo: i termini Terzo Mondo e paesi via di sviluppo si riferiscono alle nazioni più povere
del mondo, molte delle quali sono state colonie europee prima della Seconda guerra mondiale.
Fino agli anni Settanta questi paesi esportavano in prevalenza prodotti primari: da quel momento,
però, essi hanno iniziato rapidamente ad esportare manufatti (esempio: più del 90% delle
esportazioni della Cina consiste oggi di manufatti – inversione completa dell'importanza relativa).

2.2.3 Offshoring di servizi.


La tecnologia dell'informazione porterà un forte aumento nelle nuove forme di commercio
internazionale?
Quando un servizio in precedenza realizzato all'interno di un paese viene spostato in una località
estera, questo trasferimento è noto come offshoring o delocalizzazione di servizi (chiamato anche
outsourcing di servizi).
Blinder: “In futuro, la distinzione chiave per il commercio internazionale sarà tra servizi che
possono essere forniti elettronicamente a grande distanza con una riduzione minima o nulla della
qualità, e servizi che non possono essere forniti in questo modo”.
Il 60% dell'occupazione statunitense totale consiste di attività che devono essere svolte vicino al
cliente, rendendo non delocalizzabili i posti di lavoro. Tuttavia, il 40% dell'occupazione che
consiste in attività delocalizzabili include più attività dei servizi che manifatturiere. NB: L'attuale
dominio dei beni manufatti nel commercio internazionale potrebbe essere solo temporaneo.

2.3 Valgono ancora le vecchie regole?


Alla luce di tutti i cambiamenti nel commercio internazionale dall'era di Ricardo, possono essere le
vecchie idee ancora rilevanti?
La risposta è sì: anche se è molto è cambiato nel commercio internazionale, i principi fondamentali
scoperti dagli economisti 200 anni fa valgono ancora. È vero che il commercio mondiale è diventato
difficile da descrivere in termini semplici: anche le dispute commerciali erano facili da spiegare
(contesa politica tra libero commercio e protezionismo avveniva tra proprietari inglesi e produttori
che esportavano gran parte dei loro prodotti). La logica sottostante al commercio internazionale
rimane la stessa: modelli economici sviluppati molto prima dell'invenzione di aeroplani e di Internet
rimangono fondamentali per comprendere gli elementi essenziali del commercio internazionale del
XXI secolo.

Capitolo 3. Produttività del lavoro e vantaggi comparati: il modello ricardiano.


I paesi commerciano perché sono diversi gli uni dagli altri: così come gli individui, i paesi possono
trarre vantaggio dalle loro differenze raggiungendo un accordo in base al quale ognuno produce ciò
che sa produrre relativamente meglio, oltre che per poter realizzare economie di scala nella
produzione. I flussi del commercio internazionale riflettono l'interazione tra entrambi questi motivi,
ma, per iniziare a conprenderne le cause e gli effetti, è utile considerare modelli semplificati.
Il concetto di base del seguente capitolo è l'analisi del vantaggio comparato, con lo sviluppo di un
modello specifico in grado di condizionarne la struttura all'interno del commercio internazionale.

3.1 Il concetto di vantaggio comparato.


Una quota crescente del mercato invernale delle rose negli Stati Uniti è costituita da importazioni da
paesi sudamericani, in particolare dalla Colombia, la quale a sua volta importa computer dagli USA.
In entrambi i casi, produrre un bene con costi elevati in termini di energia, investimenti di capitale e
altre risorse di cui vi è scarsità, si genererebbe un trade-off (per produrre rose d'inverno, gli USA
devono produrre minori quantità di computer, e viceversa – costo opportunità).
La differenza nei costi-opportunità offre la possibilità di riorganizzare la produzione internazionale
in modo vantaggioso per entrambi i paesi: gli Stati Uniti potrebbero smettere di coltivare rose in
inverno, impiegando nella produzione di computer le risorse così liberate; la Colombia potrebbe

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invece coltivare rose d'inverno, trasferendo le risorse necessarie dall'industria dei computer.
La ragione per cui il commercio internazionale genera questo aumento della produzione mondiale
risiede nel fatto che esso consente a ciascun paese di specializzarsi nella produzione del bene
rispetto al quale ha un vantaggio comparato: un paese ha un vantaggio comparato nella produzione
di un bene se il costo-opportunità della produzione di questo rispetto ad altri beni è minore in quel
paese che in altri. L'intuizione fondamentale riguardo al vantaggio comparato e al commercio
internazionale cita: il commercio tra due paesi può portare benefici a entrambi se ciascun paese
esporta i beni nei quali ha un vantaggio comparato.
Tuttavia, questa affermazione fa riferimento a una possibilità: non c'è alcuna autorità che decida
quale paese debba produrre rose e quale computer, tantomeno qualcuno che distribuisca rose e
computer ai consumatori di entrambi i paesi; al contrario, produzione e scambi internazionali sono
determinati su un mercato dove vige la legge della domanda e dell'offerta.
Il primo a introdurre il concetto di vantaggio comparato fu David Ricardo, secondo cui il
commercio internaizionale è motivato soltanto da differenze internazionali nella produttività del
lavoro.

3.2 Un'economia con un solo fattore.


Iniziamo studiando un'economia in cui esiste un solo fattore di produzione, che vengano prodotti
solo due beni e che la tecnologia impiegata in tale economia sia espressi in temrini di lavoro
impiegato per unità di prodotto. Si noti che stiamo definendo il lavoro impiegato per unità di
prodotto come l'inverso della produttività: quanto più stoffa o cibo un lavoratore è in grado di
produrre in un'ora, minore è il lavoro impiegato per unità di prodotto. Definiamo con aLS e aLC le
quantità di lavoro impiegate nella produzione di un'unità di stoffa e cibo, mentre con L l'offerta
totale di lavoro.

3.2.1 La frontiera delle possibilità produttive.


La seguente figura illustra graficamente il concetto di frontiera delle possibilità produttive, che
mostra la quantità massima di un stoffa che è possibile produrre una volta deciso il livello di
produzione di cibo e viceversa.

La frontiera delle possibilità produttive è determinata dalla quantità limitata di risorse di cui
l'economia dispone, in questo caso il lavoro. I limiti alla produzione sono descritti dalla
disuguaglianza:

aLC QC+ aLS QS ≤ L

Seguendo l'esempio qui riportato, la quantità totale di lavoro impiegata nella produzione è (1 x chili
di cibo prodotti) + (2 x metri di stoffa prodotti), e la quantità totale non deve essere maggiore delle

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1000 ore di lavoro disponibile: si possono perciò produrre tutte le possibili combinazioni di stoffa e
cibo che giacciono sulla retta che connette questi due estremi.
Quando la frontiera delle possibilità produttive è una linea retta, il costo-opportunità del cibo in
termini di stoffa è costante: la produzione di un altro chilogrammo di cibo richierebbe aLC ore-
lavoro, ognuna delle quali potrebbe essere usata per produrre 1/ aLS metri di stoffa; dunque, il costo
opportunità del cibo in termini di stoffa sarà aLC/aLS. Come mostra la figura, questo costo-
opportunità è uguale al valore assoluto della pendenza della frontiera delle possibilità produttive.

3.2.2 Prezzi relativi e offerta.


Per satbilire quale combinazione di beni verrà effettivamente prodotta dobbiamo considerare i
prezzi dei beni; in particolare, è necessario conoscere il prezzo relativo dei due beni prodotti
nell'economia, cioè il prezzo di un bene nei termini dell'altro.
Più in generale, siano Pc e Ps i prezzi del cibo e della stoffa, poiché occorrono aLC ore di lavoro per
produrre un chilogrammo di cibo e poiché nel nostro modello a un solo fattore non vi sono profitti,
il salario orario nel settore in cui si produce cibo sarà pari al valore del prodotto in un'ora di lavoro,
ovvero Pc/ aLC (in maniera analoga nel settore della stoffa). Se consideriamo il prezzo del cibo
maggiore di quello della stoffa, il salario pagato nel settore in cui si produce il primo bene sarà più
alto rispetto al secondo settore, per cui l'economia si specializzerà in:
– cibo, se Pc /Ps > aLC/ aLS
– stoffa, se Pc /Ps < aLC/ aLS
– entrambi, se Pc /Ps = aLC/ aLS
L'economia si specializzerà nella produzione di cibo se il prezzo relativo del cibo è maggiore del
suo costo-opportunità, mentre si specializzerà nella produzione di stoffa se il prezzo relativo del
cibo è minore del suo costo-opportunità in termini di stoffa.
In assenza di commercio internazionale, la nostra econonia dovrà necessariamente produrre
entrambi i beni, ma sappiamo che ciò avverrà solo se il prezzo relativo del cibo è pari al suo costo-
opportunità: in assenza di commercio internazionale, i prezzi relativi dei beni sono pari al rapporto
tra le quantità di lavoro necessarie a produrli.

3.3 Il commercio internazionale nel modello a un solo fattore.


Supponiamo vi siano due paesi, che chiameremo H e F: in ognuno di essi esiste un solo fattore di
produzione, il lavoro, utilizzato per produrre due soli beni. In generale, nessuna restrizione verrà
imposta sui rapporti tra le produttività del lavoro nei diversi settori. Per il momento l'unica
assunzione arbitraria è la seguente:

aLC/ aLS < a*LC/ a*LS


aLC/ a*LC < aLS/ a*LS
In altre parole, assumiamo che il rapporto tra le quantità di lavoro richieste nella produzione di cibo
e stoffa sia minore in H che in F; più brevemente, la produttività relativa di H è maggiore nel settore
che produce cibo (il paese H ha un vantaggio comparato nella produzione di cibo).
Tuttavia, è da notare che la condizione citata coinvolge le quantità di lavoro impiegate in tutte e
quattro le produzioni, non due soltanto: per stabilire chi produrrà cibo è bene confrontare le unità di
lavoro necessarie per la produzione di questo bene in ciascuno dei paesi, per cui se aLC/ < a*LC ,il
lavoro in H è più efficiente che in F. Quando un paese può produrre un'unità di un bene utilizzando
meno lavoro rispetto a un altro paese, diremo che esso ha un vantaggio assoluto nella produzione
di quel bene. Quando consideriamo la possibilità che i paesi commercino tra di loro, i prezzi non
possono più essere determinati soltanto da fattori interni; ma come si determina il livello dei prezzi?

3.3.1 La determinazione dei prezzi relativi dopo lo scambio.


I prezzi dei beni commerciati su mercati internazionali, come tutti gli altri prezzi, sono determinati
dall'interazione tra domanda e offerta. In particolare, se sono considerate esclusivamente le forze di
domanda e offerta relative a un singolo mercato, sarà lecito compiere un'analisi di equilibrio

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parziale; al contrario, quando si studiano i vantaggi comparati, è essenziale non trascurare le


relazioni tra mercati distinti, considerando perciò un'analisi di equilibrio generale.
Riprendendo l'esempio precedente, per esaminare simultaneamente due mercati è possibile
considerare le quantità relative domandate e offerte (e non semplicemente le quantità assolute di
ognuno dei due beni), di modo da considerare il numero di chilogrammi di cibo domandati o offerti
diviso per il numero di metri di sfotta domandati o offerti.

La figura seguente rappresenta la domanda e l'offerta relative internazionali di cibo in funzione del
prezzo relativo internazionale del cibo:
– RD, rappresenta la curva di domanda relativa;
– RS, rappresenta la curva di offerta relativa;
– equilibrio generale internazionale, RD = RS, per cui
– il prezzo relativo internazionale è determinato dall'intersezione tra RD e RS.
Come è stato possibile costruire la curva RS (“a gradini”)?
1. Non vi può essere alcuna produzione di cibo se il prezzo internazionale scende al di sotto di
aLC/ aLS.
Il paese H si specializzerà nella produzione di stoffa qualora si abbia (Pc /Ps )INT < aLC/ aLS , e
lo stesso farà il paese F qualora (Pc /Ps)INT < a*LC/ a*LS . Poiché abbiamo ipotizzato che la
produttività relativa di H è maggiore nel settore che produce cibo rispetto a F, ovvero aLC/
aLS < a*LC/ a*LS , se il prezzo relativo del cibo scende al di sotto di aLC/ aLS , non si avrà
alcuna produzione di cibo.
2. Il paese H è disponibile a produrre qualunque quantità relativa dei beni (sezione piatta della
curva di offerta).
Quando il prezzo del cibo è uguale a aLC/ aLS, i lavoratori in H ottengono lo stesso guadagno dalla
produzione di cibo o di stoffa.
3. Se (Pc /Ps)INT > a*LC/ a*LS , sappiamo che H si specializzerà nella produzione di cibo, ma
finché (Pc /Ps)INT < a*LC/ a*LS , F continuerà a produrre solo stoffa (sezione verticale della
curva di offerta).
Quando H si specializzerà nella produzione di cibo, ne produce L/aLC chilogrammi; allo
stesso modo, quando F si specializza nella produzione di stoffa, ne produce L*/a*LS metri.
Quindi, il prezzo relativo compreso tra aLC/ aLS e a*LC/ a*LS , l'offerta relativa di cibo RS sarà:

(L/aLC) / (L*/a*LC )

4. Il paese F è disponibile a produrre qualunque quantità relativa dei beni (sezione piatta della
curva di offerta).

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Quando il prezzo del cibo è uguale a a*LC/ a*LS, per i lavoratori di F sarà indifferente
produrre cibo o stoffa, poiché otterranno lo stesso guadagno.
5. Non vi può essere alcuna produzione di stoffa se il prezzo internazionale è superiore ad aLC/
aLS (offerta relativa di cibo infinita).
Se (Pc /Ps)INT > a*LC/ a*LS, sia H che F si specializzeranno nella produzione del cibo poiché
guadagnerebbero entrambi di più.
E per quanto riguarda la curva RD?
La costruzione della curva di domanda relativa RD non richiede un'analisi altrettanto dettagliata: la
sua inclineazione negativa riflette un effetto di sostituzione secondo cui all'aumentare del prezzo
relativo del cibo, i consumatori acquistano meno cibo e più stoffa, facendo diminuire la domanda
relativa di cibo.
A cosa corrisponde il prezzo relativo di equilibrio?
Il prezzo relativo di equilibrio del cibo è determinato dall'intersezione delle due curve: queste si
intersecano in corrispondenza di un prezzo intermedio, compreso tra i prezzi interni, precedenti
all'apertura del commercio internazionale (prezzo relativo di equilibrio = 1, compreso tra i prezzi
relativi precedenti ½ e 2). in questo caso, ogni paese si specializza nella produzione del bene in cui
ha un vantaggio comparato (H produce solo cibo e F solo stoffa).
Trascuriamo la possibilità che uno dei due paesi non si specializzi completamente: con la sola
eccezione rappresentata, il risultato del commercio internazionale è che il prezzo di uno dei beni
scambiati espresso in termini dell'altro bene si troverà in una posizione compresa tra i prezzi interni
precedenti al commercio fra i due paesi; l'effetto di questa convergenza è che ogni paese si
specializzerà nella produzione del bene che richiede, in quel paese, la minore quantità relativa di
lavoro per unità prodotta. L'aumento delp rezzo del cibo in H porterà il paese a specializzarsi
completamente nella produzione di cibo e a produrne una quantità corrispondente al punto F, come
si può evincere dal grafico. La riduzione del prezzo relativo del cibo in F porterà F a specializzarsi
nella produzione di stoffa e a produrne una quantità corrispondente al punto F*.

