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CAPITOLO 4

La piccola impresa italiana


L’Italia deve uscire da una “trappola” che lega in un circolo vizioso l’invecchiamento della popolazione
con lo scarso dinamismo del sistema e quindi l’incapacità di innovare e modificare l’attuale struttura
produttiva.

L’IDENTITÀ DELLA PICCOLA IMPRESA italiana: PUNTI DI FORZA E DI DEBOLEZZA A CONFRONTO

Le piccole imprese presentano una vocazione verso le produzioni tradizionali e costituiscono tuttora,
nonostante i giudizi approssimativi di alcuni studiosi che, in particolare prima degli anni Ottanta, le
ritenevano delle anomalie del sistema produttivo, la base fondamentale dell’economia italiana.

Negli ultimi decenni, infatti, la letteratura economica e manageriale, prendendo coscienza del
decadimento del modello di produzione gerarchico di matrice fordista a favore di modelli più flessibili e
dinamici, ha prestato crescente attenzione al fenomeno cogliendo in esso non solo fattori di fragilità
endogena, ma anche elementi di forza.

Sono molte le imprese italiane che nel tempo, pur essendo di piccole dimensioni, hanno mostrato vitalità
imprenditoriale prosperando in termini di redditività pur mantenendo le caratteristiche proprie della
dimensione ridotta. A primo acchito la maggior stabilità delle piccole imprese sarebbe l’immediata
conseguenza della minor turbolenza che ha coinvolto i mercati nei decenni passati rispetto alla
complessità dell’attuale contesto competitivo. In realtà pur in presenza di condizioni turbolente in molti
casi le imprese di piccole dimensioni sono riuscite a mantenere le proprie posizioni sul mercato
registrando delle performance superiori rispetto ad altre organizzazioni aziendali di dimensioni maggiori.

L’innegabile successo ascrivibile alle imprese di ridotte dimensioni deriva dalla presenza di alcuni punti di
forza che presentano talora un rovescio della medaglia trasformandosi in punti di debolezza e di fragilità.

Le peculiarità suscettibili di determinare condizioni di vantaggio sono distinte per attività ed enucleate di
seguito.

- Flessibilità organizzativa: i rapporti fra l’imprenditore e il personale sono più diretti e caratterizzati
da una maggiore informalità; ne consegue una spiccata fluidità nei flussi informativi all’interno
dell’organizzazione. La flessibilità direzionale, ossia la capacità di modificare rapidamente la propria
impostazione strategica ed organizzativa, riscontrabile all’interno delle imprese di piccola dimensione
costituisce un importante elemento che garantisce un maggior coinvolgimento collettivo nello sforzo
dell’impresa verso la creazione di valore;

- localismo: la piccola impresa struttura un legame più stretto con il tessuto locale nel quale risulta
inserita che facilita i rapporti con i terzi; inoltre, ulteriori vantaggi derivano dalla vicinanza con i clienti e
con i mercati di approvvigionamento e di sbocco se l’impresa è all’interno di un distretto produttivo. Non
si trascuri, poi, che in siffatte circostanze le imprese possono essere stimolate alla creazione di network di
unità produttive su base locale che consentirebbero il superamento di molti degli svantaggi insiti nei limiti
dimensionali;

- partecipazione e motivazione del personale: nelle imprese di piccole dimensioni il personale ha,
nella maggior parte dei casi, relazioni dirette con la proprietà soprattutto alla luce del fatto che in molti
casi le imprese in oggetto sono di tipo familiare per cui si trae beneficio da eventuali legami di parentela
con l’imprenditore;
- capacità di attrarre/trattenere potenzialità in termini di risorse umane: l’accumulo di esperienza è
spesso in grado di sopperire, all’interno delle imprese di piccole dimensioni, alla mancanza di economie di
scala tipiche delle imprese di dimensioni maggiori. Le conoscenze che si formano e si consolidano fanno
capo all’imprenditore e ai pochi suoi collaboratori per cui la loro circoscrizione gli conferisce una
caratteristica di univocità difficilmente imitabile dai concorrenti: le piccole imprese contribuiscono in
buona misura all’introduzione sul mercato di nuovi prodotti e servizi e all’adattamento dei beni esistenti
in coerenza alle esigenze della clientela. La capacità innovativa basata sull’inventiva è peraltro
formalmente legata alla possibilità di operare in stretto contatto con clienti e fornitori e alla possibilità di
accedere a network in grado di favorire la messa a punto di novità utilizzando degli strumenti che spesso
esulano dalla mera tecnologia;

- flessibilità produttiva: la piccola impresa si presta molto di più rispetto a quella di maggiori
dimensioni nel proporre e/o offrire un prodotto/servizio fortemente personalizzato. Non va inoltre
trascurato un ulteriore punto di forza delle piccole imprese che deriva dalla rapidità con cui le stesse
possono adeguare, qualitativamente e quantitativamente, sia la struttura che l’attività operativa alle
variazioni della domanda. Le piccole imprese adattano infatti i propri livelli di produttività, in settori
caratterizzati da produzioni specializzate e da contesti ambientali esterni instabili, in modo molto più
efficiente da quanto dimostrato dalle imprese di dimensioni maggiori che in tale circostanza si
configurano meno flessibili;

- contatto diretto con la clientela: le imprese in oggetto dimostrano un’elevata capacità nella
fidelizzazione della clientela e il loro successo è spesso da imputare all’abilità di creare relazioni di
reciproca fiducia. Questa caratteristica aiuta le stesse a differenziarsi dalle relazioni standard che invece
caratterizzano i rapporti tra la clientela e le imprese di maggiori dimensioni. Un contatto assiduo e
frequente con la clientela consente di poter interpretare e anticipare eventuali variazioni nei gusti del
target di clienti di riferimento;

- ampia conoscenza del mercato di riferimento: il connubio dei punti di forza citati si riflette in una
più dettagliata conoscenza del mercato di riferimento che è una condicio sine qua non per poter
identificare le minacce e le opportunità che dallo stesso conseguono adeguando tempestivamente la
propria strategia competitiva e il proprio orientamento strategico di fondo.

Agli indubbi punti di forza di cui sopra fa riscontro la contestuale presenza di altrettanti punti di debolezza
che rientrano tra le più ricorrenti cause di mortalità delle piccole imprese. I principali svantaggi che
pervadono la tipologia di imprese in oggetto sono riassumibili come di seguito proposto:
-frequente impiego di personale poco qualificato: le imprese minori esercitano una scarsa
attrattività nei confronti delle figure professionali più valide e incontrano maggiori difficoltà,
rispetto alle antagoniste, nel mantenerle all’interno del proprio sistema. In suddette imprese
infatti gli spazi per la crescita professionale sono piuttosto limitati dal ruolo dell’imprenditore
che tende ad accentrare presso di sé la più parte delle funzioni direttive e di responsabilità. Da
questo punto di vista la concorrenza che le imprese minori si trovano a dover fronteggiare nei
confronti delle imprese di medie e grandi dimensioni è davvero notevole;

-debolezza della struttura finanziaria: altro fenomeno ricorrente nelle imprese di ridotte
dimensioni è quello della sottocapitalizzazione, ossia della limitata presenza di capitale di rischio
a sostegno dei fabbisogni di finanziamento. Tale circostanza vincola lo svolgimento dell’attività e
pone soprattutto degli importanti vincoli ai percorsi di espansione delle piccole imprese.
D’altronde il sistema creditizio non consente espansioni dell’indebitamento oltre determinati
rapporti rispetto alla consistenza del capitale. Fra tutti i punti di debolezza la struttura finanziaria
delle imprese di minori dimensioni rappresenta l’elemento discriminante più rilevante. Si
traduce nella difficoltà di ottenere finanziamenti adeguati al sostegno della crescita dell’impresa.
È un problema che caratterizza soprattutto le aziende di dimensioni piccolissime, quelle più
giovani e soprattutto le aziende del Centro-Sud della Penisola. È una situazione riconducibile alla
scarsa cultura imprenditoriale degli intermediari finanziari che, secondo un’accezione
tradizionalista, valutano l’affidabilità dell’impresa e dell’imprenditore in funzione delle
disponibilità patrimoniali. Inoltre altro aspetto che influenza negativamente lo standing creditizio
delle piccole imprese è la sovrapposizione del patrimonio della famiglia con quello dell’impresa;
-difficoltà di accesso al capitale di rischio: le strutture finanziarie delle piccole imprese in relazione alla
tipicità dei loro percorsi di patrimonializzazione si basano essenzialmente sull’autofinanziamento. Il
capitale di rischio rimane tendenzialmente concentrato nel nucleo proprietario di costituzione
dell’impresa e piuttosto rari sono i casi in cui si verifica un allargamento della compagine societaria. Si
possono individuare due ragioni fondamentali. In Italia non esiste ancora un evoluto segmento di
mercato dei capitale delle piccole imprese pur ricordando la presenza di investitori istituzionali che
investono in piccole realtà; inoltre, e si configura probabilmente come la giustificazione più grave a
testimonianza dell’arretratezza dello spirito imprenditoriale, si segnala un diffuso atteggiamento di
chiusura dei piccoli imprenditori restii ad allargare la compagine societaria verso l’esterno per il timore di
subire interferenze nella conduzione o di perdere progressivamente il controllo della gestione;

-focalizzazione sugli aspetti produttivi: nelle piccole imprese si riscontra un orientamento


tecnico–produttivo quasi esclusivo dove l’interesse prevalente è rivolto alla specifica attività
produttiva a scapito degli aspetti gestionali. L’area del marketing, della finanza,
dell’organizzazione e sviluppo delle risorse umane, della logistica e del controllo di gestione
assumono un’importanza non del tutto prioritaria: la gestione viene intesa soprattutto come
attività prettamente tecnica in cui assume rilevanza la conoscenza approfondita dei processi di
trasformazione. La ragione di questo orientamento dipende direttamente da uno dei punti di
forza precedentemente menzionati da ricercarsi nella convinzione diffusa, all’interno delle
imprese minori, che uno dei fattori critici di successo, se non il primario, sia la capacità di
realizzare prodotti di alta qualità e scarsamente standardizzati. Nonostante ne derivi un
elemento di vantaggio nella fidelizzazione della clientela può causare una lenta propensione
nel recepire e nel rispondere repentinamente agli stimoli provenienti dall’esterno;

-difficoltà ad avviare e gestire processi di ricerca e sviluppo per l’innovazione: lo scarso sviluppo
delle attività di R&S non è da imputare, o almeno non solo, alla mancanza di interesse da parte
delle imprese verso le attività suddette, quanto piuttosto all’impossibilità delle stesse di far
fronte agli ingenti investimenti, in termini di capitale finanziario e di risorse umane, da destinare
allo sviluppo dell’attività;
-assenza di gestione strategica e di cultura manageriale: tipici punti di debolezza delle piccole imprese
che derivano dall’identificazione dell’impresa con la persona dell’imprenditore. La carenza di cultura
manageriale si attenua nelle imprese guidate da imprenditori più giovani che presentano un grado di
dinamismo superiore rispetto agli imprenditori senior. Siffatte carenze diventano via via determinanti al
crescere della complessità sia interna che esterna dovuta all’incremento del carico di responsabilità
dell’imprenditore che di fatto gli impedisce di concentrarsi in via esclusiva sugli aspetti aziendali più
critici;
eccessivo accentramento dell’attività di guida in capo all’imprenditore: in molte piccole imprese
la sovrapposizione dell’impresa con l’imprenditore e l’accentramento dei processi decisionali
comporta una notevole contaminazione degli stessi da parte dell’intuito e dell’esperienza
dell’imprenditore medesimo, al punto da sostituire gli strumenti di analisi e di pianificazione di
cui dovrebbero essere dotate anche le imprese minori.
Il rischio principale in cui incorre la piccola impresa, che si identifica fortemente nella figura
dell’imprenditore, è che il ciclo di vita dell’impresa segua la stessa evoluzione della vita dell’imprenditore
e si concluda in corrispondenza del termine dell’impegno professionale di quest’ultimo. Sono infatti più
che frequenti i casi di estinzione dell’impresa a causa della mancanza di una valida successione nella
gestione in grado di assicurare continuità all’azienda. Dall’esposizione dei punti di forza e debolezza
emerge, quindi, il ruolo chiave assunto dalle caratteristiche soggettive della persona dell’imprenditore e
dalla sua capacità di conferire un’esistenza autonoma alla sua impresa (Cortesi, 2004b, pp. 30-35).
Nella tabella che segue (tab. 1.2) è riportato uno schema riepilogativo dei principali vantaggi e svantaggi
che sono attribuibili alle imprese di ridotte dimensioni.
Tabella 1.2 – I principali punti di forza e di debolezza delle piccole imprese