3.3.2 I vantaggi del commercio internazionale.


In virtù del processo di specializzazione, entrambi i paesi H e F godono dei vantaggi dal
commercio internazionale, ma ciò è dimostrabile? Sì, e in due modi:
1. Il commercio è un metodo indiretto di produzione:
Il paese H potrebbe produrre stoffa direttamente, ma il commercio con F consente di
“produrre” stoffa producendo prima cibo e scambiando quest'ultimo con stoffa; invece di
impiegare due ore di lavoro per produre un metro di stoffa, H può impiegare tale lavoro per
produrre due chili di cibo e scambiarlo con due metri di stoffa. Ricorrendo alle formule
precedenti: il paese H può utilizzare un'ora di lavoro per produrre direttamente 1/ aLS metri

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di stoffa oppure la può impiegare per produrre 1/ aLC chilogrammi di cibo, i quali saranno
scambiati ricevendo (Pc /Ps)INT per ogni chilogrammo. Dunque, attraverso lo scambio, un'ora
di lavoro produrrà 1/ aLC (Pc /Ps)INT metri di stoffa. Questa quantità sarò maggiore di quanto si
sarebbe potuto produrre direttamente se il prezzo relativo internazionale fosse maggiore
della produtività relativa del paese H; tuttavia, sappiamo che perché vi sia un equilibrio
internazionale, se entrambi i paesi sono specializzati, deve valere la formula citata, per cui
H può produrre stoffa in modo più efficiente utilizzando una produzione indiretta mediata
dal commercio internazionale, idem il paese F.
2. Il commercio modifica le possibilità di consumo del paese:
In assenza di commercio, le possibilità di consumo coincidono con le possibilità di produzione;
quando però si considera anche quest'ultimo, ogni economia si trova a poter consumare
combinazioni dei due beni diverse da quelle che produce. Il commercio internazionale allarga la
gamma di scelte aperte ai consumatori, quindi migliora il tenore di vita che essi possono
raggiungere.

3.3.3 Un esempio numerico.


Il vantaggio comparato non deve essere confuso con il vantaggio assoluto; è il vantaggio
comparato, e non assoluto, che determina chi dovrebbe produrre e chi produrrà un certo bene.
Prendiamo in considerazione un esempio numerico:
Supponiamo che nei paesi H e F siano disponibili le tecnologie indicate nella tabella seguente.

L'economia H impiega un numero minore di unità di lavoro, cioè ha una più alta probabilitù del
lavoro, in entrambi i settori: ha un vantaggio assoluto in entrambe le produzioni. Tuttavia, è
opportuno trascurare questo fatto per un momento e concentrarsi sulla struttura dei flussi del
commercio:
1. determinare il prezzo relativo del cibo Pc /Ps)INT, che dipenderà dalla domanda ma che in
ogni caso è collocato tra i valor idel costo-opportunità del cibo espresso in termini di stoffa
relativi a ciascun paese.
2. Se un chilo di cibo e un metro di stoffa sono venduti allo stesso prezzo, entrambi i paesi si
specializzeranno: per produrre un chilo di cibo, H avrà bisogno della metà delle ore di
lavoro che si impiegano per produrre un metro di stoffa. Di conseguenza i lavoratori
guadagneranno di più producendo cibo e il paese si specializzera nella produzione di cibo; lo
stesso varrà per il paese F, che si specializzerà nella produzione della stoffa.
3. H decide di produrre stoffa: nel caso di produzione diretta, un'ora di lavoro può produrre
solamente ½ metro di stoffa; la stessa ora potrebbe essere impiegata per produrre un
chilogrammo di cibo da scambiare con un metro di stoffa.
4. F decide di produrre cibo: nel caso di produzione diretta, un'pra di lavoro può produrre 1/6
chilogrammi di cibo, che, se utilizzate per produrre 1/3 metri di stoffa, potrebbero essere
utilizzate per ottenere tramite scambio 1/3 chilogrammi di cibo.
Il commercio internazionale, in questo esempio, consente a ogni paese di impiegare il porprio
lavoro con efficienza doppia rispetto alla situazione in cui tutti i beni devono essere prodotti
internamente.

3.3.4 Una nota sui salari relativi.


Il salario relativo dei lavoratori di un paese è l'ammontare che ricevono per ora lavorata rispetto
all'ammontare ricevuto per ora lavorata dai lavoratori dell'altro paese; quest'ultimo è compreso tra il
rapporto della produttività dei due paesi nei due settori. È proprio perché il salario è compreso tra le

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produttività relative che ogni paese realizza un vantaggio di costo nella produzione di un bene:
riprendendo l'esempio precedente, grazie al suo minor salario, il paese F ha un vantaggio di costo
nella produzione di stoffa, nonostante la sua minor produttività, mentre il paese H ha un vantaggio
nella produzione di cibo, nonostante il suo maggior salario, perché tale maggior salario è più che
compensato dalla sua maggior produttività.
Il modello a un solo fattore risulta molto utile per affrontare parecchi fraintendimenti circa il
significato dei vantaggi comparati e la natura dei benefici generati dal commercio.

3.4 Fraintendimenti circa i vantaggi comparati.


Tre fraintendimenti si presentrano frequentemente e in questo paragrafo useremo il modello di
vantaggi comparati per mostrare l'origine dell'errore.

3.4.1 Produttività e competitività.


Il libero commercio è vantaggioso solo se il proprio paese è abbastanza forte da sostenere la
concorrenza internazionale.
Cosa succederebbe se non ci fosse nulla che un paese può produrre più convenientemente o
efficientemente di altri, se non riducendo costantemente il costo del lavoro?
Con questa osservazione, si dimostra di non aver capito il punto fondamentale del modello di
Ricardo, e cioè che i vantaggi del commercio internazionale dipendono dal vantaggio comparato, e
non dal vantaggio assoluto. Un vantaggio assoluto nella produzione non è né una condizione
necessaria né una condizione sufficiente per avere un vantaggio comparato di quel bene. Nel
modello a un fattore la ragione di ciò è chiara: il vantaggio competitivo di un settore non dipende
solo dalla sua produttività rispetto all'industria strainera, ma anche dal rapporto tra i salari
nazionale ed esteri. A sua volta, il salario in un paese dipende dalla produtività relativa del lavoro in
tutti i settori. Proprio a causa del fatto che la sua produttività è complessivamente minore, i salari
pagati in F dovranno essere minori di quelli pagati in H: in particolare, essi dovranno essere tanto
minori da rendere il costo di produzione della stoffa più basso in F che in H.

3.4.2 La questione dei bassi salari.


Se basata su bassi salari, la concorrenza estera è scorretta e danneggia gli altri paesi.
Tale argomento, indicato come questione dei bassi salari, è molto spesso utilizzato dai sindacati
che desiderano ottenere misure protettive nei confronti della concorrenza estera: secondo
quest'ultimi, le industrie domestiche non dovrebbero essere costrette a misurarsi con industrie estere
meno efficienti ma favorite da più bassi salari.
Nell'esempio il paese H è più produttivo del paese F in entrambi i settori, mentre il minor costo di
produzione della stoffa nel paese F è dovuto interamente al minor livello del suo salario monetario.
Tuttavia, il basso salario pagato in F non ha alcuna rilevanza riguardo all'esistenza di vantaggi che
H trae dal commercio: che il basso costo della stoffa profotta in F sia dovuto ad alta produttività o a
bassi salari è del tutto ininfluente: ciò che importa al paese H è che sia più conveniente in termini
del proprio lavoro produrre cibo e scambiarlo con stoffa, anziché produrre direttamente stoffa.

3.4.3 Sfruttamento.
Il commercio internazionale sfrutta un paese e ne diminuisce il benessere, se i suoi lavoratori
riceono salari molto inferiori rispetto ai lavoratori di altri paesi.
Può sembraer insensibile cercare di giustificare in qualche modo salari estremamente bassi pagati a
molti lavoratori del mondo; tuttavia, se siamo interessati a valutare la desiderabilità del libero
scambio, non dobbiamo chiederci invece se questi e i loro paesi stiano peggio esportando beni
grazie ai loro bassi salari di quanto non starebbero non esportando affatto. Qual è l'alternativa?
L'esempio precedente chiarisce che non è possibile sostenere che un basso salario generi
sfruttamente senza tenere conto della situazione alternativa che si realizzerebbe in assenza di
commercio internazionale: negare loro l'opportunità di esportare e di commerciare equivarrebbe a
condannarli ad una povertà ancor peggiore.

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Focus. I salari riflettono la produttività?


Nel mondo reale i salari riflettono effettivamente le differenze di produttività tra paesi: nella figura
che segue vengono confrontate alcune stime della produttività e dei salari per un gruppo di paesi nel
2011; entrambe le variabili sono espresse in rapporto ai livelli delle corrispondenti grandezze per gli
Stati Uniti. La misura di produttività è il PIL per lavoratore misurato in dollari, mentre per quanto
riguarda i salari, la stima utilizzata è il salario pagato nel settore manifatturiero.

Se i salari fossero esattamente proporzionali alla produttività, tutti i punti nel grafico dovrebbero
trovarsi sulla bisettrice: in effetti, ciò è quanto approssimativamente si verifica; in particolare, i
bassi salari in Cina e India riflettono la bassa produttività di questi paesi. Secondo la teoria dei
vantaggi comparati, i paesi esportano beni nella cui produzione sono relativamente più produttivi,
quindi bisogna aspettarsi che la produttività relativa della Cina in quei settori sia significamente
maggiore della sua produttività media. Il grafico ci permette di capire che le previsioni degli
economisti secondo cui i salari riflettono la produttività dei paesi è effettivamente confermata dai
dati in un preciso istante nel tempo.

3.6 Costi di trasporto e beni non commerciabili.


L'introduzione dei costi di trasporto non muta il principio fondamentale dei vantaggi comparati, né
la spiegazione dei vantaggi del commercio internazionale; tuttavia, poiché essi impongono ostacoli
al movimento di beni e servizi, hanno importanti conseguenze sul modo in cui le economie aperte al
commercio internazionale sono influenzate da fattori quali gli aiuti economici internazionali e gli
investimenti internazionali, e da problemi di bilancia dei pagamenti. La prima cosa da osservare è
che l'economia mondiale è caratterizzata da una specializzazione internazionale estrema: infatti, non
può esservi più di un bene prodotto al tempo stesso da entrambi i paesi. Ci sono tre motivi
fondamentali per cui la specializzazione in realtà non è così estrema:
– l'esistenza di più di un fattore produttivo diminuisce la tendenza verso la specializzazione;
– talvolta i paesi proteggono le proprie industrie dalla concorrenza itnernazionale;
– il trasporto di beni e servizi è costoso e in alcuni casi questo costo è sufficientemente alto da
indurre alcuni paesi all'autosufficienza in un certo numero di settori.
Esempio: suppoinamo che trasportare i beni abbia un costo e che questo sia una frazione uniforme
del costo di produzione, il 100%: questo costo di trasporto scoraggerà il commercio internazionale,
tanto dal punto di vista di H (non conviene produrre internamente una quantità di bene che desidera
consumare anziché importarla) che di F (troverà più conveniente produrre un bene anziché
importarlo, qualora su esso gravi un costo di trasporto del 100%).
Anche se è stato assunto che i costi di trasporto in ogni settore siano la stessa frazione del costo di
produzione, in realtà essi presentano una grande variabilità settoriale. In alcuni casi il trasporto è
pressoché impossibile: servizi come tagli di capelli o la riparazione di automobili non possono
essere commerciati internazionalmente; analogamente, il commercio internazionale può essere

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molto limitato nel caso di beni con un alto rapporto peso-valore. In generale, molti beni non
vengono scambiati sui mercati internazionali o per l'assenza di forti vantaggi di costo o per la
presenza di alti costi di trasporto. È importante notare che i paesi spendono una frazione elevata del
proprio reddito in beni non commerciati sui mercati internazionali.

Capitolo 5. Risorse e commercio: il modello di Heckscher-Ohlin.


Un’analisi realistica del commercio internazionale deve tener conto di altri fattori oltre al lavoro,
per esempio la terra, il capitale o le risorse minerarie; il modello che sarà presto analizzato
dimostrerà come le differenze tra le dotazioni di risorse sono la sola causa del commercio: questo
mostra come i vantaggi comparati sono determinati dall’interazione tra le risorse di cui i paesi
dispongono (l’abbondanza relativa dei fattori di produzione) e le tecniche di produzione (che
influenzano l’intensità relativa con cui i fattori sono utilizzati nei diversi settori).
La teoria secondo cui il commercio internazionale è in larga misura determinato dalle differenze
nelle dotazioni di risorse, che prende il nome di teoria di Heckscher-Ohlin o teoria della
proporzione dei fattori (sottolineando l’importanza di interazione fra le proporzioni in cui i fattori
sono disponibili in paesi diversi) è una delle più importanti dell’economia internazionale. A
differenza di quanto avviene nel modello di Ricardo con un solo fattore produttivo, il commercio
internazionale può influenzare la distribuzione del reddito tra fattori, anche nel lungo periodo.

5.1 Un’economia a due fattori.


In questo capitolo ci soffermeremo sulla versione del modello “2 per 2 per 2”: due paesi, due beni e
due fattori di produzione. Consideriamo nuovamente come beni la stoffa e il cibo e supponiamo i
fattori immobili che erano specifici in ciascun settore sono mobili nel lungo periodo (per esempio, il
capitale usato per acquistare un telaio elettrico può essere utilizzato per acquistare un trattore). Per
mantenere semplice il modello, l’unico valore aggiunto sarà il capitale (K), usato assieme al lavoro
per produrre stoffa o cibo. Nel lungo periodo, K e L possono spostarsi da un settore all’altro,
determinando un guadagno (rendimento e salario) identico nei due settori.

5.1.1 Prezzi e produzione.


Sia la stoffa sia il cibo sono prodotti con l’impiego di capitale e lavoro; la quantità prodotta di
ciascun bene, data la quantità impiegata di capitale e lavoro in ogni settore, è determinata dalla
funzione di produzione per ciascun bene:

Qs = Qs (Ks ; Ls)
Qc = Qc (Kc ; Lc)

Dove con Qs e Qc si intendono i livelli di produzione della stoffa e del cibo, Ks, Ls, Kc e Lc la quantitò
di capitale e lavoro impiegate nella produzione di stoffa e cibo; si noti come l’economia ha
un’offerta fissa di capitale e lavoro, occupata nei due settori.
Le due tecnologie di produzione sono espresse da:
- aKS = capitale impiegato per produrre un metro di stoffa;
- aLS = ore di lavoro necessarie per produrre un metro di stoffa;
- aKC = capitale impiegato per produrre una caloria di cibo;
- aLC = ore di lavoro necessarie per produrre una caloria di cibo.
In queste definizioni ci riferiamo alla quantità di lavoro usata per produrre un certo ammontare di
cibo o stoffa, non alla quantità richiesta per produrla: ciò avviene perché, rispetto al modello
ricardiano, con la presenza di due fattori ci può essere un certo margine di scelta nell’utilizzo degli
input.
In generale, queste scelte dipendono dai prezzi dei fattori per lavoro e capitale; tuttavia,
consideriamo prima il caso particolare in cui esiste un’unica combinazione di input per produrre un
certo bene: tutte le quantità necessarie di input per unità di lavoro sono fisse e non è possibile
sostituire lavoro al capitale (o viceversa). In questo caso speciale senza possibilità di sostituire dei

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fattori nella produzione, la frontiera delle possibilità produttive dell’economia può essere derivata
usando questi due vincoli di risorse per il capitale e per il lavoro:
- vincolo di risorse per il capitale, secondo cui le ore-macchina totali impiegate per la
produzione di stoffa e cibo non possono superare l’offerta totale di capitale:

aKS Qs + aKC QC ≤ K

- vincolo di risorse per il lavoro, secondo cui le ore-lavoro totali utilizzate nella produzione
non possono superare l’offerta totale di lavoro:

aLS Qs + aLC QC ≤ L

In questo caso, però, l’economia deve produrre rispettando entrambi I vincoli, per cui la frontiera
delle possibilità produttive è rappresentata da una linea spezzettata, come nel grafico che segue: se
l’economia si specializza nella produzione di cibo si avrà capacità inutilizzata di lavoro (1000 ore-
uomo su 2000 disponibili – punto 1), viceversa se l’economia dovesse specializzarsi nella
produzione di stoffa, generando una capacità inutilizzata di capitale (punto 2). Sarà nel punto di
produzione 3 che l’economia impiegherà tutte le risorse di lavoro e capitale disponibili.