Punti di forza Punti di debolezza


Flessibilità organizzativa Frequente impiego di personale poco qualificato
Localismo Debolezza finanziaria
Partecipazione e motivazione del personale Difficoltà di accesso al capitale di rischio
Capacità di attrarre/trattenere potenzialità in
Focalizzazione sugli aspetti produttivi
termini di risorse umane
Difficoltà ad avviare e gestire processi di ricerca e
Flessibilità produttiva
sviluppo per l’innovazione
Assenza di gestione strategica e di cultura
Contatto diretto con la clientela
manageriale
Eccessivo accentramento delle attività in capo
Ampia conoscenza del mercato di riferimento
all’imprenditore
Elaborazione propria

LA DIMENSIONE DELLE IMPRESE NELLE TEORIE ECONOMICHE


Le problematiche legate allo sviluppo dimensionale delle imprese rappresentano un
campo di studio molto ampio e sono state analizzate, nel corso del tempo, seguendo
diversi approcci sia teorici che empirici. Le posizioni assunte dalla teoria sono state
eterogenee enfatizzando a tratti il ruolo della grande dimensione e a tratti criticando le
strategie di crescita ed esaltando la flessibilità delle imprese minori. Nessuna posizione
assunta poteva essere considerata valida in assoluto rispetto alle antitetiche: la presenza
di un trade-off tra flessibilità e produttività ha consentito di porre l’accento sulla
validità di una forma dimensionale rispetto a un’altra in relazione alla mutevolezza e al
dinamismo delle condizioni ambientali e dello scenario competitivo. L’elemento
discriminante è stato spesso identificato nella situazione finanziaria: secondo le
interpretazioni tradizionali le imprese di dimensioni minori soffrirebbero di una minore
efficienza nel reperimento delle fonti di finanziamento da cui scaturirebbe, quindi, una
riduzione della competitività delle piccole imprese. Siffatte considerazioni
determinarono l’accentuarsi di posizioni critiche sulla valutazione del complessivo stato
di competitività dell’intero sistema produttivo del Paese caratterizzato dalla capillare
presenza di imprese di ridotte dimensioni, nonostante il perdurare di posizioni di
successo di alcune piccole imprese italiane e non solo in nicchie di mercato ben
determinate (Zanetti, 2000, p. 15).

Da un punto di vista teorico il fenomeno della piccola dimensione è stato analizzato


con riferimento a due aspetti:

-l’esistenza di una dimensione ottimale per la singola impresa

-e la giustificazione delle asimmetrie dimensionali fra le imprese nei diversi contesti di


attività.

La teoria di impresa ha perseguito nel tempo la definizione di parametri


sufficientemente determinanti e generali che potessero spiegare la dimensione
dell’impresa e motivare la coesistenza di imprese di differenti dimensioni nello stesso
contesto competitivo e in condizioni di economia.

Di seguito si riportano i principali contributi che la teoria economica ha realizzato con


riferimento al tema della dimensione aziendale:
- le teorie neoclassiche degli equilibri generali e la conseguente negazione
del problema dimensionale. Questa teoria, che ha caratterizzato gli studi
economici dei primi del XX secolo, riportava dei modelli di
rappresentazione della realtà che si limitavano o all’intero sistema o i
singoli mercati senza lasciare molto spazio ai singoli attori economici
coinvolti, ne conseguiva una struttura di mercato riconducibile a due
disegni opposti: la concorrenza perfetta e il monopolio, proponendo nel
primo caso una dimensione di impresa pressoché infinitesimale e
nell’altro, ipotizzata l’assenza di concorrenti, la dimensione coincideva
con quella del mercato;

- l’approccio economico–industriale che sottende la visione tecnologica


della dimensione d’impresa (economie di scala e/o di scopo) e quella
competitiva (il potere di mercato). Trova il suo fondamento nel
paradigma “Struttura-Condotta- Performance” secondo cui la dimensione
di impresa si determina attraverso la curva dei costi di lungo periodo con
le economie di scala e di scopo che definiscono il limite minimo della
dimensione. Seguendo un secondo approccio della medesima teoria,
emerge una correlazione diretta fra il grado di concentrazione del
mercato e il tasso di profitto e contiene un implicito riferimento alla
ricerca della maggior dimensione e quindi alla maggior concentrazione;

- le teorie manageriali che fanno leva sulla crescita e sulla divergenza di


obiettivi degli stakeholders. Esse non affrontano la problematica
dimensionale nell’ottica del mercato poiché fanno della crescita lo
scopo preminente del management, che sarebbe caratterizzato da una
funzione obiettivo divergente rispetto a quella della proprietà,
quest’ultima più propensa a mantenere la stabilità dei risultati e la
crescita nel reddito rispetto al management, invece, più proteso verso
l’incremento della quota di mercato e verso l’espansione delle vendite,
aspetti direttamente correlati alla remunerazione e al prestigio dei
manager stessi;

- la teoria istituzionale che lega la presenza e la dimensione delle imprese al

trade-off fra i costi di transazione del mercato e i costi di coordinamento/controllo della


gerarchia.
Secondo questa teoria l’impresa tenderà ad aumentare le proprie dimensioni quando (internalizzando
fasi precedentemente svolte tramite scambio) il costo marginale dell’internalizzazione eguaglia il costo
marginale del ricorso al mercato;

- le teorie evoluzionistiche che definiscono la dimensione di impresa e la


sua sopravvivenza in funzione dell’attività di innovazione e/o
cambiamento dalla stessa intrapresa. Le fondamenta più recondite di
tale teoria si rifanno ai lavori di Schumpeter sul ruolo della necessaria e
continua attività di innovazione tecnologica e organizzativa ai fini del
miglioramento del proprio posizionamento competitivo. La caratteristica
implicita di tali teorie si basa sulla correlazione positiva fra la
dimensione dell’impresa e la capacità di spesa in R&S. Tali posizioni
sono state in parte ridimensionate nel corso degli anni ’70 da alcuni studi
condotti con lo spirito di restituire una capacità innovativa anche alle
imprese minori;

- le teorie dei network che introducono il problema della ridefinizione dei


confini orizzontali e verticali dell’impresa stessa mettendo in secondo
piano la dimensione ottimale della singola unità.

Dalla breve disamina dei principali filoni teorici che affrontano il problema della
dimensione dell’impresa emerge come il ruolo assegnato alle PMI sia stato marginale e
sicuramente inferiore all’esistenza e alla persistenza delle stesse nei processi di
creazione del valore (Zanetti, 2000, pp. 17-22).

LE PMI ITALIANE: IL RUOLO E LA SPECIALIZZAZIONE SETTORIALE


Il tessuto economico-produttivo nazionale è connaturato dalla presenza di alcune
peculiarità che meritano di essere richiamate.

In primo luogo, l’elemento portante del nostro sistema industriale è rappresentato da


imprese di piccole e medie dimensioni le quali hanno a lungo goduto di
caratteristiche di efficienza e competitività grazie, soprattutto, alla flessibilità e alla
capacità di catturare innovazioni realizzate da altri. Tuttavia, attualmente i mutamenti
dei sistemi finanziari in atto hanno ridotto alcune delle caratteristiche positive di questo
modello, mettendone in luce gli elementi di fragilità. Lo stesso processo di
concentrazione, che costituisce uno dei risultati più evidenti dell’evoluzione del
sistema bancario italiano, può significare per le piccole e medie imprese la perdita dei
principali interlocutori, con evidenti ripercussioni negative sulle possibilità e sulle
modalità di accesso al credito.
In secondo luogo, il nostro tessuto imprenditoriale è costituito in prevalenza da imprese
a conduzione familiare, le quali sono definibili come le imprese in cui “una o poche
famiglie, collegate da vincoli di parentela, di affinità o da solide alleanze detengono
una quota del capitale di rischio sufficiente ad assicurare il controllo dell’impresa”
(Corbetta, 1995).
L’industrializzazione italiana ha avuto nel tempo, come noto, caratteristiche peculiari
rispetto a quella degli altri paesi poiché si è realizzata grazie al considerevole apporto
delle piccole e medie imprese tuttora presenti in modo capillare all’interno del sistema
economico–produttivo. Tuttora le piccole e medie imprese costituiscono la realtà
principale su cui si basa l’economia nazionale.
La maggior parte delle imprese nazionali, essendo sorta nell’immediato secondo
dopoguerra attualmente si sta dirigendo verso il ricambio generazionale, con evidenti
difficoltà nei casi in cui gli eredi non sono intenzionati a continuarne la gestione.

Pertanto, l’attuale stato delle cose giustificherebbe la ricerca di processi di apertura del
capitale societario all’esterno e la conseguente crescita dimensionale.
Per molte delle imprese domestiche l’opzione della crescita esterna rappresenta ancora
un’eccezione piuttosto che una tappa obbligata. L’opera di ristrutturazione e
riqualificazione dell’assetto produttivo appare, però, improcrastinabile e l’accresciuta
attenzione verso le operazioni di M&A si giustifica alla luce di alcune variabili
oggettive come:
- l’espansione della quota di mercato con la diversificazione e il
consolidamento della corrente posizione competitiva;

- l’ampliamento della gamma produttiva mediante l’acquisizione di


operatori specializzati;

- l’estensione dei confini di influenza attraverso il perseguimento di una


più minuziosa rete distributiva e l’ampliamento della clientela servita;

- la ricerca del salto dimensionale in grado di avvantaggiare l’impresa


di economie di scala e di scopo (Del Prete, 2002, pp. 3-8).

LA CRESCITA DELLE IMPRESE: ELEMENTI DI DEFINIZIONE

Le imprese sono organizzazioni dinamiche orientate “istintivamente” verso lo sviluppo


dimensionale. La pressione competitiva conduce a ricercare con costanza nuove
opportunità di sviluppo per aumentare la distanza dai principali competitors; la stessa
struttura del mercato spinge verso dimensioni crescenti, in assenza delle quali
risulterebbe difficile raggiungere posizioni dominanti e risultati significativi.
Di fronte a obiettivi di medio termine l’incremento dimensionale diviene una scelta
improcrastinabile piuttosto che un’opzione. La spinta verso i processi evolutivi è
correlata al mutamento dello scenario economico di riferimento che spesso impone la
revisione dei modelli strategici e obbliga le imprese a un repentino sforzo di
cambiamento.
Il successo dell’impresa è sempre più condizionato da fattori immateriali: fondamentale
importanza assume la capacità di sapersi muovere in coerenza con il dinamismo del
mercato secondo un orientamento pro-attivo.
La crescita si configura come la risposta più appropriata alla necessità di orientare il
core business verso i seguenti nuovi obiettivi:
- lo sviluppo di nuovi prodotti/servizi e di particolari soluzioni
organizzative talvolta verso direzioni inesplorate;

- la gestione, sempre curata, della relazione con il cliente e il mercato;


- l’introduzione di logiche distributive alternative;
- il presidio e lo sfruttamento continuo della variabile tecnologica;
- l’utilizzo diligente di competenze operative e logistiche;
- l’ampliamento del raggio di azione a livello internazionale.
La sensibilità e l’attenzione del management verso tali finalità rappresentano delle
condicio sine qua non per crescere. Inoltre, occorre ricordare che, in momenti di crisi,
sono proprio le imprese di maggiori dimensioni a dimostrare una migliore capacità di
sopravvivenza rispetto alle imprese minori. Per quanto le attività di espansione e
sviluppo possano esser perseguite attraverso un intenso sforzo di investimento interno
può accadere che le imprese non abbiano le competenze e soprattutto il tempo
necessario per realizzarle secondo le modalità desiderate.
All’investimento interno si affianca pertanto l’opzione alternativa della crescita per vie
esterne che si identifica come soluzione complementare o, del tutto, sostitutiva.

Per le imprese la mancanza di crescita (definita “fattore g” dove “g” indica growth cioè
crescita) determina un’incapacità nel sostenere la velocità crescente con cui l’ambiente
economico di riferimento muta.
Il “fattore g” ha quattro radici principali. La prima è il risultato della crescita del settore
nel quale l’impresa opera, combinata con la crescita della quota di mercato dell’azienda
in questione. Entrambe hanno un tetto: un settore non può sempre essere in espansione
e la quota di mercato ha il suo limite naturale che è dato dalla quota del monopolista.
La seconda radice del “fattore g” è la produttività dei laboratori di R&S: in presenza di
una produttività elevata sono maggiori le ipotesi fattibili in termini di crescita
sostenibile. La terza è la capacità dell’impresa di rappresentare un fast follower cioè
identificare per tempo le aziende che sanno meglio interpretare il mercato e copiare da
esse velocemente e efficacemente. In realtà questa strategia di crescita ha dei limiti
intrinseci determinati dal fatto che le aziende di successo non vogliono copiare perché
la capacità di riuscirvi è molto più forte nelle aziende di dimensioni medio/piccole dove
tutto il sistema di business è concepito e gestito da una mano unica; in quelle grandi,
invece, qualsiasi cambiamento è per definizione più lento. Il concorso di queste radici
porta alla definizione della quarta: la crescita per vie esterne che risulta il percorso
quasi più breve per garantire alle imprese il successo sul mercato (Conca, 2005, pp. 9-
10).

DIMENSIONE RIDOTTA E CRESCITA


La consolidata persistenza di imprese di dimensioni ridotte nel tessuto economico-
produttivo dei paesi maggiormente sviluppati costituisce un’evidenza non trascurabile
che, se da un lato legittima la rilevanza della piccola impresa quale fondamentale attore
economico, dall’altro induce ad approfondirne i comportamenti e i processi di
cambiamento. Lo small business sector risulta animato da rilevanti dinamiche evolutive
che si sostanziano sia nella continua generazione ed estinzione di nuove
iniziative imprenditoriali, che nella sopravvivenza e sviluppo di quelle esistenti.

Gli small business costituiscono un settore molto dinamico nel quale, a fronte della
continua nascita di imprese, si riscontra un altrettanto elevato tasso di estinzione delle
stesse. La stringente relazione tra l’impresa di piccole dimensioni e la crescita rende
necessarie alcune considerazioni preliminari che conferiscono legittimità e rilevanza
ai processi di sviluppo delle imprese. Processi che assumono una diversa configurazione
a seconda che si tratti di piccole o di medie e grandi imprese.
Le problematiche relative alla crescita delle imprese si legano indissolubilmente
all’aspetto dimensionale. Si tratta di un binomio intelligibile all’interno delle operazioni
di finanza straordinaria.
La ricerca delle “dimensioni ottime” è un tema innato nelle aziende e nei suoi processi
di ordine produttivo e finanziario, ma di recente si è imposta all’attenzione di studiosi
ed esponenti del mondo operativo dietro la spinta della globalizzazione dei mercati e
delle economie.
Le imprese, infatti, volte sempre più a conseguire assetti produttivi più efficaci ed
efficienti, si fanno promotrici di operazioni aggregative o di alleanze strategiche al
fine di consolidare la propria posizione sul mercato e di spiazzare i competitors
nazionali e internazionali.
Molti contesti sono caratterizzati dalla presenza di pochi e ben radicati competitors che
sovente non consentono di ritagliare degli spazi agevoli da destinare alle singole
imprese, che, per quanto in crescita, potrebbero non riuscire a creare, e
soprattutto mantenere, una leadership senza instaurare o tessere coalizioni con altre unità
economiche.
Le operazioni di crescita esterna non dovrebbero perseguire –o almeno non solamente–
il mero ampliamento dimensionale che dovrà necessariamente rientrare all’interno di un
più ampio e dettagliato piano di crescita; qualora fine a se stesso condurrebbe a un
sicuro peggioramento delle condizioni prospettiche di equilibrio il cui mantenimento e
potenziamento dovrebbe costituire il fine ultimo cui ogni decisione strategica e operativa
tende.
Piuttosto che perseguire in assoluto l’incremento delle dimensioni sarebbe più
opportuno considerare la razionalizzazione delle dimensioni sul piano distributivo e
operativo, da cui potrebbe anche scaturire la riduzione delle stesse laddove esorbitanti
rispetto alle necessità di mercato. L’essenza aziendale risiede nella consapevole
creazione di valore e le proporzioni ciclopiche possono far perdere la consapevolezza
dei limiti dell’attività economica realizzata.

La crescita, processo armonico e sistemico, non può essere fine a se stessa: lo sviluppo
dimensionale deve essere perseguito tenendo fermo l’obiettivo ultimo di preservare la
capacità di creare valore, fine strumentalmente assegnato a ciascuna attività economica.
Non sorprende, infatti, che molte operazioni aggregative, alla fine, determinano
esclusivamente la distruzione di valore (Del Prete, 2002, pp. 3-8).
Molti studi economico–aziendalistici, prescindendo dalle evidenze empiriche che la
Legge di Gibrat ha fatto proprie, distinguono nettamente fra piccole e grandi imprese,
attribuendo alle prime un ruolo pressoché marginale, nonostante si configurino come il
reale e rilevante propulsore dell’economia nazionale. Una tale osservazione porta a
riconsiderare la teoria degli spazi interstiziali secondo la quale, in un sistema economico
in espansione, lo sviluppo e la crescita della piccola impresa sarebbe possibile solo in
presenza di opportunità di sviluppo mancate o non sfruttabili dalle imprese di maggiori
dimensioni.
Elemento discriminante tra la piccola e grande impresa riguarda soprattutto la
complessità dei processi decisionali e organizzativi che è strettamente legata alle
dimensioni. La letteratura sulle relazioni tra dimensione e crescita mette in evidenza le
differenze nella struttura e modalità di comportamento dovute alla maggior complessità
dei legami di comunicazione per garantire il buon funzionamento delle organizzazioni
maggiori rispetto a quelle di minori dimensioni35.
Il binomio crescita-dimensioni è stato oggetto di molti studi empirici che hanno
consentito la formazione di due opposte correnti di pensiero:
1. la prima individua una relazione positiva tra crescita e dimensioni
cosicché le imprese avrebbero più possibilità di sopravvivere in quanto
di grandi dimensioni;

2. la seconda si muove invece in una direzione diametralmente opposta


individuando una relazione negativa fra dimensione e crescita.

Le piccole imprese dimostrano empiricamente un andamento decrescente dei tassi di


mortalità all’aumentare delle dimensioni sopportando una maggior probabilità di
estinzione durante i primi anni di vita. In realtà, tale limite è in parte compensato da una
maggiore flessibilità produttiva e competitiva propria di strutture più snelle e dinamiche
caratterizzate da processi più elastici. La piccola impresa si dimostra, infatti, più agile
nell’adattarsi ai cambiamenti dell’ambiente esterno rispetto alle imprese di dimensioni
maggiori le quali, però, dal canto loro, possono far leva sulla presenza di
elevate economie di scala e di apprendimento, su un significativo potere di mercato e su
una maggiore disponibilità di risorse facilmente adattabili a nuove e impreviste
circostanze.
La seconda corrente sottolinea, al contrario, la rigidità delle large companies nei
processi di cambiamento a causa dell’estesa burocratizzazione che si accompagna
all’inerzia strutturale e ne impedisce un rapido cambiamento organizzativo.
Il processo di crescita non è predeterminato e ammettendo la presenza di fattori in
grado di inibirne o condizionarne l’intensità se ne legittima un ulteriore contributo:
l’intenzionalità. L’elemento dell’intenzionalità qualifica l’intero percorso non come un
processo causale che trasforma radicalmente l’impresa senza motivazioni di fondo e in
ossequio a mire imprenditoriali espansionistiche. L’intenzionalità è, invece, una
caratteristica necessaria oltre che fondamentale soprattutto in relazione alle imprese di
piccole dimensioni perché l’aspetto motivazionale e soggettivo dell’imprenditore è un
elemento pregnante nei processi di crescita esterna delle piccole imprese nelle quali le
sue caratteristiche (obiettivi, esperienza, capacità e conoscenza) hanno un impatto
decisivo sulla formulazione di un processo evolutivo (Moliterni, 2000, p. 5).

In letteratura l’interpretazione delle dinamiche dello sviluppo non è però univoca, al


contrario, favorisce un dibattito molto vivace che testimonia sia la rilevanza concettuale
dell’analisi dei processi di crescita sia la consistenza, tutt’altro che marginale, della
piccola impresa nei processi di sviluppo. Nello specifico, si sono delineate soprattutto
due correnti di pensiero. Alcuni evidenziano una relazione positiva tra dimensioni e
sviluppo di impresa sottolineando la positività dei caratteri della grande impresa capace
di adottare rapidamente innovazioni, sfruttando la differenziazione e la specializzazione
del personale e la disponibilità di risorse39. I sostenitori dell’altra corrente di pensiero
propendono, invece, per una relazione negativa tra dimensione d’impresa e crescita
sottolineando la rigidità delle grandi imprese nei processi di cambiamento a causa della
diffusa burocratizzazione.
La rilevanza del binomio tra piccola dimensione e crescita necessita di alcuni
chiarimenti di fondo che possano circoscriverne i contenuti. La crescita non è un
processo eventuale e sicuramente non è necessario. Non esiste alcun predeterminato
percorso che l’impresa, in modo più o meno rapido, è tenuta a percorrere. Ne consegue
che viene ammessa la reale presenza di fattori inibitori che possono sconsigliare o
comunque condizionare in modo significativo l’avvio di processi di crescita; in secondo
luogo si attribuisce un ruolo fisiologico alla presenza delle imprese di piccole
dimensioni nel tessuto produttivo non più da considerare -o almeno non solamente-
quale condizione iniziale della vita d’impresa che evolverà dinamicamente, ma
piuttosto come stato d’essere dell’impresa stessa. Va, inoltre, ricordato che i processi di
crescita dimensionale, a prescindere dalle modalità esecutive, necessitano di un
elemento fondamentale che assume ancor più rilevanza nelle imprese di piccole
dimensioni: l’intenzionalità.
Studi di carattere empirico sottolineano il peso della motivazione alla crescita nei
processi di sviluppo. Le ragioni alla base della mancanza di motivazioni possono essere
molteplici: il rischio della perdita del controllo finanziario e manageriale, necessaria
conseguenza dell’allargamento delle dimensioni, appare la più significativa barriera
motivazionale nelle realtà imprenditoriali minori, soprattutto in Italia il cui tessuto
imprenditoriale è caratterizzato dalla capillare presenza di imprese a gestione familiare.
Pertanto, l’orientamento allo sviluppo deve essere considerato una pre- condizione
necessaria, quantunque non sufficiente, affinché tale fenomeno abbia luogo, poiché la
mancanza di un forte elemento motivazionale alla crescita costituisce un deterrente in
grado di inibire ogni processo di sviluppo.
Un comportamento growth oriented può manifestarsi con diversi livelli di intensità; è
possibile, al riguardo, distinguere due diverse tipologie di imprenditorialità:
a) l’imprenditorialità limitata: conseguenza dell’individualismo dell’impresa. Lo
scarso orientamento verso lo sviluppo dimensionale non inibisce la sopravvivenza della
stessa, ma di fatto circoscrive la crescita al di sotto di limitate soglie dimensionali;
b) l’imprenditorialità completa in cui l’attività è orientata verso l’identificazione
sistematica di opportunità produttive per l’espansione e l’opzione della crescita per vie
esterne rappresenta una possibilità irrinunciabile (Moliterni, 2000, pp. 3- 11).