La caratteristica importante di questa frontiera è che il costo-opportunità della produzione di


un ulteriore metro di stoffa in termini di cibo non è costante: difatti, se nel punto 1 il costo
opportunità della stoffa è pari a 2/3 (specializzazione nel settore del cibo), nel punto 2 il
costo opportunità della stoffa sarà pari a 2, ovvero più alto (specializzazione nel settore della
stoffa).
Rendendo il modello più realistico, ovvero introducendo la possibilità di sostituire capitale e
lavoro nella produzione di entrambi i beni, vi sarà una frontiera curva, che indica appunto
che il costo-opportunità per produrre un’ulteriore unità di stoffa in termini di cibo aumenta
man mano che l’economia produce più stoffa e meno cibo.

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In quale punto lungo la frontiera delle possibilità produttive si troverà la combinazione di


beni prodotta dall’economia? L’economia sceglierà quella combinazione che massimizza il
valore della produzione, la cui equazione è data da:

V = PC QC + PS QS
dove Pc e Ps sono rispettivamente i prezzi di cibo e stoffa. Definiamo retta di isovalore la
linea lungo la quale il valore della produzione è costante; ha pendenza pari a – Ps/Pc e nel
punto Q, dato dall’incontro della frontiera delle possibilità produttive alla più alta retta di
isovalore, la pendenza della frontiera è pari a – Ps/Pc ed il costo opportunità della produzione
di un’ulteriore unità di stoffa in termini di cibo è uguale al prezzo relativo della stoffa.

5.1.2 La scelta della combinazione di fattori produttivi.


I produttori di ogni settore, nel modello neoclassico, non sono vincolati all’utilizzo di quantità fisse
di fattori produttivi per ogni unità di bene prodotta, ma potranno scegliere tra diverse combinazioni
di input. Quale combinazione sceglieranno i produttori? Dipende dal costo relativo del capitale e del
lavoro. Se il rendimento del capitale è alto e i salari bassi, i contadini decideranno di utilizzare
relativamente poco capitale e molto lavoro; al contrario, se i rendimenti sono bassi e i salari alti,
decideranno di risparmiare sull’utilizzo di lavoro e impiegheranno molto più capitale. Indicando
con w il salario orario e con r il rendimento del capitale, la scelta della combinazione di input
dipenderà dal rapporto fra questi due prezzi dei fattori, w/r2. La relazione rappresentata è affiancata
alla relazione lavoro-capitale nella produzione di stoffa nel grafico che segue:

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Come si vede nel grafico, la curva SS si trova a destra della curva CC, a indicare che, per ogni
valore del prezzo relativo dei fattori, la produzione di stoffa richiede un lavoro lavoro-capitale
maggiore di quello richiesto dalla produzione di cibo. In questo caso, la produzione di stoffa è
intensiva in lavoro, mentre quella di cibo è intensiva in capitale. Si noti che la definizione di
intensità dipende dal rapporto lavoro-capitale utilizzato nella produzione non dal rapporto tra lavoro
e capitale e quantità prodotta. Pertanto, un bene non può essere al tempo stesso tempo intensivo in
capitale e lavoro.
Le curve rappresentate sono dette “curva di domanda relativa dei fattori” e sono molto simili alle
curve di domanda relativa per i beni. L’inclinazione negativa rappresenta l’effetto di sostituzione
nella domanda di fattori da parte dei produttori. Quando il salario w aumenta rispetto al rendimento
r, i produttori sostituiscono il capitale al lavoro nelle decisioni di produzione.

5.1.3 Prezzi dei fattori e prezzi dei beni.


Supponiamo per un momento che l’economia presa in considerazione produca sia stoffa che cibo: la
concorrenza tra i produttori in ciascun settore assicura che il prezzo di ciascun bene sia uguale al
suo costo di produzione (che, a sua volta, dipende dai prezzi dei fattori): all’aumentare del salario, il
prezzo dei beni prodotti usando lavoro aumenterà. Tuttavia, l’importanza del prezzo di un
particolare fattore nella determinazione del costo di un bene dipende dalla quantità di quel fattore
usata nella produzione di quel bene: in questo caso, se la produzione di stoffa usa molto lavoro, un
aumento del salario avrà un effetto significativo sul prezzo della stoffa. Esiste una relazione
biunivoca tra il rapporto salario-rendimento, w/r, e il rapporto tra il prezzo della stoffa e il prezzo
del cibo, Ps/Pc.

Mettendo assieme i due grafici, è facilmente intuibile un legame tra i prezzi dei beni e il rapporto
lavoro-capitale usato nella produzione di ciascun bene: se l’economia produce entrambi i beni (cibo

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e stoffa), il prezzo relativo della stoffa sarà PS/PC1, il rapporto salario e rendimenti è pari al valore
w/r1 ed il rapporto lavoro-capitale impiegato nella produzione di quest’ultimi sia pari a LS/KS1 e
LC/KC1. Tuttavia, se il prezzo relativo della stoffa dovesse aumentare, aumenterà di conseguenza il
rapporto tra salario e rendimento; poiché il lavoro è relativamente più costoso, il rapporto lavoro-
capitale usato nella produzione di stoffa e cibo diminuirebbe. Un aumento del prezzo della stoffa
rispetto a quello del cibo farà aumentare il reddito dei lavoratori rispetto a quello dei proprietari di
capitale; tale variazione dei prezzi relativi farà certamente aumentare il potere di acquisto dei
lavoratori e diminuire invece quello dei proprietari del capitale, perché farà aumentare i salari reali e
diminuire il rendimento reale in termini di entrambi i beni: infatti, quando PS/PC aumenta, il
rapporto lavoro-capitale si riduce sia nella produzione di stoffa che nella produzione di cibo. Ma in
una economia concorrenziale i fattori di produzione sono pagati al loro prodotto marginale: il
salario reale dei lavoratori in termini di stoffa è uguale alla produttività marginale del lavoro nella
produzione di stoffa e così via. Quando il rapporto lavoro-capitale si riduce in entrambi i beni, il
prodotto marginale del lavoro in termini di ciascun bene aumenta, perciò i lavoratori vedono
aumentare il loro salario reale in termini di entrambi i beni, al contrario del prodotto marginale del
capitale, che finisce per diminuire in entrambi i settori (i proprietari di capitale subiscono una
riduzione del loro reddito reale in termini di entrambi i beni).
In conclusione, le variazioni dei prezzi relativi hanno effetti rilevanti sulla distribuzione del reddito
al punto che i proprietari di un fattore guadagnano mentre i proprietari dell’altro subiscono perdite.

5.1.4 Risorse e produzione.


Come le variazioni delle risorse (l’offerta totale di un fattore) influenzano l’allocazione dei fattori
tra settori e le quantità prodotte?
Supponiamo che il prezzo relativo della stoffa, PS/PC, sia dato, e che sia associato a un dato rapporto
salario-rendimento w/r; tale rapporto, a sua volta, determina il rapporto lavoro-capitale usato nei
settori della stoffa e del cibo, rispettivamente LS/KS e LC/KC. Supponiamo che la forza lavoro
dell’economia cresca e di conseguenza il rapporto aggregato lavoro-capitale dell’economia, L/K,
aumenti; a un dato prezzo relativo della stoffa il rapporto lavoro-capitale impiegato in entrambi i
settori rimane costante, ma come l’economia impiega le ore di lavoro aggiuntive? La risposta si
trova nell’allocazione di lavoro e capitale tra settori: il rapporto lavoro-capitale nel settore della
stoffa è maggiore di quello del settore cibo, perciò l’economia può aumentare l’impiego di lavoro
rispetto a quello di capitale allocando più lavoro e capitale alla produzione di stoffa (la cui
produzione è intensiva in lavoro). Quando lavoro e capitale si spostano dal settore del cibo a quello
della stoffa, l’economia produce più stoffa e meno cibo. Qual è l’effetto delle risorse sulle
possibilità produttive dell’economia? Nel grafico che segue, sono rappresentate due curve TT: la
prima indica le possibilità produttive prima dell’aumento dell’offerta di lavoro (output 1, dove la
pendenza della frontiera è uguale a -PS/PC, dove l’economia produce QS di stoffa e QC di cibo), la
seconda la FPP dopo l’aumento dell’offerta di lavoro, spostatasi verso l’esterno, per cui l’economia
produrrà più stoffa e meno cibo di prima. Tuttavia ciò che avviene è una espansione distorta delle
possibilità produttive, ovvero la frontiera si sposta più in direzione di un bene che dell’altro,
comportando una riduzione della produzione di cibo e un aumento notevole della produzione di
stoffa: ciò ci fa comprendere come le differenze tra dotazioni di risorse diano luogo al commercio
internazionale; un aumento dell’offerta di lavoro espande le possibilità produttive in misura
sproporzionata verso la produzione di stoffa, mentre un aumento dell’offerta di capitale aumenterà
le aumenterà sproporzionatamente verso la produzione di cibo. In generale, un’economia tenderà a
essere relativamente efficiente nella produzione dei beni intensivi nei fattori di cui essa è
relativamente ben dotata.

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5.2 Effetti del commercio fra economie a due fattori.


Cosa accade quando due economie di questo tipo commerciano tra loro? Supponiamo che H e F
siano paesi uguali per molti aspetti, che dispongano della stessa tecnologia ma che la dotazione di
risorse sia differente: il rapporto fra offerta di lavoro e di capitale è più alto in H che in F.

5.2.1 Prezzi relativi e struttura del commercio internazionale.


Poiché H ha un rapporto lavoro-capitale più alto di F, diremo che H è relativamente abbondante di
lavoro, mentre F è relativamente abbondante di capitale. Si noti che questa abbondanza è definita
in termini relativi, confrontando i rapporti fra l’offerta di lavoro e di capitale nei due paesi, cosicché
nessun paese può avere abbondanza relativa di ogni fattore.
Essendo la stoffa un bene intensivo in lavoro, la frontiera delle possibilità produttive del paese H
appare spostata verso l’esterno in direzione della stoffa più che in direzione del cibo; per questo, a
parità di altre condizioni, H tenderà a produrre un rapporto stoffa-cibo più alto di F. Poiché il
commercio internazionale provoca una convergenza dei prezzi relativi, il prezzo della stoffa in
termini di cibo risulterà uguale nei due paesi, ma differendo in dotazioni di risorse, H produrrà un
rapporto stoffa-cibo più elevato di F, ovvero l’offerta relativa di stoffa (RSS) sarà maggiore in H che
in F e la curva di offerta relativa di H si troverà a destra di quella di F, mentre la domanda relativa,
che ipotizziamo essere la stessa per entrambi i paesi, è indicata con RD.
Se non ci fosse commercio internazionale, il prezzo relativo della stoffa sarebbe minore in H
rispetto a F; quando invece H e F commerciano tra loro, i prezzi relativi dei beni convergono: il
prezzo della stoffa aumenta in H e diminuisce in F e si stabilisce un nuovo prezzo internazionale di
equilibrio in un punto compreso tra i prezzi relativi in assenza di commercio.

Un’economia risponde all’apertura del commercio sulla base della direzione del cambiamento del
prezzo relativo dei beni, per cui H esporterà stoffa mentre F esporterà cibo, poiché in entrambi i
paesi il prezzo relativo nei settori citati aumenterà. H diventa un esportatore di stoffa poiché
abbondante di lavoro rispetto ad F e perché la produzione di stoffa è intensiva in lavoro; viceversa,
F diventa esportatore di cibo poiché relativamente ricco di capitale e perché la produzione di cibo è
intensiva in capitale. Tali previsioni sulla struttura del commercio possono essere generalizzate con

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il teorema di Heckscher-Ohlin secondo cui il paese che è relativamente abbondante di un fattore


o più fattori esporta il bene la cui produzione è intensiva in quel fattore.

5.2.2 Commercio internazionale e distribuzione del reddito.


Il commercio internazionale può produrre effetti particolarmente rilevanti sulla distribuzione del
reddito anche nel lungo periodo. Nel paese H, dove il prezzo relativo della stoffa aumenta, coloro
che derivano il proprio reddito dal lavoro sono favoriti dall’apertura del commercio internazionale,
mentre coloro che derivano il proprio reddito dal capitale sono sfavoriti. Nel paese F, dove il prezzo
relativo della stoffa diminuisce, succede l’opposto: i lavoratori sono sfavoriti e i proprietari del
capitale sono favoriti.
Definendo fattore abbondante di un paese quel fattore di cui il paese ha una dotazione
relativamente grande e fattore scarso di un paese quel fattore di cui il paese ha una dotazione
relativamente piccola, la conclusione che possiamo trarre è che in ciascun paese, i proprietari dei
fattori abbondanti traggono un beneficio dall’apertura del commercio internazionale, mentre i
proprietari dei fattori scarsi vengono danneggiati.

Capitolo 6. Il modello generale del commercio internazionale.


I modelli precedentemente studiati possono essere interpretati come casi particolari di un modello
più generale di commercio internazionale. Molti problemi importanti per l’economia internazionale
possono essere studiati utilizzando questo modello generale, e solo alcuni dettagli dell’analisi
dipendono dalla scelta di un modello specifico.

6.1 Un modello generale di economia aperta agli scambi.


Il modello base del commercio internazionale è costruito su quattro relazioni fondamentali:
- la relazione fra frontiera delle possibilità produttive e la curva di offerta relativa;
- la relazione fra prezzi relativi e domanda relativa;
- la determinazione dell’equilibrio internazionale attraverso domanda e offerta relative
mondiali;
- l’effetto delle ragioni di scambio sul benessere della nazione.

6.1.1 Possibilità produttive e offerta relativa.


Per costruire il nostro modello base supporremo le medesime condizioni dei capitoli precedenti
(cibo e stoffa prodotti): il punto della frontiera delle possibilità produttive sul quale l’economia si
colloca dipende dal prezzo relativo della stoffa in termini di cibo, PS/PC. Dati i prezzi di mercato,
un’economia sceglierà i livelli di produzione in grado di massimizzare il valore del suo prodotto PS
QS + PC QC (dove con QS e QC si fa riferimento alle quantità prodotte di stoffa e cibo). Possiamo
rappresentare il valore di mercato del prodotto tracciando delle rette di isovalore (linee lungo le
quali il valore del prodotto è costante), definite dall’equazione PS QS + PC QC = V, dove V
rappresenta il valore del prodotto; maggiore è V, più lontana dall’origine sarà la curva di isovalore:
così, rette di isovalore più lontane dall’origine corrispondono a valori più elevati di prodotto.
Inoltre, l’inclinazione di una retta di isovalore è uguale a -PS/PC.

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Supponiamo che il prezzo relativo della stoffa (PS/PC) aumenti: dopo il cambiamento deprezzo, la
retta di isovalore diventerà più inclinata, passando da VV1 a VV2; di conseguenza, il punto scelto
sulla frontiera delle possibilità produttive cambierà. Un aumento del prezzo relativo della stoffa
porta l’economia a produrre più stoffa e meno cibo, quindi l’offerta relativa di stoffa aumenterà in
seguito all’aumento del prezzo relativo della stoffa.