LA LEGGE DI GIBRAT
La Legge di Gibrat (1931) è una relazione descrittiva di tipo statistico che postula
indipendenza tra la crescita, in termini percentuali, delle imprese e la loro dimensione.
Le evidenze empiriche rintracciabili in letteratura, che hanno analizzato la relazione fra
la crescita e le dimensioni, producono risultati difformi. Nello specifico i contributi di
Hart e Prais (1956), Simon e Bovini (1958) e di Hymer e Pashigian (1962) producono
evidenza econometrica a sostegno di tale tesi.
La ricerca empirica successiva ha tuttavia messo a dura prova l’ipotesi di un processo
di crescita di natura puramente stocastico. Molti studi settoriali hanno evidenziato come
questa relazione non sia verificata empiricamente dimostrando come il tasso di crescita
delle imprese decresca al crescere delle dimensioni. L’evidenza empirica mostra,
infatti, che la relazione tra crescita e dimensione d’impresa nella manifattura industriale
non è costante ma decrescente: la necessità di raggiungere dimensioni minime efficienti
spinge le piccole imprese a crescere più velocemente di quelle grandi.
Nella maggior parte dei lavori emerge che le imprese più piccole presentano tassi di
crescita più alti e variabili rispetto alle imprese di maggiore dimensione, ma non
mancano neppure risultati di segno contrario: appare, in definitiva, che la dimensione
iniziale dell'impresa ha effetti generalmente non neutrali sulla dimensione futura della
stessa. Questo scostamento tra le predizioni della Legge di Gibrat e l’evidenza empirica
ha costituito lo stimolo per la ricerca, anche a livello teorico, di modelli che potessero
fornire un’interpretazione coerente con le caratteristiche più comunemente osservate
del processo di crescita dell'impresa.
Il modello a cui più frequentemente si fa riferimento nella letteratura è quello di
Jovanovich (1982), in cui vengono introdotti meccanismi di passive learning per
descrivere la dinamica evolutiva di un’impresa all'interno di un dato settore industriale.
In questo modello, particolare rilievo assumono fattori quali l'eterogeneità d'impresa ed
elementi idiosincratici derivanti dall'incertezza relativa ai parametri di costo e al livello
di efficienza innata di ciascuna impresa. Seguendo Jovanovich, la fase iniziale del ciclo
di vita di un’impresa può essere vista come un periodo di intenso e rapido
apprendimento della propria capacità e abilità in quanto le imprese, alla nascita,
possiedono una conoscenza imperfetta del reale livello di efficienza innata che si rende
manifesta solo con l'avvio dell’attività. In virtù di questa incertezza, le imprese nascono
generalmente piccole e, successivamente, adeguano la propria dimensione in relazione
agli esiti della performance di mercato.
Il modello di Jovanovich prevede, infatti, che le risorse fluiscano verso le imprese più
efficienti, che quindi sopravvivono e crescono; al contrario, le meno efficienti, dopo
una fase di declino, saranno destinate a uscire dal mercato. In questo contesto,
dimensione ed età d'impresa possono essere considerati indicatori degli esiti del
processo di apprendimento dell'efficienza. Come implicazione empiricamente testabile
del modello deve valere che le imprese più piccole e giovani, condizionatamente alla
sopravvivenza, presentino tassi di crescita più sostenuti rispetto a quelle più mature e
più grandi: ossia, l'età e la dimensione risultano negativamente correlate con la crescita,
in maniera più marcata proprio nella fase iniziale del ciclo di vita dell'impresa
(Colombo, Ermini, 2005, pp. 1-3).
In relazione al contesto produttivo nazionale, la maggior parte degli studi empirici non
ha tenuto conto della possibile esistenza di non-linearità e/o discontinuità nella
relazione tra crescita e dimensione d’impresa. Va poi considerata la presenza di “effetti
soglia” (threshold effects) generati dalla regolamentazione pubblica del lavoro. Nei
paesi europei, la legislazione del lavoro cambia a seconda della dimensione d’impresa.
In Italia, la regolamentazione pubblica del rapporto di lavoro subordinato si concretizza
in un complesso sistema di norme, derivanti da leggi e da contratti collettivi, che
introducono molteplici soglie dimensionali nel graduare l’intensità dei vincoli cui sono
soggette le aziende nella gestione delle relazioni con i dipendenti. Tra le diverse soglie,
quella dei 15 addetti emerge indubbiamente come la più rilevante per il salto qualitativo
che comporta nell’organizzazione e nei costi dell’impresa. Con riferimento a
quest’ultimo punto, le imprese sono obbligate a reintegrare sul posto di lavoro, oltre che
a risarcire, un lavoratore ingiustamente licenziato, solo se esse superano la soglia
dimensionale dei 15 dipendenti.

LE MOTIVAZIONI A SOSTEGNO DELL’ESPANSIONE DELLE IMPRESE


I processi di crescita devono essere armonici e strutturati per cui l’elemento
fondamentale e strumentale alla loro implementazione è l’intenzionalità.
Per le piccole imprese spesso sussiste da parte dell’imprenditore una riluttanza nel
realizzare processi di crescita esterna, raramente considerati un fine in se stesso, più
spesso un mezzo per raggiungere obiettivi personali di altra natura.
Le ragioni alla base della mancanza di motivazioni alla crescita possono essere
molteplici. È soprattutto il rischio della perdita del controllo finanziario e manageriale,
necessaria conseguenza dell’aumento delle dimensioni, a costituire un deterrente
motivazionale nelle realtà imprenditoriali cadette.
Le motivazioni che inducono a realizzare un’operazione di crescita esterna spesso
partono proprio dalla ricerca di una maggiore concentrazione nel settore allo scopo di
diluire il grado di competizione o per far fronte a una domanda più contratta che non
giustificherebbe investimenti diretti aggiuntivi in grado di aumentare la capacità
produttiva, ma all’interno di un settore già saturo50.
Agli effetti positivi si contrappongono alcuni fattori limitativi che pur essendo
conosciuti ex-ante vanno adeguatamente ponderati. La complessità del processo, la
delicatezza dell’operazione dal punto di vista finanziario nonché le difficoltà legate alla
determinazione dei tempi di attuazione costituiscono certamente degli elementi da
considerare con la giusta oculatezza. Infatti sono molti i progetti di acquisizione che
falliscono nelle fasi precedenti la discussione del prezzo.
Altrettanto problematica si presenta la gestione della “fase dell’integrazione” post-
acquisizione. Nelle operazioni di M&A i partner sono spesso portatori di culture e di
stili di gestione eterogenei, al punto da rivelarsi difficilmente compatibili o da innescare
tensioni organizzative diverse (Conca, 2005, p. 159).
Le motivazioni che muovono le operazioni di M&A sono di varia natura e spesso le
transazioni sono condotte sulla spinta di un insieme correlato di fattori propulsivi.
Secondo schemi abituali, le motivazioni si possono raggruppare in macrocategorie
tipiche a seconda che siano di ordine:
a) strategico;
b) economico;
c) finanziario;
d) fiscale;
e) speculativo.
Le motivazioni strategiche rispondono a esigenze di diversificazione e di
miglioramento del rischio complessivo di corporate quando sono effettuate a fini di
integrazione verticale e quando si pongono come elemento di difesa nei confronti della
concorrenza. Fanno perno sul differente posizionamento competitivo che
caratterizzerebbe la compagine societaria risultante da un’operazione di finanza
straordinaria. Le principali sinergie create traggono origine da:
- l’aumento della quota di mercato soprattutto se l’acquisizioni permette
l’eliminazione di un concorrente;
- l’entrata in nuovi mercati o in nuovi settori di attività;
- l’ampliamento della gamma prodotti;
- la rifocalizzazione del core business;
- l’acquisizione di un cliente o di un fornitore chiave
- l’internalizzazione di nuove conoscenze e di nuove tecnologie;
- il miglioramento della propria immagine;
- l’entrata in network di imprese altamente dinamiche e evolute sul fronte della
ricerca e dell’innovazione;
- riassetti della struttura azionaria finalizzati all’eliminazione di soci “scomodi”.
Le motivazioni economiche pongono l’accento sulla riduzione di costi che possono
conseguire dalla realizzazione delle economie di scala e di esperienza che le
concentrazioni societarie consentono di sfruttare51.
Altra possibile fonte di risparmio di costi è da attribuire allo sfruttamento delle
economie di scopo che consentono di incrementare l’efficienza produttiva delle imprese
che partecipano all’operazione di M&A sfruttando la complementarità di risorse e
competenze dei partner.
Le motivazioni finanziarie riguardano i vantaggi direttamente collegabili alle mutate
possibilità di reperimento di risorse finanziarie o di investimento delle stesse indotte da
un’operazioni di M&A. La compagine societaria risultante da un’operazione di finanza
straordinaria, in virtù delle diverse dimensioni aziendali, potrebbe contare su un rating
migliore di quello caratterizzante la società ante riassetto e di conseguenza
approvvigionarsi di risorse finanziarie a un costo del capitale sostanzialmente inferiore.
Le operazioni di finanza straordinaria sono incoraggiate dal conflitto di interessi che
caratterizza i rapporti fra gli azionisti e la classe manageriale: laddove esista liquidità in
eccesso rispetto agli investimenti richiesti dalla gestione (free cash flow) i manager
potrebbero investirla in un’operazione di M&A piuttosto che restituire le risorse al
mercato tramite dividendi o riacquisto di azioni proprie; ovviamente acquisizioni
realizzate in forza di tali spinte non andranno a generare valore per gli azionisti.
Altra classe di motivazioni è quella che pone l’accento sui benefici fiscali che
l’operazione di M&A consentirebbe di conseguire. Benefici che scaturiscono dalla
possibilità di utilizzare le perdite pregresse dell’incorporata per ridurre l’onere
tributario complessivo dell’incorporante e permettono, grazie alle mutate dimensioni
aziendali, di avere un rapporto di indebitamento (mezzi di terzi/mezzi propri)
strutturalmente più elevato che innalza, quindi, il tetto di deducibilità degli interessi
passivi dal reddito imponibile.
Le motivazioni speculative fanno riferimento invece alla possibilità di trarre dei profitti
sfruttando alcune imperfezioni nel funzionamento del mercato; la creazione di valore in
questo caso sarebbe il frutto, in fase di negoziazione e a prescindere dall’effettivo
conseguimento di benefici di tipo sinergico, della possibilità di spuntare prezzi più
convenienti di quelli che si avrebbero in presenza di informazioni complete e mercati
dei capitali efficienti.
Va ricordato, ancora, che non è detto che i benefici che si presuppone di conseguire
attraverso un’operazione di M&A in realtà vengono poi realizzati. In molti casi gli
incrementi medi di valore sono limitati e tendono ad affluire agli azionisti delle società
acquisite. Questo risultato è dovuto il più delle volte a errate analisi del trend di settore
e del posizionamento competitivo dell’azienda target, a una stima troppo ottimistica
delle sinergie realizzabili, unitamente a una selezione non accurata del potenziale
acquirente o dell’impresa target.
Pertanto, appare chiaro come un’operazione di M&A debba essere attentamente
pianificata e gestita in ogni suo aspetto con l’ausilio di soggetti specializzati in grado di
fornire assistenza alle imprese che partecipano all’operazione; l’assenza di tali soggetti
specializzati è tra i motivi di insuccesso delle operazioni di M&A.
Le motivazioni, precedentemente descritte, che spingono alla crescita presentano delle
caratteristiche speculari se osservate in relazione alle imprese target, piuttosto che alle
acquirenti, che partecipano alle operazioni, soprattutto se queste sono consensuali.
Dismissione di attività ritenute non più strategiche, scarsa redditività del capitale
investito, stati patologici, ma al contempo non particolarmente avanzati, di crisi di
impresa, ricambio generazionale possono suggerire la dismissione del complesso
aziendale qualora si ritenga che un diverso assetto proprietario o decisionale possa
consentire il proseguimento dell’attività in condizioni di efficienza economica (Capizzi,
2003, p. 334).

LE DETERMINANTI E LE DIMENSIONI DELLA CRESCITA

Introduzione

La crescita delle imprese è un tema che ha attirato l’attenzione degli studiosi di


management a partire dagli anni sessanta. L’ampia mole di studi dedicati a questo
fenomeno ha prodotto un elevato numero di accezioni del concetto di “crescita”
ponendo l’attenzione non solo sui fattori che influenzano la crescita aziendale stessa, ma
anche sull’ampliamento del termine stesso. Quest’ultimo, infatti, entra in combinazione
con altre due dimensioni: la crescita qualitativa e la crescita relazionale; così come
descritto da Grandinetti e Nassimbeni(2007).
La maggior parte delle ricerche condotte in questo ambito ha adottato un approccio
deterministico, studiando cioè la relazione causa - effetto esistente tra la crescita di
un’impresa e una serie di fattori considerati ( Dobbs e Hamilton, 2007 ). In molti di
questi studi la crescita è usata come indicatore di performance ( Davidsson, Steffens,
Fitzsimmons, 2008 ). Vi sono inoltre, fattori che, oltre ad influenzare la crescita
aziendale, sono anche determinanti per ottenere una crescita profittevole. Vediamo
quindi nel dettaglio le determinanti, i fattori che influenzano la crescita aziendale e le
sue diverse dimensioni.