6.1.2 Prezzi relativi e domanda.


Il valore dei beni consumati da un’economia deve essere pari al valore di ciò che essa produce:

PS DS + PC DC = PS QS + PC QC = V

Dove Ds e DC indicano rispettivamente il consumo di stoffa e cibo. Questa equazione ci dice che la
produzione e il consumo devono giacere sulla stessa retta di isovalore.
La scelta del putto su cui collocarsi lungo la retta di isovalore dipende dalle preferenze dei
consumatori: assumendo i gusti di un solo individuo rappresentativo, è possibile rappresentare
graficamente questa serie di scelte per mezzo di curve di indifferenza (insieme di combinazioni di
bene che procurano all’individuo lo stesso livello di soddisfazione). Le curve di indifferenza
godono di tre proprietà:
- Hanno inclinazione negativa;
- Quando più una curva di indifferenza si colloca in alto e a destra, tanto maggiore è il livello
di benessere a essa associato;
- Le curve di indifferenza diventano più piatte quando ci si sposta a destra (sono concave
all’origine): quanto più S e quanto meno C un individuo consuma, tanto più preziosa sarà
per lui, al margine, una unità di C rispetto a un’unità di S.
L’economia sceglierà il punto sulla retta di isovalore che da luogo al massimo benessere; tale punto
coinciderà con il punto di tangenza fra la retta di isovalore e la curva di indifferenza più alta tra
quelle che l’economia può raggiungere. Ciò accade, nel grafico in basso, nel punto D, nel quale
l’economia esporta stoffa e importa cibo.
Quando il prezzo relativo della stoffa aumenta, l’economia produrrà più stoffa e meno cibo,
modificando la produzione, da Q1 a Q2, la retta di isovalore, che si sposterà da VV1 a VV2, e la scelta
di consumo, da D1 a D2. Lo spostamento della combinazione di scelta di consumo è effetto di due
effetti causati dall’aumento del prezzo relativo, quali l’effetto reddito, associato ad un aumento di
benessere (spostamento ad una curva di indifferenza più alta), e l’effetto sostituzione, associato alla
modifica del consumo ad un dato livello di benessere (la stoffa, relativamente più costosa, comporta
la scelta di un maggior consumo di cibo a scapito della stoffa). Mentre l’effetto reddito tende ad
aumentare il consumo di entrambi i beni, l’effetto sostituzione fa si che l’economia consumi meno
S e più C.

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Il grafico mostra come l’aumento del prezzo relativo della induca ad un aumento della produzione
relativa della stoffa e una diminuzione del consumo relativo della stoffa. Questa variazione del
consumo relativo cattura l’effetto di sostituzione della variazione del prezzo. Se l’effetto reddito
della variazione di prezzo è sufficientemente forte, allora i livelli di consumo di entrambi i beni
potrebbero aumentare (DS e DC aumentano), ma l’effetto sostituzione della domanda ci dice che il
consumo relativo di stoffa, DS/DC, diminuisce. Se l’economia non può commerciare, consuma e
produce nel punto 3.

6.1.3 Effetti di benessere delle variazioni delle ragioni di scambio.


Per riassumere tutti i casi di variazioni dei prezzi relativi, possiamo definire la ragione di scambio
come il rapporto tra il prezzo del bene che un paese esporta, nella situazione iniziale, e il prezzo del
bene che un paese importa. La regola generale sarà dunque che un aumento delle ragioni di
scambio migliora il benessere di un paese, mentre una loro diminuzione lo riduce (effetto ragione
di scambio).
Tuttavia, si noti che variazioni nelle ragioni di scambio di un paese non possono mai ridurre il
benessere del paese al di sotto del livello di benessere in assenza di commercio. Valgono anche le
medesime precisazioni già discusse: raramente i guadagni aggregati sono equamente distribuiti, e
quindi vi saranno sia guadagni che perdite per i singoli consumatori.

Capitolo 7. Le economie di scala e la localizzazione della produzione.


Nei capitoli precedenti sono stati considerati modelli in cui il commercio internazionale veniva
giustificato sulla base dei soli vantaggi comparati; dunque, le differenze fra i paesi erano l’unica
determinante del commercio. Al contrario, n questo capitolo viene introdotto il ruolo delle
economie di scala.
In presenza dei rendimenti crescenti, le grandi imprese hanno un vantaggio tale sulle piccole
imprese che il mercato internazionale tende a essere controllato da una sola impresa (monopolio) o,
più spesso, da un limitato numero di imprese (oligopolio). Se ciò avviene, la nostra analisi del
commercio internazionale deve tenere in considerazione gli effetti della concorrenza imperfetta.

7.1 Economie di scala e commercio internazionale: uno sguardo preliminare.


I modelli di vantaggio comparato precedentemente citati sono fondati sull’ipotesi dei rendimenti
costanti di scala (se i fattori utilizzati in un settore vengono raddoppiati, anche il livello di
produzione raddoppia); tuttavia, nella pratica, molti settori sono caratterizzati dalle economie di
scala, per cui la produzione è tanto più efficiente quanto maggiore è la scala di produzione. In
presenza delle economie di scala, quando raddoppiano gli input la produzione più che raddoppia.

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Riportando la seguente tabella è possibile compiere un esempio pratico: ipotizziamo che un bene
venga prodotto utilizzando solo un fattore, ovvero il lavoro; la tabella mostra come l’ammontare di
lavoro impiegato dipenda dal numero di unità prodotte. La presenza di economie di scala si rileva
dal gatto che raddoppiando l’impiego del lavoro, la produzione più che raddoppia e, in modo
equivalente, l’impiego di lavoro diminuisce. Possiamo utilizzare questo esempio per capire perché
le economie di scala offrono un incentivo al commercio internazionale. Immaginiamo un modo in
cui esistono il paese H e F e di concentrare tutta la produzione nel paese H; l’economia mondiale di
questo paese potrebbe aumentare del 25%, continuando però a utilizzare la stessa quantità di lavoro.
Per poter espandere la produzione di alcuni beni, tuttavia, H dovrebbe contrarre o abbandonare la
produzione di altri beni, che saranno di conseguenza prodotti dal paese F, utilizzando il fattore
lavoro prima occupato nel settore che si sta espandendo in H. Per sfruttare le economie di scala,
ogni paese deve concentrare la propria attività produttiva su un numero limitato di beni. Se ogni
paese producesse solo alcuni beni, ogni bene potrebbe essere prodotto in una scala più ampia di
quanto non sarebbe se ogni pase tentasse di produrli tutti: l’economia mondiale può dunque ottenere
maggiori quantità di bene. I consumatori di ogni paese vogliono ancora consumare una pluralità di
prodotti e, in questo caso, il commercio internazionale ricopre un ruolo cruciale: permette a ogni
paese di produrre un insieme limitato di beni e quindi di trarre vantaggio dalle economie di scala,
senza sacrificare la varietà dei beni consumati. Il nostro esempio suggerisce che possono emergere
scambi mutualmente vantaggiosi come risultato delle economie di scala. Ogni paese si specializza
nella produzione di un insieme limitato di beni e li produce in modo più efficiente rispetto al caso di
produzione di tutti i tipi di beni; queste economie specializzate commerciano tra di loro per poter
consumare l’insieme completo di beni.

7.2 Economie di scala e struttura di mercato.


Per analizzare gli effetti delle economie di scala sulla struttura di mercato, è necessario chiarire
quale tipo di aumento di produzione è necessario per ridurre il costo medio. Le economie di scala
esterne si verificano quando il costo unitario dipende dall’ampiezza del settore ma non
necessariamente da quella dell’impresa. Le economie di scala interne si verificano quando il costo
unitario dipende dalla grandezza di una singola impresa ma non necessariamente da quella del
settore. Immaginiamo un settore che all’inizio è formato da dieci imprese, ognuna delle quali
produce 100 unità di bene (per una produzione totale di 1000 unità): se il settore raddoppiasse la sua
impresa, consistendo di venti imprese, sarebbe possibile che i costi medi di ciascuna impresa
diminuiscano in seguito all’aumento della dimensione del settore. Se è così, si tratta di un caso di
economie di scala esterne, per cui l’efficienza delle imprese aumenta con un settore più grande,
sebbene non si modifichi la grandezza della singola impresa. Al contrario, se si dimezzi il numero
delle imprese con un aumento di produttività per impresa pari a 200 unità, i costi medi di
produzione diminuiscono, per cui vi sarà un’economia di scala interna: un’impresa è più efficiente
se è più grande. Un settore dove vi sono economie esterne sarà caratterizzato da molte piccole
imprese in concorrenza perfetta, mentre le economie interne di scala causano una struttura di
mercato di concorrenza imperfetta.

7.3 La teoria delle economie esterne.


Quando le economie di scala avvengono a livello di settore, invece che a livello di impresa, esse

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vengono definite economie esterne. La loro analisi è opera dell’economista inglese Alfred Marshall,
che rimase colpito del fenomeno dei “distretti industriali”, concentrazioni spaziali di imprese che
non potevano essere facilmente spiegate dalla disponibilità di risorse naturali.
Vi sono molti esempi di industrie dove sembrano operare potenti economie esterne: tra questi è
possibile citare Hollywood e l’industria dell’intrattenimento, Silicon Valley e l’industria dei
semiconduttori, la Cina e le numerose città industrie (biancheria intima, accendini). Marshall
sosteneva che ci sono tre ragioni principali per un gruppo di imprese geograficamente concentrato
(cluster) può essere più efficiente di un’impresa isolata: la capacità del cluster di attirare fornitori
specializzati, di generare un bacino di lavoratori con qualifiche adatte e di promuovere spillover
di conoscenza.

7.3.1 Fornitori specializzati.


In molti settori, la produzione di beni e servizi richiede l'uso di macchinari o servizi specializzati;
un gruppo localizzato di imprese può risolvere questo problema virgola in quanto la presenza di
molte imprese crea un mercato abbastanza ampio da incentivare la presenza di un'ampia gamma di
fornitori specializzati. Riprendendo la Silicon Valley, il settore di componentistica indipendente ha
permesso l’espansione dell’industria dei semiconduttori, liberando i singoli produttori dal costo
legata allo sviluppo autonomo dei beni capitali e consentendo di distribuire i costi di sviluppo tra
più imprese. Esso ha anche rafforzato la tendenza alla concentrazione geografica delle industrie
poiché molti pare molti di questi input specializzati non erano disponibili in altre aree del paese.

7.3.2 Concentrazione del mercato del lavoro.


Un distretto può indurre una concentrazione del mercato del lavoro con qualifiche altamente
specializzate e tale concentrazione è vantaggiosa sia per i produttori che per i lavoratori: i primi
perché corrono meno rischi di carenza di manodopera qualificata e i secondi rischiano meno la
disoccupazione. Immaginiamo che ci siano due imprese che utilizzano lo stesso tipo di lavoro
specializzato e non sono sicuri di quanti lavoratori assumere: confrontiamo una situazione nella
quale entrambe le imprese e tutti i lavoratori sono nella stessa città, contro un’altra situazione in cui
le imprese e i lavoratori sono divisi tra due città diverse. È facile intuire che sia i produttori che i
lavoratori staranno meglio se la produzione avrà luogo nella stessa città.
Dal punto di vista delle imprese, localizzandosi nella stessa città le imprese aumentano la
probabilità di sfruttare al meglio le opportunità commerciali; di contro, dal punto di vista dei
lavoratori la concentrazione dell’industria nella stessa area è un vantaggio ed il rischio di
disoccupazione sarà minore.

7.3.3 Spillover di conoscenza.


La conoscenza specifica fondamentale per il successo delle industrie innovative avviene per mezzo
dell’attività di ricerca e sviluppo, propria dell’impresa stessa, o imparando dai concorrenti e
studiando i loro prodotti. Un’altra fonte importante di conoscenza tecnologica è tuttavia quella dello
scambio informale di indicazioni e di idee che avviene più efficacemente quando un’industria è
concentrata in un’area abbastanza circoscritta, in modo che i lavoratori di imprese diverse possano
incontrarsi nella vita sociale e parlare liberamente di questioni tecniche legate al proprio lavoro.
Secondo Marshall, “i misteri del commercio non sono più tali, ma si sentono nell’aria. Il buon
lavoro è giustamente apprezzato, le invenzioni e i miglioramenti nei macchinari e nei processi e
l’organizzazione generale del lavoro hanno riscontro immediato: se una persona ha una nuova
idea, gli altri vi partecipano attivamente; e in questo modo diventa fonte di ulteriori nuove idee”.

7.3.4 Economie esterne ed equilibrio di mercato.


A parità di altre condizioni, ciò che conta nelle economie di scala è la dimensione dell’industria: un
settore più grande genererà economie di scala esterne più forti. Che cosa ci dice questa
considerazione sulla determinazione della produzione e dei prezzi? Assumendo che i costi di
un’industria siano inferiori all’aumentare dell’industria stessa e ignorando la presenza di commercio

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internazionale, l’equilibrio di mercato può essere rappresentato da un diagramma di domanda e


offerta come segue.

In una classica rappresentazione dell’equilibrio di mercato, la curva di domanda è inclinata


negativamente, mentre quella di offerta è inclinata positivamente. Tuttavia, in presenza di economie
di scala, si ha una curva di offerta inclinata negativamente: quanto maggiore è l’output del
settore, tanto minore sarà il prezzo alla quale le imprese sono disposte a vendere i loro prodotti
perché il loro costo medio di produzione si riduce all’aumentare della produzione del settore. In
assenza di commercio internazionale, l’inclinazione inusuale della curva di offerta non sembra
particolarmente rilevante; il prezzo di equilibrio e la produzione di equilibrio sono determinati
dall’intersezione tra la curva di domanda e la curva di offerta.

7.4 Economie esterne e commercio internazionale.


Le economie di scala esterne giocano un ruolo importante nel commercio interno e nel commercio
internazionale. Ma quali sono le implicazioni di questo tipo di commercio?

7.4.1 Economie esterne, produzione e prezzi.


Prendendo come esempio il settore di produzione dei bottoni, soggetta a economie di scala esterne,
e che vi siano solo due paesi, Cina e Stati Uniti, che sono impegnati nella produzione di questo
bene.

Sia in Cina che negli Stati Uniti i prezzi e la produzione di equilibrio saranno determinati
dall’intersezione tra la curva di offerta nazionale e la curva di domanda nazionale. Nel caso
rappresentato, il prezzo dei bottoni in Cina in assenza di commercio internazionale sarebbe inferiore
rispetto al corrispondente prezzo negli Stati Uniti. Ora supponiamo che i due paesi si aprano al
commercio di bottoni: il settore cinese si ingrandirà al contrario di quello statunitense, e questo
processo si autoalimenterà; all’aumentare della produzione del settore cinese, i costi si ridurranno
ulteriormente, viceversa al contrarsi della produzione statunitense, i costi di questo settore
aumenteranno. Alla fine, ci possiamo attendere che tutta la produzione di bottoni si concentri in
Cina. Con l’apertura al commercio, la Cina rifornisce il mercato mondiale, producendo i bottoni sia

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per i consumatori cinesi che per i consumatori statunitensi e la curva di offerta, inclinata
negativamente, all’aumento della produzione per effetto del commercio porta a un prezzo dei
bottoni inferiore al prezzo che vigeva prima del commercio (il commercio internazionale porta a
prezzi dei bottoni inferiori ai prezzi che vigevano in autarchia in entrambi i paesi, al contrario di ciò
che avveniva nei modelli senza rendimenti crescenti – modello classico e neoclassico).

Quando vi sono economie di scala esterne, il commercio internazionale permette di concentrare la


produzione mondiale in un unico luogo e di ridurre i costi sfruttando i benefici delle economie
esterne ancora più forti.