Le determinanti della crescita aziendale

Prima di analizzare nel dettaglio i diversi aspetti della crescita descrivendone le diverse
dimensioni è opportuno porre enfasi sui fattori che, oltre a influenzare la crescita di
un’impresa, sono anche determinanti per ottenere una crescita profittevole.

La natura eterogenea e multidimensionale del fenomeno della crescita delle imprese


rende estremamente difficile catturare tutti gli aspetti che influenzano la crescita. Per
questo motivo è importante assumere due diverse strategie di ricerca (Delmar,
Davidsson e Gartner, 2003): focalizzare l’attenzione su singoli aspetti della crescita,
ponendo particolare attenzione a generalizzare i risultati solo nel dominio della ricerca,
oppure allargare la ricerca utilizzando metodi multidimensionali e misure composte per
comprendere diverse forme di crescita; in tal modo si potranno sviluppare modelli
integrati con l’obiettivo di proporre una sintesi complessiva del fenomeno della crescita
(Davidsson, Acthenaghen e Naldi, 2005).
Il gran numero di fattori da considerare ha incentivato alcuni lavori di review per
sintetizzare gli aspetti emersi dagli studi effettuati tramite l’approccio deterministico.
Sono state classificate in tre macro-aree (tabella 2.1) le determinanti della crescita di
un’impresa (Zhou e de Wit, 2009; Dobbs e Hamilton, 2007; Davidsson, Achtenhagen e
Naldi, 2005; Rantala, 2006):

Tabella 2.1: I fattori che influenzano la crescita

FATTORI FIRM FATTORI INDUSTRY


SPECIFIC
SPECIFIC
Determinanti individuali Determinanti organizzative
(Caratteristiche (Caratteristiche Determinanti ambientali
dell’imprenditore) dell’azienda)
Tratti della personalità Età Intensità della
competizione
Motivazione alla crescita Dimensione Dinamicità del settore
Competenze individuali
Risorse firm Munificence
Background personale
specific (finanziarie Eterogeneità
e human capital)
Dynamic capabilities e Barriere alla crescita
organizational istituzionali- finanziarie
learning Struttura
organizzativa Strategie
aziendali
 determinanti individuali: le caratteristiche e l’orientamento dell’imprenditore;
 determinanti organizzative: le caratteristiche e le risorse firm-specific di
un’azienda. Fanno parte di questa macro-area anche le strategie aziendali: le
scelte di management su come, quanto e perché crescere;
 determinanti ambientali: le caratteristiche del settore e di fattori esterni
all’organizzazione

Le determinanti individuali

La crescita di un’azienda può essere considerata come un insieme di decisioni prese da


un singolo imprenditore (Zhou e de Wit, 2009). La relazione esistente tra caratteristiche
dell’imprenditore e crescita dell’impresa si instaura per due motivi (Dobbs e Hamilton,
2007):

a. la cultura ed i comportamenti aziendali sono fortemente influenzati dal fondatore


dell’impresa;
b. il livello di competenze ed esperienza dell’imprenditore sono essenziali per la
crescita di un’impresa, in quanto la creazione e il successo di una start-up
dipenderanno principalmente dalle caratteristiche del fondatore.

Le ricerche che hanno studiato la figura dell’imprenditore ne hanno analizzato una serie
di caratteristiche: i tratti personali, la motivazione alla crescita, le competenze
individuali ed il background personale (Zhou e de Wit, 2009).

Tratti personali
Si possono identificare una serie di caratteristiche, tra le quali (Zhou e de Wit, 2009):
 need for achievement: si intende il bisogno di realizzazione dell’imprenditore ed è
stata dimostrata una relazione positiva tra questo tratto e le ambizioni di crescita ma,
contro-intuitivamente, è risultata una relazione negativa rispetto alla crescita
dell’impresa. Una spiegazione può essere che il “need for achievement” può
manifestarsi in obiettivi imprenditoriali diversi dalla crescita dimensionale, come
per esempio l’incremento della performance, la qualità o il miglioramento dei
margini.
 propensione al rischio: imprenditori meno avversi al rischio tendono a essere
maggiormente predisposti ad intraprendere traiettorie di crescita. Tuttavia non è
ancora stata dimostrata empiricamente l’esistenza di una relazione positiva tra
crescita e propensione al rischio;
 locus of control: quando l’imprenditore applica un “internal locus of control” (Zhou
e de Wit, 2009, p.8) le sue azioni influenzeranno in modo sistematico quelle dei
propri collaboratori. Nella letteratura incentrata sull’imprenditore, questo è uno dei
principali motivi per cui un business nasce e si sviluppa nel tempo;
 auto-efficacia: si intende l’abilità individuale di sviluppare autonomamente le
risorse e le competenze necessarie a completare un determinato compito (Bandura,
1997; si veda Zhou e de Wit, 2009) in modo tale da rendere maggiormente probabile
il successo dell’azione intrapresa.

La motivazione alla crescita


I tratti personali dell’imprenditore sono importanti; tuttavia non è dimostrato che da soli
portano necessariamente alla crescita di un’impresa; piuttosto, determinati tratti
personali possono portare l’imprenditore ad avere una maggiore motivazione alla
crescita (Zhou e de Wit, 2009). Questo aspetto diventa essenziale per permettere ad
un’impresa di crescere; va tenuto infatti in considerazione che gli imprenditori
gestiscono un business per varie ragioni e non solo per crescere e massimizzare i propri
profitti (Wiklund, Patzelt, Sheperd, 2009). Proprio per questo motivo Davidsson,
Achtenhagen e Naldi (2005, p.7) e Zhou e de Wit (2009, p.11) sottolineano che “Most
firms start small, live small and die small” non solo a causa di ridotte potenzialità di
crescita (Zhou e de Wit, 2009) ma anche perché i fondatori stessi hanno una modesta
aspirazione a far crescere il proprio business (Davidsson, Achtenhagen e Naldi, 2005).
La paura stessa del fondatore di dover delegare la maggior parte del proprio potere
decisionale a dei collaboratori per via della crescita aziendale limita le possibilità di
sviluppo dell’impresa stessa (Glancey, 1998).
Le competenze individuali
Per competenze individuali si possono definire la conoscenza, le skills e/o le abilità
richieste a compiere un determinato lavoro. Possono essere competenze individuali,
organizzative e specifiche come per esempio skills tecniche e industriali. E’ stato
dimostrato da Baum et al. (2001, si veda Zhou e de Wit, 2009) che possedere
competenze specifiche rispetto ai compiti da svolgere ha un impatto positivo sulla
crescita dell’impresa.

Il background personale
Esso si riferisce ad alcune caratteristiche dell’imprenditore quali in particolare
l’istruzione e l’esperienza (Dobbs e Hamilton, 2007; Zhou e de Wit, 2009). E’ stato
osservato che un elevato livello di istruzione porta ad una maggiore crescita
dell’impresa (Sapienza e Griman, 1997; Storey, 1994; per entrambi si veda Zhou e de
Wit, 2009). Nonostante questi studi, la relazione tra istruzione e crescita rimane
ambigua: l’imprenditore deve possedere anche altre caratteristiche personali per rendere
tale relazione positiva. In particolare, Wiklund e Shepherd (2003) hanno trovato che
l’istruzione e l’esperienza influenzano la crescita solo se accompagnate dalla
motivazione alla crescita.

Tra le determinanti individuali, nessuna caratteristica sembra quindi risultare dominante


nello spiegare la crescita di un’impresa (Dobbs e Hamilton, 2007). Tuttavia, l’attitudine
e la motivazione alla crescita da parte dell’imprenditore sembrano ragionevolmente
essere un punto di partenza imprescindibile affinché un’impresa intraprenda dei percorsi
di crescita (Smallbone, Leigh e North, 1995; Kirkwood, 2009, Zhou e de Wit, 2009).
Le competenze e il background personale dell’imprenditore sembrano essere invece gli
elementi decisivi per un percorso di crescita profittevole: come visto nel capitolo
precedente, l’approccio basato sulle risorse sottolinea l’importanza di un capitale umano
specializzato e competente per ottenere percorsi di crescita profittevol
Le determinanti organizzative

Le determinanti organizzative della crescita si attestano, così come le determinanti


individuali, su un’ottica firm-specific: sono le caratteristiche dell’azienda ad influenzare
la crescita futura e non i fattori esterni. Tipicamente, gli studi empirici sulla crescita
delle imprese si sono focalizzati su fattori di questo tipo (Rantala, 2006). L’ottica firm–
specific si contrappone all’ottica industry–specific che verrà analizzata
successivamente; l’analisi di fattori interni o di fattori esterni per spiegare le
performance di un’impresa è un dibattito presente da molti anni (Hawawini,
Subramanian, Verdin, 2003; McGahan, Porter, 1997) e va tenuto conto che, in una certa
misura, entrambi i fattori influenzano la performance dell’impresa.
Gli attributi dell’impresa che influenzano la crescita sono (Zhou e de Wit, 2009;
Davidsson, Achtenhagen e Naldi, 2005): età, dimensione, risorse in possesso
dell’impresa, sviluppo di dynamic capability, struttura organizzativa e strategie
aziendali.
Età e dimensione
“For decades, firm size and age have been considered to be the determinants of
firm growth” (Moreno e Casillas, 2007, p. 74).
L’età e la dimensione dell’impresa sono due caratteristiche analizzate in vari studi
empirici con un duplice obiettivo: testare la Gibrat’s law e studiare gli effetti derivanti
dall’apprendimento e dalla selezione naturale rispetto alla crescita (Rantala, 2006). La
grande mole di studi tende a non confermare le assunzioni base della Gibrat’s Law
secondo cui i tassi di crescita delle imprese non dipendono dalla loro grandezza
(Moreno e Casillas, 2007; Becchetti e Trovato, 2002; Zhou e de Wit, 2009). Diversi
autori hanno infatti dimostrato che aziende più piccole crescono più velocemente in
quanto devono raggiungere la scala minima efficiente e la dimensione sembra quindi
avere una relazione negativa con la crescita (Becchetti e Trovato, 2002; Moreno e
Casillas, 2007). E’ interessante in questo caso notare come l’importanza di raggiungere
velocemente una scala minima efficiente per imprese di piccole dimensioni può portare
le aziende a scegliere percorsi di crescita nel breve-medio periodo non profittevoli: il
raggiungimento di una scala minima efficiente garantisce la sopravvivenza dell’impresa
che potrebbe quindi decidere di crescere per sopravvivere e non per fare profitti. La
presenza di questo trade off tra profittabilità e sopravvivenza è emersa anche nel
capitolo precedente analizzando l’approccio descrittivo.
Per quanto riguarda l’età delle imprese, è stato dimostrato che aziende più giovani
hanno tassi di crescita maggiori rispetto ad aziende più vecchie (Glancey, 1998;
Markman e Gartner, 2002) e ciò avviene essenzialmente per due motivi (Moreno e
Casillas, 2007):
 secondo la teoria dell’apprendimento (Jovanovic, 1982, si veda Moreno e Casillas,
2007) le aziende giovani hanno una minore conoscenza di qual è la loro dimensione
ottimale rispetto ad aziende più vecchie e per questo motivo mostrano tassi di
crescita più variabili; le aziende più vecchie invece, avendo già appreso qual è la
dimensione che massimizza la loro efficienza, sono maggiormente statiche;
 imprese giovani sono maggiormente innovative e propense al rischio rispetto ad
aziende più vecchie; questo comportamento maggiormente proattivo unito anche ad
una maggiore flessibilità permette alle aziende giovani di cercare ed esplorare nuove
opportunità di crescita.