7.4.2 Economie esterne e struttura del commercio internazionale.


Che cosa potrebbe generare un vantaggio iniziale di economie di scala esterne in un paese piuttosto
che in un altro, escludendo il vantaggio comparato? La risposta è spesso la contingenza storica:
qualcosa offre a una particolare località un vantaggio iniziale in un settore particolare e questo
vantaggio viene “fissato” dalle economie di scale esterne anche dopo che le circostanze che hanno
creato il vantaggio iniziale non sono più in essere (spesso il caso ha un ruolo nel creare la
concentrazione industriale). Una conseguenza del ruolo della storia nel determinare la
localizzazione industriale è che on sempre i settori sono localizzati nel posto “giusto”: una volta che
un paese ha stabilito un vantaggio in un settore, potrebbe mantenere tale vantaggio anche se altri
paesi potrebbero potenzialmente produrre i beni in modo più economico.

Prendiamo il caso di Cina e Vietnam nella produzione di bottoni: il costo di produzione nel primo
paese è ACC mentre in Vietnam è ACV. DW rappresenta la domanda mondiale di bottoni e assumiamo
che possa essere soddisfatta da entrambi. Le economie di scala nella produzione di bottoni sono
esterne alle imprese e, dato che non vi sono economie di scala a livello di impresa, il settore dei
bottoni in ciascun paese consiste di molte imprese in concorrenza perfetta, che spinge quindi il
prezzo dei bottoni verso il costo medio. Assumiamo che la curva di costo del Vietnam sia al di sotto
di quella della Cina (salari inferiori), comportando una produzione di bottoni in modo più
economico in Vietnam piuttosto che in Cina, sperando che ciò porti ad una situazione in cui il

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Vietnam soddisfi completamente la domanda mondiale: tuttavia, la Cina, per ragioni storiche,
organizza per prima il settore di bottoni. Se dovesse produrli anche il Vietnam, l’equilibrio si
sposterebbe in un punto più basso, ma con produzione iniziale nulla, ogni impresa che desidera
produrre bottoni in Vietnam ha un costo pari a C0. Questo costo è maggiore del prezzo al quale le
imprese cinesi possono produrre bottoni: così, sebbene il Vietnam possa produrre bottoni a un costo
più basso della Cina, il vantaggio iniziale della Cina consente a quest’ultima di conquistare l’intero
settore.

Capitolo 8. Le imprese nell’economia globale: esportazioni, outsourcing e multinazionali.


Continuiamo l’analisi di come le economie di scala generino incentivi alla specializzazione e al
commercio internazionale. Le economie di scala interne implicano che il costo medio di produzione
di un’impresa diminuisce all’aumentare della quantità prodotta. La concorrenza perfetta, che riduce
il prezzo a livello del costo marginale, implicherebbe perdite per quelle imprese, perché esse non
sarebbero in grado di recuperare i maggiori costi generati dalla produzione delle prime unità e,
pertanto, porterebbe queste imprese a uscire dal mercato.
Per costruire un modello di concorrenza imperfetta, quindi, è necessario considerare in modo
esplicito il comportamento delle singole imprese; vedremo come le economie di scala interne e la
differenziazione di prodotto si combinano per generare nuove fonti di guadagno dallo scambio
attraverso l’integrazione economica.

8.1 La teoria della concorrenza imperfetta.


In un mercato perfettamente concorrenziale, un mercato in cui ci sono molte imprese e molti
consumatori e nel quale nessuno di essi rappresenta una quota rilevante, le imprese sono price
taker. In altre parole, i venditori dei prodotti sono convinti di poter vendere quanto vogliono al
prezzo corrente e non possono influire sul prezzo che percepiscono il loro prodotto.
Quando solo poche imprese producono un bene, le cose sono diverse. In concorrenza imperfetta le
imprese sono consapevoli di poter influenzare il prezzo dei loro prodotti e di poter vendere di più
solo riducendo il prezzo. Questa situazione si verifica in due casi: quando ci sono solo pochi
produttori di un particolare bene o quando ciascuna impresa produce un bene differenziato (agli
occhi dei consumatori) da quello delle imprese rivali. Si ha inevitabilmente questo tipo di
concorrenze quando esistono economie di scala a livello di singola impresa: il numero di imprese
che sopravvivono sul mercato è piccolo e/o le imprese devono sviluppare prodotti che siano
chiaramente differenziati da quelli prodotti dai rivali. In questi casi, l’impresa è price setter, perché
può determinare il prezzo dei propri prodotti. È in questo caso necessario sviluppare un sistema di
strumenti addizionali per descrivere il loro comportamento. La struttura di mercato più semplice da
esaminare è quella del monopolio puro.

8.1.1 Monopolio: una breve analisi.


Un’impresa monopolistica fronteggia una curva di domanda inclinata negativamente (secondo cui
per vendere una maggiore quantità del bene l’impresa deve ridurne il prezzo) e una curva di ricavo
marginale MR (ricavo aggiuntivo che l’impresa ottiene dalla vendita di un’ulteriore unità di
prodotto). Il ricavo marginale in una impresa monopolistica è sempre inferiore al prezzo, perché per
vendere un’ulteriore unità di bene l’impresa deve diminuire il prezzo di tutte le unità vendute. Per
questo la curva giace al di sotto della curva di domanda.

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È necessario determinare la relazione fra ricavo marginale e il prezzo deciso dai monopolisti.
Questa relazione dipende da due fattori, quali la quantità di bene che l’impresa sta già vendendo e
l’inclinazione della curva di domanda, che ci dice quanto il monopolista deve diminuire il prezzo
per vendere un’unità addizionale di prodotto. Se la curva è molto piatta, il monopolista può vendere
un’unità addizionale diminuendo di poco il prezzo del bene e quindi non deve ridurre
significativamente il prezzo sulle altre unità vendute, per cui il ricavo marginale sarà molto vicino al
prezzo unitario. Se invece la domanda è molto inclinata, la vendita di un’ulteriore unità di prodotto
richiede una diminuzione notevole del prezzo, facendo sì che il ricavo marginale sia molto più
basso del prezzo. La relazione tra le vendite complessive dell’impresa e il prezzo da essa firmato
più essere rappresentata dall’equazione:

Q=A–BxP

Per cui le quantità vendute dall’impresa sono pari al rapporto tra prezzo unitario e costante B meno
costante A.
Il ricavo marginale in questo caso è pari a:

MR = P - Q/B
Ciò implica che:

P – MR = Q/B

La differenza fra il prezzo e il ricavo marginale dipende dalle vendite iniziali dell’impresa Q e dal
parametro che misura l’inclinazione della domanda B. Se le vendite sono maggiori, il ricavo
marginale è inferiore, perché la diminuzione del prezzo necessaria per vendere una quantità
maggiore costa più all’impresa (maggiore è la diminuzione delle vendite per ogni dato aumento del
prezzo, più vicino è il ricavo marginale al prezzo del prodotto).

La curva AC rappresenta il costo medio di produzione dell’impresa, ovvero il rapporto tra costi
totali e numero di unità prodotte. La sua inclinazione negativa riflette l’ipotesi di economie di scala,
che riducono il costo medio di produzione al crescere delle dimensioni dell’impresa. MC
rappresenta il costo marginale dell’impresa (il costo per produrre un’unità addizionale). Abbiamo
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ipotizzato che il costo marginale dell’impresa sia costante, ovvero che la curva sia piatta. Dunque,
le economie di scala devono avere origine dalla presenza di un costo fisso, che implica che il costo
medio sia maggiore del costo marginale costante; tuttavia la differenza tra i due si riduce man mano
che il costo fisso viene distribuito su un numero crescente di unità di prodotto.
Se indichiamo con c il costo marginale dell’impresa e con F i costi fissi, possiamo scrivere il costo
totale dell’impresa C come:

C=F+cxQ

Per cui, il costo medio dell’impresa sarà:

AC = C/Q = (F/Q) + c

Questo costo medio è sempre maggiore del costo marginale c e si riduce all’aumentare della
produzione Q. il costo medio cresce all’infinito al tendere della produzione a zero e tende al costo
marginale per livelli produttivi molto alti.
Il livello di produzione che permette al monopolista di massimizzare i profitti viene individuato
dalla condizione di uguaglianza tra ricavo marginale e costo marginale, in altre parole nel punto di
intersezione delle curve MC e MR. Il prezzo al quale viene domandata la quantità QM è PM, che è
maggiore del costo medio; quando P > AC, il monopolista ottiene un profitto monopolistico.

8.1.2 Concorrenza monopolistica.


In molti casi, le imprese concorrenti non vendono lo stesso prodotto, sia perché non possono, sia
perché preferiscono ritagliarsi la propria nicchia, portando a un mercato dove le imprese vendono
prodotti differenziati. Anche quando ci sono molti concorrenti, la differenziazione di prodotto
permette alle imprese di stabilire il prezzo della propria “varietà” o marca di prodotto. Tuttavia, una
maggiore concorrenza implica che, per ogni dato prezzo, le vendite di ciascuna impresa sono più
basse: la curva di domanda fronteggiata dalla singola impresa trasla verso sinistra quando ci sono
più concorrenti, mentre una minor domanda si traduce in minori profitti.
L’incentivo a entrare per i nuovi concorrenti permane finché tale entrata è profittevole. Quando si
raggiunge un certo livello di concorrenza, un ingresso ulteriore non sarebbe più redditizio e ci si
trova in un equilibrio di lungo periodo. In alcuni casi, l’equilibrio è raggiunto quando ci sono solo
poche imprese che competono sul mercato, e la struttura di mercato prende il nome di oligopolio. In
questa situazione, una singola impresa ha un potere di mercato sufficientemente ampio da
influenzare l’intero mercato, per esempio la produzione totale del settore e il prezzo medio. A sua
volta, ciò influenza le condizioni di domanda fronteggiate dalle imprese, che hanno incentivo a
modificare il proprio prezzo in risposta alle decisioni di prezzo dell’impresa grande e viceversa, se
anche le altre imprese sono grandi. Perciò in una struttura di mercato oligopolistica le decisioni di
prezzo delle imprese sono interdipendenti: ciascuna impresa in oligopolio considera le reazioni
aspettative dei concorrenti quando stabilisce il proprio prezzo.
È bene trattare la concorrenza monopolistica, struttura di mercato che nasce quando il numero di
imprese di equilibrio è grande e nessuna di esse raggiunge una quota di mercato significativa. Di
conseguenza, le decisioni di prezzo di una qualsiasi impresa non influenzano il mercato nel suo
complesso né le condizioni di domanda fronteggiate dalle altre imprese. Ciascuna impresa fissa il
proprio prezzo date le condizioni di mercato, sapendo che la risposta di qualsiasi altra impresa sarà
irrilevante.
Iniziamo descrivendo la domanda per il bene prodotto da una tipica impresa in concorrenza
monopolistica: ci si aspetta che l’impresa venda di più quanto maggiori sono la domanda totale per i
prodotti e il prezzo fissato e che venda meno al crescere del numero di imprese e dal prezzo da essa
praticato. Una funzione con le seguenti proprietà è:

Q = S x [1/n – b x (P – P*)]

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Dove Q è la quantità di output domandata, S le vendite complessive, n il numero di imprese, b la


sensibilità delle vendite dell’impresa al proprio prezzo e P il prezzo fissato dall’impresa e il prezzo
medio. Se tutte le imprese fissano lo stesso prezzo, ognuna ha una quota di mercato pari a 1/n,
mentre se viene fissato un prezzo maggiore del prezzo medio avranno una quota di mercato
inferiore (viceversa se il prezzo fissato è minore del prezzo medio).
Assumiamo che le imprese possano avere nuovi clienti solo a spese delle concorrenti, ovvero che S,
misura dell’ampiezza del mercato, sia divisa tra le stesse imprese, che vendono S/n unità di prodotto
a testa se scelgono lo stesso prezzo. Per quanto concerne i costi totali e medi dell’impresa vengono
riprese le formule:
C = F + c x Q (costo totale)

AC = C/Q = (F/Q) + c (costo medio)

Al tempo stesso, si suppone che tutte le imprese siano simmetriche anche se producono beni
differenziati (ovvero fronteggiano la stessa curva di domanda e la stessa funzione di costo).
Tutto ciò che è necessario per comprendere e descrivere il settore in concorrenza monopolistica è il
numero di imprese e il prezzo fissato dalla tipica impresa, nonché del prezzo medio P*. Il metodo
per determinare n e P* richiede tre passaggi:
- Il numero di imprese e il costo medio. In che modo il costo medio dell’impresa dipende dal
numero delle imprese del settore? Dato che in questo modello tutte le imprese sono
simmetriche, il prezzo in equilibrio sarà lo stesso, per cui P=P*. In questo caso, Q = S/n e il
livello di produzione di ogni impresa è una quota 1/n delle vendite complessive del settore;
abbiamo visto dall’equazione di costo medio che quest’ultimo dipende inversamente dalla
quantità prodotta dall’impresa, per cui è constatato che il costo medio dipende dall’ampiezza
del mercato e dal numero di imprese nel settore.

AC = F/Q + c = (n x F/S) + c

A parità di alter condizioni, maggiore è il numero delle imprese nel settore, maggiore è il
costo medio (maggiore è il numero delle imprese, meno esse producono).
- Il numero di imprese e il prezzo. In generale, maggiore è il numero delle imprese, più intensa
è la concorrenza e quindi più basso sarà il prezzo. È utile ipotizzare in questo caso che la
curva di domanda di ogni impresa sia lineare e che, nel modello di concorrenza
monopolistica, le imprese prendono come dati i prezzi fissati dalle imprese (P*). Possiamo
riscrivere la curva di domanda nella forma:

Q = [(S/n) + S x b x P*] – S x b x P

Dove b misura la sensibilità della quota di mercato dell’impresa al prezzo da essa fissato.
Adesso la funzione di domanda ha la stessa forma dell’equazione di domanda del monopolio
puro, con [(S/n) + S x b x P* al posto del termine costante A e S x b al posto del coefficiente
di inclinazione B.
Inserendo i seguenti valori nella formula per il ricavo marginale avremo:

MR = P – Q/(S x b)

E, nel caso di massimizzazione del profitto con MR = MC:

MR = P – Q/(S x b) = c

Il prezzo fissato dall’impresa sarà pari a:

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P = c + Q/(S x b)

La relazione fra il numero di imprese e il prezzo scelto dall’impresa sarà:

P = c + 1/(b x n)

Maggiore è il numero di imprese presenti nel settore, minore è il prezzo fissato da ogni
impresa. Infatti, il markup sul costo marginale di ciascuna impresa, P – c = 1/(b x n),
diminuisce all’aumentare del numero di imprese concorrenti. L’equazione di prezzo
corrisponde alla curva inclinata negativamente PP.

- Il numero di imprese in equilibrio. La curva decrescente PP mostra che maggiore è il


numero delle imprese, minore è il prezzo fissato dalla singola impresa: più imprese ci sono,
più forte è la concorrenza. La curva inclinata positivamente CC mostra che più sono le
imprese, maggiore è il costo medio di ogni impresa: se il numero di imprese cresce, ciascuna
impresa vende di meno, perciò le imprese non sono in grado di muoversi molto lungo la loro
curva del costo medio. Le curve si intersecano nel punto E, al quale corrisponde il numero di
imprese n2: in questo caso, il loro prezzo ottimale è P2, uguale al costo medio AC2 (equilibrio
di lungo periodo in concorrenza monopolistica).
Se supponessimo l’esistenza di n1 e n3, rispettivamente minore e maggiore di n2, capiremmo
il perché del porre un valore intermedio come equilibrio di lungo periodo: con un n più
basso, vi sarà un prezzo fissato dall’impresa maggiore del costo medio di produzione, per
cui l’impresa otterrà un profitto positivo; situazione contraria avverrà con n maggiore del n
di equilibrio, dove ciascuna impresa fronteggerà una perdita, essendo il costo medio di
produzione maggiore del prezzo fissato.
Col passare del tempo, le imprese entrano in un settore se in esso si realizzano profitti
positivi ed escono se si realizzano delle perdite: il numero di imprese aumenta nel tempo se
è al di sotto di n, e diminuisce se è maggiore, portando a un prezzo di equilibrio pari a P2
con n2 imprese.