Le risorse in possesso dell’impresa


Le risorse finanziarie e il capitale umano sono le risorse più importanti per la crescita di
un’impresa (Wiklund, Patzelt, Sheperd, 2009; Zhou e de Wit, 2009). Chiaramente

questa affermazione prende spunto dall’approccio basato sulla RBV analizzato nel
capitolo precedente. Gli studi empirici effettuati (Cooper et al., 1994; Storey, 1994;
Rauch, Frese e Utsch, 2005; si veda Zhou e de Wit, 2009; Carpenter e Petersen, 2002)
mostrano che la possibilità di accedere alle risorse finanziarie e il possesso di capitale
umano di alta qualità hanno effetti positivi sulla crescita delle imprese. Becchetti e
Trovato (2002) studiando 5000 imprese italiane hanno trovato che, nonostante la
struttura finanziaria non sembri influenzare la crescita delle imprese con più di 100
dipendenti, la disponibilità di risorse finanziarie in imprese più piccole è un elemento
chiave per spiegare la loro crescita.
Un altro elemento importante è il livello di profittabilità dell’impresa prima di
intraprendere percorsi di crescita: imprese profittevoli hanno la possibilità di ottenere
risorse finanziarie da investire per crescere, indebitandosi in misura minore di imprese
non profittevoli (Steffens, Davidsson e Fitzsimmons, 2008).
Le dynamic capabilities
Per via dei vincoli sulle risorse, le imprese devono riconfigurare, ri-allocare e
ricombinare le loro risorse per ottenere i risultati desiderati. L’abilità dell’impresa di far
ciò è definita come dynamic capability (Teece, Pisano e Shuen, 1997). Le dynamic
capabilty sono considerate essenziali per le piccole imprese al fine di esplorare con
successo nuove opportunità (Zahra, Sapienza e Davidsson, 2006; si veda Zhou e de Wit,
2009). Esistono diverse tipologie di dynamic capabiliy: alliance capability (Anand e
Khanna, 2000), acquisition capability (Salvato, Lassini e Wiklund, 2007) ma anche in
senso più ampio organizational learning e scalability (Zhou e de Wit, 2009). Le alliance
capability e le acquisition capability riguardano le scelte strategiche dell’impresa e
saranno quindi approfondite successivamente.
L’organizational learning è descrivibile come il processo o le attività intraprese per
apprendere da parte dell’organizzazione (Zhou e de Wit, 2009): le analisi empiriche
dimostrano una significativa relazione positiva tra organizational learning e
performance dell’impresa. La scalability viene invece definita, sempre da Zhou e de Wit
(2009), come la “prontezza” da parte di un’azienda a crescere: una situazione quindi in
cui il modello di business implementato dall’azienda è pronto ad offrire potenzialità di
crescita. Per questo motivo una crescita profittevole avviene soltanto se il modello di
business adottato dall’impresa ha la giusta scalability per permettere al business di
crescere in modo profittevole.

La struttura organizzativa
Data l’importanza delle risorse umane per la crescita di un’impresa, assume rilevanza
centrale anche il modo in cui vengono distribuiti i compiti tra dipendenti ed il modo in
cui avviene il loro coordinamento (Zhou e de Wit, 2009). Le evidenze mostrano delle
relazioni significative tra tipo di struttura organizzativa implementata e crescita;
tuttavia, la dipendenza della struttura organizzativa da altri elementi quali la dimensione
e il settore rendono tale relazione più complessa, motivo per cui non si possono
effettuare delle conclusioni univoche in merito se non quella di inserire la struttura
organizzativa tra i fattori che vanno studiati quando si analizza la crescita di un’impresa
(Zhou e de Wit, 2009).
Le strategie aziendali
Un fattore particolarmente rilevante sono le strategie aziendali (tabella 3.2) e gli effetti
che le scelte strategiche hanno sulla crescita dell’impresa (Dobbs e Hamilton, 2007;
Zhou e de Wit, 2009; Rantala, 2006; Davidsson, Achtenhagen e Naldi, 2005; Wiklund,
Patzelt e Sheperd, 2009).
Questa determinante della crescita aziendale è legata non solo alle caratteristiche
organizzative, ma anche in una certa misura alle caratteristiche dell’imprenditore, in
quanto la motivazione alla crescita da parte del fondatore è uno dei fattori che influenza
in modo decisivo le scelte strategiche dell’intera organizzazione (Dobbs e Hamilton,
2007). Quando “growth is simply not [..] an objective” (Dobbs e Hamilton, 2007, p.
305), anche le strategie aziendali non saranno implementate con la finalità di far
crescere l’azienda. Smallbone, Leigh e North (1995) hanno identificato che il 70% delle
imprese (nel loro campione) con alti tassi di crescita avevano forti obiettivi di crescita
rispetto a solo il 32% delle altre imprese. Avere un chiaro obiettivo di crescita porta
quindi l’impresa a crescere maggiormente. Tra questi obiettivi, lo sviluppo del mercato
di prodotto attraverso attività di innovazione e di lancio di nuovi prodotti ha effetti
particolarmente rilevanti sulla crescita di un’organizzazione, in quanto permette di
ottenere maggiore cash flow, visibilità e di incrementare la quota di mercato, tutti
elementi fondamentali per la sopravvivenza e la crescita (Barringer e Jones, 2004; si
veda Dobbs e Hamilton, 2007).
Le strategie di crescita possono dividersi essenzialmente in due categorie: crescita per
linee interne e/o crescita per linee esterne. Questi diversi percorsi di crescita possono
influenzare in modo totalmente diverso la performance di un’impresa; nonostante ciò, il
“come” crescere è stato spesso ignorato negli studi accademici (Delmar, Davidsson e
Gartner 2003; Salvato, Lassini e Wiklund, 2007):
Implementare strategie di crescita profittevoli necessita, secondo diversi autori, di uno
sviluppo da parte dell’organizzazione di dynamic capability adatte ad affrontare la
crescita (Salvato, Lassini e Wiklund, 2007; Anand e Khanna, 2000; Zhou e de Wit,
2009; Daviddson, Steffens, Fitzsimmons, 2008). Autori come Salvato, Lassini e
Wiklund, 2007) sostengono che un’acquisizione può avere effetti positivi sulla crescita
e sulla performance di un’impresa solo quando la crescita tramite acquisizioni avviene
insieme allo sviluppo di queste determinate capability; altrimenti ci sarà il rischio di
peggiorare la profittabilità dell’impresa. La figura 3.1 indica il modo in cui queste
capability vengono acquisite e applicate per garantire una crescita profittevole.

Figura 2.1 : A process model of acquisitions capabilities development in SME.

Acquisition 1 Decision to pursue growth by


acquisitions
Acquisition 2
Acquisition... Use of organizational
Definition: memory in subsequent
 Of the objectives of the acquisitions operations
 Of the expected results of the
acquisitions
 Of acquisition and integration frames

Acquisition absorptive capacity

Creation of acquisition Systematic accumulation of Creation of structures and


knowledge organizational memory linked to managerial practices aimed to
(Learning of lessons) acquisitions correctly “recalling”
organizational memory
(Archiving of lessons learned)
(Use of lessons learned)

 Characteristics of the companies


acquired  Organizational bodies  Direct involvement of the entrepreneur
 Gap (+/-) expectation/results  Documents  Involvement of the business units
 Acquisition and integration rhythm  Valuation tools  Development of a dedicated team
 Initial negative experiences and  Organizational routines  Periodical management meetings
crisis situations  Managerial practises  Creation of business units
 Acquisition skills from outside the  Intercompany board meetings
firm (e.g. hiring managers)  Annual conventions
 Great flexibility in decision making at
the top
 Concentrated ownership

Fonte: Salvato, Lassini e Wiklund, 2007.

Le determinanti ambientali

Esistono infine una serie di vincoli esterni che possono diminuire le possibilità di
crescita di un’impresa; di conseguenza la crescita organizzativa può essere in parte
spiegata considerando queste forze esterne (Dobbs e Hamilton, 2007).
Dess e Beard (1984, si veda Zhou e de Wit, 2009, p. 11) hanno individuato che
l’ambiente si muove lungo una serie di dimensioni: il dinamismo, l’intensità
competitiva, l’eterogeneità e l’ostilità.
La dinamicità rappresenta il livello di “environmental predictability” (Zhou e de Wit,
2009, p.12) e si ritiene che esistono maggiori opportunità di crescita quando nascono
cambiamenti nella società, nella politica, nel mercato e nella tecnologia (Wiklund,
Patzelt e Shepherd, 2009).
L’intensità competitiva avviene invece quando si opera in un ambiente ostile che può
creare dei pericoli per l’organizzazione ed una conseguente riduzione delle opportunità
di crescita (Davidsson, Achtenhagen e Naldi, 2005).
L’eterogeneità indica la concentrazione o la dispersione dell’aziende nel mercato (Zhou
e de Wit, 2009); Wiklund, Patzelt e Shephed (2009) hanno sottolineato che piccole
imprese che operano in mercati di nicchia trovano maggiori opportunità di crescita in un
mercato eterogeneo rispetto ad un mercato omogeneo.
Le barriere alla crescita infine sono un ulteriore aspetto da tenere in considerazione se si
analizzano le determinanti industry-specific: queste possono essere di tipo istituzionale
(tassazione, legislazione ecc.) o di tipo finanziario (la mancanza di risorse e la difficoltà
di accesso ad esse) e favorire certi tipi di aziende rispetto ad altre; in particolare, la
piccola impresa sembra essere penalizzata da questi fattori (Zhou e de Wit, 2009).
Chiaramente le determinanti industry-specific sono spesso contrapposte a quelle firm-
specific. Esistono infatti alcuni modelli che considerano l’ambiente come l’unico fattore
determinante nello spiegare la crescita organizzativa come per esempio quello della
“population ecology” in cui la crescita è funzione della selezione data dall’ambiente
circostante (Dobbs e Hamilton, 2007; Rantala, 2006; Costa e Gubitta, 2004). Altri autori
considerano invece le determinanti ambientali come un set di fattori che, insieme ai
fattori interni, influenzano strategia organizzativa e crescita: O’Gorman (2001)
sottolinea come le determinanti industry-specific influenzano la scelta del dove
competere, mentre i fattori firm-specific influenzano la scelta del come competere.
Zhou e de Wit (2009) hanno invece dimostrato nel loro studio che i fattori ambientali
influiscono meno sulla crescita dimensionale rispetto alle determinanti individuali e
organizzative. Prendendo in considerazione i vari approcci seguiti, una realistica
conclusione appare “growth is to a considerable extent a matter of willingness and skill,
but that fundamental facilitators and obstacles in the environment cannot be
disregarded” (Daviddson, Achtenhagen e Naldi, 2005, p.8). Seguendo questa logica,
alcuni autori hanno cercato di adottare una logica integrata, sviluppando modelli per
spiegare la crescita considerando tanto i fattori interni quanto quelli esterni (Wiklund,
1998; Davidsson, 1991; si veda Davidsson, Achtenhagen e Naldi, 2005, p.12; Wiklund,
Patzelt, Shepherd, 2009). Nessuno di questi modelli tuttavia analizza l’altro tema
principale della seguente tesi: la profittabilità di un’impresa che cresce. Dopo avere
approfondito i fattori che influenzano la crescita, nel prossimo paragrafo si analizzerà
quindi il legame tra crescita e performance.

La crescita e le sue dimensioni

Come è stato introdotto in questo capitolo numerosi sono i significati attribuiti al


termine “crescita”.
È certamente condivisa però, come definizione dominante la
seguente:
“Growth is defined as a change in size over any given time period” (Dobbs e
Hamilton, 2007 p.313).
Proprio in tale contesto diventa necessario introdurre il concetto di “crescita
profittevole”, con il quale :
 si intende una crescita dimensionale in termini di dipendenti e/o fatturato che ha
come conseguenza un miglioramento della performance d’impresa;
 si scinde il concetto di profittabilità da quello di crescita, al fine di sgombrare
possibili fraintendimenti per cui nel termine stesso di crescita rientri il concetto di
profittabilità;
 si delinea chiaramente l’ambito di analisi, il quale è la comprensione di quando ed in
che modo una crescita dimensionale comporta o meno maggiori benefici per
l’azienda.