8.2 Concorrenza monopolistica e commercio internazionale.


Alla base dell’applicazione del modello di concorrenza monopolistica al commercio internazionale
vi è l’idea che gli scambi aumentino la dimensione del mercato. Il commercio internazionale offre
l’opportunità di realizzare vantaggi reciproci anche quando i paesi non presentano differenze nelle
risorse disponibili o nelle tecnologie produttive.
Supponiamo che ci siano due paesi e che ognuno possa vendere un milione di automobili all’anno:
grazie al commercio, questi paesi possono creare un mercato integrato di 2 milioni di automobili,
nel quale possono essere prodotti più modelli di auto a costi medi più bassi che in un singolo
mercato nazionale. Il modello di concorrenza monopolistica può essere utilizzato per dimostrare in
che modo il commercio internazionale migliora il trade-off che ciascun paese fronteggia fra scala e

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varietà. L’integrazione dei mercati tramite il commercio internazionale ha lo stesso effetto della
crescita all’interno di un singolo paese.

8.2.1 Gli effetti di un aumento della dimensione del mercato.


Il numero di imprese e i prezzi praticati in un settore in concorrenza monopolistica dipendono dalla
dimensione del mercato. In mercati più grandi vi sono di solito più imprese e maggiori volumi di
vendite per ogni impresa; i consumatori beneficiano di prezzi più bassi e di una maggiore varietà di
prodotti rispetto ai consumatori che acquistano in mercati piccoli. Osserviamo l’equazione della
curva di costi medi di un’impresa, secondo cui all’aumentare di questi maggiore sarà il numero
delle imprese presenti nel settore:

AC = F/Q + c. = n x F/S + c

Secondo questa equazione, un aumento delle vendite totali S reduce i costi medi per ogni dato
numero di imprese n. La ragione è che, se il mercato cresce mentre il numero delle imprese rimane
costante, le vendite di ciascuna impresa aumentano e il costo medio diminuisce. Perciò, la curva CC
per il mercato più ampio si troverà al di sotto della curva relativa al mercato più piccolo.
Al tempo stesso, la curva PP che mette in relazione il prezzo fissato dalle imprese al numero delle
imprese non si muove:

P = c + 1/(b x n)

La dimensione del mercato non entra in questa equazione, per cui un aumento di S non causa alcuno
spostamento della curva PP. L’aumento dell’ampiezza del mercato, misurata dalle vendite del
settore, causa uno spostamento verso il basso della curva, da CC1 a CC2, mentre non ha effetti su
PP. Il nuovo equilibrio si trova nel punto 2: il numero delle imprese aumenta da n1 a n2, mentre il
prezzo diminuisce da P1 a P2; di conseguenza, i consumatori preferirebbero far parte di un mercato
grande, dai prezzi più bassi, che di un mercato più piccolo e con i prezzi maggiori.

8.2.2 I vantaggi di un mercato integrato: un esempio numerico.


Immaginiamo che le automobili siano prodotte in un settore in concorrenza monopolistica. La curva
di domanda che ogni produttore di automobili fronteggia è descritta dall’equazione seguente, con b
= 1/30.000.

Q = S [(1/n) – (1/30.000) x (P – P*)]

Ipotizziamo anche che la funzione di costo per produrre le auto sia descritta con un costo fisso F
pari a 750.000.000 ed il costo marginale c = 5.000 per ogni automobile. Il costo totale è:

C = 750.000.000 + (5.000 x Q)

Con curva del coto medio, di conseguenza:


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AC = (750.000.000/Q) + 5.000

Supponiamo che vi sono due paesi, H e F: il primo ha vendite annuali per 900.000 automobili,
mentre il secondo per 1,6 milioni. In assenza di scambi, H avrebbe sei imprese, che venderebbero al
prezzo unitario di 10.000; per confermare che questo è l’equilibrio di lungo periodo, dobbiamo
dimostrare che è soddisfatta l’equazione del prezzo e che il prezzo è uguale al costo medio.
Sostituendo i valori effettivi del costo marginale c, del parametro della domanda b e del numero di
imprese nel paese H nell’equazione, troviamo:

P = 10.000 = c + 1/(b x n) = 5.000 + 1/[(1/30.000) x 6] = 5.000 + 5.000

Per cui la condizione di massimizzazione del profitto (ricavo marginale uguale al costo marginale) è
soddisfatta. Ogni impresa vende 900.000 unità/6 imprese = 150.000 unità per impresa. Il costo
medio è quindi:

AC = (750.000.000 / 150.000) + 5.000 = 10.000

Dato che il costo medio di 10.000 è uguale al prezzo, tutti i profitti di monopolio sono stati
eliminati. Quindi 6 imprese, che vendono al prezzo di 10.000 e che producono 150.000 automobili
ciascuna, è l’equilibrio di lungo periodo nel mercato del paese H.
Per quanto concerne il paese F, in assenza di scambi, il mercato di F ospita 8 imprese ciascuna delle
quali produce 200.000 automobili e vende al prezzo di 8.750.

P = 8.750 = c + 1/(b x n) = 5.000 + 1/[(1/30.000) x 8] = 5.000 + 3.750

AC = (750.000.000 / 200.000) + 5.000 = 8.750

Adesso supponiamo che sia possibile per H e F commerciare automobili senza costi: questo crea un
nuovo mercato integrato con un ammontare di vendite complessive di 2.5 milioni di automobili. Il
mercato ospita in equilibrio 10 imprese, ognuna delle quali produce 250.000 auto e le vende al
prezzo unitario di 8.000. Le condizioni di massimizzazione del profitto e di uguaglianza dei profitti
a zero sono ancora una volta soddisfatte.

P = 8.000 = c + 1/(b x n) = 5.000 + 1/[(1/30.000) x 10] = 5.000 + 3.000

AC = (750.000.000 / 250.000) + 5.000 = 8.000

Il mercato integrato ha più imprese, ognuna delle quali produce di più e vende a un prezzo più basso
di quanto facciano le economie nazionali per conto loro. Chiaramente ognuno sta meglio in seguito
all’integrazione: in un mercato più ampio, i consumatori hanno un insieme di scelta maggiore ed
ogni impresa produce di più offrendo i suoi prodotti a un prezzo più basso. Per realizzare questi
benefici, i paesi devono instaurare rapporti commerciali internazionali. Per sfruttare le economie di
scala, ogni impresa deve concentrare la produzione in un unico paese e deve vendere ai consumatori
di entrambi i mercati, di modo che il bene venga prodotto solo in un paese ed esportato nell’altro.

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Questo esempio numerico evidenzia due importanti caratteristiche del commercio internazionale
con concorrenza monopolistica:
- la differenziazione di prodotto e le economie di scala interne portano al commercio
internazionale tra paesi simili, senza alcuna differenza di vantaggio comparato; si ha in
questo caso un tipo di commercio diverso da quello basato sul vantaggio comparato.
Entrambi i paesi esportano lo stesso bene, pagando le importazioni di alcuni modelli prodotti
in un paese con le esportazioni di altri modelli prodotti nel proprio paese, e viceversa
(commercio intra-settoriale, lo scambio reciproco di beni simili);
- nel mercato integrato dopo l’apertura agli scambi, i consumatori di H e F ricevono benefici
da una maggiore varietà di modelli di automobili a un prezzo inferiore grazie al fatto che le
imprese sono in grado di consolidare la propria produzione destinata a entrambi i mercati e
di sfruttare le economie di scala.

8.3 La risposta delle imprese al commercio internazionale: vincitori, perdenti e


performance dei settori.
Nell’esempio relativo al settore automobilistico con due paesi, abbiamo visto come l’integrazione
economica porti a un aumento della concorrenza tra le imprese. Delle 14 imprese che producevano
automobili in autarchia (6 nel paese H, 8 nel paese F) solo 10 imprese “sopravvivono” dopo
l’integrazione economica; tuttavia, ciascuna di esse produce su una scala maggiore (250.000
automobili prodotte per impresa). In questo esempio abbiamo ipotizzato che le imprese fossero
simmetriche, tuttavia la performance varia significativamente da impresa a impresa e gli effetti di
una maggiore concorrenza derivante dal commercio hanno una grande influenza. La maggior
concorrenza tende a danneggiare più duramente le imprese con le performance peggiori, perché
sono proprio queste le imprese costrette a lasciare il mercato. Se la maggior concorrenza proviene
dal commercio internazionale essa è anche accompagnata da maggiori opportunità di vendita in
nuovi mercati per le imprese che rimangono sul mercato. Sono le imprese con le migliori
performance che ottengono i vantaggi maggiori da queste nuove opportunità di vendita che si
espandono maggiormente.
Quando le imprese con le migliori performance crescono e quelle con le peggiori prestazioni si
contraggono o escono dal mercato, la performance generale del settore migliora. Questo significa
che il commercio internazionale e l’integrazione economica possono avere un impatto diretto sulla
performance del settore: è come se ci fosse un miglioramento tecnologico a livello settoriale.

8.3.1 Le differenze di performance tra imprese.


Abbandoniamo l’ipotesi di simmetria che avevamo imposto nella precedente analisi del modello di
concorrenza monopolistica: supponiamo che le imprese abbiano diverse curve di costo perché

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producono con diversi livelli di costo marginale, ci. supponiamo che tutte le imprese continuino a
fronteggiare la stessa curva di domanda. I grafici che seguono illustrano le differenze di
performance tra due imprese quando c1<c2.

La curva del ricavo marginale è più ripida rispetto alla curva di domanda. Le imprese 1 e 2 scelgono
il proprio livello di produzione, rispettivamente Q1 e Q2, per massimizzare i propri profitti
(massimizzati quando le rispettive curve di costo marginale si intersecano con la curva comune del
ricavo marginale), ed i prezzi P1 e P2, dove il primo è minore del secondo prezzo (e produrrà un Q1
maggiore di Q2). Poiché la curva del ricavo marginale è più inclinata della curva di domanda,
vediamo anche che la prima impresa fisserà un markup sul costo marginale maggiore della seconda
impresa: P1-c1 > P2-c2.
Le aree in grigio rappresentano i profitti operativi per le due imprese, pari ai ricavi PiQi meno i costi
variabili ciQi. poiché i profitti operativi possono essere riscritti come il prodotto tra il markup e il
numero di unità di bene vendute, possiamo determinare che l’impresa 1 guadagnerà profitti più
elevati rispetto all’impresa 2. Rispetto a un’impresa con un costo marginale più elevato, un’impresa
con un costo marginale minore:
- fisserà un prezzo minore ma con un markup maggiore sul costo marginale;
- produrrà di più;
- otterrà profitti maggiori.
Il secondo grafico mostra come i profitti operativi saranno una funzione decrescente del corso
marginale; un’impresa può ottenere profitti operativi positivi finché il costo marginale è inferiore
all’intercetta della curva di domanda sull’asse verticale, P* - [1/(b+n)]. Indichiamo con c* il costo
limite. Un’impresa con un costo marginale ci maggiore del limite ha prezzi effettivamente troppo
elevati per rimanere sul mercato e otterrà profitti operativi negativi se dovesse produrre, per cui tale
impresa sceglierebbe di chiudere e di non produrre.

8.3.2 Effetti dell’aumento della dimensione del mercato.


Cosa accade quando le economie si integrano in un unico grande mercato? A parità di altre
condizioni, ci aspettiamo che un aumento della concorrenza sposti la curva di domanda verso
sinistra per ciascuna impresa. Dall’altro lato, ci aspettiamo anche che l’aumento della dimensione
del mercato S, a sua volta, sposti la domanda verso l’esterno. Si noti come la curva di domanda
ruoti, provocando uno spostamento verso sinistra per le imprese più piccole (con minori quantità
prodotte) e uno spostamento verso l’esterno per quelle più grandi. Gli effetti di una maggiore
concorrenza dominano per le imprese più piccole, mentre per le imprese più grandi sono dominanti
gli effetti della maggiore dimensione del mercato.
Si ricordi che l’intercetta verticale di questa curva di domanda è P* + [1/(b x n)], mentre
l’inclinazione è 1/(S x b). Un aumento della concorrenza, a parità di dimensione del mercato, riduce
l’intercetta verticale della domanda, lasciando invariata l’inclinazione: questo rappresenta lo
spostamento verso sinistra dovuto alla maggiore concorrenza. L’effetto diretto della maggiore
estensione del mercato S rende la curva di domanda più piatta, mantenendo invariata l’intercetta:
questo genera una rotazione verso l’esterno della domanda. Combinando questi due effetti,
otteniamo la nuova curva di domanda D’, che ha una intercetta verticale minore ed è più piatta
rispetto alla curva di domanda iniziale D.

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La diminuzione della domanda per le imprese più piccole si traduce in un nuovo inferiore limite di
costo, c*: alcune imprese con costi elevati superiori a c* non possono sostenere la diminuzione
della domanda e sono costrette all’uscita. D’altra parte, la curva di domanda più piatta rappresenta
un vantaggio per quelle imprese che hanno livelli di costo bassi: possono adattarsi alla maggiore
concorrenza riducendo il loro markup e ottenere una quota di mercato aggiuntiva. Ciò si traduce in
maggiori profitti per le imprese con migliori prestazioni, ovvero per quelle con i minori livelli di
costo ci. Le imprese con un basso costo prosperano e incrementano i profitti e le quote di mercato,
mentre le imprese ad alto costo si contraggono e quelle con i costi più alti escono.

8.4 Costi del commercio e la decisione di esportare.


Nella nostra economia integrata in cui i costi di commercio sono nulli, le imprese sono indifferenti
in merito alla localizzazione dei propri clienti. Adesso introduciamo i costi del commercio per
spiegare perché in realtà per le imprese la localizzazione dei propri clienti è importante e perché
così tante imprese scelgono di non raggiungere i potenziali clienti che risiedono in altri paesi.
Questo approccio permetterà di spiegare le importanti differenze tra le imprese che scelgono di
sostenere i costi del commercio ed esportare e quelle che invece scelgono di non farlo.

8.6 Imprese multinazionali e outsourcing.


Nelle statistiche statunitensi, un’impresa è considerata a controllo estero e quindi una sussidiaria di
una multinazionale estera se il 10 percento o più del capitale è detenuto da un’impresa estera;
l’impresa controllante è detta casa madre, mentre le “controllate” sono definite come filiali
multinazionali. Quando un’impresa statunitense acquista più del 10 percento di un’impresa estera o
quando costruisce un nuovo stabilimento produttivo all’estero, tale investimento è considerato un
flusso statunitense in uscita di investimenti diretti esteri (IDE). La seconda tipologia è detta IDE
greenfield, mentre la prima è detta IDE brownfield (o fusioni-acquisizioni internazionali).
Perché un’impresa dovrebbe decidere di gestire una filiale all’estero? La risposta dipende dalle
attività produttive realizzate dalle filiali, divise in due grandi categorie:
- la filiale replica il processo di produzione che la casa madre realizza negli impianti
localizzati in patria e in altre parti del mondo  IDE orizzontale;
- la catena della produzione viene frammentata e parte dei processi produttivi viene trasferita
presso le filiali  IDE verticale.
Gli IDE verticali sono spiegati principalmente dalle differenze tra paesi nei costi di produzione,
determinate dal vantaggio comparato di un paese rispetto ad un altro; al contrario, gli IDE
orizzontale sono costituiti principalmente da flussi tra paesi sviluppati, cioè sia la casa madre che le
filiali sono localizzate in paesi sviluppati. Il motivo principale alla base di questa tipologia di IDE
risiede nell’esigenza di localizzare la produzione vicino a un’ampia base di clienti dell’impresa.
Quindi, i costi di commercio e trasporto giocano un ruolo molto più importante rispetto alle
differenze nei costi di produzione per le decisioni sugli IDE orizzontali.