Esistono tuttavia altre possibili prospettive nel definire concetto di “crescita”: già nel
famoso libro di Penrose “Theory of the growth of the firm”(1959) la crescita è descritta
non solo come un incremento dimensionale intercorrente tra due diversi momenti, ma
anche come un processo di sviluppo nel quale una serie di passaggi interni porta alla
modifica delle caratteristiche dell’azienda. Dall’accezione di crescita come un processo,
è così nato il filone che in letteratura prende il nome di “stages of development”
(Greiner,1972; Churchill e Lewis, 1983 e molti altri); questo approccio di tipo
descrittivo considera la crescita come un fenomeno che si presenta in forma ciclica o
attraverso una serie di evoluzioni e rivoluzioni (Greiner, 1972) che accompagnano
l’intera vita di un’organizzazione. Questi modelli teorici hanno avuto particolare
successo fino alla fine degli anni ’80; negli ultimi vent’anni hanno tuttavia ricevuto

varie critiche per la diffusa consapevolezza tra gli studiosi che un fenomeno
complesso e multidimensionale qual è la crescita sia inspiegabile attraverso questi
modelli descrittivi. Più recentemente, Grandinetti e Nassimbeni (2007) hanno
ulteriormente allargato il concetto di crescita affermando come la crescita dimensionale
rappresenti solo una delle dimensioni della crescita aziendale, che entra in
combinazione con altre due dimensioni: la crescita relazionale e la crescita qualitativa.
Si parla quindi di crescita qualitativa quando si analizzano gli strumenti organizzativo –
gestionali e le capacità di innovazione di un’impresa; si parla invece di crescita
relazionale quando si fa riferimento alla rete del valore, intesa come l’insieme di
relazioni utili per il vantaggio competitivo.
In definitiva, le dimensioni della crescita sono tre:
 crescita dimensionale;
 crescita relazionale;
 crescita qualitativa.
In particolare, le dimensioni della crescita appena citate risultano interdipendenti ed è
proprio la gestione appropriata di queste interdipendenze che costituisce uno snodo
critico delle strategie di crescita delle imprese, determinando il successo, il fallimento o
l’interruzione temporanea dei percorsi intrapresi.

Crescita dimensionale e crescita relazionale

La crescita dimensionale (crescita in senso stretto) consiste nell’ampliamento dei


confini proprietari dell’impresa, per linee interne o per linee esterne come presentato nel
precedente capitolo.
La crescita relazionale può essere invece definita come ampliamento della rete del
valore dell’impresa, dove la rete del valore è l’insieme di relazioni utili per il vantaggio
competitivo che fanno capo all’impresa stessa.
Come è noto, le relazioni inter-firm compongono una tipologia estremamente articolata,
cha va dai rapporti di subfornitura alla partecipazione non di controllo) di un’impresa
nel capitale di rischio di un’altra e alle joint-venture. Tra i criteri proposti in letteratura
per classificarle, oltre alla forma giuridica, sono stati indicati: la direzione della
relazione nella rete del valore (orizzontale, verticale, laterale); lo scopo della relazione (
focalizzato in un’attività specifica più complesso); la presenza o meno di partecipazioni
azionarie ( relazioni equità e non equità); il numero di soggetti legati dalla relazione (
Faulkner 1995). Si deve notare che gli investimenti in alleanze di tipo equità
rappresentano una forma ibrida tra la crescita dimensionale e la crescita relazionale,
collocandosi al confine tra le due dimensioni della crescita.
La crescita relazionale richiama il concetto di rete del valore, che è opportuno delineare
nei suoi contorni. Facendo riferimento come organizzazione focale a un’impresa
industriale, la rete del valore include innanzitutto i fornitori di input materiali e
immateriali a monte dei clienti diretti e indiretti a valle, nella logica porteriana del
sistema verticale del valore (Porter 1985). Si aggiungono i rapporti con i partner di
affari e gli alleati, che estendono la trama della relazione di valore in direzione
orizzontale o laterale, a seconda che le imprese coinvolte appartengano o meno allo
stesso settore dell’impresa focale. D’altra parte, l’ambiente rilevante per il vantaggio
competitivo di un’impresa non è occupato solo da questi soggetti, ma corrisponde a un
più ampio e complesso sistema di attori, con i quali l’impresa può sviluppare relazioni
utili. Per esempio, l’impresa può avere una trama di relazioni con istituzioni
scientifiche, laboratori di ricerca, enti formativi e organizzazioni culturali per scambiare
informazioni e conoscenze nell’area di proprio interesse e, talvolta, per co-produrre
conoscenze.
La rete del valore di un’impresa include dunque i soggetti con cui essa entra in
relazione. Oltre alle relazioni dirette, va però richiamata l’attenzione anche sulle
relazioni indirette. Questa visione allargata emerge in tutta la sua importanza con
riferimento ai progetti aziendali di qualità totale e di just in time. Infatti, i risultati che
l’impresa può conseguire dipendono anche dallo sviluppo di supply chain e di canali
distributivi incentrati su un’elevata interazione comunicativa in tutte le interfacce tra
soggetti collegati. Le relazioni indirette, invece, estendono l’ambito dei processi di
produzione, circolazione e uso della conoscenza ai quali una determinata
organizzazione partecipa. La posizione relazionale offre quindi un duttile riferimento
per interpretare il comportamento strategico degli attori “immersi” nella rete. In
quest’ottica, le azioni strategiche sono definite come gli sforzi realizzati dalle imprese
per mantenere o modificare le loro posizioni (micro e macro) nella rete del valore.
L’agire strategico punta pertanto a riprodurre o a variare la configurazione della rete e a
influenzare gli attori (compreso il loro modo di concepire la rete), le interdipendenze e
le relazioni.

Crescita qualitativa
La terza dimensione contemplata dal modello evolutivo presentato in questa tesi attiene
alla crescita qualitativa. Per essere sostenibili e quindi qualificare un’effettiva
evoluzione competitiva dell’impresa, sia la crescita dimensionale sia quella relazionale
devono incorporare una dimensione qualitativa. L’aspetto qualitativo della crescita
dimensionale è rappresentato dal potenziamento delle competenze aziendali esistenti e/o
dallo sviluppo di nuove competenze interne, con conseguente aumento del livello di
specializzazione delle risorse. Lo sviluppo delle capabilities aziendali assorbe una quota
della crescita della dimensione e, al contempo, supporta tale processo. Per esempio, una
forte espansione delle vendite in ambito internazionale, attraverso la penetrazione di
nuovi mercati esteri e il presidio diretto di tali mercati, implica l’incremento dello stock
di risorse manageriali di marketing dell’impresa e l’introduzione di nuove figure
specializzate.
Anche la crescita relazionale incorpora una dimensione qualitativa, legata in primo
luogo alla varietà dei soggetti che partecipano alla rete del valore dell’impresa. Alcuni
di questi soggetti presentano infatti un valore potenziale superiore in termini di
vantaggio competitivo, in dipendenza della criticità strategica delle conoscenze e delle
competenze esterne a cui l’impresa accede attraverso le relazioni sviluppate con essi.
Inoltre, l’impresa deve essere capace di: ricercare attivamente e selezionare, nell’ambito
di una determinata categoria di soggetti esterni, quelli che rispondono meglio alle
esigenze dell’impresa e deve saper gestire in modo efficiente ed efficace le relazioni
con questi soggetti. In particolare, le imprese tendono a sviluppare con gli interlocutori
a elevato valore competitivo rapporti di natura cooperativa. La cooperazione inter-firm
rappresenta quindi uno strumento importante per acquisire un vantaggio competitivo
attraverso le relazioni della rete del valore. Alla luce di ciò, la dimensione qualitativa
della crescita relazionale si estende a comprendere tre aspetti: il valore competitivo dei
soggetti con cui l’impresa allaccia relazioni, l’appropriatezza dei soggetti esterni sotto il
profilo delle competenze di cui dispongono e la qualità delle relazioni. Quando la
complessità dell’ambiente competitivo cresce, la necessità di affrontarla spinge infatti
l’impresa in due direzioni: da una parte, a sviluppare le prestazioni dei circuiti cognitivi
interni (produzione, distribuzione e utilizzazione delle informazioni e delle conoscenze
all’interno dell’impresa); dall’altra, a sviluppare relazioni per il vantaggio competitivo
dell’impresa.
Sintetizzando, la dimensione qualitativa della crescita aziendale riguarda le risorse e le
competenze basate sulle risorse interne ed esterne all’impresa.
Le stesse relazioni intrattenute nella rete del valore rappresentano risorse dell’impresa
che insieme alle conoscenze capitalizzate rientrano nell’ambito della dotazione di
risorse immateriali di cui dispone l’impresa. I due tipi di risorse diventano pertanto i
mezzi che l’impresa utilizza per governare la complessità (Rullani 2004). Con
riferimento alle capabilities aziendali, esse possono venire classificate in tre principali
gruppi:
 le classiche competenze funzionali, che riguardano ambiti come la produzione, il
marketing o la gestione delle risorse umane;
 le competenze di interfaccia o relationship management capabilities;
 le competenze che hanno valenza più generale rispetto alle precedenti e che
possono essere definite trasversali.
Nel contempo di questa analisi un rilievo particolare rivestono le competenze di
interfaccia: da esse dipende la ricerca e la selezione dei soggetti esterni, nonché la
qualità delle relazioni. Tipiche competenze di interfaccia attengono al supply chain
management, con riferimento alle relazioni a monte dell’impresa, e al customer
relationship management, con riferimento alle relazioni a valle. Lo sviluppo di queste
competenze, in quanto componente della dimensione qualitativa incorporata nella
crescita dimensionale, segnala in modo emblematico l’interdipendenza tra crescita
relazionale e crescita dimensionale.
Le competenze trasversali possono venire distinte a loro volta in competenze strategiche
e in competenze relative ai processi organizzativi. Le prime sono necessarie per definire
un disegno strategico coerente e sostenibile, identificando in particolare un matching
appropriato tra le opportunità dell’ambiente competitivo e i punti di forza dell’impresa,
proteggendo nello stesso tempo i punti di debolezza dalle minacce ambientali (
Andrews 1971). In termini dinamici, le competenze strategiche includono la capacità di
ridefinire il disegno strategico per adattarsi alle variazioni dell’ambiente competitivo o
per anticiparle secondo un atteggiamento pro-attivo (Valdani 2000). Con riguardo alle
organizational capabilities e seguendo il contributo seminale di Teece, Pisano e Shuen
(1997), esse riguardano tre aspetti fondamentali:
 il coordinamento e l’integrazione tra le parti dell’organizzazione;
 l’apprendimento: che porta a migliorare le performance, anche riducendo i punti
di debolezza dell’impresa, a trasformare le minacce in opportunità e a
individuare nuove opportunità di business;
 la riconfigurazione delle risorse aziendali: che deve accompagnare i
riposizionamenti strategici in un ambiente mutevole.
Come ogni evidenza, in una prospettiva dinamica, le due sottocategorie delle
competenze trasversali, strategiche e organizzative, risultano fortemente interrelate.
Come già sottolineato in precedenza, le competenze trasversali svolgono un ruolo a
sostegno della crescita relazionale, insieme alle competenze di interfaccia. Infatti, nella
prospettiva della rete del valore e ricordando il concetto di network position, emerge
una duplice esigenza: da un lato, garantire collegamenti efficaci con i diversi attori (
selezionati in modo appropriato) che partecipano, simultaneamente o in momenti
diversi, ai processi di creazione del valore in cui l’impresa è coinvolta (competenze di
interfaccia); dall’altro disporre di una visione strategica della trama di relazioni in cui
l’impresa è immersa, al fine di individuare nuovi partner dotati di elevato valore
competitivo e di progettare riconfigurandosi della rete del valore coerenti con
l’evoluzione degli obiettivi strategici perseguiti dall’impresa. Inoltre, come sottolineato
gli stessi Teece, Pisano e Shuen (1997), le organizational capabilities possiedono una
proiezione sia interna sia esterna all’impresa.
In definitiva, la crescita relazionale e la sua dimensione qualitativa in particolare
dipendono dalla qualità delle risorse e delle competenze interne all’impresa (Golinelli
2002).
Le imprese, come si è detto, tendono a sviluppare con i soggetti caratterizzati da un più
elevato valore competitivo rapporti di natura cooperativa. Ogni impresa può così
utilizzare i collegamenti con altri soggetti come leva per acquisire un vantaggio
competitivo. Spesso, però, il raggiungimento di questo obiettivo diventa possibile, e
sostenibile nel tempo, solo attraverso un processo dinamico di interazione tra le parti in
causa, che qualifica un rapporto di tipo cooperativo tra due (o più) imprese. Ciò è vero
al sussistere di una o più tra le seguenti tre condizioni: la complessità degli obiettivi da
raggiungere; la razionalità limitata dei soggetti; la presenza di asimmetria informativa
tra i soggetti. Il primo aspetto, in particolare, spiega perché le imprese tendono a
cooperare con gli interlocutori dotati di elevato valore competitivo per le imprese stesse;
con questi soggetti vengono infatti affrontati obiettivi ambiziosi, il cui perseguimento è
intrinsecamente complesso, come tipicamente accade nei progetti di innovazione, e
richiede la messa in comune di risorse e competenze complementari.
Nel processo di interazione-cooperazione entrano in gioco diverse dimensioni critiche
che corrispondono alle seguenti variabili (processi ) relazionali:
 il commitment dei partner,
 la trasparenza informativa,
 l’adattamento reciproco,
 la fiducia reciproca.
La disamina di queste relazioni consente di chiarire il modo in cui la cooperazione,
come modalità specifica di gestione di una relazione interorganizzativa, agisce sui

fattori ( complessità, razionalità limitata, asimmetria informativa) che inibiscono


l’efficacia delle relazioni come fonte del vantaggio competitivo.
Innanzitutto, l’intero percorso che porta al raggiungimento dell’obiettivo generale
(vantaggio competitivo) e degli obiettivi specifici di una relazione interorganizzativa (
es. lo sviluppo congiunto di un’importante innovazione di prodotto) implica una serie di
attività di gestione del collegamento, a partire dai primi contatti propedeutici all’avvio
della relazione stessa.

Le interdipendenze tra le dimensioni della crescita aziendale

Come è stato affermato nel corso delle sezioni precedenti, in particolare nel parlare
della crescita qualitativa, un aspetto significativo di quanto trattato consiste nel
riconoscere l’importanza delle interdipendenze che legano le diverse dimensioni della
crescita aziendale.
Spesso, in letteratura, la crescita dimensionale e la crescita relazionale vengono
considerate come alternative decisionali che si escludono a vicenda. In effetti, questa
dicotomia “secca” tra la logica make e la logica buy viene affrontata in svariate
situazioni. Da un lato, la crescita dimensionale può portare all’attivazione di nuove
relazioni, oppure venire realizzata in parallelo con la crescita relazionale;
simmetricamente, lo sviluppo di relazioni può offrire nuove opportunità di crescita
dimensionale.
Come si è già descritto, lo sviluppo delle capabilities aziendali è parte della crescita
dimensionale e al contempo la supporta. In alcuni casi, lo sviluppo delle competenze
interne precede la crescita dimensionale e/o procede con la stessa, mentre in altre
situazioni la crescita qualitativa è costretta a “inseguire” la crescita dimensionale. In
ogni caso, deve sussistere un matching appropriato tra le due dimensioni e il rispetto di
questo vincolo non emerge in modo automatico. Lo dimostra il riscontro no infrequente
di processi di crescita dimensionale che hanno come esito la crisi strutturale
dell’impresa. Spesso, dietro questi insuccessi, vi sono appunto processi di “crescita
senza qualità”.
Si è anche detto che le capabilities aziendali, segnatamente le competenze trasversali e
le competenze di interfaccia, presidiano l’estensione della rete del valore e determinano
la dimensione qualitativa della crescita relazionale.
Infine, la dimensione qualitativa della crescita relazionale consente di ampliare il range
di risorse cognitive a cui l’impresa può accedere e ha ricadute positive sulle competenze
aziendali nella misura in cui si instaurano nella learning relationship. La stessa
dimensione (qualitativa)può anche contribuire direttamente alla crescita dimensionale,
come accade con determinati fornitori di servizi di valenza strategica.
Un’implicazione importante che emerge nel trattare delle interdipendenze tra le
dimensioni della crescita aziendale consiste nel riconoscere l’esistenza di diverse
“formule” di crescita. Semplificando, sono due ed opposte le formule che vengono
descritte e che possiamo considerare come traguardi di percorsi divergenti:
 la formula S (scala) è il risultato di un’elevata crescita entro i confini proprietari
e di una limitata crescita relazionale;
 la formula R (rete) è invece il risultato di un’elevata estensione della rete del
valore e di una limitata crescita dimensionale.
Se queste formule sono di successo, entrambi i percorsi saranno stati sostenuti da una
crescita qualitativa la cui composizione risulta specifica di ciascuna delle due formule.

Figura 2.2 : Due percorsi di crescita alternativi

Formula R
Crescita reticolare
Relazioni

Formula S
Crescita proprietaria

Dimensione

Fonte: Grandinetti e Nassimbeni, 2007. Le dimensioni della crescita aziendale

Continuità e discontinuità nei percorsi di crescita aziendale

Nei precedenti paragrafi si è dato enfasi al fatto che la crescita dimensionale dev’essere
supportata da un’adeguata crescita qualitativa relativa alle capabilities aziendali.
Per cogliere la reale portata del problema è opportuno concentrare innanzitutto
l’attenzione sulle discontinuità che, con una certa frequenza, caratterizzano i percorsi di
crescita delle imprese.
Osservando il profilo temporale della crescita dimensionale di singole imprese, misurata
in termini di dipendenti o di valore aggiunto, è possibile imbattersi in una o più fasi di
discontinuità dimensionale, ossia in periodi in cui la variazione della scala produttiva
risulta significativamente superiore rispetto a quanto si osserva nelle altre sezioni del
profilo.
Queste discontinuità della dimensione spesso si accompagnano a discontinuità
dell’organizzazione. Ciò accade quando la differenza tra il grado di complessità
dell’organizzazione di “arrivo” rispetto a quella di “partenza” risulta particolarmente
alta e quindi, la crescita dimensionale incorpora un’intensa crescita qualitativa.
Un recente studio di Confindustria (2005), basato su fonti statistiche e su un ampio
numero di casi aziendali, porta a riconoscere che nelle situazioni di discontinuità
dimensionale-organizzativa si viene a determinare uno shock organizzativo. Infatti, il
tempo in cui si realizza la crescita dimensionale è in genere inferiore al tempo di
adattamento dell’organizzazione alla nuova dimensione, necessario per pervenire a una
soluzione efficiente. Questa sfasatura, che possiamo qualificare come disaccoppiamento
tra crescita dimensionale e crescita qualitativa, determina uno squilibrio organizzativo.
La crescita è chiaramente associata all’incremento dei costi di gestione
dell’organizzazione. Inoltre, la necessità d’integrare in un modello efficiente ed efficace
realtà aziendali eterogenee per diversi aspetti (produttivo, organizzativo, culturale,
ambientale) richiede un tempo più o meno lungo, comunque superiore a quello richiesto
per effettuare gli investimenti. Si tratta, con ogni evidenza, di un periodo caratterizzato
da un’elevata criticità, durante il quale l’impresa è costretta ad affrontare un vero e
proprio shock organizzativo (Traù 1999).
Non sempre però una crescita significativa della dimensione determina uno squilibrio
organizzativo. Infatti, vi sono casi in cui lo sviluppo delle capabilities aziendali precede
una fase di crescita dimensionale, anche di proporzioni rilevanti. Questa situazione, è
contemplata nel modello di crescita a stadi di Greiner. Depurato dalla sua componente
deterministica, il modello illustra in modo efficace la situazione in cui è la crescita
qualitativa a innescare la crescita dimensionale, e non viceversa. Lo schema proposto da
Greiner si distingue per l’introduzione del concetto di crisi. In ogni stadio la crescita è
sostenuta da un determinato modello in termini di logica manageriale e di struttura
organizzativa; si giunge al punto, però, in cui lo sviluppo invalida il modello
consolidato, innescando una crisi. Nel suo sviluppo naturale l’organizzazione attraversa
periodi di invalidità dovuti ai mutamenti all’interno dell’azienda stessa, che cresce e
quindi cambia. Secondo Greiner esiste dunque, uno strettissimo legame tra crescita e
crisi, ma l’approccio da egli usato si distingue anche per un altro aspetto, che è poi
quello più rilevante nel contesto dell’analisi: si tratta del riconoscimento che ogni
transizione da una fase di crescita dimensionale all’altra implica l’acquisizione di nuove
competenze manageriali, ossia una crescita di tipo qualitativo dell’impresa.

Classificazione del rapporto tra crescita dimensionale e crescita qualitativa

Finora si è trattato solo delle fasi di discontinuità nei percorsi di sviluppo delle imprese,
precisamente di una discontinuità dimensionale seguita da una discontinuità sotto il
profilo qualitativo e della situazione inversa. Ora si considerano anche le fasi di crescita
che si caratterizzano in modo diverso.
La figura 2.3 propone, al riguardo, una classificazione del rapporto tra crescita
dimensionale e crescita qualitativa. Lo spazio cartesiano registra variazioni del valore
aggiunto, indicatore della crescita dimensionale, e variazioni dello shock di competenze
( crescita qualitativa) nel periodo t 0 – t1 ed eventualmente nell’intervallo temporale
successivo. Le semirette CQ* e CD* indicano rispettivamente la crescita qualitativa
necessaria a supportare una determinata crescita dimensionale, e la crescita
dimensionale attesa da una determinato investimento in capabilities aziendali.
Figura 2.3 : Il rapporto tra crescita dimensionale e crescita qualitativa

CQ CD* CQ

Crescita
Crescita replicativa
gradualistica
T1
CQ*
T1
CQ*
T0
T0 CD CD

CD*
CQ
CQ T1
T2 T2
CQ*
Shock La crescita qualitativa
organizzativo prepara la crescita
e successivo dimensionale
riallineamento
T1

T0 CD T0 CD

CQ*= crescita qualitativa necessaria CD* = crescita dimensionale attesa

Fonte: Grandinetti e Nassimbeni, 2007. Le dimensioni della crescita aziendale

Il grafico in alto a sinistra presenta in realtà due situazioni. L’impresa realizza un


piccolo incremento della dimensione, per esempio l’ampliamento di un reparto
produttivo, che comporta un adattamento organizzativo nullo o molto modesto. In
alternativa, l’impresa effettua un piccolo investimento in capabilities, a supporto di una
certa crescita dimensionale. In entrambi i casi il fattore casuale e il suo effetto sono
contenuti all’interno dell’intervallo di tempo considerato. Le situazioni descritte
possono anche costellare in sequenza il ciclo di vita delle imprese, giustificando i tratti
di crescita gradualistica. Il secondo grafico rappresenta, invece, il caso di un incremento
significativo della scala, dovuto per esempio alla creazione di un nuovo stabilimento di
produzione. Si tratta tuttavia di un’estensione omogenea della capacità produttiva
esistente che non pone problematiche inedite sotto il profilo manageriale e
organizzativo. Come nel caso precedente, l’adattamento marginale si risolve
nell’intervallo t0 – t1, si può allora parlare di crescita replicativa.
Il terzo grafico descrive la situazione nella quale la crescita dimensionale realizzata nel
primo periodo è consistente e le sue caratteristiche specifiche impongono una crescita
qualitativa altrettanto significativa. L’impresa può anche avere potenziato uno shock
delle risorse umane qualificate reclutando nuovi manager, ma il tempo di adattamento
dell’organizzazione supera comunque t1. si verifica quindi uno shock organizzativo, che
può essere superato solo in t1 – t2.
Infine l’ultimo grafico schematizza le situazioni in cui nel periodo t0 – t1 viene
conseguita una crescita qualitativa rilevante, in cui la dimensione organizzativa spesso
affianca una discontinuità strategica. La crescita dimensionale si realizza in larga misura
nell’intervallo di tempo successivo e la distanza rispetto alla semiretta CD* segnala
l’efficacia dell’investimento in capabilities rispetto alle aspettative di crescita.

Considerazioni finali

In questo capitolo si è focalizzata l’attenzione sulle diverse dimensioni della crescita


aziendale: dimensionale, relazionale e qualitativa. Sono stati, inoltre, descritti nel
dettaglio i diversi e possibili fattori determinanti della crescita aziendale, per poi trattare
delle interdipendenze tra le dimensioni della crescita, nonché delle loro principali
caratteristiche.
Particolarmente interessante è stata l’attenzione posta sulle relazioni che intercorrono
tra la crescita dimensionale e quella qualitativa descrivendone anche le eventuali
discontinuità e shock che vi possono nascere.
Il rapporto tra la crescita dimensionale e la crescita qualitativa è particolarmente
importante se pensiamo all’ambiente in cui opera un’azienda oggigiorno.
L’internazionalizzazione e le tecnologie digitali continueranno a rimodellare sempre più
l’ambiente economico e già costituiscono la principale fonte di opportunità strategiche.
La tendenza all’internazionalizzazione e all’interazione appare inarrestabile e di recente
sta coinvolgendo anche la crescita dimensionale e relazionale (e quindi qualitativa). Le
tre dimensioni della crescita presentano infatti, una forte proiezione internazionale,
considerando di fatto la globalizzazione come la nuova forma assunta dal processo
competitivo e assumendo il punto di vista dell’impresa, adottare un orizzonte strategico
globale significa proiettare i confini proprietari e il sistema delle relazioni in ambito
internazionale.

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