8.6.1 La decisione dell’impresa sugli Investimenti Diretti Esteri.


Una delle determinanti degli IDE è la presenza di alti costi di commercio associati all’esportazione,
che hanno alimentato un incentivo a localizzare la produzione vicino ai propri clienti. Dall’altro lato
però vi sono anche rendimenti di scala crescenti nella produzione, di conseguenza, non è efficiente
dal punto di vista dei costi replicare il processo produttivo troppe volte e gestire impianti che
producono una quantità limitata se si vogliono sfruttare tali rendimenti crescenti. Questa situazione
è il cosiddetto trade-off tra prossimità e concentrazione per gli IDE. L’evidenza empirica mostra due
concetti:
- gli IDE sono concentrati in settori dove i costi del commercio sono elevati, ma quando i
rendimenti di scala crescenti sono importanti e la dimensione media degli impianti è grande,
si osservano maggiori volumi di esportazioni rispetto agli IDE.
- Le multinazionali tendono a essere sostanzialmente più grandi e produttive delle imprese
locali all’interno dello stesso paese.

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La decisione sugli IDE orizzontali. Introduciamo la possibilità di scegliere per uno Stato di
diventare una multinazionale attraverso gli IDE orizzontali: un’impresa potrebbe evitare il costo del
commercio t attraverso la costruzione di un impianto produttivo in F. Naturalmente, la costruzione
di questo impianto produttivo è costosa e implica un costo fisso per la filiale estera. Manteniamo
l’ipotesi di paesi simili in modo che questa impresa possa produrre un’unità del bene allo stesso
costo marginale nell’impianto estero.
La scelta dell’impresa tra esportazioni e IDE implicherà un trade-off tra il costo unitario di
esportazione t e il costo fisso F necessario per costruire uno stabilimento produttivo aggiuntivo. Se
l’impresa vende Q unità nel mercato estero, sostiene un costo dovuto al commercio internazionale
pari a Q x t per esportare; questo costo deve essere confrontato con l’alternativa del costo fisso F.
Se Q > F/t, allora le esportazioni sono più costose e la scelta che massimizza i profitti è l’IDE.
Maggiori costi del commercio da una parte e minori costi fissi di produzione dall’altra riducono la
soglia degli IDE. La scala dell’impresa, tuttavia, dipende dalle prestazioni. Un’impresa con un costo
ci sufficientemente basso vorrà vendere più Q unità sul mercato estero. Il modo più efficiente dal
punto di vista dei costi per fare ciò è costruire una filiale nel paese F e diventare una
multinazionale.
La decisione sugli IDE verticali. Quando si considerano gli IDE verticali, il risparmio di costo
principale è collegato alle differenze nei costi di produzione per le parti della catena del valore che
sono state trasferite. Queste differenze di costo traggono origine principalmente dalle forze di
vantaggio comparato. Perché tutte le imprese non scelgono di aprire delle filiali nei paesi a basso
salario per realizzare attività più intensive in lavoro tra quelle che possono essere realizzate in altre
località? Gli IDE verticali richiedono un significativo costo fisso di investimento nella filiale estera
in un paese con le caratteristiche appropriate. Ci sarà quindi una dimensione soglia per gli IDE
verticali che dipende dal differenziale nei costi di produzione da una parte e dal costo fisso per il
funzionamento di una filiale estera dall’altro.

8.6.2 L’outsourcing.
La casa madre sceglie di possedere la filiale estera e operare come un’unica impresa multinazionale
secondo dei vantaggi legati alla internalizzazione. In sostituzione all’IDE orizzontale, un’impresa
piò dare in licenza a un’impresa indipendente la produzione e la vendita dei propri prodotti in una
località estera; in sostituzione degli IDE verticali, può firmare un contratto con un’impresa
indipendente per la realizzazione di parti specifiche del processo produttivo nel paese sfruttando il
vantaggio di costo. Tale sostituto degli IDE verticali è noto con il termine di outsourcing o
esternalizzazione all’estero.
L’offshoring rappresenta la ricollocazione di parti della catena all’estero e comprende sia
l’outsourcing che gli IDE verticali. Quando i beni intermedi sono prodotti all’interno di un gruppo
multinazionale, le spedizioni di questi beni intermedi sono classificate come commercio intra-
impresa. Tra gli elementi principali che determinano la scelta di internazionalizzazione rientra
sicuramente il controllo sulla tecnologia di proprietà dell’impresa, che offre un forte vantaggio al
paese dominato (perciò l’IDE orizzontale è largamente preferito rispetto a concedere in licenza la
tecnologia per replicare il processo produttivo).
Il trade off tra outsourcing e IDE verticale è molto meno netto: un’impresa indipendente può
specializzarsi in una parte ristretta del processo produttivo, di conseguenza può anche trarre benefici
dalle economie di scala se realizza tali processi per diverse imprese; inoltre, evita costose
rinegoziazioni in caso di conflitto, che tarderebbe inevitabilmente la produzione, dopo che l’accordo
iniziale è stato raggiunto.
La descrizione di quale tipo di impresa scelta un’opzione di offshoring piuttosto che l’altra dipende
dai dettagli delle ipotesi di modello. Tuttavia, emerge una previsione robusta da quei modelli
quando si confronta la possibilità di spostare all’estero la produzione con quella di non farlo.
Rispetto alla scelta di non spostare all’estero le attività, sia gli IDE verticali che l’outsourcing
all’estero implicano costi di produzione inferiori insieme a un costo fisso più elevato. Ciò implica
una sogna dimensionale per un’impresa che sceglie una delle possibili opzioni di offshoring.

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Quindi, solo le imprese più grandi sceglieranno una delle due opzioni di offshoring e importeranno
alcuni beni intermedi.
Solo un sottoinsieme di imprese relativamente più produttive (costi inferiori) sceglierà l’offshoring
(ovvero importare beni intermedi) e l’esportazione (fornendo i propri beni ai clienti esteri), perché
sono tali imprese che operano con una scala sufficientemente grande da preferire la soluzione con
costi fissi maggiori e costi unitari inferiori (che siano di produzione o di commercio).

Capitolo 9. Gli strumenti della politica commerciale.


“Quale dovrebbe essere la politica commerciale di una nazione? E i suoi effetti? Questo capitolo
esamina in maniera schematica le politiche adottate dai governi nell’ambito del commercio
internazionale. Tali politiche includono diversi provvedimenti, come le imposte su determinate
transazioni internazionali, i sussidi per altre transazioni, i limiti legati sul valore o sul volume di
particolari tipi di importazione e molti altri.

9.1 Un’analisi elementare dei dazi.


Un dazio è una tassa sull’importazione di un bene; si dice specifico quando consiste in un
ammontare monetario fisso su ogni unità importata del bene considerato (3 dollari a barile); il dazio
è invece detto ad valorem quando viene fissato in rapporto al valore del bene (25% imposto sul
valore di autocarri importati). In entrambi i casi, il dazio ha l’effetto di aumentare il costo del
trasferimento dei beni colpiti all’interno del paese.
Il dazio è la forma più antica di politica commerciale, adottata tradizionalmente dai governi per
ragioni fiscali: la loro finalità era quella di generare entrate e proteggere particolari settori
industriali. L’importanza dei dazi è andata declinando in tempi recenti, poiché i governi
preferiscono solitamente proteggere le industrie nazionali adottando politiche protezionistiche
basate su barriere non tariffarie, come quote all’importazione (limiti sulle quantità importate) e
restrizioni all’esportazione (limiti sulle quantità esportate).
Per sviluppare la teoria del commercio internazionale abbiamo adottato un approccio di equilibrio
generale; tuttavia, in molti casi, gli effetti delle politiche commerciali relative a un dato settore
possono essere ragionevolmente compresi senza esaminare le ripercussioni sul resto dell’economia.
La maggior parte delle politiche commerciali può essere pertanto esaminata in un contesto di
equilibrio parziale.

Caso Studio: il livello medio dei dazi nel mondo.


Il livello di protezione da dazio nel mondo si è ridotto molto a partire dalla fine della Seconda
guerra mondiale sino al 2009. Accanto a una riduzione generalizzata del livello dei dazi, dalla
tabella che segue si nota un livello di protezionismo più elevato nei paesi in via di sviluppo rispetto
a quello dei paesi industrializzati; inoltre, gli scambi internazionali tra paesi in via di sviluppo
incontrano maggiori barriere di quelli in partenza dai paesi in via di sviluppo verso i paesi
industrializzati. Il settore agricolo è quello in cui la maggior parte dei paesi industrializzati (ma
anche per alcuni dei paesi in via di sviluppo) impongono un livello medio di dazi superiore, rispetto
a quello dei beni manufatti.

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I dati nella tabella forniscono solo informazioni di prima approssimazione sul grado di protezione:
spesso si usa una media ponderata dei dazi in cui i pesi sono dati dalle importazioni del bene su cui
è stato applicato il dazio. I dati con media ponderata confermano il carattere protezionistico dei
paesi in via di sviluppo rispetto a quelli industrializzati, nonché la presenza di picchi di
protezionismo nei paesi sviluppati in settori di vantaggio comparato per i paesi in via di sviluppo.
Un’altra caratteristica dell’attuale sistema di protezione è la tariff escalation, cioè la pratica da parte
di molte nazioni di fissare livelli di protezione più alti per i beni che sono a uno stadio di
lavorazione più avanzata; questo fenomeno è caratteristico sia per i paesi industrializzati che per
quelli in via di sviluppo e viene utilizzata per incoraggiare la localizzazione sul territorio nazionale
di produzioni di beni più a valle nella catena di creazione del valore.

9.1.1 Domanda, offerta e commercio internazionale in un singolo settore.


Si considerino due paesi che producono e consumano grano, che si assume possa essere trasportato
da un paese all’altro senza costi. In ciascuno dei due paesi il grano è prodotto in un settore
perfettamente concorrenziale e la domanda e l’offerta di grano nel paese H dovrebbero dipendere
dalla valuta del paese H, mentre quelle in F dovrebbero dipende dal prezzo denominato dalla valuta
di F (tuttavia assumiamo che il tasso di cambio tra le valute non avvenga).
In questo mercato il commercio internazionale avrà luogo se i prezzi nei due paesi sono diversi in
assenza di scambio: supponiamo che il prezzo interno del grano sia maggiore in H che in F: se si
introduce la possibilità del commercio internazionale, gli operatori cominceranno a trasferire il
grano da F a H, facendo aumentare il prezzo nel primo paese e contemporaneamente diminuire
quello nel secondo, finché la differenza iniziale sarà eliminata-
Per determinare il prezzo e la quantità scambiata sul mercato mondiale, è utile definire la domanda
di importazioni e l’offerta di esportazioni: la prima è l’eccesso di domanda dei consumatori
rispetto alla quantità offerta dai produttori sul mercato interno (in questo caso, in H), mentre il
secondo è l’eccesso di offerta in F rispetto alla quantità domandata dai consumatori.
Come derivare la curva di domanda di importazioni?

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Al prezzo P1 i consumatori domandano la quantità D1 mentre i produttori interni offrono una


quantità pari solamente a S1. La domanda di importazione è pertanto D1 – S1. Se il prezzo
aumentasse, i consumatori interni domanderebbero una quantità minore, mentre i produttori ne
offrirebbero una quantità maggiore. Pertanto, la domanda di importazione si riduce a D2 – S2. La
curva di domanda di importazioni, MD, presenta un’inclinazione negativa, perché quanto il prezzo
aumenta le importazioni domandate diminuiscono. Al presso PA l’offerta e la domanda di H sono
uguali in assenza di commercio internazionale; pertanto, la curva di domanda di importazioni
interseca l’asse delle ordinate al prezzo PA (domanda di importazioni = zero al prezzo PA).
Come derivare la curva di offerta di esportazioni?

In corrispondenza del prezzo P1 i produttori di F offrono una quantità pari a S*1, mentre i
consumatori domandano solamente la quantità D*1. Le quantità disponibili per l’esportazione sono
quindi pari a S*1 – D*1. Ad un prezzo maggiore l’offerta dei produttori di F sale mentre la domanda
dei consumatori scende, per cui l’offerta di esportazioni aumenterà al livello S*2 – D*2. Poiché
l’offerta di beni per l’esportazione aumenta all’aumentare del prezzo, la curva di offerta di
esportazioni di F è inclinata positivamente. Al prezzo P*A offerta e domanda in F sono uguali in
assenza di commercio internazionale; pertanto, la curva di offerta di esportazioni interseca l’asse
delle ordinate al prezzo P*A (offerta di esportazioni = zero al prezzo P*A).

L’equilibrio mondiale si raggiunge quando la domanda di importazioni di H è uguale all’offerta di


esportazioni di F: al prezzo Pw, in corrispondenza del quale le due curve si intersecano, l’offerta
mondiale è pari alla domanda mondiale. In equilibrio vale la seguente relazione:

domanda di H – offerta di H = offerta di F – domanda di F

ossia:

domanda mondiale = offerta mondiale

9.1.2 Gli effetti di un dazio.


Dal punto di vista di chi deve trasferire i beni, il dazio è analogo ad un costo di trasporto. La figura
che segue illustra gli effetti di un dazio specifico pari a t dollari per unità di grano.

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In assenza del dazio, il prezzo del grano in entrambi i paesi sarebbe uguale a quello mondiale, Pw;
tuttavia, quando il dazio viene imposto, nessun operatore sarà disposto a trasferire il grano da F a H,
se non in presenza di una differenza positiva di almeno t dollari tra il prezzo in H e quello in F. se i
due paesi non commerciassero in grano, ci sarà un eccesso di domanda di grano nel primo paese e
un eccesso di offerta di grano nel secondo ed il prezzo aumenterà in H e diminuirà in F, fino al
punto in cui la differenza tra i due prezzi sarà di t dollari.
Il dazio crea una differenza tra i prezzi praticati nei due mercati:
- In H il dazio fa aumentare il prezzo a PT, spingendo i produttori in questo paese a offrire una
quantità maggiore, inducendo i consumatori dello stesso paese a domandare una quantità
minore (domanda inferiore di importazioni).
- In F il dazio fa diminuire il prezzo a PT - t, comportando una minore offerta e una maggiore
domanda nel suddetto paese (offerta inferiore di esportazioni).
Il volume degli scambi internazionali di grano si riduce, passando dalla quantità QW alla quantità QT
registrata in presenza di un dazio: in corrispondenza di quest’ultima, la domanda di importazioni di
H eguaglia l’offerta di esportazioni di F se PT – P*T = t. L’aumento del prezzo in H è inferiore al
dazio: una parte di quest’ultimo si riflette nella diminuzione del prezzo all’esportazione in F, e non
viene quindi sopportato dai consumatori del paese H. Questo è il risultato normale di un dazio e di
ogni politica commerciale volta a limitare le importazioni.
Nella maggior parte dei casi la dimensione di questo effetto si rivela assai contenuta e ciò è in parte
dovuto al fatto che, nel caso in cui a imporre un dazio sia un paese piccolo, la quota sul mercato
mondiale del bene importato sia poco rilevante nella situazione iniziale ed infine sul prezzo
mondiale.

9.1.3 La misurazione del grado di protezione.


L’obiettivo principale che ci si prefigge di conseguire con un dazio è quello di proteggere i
produttori interni dal prezzo inferiore che verrebbe imposto dalla concorrenza internazionale. È
importante domandarsi quale sia il grado di protezione effettivamente assicurato dal dazio o da altre
misure di protezione commerciale.
Potrebbe sembrare che il grado di protezione sia del tutto immediato, tuttavia adottare una
procedura semplice quale considerare il solo valore dell’aliquota presenta due problemi: da una
parte, se non vale l’ipotesi del paese piccolo parte dell’effetto del dazio consisterà nella riduzione
dei prezzi esteri all’esportazione e quindi il dazio non si risolverà integralmente nell’aumento del
prezzo interno; dall’altra, il dazio può avere effetti molto diversi in relazione allo stadio di
produzione del bene che esso colpisce.
Supponiamo che il prezzo di un’automobile fissato dal mercato mondiale sia pari a 8.000 dollari e
che i componenti della stessa automobile abbiano un prezzo pari a 6.000 dollari. Allo scopo di
promuovere l’industria automobilistica nazionale, il primo paese impone un dazio del 25%
sull’importazione di automobili, consentendo alle imprese di assemblaggio di vendere le automobili
a un prezzo di 10.000 dollari, superiori agli 8.000 del mercato mondiale (sarebbe errato sostenere
che la protezione garantita è pari al 25%). Con l’introduzione del dazio, l’assemblaggio diviene
conveniente anche se il suo costo è pari a 4.000 dollari: un dazio del 25% offre agli assemblatori di
automobili un tasso effettivo di protezione del 100%.
Supponiamo che il secondo paese, per promuovere la produzione nazionale di componenti, fissi un

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dazio del 10% sulle relative importazioni, facendo aumentare il costo dei componenti per gli
assemblatori nazionali a 6.600 dollari (anche se non sono intervenute variazioni nei dazi, una
politica di questo genere rende la produzione all’interno più costosa): un dazio sui componenti
comporta un livello negativo di protezione per il settore dell’assemblaggio, provocando un tasso
effettivo pari al -30%.

9.2 Costi e benefici di un dazio.


Le variazioni di prezzo provocate da un dazio generano uno svantaggio per i consumatori e
produttori del paese importatore e un vantaggio per quelli del paese esportatore. Al tempo stesso, il
governo che impone un dazio ottiene un gettito fiscale. Per poter paragonare i costi e i benefici di
un dazio occorre utilizzare due concetti noti nell’analisi microeconomica: il surplus del
consumatore e il surplus del produttore.

9.2.1 Il surplus del consumatore e il surplus del produttore.


Il surplus del consumatore misura il beneficio che un consumatore ottiene dall’acquisto di un bene
calcolando la differenza tra il prezzo effettivamente pagato e quello che il consumatore sarebbe
disposto a pagare. Il surplus può essere derivato dalla curva di domanda di mercato: se P è il prezzo
di un bene e Q è la quantità domandata a quel prezzo, il surplus del consumatore può essere
calcolato sottraendo il prodotto di P per Q dall’area sotto la curva di domanda fino al punto Q. In
corrispondenza del prezzo P1 la quantità domandata è pari a D1 e il surplus del consumatore è
uguale alle aree a e b; se il prezzo aumenta, la quantità domandata si riduce e il surplus del
consumatore diminuisce di un ammontare pari a b diventando uguale all’area a.

Il surplus del produttore è un concetto analogo e la stessa procedura utilizzata per derivare il
surplus del consumatore dalla curva di domanda può essere utilizzata per derivare il surplus del
produttore dalla curva di offerta. In corrispodenza del prezzo P1, la quantità offerta è S1 e il surplus
del produttore è misurato dall’area c; se il prezzo e la quantità aumentano, il surplus del produttore
aumenta diventando uguale alla somma dell’area c e dell’area aggiuntiva d.

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9.2.2 La misurazione di costi e benefici.


La figura che segue illustra i costi e i benefici di un dazio per il paese importatore. Il dazio fa
aumentare il prezzo interno, aumentando di conseguenza la produzione e diminuendo il consumo,
mentre fa diminuire il prezzo estero all’esportazione. I costi e i benefici relativi ai diversi gruppi di
operatori possono essere espressi come somma di cinque aree nel grafico (a, b, c, d, e).

I produttori interni percepiscono un prezzo maggiore e vedono aumentato il proprio surplus: prima
dell’introduzione del dazio il surplus del produttore era pari all’area sotto PW e sopra la curva di
offerta, ma quando il prezzo aumenta, il surplus aumenta dell’area indicata con a.
I consumatori interni si trovano di fronte a un aumento del prezzo, per cui la loro situazione
peggiora: con l’introduzione del dazio, il prezzo aumenta da PW a PT, ed il surplus si riduce dell’area
pari alla somma a, b, c, d.
Bisogna considerare la posizione del Governo, che gode di un vantaggio, dal momento che il dazio
è associato a un gettito fiscale pari al dazio stesso moltiplicato per il volume delle importazioni.
Dato che t = PT – P*T, l’introito percepito dal Governo risulta pari alla somma delle due aree c ed e.
I vantaggi e gli svantaggi considerati si riferiscono a gruppi diversi di operatori e la valutazione dei
costi benefici dipende perciò dal peso attribuito a ciascun dollaro di beneficio relativo a ciascun
gruppo. È prassi comune tra gli economisti tentare un calcolo degli effetti netti di un dazio sul
benessere nazionale.
Consideriamo l’effetto netto di un dazio sul benessere complessivo; il costo netto è dato da:

perdita dei consumatori – benefici dei produttori – introito del Governo

o anche, in questo caso:

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(a + b + c + d) – a – (c + e) = b + d – e

Abbiamo due triangoli che misurano le perdite del paese e un rettangolo che misura il guadagno;
un’interpretazione utile dei guadagni può essere la seguente: i primi rappresentano le perdite di
efficienza, dovute al fatto che un dazio genera una distorsione negli incentivi al consumo e alla
produzione, mentre il secondo illustra i benefici in termini di ragioni di scambio, associati alla
diminuzione dei prezzi esteri all’esportazione indotta dal dazio stesso.

Il vantaggio del dazio dipende dalla capacità del paese che lo impone di far diminuire i prezzi esteri
all’esportazione; se il paese non può modificare i prezzi mondiali (per esempio è un “paese
piccolo”) l’area associata ai benefici associati alla ragione di scambio (ovvero e) scompare e
provoca una riduzione del benessere nazionale. Il dazio distorce gli incentivi sia dei produttori che
dei consumatori, inducendo entrambi ad agire come se le importazioni fossero più costose di quanto
siano in realtà; il costo di una unità addizionale di consumo per l’economia nel suo complesso
corrisponde al prezzo di un’unità addizionale importata, ma poiché il dazio fa aumentare il prezzo
interno al di sopra di quello mondiale, i consumatori riducono il proprio consumo fino al punto in
cui il benessere relativo all’unità marginale è pari al prezzo interno, che include il dazio.
Analogamente, il valore di un’unità addizionale prodotta all’interno è pari al prezzo dell’unità
importata di cui si fa a meno, tuttavia i produttori interni espandono la propria attività fino al punto
in cui il costo marginale eguaglia il prezzo interno, comprensivo del dazio. Pertanto, il paese
produce internamente unità addizionali del bene che avrebbero potuto essere acquistate all’estero a
un prezzo inferiore.
L’effetto negativo è misurato dai due triangoli b e d: il primo rappresenta una perdita dovuta alla
distorsione nella produzione, derivante dal fatto che il dazio induce i produttori interni a produrre
una quantità troppo elevata del bene. Il secondo rappresenta una perdita interna dovuta a una
distorsione nel consumo: il dazio induce i consumatori a consumare una quantità troppo limitata
del bene. Queste perdite devono essere comparate con un vantaggio in termini di ragioni di
scambio, che risulta dalla diminuzione del prezzo estero all’esportazione indotta dal dazio. I costi
del dazio superano i relativi benefici.

9.3 Altri strumenti di politica commerciale.


I dazi rappresentano la più semplice delle politiche commerciali, malgrado ne esistano altre forme,
quali i sussidi all’esportazione, il contingentamento delle importazioni, la limitazione delle
esportazioni e l’imposizione di requisiti minimi di contenuto nazionale della produzione.

9.3.1 I sussidi all’esportazione: la teoria.


Un sussidio all’esportazione è un pagamento effettuato all’impresa o all’individuo che esporta beni
all’estero: quest’ultimo, che può essere ad valorem o specifico, viene concesso dal Governo e

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comporta un’esportazione all’estero fino al punto in cui il prezzo interno eccede il prezzo estero di
un ammontare pari al sussidio stesso. Il prezzo nel paese esportatore aumenta, ma dato che il prezzo
nel paese importatore diminuisce, l’aumento risulterà inferiore al sussidio; nel paese esportatore, i
produttori guadagnano, mentre i consumatori e il governo perderanno, i primi un’area pari a + b,
mentre il secondo b + c+ d + e + f + g (di cui i produttori guadagnano l’area b e c). Tra queste, b e
d rappresentano distorsioni nel consumo e nella produzione analoghe a quelle generate da un dazio.
Il sussidio peggiora le ragioni di scambio, poiché provoca una diminuzione del prezzo del benessere
esportato nel mercato estero, da PW a P*S. questo effetto è alla base del termine addizionale e + f +
g nella perdita, pari al prodotto tra PW – P*S e la quantità esportata in virtù del sussidio. Un sussidio
all’esportazione genera dunque costi che eccedono sicuramente i corrispondenti benefici.

Caso studio. La politica agricola comune in Europa.


La Comunità Economica Europea (CEE), poi Unione Europea (UE) ha generato due effetti
importanti per la politica commerciale: anzitutto sono state abolite tutte le barriere tariffarie
reciproche, creando un’unione doganale; di seguito, la politica agricola è andata trasformandosi in
un programma di sussidi alle esportazioni. La Politica Agricola Comune (PAC) della UE fu
inizialmente concepita come uno sforzo teso a garantire prezzi elevati agli agricoltori europei,
tramite l’acquisto di prodotti agricoli da parte della UE ogni qualvolta i prezzi fossero scesi al di
sotto di un certo livello premeditato, e inizialmente fu sostenuta una serie di dazi che compensavano
la differenza tra i prezzi agricoli europei e quelli mondiali.
Tuttavia, a partire dagli anni Settanta, i prezzi di sostegno stabiliti risultarono così elevati che
l’Europa si ritrovò a produrre più di quanto i consumatori europei fossero disposti ad acquistare. Per
evitare una crescita illimitata di queste scorte, la UE intraprese una politica di sussidi alle
esportazioni per disfarsi del surplus di produzione. Il prezzo di sostegno è stabilito a un livello
superiore non solo al prezzo mondiale che prevarrebbe in sua assenza, ma addirittura al prezzo che
eguaglierebbe domanda e offerta in assenza di scambi. Per poter esportare il surplus risultante viene
concesso un sussidio all’esportazione che compensa la differenza tra prezzi europei e quelli
mondiali. L’esistenza stessa del sussidio tende a ridusse i prezzi mondiali, facendo così a sua volta
aumentare il sussidio necessario.
Nonostante gli elevati costi netti della PAC per i consumatori e i contribuenti europei, il potere
politico degli agricoltori è stato così forte che è stato difficile frenare il programma; le recenti
riforme della politica agricola europea rappresentano lo sforzo di ridurre le distorsioni degli
incentivi causate dal sostegno pubblico dei mezzi, continuando però a mantenere in vita il sistema
di aiuti agli agricoltori.

9.3.2 I contingentamenti delle importazioni: la teoria.


Un contingentamento (o quota) sulle importazioni è una restrizione diretta sulla quantità di un certo
bene che può essere importata; viene imposta attraverso un regime di licenze concesse a determinati
gruppi di individui o imprese. Le sole imprese abilitate sono infatti compagnie commerciali
specifiche, a ognuna delle quali viene concesso il diritto di importare un numero massimo di beni

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ogni anno. È importante evitare l’idea che il contingentamento limiti le importazioni senza
provocare aumenti dei prezzi interni: infatti, un contingentamento delle importazioni ha sempre
l’effetto di innalzare i prezzi interni dei beni importati. Quando si introducono limitazioni alle
importazioni, il risultato immediato e che in corrispondenza del livello iniziale del prezzo, la
domanda per il bene eccede la somma di offerta interna e importazioni. Ciò fa si che il prezzo
aumenti fino al raggiungimento dell’equilibrio di mercato. Alla fine, un contingentamento genera un
aumento dei prezzi interni uguale a quello di un dazio che i limiti le importazioni nella stessa
misura.
La differenza tra un contingentamento e dazio sta nel fatto che nel primo caso il governo non
percepisce alcun introito: la somma di denaro che con un dazio si sarebbe manifestata nella forma di
reddito per il governo viene percepita dai destinatari delle licenze governative; i profitti realizzati
dai possessori delle licenze di importazione sono noti come rendite da contingentamento.

9.3.3 Le limitazioni volontarie delle esportazioni.


Una variante dei contingentamenti delle importazioni è costituita dalle limitazioni volontarie delle
esportazioni, dette anche VER, o accordi di limitazione volontaria. Un VER è un contingentamento
dei flussi commerciali imposto dal paese esportatore, anziché dall’importatore. Limitazioni di
questo genere sono solitamente imposte su richiesta del paese importatore e vengono accordate dal
paese esportatore per evitare altri tipi di restrizioni commerciali. Gli accordi VER presentano alcuni
vantaggi politici e giuridici che li hanno resi in molti casi gli strumenti preferiti della politica
commerciale. Dal punto di vista economico, tuttavia, una restrizione volontaria delle esportazioni è
del tutto simile a un contingentamento delle importazioni le cui licenze siano concesse a giovani
stranieri: è pertanto molto costosa per il paese importatore, producendo una perdita (i VER sono
molto più costosi dei dazi). La preferenza diffusa dei governi verso i VER rispetto ad altre forme di
intervento nel commercio internazionale richiede un’analisi più accurata.

9.3.4 Requisiti di contenuto nazionale minimo della produzione.


un requisito di contenuto nazionale minimo della produzione è una norma in base alla quale una
data porzione del bene finale deve essere di produzione nazionale. I requisiti sono stabiliti in termini
di valore, cioè richiedono che una quota minima del prezzo del bene rappresenti valore aggiunto
prodotto interno. Leggi sui requisiti minimi di contenuto nazionale sono state ampiamente utilizzate
dai paesi in via di sviluppo, nel tentativo di indirizzare la propria struttura industriale
dall’assemblaggio verso la produzione di beni intermedi. Dal punto di vista dei produttori nazionali
di componenti, l'imposizione di requisiti sul contenuto nazionale della produzione equivalente alla
protezione fornita da un contingentamento alle importazioni. Dal punto di vista delle imprese
costrette a rifornirsi dall'interno, i requisiti di contenuto nazionale non impongono a rigore alcun
limite alle importazioni: essi consentono all’impresa di importare di più, purché a ciò corrispondano
maggiori acquisti di componenti prodotti all’interno. Ciò significa che il prezzo effettivo degli input
pagato dall’impresa è rappresentato da una media dei prezzi degli input importati e di quelli prodotti
internamente.
Il punto importante è che l’imposizione di requisiti di contenuto nazionale minimo non genera né
introiti per il governo né rendite da contingentamento: la differenza tra il prezzo dei beni importati e
quelli di produzione interna si risolve nella media tra i due e si riflette sul prezzo finale, scaricando
l’onere sui consumatori. Un’interessante innovazione relativa alle norme di questo tipo è stata la
concessione alle imprese del permesso di soddisfare i requisiti di legge esportando, invece che
acquistando componenti di produzione nazionale.

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